Il Due Giugno, la festa
della Repubblica
Oh si, il tempo! Il Tempo è il presente, ovvero quel breve istante che
separa il passato dal futuro. Ma se il passato non è più, e il futuro non
è ancora, lui, il Tempo, in quanto separazione tra due entità che non
esistono, come fa esistere? Lo stesso si potrebbe dire del ricordo del
nostro passato prossimo che non esiste, ma solo il presente del passato,
che come scrive Sant'Agostino nelle sue Confessioni, si chiama" memoria".
Noi che oggi facciamo parte integrante della Terza età, camminiamo su di
un tappeto di foglie morte, dove è sepolta la storia e gli avvertimenti
tragici e meno tragici del nostro Paese. Ogni anno, iniziando dal Due
giugno 1947, nella capitale e in tutte le grandi città del nostro Paese,
si festeggia la cerimonia dell'anniversario della Repubblica. Il ricordo
di questa cerimonia solenne, mi porta indietro nel tempo e mi fa rivivere
gli anni più belli della mia giovinezza. In quel tempo, ahimè molto
lontano, frequentavo la Scuola allievi carabinieri nella splendida città
di Bari, baciata da quel mare azzurro e meraviglioso. Qualche giorno
primo, alla conclusione del corso, nell'ampia Piazza d'armi delle
Casermette "Porcelli", il Primo Battaglione allievi carabinieri al
completo, al comando del Maggiore Domenico Fiaschetti, prestammo
giuramento alla giovane Repubblica Italiana, con allora capo provvisorio
dello Stato il presidente Enrico De Nicola. Il Due giugno di quell'anno,
nella bellissima Piazza Italia di Bari, il battaglione mobile e quello
degli allievi carabinieri al completo, unitamente alle ricostituite Forze
Armate, risorte, come l'aura fenice, dopo il grande conflitto mondiale,
partecipammo alla grande sfilata sul lungomare Nazzario Sauro, in mezzo ad
una folla festante di cittadini e autorità, per la ricorrenza della festa
della Repubblica.
Molti anni più tardi, è precisamente nel 1967, allora sottufficiale
istruttore presso il II Btg di stanza nella grande e meravigliosa Genova,
che è veramente una città singolare. Con le prestigiose località lungo la
costa che contrastavano, infatti, con le strette vie della città vecchia,
ricordo che il reparto corazzato e blindato, preceduti dai nuclei
motociclisti, partì dal forte S. Giuliano, per ammassarsi nella grande e
meravigliosa Piazza De Ferrarsi, per poi sfilare lungo la centralissima ed
elegante Via XX Settembre, ove nei giardini di Piazza Brignole era stato
eretto il palco d'one con le Autorità civili e militari della città. Quel
giorno, ebbi l'onore di partecipare alla grande sfilata. Le strade e le
piazze, oltre ad essere imbandierate a festa, dalla torretta del carro
armato del quale ero il capo equipaggio, oltre al gran pavese, ebbi modo
di osservare la grande folla dei cittadini genovesi applaudente al nostro
passaggio. Quello è stato un tripudio di colori, di gioia e di esultanza.
Gli applausi della folla erano tutti rivolti alle formazioni militari che
si susseguivano interrottamente lungo il percorso. Ricordo, che prima di
giungere di fronte al palco d'onore, in mezzo a quella folla omogenea, ho
intravisto una scolaresca con il grembiule bianco a sventolare la
bandierina italiana. In mezzo a quel gruppo di scolari, ho identificato la
mia piccola "principessa" Tiziana, che avendomi conosciuto mi indicava
alle sue compagne. La sua insegnante, che armata da una macchina
fotografica, mi ha immortalato sulla pellicola. Quelli sono ricordi che
difficilmente si possono dimenticare. Essi, rimarranno indelebili dentro
di noi. Nella mia lunga carriera militare nell'Arma Benemerita si può dire
che ogni anno ho assistito a questa meravigliosa ricorrenza, ma non da
partecipante nei plotoni di formazione ma da semplice tutore dell'ordine
pubblico. La grande finestra che è la televisione, ogni anno ci ripropone
la memorabile e scenografica sfilata del due giugno, con la sfilata nei
Fori Imperiali della città di Roma. Quella dell'anno scorso, voluta dal
nostro presidente emerito Arzeglio Ciampi, è stata la sfilata più bella
che abbiamo mai visto. In quella rassegna militare, abbiamo visto sfilare
orgogliosamente il meglio delle nostre Forze Armate, che sono l'orgoglio
del nostro Paese, con i mezzi più moderni e della tecnologia più avanzata
che poteva offrire. Uomini di terra, dell'aria e del mare, accomunati in
un solo e nobile sentimento, per il bene e al servizio della Patria. E'
stata, oltre che una festa, un'apoteosi di luci e di colori, uno
spettacolo grandioso e trionfale.
PARATA IN VERSIONE ECONOMICA
Quest'anno, la festa del due giugno si è svolta sotto un cielo grigio e
accompagnato da polemiche antimilitariste, si è svolta nella città eterna
di Roma e come è successo gli altri anni, la sfilata si è svolta nei Fori
Imperiali. Una tradizione che quest'anno è andata in scena una versione
"economica" e che si è caricata di ulteriori significati, con la prima
uscita pubblica del neo capo dello Stato e del governo, quasi, al
completo: il ministro dell'Ambiente, Alfonso Pecoraio Scanio, ha preferito
intervenire al congresso nazionale di Federparchi che si è svolto a
Trecastagni, in provincia di Catania: " Il due giugno-ha detto il
neoministro - è la festa della Repubblica, formata dalle forze armate, ma
anche dal popolo della pace e da quello dei parchi".
Abbiamo seguito alla tv la cronaca della mattinata che è iniziata con
l'arrivo del presidente della Repubblica in Piazza Venezia ed è stato
accolto dal premier Romano Prodi, dai presidenti del Senato e della
Camera, Marini e Bertinotti e dal ministro della Difesa Artuno Parisi, per
deporre una corona dall'alloro al milite ignoto. Poco dopo le 10 ha avuto
inizio un'edizione ridotta rispetto al passato: i tagli al bilancio della
Difesa hanno suggerito una manifestazione più snella.
Davanti alle massime cariche dello Stato e agli esponenti
dell'opposizione, sono sfilati 7.006 militari ( 1.700 in meno rispetto
l'anno passato) e 421 civili ( erano stati 533), mezzi ridotti al minimo
indispensabile ( quelli speciali sono 40 in meno) e niente parata aerea,
solo un passaggio delle Frecce Tricolori. Inoltre sono state impiegati 186
bandiere, 234 cavalli, 91 moto e 9 aerei.
" I militari di oggi confermano di possedere quelle doti ed ideali di
coloro che si sono prodigati per assicurare la libertà e la dignità umana,
principi che sono fondanti dalla nostra Costituzione", ha detto il
presidente Giorgio Napoletano, nel suo messaggio inviato al capo di Stato
Maggiore della Difesa, Giampaolo Di Paola, " ne sono dimostrazione -
aggiunge ancora il nostro presidente Napoletano - i nostri militari caduti
recentemente a Nassirya e a Kabul, ai quali in questo momento va il nostro
pensiero".
Tra i primi a sfilare davanti al palco d'onore allestito per la
manifestazione, quest'anno aperta anche ai volontari della Protezione
civile, i militari della Brigata Sassari che hanno intonato il loro ormai
famoso " inno" reso tristemente celebre, durante i funerali per i caduti
di Nassirya. A sfilare, quindi, le diverse " specialità" di esercito,
marina, aviazione e dei carabinieri, oltre ai militari della guardia di
finanza, della polizia di Stato, della forestale e dei vigili del fuoco.
Proprio i pompieri avevano srotolato un enorme tricolore, dalla lunghezza
di circa 430 metri, sul vicino Colosseo. Un'immagine che ha fatto da
sfondo a tutta la manifestazione che sé chiusa il tradizionale sorvolo
delle Frecce tricolori che hanno così, reso onore al capo dello Stato.
Quest'anno, però, si è avuta anche una larga partecipazione di
rappresentanze di eserciti " amici" del nostro paese, come quelli della
Nato. Tra i più apprezzato il piccolo contingente dell'esercito Greco
nella sua divisa storica con il gonnellino bianco con ben 50 perfette
pieghe.
Il presidente della Camera, Fausto Pertinotti, ha spiegato la sua presenza
sul palco d'onore della parata al fianco del presidente della Repubblica
Giorgio Napoletano, indicando la spilla con i colori della pace che porta
sul bavero. " Sono qui come rappresentante delle istituzioni. Se fosse per
me, vestirei questa parata con i colori della pace". Come si può questo? "
In tempi di pace, si può fare senza esibire le armi".
Le Forze armate non celebrano se stesse, celebrano la Repubblica", ha
sottolineato il ministro della Difesa, Artuto Parisi, mentre il premier
Romano Prodi ha ricordato che
oggi si celebrano due ricorrenze: " Sessant'anni della Repubblica e
sessant'anni dal voto alle donne. Entrambi questi ricordi devono essere
importantissimi per noi oggi" Leggendo la cronaca giornalistica sui
maggiori e prestigiosi quotidiani, come la Repubblica, il Corriere della
sera e la Stampa di Torino, abbiamo appreso che durante la parata c'è
stato un blitz di alcuni attivisti di Greenpeace che aprendo uno
striscione con la scritta " Via le armi nucleari dall'Italia", hanno
voluto lanciare un messaggio a favore del disarmo atomico.
Prima di lasciare il palco delle autorità, il neo presidente Giorgio
Napoletano è andato a stringere la mano a tutte le autorità presenti sul
palco in prima fila, fino a Silvio Berlusconi, seduto in fondo fra il
segretario Udc Lorenzo Cesa e il senatore a vita Emilio Colombo.
Anche l'ex premier Silvio Berlusconi, ha avuto il suo bagno di folla.
Leggiamo in un articolo, che al termine della lunga "controfilata" tra la
folla per Silvio Berlusconi, l'ex presidente del Consiglio, dopo aver
lasciato il palco delle autorità, ha percorso a piedi tutta via dei Fori
Imperiali fino a via del Plebiscito, la sua residenza romana. Il Cavaliere
ha costretto gli uomini della sicurezza ad un super lavoro, tanto che
verso la fine di via dei Fori si sono dovuti aggiungere alla scorta due
lunghi cordoni di poliziotti e finanzieri che hanno creato una barriera
mobile per tenere a distanza la gente. Berlusconi ha stretto decine e
decine di mani, ha letteralmente sfilato sotto le tribune del pubblico e
non si è risparmiato ringraziamenti e battute di scherzose, mentre in
tanti urlavano " Silvio non mollare" e tentavano di richiamare la sua
attenzione per fargli una foto con vidiotelefonini e macchine
fotografiche. In tanti hanno accompagnato Berlusconi fino a sotto casa
sua, dove un gruppo di sostenitori ha intonato il coro "chi non salta
comunista è". Il leader del centrodestra non si è sottratto
all'invito, ha alzato le braccia e si è messo a saltare al ritmo del
coro"..
" La festa per i sessant'anni della Repubblica si é chiusa tra le
polemiche come del resto si era aperta la parata delle Forze Armate. Come
si prevedeva, centrodestra contro centrosinistra per le sue divisioni e i
suoi distinguo sulla parata. E soprattutto perché una parte della
maggioranza di governo, in particolare ha preso parte alla
contromanifestazione dei pacifisti. A chiudere la ridda delle
contrapposizioni, arriva, solenne, " il ringraziamento" che il presidente
della Repubblica Giorgio Napoletano ha fatto pervenire al ministro della
Difesa Arturo Parisi. " I reparti della Forze Armate e dei Corpi armati
dello Stato, che prestano, con alto senso del dovere, professionalità e
spirito di sacrificio la loro preziosa opera per la sicurezza del Paese e
del mondo, hanno ben sviluppato il tema: La Repubblica e le sue Forze
Armate, scelto dal Ministero da lei presieduto, destando l'ammirazione da
parte dei numerosi spettatori che hanno voluto essere presenti a questo
significativo e solenne evento. Il coinvolgimento emotivo dei cittadini
presenti - sottolinea il Capo dello Stato - che si sono stretti in un
abbraccio simbolico a tutti i partecipanti alla Parata militare, dimostra
l'affetto e la fiducia che il popolo italiano ripone nei loro riguardi".
Abbiamo incominciato questa nostra lunga cavalcata nel tempo e nello
spazio, col dire che non esiste il passato, ma solo il presente del
passato che in fin dei conti si chiama " memoria". Non esiste il futuro,
ma solo il presente del futuro che poi si chiama " speranza", la speranza
di un domani migliore. L'unico ad avere qualche probabilità di esistere
potrebbe essere il presente o, per meglio dire, il presente del presente (
che poi in ultima analisi, sarebbe "intuizione"). Rendersi conto è già
qualcosa.
L'isola di Lampedusa e le sue bellezze.
Un'antica leggenda mitologica ci racconta che Nettuno, il Dio del mare,
identificato con il greco Posidone. Originariamente dio delle acque dolci
vivificanti, divenne dio del mare dopo che fu assimilato a Posidone, di
cui assunse la genealogia, le vicende mitiche e le funzioni, come quella
di protettore dei pescatori e dei battellieri. In siffatta assimilazione
accolse pure l'epiteto di Hippios, che lo consacrava anche padrone dei
cavalieri, ma soprattutto dei cavalli marini. Un bel giorno, navigando
sulle coste della Sicilia in direzione della Tunisia, in quel mare
azzurro, profondo e tempestoso, fece come Eolo, il Dio del vento, che
sparse una manciata di pietre preziose in quel mare smeraldino, facendo
nascere le isole Eolie. Con le pietre preziose sparse da Nettuno, la
leggenda vuole, che sono nate appunto tre bellissime perle nel cuore del
Mediterraneo chiamate isole Pelagie.
Le isole Pelagie, sono un gruppo di isole situate a sud della Sicilia,
verso la costa tunisina, comprendete Lampedusa, Linosa e Lampione, che
fanno parte della provincia di Agrigento. Linosa è di origine vulcanica,
mentre Lampedusa e Lampione emergono dalla piattaforma continentale
africana ( calcari, marne) L'isola più estesa è Lampedusa, mentre
l'isolotto di Lampione è disabitata, dove vivono tranquillamente conigli e
capre selvatiche.
Questo meraviglioso gruppo di isole ed isolette, sono le stesse come le
vidi Ulisse. Si, perché questi sono i luoghi dell'Odissea, poema epico,
attribuito ad Omero, che canta le avventure di Ulisse nel viaggio di
ritorno da Troia ad Itaca e la vendetta che egli compie contro i Proci.
Apparentemente, ogni isola che sorge nel Mediterraneo, è una scheggia
d'ocra che si alza rassicurante sul mare di turchese e di blu zaffiro. Ai
fianchi di questi piccoli giganti, che altro non sono, che dei
meravigliosi faraglioni che si elevano da questo meraviglioso e splendido
mare. Ancora non abbiamo avuto il piacere di visitare quest'angolo
sperduto e fantastico, che sorge ai confini del nostro meraviglioso Paese,
ma un giorno, speriamo non molto lontano, pensiamo di visitare e di
ammirare la loro meravigliosa bellezza. Per il momento ci dobbiamo
accontentare dalle reminiscenze scolastiche che ci richiamano alla mente
cose e luoghi a suo tempo studiate o apprese, dalle quali, però ci siamo
quasi completamente dimenticati, ma la cronica giornaliera dei continui
sbarca degli extra comunitari, provenienti dai porti libici, ci fanno
rammentare che l'isola di Lampedusa è la principale isola della Pelagie,
la più lontana dalla Sicilia, da cui dista 205 chilometri ed è formata
prevalentemente da calcari e marne terziarie. Le sue coste scendono quasi
ovunque a picco sul mare. Scarsa è la vegetazione naturale e modesta anche
l'agricoltura. Sulla costa meridionale si trova il porto di Lampedusa.
Attiva la pesca di sardine, sgombre e acciughe, che da luogo a
un'industria del pesce in scatola e di spugne. Con Linosa, l'isola
costituisce il comune di Lampedusa e Linosa. Nell'isola si trovano
costruzioni megalitiche. La storia ci racconta, che disabitata da data
imprecisabile, fu annessa e colonizzata dai Borboni di Napoli nel XIX
secolo. Durante la seconda guerra mondiale, fortificata e dotata di un
piccolo aeroporto, servì come base appoggio per Mas. Durante le operazioni
per lo sbarco in Sicilia, isola, presidiata da 4.400 uomini al comando del
capitano di vascello Bernardini, fu sottoposta, dal 5 giugno 1943, a
bombardamenti aerei e poi navali, che misero fuori uso gran partì delle
opere di difesa. Dopo la caduta di Pantelleria, Lampedusa si arrese agli
Alleati nel pomeriggio del 12 giugno.
Lampedusa, affascinante e suggestiva, è un pezzo d'Africa al centro del
Mediterraneo con coste frastagliate e suggestive calette. Attaccata alla
piattaforma Africana emerge dalle acque al 35° parallelo, posizione
geografica particolarmente privilegiata per il clima e per i fondali
circostanti ricchi di fauna marina molto variegata di specie. Nelle acque
circostanti Lampedusa, grandi aree con fondali bassi formano i famosi
banchi, ideali per la riproduzione del pesce, tanto da essere considerati
i vivai naturali del Mediterraneo.
La costa sud/ovest dell'isola è caratterizzata da molte insenature e baie,
in particolare queste ultime, hanno un fondale di sabbia bianca finissima
che esalta la limpidezza dell'acqua facendole assumere una varietà di
colori con incredibili sfumature, dando alle baie un aspetto invitante e
suggestivo. Tra le baie quella dei Conigli è senz'altro la più bella, non
solo di Lampedusa ma del Mediterraneo. In questa Baia le Tartarughe
Caretta depongono le uova dai tempi dei tempi, dando vita ad un evento
straordinario che si ripete da millenni con regolare puntualità. Da
qualche anno è diventata riserva fruibile per far sì che sia rispettato
l'habitat
Il personale della Lega Ambiente, che ha la gestione della riserva, oltre
a salvaguardare per mantenere integrale nella sua naturale bellezza questa
parte stupenda dall'isola, individua i punti dove le tartarughe hanno
depositato le uova e li protegge con delle cupolette in rete metallica.
L'accesso alla baia nelle ore diurne è praticamente libero nel numero ma
con delle regole: divieto di accesso con macchine, scooters e barche, sia
per mare che per terra, vietandone la fruizione nelle ore notturne, questo
per raggiungere un giusto equilibrio tra l'afflusso di persone nella baia
e la continuità naturale di questo evento. Può succedere di assistere alla
schiusa delle uova di tartaruga oppure alla liberazione di tartarughe
recuperate in mare con ferite di vario genere e curate dal personale
volontario del WWF.
In quelle bianche e assolate calette, non nascono soltanto le tartarughe
"Carretta", ma anche e soprattutto nuovi amori fra i giovani provenienti
da ogni parte del mondo e dell'Europa. Quelli sono luoghi, che per la loro
storia e per la loro natura oltre che per la loro meravigliosa bellezza,
siti in mezzo a quel mare azzurro e profondo del Mediterraneo, fra cielo e
mare, sono i luoghi del silenzio, dove regna la tranquillità e la pace. I
numerosi turisti che trascorrono le loro vacanze estive in quei luoghi
sperduti e lontani dai rumori e dal caos delle grandi città e della vita
moderna, in quel paesaggio incantato, in quel paesaggio delle sirene e
delle fate, non si accorgono neppure che a qualche chilometro dalla loro
caletta, del loro albergo o villaggio marinaro, giorno dopo giorno
centinaia di disperati sbarcato con la speranza nel cuore di trovare nel
nostro Paese una vita migliore. Forse ne vengono a conoscenza dalle
notizie dei telegiornali o dalla scarna cronaca giornalistica.
Oggi per fortuna a Pantelleria non c'è più la guerra, ma è come se ci
fosse, perché giorno e notte, sono impiegati centinaia di uomini delle
forze dell'Ordine, della Marina militare e della Protezione civile, per
pattugliare le coste, per soccorrere e assistere gli sventurati del mare,
che giungono su dei battelli- carretta in cerca di una vita migliore. Gli
sbarchi continuano senza sosta, sia con il bel tempo che con il mare in
tempesta e molte volte la loro avventura si conclude anche tragicamente.
Quelle scene di miseria e disperazione, ci sono riproposte ogni giorno
dalla Tv e dai quotidiani. Sembra che fino ad oggi oltre 5000 persone sono
sbarcati nella piccola isola in mezzo al Mediterraneo. Vedendo quelle
scene tristi dei disperati del mare, ci ritornano in mente, quando gli
albanesi eravamo noi. Si vedono sbarcare dai fragili gommoni e da quelle
imbarcazioni fatiscenti, donne in stato interessante, bambini piccolissimi
e gente di ogni nazionalità, dai magrebini egli asiatici, ai somali e
persino degli indiani, ma in quest'esodo, per lo meno negli sbarchi di
Pantelleria, non abbiamo mai visto dei cinesi, eppure il nostro Paese ne é
pieno di cinesi dagli occhi a mandorla. La prima volta che ne ho visto uno
sono stati malti anni fa. In quel tempo, prestavo servizio nell'Arma
Benemerita ed ero di stanza nella grande città di Genova, dove sorse in
passato uno dei porti più importanti del Mediterraneo. Di tanto in tanto,
sulla zona del porto e nei carruggi nella famosa via " Pré": una via molto
caratteristica, perché sita nei quartieri bassi della città e per le sue
vicinanze del porto é frequentata generalmente da prostitute, ladre e
trafficanti di droga, ma abitata da persone oneste e laboriose nel cuore
della vecchia Genova. In quei piccoli mercatini, spesso, come mosche
bianche, si incontrava qualche ambulante cinese che vendeva le sue
cravatte molto colorate e con il proprio caratteristico idioma ti invitava
a comprarle, dicendo: "Signole, compla le mie clavatte" e correva dietro
al passante fino a, quando le comperava davvero. Nel mercato settimanale
che si svolge qui a Campitello ( Mantova), la domenica mattina,
sicuramente il 30 per cento degli ambulanti sono cinesi, bucano fuori di
ogni parte e non si sa da dove arrivano. Sappiamo che arrivano in massa
come turisti nei Paesi confinanti al nostro e poi, clandestinamente, sulle
stive di traghetti, caricati come animali sui tir, autovetture o
attraverso i passi alpini raggiungono il nostro Paese. Una volta raggiunta
l'Italia fanno perdere le loro tracce.
Nella fiction televisiva che ha trasmesso Rai uno, con il titolo" La
moglie cinese", ci ha fatto capire come la mafia organizza il loro
espatrio dalla Cina e l'inserimento nei paesi dell'Europa compresa
l'Italia e una volta entrati, spariscono nei bassi fondi delle grandi
città, segregati in locali mal sani e costretti a lavorare per una ciotola
di riso notte e giorno, per risarcire i trafficanti senza scrupoli che li
hanno fatti espatriare, ma la fiction non è altro che una finzione
cinematografica, mentre la realtà è un'altra cosa. A volte però, gli
sceneggiatori dei film, attingono a fatti realmente accaduti nel corso
della vita di tutti i giorni e quindi c'è sempre un briciolo di verità nei
loro racconti cinematografici. Lasciamo la fiction e ritorniamo alla vita
di tutti i giorni degli emigranti che incominciano ad essere un pò troppi.
Tra emigranti, badanti e prostitute provenienti dai Paesi dell'Est, le
nostre città, si potrebbe affermare che sono sature. In tutti i piccoli
paesi e paesini della Lombardia, si nota moltissimo la loro presenza. Qui
da noi, nel nostro piccolo borgo padano di Campitello, da diversi anni
vivono e lavorano molte famiglie d'immigrati marocchini, che non hanno mai
dato adito a rimarchi di sorta. Ci sono altre famiglie provenienti
dall'India, che hanno trovato lavoro nell'agricoltura e nell'allevamento
del bestiame, ma non ce nessuna famiglia di cinesi. Li vediamo soltanto
nei mercati settimanali e nelle grandi città come Milano, Torino, Genova e
anche Mantova. Sono tutti dei fantasmi, come pure i loro morti. Non si è
mai sentito che in questa o quella città, si è svolto neppure un funerale
di un cinese. Che fine fanno i loro morti? Anche la stampa si è posta
questa domanda, ma non ha saputo dare nessuna risposta. Quello che
sappiamo è che sono bravissimi nel copiare ogni cosa, dalle macchine agli
orologi, all'abbigliamento in generale.
Parlando degli immigrati, Sergio Todeschini, in una lettera al Direttore
della " Voce di Mantova", ha scritto questa simpatica lettera: "Se le
autorità continuano ad accogliere i pellegrini, ce li troviamo sotto il
letto Sono quasi le due e avverto un fitto, continuo ticchettio simile a
quello prodotto dalla pioggerellina di marzio che batte discreta nel
silenzio della notte sui tetti delle case, sul manto d'asfalto delle vie
rimaste deserte, sulle macchine finalmente in quiete, disseminate ovunque
come una sterminata mandria di bufali dormienti. Non riesco a capire da
dove proviene questo confuso ticchettio, flebile, incessante. Accendo la
luce e mi siedo nel letto. Scuoto la mia dolce metà profondamente immersa
nel sonno dei giusti e degli innocenti: " Che c'è, che c'è?" mi fa
trasalendo.
"Ssst! Non ti agitare … ascolta" le sussurro con un fil di voce. " Non
senti uno strano rumore… un tenue ticchettio simile a quello prodotto
dalla pioggerella di marzo, quando scende discreta nel silenzio della
notte?"
Ancora agitata per la sveglia improvvisa la donna si drizza di mala voglia
si stropiccia gli occhi, si stiracchia la pelle e tende l'orecchio. Poi,
d'un tratto: " Merda!" sbotta con quanta stizza aveva in corpo. A
proposito, avete notato come questa fetida impressione ricorre sempre più
spesso nel linguaggio corrente, anche, anche fra persone civili?) " M'hai
spaventata a morte! Cosa vuoi che m'importi se nel cuore della notte piove
o c'è bel tempo! Spegni la luce e lasciami dormire in pace!" e si ricaccia
sotto le coperte voltandomi le spalle.
Spengo la luce.
Intanto il ticchettio continua, insistente, ossessivo, senza un attimo di
tregua. Che era il tramestio dei morti che, come diceva la nonna, venivano
di tanto in tanto a curiosare negli adusati luoghi di quand'erano in vita?
Vorrei andare alla finestra a spiare tra le fessure della persiana, ma me
ne sono trattenuto dal tepore della mia tana.
La donna intanto è tornata tra le braccia di Morfeo. Dopo di aver
assistito a lungo, alla fine mi decido: scendo dal letto al buio per non
destare il can che dorme e cerco a tentoni le ciabatte lasciate, come il
solito, accanto a comodino. Ma mi accorgo di un tenue bagliore che trapela
da sotto il letto. Mi chino a guardare di che si tratta e…. Immaginate un
po', vi sorprendo uno sconosciuto febbrilmente intento a montare orologi
alla luce di una piccola lanterna. Dopo un attimo di smarrimento chiedo a
quel tizio come si permetta una così spudorata violazione della mia
privasi. " Non si allarmi, signole" risponde flemmatico l'intruso. " Io
sono l'olologiaio cinese Cin Ciun Cian… non faccio niente di male, sto
solo plepalando qualche Lolex ( leggi " Rolez" economico pel i poveracci
che non si possono pelmettele di compelale il modello originale". Ecco…
confesso che questa è soltanto una parabola, tipo la parabola del buon
samaritano, avete presente? Ma si tratta di una parabola ch'è presagio di
sventure poiché, se le autorità continuano ad accogliere pellegrini
provenienti da ogni parte del mondo e non si convincono che anche i
pellegrini quando son troppi stroppiano, prima o poi qualche pellegrino
glielo troviamo davvero fin sotto al letto.
" E' nuovamente emergenza sull'isola di Lampedusa", avvertiva il
telegiornale di qualche giorno fa".
Spesso, pensando al passato a quando gli albanesi eravamo noi, sono
trascorsi moltissimi anni, è non riesco a capacitarmi come mai nel nostro
Paese c'è stato un così grande cambiamento, da emigranti siamo diventati
una delle sette grandi potenze del mondo e soprattutto una fonte di lavoro
per tutti, grazie alle innovazioni e alla nuova tecnologia, ma oggi come
in quel tempo lontano ritorna l'equazione immigrazione uguale a
delinquenza.
Come abbiamo visto nella fiction d'azione, uno di quei film che piacciono
molto al pubblico televisivo come quello appunto della "Moglie cinese",
sia nel bene come nel male la malavita organizzata rappresenta un veicolo
di integrazione (molto spesso doloroso). A questo punto ci domandiamo
quali sono le differenze o le similitudini tra la mafia "made in italy"
esportata dai nostri immigrati in America e quella importata dai vicini
albanesi. Secondo il mio modesto punto di vista, ritengo che non esiste
nessuna differenza, perché la delinquenza da qualunque parte arriva, è
sempre delinquenza ed essa va sempre e ovunque combattuta con tutti i
mezzi a disposizione delle forze dell'Ordine, applicando con parzialità la
legge. Oh si, la legge, ma che cosa è la legge? In latino ( Lex Legis)
significa comando astratto, o serie di comandi astratti e generali,
indirizzati dallo Stato ai suoi organi o ai cittadini o gli stranieri
residenti nello Stato, onde regolare determinati rapporti. Quindi, bisogna
tener sempre presente che la legge è sempre la legge e come tale va sempre
e ovunque rispettata, per il buon funzionamento collettività del Paese.
Escursione al Parco dei Cento Laghi
Prima di raccontare la nostra piacevole escursione di ieri 21 maggio 2006,
ci vogliamo soffermare brevemente sul Parco dei Cento Laghi, che il CAI di
Mantova, in collaborazione con la Sottosezione di Suzzara, ci hanno
proposto.
Il Parco Nazionale dell'Appennino Tosco Emiliano custodisce uno
straordinario patrimonio naturale, compresa tra le province di Lucca,
Massa Carrara, Parma e Reggio Emilia che racchiudono, in un'unica area
protetta, i parchi regionali del Gigante e dei Cento Laghi, quattro
riserve naturali statali - Pania di Corfino, Guadine Pradaccio, Lamarossa
e Orecchiella - e quattordici comuni. Cuore montano dell'Italia centrale,
questo territorio della dorsale appenninica settentrionale in cui vette di
oltre 2000 metri dominano su boschi di faggio e conifere, vallate profonde
popolate da rare specie animali e ricche di laghi e torrenti, vanta
giardini botanici naturali e un patrimonio architettonico e culturale che
è testimonianza "reale" di oltre duemila anni di storia scritta da uomo e
natura.
Si trovano qui le rocce più antiche dell'Appennino, i Gessi Triassici,
l'inconfondibile masso quadrato della Pietra di Bismantova - palestra a
cielo aperto per arrampicate e free climbing - e pareti impervie come la
Pania di Corfino. Quando i monti si ricoprono di neve, le località
sciistiche di Cerreto, Divago, Febbio e Ventasso Laghi sono meta ideale
per gli appassionati di sport invernali.
Il paesaggio, contrassegnato da coltivazioni terrazzate sul versante
toscano, da praterie, pascoli e prati circondati da siepi in quello
padano, e disseminato di ampie selve di castagni, accoglie splendidi laghi
di origine glaciale, torrenti ideali per la pesca e bacini di acque
salubri di graziose località termali, schiudendo borghi antichi, castelli,
fortezze medievali, chiese, pievi, oratori. Sono ancora oggi le vie
millenarie percorse un tempo dai pellegrini in viaggio per Roma, la rete
sentieri segnati ad accompagnare a piedi o a cavallo nei luoghi più belli
dell'area protetta, dove vivono caprioli, cervi, mufloni, cinghiali,
scoiattoli, puzzole, ghiri volpi, ma anche l'aquila reale, il falco
pellegrino e il lupo. Nel relax delle strutture ricettive, agriturismi,
campeggi, rifugi - i veri sapori della vita di montagna si traducono nel
parmigiano reggiano, nei pecorini, nei salumi così come nella ricca
varietà dei pani della Lunigiana, delle confetture, dei mieli e dei
funghi, di cui l'intera zona è ricchissima.
La nostra passeggiata è iniziata molto presto, alle 6 del mattino, con la
partenza da Mantova, con una breve sosta nella linda cittadina di Suzzara,
dove era in attesa un gruppetto di simpatici amici capeggiati
dall'organizzatore Pupotti Dario. I presupposto per una bella giornata sui
sentieri dell'Appennino parmense, c'erano tutti. Il cielo era limpido e
sgombro di nubi, mentre un sole splendente illuminava la Bassa padana, con
i suoi lunghi argini che fiancheggiavano il vecchio fiume. Dopo
l'attraversamento del Po, siamo entrati in quel mondo senza orizzonte,
descritto da Giovanni Guareschi, e senza grandi picchi, di una prosa
letteraria italiana che raramente era incline alle virtù di una secca
agilità. Lui aveva un mondo linguistico suo, qualcosa inventato dal niente
e riprodotto con l'astuzia e la perizia dell'artigiano di genio.
Proseguendo sull'argine sinistro, un cartellone pubblicitario stradale
dove era riprodotta l'immagine di Don Camillo e Peppone, ci indicava che
stavamo attraversando il borgo di Brescello, molto caro allo scrittore.
Superato Brescello, il grosso torpedone ha puntato dritto verso la città
di Parma, proseguendo verso la bellissima e verde vallata di Langhirano,
che sorge alla sinistra del torrente Parma, e come a Felino, è nota in
particolare per la stagionatura dei prosciutti e dei salami d'oc, mentre a
Corniglio, sorge su di una colina il famoso Castello medioevale, ora
municipio. Nel territorio il suggestivo Lago Santo, la storia ci racconta
che appartenne al vescovo di Parma fino al 1350, quindi ai Rossi e ai
Farnesi. Fuori dell'abitato la strada provinciale incomincia a salire su
verso la montagna, dove germogliano antichi e mastodontici castagneti.
Superiamo una località che diversi anni fa una grossa frana ha minacciato
il borgo di Corniglio. La strada attraversa il letto della famosa frana di
cui a suo tempo ne parlarono molto i giornali e la televisione. Poco più a
valle superiamo la centrale idroelettrica che è alimentata dal torrente
Parma Il nostro torpedone si è fermato poco prima del Lago Santo e
precisamente dove vi è la biforcazione che porta ai Lagoni, dove sorge
anche il Rifugio.
La lunga e rutilante squadra dei " caini" mantovani, zaino affardellato e
gambe in spalla, come si dice in gergo alpinistico, abbiamo incominciato
la nostra lunga e bellissima passeggiata attraverso il grande bosco di
coniferi, ma subito dopo la partenza, si è levato improvvisamente un
fastidioso vento freddo, mentre il cielo si era oscurato da una massa
nuvolosa gonfia d'acqua. La montagna a volte fa degli brutti scherzi, dal
sole splendente della verde vallata del parmense, siamo entrati, non dico
nell'occhio del ciclone, ma ci ritrovammo " in mezzo ad una selva
oscura"di dantesca memoria. Ma che dico, più che una selva oscura, mi dava
l'impressione di essere capitati nel profondo limbo dove risiedono le
anime macchiate dal peccato originale. Mentre il vento spazzava via le
nuvole biancastre, attraverso i fitti boschi, apparivano sciabolate di
luce e sprazzi di sereno, tanto che ci dava la sensazione di ammirare
l'empireo celeste: " Celo di luce ed amore oltre lo spazio e il tempo dove
abitano gli spiriti".
La lunga fila rutilante, uno dopo l'altro ci superavano lungo la strada
bianca immersa nel grande bosco, perché Adriana ed io, in questi ultimi
anni siamo diventati lenti, ma come dice il noto cantante Adriano
Cementano, siamo ancora Rock, abbiamo visto persone nuove e anche vecchi
amici, fra i quali l'amico Franco dott. Guizzardi, che in un'altra
occasione abbiamo avuto modo di definirlo, per le sue caratteristiche
somatiche, "il guerriero cosacco di tolstoesca memoria". Dopo un paio di
chilometri dalla partenza, alla fine della discesa, passando davanti al
monumento che ricorda la caduta di un aereo militare nella Seconda guerra
mondiale, ci siamo fermati per leggere la targa, nella quale c'era scritto
che l'aereo apparteneva all'ottavo Stormo C. D e portava scritto su di uno
spezzone d'ala il numero 20511 di matricola. Il monumento era costituito
da un pezzo dell'ala del velivolo, dalle due ruote e da un pezzo del
motore. Il tutto collocato ai margini del torrente su di uno spuntone di
roccia granitica.
Dalla località dove appunto sorge il monumento dell'aereo, la strada
incomincia dolcemente a salire fino a raggiungere la quota di 1350, dove
si trovano i Lagone e il Rifugio. Dal Rifugio partono due sentieri: Il
primo itinerario segue il sentiero 711 che passa nelle vicinanze dei
Lagoni, il lago Scuro e sì sape al Passo di Fugicchia m. 1595. Si prosegue
fino ad incrociare il sentiero 00, si gira a destra e si arriva in cima al
M. Matto m. 1837 ( ore 2: 30). Per la discesa si può ripetere il percorso
di salita, oppure dalla cima si prosegue verso il M. Brusa fino a trovare
il sentiero 715, proseguendo quel sentiero si ritorna sulla carrareccia e
quindi al pullman.
Noi, cioè Adriana mia moglie, Marisa ed altre persone, ci siamo fermati ad
esplorare il paesaggio che circonda uno dei due meravigliosi laghi dei
Lagoni, dove in mezzo ad una meravigliosa faggeta sorge il confortevole
Rifugio alpino. Il resto della squadra, dato le condizioni del tempo
resesi proibitive, hanno percorso un itinerario più comodo, rimanendo nei
paraggi dei Lagoni. Per l'ora del pranzo, ci siamo ritrovati tutti nella
grande sala del rifugio, resa vivibile dal tepore della grossa stufa a
legna. Come succede sempre in queste nostre escursioni itineranti e che ci
ritroviamo sempre bene, non solo a camminare sui sentieri, ma anche a
stare seduti attorno ad un tavolo, con un ottimo piatto di polenta calda
con il capriolo ed un buon bicchiere di vino. In queste occasioni, oltre
all'allegria, fra un bicchiere e l'altro, si consolida la vecchia amicizia
fra gli uomini, perché l'amicizia vuol dire anche comunione di pensiero,
che non é una cosa solamente intellettuale ma è comunanza dei sentimenti e
del volere e quindi anche dell'agire.
Prima di iniziare quella meravigliosa passeggiata all'interno del Parco
dell'Appennino Parmense, mi hanno detto che lassù avrei trovato un luogo
magnifico, la polla, dove l'acqua, chiara come il vetro, zampilla dalla
roccia, fresca come l'aria, leggera come un filo di vento. E' il punto
dove confluiscono i rigagnoli e si formano torrenti che scendono della
grande montagna innevata, che si formano dallo scioglimento delle nevi
durante l'anno. Ho bevuto quell'acqua fresca durante il piccolo giro sulle
rive del Lagone e persino mi sono dissetato a quella fonte che tanta
fatica abbiamo fatto per giungere fino lassù in quell'angolo di paradiso
terrestre, dove regna la solitudine, la pace e soprattutto il silenzio.
Il silenzio comincia col far
Chiudere le labbra e poi penetra
Fino al profondo dell'anima, nelle
Regioni inaccessibili, dove Dio
Riposa in noi.
Da ragazzo andavo sempre alla sorgente, che più a valle diventava un
piccolo torrente con Teresa mia madre, che faceva il bucato. Per me era la
meta misteriosa dell'estate, dove tutto sembrava meraviglioso e
fantastico. Anche lassù nei Lagoni l'acqua della polla era gelida, chiara
come quello spicchio di cielo che spariva e poi ritornava, come pure
l'aria che spirava dalla gola della montagna. Con Marisa, Adriana ed io,
prima d'iniziare il lungo viaggio del ritorno, siamo rimasti lì come
stupiti, per ammirare la bellezza di quella polla, ma soprattutto di quel
paesaggio fantastico e metafisico. Al limitare del lago, germoglia
l'immensa e misteriosa faggeta. Alberi altissimi e dritti come tante
candele, che rendono al paesaggio una bellezza inconfondibile. Eravamo lì,
quasi appartati ad ascoltare il canto degli uccelli e i rumori del vento,
ma soprattutto a scaldarci ai raggi del tiepido sole. Mi sembrava di
essere al confine del mondo ad osservare quell'angolo di cielo, che prima
spariva e poi ritornava a brillare, mentre le nuvole bianche e basse
tendevano a dileguarsi verso l'orizzonte, esse vengono e se ne vanno, come
pure il vento e il tempo che passa e vola via. Proseguendo ecco la polla:
è sotto di me, sgorga in un luogo fresco, antico, misterioso. L'acqua! Un
miracolo della vita, un elemento che non cesserà mai di meravigliare chi
l'ama. Per vivere la montagna, bisogna avere l'animo puro come quello di
un bambino e saper cogliere l'attimo fuggente.
La tempesta del vento e delle nuvole basse era passata e tutto, come tutte
le cose, era ritornato alla normalità. Con passo lento ma costante,
abbiamo iniziato il viaggio di ritorno su quel sentiero nascosto dalla
fitta vegetazione, in mezzo a quella meravigliosa foresta di alti e
meravigliosi abeti. Un gruppo di escursionisti è composto dall'avanguardia
e della retroguardia, noi eravamo aggregati ad una piccola squadra di
lenti, ma a chiudere la lunga fila colorata degli escursionisti, c'era
l'amico Roberto Piva e la sua graziosa signora.
Il grande giornalista e scrittore Romano Battaglia, parlando delle nuvole
e il vento così scriveva: "
Me ne sto occupato nel nulla sul confine
Del mondo ad osservare il cielo e le nuvole.
E qualche volta sorrido alla serenità
Delle creature che mi circondano.
Il giorno e la notte vengono e se ne vanno.
Le stagioni trascorrono e noi viaggiatori dell'infinito.
A volte ci domandiamo il perché
Della vita. La risposta al perché si può
Leggere nei piccoli occhi di un passero.
Com'è dolce amare
nell'autunno della vita
Un neo pensionato così scriveva allo storico, critico e scrittore Corrado
Augias:
Caro dottor Augias, è arrivato il momento per andare in pensione. Leggo
che una buona percentuale di lavoratori è contenta di lasciare il lavoro.
Sono quelli che potranno dedicarsi alla famiglia, agli amici, denaro
permettendo, ai viaggi.
Ma anche, perché no, a se stessi. Sono coloro che si amano e spesso chi si
ama diventa più conciliante con gli altri. Perché, si piace di più. Altri
si dedicano al volontariato, investono le ore libere per offrire il cuore
e il tempo agli altri. Sono quelli che amano il prossimo.
C'è poi una parte che si dedica all'arte, all'ozio creativo, alle
riflessioni spirituali. Altri invece, i più agguerriti dongiovanni,
cercano nei balli di coppia di provare ancora a sedurre attempate ( o
magari no) compagne d'avventura. Sono coloro che amano l'amore.
Seduti ai tavoli di alcuni "centri anziani" ci sono poi i "vecchi da
sempre" che dimenticano il tempo che passa con le carte in mano, con la
testa pensoloni in una perenne "pennichella". Sono quelli che non (si)
amano più. In ogni caso la terza età desidera una compagna eterea ma non
ingannevole: la salute! Perché ogni età andrebbe vissuta con l'entusiasmo
dovuto e con la rassegnata ma serena accettazione del tempo che, passando,
ci ha cambiati.
Anch'io, lasciando le "tempeste ormonali" dei miei tanti alunni chiuderò
con un po' di malinconia l'ultima pagina del registro di classe. Tornerò
sui banchi della terza età augurandomi che la musica che ho insegnato per
anni illumini il futuro dei miei alunni e scaldi il loro cuore. E che Dio
li benedica.
L'esperto ha risposto con poche parole, ma molto significative che,
secondo me, hanno colto nel segno: "Immagino che con questa consapevole
serenità bisognerebbe affrontare sempre l'ultima fase della vita, non
sempre spiacevole, anzi. Lo scrive la prof Campanelli, ma è anche ciò che
scrivono Cicerone, Seneca, Lucrezio, i classici.
Gli scrittori nostri contemporanei scrivono invece cose diverse. Ho letto
l'ultimo romanzo di Paul Auster ( Follie di Brooklyn - Einaudi). Dopo
alcuni racconti che, confesso, mi erano piaciuti meno delle sue prime
prove, questo " Follie" invece ha tono e andamento da commedia, una
conciliante dolcezza, molti spunti di godibile humour.
Lì ho trovati alcune righe dedicate all'amore tra anziani. Le trascrivo
volentieri. L'argomento è difficile, per alcuni tabù. Auster lo sa
trattare, mi sembra, con commovente tenerezza.
Giudicate voi stessi: " Il sesso tra persone non più giovani comporterà
anche i suoi momenti di imbarazzo e le sue comiche longueurs, ma ha in sé
una tenerezza che spesso manca ai giovani. O seni possono afflosciarsi e
il membro essere languido, ma la tua pelle è sempre la tua pelle, e quando
una persona che ti piace si allunga per toccarti, o ristringe fra le
braccia, o ti bacia sulla bocca, puoi sdilinquirti ancora esattamente come
ti succedeva, quando credevi che saresti vissuto per sempre.
" Joyce e io non eravamo ancora al dicembre della vita, ma senza dubbio
maggio era decisamente alle nostre spalle. Noi due insieme eravamo come un
pomeriggio della seconda metà di ottobre, uno di quei luminosi giorni
d'autunno sotto un cielo azzurro vivido, refoli frizzanti nell'aria e un
milione di foglie ancora sui rami… marrone per lo più, ma con ancora
abbastanza ori e rossi e gialli per farti venir voglia di restare
all'aperto il più a lungo possibile…"
Sì, è proprio così, il tempo passando così velocemente ci ha cambiati, ci
ha in un certo senso cambiato, ma non siamo ancora al dicembre della vita.
Il grande scrittore, pensatore e filosofo Omraam Mikhael Aivanhov,
parlando del comportamento dell'essere umano e della sua esistenza nella
terza età, così faceva a scrivere: "Per ogni essere umano l'esistenza è
soltanto una serie di bisogni che è spinto a soddisfare. Bisogno di
mangiare, di bere, di dormire, di ripararsi, di vestirsi, di lavorare, di
passeggiare, di leggere, di ascoltare musica, di incontrare gente, di
amare, di riflettere, di ammirare... non si finisce mai. L'Intelligenza
cosmica ha deciso così perché l'umanità si sviluppi in tutte le direzione
e su tutti i piani. Non appena nasce un nuovo bisogno, appare
contemporaneamente un nuovo problema cui bisogna trovare una nuova
soluzione. Tutta la nostra vita, quindi, non è altro che una serie di
esercizi e di esperienze che dobbiamo fare per trovare le soluzioni
migliori allo scopo di percorrere il cammino dell'evoluzione.".
"I libri sacri sono l'opera di esseri eccezionali che, attraverso la
preghiera, la meditazione e la contemplazione, sono riusciti a proiettarsi
fino al mondo delle verità sublimi. Per comprenderli bisogna poter vibrare
alla loro stessa lunghezza d'onda, prendere la loro stessa strada e quindi
cominciare con l'adottare il loro modo di vivere, perché tutto sta nel
modo di vivere. È proprio il modo di vivere che ha permesso ai profeti,
agli Iniziati, ai grandi Maestri di avvicinarsi alla Divinità, ed è il
loro modo di vivere che dovete a vostra volta adottare, non c'è un altro
metodo. Non preoccupatevi se non comprendete immediatamente la Bibbia o
altri Libri sacri, perché la loro lettura è spesso difficile; leggeteli
pure, ma senza turbarvi. Contemporaneamente fate un lavoro su di voi e
imponetevi una disciplina di vita che vi avvicinerà al mondo dello
spirito. Gesù diceva ai suoi discepoli: " Ho ancora tante cose da dirvi,
ma non potete comprendere ancora. Quando il Consolatore, lo Spirito di
verità, sarà venuto, vi condurrà alla verità piena .". Al di fuori di
questo contatto con lo Spirito, che si può ottenere solo con una vera
ascesi, non è possibile alcuna comprensione dei Libri sacri.".
La vecchiaia, ci viene da domandarci, ma che cos'é la vecchiaia? "La
vecchiaia è un periodo che la maggioranza degli esseri umani vede
avvicinarsi con angoscia. Effettivamente, per molti, la vecchiaia è un
periodo bruttissimo e questo a causa di come sono vissuti prima. Hanno
sprecato le loro energie in attività mediocri, inutili, così, quando non
resta loro quasi più nulla, che cosa si possono aspettare dalla vecchiaia?
Per i discepoli della Scienza iniziatica invece la vecchiaia è il miglior
periodo della vita, perché anni di ricerca e di esperienze interiori,
hanno conferito loro lucidità, pace e serenità. Sicuramente, anche per chi
ha condotto un'esistenza ragionevole, la vecchiaia finirà comunque per
arrivare, un giorno, con i suoi inconvenienti: indebolimento e malattia.
Chi però avrà fatto prima un vero lavoro interiore attraverserà questo
periodo con maggiore sicurezza e serenità, e non smetterà mai di
arricchirsi spiritualmente.".
" Spesso non temiamo tanto il pericolo quanto il panico che ci coglie
davanti a lui. Dunque, se vi trovate in una circostanza di questo tipo,
prima di intraprendere qualsiasi azione, rimanete immobili per un istante.
Non muovetevi, non parlate, chiudete a pugno la mano destra, respirate
profondamente collegandovi con il cielo e riuscirete in tal modo a
dominare le vostre cellule. Potrete quindi fare quello che è necessario
per salvarvi, ma ricordatevi di non muovervi subito perché, se vi lasciate
andare ad un movimento incontrollato, è come se faceste saltare una diga:
l'acqua irromperebbe con irruenza e voi non potrete più riprendere in mano
la situazione. È accaduto così che alcune persone si siano buttate da una
finestra o si siano gettate nel fuoco. Davanti al pericolo rimanete
immobili per un istante e legatevi alla Provvidenza. Sentirete allora
nascere dentro di voi la pace, che è la prima condizione perché si destino
in voi le forze che vi salveranno. Le sentirete, perché sono sempre
presenti in voi, ma bisogna creare le condizioni adatte perché possano
manifestarsi.".
"Vista, udito, olfatto, gusto, tatto... i cinque sensi ci mettono in
contatto con il mondo intorno a noi. Avete mai pensato che si può udire da
lontano e vedere ancor più lontano, ma che bisogna avvicinarsi alle cose
per sentirle e per toccarle e che per gustarle è necessario addirittura
metterle in bocca? Esiste dunque una gradazione fra i cinque sensi. Udito
e vista lasciano l'essere umano più libero, mentre olfatto, tatto e gusto
lo legano di più, perché lo costringono ad avvicinarsi agli oggetti e alle
persone. Succede spesso, però, che i sensi superiori, vista e udito,
conducano l'essere umano verso i sensi inferiori e così gli occhi e le
orecchie fanno di tutto per firmare un contratto con il naso, la bocca e
le mani. Un uomo è rapito dalla bellezza di una donna, dal suono della sua
voce. Si accontenterà forse di guardarla ed ascoltarla? Non cercherà
invece di avvicinarsi a lei per respirare il suo profumo, accarezzarla,
baciarla, ma uno spiritualista sa che può rompere quel contratto, perché,
se talvolta rinuncerà ad avvicinarsi alle cose e alle persone per
sentirle, gustarle e toccarle, entrerà sempre più in contatto con il loro
lato sottile attraverso gli occhi e le orecchie, e sarà più libero.".
"Ci si arricchisce pensando agli altri e lavorando per loro, anche se
all'inizio si ha l'impressione che sia esattamente il contrario. Coloro
che vivono intorno alle persone colme d'amore, di bontà e d'abnegazione,
incominciano sempre con l'abusare di loro pensando che siano un po'
sciocche. Però, più il tempo passa, più le apprezzano, e un giorno tutti
manifesteranno loro amore. Bisogna solo avere pazienza. Quando mettete una
somma in banca, non ricevete subito gli interessi, non è vero? Dovete
aspettare. Accade la stessa cosa sul piano spirituale. Lavorate con tanto
amore e disinteresse e all'inizio non vedete nessun risultato, ma non
dovete scoraggiarvi, perché arriverà il momento in cui la ricchezza vi
giungerà da tutte le parti, anche se cercherete di schivarla, non ci
riuscirete. L'universo intero farà piovere ricchezze straordinarie sul
vostro capo, perché siete voi ad averle attirate. Questa è giustizia!"
"Se lasciate per qualche tempo un po' di cibo in una stanza, presto
arriveranno delle bestiole. Se avete lasciato un po' di miele o di
marmellata verranno le mosche o le vespe, se un po' di formaggio, verranno
i topi. Come fanno a sentire da lontano che c'è qualcosa proprio per loro?
Basta però ripulire la stanza, perché gli animaletti spariscono. Questi
dettagli della vita quotidiana, che tutti conoscete, vi permettono di
capire meglio alcuni fenomeni dalla vita psichica. Se qualcuno si sofferma
su certi pensieri, su certi desideri o sentimenti, che non sono né
luminosi né puri, vedrà immediatamente giungere le entità che amano le
impurità, e che si stabiliranno presso di lui per nutrirsene. Se però si
purifica e diventa ragionevole, quelle entità lo abbandoneranno per fare
posto agli spiriti luminosi. Pochissime persone sanno leggere il libro
della natura che sta sempre davanti ai loro occhi. Direte che sono solo
dei piccoli particolari, è vero, ma le loro applicazioni alla vita
psichica sono immense.". A volte basta poco, una piccola sosta sul
sentiero che ci porta verso la cima, per ammirare le bellezze del creato
che ci stanno di fronte, ma spesso non ci pensiamo neppure di farlo
" Gli esseri umani, presi individualmente e isolatamente, sono deboli e
senza forza. La loro forza si basa sull'unità, sull'armonia. Perciò
pensate il più spesso possibile alla famiglia universale che dovete
formare, nonostante le vostre differenze di carattere, di temperamento, di
grado evolutivo, di condizione sociale, di attività. Mettete da parte
questi dettagli, non sono importanti e non giocano nessun ruolo nella vita
spirituale. Rafforzate nel vostro cuore la convinzione che, nonostante le
divergenze, siete tutti membri della fratellanza universale, la cui
origine non è sulla terra ma nel mondo divino. Nessuna impresa può dare
risultati positivi, se gli esseri umani non hanno coscienza di agire non
come individui separati, ma come membri di un unico corpo, la cui testa è
in alto.".
"Perché è importante avere un alto ideale di bellezza, di luce, di
purezza, di potenza, d'amore? Perché questo ideale produce un fenomeno
magico: fra noi e il cielo si forma una rete di energie. L'ideale mette in
azione delle forze nascoste dentro di noi, le sveglia e le attira a sé. Si
verifica una specie di polarità fra noi ed il nostro ideale che, non
soltanto serve come termine di paragone, di misura, di modello, di
campione, ma agisce anche come fattore magico, mettendo in azione forze
della nostra coscienza e del nostro superconscio. L'ideale agisce sul
mentale, perché quest'ultimo impari a discernere e a riconoscere ciò che è
perfetto; desta e risveglia il calore e l'amore nel cuore, stimola e
dinamizza la volontà. Il nostro alto ideale mette, dunque, tutto il nostro
essere in consonanza con Dio stesso.".
" Le nostre mani, più di ogni altra parte del nostro corpo, rivelano il
nostro stato interiore. Quando volete tranquillizzarvi, ritrovare
l'armonia interiore, fate attenzione alle mani, perché potreste pensare di
essere calmi, mentre le vostre mani sono ancora contratte.
Nel corso della campagna elettorale da poco conclusasi, abbiamo spesso
visto che certi leader politici, nei loro dibattiti, agitavano le mani o
assumevano certe posizioni o atteggiamenti strani quando parlavano. Tutto
questo succede anche alla gente normale e non solo ai politici. In questi
casi "guardate come la gente agita le mani, quando parla. Anche quando non
parlano, le persone incrociano le braccia, le aprono, toccano e manipolano
gli oggetti senza che ce ne sia alcun bisogno, si grattano,
scarabocchiano, tamburellano. Tenere le mani immobili e distese è uno
degli esercizi più difficili. Per questa ragione osservate bene le vostre
mani, se riuscite a calmare anche loro, sentirete che il benessere penetra
in voi fino al plesso solare.".
" Quando siete sicuri di essere sulla buona strada, niente deve farvi
tornare indietro, tanto meno l'opinione degli altri. Non dimenticate che
al di sopra di voi esistono esseri che vi hanno inviato, che vi
sorvegliano e che riferiscono sul vostro comportamento. Chi si preoccupa
dell'opinione pubblica al punto di trascurare l'opinione del Cielo, mostra
di non aver compreso che cosa è veramente essenziale nella vita. Può
succedere che, con il vostro desiderio di mettervi al servizio del bene e
della luce, suscitiate delle reazioni molto negative. La persone, che
vivono accanto a voi, saranno contrariate per il fatto che non volete
tener conto del loro parere e che preferiate l'approvazione degli Esseri
sublimi che vegliano sull'umanità. Ma, pur sforzandovi di continuare ad
avere delle buone relazioni con i vostri genitori, i vostri amici e tutti
coloro che vivono intorno a voi, perseverate nella via che sapete essere
la migliore: prima o poi tutti saranno costretti a riconoscere che,
nonostante l'apparenza, avete avuto ragione di scegliere la via della
luce.".
" Si dice spesso che la speranza fa vivere. Quando si è delusi dagli
avvenimenti e insoddisfatti del proprio destino, si tende a proiettarsi
nel futuro: presto, fra qualche giorno... fra qualche mese... andrà
meglio. La speranza è senz'altro la cosa che si abbandona per ultima. Ma
nell'attesa che si realizzi, si ha bisogno di trovare qualcosa su cui
appoggiarsi per resistere. Ora, per resistere, non soltanto bisogna avere
fede, ma anche alimentare la vita in se stessi e ricevere uno slancio,
grazie all'amore. Diversamente la speranza è solo una fuga davanti alla
realtà, e anch'essa un giorno ci abbandonerà. Per non perdere mai la
speranza, è necessario conservare dentro di sé la fede e l'amore e, di
fronte ad ogni difficoltà che si presenti, chiamarli in aiuto. Qualunque
cosa vi succede, cercate di aggrapparvi alla fede e all'amore, perché sono
queste due cose che vi permetteranno di conservare la speranza fino alla
fine.".
" Immaginatevi che qualcuno, che non abbia mai lavorato tanto per
guadagnare denaro, un bel giorno si trovi ad avere bisogno di una grossa
somma, perché, per esempio, deve comprarsi una casa. Si presenta allo
sportello di una banca per chiedere quella somma, sicuro che, siccome in
una banca si depositano tanti soldi, potrà avere quanto gli occorre. Come
pensate che sarà accolto? Bene, sul piano fisico tutti sanno che la sua
richiesta andrà incontro ad un rifiuto, ma sul piano spirituale molti
credono che questa cosa sia possibile. Si presentano davanti agli
sportelli delle banche celesti e presentano le loro richieste: esigono
miracoli, si aspettano che gli angeli e gli arcangeli scendano per venire
loro in aiuto. Ma, che cosa hanno fatto per ottenere questo? È forse
sufficiente che, in un momento difficile, si recitino alcune preghiere,
perché il Cielo si apra e il sole e tutta la natura modifichino il loro
corso? Se prima non si è fatto nulla per essere nella posizione di
ricevere aiuto dal cielo, non si potrà ricevere.".
" A quante complicazioni si va incontro nella vita perché si è impulsivi e
non si sa tener a freno la lingua! Se in una conversazione con un
superiore o con un socio non siete vigili, vi potete lasciar sfuggire
qualche parola infelice. Allora, accade che le relazioni si rompono e
siete costretti a separarvi, ad affrontare processi, spese... Dite che
cercherete di riparare, ma è così facile?
Dovete capire che è sempre meglio essere attenti e ragionevoli per non
complicare le cose, dapprima almeno in se stessi. Sul mondo esteriore
abbiamo poca presa, ma in tutto quello che riguarda noi stessi, lì
possiamo essere vigili e consapevoli di portare armonia, pace e luce. Chi
si esercita ogni giorno a praticare la pazienza e la padronanza di sé,
finisce con appianare le conflittualità che possono nascere con le persone
con cui ha a che fare. Con la sua condotta riesce ad ispirare stima e
amicizia, e a poco a poco molte persone penseranno di aiutarlo e fargli
del bene. Si hanno molte più probabilità di risolvere i problemi se si è
vigili e ci si esercita nella padronanza di se stessi.".
" Un medico ha una grande responsabilità di fronte ai suoi pazienti. Con
il suo atteggiamento e con le sue parole tocca dei fattori psichici e qui
non si sa mai quello che si può scatenare, sia come elementi positivi che
negativi né quali ripercussioni questi elementi potranno avere sullo stato
del malato. Un medico che dice ad un malato: "Le restano tre mesi ... sei
mesi di vita" non è saggio. Prima di tutto perché non esiste nessuna
certezza a riguardo; l'esperienza, infatti, ci ha mostrato che molti
medici si sono sbagliati facendo questo genere di previsioni. In secondo
luogo, influenza negativamente il malato e lo getta nella disperazione
paralizzandolo con l'idea che non c'é più nulla da fare. Voi direte: "Io
conosco invece alcuni malati che una diagnosi simile ha spinto a reagire e
a lottare contro la malattia". È possibile, certamente, tutto è possibile,
ma non si tratta della maggioranza dei casi.
Il medico non ha il diritto di scoraggiare i suoi ammalati. E non soltanto
il medico, d'altronde. Nessuno ha il diritto di influenzare negativamente
gli altri, ponendo loro dei limiti e dicendo che non riusciranno mai a
realizzare i loro progetti. Bisogna sempre incoraggiare le persone a
lavorare e a impegnarsi.".
" Un uomo che si è abbandonato a traffici disonesti si ritrova davanti a
un tribunale. Se è arrivato lì, significa che non è riuscito nelle sue
imprese. Ma come spiegherà il suo fallimento? Dirà a se stesso che
sfortunatamente non ha saputo prevedere tutto, ma che la prossima volta
cercherà di fare meglio. Non si tratta per lui di mettere in dubbio la
bontà delle sue azioni. Dato che la società è regolata dalla legge della
giungla, perché avere degli scrupoli? L'essenziale è non lasciarsi
prendere.
In realtà, anche se questo argomento sembra spesso accettabile agli occhi
di qualche persona, tutti coloro che vogliono progredire spiritualmente
debbono rifiutarlo. Non si è mai giustificati se ci si comporta male col
pretesto che anche gli altri lo fanno. Ognuno deve solo chiedersi: "Che
guadagnerò veramente adottando quel punto di vista, perseverando in quell'atteggiamento?"
e rimettersi in discussione con sincerità".
"Il fuoco ci insegna la liberazione. Guardate bruciare un fuoco di legna.
Tutta l'energia solare, accumulata nell'albero, e che è l'anima
dell'albero, si libera dalla forma in cui è rimasta rinchiusa e ritorna
verso le regioni celesti. Guardando il fuoco, impariamo anche noi a
staccarci da tutto ciò che è materiale e volgare: i nostri involucri, le
nostre corazze. Per liberarsi e ritrovare la sua patria, la nostra anima
ha bisogno del fuoco. Il fuoco permette l'apertura di quelle migliaia di
uscite attraverso cui sfugge all'anima dell'albero. I rumori vari e gli
scoppiettii che si sentono, esprimono la liberazione. Dove l'uscita è più
difficoltosa, l'anima deve colpire più forti e tutte quelle esplosioni
sono i canti di vittoria dell'anima che si libera.".
Si, aveva veramente ragione zia Cristina, quando nelle lunghe sere
d'inverno tutta la famiglia si riuniva attorno al focolare domestico e si
parlava, si discuteva, si raccontavano delle favole, ma spesso ci si
soffermava sugli scoppiettii del grosso tronco che bruciava o delle
castagne che si arrostivano sulle brace. Ella ci diceva che era l'anima
del vecchio tronco che cercava di liberarsi come pure facevano le castagne
che scoppiettavano in alto verso il camino. Quelli erano i canti di
vittoria dell'anima che si liberavano e salivano verso il cielo.
Se gli esseri umani fossero meno chiusi, meno ripiegati su se stessi,
prenderebbero coscienza della realtà di un mondo invisibile, popolato da
creature che vivono lì, accanto a loro, insieme con loro. Sì, perché
queste creature sono attratte dai loro pensieri e dai loro sentimenti.
Bisogna che lo sappiate: quando siete soli, nella natura o nella vostra
camera, in realtà non siete mai soli, poiché ci sono delle entità che
partecipano alla vostra vita. Se lavorate per il bene, siete accompagnati
da entità luminose che si rallegrano con voi e vi aiutano nelle vostre
difficoltà, facendovi intravedere delle vie d'uscita e delle soluzioni ai
vostri problemi. Generalmente questo accade senza che ve ne accorgiate,
tuttavia se cercate di prendere coscienza di queste presenze potrete
beneficiarne maggiormente.".
Nel nostro passato prossimo, la figura del medico di famiglia era diversa
dal medico dei giorni nostri. In quei tempi il medico di famiglia, che
oltre che un medico era soprattutto un amico, un confessore ed esisteva un
filo diretto con il paziente, che oltre che seguirlo giorno dopo giorno lo
consigliava sempre nel migliore dei modi, per farlo vivere con più
serenità a superari i momenti più difficili della patologia di cui era
affetto. Oggi, il tuo medico di famiglia non è più lo stesso di allora, è
cambiato completamente, come del resto anche i tempi sono cambiati, quando
capita di andare nel suo ambulatorio per la prescrizione dei farmaci
occorrenti per le varie patologie di cui noi anziani purtroppo siamo
affetti, e questo capita almeno una volta il mese, lo trovi lì seduto
dietro la sua scrivania e spesse volte non ti guarda neppure in faccia,
non ti chiede neppure come procede la tua patologia di cui sei affetto
Egli è distaccato, freddo e quasi senz'anima. Ci dai il biglietto, lo
esamina e con il computer ti trascrive le medicine richieste e ti congeda.
Se invece delle solite medicine di cui hai bisogno, ci fai presente di una
nuova sofferenza, egli non ti da alcuna indicazione, ma ti manda
direttamente all'ospedale per nuovi accertamenti. Il suo compito, è
diventato ormai quello di un semplice impiegato.
Giorni fa, nel programma televisivo di Rai Uno mattino, condotto dal noto
e simpatico giornalista Luca Giurato, si è presentato un primario di
altrettanto noto nosocomio di una grande città del centro Italia, in veste
di paziente, perché affetto da una grave patologia tumorale, che ha
denunciato il comportamento freddo e distaccato dei medici in generale ed
in particolare dei grossi luminari nei confronti dei pazienti. Egli ha
riferito, che in quella categoria c'era anche lui e tutto il suo seguito,
ma solo adesso ha compreso, in qualità di paziente, che nei nostri
ospedali esistono solo dei palloni gonfiati che della salute dei loro
pazienti non ci importa proprio nulla. Egli ha concluso dicendo; che a
questi luminari della medicina, manca soprattutto la cultura del conforto.
Il 10 settembre dell'anno scorso, sulle pagine di "Poetare " è apparso un
nostro articolo con il titolo: "Ma il dolore che cos'è", con il quale
abbiamo inteso denunciare pubblicamente il poco interessamento e la scarsa
professionalità del personale paramedico di un noto ospedale regionale,
nel quale una nostra congiunta è stata sottoposta ad un'operazione
chirurgica con esito positivo, mentre dobbiamo rompere una lancia in
favore del primario del reparto ginecologico, per la sua grande
professionalità, umanità, disponibilità e cordialità, con la quale ha
seguito e segue i suoi pazienti. Quindi, non dobbiamo demonizzare la
categoria dei primari e dei suoi assistenti. Sono questi professionisti,
direi molto rari, che fanno onore alla sanità pubblica che fa brodo da
ogni parte.
Il medico, il parroco e il Maresciallo Comandante della Stazione
Carabinieri, sono tre figure molto importanti nell'ambito della comunità
di un piccolo paese di campagna. Nella mia lunga carriera militare
nell'Arma Benemerita, quale comandante di stazione distaccata, mi sono
chiesto tante volte se il silenzio è stato veramente eloquente e la
risposta è stata quasi sempre affermativa, soprattutto, quando mi riferivo
al silenzio degli altri. Ho compreso che svolgere il compito di comandante
di stazione non fosse così semplice. Il compito del maresciallo non è
soltanto quello di reprimere e prevenire i reati, ma di sapere ascoltare
gli altri e consigliarli nel bene e nel male, insomma sempre nel modo
giusto. Sì perché il comandante di una stazione dei carabinieri, oltre che
un militare, è soprattutto un uomo e un amico, un confessore, un avvocato
e in certi casi anche un giudice conciliatore. Ecco perché la figura del
maresciallo è diventata nel tempo, una figura emblematica, un simbolo
indicativo ed esemplare, e come tale deve riuscire a guadagnarsi la
confidenza e la stima delle autorità locali e soprattutto dalla gente più
umile e laboriosa.
Molti scrittori, come il rimpianto e caro amico Mario Soldati, ahimè da
alcuni anni scomparso, era ritornato con i " Nuovi racconti del
Maresciallo. Si direbbe che una specie di successo ricorrente costringesse
ogni tanto il personaggio a presentarsi: forse sarà stato l'istinto che in
termini psico -analitici si chiama la ricerca del padre e che esprime il
nostro bisogno di ritrovare quella figura severa, esemplare, protettiva.
L'anno scorso anche il noto e famoso scrittore siciliano Andrea Camilleri,
è stato incaricato dal Comando Generale dell'Arma, di illustrare il
calendario della Benemerita 2005. Nella didascalia delle pagine
illustrate, ha scritto un bellissimo racconto, facendo risaltare la figura
del maresciallo Antonio Brancato, comandante la stazione dei Carabinieri
di Belcolle, che sembra un paese da cartolina, una barca arenata su una
montagna verde, e sullo sfondo il mare di Cefalù. Ma da vicino è ben altra
cosa: d'inverno è gelido e nevoso, e per tutto l'anno è abitato da persone
taciturne e diffidenti, " gente di montagna". Nei cinque anni di
permanenza in quel paese, il maresciallo Brancato, è riuscito a
guadagnarsi la confidenza e la stima dei belcollesi. Forse addirittura
troppo, infatti, ormai tutti lo cercano, anche a sproposito, per ogni
problema. La stessa cosa è successa anche a noi nei vari comandi di
stazione, iniziando dal Piemonte, transitando nella bella Liguria e
terminando nella verde e anche brumosa Lombardia, che non è soltanto la
regione dei colori velati dalla nebbia, ma è un susseguirsi di panorami
incantevoli e sensazioni suggestive, quasi al limite dell'irreale.
L'ultimo paesetto dove abbiamo concluso la nostra lunga carriera militare
nell'Arma, è stato Gazzuolo: paese che in fondo non era che una strada,
tutto una lunga strada ordinata e abbellita di qualche palazzotto, di un
nobile porticato e di tante dignitose casette. Un tempo lontano si apriva
il nostro paese in una terra di fiumi, di stagni e di acquitrini che le
continue bonifiche redimevano. Dopo 10 anni di permanenza, nel mese di
dicembre del 1985, siamo stati collocato in congedo per raggiunti i limiti
d'età. Quell'anno, lo ricordiamo particolarmente, non solo perché ci
ricorda il nostro collocamento in quiescenza, ma soprattutto per
l'eccezionale nevicata che ha causato moltissimi disagi alla circolazione
stradale e soprattutto tantissimi danni alle abitazioni, alle campagne,
agli allevamenti avicoli e dei suini, per la caduta della copertura dei
capannoni per l'eccessivo peso della neve.
Da quando siamo entrati a far parte della grande famiglia dei pensionati,
non abbiamo fatto altro che coltivare sempre quella nostra vecchia
passione, il nostro vecchio e grande amore che é appunto la pittura.
Oltre alla pittura, pratichiamo altri hobby, come per esempio, quello di
plasmare la creta e l'escursionismo sui sentieri del Bel Paese. Infatti,
da oltre 15 anni, con mia moglie Adriana, facciamo parte della grande
famiglia del C A I ( Club Alpino Italiano di Mantova. Da queste lunghe e
meravigliose passeggiate, dove abbiamo modo di conoscere da vicino e di
apprezzare le bellezze del paesaggio dolomitico, oltre al disegno,
tracciamo degli appunti sul nostro vecchio taccuino. Si, perché, oltre
alla pittura, da alcuni anni, abbiamo scoperto anche la letteratura. I
nostri libri escursionistici, che descrivono i luoghi e le bellezze
naturali del nostro meraviglioso Paese, sono illustrati da vivaci
acquerelli, che rispecchiano il paesaggio descritto.
Queste passeggiate alpine, sono state definite da Ferdinand Gregorius, "
la più meravigliosa favola della storia geologica e della natura che io
abbia mai visto".
Come é stato detto e scritto, appronto i miei quadri in miniatura nelle
escursioni, per poi riprenderli nello studio di Campitello (MN), Molti
anni fa, per stare sempre in contatto fra i veri artisti, letterati e
pittori, ho partecipato con successo a mostre e concorsi. In uno di questi
concorsi espositivi, il giornalista Gianni Bianchissi, corrispondente
della " Provincia di Cremona", ha così scritto:
"Molti giudizi stanno cambiando nei confronti degli agenti che a prezzo
anche della vita si dedicano alla custodia dell'ordine pubblico. Quante
volte, ancora adesso si vede nel carabiniere o nel poliziotto un
individuo, uno dei tanti anonimi con un volto ma non un nome, freddo,
distaccato, duro, incapace di capire, di perdonare, di commuoversi: il
dovere di un agente implica anche atteggiamenti che possono farlo apparire
soltanto un ingranaggio di un'organizzazione che ha precisi compiti da
svolgere, perciò troppo spesso si dimentica che sotto la divisa c'é sempre
un uomo, con tutti i pregi e i difetti connaturali alla natura umana.
Questo uomo ha un cuore, un animo sensibile che può appassionarsi ed
emozionarsi. Può avere degli hobby per l'arte. Tra un furto e l'altro, fra
un posto di blocco e l'altro, può anche trovare il tempo per esternare la
propria sensibilità su una tela.
E' il caso del maresciallo Diego Cocolo, comandante della locale stazione
carabinieri di Bagnolo Cremasco. Nei brevi ritagli di tempo che la sua
attività gli consente, egli ama cimentarsi con gli oli e le tele per dare
corpo e consistenza a quei paesaggi, agli scorci di natura che l'hanno
impressionato in occasione di un viaggio o durante le ferie estive.
Ha incominciato nella verde età a dedicarsi al disegno, prima che alla
pittura vera e propria, in Liguria, dove si era trasferito dalla natia
Calabria; in seguito ha approfondito le sue conoscenze sotto la guida del
maestro Renato Schejola, anch'egli Maggiore dell'Arma in quiescenza ad
Alessandria.
Spostandosi da un luogo all'altro della nostra penisola, ha avuto modo di
conoscere da vicino e di apprezzare le bellezze naturali che si trovano in
ogni angolo d'Italia. Lo spirito d'osservazione, coltivato per motivi
professionali, lo aiuta a cogliere nella loro essenza i particolari più
significativi di un paesaggio montano, di una piazza, di una strada.
L'animo gentile che alberga sotto la divisa austera, i bottoni argentati,
le mostrine, cioè gli alamari argentati e i gradi di comandante, rimane
estasiato di fronte a queste bellezze e sollecita in lui il desiderio di
riportare queste impressioni sulle tele.
Durante i viaggi, in occasione delle ferie estive, il maresciallo Cocolo
appronta i suoi quadri in miniatura per poi riprenderli nello studio
allestito in un locale della caserma: dipinge per se, per manifestare a se
stesso la sua passione per la pittura. E' un hobby, non un lavoro.
Diventerà l'occupazione ufficiale, quando andrà in pensione. Per ora é
solo un diletto. Per diletto partecipa anche a mostre e concorsi. Ha
esposto a Genova, Bergamo, Savona, Caravaggio, Alessandria, Bagnolo
Cremasco, Crema, Gazzuolo, Castelnuovo di Sotto, Milano e Viadana. Ha pure
ottenuto significativi riconoscimenti. L'ultimo in ordine di tempo é il
primo premio conquistato a Breda Cisoni alla fine degli anni Ottanta, in
un concorso nazionale.
Nella lettera del neo pensionato, con la quale abbiamo iniziato questo
nostro lungo racconto, che dopo una lunga carriera dedicata
all'insegnamento, è ritornato sui banchi della terza età augurandosi che
la musica che ha insegnato per anni illuminassi il futuro dei suoi alunni
e scaldassi il loro cuore. Siamo sicuri che sarà così, anzi è sicuramente
così, perché la musica, la letteratura e la pittura, potremmo definirli
tre sinonimi perfetti. Il primo e l'arte della scienza dei suoni combinati
secondo determinati principi, mentre la letteratura è l'insieme delle
opere scritte, alle quali è riconosciuto valore artistico- letterario,
mentre la pittura, anche se non è una vera e propria scienza, ma secondo
le leggi della prospettiva, dal punto di vista secondo cui si considerano
le cose e i luoghi che ci stanno davanti, con le bellezze naturali e
paesaggistiche, ma soprattutto è il trionfo della luce e del colore che
completano un'opera d'arte, perché di vera arte si tratta.
In entrambi i casi, si ottengono l'insieme armonioso di suoni, di pensiero
e di colori. Il nostro neo pensionato, secondo il nostro punto di vista,
dovrebbe frequentare qualche club, conoscere altra gente con la quale
socializzare, adesso con la bella stagione si possono fare delle belle e
lunghe passeggiate a piedi o magari in bicicletta, solo così si può
evitare di cadere nel buio della depressione, insomma di avere altri
interessi nella vita. Così facendo si può capire com'é dolce anche
l'autunno della vita, perché ogni età andrebbe vissuta con l'entusiasmo
dovuto e con la rassegnata ma serena accettazione del tempo che, passando,
ci ha cambiati.
Nel nostro piccolo borgo padano di Campitello, noi anziani viviamo in
simbiosi, in quella particolare situazione che si determina, quando fra
più individui della Terza età esistono interessi comuni e rapporti di
amicizia da cui traiamo vantaggio reciproco. Il 7 Maggio ultimo scorso,
dopo la celebrazione della S. Messa, nei locali dell'Oratorio, si è svolta
la " Festa degli anziani", che ci ha visti tutti accomunati in grande
allegria nel pranzo sociale offerto dalla parrocchia, sotto la guida di
don Enrico Castiglione, parroco di Campitello. Nel corso della
celebrazione, è stata letta la preghiera dell'anziano, con la quale
vogliamo concludere queste nostre riflessioni sull'autunno della vita:
" Signore, vorrei domandati
Di aiutarmi a invecchiare serenamente,
Dignitosamente, senza amarezze,
Di lasciarsi aiutare, di lasciarsi amare.
Vorrei guarire la mia sofferenza,
Condividendo la loro;
Aiutarli con la mia esperienza,
Chiedere loro ciò che ancora ignoro.
Si crede facilmente che tutto
Ci abbia dovuto: presente, avvenire…
Nulla mi ha dovuto:
E' questa che debbo ripetermi.
Signore, che non ti renda responsabile
Di non aver realizzato i miei desideri.
Vorrei meritare
La grazia di vedere il mondo com'è,
La grazia della verità, e dell'umorismo.
Una grazia voglio domandarti:
La pace; sì, ne ho bisogno,
E ho bisogno di qualcosa di più;
Vorrei la virtù più alta per un uomo: la letizia.
Il porcellino della Clerici.
Nel fortunato programma, tra il serio e il faceto di " Affari tuoi",
condotto dalla signora Clerici, su Rai uno, che si svolge puntualmente
tutte le sere meno la domenica. Sicuramente, per le trasmissioni della
Rai, questa del maialino è stata una novità, che da un tocco di allegria e
di attrazione specialmente per i bambini che seguono con interesse la
trasmissione. Nella trasmissione di ieri sera mercoledì 10 maggio 2006,
abbiamo visto che il maialino è rimasto per tutta la durata del programma
sveglio e vegeto e si è comportato come tutti i cuccioli della sua età,
mentre le altre sere era quasi sempre addormentato. Sulla storia del
famoso maialino, che ormai è entrato a far parte dello show televisivo, è
diventato ormai famoso. I bambini da tutta l'Italia continuano ad inviare
disegnini e pupazzetti, tanto che ne è nato un caso e naturalmente anche
una polemica e una multa a carico della Rai, mentre L'Enpa contesta
"Affari tuoi". Gli animalisti: l'adottiamo noi.
Sulle pagine del "Corriere della sera" di ieri, è apparso un articolo
della brava giornalista Margherita d'Amico, che così scrive:
" Molto peggio di Cenerentola: la sera sotto i riflettori, al mattino nel
pentolone. Il disinvolto e ambivalente utilizzo della figura del porcello
da parte della Rai nelle due differenti trasmissioni condotte da Antonella
Clerici - " Affari tuoi", durante il cui svolgimento un maialino di
quattro mesi sta in una teca in mezzo allo studio ed è doppiato da una
voce che spesso gli fa esprimere il timore di finire arrosto, e " La prova
del cuoco", in cui altri esponenti della medesima specie non hanno più
modo di esternare tale preoccupazione - ha suscitato sgradevoli
perplessità sia nel pubblico che nelle principali associazioni animaliste.
Tanto per cominciare, ieri il nucleo provinciale di Roma delle Guardie
Zoofile dell'Enpa, Ente nazionale protezione animali, diretto da Claudio
Lo Curatolo ha notificato all'azienda radiotelevisiva di Stato un verbale
di contestazione di illecito amministrativo, per violazione dell'articolo
15 comma 6 del regolamento capitolino a tutela degli animali. " La
presenza di un suino in uno spettacolo pieno di luci e rumori è di per sé
inopportuna, abbiamo ricevuto centinaia di proteste", spiega Lo Curatolo.
" Da normativa ci doveva essere comunque segnalata l'intenzione
d'inserirlo nello show". Ora la Rai rischia fino a 500 euro di ammenda, ma
non è questo il punto.
" Si tratta di informazione distorta e diseducativa, in linea con il
corrente sistema di comunicazione", commenta Ilaria Ferri, direttore degli
Animalisti Italiani. "Pensiamo alle pubblicità in cui mucche da latte si
tingono liete di viola o tentano di intrufolarsi negli allevamenti. Se la
filiera della suzione fosse descritta per quel che é, ci sarebbe ben poco
da ridere". Così vale per il suino vezzeggiato dalla Clerici, che nemmeno
appartiene alla razza nana vietnamita da compagnia, ma è proprio un
esemplare di quelli destinati al macello. Lunedì sera, non potendo
ignorare le numerose e sdegnate lamentele dei telespettatori, la
conduttrice aveva dichiarato che il porcellino godeva di ottima salute,
dormiva come un neonato e senz'altro, finito il programma, lei l'avrebbe
portato via con sé. " A La prova del cuoco", ribatteva spiritosamente la
voce umana attribuita al suino. " Ma no! Le trasmissioni finiranno insieme
e io sono un'animalista", aveva concluso la Clerici.
" Quale buon gusto!", sospira Ilaria Ferri. " Dal cucciolo sbaciucchiato
alla costoletta, in tutta franchezza è un bel salto. In Sardegna, lo
stesso animale sarebbe già stato ucciso e consumato come porceddu, altrove
già inserito in pieno nella catena di produzione della carne. Ma questo
maialino in particolare a chi appartiene? Dopo, che fine farà? A questo
punto", aggiunge, " dico che noi Animalisti Italiani desideriamo
adottarlo: spero dunque che il proprietario ci contatti al più presto".
Noi italiani, specialmente in questi ultimi vent'anni, siamo diventati il
popolo più polemico e contestatore, spesso contestiamo per puro spirito di
contraddizione o come nel nostro caso, per una mancata comunicazione o
segnalazione, come dir si vuole, d'inserimento del maialino nello show
televisivo "Affari tuoi". Se andiamo a guardare nelle fiction televisive,
oltre agli animali, vediamo moltissimi bambini che sono sottoposti ad uno
stress continuo sotto i potenti riflettori, ma questo non lo contestiamo,
forse perché ci fa tenerezza vedere quel bambino nella sequenza di quel
film che a noi piace tanto. Da semplice spettatore, non mi sono mai
accorto che quel maialino di quattro mesi, sistemato dentro quel piccolo
recinto potesse soffrire più di tanto. Sicuramente, questo maialino, prima
o poi, finirà come è finito quello allevato con tanto amore dalla zia
Cristina. Questo caso, se di un caso si tratta, ci riporta indietro nel
tempo e nello spazio e ci fa rivivere gli anni verdi della nostra
fanciullezza. In quel tempo, con la nostra famiglia, vivevamo nel piccolo
borgo aspromontano di Cosoleto: un piccolo paese barbicato su di un
pianoro in mezzo ai secolari ulivi, castagneti e querce gigantesche,
probabilmente messe a dimora dai primi coloni della Magna Grecia. Ricordo
che quell'anno, mi riferisco a molti anni fa, la famiglia della zia
Cristina, avevano una scrofa che aveva partorito tanti maialini neri.
L'ultimo nato, come succede in natura, faceva fatica ad alimentarsi perché
l'ultimo capezzolo della scrofa dava poco latte ed era destinato a morire
di fame. La zia, vedendo che faceva fatica a crescere, lo prese e lo portò
in casa, lo mise in una cestina di vimini imbottiti di bambagia e la
collocò vicino all'unica fonte di calore che era il focolare domestico che
rimaneva sempre acceso.
Oltre al maialino nero, si aggirava per casa un piccolo anatroccolo che si
era sperduto nei pressi del bugno e infreddolito si era defilato fra gli
ortaggi dell'orto, mentre la capretta grigia era rimasta orfana, poiché la
madre era deceduta subito dopo il parto. I tre cuccioli crescevano in
simbiosi e avevano scambiato la padrona di casa per la loro madre
naturale. Il maialino e la capretta erano alimentati con il latte di capra
per mezzo del biberon, come si faceva e del resto si fa tutt'ora con i
bambini piccoli. Appena cresciuti l'allegra squadra dei cuccioli,
seguivano dappertutto la zia Cristina. Ovunque essa andasse loro erano
sempre dietro di lei. La seguivano anche quando andava al torrente a fare
il bucato o in paese a fare la spesa o a svolgere le varie incombenze di
una donna di casa. Li chiamava tutti per nome, si, perché aveva assegnato
ad ognuno di loro il proprio nome. Nel piccolo laghetto dell'orto facevano
il loro bagnetto e si rincorrevano nei prati. Insomma, erano sempre
insieme a giocare come facevamo noi bambini. Ma anche gli animali come gli
uomini crescono e loro crescevano molto in fretta. Il maialino diventava
sempre più grosso, come era naturale che fosse, ma un bel giorno, come é
successo per gli altri maiali del branco, nel mese di febbrai, ha fatto la
loro stessa fine. La zia non voleva farlo uccidere, perché era troppo
affezionata, ma non poteva neppure opporsi. Quelli erano tempi tristi e di
carestia, eravamo nel pieno della Seconda guerra mondiale, e quel maiale
significava la sopravvivenza dell'intera famiglia.
Un bel giorno, anche l'anatroccolo dal becco rosso spiccò il volo e si
aggregò al resto di uno stormo di anitre selvatiche che venivano tutti gli
anni a svernare e a pescare nel bugno ma ogni anno, nello stesso periodo,
un bellissimo esemplare si posava sul tetto della casa della zia, ma un
anno la zia non c'era più ad aspettarlo, perché era deceduta
prematuramente. Quella fu l'ultima volta che vedemmo l'anatra nel cortile
di casa.
La capretta con il pizzetto sotto il mento, striata di bianco e le corna
piccoli, alla scomparsa della zia Cristina, fu regalata al pastore
Domenico, un amico di famiglia, il quale per disobbligarsi, per un paio di
anni di seguito, per le feste di Pasqua, ha portato in dono il caprettino
partorito dalla capra, per fare festa. Questo è il destino degli animali
che l'uomo da millenni con amore alleva. La stessa cosa succede per i
maialini, le oche e gli animali da cortile.
Il porceddu sardo.
La prima volta che siamo sbarcati in Sardegna per turismo, avvenne molti
anni fa. Quella volta, un gruppo di turisti mantovani, siamo sbarcati a
Porto Aranci. Per il pranzo eravamo attesi in un noto ristorante di
Castelsardo: un paesino arroccato attorno ai resti di una poderosa Rocca,
poggiata su un cono rachitico che sembra sorgere dal mare. La lunga tavola
era stata sistemata all'ombra di un pergolato di fronte al mare da dove si
poteva ammirare un paesaggio stupendo e senza pari, ma in quell'ora tarda
del mattino, molti di noi non guardavano il paesaggio circostante, ma
attendevano ansiosi che ci fosse servito il pranzo. Finalmente, dopo un
ricco e assortito antipasto a base di pesce appena pescato, per primo
piatto ci sono stati serviti gli 'gnocchetti sardi ai frutti di mare, che
erano veramente squisiti, ma il clou.del pranzo è stato l'arrivo del
grande vassoio con il porceddu sardo allo spiedo. Il porceddu arrosto in
Sardegna è veramente un rito, una festa molto importante e per rallegrare
questa festa ci pensa il cannonau: un vino amabile e generoso.
Due anni fa, l'ultima volta che abbiamo trascorso le nostre ferie estive
in Sardegna, è stato a Santa Maria Navarrese, una località tranquilla e
silenziosa e con un mare meraviglioso, dove si possono ammirare l'antica
torre e la gigantesca Perda Longa. Arbatax è alcuni chilometri più a sud
col suo porticciolo e le possenti Rocce Rosse in eterna lotta con i
flutti. Il nostro albergatore, l'ultimo giorno di permanenza a Santa
Maria, ha organizzato una simpatica cena in uno stazzo, sito
nell'altopiano del Golgo, immerso in mezzo ad una fitta macchia
mediterranea, un luogo primitivo e selvaggio, un luogo dove pascolano allo
stato brado capre, maiali e asinelli bianchi, dove germogliamo gli antichi
e mastodontici olivastri, dove esistono ancora i resti degli antichi
Nuraghi.
In mezzo a quella macchia mediterranea sorge lo stazzo del pastore. La
tavola era preparata in un altro locale rustico e attiguo alla
caratteristica cucina con il grande focolare e la griglia. Nello spiedo
che girava lentamente sul fuoco, vi era un maialino che stava completando
la cottura, mentre più in là in una caldaia di rame di media grandezza,
legata alla catena del focolare, stava terminando la cottura della " capra
in cappotto", mentre il pastore - cuoco, con il ramaiolo, formato da un
grosso cucchiaio molto concavo e da un lungo manico, che era intento a
mescolare la squisita pietanza costituita da carne di capra con patate ed
altre erbe aromatiche che germogliano sull'altopiano del Golgo.
Credetemi, è stata una serata molto allegra, simpatica e all'insegna
dell'amicizia, perché i sardi oltre a saper preparare con maestria il "porceddu
", sono anche molto simpatici ed ospitali.
Concludiamo dicendo, che il caso del porcellino della signora Clerici, in
merito al terremoto che ha sconvolto il gioco del calcio- scommesse nel
nostro Paese, non è altro che una semplice favola di mezza sera, che ci
richiama in un certo senso alle bellissime favole dei fratelli Grimm. Ma
sia nel calcio che in tutte le altre attività, bisogna sempre rispettare
le normative, sia quelle penali che amministrative. Le cose vanno sempre
fatte alla luce del sole,diceva un vecchio saggio, tutto ciò che si fa
deve essere sempre fatto nel rispetto delle forme previste delle leggi. .
Si sa, la legge è la legge e quindi come tale va sempre rispettata.
Il sorgere del sole nell'isola del Giglio.
Abbiamo lasciato Porto Santo Stefano, verso le ore 13: 30, di sabato 22
aprile 2006, gli escursionisti del CAI di Mantova, ci siamo imbarcati sul
traghetto che in poco meno di un'ora circa di navigazione, ci ha portati
nell'Isola incantata di Giglio Porto. E' la prima volta che mettiamo piede
su quest'isola che fa parte dell'Arcipelago Toscano e già ci sembra di
essere ritornati in un luogo a noi familiare, in un luogo vissuto e da
sempre amato, forse perché rispecchia e ha le caratteristiche peculiari,
tipico del borgo classico marinaro della vecchia e cara Liguria. Quando la
nave traghetto è entrata nel piccolo, unico e pittoresco porto dell'isola,
un classico borgo marinaro sviluppatosi lungo l'arco dell'insenatura del
porto e caratterizzato dai colori tenui delle case che già si scorgono
durante gli ultimi chilometri che separano dell'approdo. La piccola e
caratteristica piazzetta, le case multicolori, con gli stretti vicoli che
ci ricordavano i caratteristici carruggi della vecchia Genova e dei borghi
marinari della costa ligure in generale e poi c'é il mare di una
limpidezza impensabile per una zona portuale, tanto che se ne vedeva
benissimo il fondo per quanto era limpido, mentre il sole era ancora alto
nel cielo e l'aria riscaldata dai raggi del sole primaverile. L'impatto
con il borgo antico di Giglio Porto, è stato molto significativo ed
interessante, soprattutto per la sua storia. Appena sbarcati dal traghetto
quasi tutti gli escursionisti, abbiamo raggiunto a piedi l'Hotel Demo's,
che dista all'incirca 800 metri ed è sito proprio sul mare. Partendo dal
piccolo porto, si possono percorrere due ramificazioni, una a destra e
l'altra a sinistra, Via Thaon de Revel ed Umberto I. Nella nostra breve
esplorazione del luogo, abbiamo constatato che le due strade sono
fiancheggiate da piccoli negozi, botteghe artigianali, negozi alimentari,
bar e ritrovi e tanti invitanti ristoranti con grandi piattaforme sul mare
all'aperto. Di fronte parte la Provinciale che porta verso le altre
località e alla parte posteriore del paese, dove si snodano numerosi
pittoreschi vicoli con caratteristiche casette che sono dei piccoli
gioielli.
La storia di questo borgo antico ci racconta che il porto fu costruito per
la prima volta dai Romani e rimase tale per circa diciotto secoli. Fu poi
ampliato nel 1796 e nel 1979 in seguito ad una mareggiata eccezionale.
Sulla sua sinistra si trova la Torre del Saraceno che é tutta
impacchettata per essere restaurata. Essa fu costruita nel 1596 per volere
di Ferdinando I di Toscana con lo scopo di invogliare le famiglie di
pescatori a tornare sull'isola dalla quale fuggirono a causa delle
frequenti scorribande dei saraceni, il loro nome, nel Mediovevo, finì per
disegnare genericamente gli Arabi, particolarmente quelli che nei secoli
IX e X occuparono e predarono la Spagna, la Sicilia e i territori
dell'Europa e dell'Asia bagnati dal Mediterraneo, sbarcando e
terrorizzando anche le popolazioni dell'Arcipelago Toscano. Quella che é
rimasta impressa nella memoria, fu sicuramente la scorreria condotta da
Kair ad-Din detto Barbarossa che nel 1544 deportò come schiavi ben
settecento gigliesi. Poco oltre appare la Caletta del Saraceno, dove a
pelo d'acqua si distinguono bene le mura della cetaria per l'allevamento
delle murene e parte dell'imponente Villa Romana (I-II sec. d.C.) dei
Domizi Enobarbi, i cui resti sono stati in passato in gran parte inglobati
nel centro abitato. Fuori a destra dal porto, venendo dal mare, si vede il
promontorio del Lazzaretto dove sorge l'omonima Torre che fu costruita
originariamente in forma ottagonale da Ferdinando II nel 1622 e delimitava
un'area adibita appunto a lazzaretto per i periodi di epidemie. Nel corso
del tempo è stata distrutta e ricostruita a più riprese fino al 1842,
quando venne rieretta nella forma attuale. Abbiamo appreso che oggi è una
residenza estiva privata. Alla fine della nostra breve passeggiata, in
quel museo a cielo aperto, possiamo affermare che la nostra cultura ne è
uscita maggiormente arricchita. Purtroppo, spesso succede, che noi turisti
per caso, che crediamo di conoscere tutto del nostro meraviglioso Paese,
facciamo ritorno a casa senza conoscere a fondo la località che ci ha
ospitati. Dovremmo prendere esempio dagli stranieri, che si fermano per
ammirare persino una piccola lapide o un capitello di una vecchia chiesa o
i ruderi di un vecchio palazzo abbandonato, non sapendo che in questi
ruderi, che non diamo tanta importanza, vi sono sepolti i segreti e la
storia del passato del nostro meraviglioso Bel Paese.
Come abbiamo detto sopra, l'albergo che ci ha ospitato per la nostra breve
vacanza nell'isola del Giglio, è situato in fondo al borgo antico, in una
splendida cornice sul mare con una caletta suggestiva, tranquilla e
riservata che volendo, sì po' benissimo prendere il sole senza di essere
disturbati. Da quella posizione si gode una vista eccezionale con sfondo
la meravigliosa costa dell'Argentario. Dalla finestra della nostra camera
si ammira tutto questo spettacolo. All'alba del 23 aprile, con Adriana mia
moglie, ci siamo svegliati molto presto, mentre all'orizzonte incominciava
ad albeggiare, così abbiamo deciso di scendere sulla piccola spiaggetta
per assistere al sorgere del sole. Una luce chiara ci ha accolse, quella
luce che precede l'aurora stava rischiando l'orizzonte del meraviglioso
mare che si stendeva davanti a noi. Stavamo per assistere allo spettacolo
più bello del mondo; al sorgere del sole. Era un mattino stupendo, uno di
quei mattini, che anche nelle più serene regioni d'Italia si contano.
Avevamo visto uno spettacolo così bello quindi anni fa, stando seduti sul
bordo del Grand Canyon, che è un'altra meraviglia della stupenda natura
americana. Da quella posizione e a perdita d'occhio si ammirano migliaia
di gole e, sul fondo, scorre il Colorado River. I primi raggi del sole di
quel mattino sereno del mese di agosto, facevano risaltare i meravigliosi
colori delle pareti rocciose che era il rosso dominante, in tutte le sue
tonalità, e l'ocra. La grande forza della natura e gli agenti atmosferici
hanno impiegato circa 13 milioni di anni per la formazione di questa
rarità geologica, estesa per 350 chilometri e larga da 6 a 30 chilometri,
ma quello che ha impreziosito maggiormente quello spettacolo naturale sono
stati i primi raggi del sole. L'anno scorso, stando seduti davanti alla
tenda di un beduino sull'altopiano infuocato del deserto del Sahara
tunisino, abbiamo assistito al sorgere del sole da dietro le dune sabbiose
che il vento forma e trasforma durante la notte, senza dubbio, è stato uno
di quei spettacoli che noi occidentali non siamo abituati di vedere; è
stato uno spettacolo unico e di una bellezza impareggiabile.
Le stelle erano già scomparse. Le più luminose soltanto scintillavano
ancora, cangiando colore e tremolando. Il sereno orizzonte tra cielo e
mare da nero, subito dopo si è fatto cinereo, poi bianco, riflettendosi
contro gli scogli che stavano di fronte a noi, fin dove l'occhio umano si
perde tra cielo e mare, era invaso dalla luce dorata dell'aurora.
Quando verso oriente e vedevo una grande aureola, quasi una mezzaluna
enorme, di un rosso sanguigno come il fuoco, che passava con sensibile
gradazione al rosa e si perdeva nel bianco uniforme del cielo.
" Quella è l'aureola luminosa che cinge la fronte, ancora celata del mare
immenso, di quell'astro, cui Iddio ha assegnato per padiglione i cieli,
come dice la Bibbia", così scriveva A. Stoppani, nel suo libro " Il Bel
Paese".
Mentre con Adriana stavamo osservando, seduti sul piccolo scoglio di
arenaria lambito dalle piccole onde del mare che pian piano si spegnevano
sul bagnasciuga, eravamo, immersi nei ricordi della nostra vita, quasi
rapiti in estasi in mezzo a quella calma solenne, un punto luminoso, un
raggio infuocato, come un dardo, come un razzo, si è acceso sull'estremo
oriente, entro quell'aureola sanguigna.
Attorno a noi, l'aria, le piccole piante del vicino giardino, i rami
lamellari delle palme, i fiori dei gerani, le erbe sembravano scosse da un
fremito, tutto l'universo pareva in quel momento animarsi.
Quel punto dardeggiante si ingrossava, la sua luce, d'un azzurro
indescrivibile, più decisa segna, con la sua luce, il confine tra terra,
mare e cielo e cresce… e piglia la forma di un disco tesissimo di acciaio,
immerso per metà nella linea profonda dell'orizzonte dove appare la linea
grigia della costa dell'argentario, sopra il quale si va levando sotto un
cielo divenuto azzurro, in faccia a quel mare grigio e profondo ove la
luce sembra piovere a ondate sempre crescente sul mare. In un attimo, in
un istante, che poi non è altro che una frazione millesimale del tempo che
passa e vola via, quel dardo infuocato ha raggiunto l'ultimo lembo della
spiaggia dove eravamo seduti.
Con l'elevarsi progressivamente del grande disco infuocato si avverte
nell'aria una strana malinconica tristezza, sarà stato la calma solenne
della notte che lascia il posto alla nuova caotica giornata
escursionistica sui sentieri tortuosi e impervi dell'isola del Giglio che
ci attendeva o qualcos'altro di più profondo? Il mistero, l'arcana,
incomprensibile per la ragione umana.
" Se la natura attraverso l'individuo cosciente vuole vivere, vuol durare,
la lotta degli uni contro gli altri impedisce di raggiungere questo fine.
Solo quando sottraiamo per un istante al frastuono o quando guardiamo al
di là della scorza del tempo, di questo mondo fantastico, quando
affrontiamo momenti decisivi, quando siamo scossi da momenti come questi
che la natura ci ha offerti, allora si rivela una presenza arcana,
tendiamo l'orecchio ad una voce, poniamo una domanda e attendiamo una
risposta. Così scriveva F. Alberoni: "Non c'è alternativa a questo
domandare, che spegnere la coscienza, annullare se stessi, la propria
oggettività e ritornare ad ammirare la natura", questa natura che oggi
stiamo osservando nel paesaggio più bello del mondo, che racchiude in
questo migro cosmo un borgo antico, bellissimo e meraviglioso.
Ancora eravamo assopiti dallo spettacolo eccezionale del sorgere del sole,
quando una voce dall'alto ci chiamava, era Maria e Fabio, i nostri amici
d'avventura escursionistica, che dalla finestra della loro camera
dell'albergo ci chiamavano e ci sollecitavano a fare presto perché la
colazione era pronta sul tavolo e gli amici escursionisti si stavano
preparando per intraprendere il lungo e tortuoso e faticoso sentiero, su
per il quale si raggiunge il borgo antico e medioevale di Giglio Castello,
da dove, tra storia e natura, da quel balcone panoramico si domina un
paesaggio mozzafiato.
GIGLIO CASTELLO
Subito fuori le vecchie mura del porto, una strada tortuosa e panoramica,
lunga 6 chilometri circa, si sale a Giglio Castello. L'antico borgo, che
con l'imponente Rocca Pisana, è racchiuso tra mura medioevali e
all'interno è percorso da viuzze, carruggi e piccole affacci panoramiche,
larghe quanto basta per lasciare passare un asino con il suo basto. In
quel borgo i ritmi della vita sono legati alle stagioni e l'atmosfera che
vi si respira appartiene ad altri tempi.
Il mattino di domenica 23 aprile, la maggior parte degli escursionisti,
hanno raggiunto alcuni " Poggi", splendidi punti panoramici dell'isola,
percorrendo un sentiero aspro e tortuoso. Raggiungendo il borgo del
Castello, come succede in tutte le escursioni, la squadra capeggiata del
sottoscritto, comprendenti tutti gli escursionisti lenti, non come intende
il cantante Celentano, ma perché impediti dagli acciacchi del tempo o
magari per l'anzianità, ci siamo serviti dai mezzi del servizio pubblico,
che ogni ora compiono l'intera corsa da Giogo Porto, al Castello e a
Campese. In questa nostra escursione autotrasportata, come dir si voglia,
abbiamo visitato la frazione di Giglio Castello, dove ha sede il Palazzo
Comunale, che é sito a quota 405 s.l.m. è cinto da imponenti mura
intervallate da tre torri a pianta circolare e da sette a base
rettangolare. Eretto dai Pisani nel XII sec. più volte ampliate e
restaurate dai Granduchi di Toscana, è a tutt'oggi pressoché intatto nel
suo interno. Il Giglio Castello è in realtà un abitato fortificato e la
porta di accesso è una struttura estremamente complessa che si presenta
come un avancorpo con numerosi archi che permettevano il tiro incrociato
di una fittissima schiera di arcieri. Sulla facciata interna dell'ultima
delle tre porte vi è la targa di marmo raffigurante lo stemma dei Medici,
che potenziarono il castello distrutto dai saraceni. Le imponenti mura
Medicee furono edificate sulle rovine delle precedenti pisane del XI sec.
All'interno del borgo, nella piazza sottostante la chiesa, si può ancora
vedere la cisterna realizzata alla fine del'700 dai Medici per risolvere i
problemi idrici. Le vie strette, spesso sormontate da archi, i balzuoli
(scale esterne per accedere ai piani superiori), la Piazza XVIII Novembre
sulla quale domina la Rocca Aldobrandesca, imponente struttura difensiva,
fanno di Giglio Castello una meta suggestiva, dal fascino unico, oggi uno
dei borghi medioevali meglio conservati ed originali in Italia.
La Chiesa di San Pietro Apostolo è stata costruita con tutta probabilità
nel XV secolo ed al suo interno si può ammirare un notevole numero di
reperti: un capitello corinzio del II sec. a.C. che sostiene
l'acquasantiera, le due statue del settecento di San Mamiliano e di San
Pietro, l'altare di marmo del XV sec. i reliquari dei Papi Urbano I e
Urbano VIII, gli arredi sacri di Papa Innocenzo XIII, le tre tele dei
Nasini, il Crocifisso d'avorio del XVI sec. attribuito a Giambologna, il
reliquario del 1724 contenente l'ulna destra di San Mamiliano ed esposte
in una teca di vetro le due sciabole e d una pistola con intarsi pregiati
abbandonate dai pirati durante l'ultimo attacco del 1799. Oggi, oltre alle
numerose botteghe e ristorantini caratteristici, si trovano ancora cantine
dove è prodotto e conservato il tipico, ambrato e robusto vino Ansonaco,
vanto dei produttori isolani
GIGLIO CAMPESE
Come abbiamo appreso, in questo nostro giro escursionistico, turistico e
culturale, Giglio Campese, fu l'ultimo a nascere come centro abitato e
costituisce oggi l'insediamento turistico più importante dell'isola con la
sua bella e ampia spiaggia sabbiosa, i suoi scoscesi sentieri, i suoi
affacci e le sue vedute spettacolari tra rocce, cielo e mare. La posizione
geografica rivolta verso l'isola di Montecristo, l'isola d'Elba e la
Corsica, ci ha regalato a noi fortunati escursionisti padani, paesaggi
bellissimi e tramonti mozzafiato che in questo periodo primaverile e nei
periodi estivi si protraggono addirittura oltre le 20 di sera, dando
quindi a questa fantastica località ben quindici ore di luce solare.
Abbiamo a lungo sostato in questa incantevole baia incontaminata è
incorniciata dal Faraglione da un lato, e dall'imponente Torre medicea
dall'altro. Quest'ultima fu costruita tra la fine del XVII e l'inizio del
XVIII sec. e mentre un tempo si ergeva completamente isolata sugli scogli,
oggi è collegata alla terraferma da un piccolo ponte. Abbiamo appreso che
la ragione della costruzione è stato il presidio della baia di Campese dai
frequenti attacchi dei pirati barbareschi e ha rappresentato la roccaforte
difensiva dell'eroica cacciata dei tunisini nell'ultimo attacco barbaresco
del 18 Novembre 1799.
I venti che spirano da sud, che qui giungono alle spalle, fanno della baia
una palestra ideale per gli amanti di surf e vela. Il lungomare oltre al
nucleo storico e caratteristico delle case "dei trenini" scorre coronando
la baia dove sono presenti sulla grande spiaggia numerose strutture
turistiche ma anche molte case private. Nella collina immediatamente a
ridosso invece è stata costruita di recente una zona residenziale di
costruzioni immerse nel verde. Abbiamo constatato inoltre che nella zona
della vecchia miniera ci sono dei recidence direttamente sul mare e
numerosi negozietti di souvenir.
Anche qui pullulano i diving center per i tanti appassionati subacquei che
frequentano l'isola, e più specificatamente i fantastici fondali famosi
anche all'estero. Recentemente l'Isola del Giglio è stata fregiata dal
Ministero dell'Ambiente delle "cinque vele" che denotano questo mare fra i
più puliti e incontaminati di Italia. E basta immergersi in queste acque
per rendersi conto della trasparenza e limpidezza che ci fa ammirare il
fondale dal pelo dell'acqua, anche se è profondo parecchi metri come sanno
i parecchi appassionati di snorkeling che raggiungono l'Isola del Giglio
da ogni parte di Italia e del mondo
Nel tardo pomeriggio, un gruppetto di escursionisti mantovani, stanchi e
accaldati, ci siamo riposati all'ombra della caratteristica ed antica
torre medicea, dove all'interno del suo stupendo giardino germogliano
piante esotiche e bellissimi fiori. Seduti sugli scogli e con le estremità
immerse nelle tiepide onde del mare, ottenendo un refrigerio, un beneficio
immediato, un sollievo della stanchezza fisica e spirituale. Da quella
posizione si poteva ammirare un paesaggio bellissimo e lo sguardo si
perdeva nella profondità del mare azzurro Oh si, il mare! Il mare
rappresenta da sempre il simbolo della libertà per eccellenza, che l'uomo
ha sempre sognato di evadere nei paesi lontani. Il mare é come una
splendida favola che ha sapore irreale, ma nasconde la ricerca continua
dell'uomo moderno che si trova confuso e smarrito in questo universo di
messaggi spesso contraddittori.
Addio piccolo angolo silenzioso, dove si ode soltanto il mormorio delle
piccole onde che si spengono fra gli scogli del vecchio castello, io mi
fermo qui, al confine tra la terra e il mare. Il tuo ricordo sarà sempre
con me.
L'isola di Montecristo.
Itinerario culturale
Il mattino di lunedì 24 aprile, alle ore 8: 30, dall'imbarcadero
dell'isola del Giglio, vi era ancorata la bianca e moderna motonave " Vega
Navigazione" che effettuava le "Crociere del Sole" nel parco nazionale
dell'Arcipelago Toscano. Per l'occasione era ad esclusiva disposizione del
gruppo escursionistico del CAI di Mantova, desiderosa di scoprire un
angolo solitario e meraviglioso; è salpata facendo rotta sull'isola di
Montecristo, un'isola ancora incontaminata dove la natura fa da padrona
assoluta fin dal giorno della sua emersione dal profondo degli abissi
marine. La prua della motonave era puntata verso quel punto immaginario di
quell'isola deserta in mezzo al Tirreno. Mentre l'imbarcazione si
addentrava sempre più verso il mare aperto, quel puntino grigio e
immaginario incominciava a prendere la forma di un piccolo scoglio, poi
man mano che ci avvicinavamo sempre più alla costa, assumeva le
caratteristiche di una vera isola, ma più che un'isola dalla sua
conformazione bassa e allungata ci sembrava la sagoma di un caccia
torpediniere, a centro della quale le piccole cime della sua elevazione
erano illuminate dai primi raggi del sole.
A velocità di crociera ci stavamo avvicinando all'isola del mistero e
della leggenda, di eremiti e pirati, celebrata da Alexandere Dumas nel "
Il Conte di Montecristo", è un cono di massa granitica che si eleva
rapidamente dal mare fino a raggiungere i 645 metri d'altezza. Un gioiello
della natura impreziosito da stretti valloni, falesie, dirupi e roccia
nuda che ovunque affiora all'improvviso. Questa é l'isola che non c'era,
ma oggi sappiamo che esiste veramente da migliaia di anni, da, quando è
emersa dagli abissi marine circa settanta milioni di anni fa. L'abbiamo
definita l'isola del silenzio, perché oltre al gracchiare dei gabbiani non
esiste alcuna forma o sorgente rumorosa, essa è emersa dai flutti di
questo limpido e profondo mare sotto forma di un fantastico paesaggio
lunare e metafisico. In questa nostra esplorazione, abbiamo constatato che
l'isola di Montecristo, è un'isola scoscesa, rocciosa e priva di terre
coltivate, non è mai stata colonizzata a fondo. La storia ci racconta che
gli Etruschi hanno iniziato lo sfruttamento forestale utilizzando i
secolari boschi di leccio. I Fenici, i Cartaginesi e i Liguri, usarono
Montecristo come base intermedia per i loro viaggi nel Tirreno. I Greci e
gli Etruschi chiamarono l'isola Ocrazia, per il colore giallastro delle
sue rocce. I Romani la chiamarono Oglasa e vi prelevarono massi di granito
per la costruzione di ville patrizie in altre isole e sulla terra ferma.
Esistono leggende su alcuni personaggi storici che qui vi trovarono
rifugio. Dall'ultimo dopoguerra l'isola è stata data in gestione a varie
associazioni, ma nel 1971, per garantirne la sicura protezione, è stata
concessa in gestione al Corpo Forestale dello Stato e fu dichiarata
"Riserva Naturale". E' un'isola bella e selvaggia, quanto inospitale
nell'aspetto, Montecristo è praticamente inaccessibile, se non per ragioni
scientifiche, essendo Riserva naturale. E' un vero e proprio giardino con
300 specie spontanee e terra di numerosi indemismi tra insetti, molluschi
e rettili, anche se ad imperare sull'isola sono soprattutto le capre
selvatiche. Rari ma significativi gli avvistamenti della Foca Monaca, che
in tutto il Mediterraneo conta poche centinaia di esemplari.
L'isola di Montecristo, come abbiamo fatto cenno sopra, è famosa per
essere nel titolo del famoso romanzo "IL Conte di Montecristo", di
Alexandre Dumas padre" che scrisse nel 1846. Essa è soltanto una piccola
isola sperduta in mezzo al Mediterraneo, è un'isola selvaggia e
disabitata, parzialmente coperta di macchia mediterranea, che costituisce
un importante luogo di rifugio e di riposo soltanto per gli uccelli
migratori. L'Isola di Montecristo è una delle isole più inaccessibili e
selvagge dell'intero Arcipelago Toscano, ed è anche quella più lontana
dalla costa. Composta prevalentemente di granito grigio - rosa, ha la
forma di una piramide lunga e larga ed è ricca di bassa vegetazione: E'
stato proprio l'aspetto inospitale che ha tenuto gli uomini lontani
dall'isola nel corso dei secoli, finché a partire dal V secolo,
navigatori, pirati, monaci ed eremiti non iniziarono a rendere "
abitabile" una parte del territorio.
Soltanto all'arrivo sull'isola della Motonave nel piccolo porticciolo a
Cala Maestra, è possibile vedere l'unica costruzione dell'isola, villa
Watson - Taylor, dove si trovano praticamente gli unici alberi antropici e
da giardino di tutta l'isola ed il resto è costituita da spuntoni di
roccia bruciati dal sole. La fauna dell'isola vede le capre selvatiche
come dominatrici incontrastate del territorio: vi sono, infatti, circa 400
- 500 capi, originari presumibilmente dall'Asia Minore, portati forse dai
Fenici o dai Romani, quali riserva di carne fresca ed ora inselvatichiti.
La loro voracità ha lentamente minacciato la macchia mediterranea
originariamente presente.
Cala Maestra:
Appena sbarcati a Cala Maestra, ci siamo resi conto che è aperta sul
versante nord- occidentale, è l'unica insenatura di Montecristo dove
l'approdo e l'attracco sono abbastanza agevoli, anche se nel caso di
cattivo tempo la particolare esposizione ai venti del quadrante costringe
i pescatori a ridosso del ripido scoglio isolano. Il vallone che vi si
affaccia è uno dei più ampi e l'unico spazio dell'isola abitato in
permanenza. Vi risiedono i guardiani cui si aggiungono, durante la bella
stagione, alcune guardie forestali.
Amministrativamente l'isola fa capo all'isola d'Elba, da cui dista circa
22 miglia nautiche; per potersi recare a Montecristo, dove vi sono solo
quattro abitanti: il guardiano, la moglie e due figli. Per accedere è
necessario ottenere un'autorizzazione apposita dal Ministero che è
rilasciata principalmente per motivi di studio ad Università o Enti di
ricerca. Abbiamo messo piede in quest'isola sperduta in mezzo al mare,
grazie all'interessamento dell'amico ed ex presidente del CAI di Mantova
Alessandro Zanellini, il quale ha promosso, diretto e organizzato
l'escursione, previa autorizzazione degli organi competenti, essendo il
CAI un Ente riconosciuto in campo nazionale e quindi non ci sono stati
problemi per il rilascio dell'autorizzazione a visitare l'isola di
Montecristo.
Come si é detto in prefazione, in quel luogo ancora selvaggio vivono
tranquillamente le capre selvatiche, i gabbiani e gli uccelli emigratori.
Durante la breve navigazione e stando tranquillamente sulla tolda della
motonave, oltre che ammirare l'orizzonte infinito tra cielo e mare,
nell'approssimarsi dell'isola solitaria, una famiglia di gabbiani dal
becco rosso, hanno incominciato a sorvolare la nave a bassa quota,
tuffandosi come facevano i Kamikaze giapponesi sulle navi americane nel
Pacifico nella Seconda Guerra Mondiale, con millimetrica precisione sulle
mani aperte dei turisti per prendersi la loro razione di biscotti
sbriciolati. Il significato della parola Kamikaze, significa " vento
divino"e proprio in quella brezza marina, che partecipa della natura della
divinità ,nell'approssimarsi all'isola con tanta grazia ed eleganza i
gabbiani volteggiavano in quel cielo turchino in segno di benvenuto. Era
veramente uno spettacolo bellissimo, che solo la natura sapeva offrirci.
La motonave scivolava lentamente sulle piccole onde del mare appena
spumeggiante, lasciando dietro di se quella scia bianca, spumosa e
trasparente, in quel vasto orizzonte azzurro e nonostante tutto era bello
e meraviglioso, come pure il sole dell'incipiente primavera con i suoi
colori caldi e luminosi, mentre la brezza del mare profumava di salsedine.
Osservando quell'orizzonte bellissimo, quel mare calmo, azzurro, profondo
e profumato che sembrava un paesaggio astratto e metafisico e ci dava
l'impressione di ammirare un quadro del grande pittore Giorgio De Chirico.
Eravamo tutti entusiasti e ebri di gioia, nel mettere i piedi su di
un'isola ancora vergine, così bella e a noi completamente sconosciuta.
Anche un branco di delfini, in rapido cambiamento, effettuavano dei
volteggi in segno di saluto. La visione di quei luoghi nella loro
selvaggia bellezza, mi hanno riportato in dietro nel tempo e mi hanno
fatto ricordare le lunghe ed uggiose sere padane, quando vicino al
caminetto acceso, leggevamo le bellissime pagine che il grande scrittore
francese Alexander Dumas padre, aveva così sapientemente scritto, mentre
si trovava in navigazione verso Napoli, per incontrare il generale
Giuseppe Garibaldi e il suo esercito. Sicuramente in quel viaggio,
sfiorando la piccola isola selvaggia di Montecristo, gli è venuto in mento
di scrivere il suo capolavoro, ambientando il suo racconto immaginario in
quel periodo storico, proprio in quel ambiente particolare, intitolandolo
appunto il "Conte di Montecristo".
Nel brano che segue e che abbiamo ritenuto molto interessante e
significativo, che abbiamo tratto da " Il Conte di Montecristo", dove
emerge il vero romanticismo culturale affermatosi in Europa nella prima
metà del secolo XIX ; contrapponendosi all'illuminismo e al classicismo,
affermava il valore del sentimento e della fantasia, come forze capaci di
mettere l'uomo in intimo contatto con la realtà vivente; in campo storico
- politico assegnava grande importanza alla tradizione, sentita come la
realtà spirituale più autentica di un popolo. In questo brano di grande
potenza letteraria, lo scrittore ci descrive e nello stesso tempo ci
trasmette le stesse sensazioni visive e di tranquillità, di quello stato
di calma, di serenità interiore e mancanza di apprensione agli elementi
naturali: quiete assolute, assenze di rumori e riposante, che abbiamo
provato prima, durante e dopo il nostro sbarco sull'isola della
tranquillità e dove dominano le leggi e i segreti della natura.
( . …) " L'orizzonte si allargava, ma non l'orizzonte cupo sul quale
aleggia un vago terrore, quale l'aveva osservato prima del sonno, ma un
orizzonte azzurro, trasparente, vasto nonostante tutto che il mare ha di
bello, che il sole ha di raggi, che la brezza ha di profumo: quindi, in
mezzo al canto dei suoi marinai, canto così limpido e chiaro, che se ne
sarebbe fatta un'armonia celeste se si fosse potuto, vedeva comparire
l'isola di Montecristo non più come uno scoglio minaccioso sui flutti, ma
come un'oasi perduta nel deserto; poi a seconda che la barca s'avvicinava,
i canti divenivano più numerosi, poiché un'armonia incantatrice e
misteriosa saliva da quest'isola al cielo, come se qualche fata come
Lorelay, o qualche mago come Amfione avesse voluto attirarvi qualche
spirito, o fabbricarvi una città.
Finalmente la barca toccò la riva, ma senza scossa, allo stesso modo che
le labbra toccarono le labbra, e sembrò a Franz di entrare nella grotta
senza che cessò questa incantevole musica; discese, o meglio gli sembrò
scendere qualche scalino respirando un'aria fresca e balsamica come quella
che circondava l'isola di Circe, composta di tanti profumi da far andar in
estasi, di ardori tali da far bruciare i sensi, e rivide tutto ciò che
aveva veduto prima del sogno, cominciando dall'ospite fantastico. Sindbad
fino ad Alì il muto servitore; poi gli sembrò che tutto si cancellasse, e
si confondesse sotto i suoi occhi come le ultime ombre di lanterna magica
che si spenga, e si ritrovò nella camera delle statue, illuminata soltanto
da una di quelle lampade antiche e pallide che ardono nel mezzo della
notte sul sonno della voluttà.
Erano le stesse statue belle per le forme e per la poesia, con gli occhi
magnetici, con i capelli abbondanti; erano Frine, Cleopatra, Messalina, le
tre donne più celebri per la loro dissolutezza; poi nel mezzo di queste
s'introduceva una di quelle ombre calme, una di quelle visioni dolci che
sembrano coprir di un velo gli occhi verginali.
Allora gli sembrò che queste tre statue avessero riuniti i loro amori per
un sol uomo e che questi fosse lui; che si avvicinassero dove faceva un
secondo sogno, coi piedi coperti dalle loro lunghe e bianche tonache, coi
capelli cadenti ad onde, in una di quelle pose irresistibili, con uno di
quegli sguardi inflessibili e ardenti, pari a quello che vibra il serpente
all'uccello, e che lui si abbandonasse a quegli sguardi, dolorosi come un
laccio, voluttuosi come un bacio.
Il sogno fantastico.
Allora gustò per qualche tempo quella fresca brezza che gli passava sulla
fronte, ascoltò il debole rumore dell'onda che moriva sulla spiaggia,
lasciando sulle rocce un contorno di schiuma bianca come l'argento; si
lasciò andare senza riflettere, senza pensare a quell'incanto celeste, che
hanno le cose della natura particolarmente, quando si esce da un sogno
fantastico: poi un poco alla volta la vita esterna così pacifica, così
grande gli rimandò l'inverosimiglianza del suo sogno, ed i trascorsi fatti
cominciarono a rientrare nella sua memoria.
Si sovvenne dell'arrivo nell'isola, del modo con cui fu presentato al capo
dei contrabbandieri, del palazzo sotterraneo pieno di splendore
dell'eccellente cena, e del cucchiaio di hashish. Solo, in faccia a questa
realtà, e in pieno giorno, gli sembrò almeno un anno che tali cose erano
avvenute, tanto il sogno che aveva fatto si era impresso nel suo pensiero,
e aveva preso forza nel suo spirito.
A tratti la sua immaginazione faceva apparire in mezzo ai marinai, o
traversare uno scoglio o librarsi sulla barca, una di quelle ombre che
avevano ricolma la notte di sguardi e di baci. Peraltro aveva la testa del
tutto libera, e il corpo perfettamente riposato; non alcuna pesantezza nel
cervello, che anzi risentiva un certo benessere generale, una maggiore
disposizione a godere dell'aria e del sole".
La bianca motonave " le Crociere del Sole", dopo circa due ore di
navigazione, per attraccare al piccolo molo di Cala Maestra, ha dovuto
fare una piccola e semplice manovra, una manovra dolce senza nessuna
scossa, è successo allo stesso modo come descrive lo sbarco il grande
scritto Alexander Dumas padre, "allo stesso modo che le labbra toccarono
le labbra". Ad attenderci allo sbarco a Cala Maestra, c'era una guardie
forestale, e precisamente il Maresciallo capo Eugenio Sereni, una
bravissima e simpatica persona, che ci ha dato il benvenuto nell'isola
selvaggia, nell'isola più sperduta e disastrata dell'Arcipelago Toscano,
dove vivono e si riproducono indisturbate da centinaia e centinaia di anni
le capre tibetane e i gabbiani corsi con il becco rosso, il nostro sogno
si era avverato.
LA FLORA E LA FAUNA.
Prima di parlare delle nostre impressioni, vogliamo fare un cenno sulla
flora e la vegetazione di Montecristo, che nel corso della sua storia, ha
subito gravi alterazioni a causa dell'azione antropica ( disboscamenti,
tentativi di bonifica, incendi ecc) e, attualmente, il carico elevato di
animali erbivori limita la sopravvivenza di molte specie di vegetali.
Abbiamo appreso e del resto ci siamo resi perfettamente conto, che tra le
specie animali presenti nell'isola, la più nota è la capra selvatica, uno
splendido animale molto simile allo stambecco e perfettamente adattato
all'ambiente rupestre. Questa specie di capra, come ci dicono gli studi
fatti dagli esperti, é largamente diffusa nel Mediterraneo orientale ed in
Asia, in Italia è presente solo su quest'isola. La capra di Montecristo è
stata oggetto di studi scientifici condotti dal Consiglio Nazionale delle
Ricerche.
Molto importante è l'avifauna, sull'isola è presente un'abbondante colonia
del Gabbiano Corso, specie mediterranea piuttosto rara, caratterizzata dal
colore rosso vivo del becco. La guardia forestale ci dice che é possibile
avvistare, come le capre e i gabbiani, anche qualche esemplare del Falcone
Pellegrino, del Gheppio e la rarissima aquila dei Monelli, nonché la
presenza dei simpatici delfini. Abbiamo osservato molti uccelli volare
nell'isola, ma non siamo stati in grado di distinguerli fra gheppi e
aquile, quelle che abbiamo molto ammirati sono stati appunto i gabbiani
dal becco rosso. Abbiamo appreso inoltre che l'isola di Montecristo è
assai importante anche per gli uccelli migratori che qui sostano numerosi.
Quello di cui siamo certi e che é un luogo veramente bellissimo e
solitario, posto in mezzo al mare blu, un luogo che l'abbiamo definito di
meditazione, di pace e di tranquillità dove attorno all'unica costruzione
dell'isola, villa Watson - Taylor, germogliano gli unici alberi di leccio,
di pino marittimo contorti dal vento. Esplorando le vicinanze del luogo
dell'approdo, si, perché di una vera e propria esplorazione si è trattato
di questo luogo selvaggio, bellissimo e solitario. Un luogo così non
l'avevamo mai visto prima, dove fra le rocce appuntite e gli scogli
spruzzati in continuazione dalle piccole onde del mare, abbiamo potuto
ammirare le violacciocche: piante esclusivamente mediterranee che crescono
spontanee o coltivate a scopo ornamentale per la varietà e la bellezza dei
fiori profumati, disposti a grappolo. Ammirando la bellezza di questi
fiori, il mio ricordo mi ha portato in dietro nel tempo e mi ha fatto
ricordare, quando con Adriana e la piccola principessa Tiziana,
passeggiando lungo la scogliera di Pinamare di Andora e raccoglievamo quei
profumati fiorellini. Anche oggi con Adriana è successo la stessa cosa di
allora, soltanto che sull'isola incantata e piena di mistero, ci siamo
dovuti accontentarci di ammirare quelle profumate pianticelle marine,
perché qui è severamente proibito persino bagnarsi i piedi nel mare.
Dopo lo sbarco, come spesso succede nelle nostre escursioni sui sentieri
alpini e dolomitici, la squadra si è divisa in tre tronconi. La prima
composta di Adriana mia moglie, ed altre signore, come Maria Artusi, la
signora Alice ed altre signore, che non si sentivano di effettuare la
lunga passeggiata che porta alle rovine dell'antico monastero isolano e
neppure sul piccolo promontorio dove sono istallate due telecamere che
controllano l'approdo. La nostra breve escursione l'abbiamo effettuata su
per un sentiero quasi pianeggiante lungo la vallata, raggiungendo la villa
che ha fatto costruire l'inglese Giorgio Watson Taylor che vi introdusse
eucalipti ed altre piante esotiche e antropiche come gli aranci e i
limoni. Altre signore si sono fermate a prendere il sole sulla grande
spiaggia. Di lassù abbiamo potuto ammirare un paesaggio bellissimo, un
paesaggio pittura e da sogno, tra rocce bruciate dal sole e dalla
salsedine. Potremmo definirlo un paesaggio tra cielo e mare, dove l'occhio
si perde nel profondo orizzonte azzurro e trasparente, nonostante tutto
ciò che il mare ha di bello in questa stagione primaverile. Proseguendo
oltre su quel sentiero quasi dirupato, fra le rocce dove le capre
selvatiche brucavano le cime dell'arbusto spinoso dei rovi che producono
le more. Oltre ai rovi, abbiamo ammirare sparute e profumatissime ginestre
che germogliano fra le rocce di colore giallastro, perciò Greci e gli
Etruschi, chiamarono appunto l'isola Ocrazia.
Mentre la squadra capeggiata da e guidata dal Maresciallo Eugenio Sereni
del Corpo Forestale dello Stato e seguita da Sandro Zanellini, si sono
incamminati lungo un irto sentiero che conduce alle rovine dell'antico
monastero isolano, posto a 345 metri di quota, nella località chiamata il
Convento. L'escursione ha avuto la durata di 2 ore circa. Come ci è stato
detto e quanto abbiamo potuto constatare, in quel luogo di una selvaggia
bellezza, tutto è rimasto come cinquant'anni fa, quando lo Stato Italiano
ha preso in gestione questo patrimonio naturalistico e unico al mondo.
Si, è stato proprio così. Tutti gli escursionisti mantovani eravamo ebbri
di gioia, nello scoprire questi luoghi aspri e selvaggi ma bellissimi; una
gioia che traspariva e si manifestava attraverso certi indizi di felicità.
Non erano certo gli stessi che presentavano gli uomini della ciurma e i
personaggi del romanzo di Alexander Dumas, " che quando sbarcarono
sull'isola di Montecristo, erano tutti inebriati e sotto l'effetto
dell'hashish e respirando quell'aria fresca e balsamica come quella che
circondava l'isola di Circe, composta di tanti profumi da far andar in
estasi, di ardori tali da far bruciare i sensi, e rivedevano tutto ciò che
avevano veduto prima del sogno".
Attorno a noi, oltre agli impluvi balsamici del mare, in quest'angolo di
paradiso terrestre, aleggiava il profumo aromatico della nostra pipa che
si diffondeva a cerchi concentrici di colore celestino e si sperdevano
nell'aria pura e balsamica del mare. Si, è proprio vero, il tempo non
scorre sempre allo stesso ritmo. Ci sono dei lunghi pomeriggi di primavera
come questo che stiamo vivendo oggi fra cielo, mare e terra o d'estate in
cui sembra quasi immobile. Ci sono degli istanti di felicità come questi
che svaniscono così in fretta che sembrano appena sfiorati dalla sua corsa
ansimante. In questi ultimi anni della nostra vita ci siamo accorti che il
tempo passa come un sogno. Qui, in quest'angolo sperduto in mezzo al mare,
per un attimo ci siamo resi conto che stavamo sognando, ma questo non è
stato un sogno qualunque, ma é stata una realtà di ciò che esiste e che in
realtà stiamo vivendo.
La grande abbuffata.
Il grosso della comitiva degli escursionisti sono rientrati alla base alle
ore 14,30, stanchi, felici e possiamo benissimo dire anche affamati,
perché la vita è fatta anche per assaporare un ottimo cibo, specialmente
dopo una lunga e faticosa passeggiata sui sentieri impervi dell'isola di
Montecristo. Negli alberghi come sulle navi, i pasti costituiscono una
cerimonia, e spesso desolante, vedere quelle coppie e quelle famiglie
ingerire in silenzio, con gesti forzati, su tovaglie impeccabili, un cibo
universale, da cui è stato accuratamente bandito tutto ciò che può
rammentare una regione o una stagione, nel nostro caso una lunga
escursione in un micron cosmo d'eccezione, ma queste scene non si addicono
agli uomini del CAI, che amano l'allegria e l'amicizia. Sulla motonave
tutto era pronto, perché il cuoco di bordo non è stato con le mani in
mano, ma si è dato da fare per preparare un lauto pasto a base di risotto
ai frutti di mare e una montagna di totani e gamberoni fritti al punto
giusto. Il tutto innaffiato da un vinello bianco dei colli toscani. Ci
siamo concessi una pausa di vera allegria, perché se in una gita, manca
l'allegria, manca il divertimento e la gioia di vivere. Mentre il lauto
pasto proseguiva, anche la motonave continuava il suo lento viaggio del
periplo dell'isola di Montecristo verso l'isola del Giglio.
Qui, nell'Isola del Giglio e di Montecristo, il nostro è stato un Week-end
fantastico e meraviglioso che non possiamo dimenticare così facilmente.
Mentre stiamo scrivendo, ci ritornano ancora alla mente i fantastici
colori dell'isola, i suoi paesaggi mozzafiato, la cordialità degli
abitanti, ma soprattutto i suoi coloratissimi tramonti sul mare che
accompagnano tali momenti della giornata. Si, è proprio così, perché tutti
questi spettacoli offerti dalla natura e dai fenomeni luminosi ci
rimarranno impressi nei nostri occhi, ma più che nei nostri occhi, queste
impressioni li abbiamo fissate sulla pellicola fotografica e sulla piccola
agenda di viaggio, per poi riportarle e farle rivivere in queste nostre
modeste pagine escursionistiche.
Il mattino del 25 aprile, a malincuore abbiamo lasciato quel paesaggio da
sogno, con un notevole bagaglio di ricordi, di idee e di nuove conoscenze,
che costituiscono per noi un vero bagaglio culturale, ci siamo imbarcati
sul traghetto per Porto S. Stefano. Nel corso del nostro breve viaggio,
stando seduto sulla tolda del traghetto ed ero intento ad ammirare quel
meraviglioso paesaggio dell'Argentario, ricordavo la sosta sugli scogli
nei pressi di Cala Maestra dell'isola di Montecristo, quando con Adriana e
gli altri amici escursionisti ci eravamo concessi una pausa sugli scogli,
per ammirare quel paesaggio infinito, mentre le onde del mare
s'infrangevano fra gli scogli dove eravamo seduti. Mentre ammiravamo le
piccole onde spumeggianti che s'infrangevano contro la scogliera,
sentivamo il gracchiare dei gabbiani con il becco rosso e il rumore cupo e
prolungato del mare, con il suo caratteristico muggito e il sibilo del
vento. Ci sembrava, nel nostro pensiero immaginoso, di ascoltare il
chiacchiericcio prolungato della ciurma e dei personaggi immaginari o
reali che s'aggiravano in compagnia del grande scrittore Alexander Dumas,
alla scoperta dell'isola delle capre, ma quello era soltanto frutto della
nostra fantasia sognante e irreale. Alla fine mi sono convinto, che senza
volerlo, stavo colloquiando dentro di me con il meraviglioso mare. " Oh
mio dolcissimo mare! Vorrei essere una barca per seguirti oltre
l'orizzonte e sentire ancora la tua voce e il tuo rumore cupo e
prolungato. Mi mancheranno le tue parole, il tuo respiro, il tuo cupo
ruggito, il rumore fresco e spumeggiante delle tue onde, esse sono come le
acque del fiume della vita, sono chiare come all'origine. Il principio e
la fine hanno la stessa luce.
Il mattino dell'ultimo giorno nell'isola del Giglio, alle ore 8,30 ci
siamo imbarcati sul traghetto per Porto Santo Stefano. Allo sbarco, con il
nostro torpedone raggiungemmo la cittadina costiera di Orbetello e
proseguendo lungo la laguna siamo entrati nel cuore selvaggio della
Maremma diretti nel borgo medioevale di Capalbio, dove abbiamo ritrovato
il piccolo nucleo dei giovani ciclisti, che ci stavano aspettando.
Già da lontano Capalbio si staglia in tutta la sua meravigliosa bellezza
di antico borgo medioevale, barbicato sul colle al margine della foresta;
è interamente da gustare la passeggiata lungo il cammino di ronda sulle
mura e poi attraverso il paese: ogni angolo è incantevole, con stretti
viottoli, archi, balconate. Abbiamo visitato la pieve di S. Nicola in
piazza della chiesa: l'interno, rigoroso e severo, presenta affreschi del
'400; la torre della Rocca, pure quattrocentesca, e l'oratorio della
Provvidenza, al di fuori delle mura, del 1500. Nei dintorni di Capalbio
trionfa il paesaggio maremmano: colline ondulate in vista del mare, zone
di splendida macchia mediterranea, greggi di pecore, campagne in cui qua e
là occhieggiano aziende agricole; spesso sulle strade più interne è
possibile incontrare animali, ma a noi non è capitato di osservare neppure
un esemplare, ma sapevamo che in mezzo alla macchia vivono tranquillamente
cinghiali, capre ed altri esemplari come istrici volpi e conigli. Lungo la
statale verso il litorale grossetano c'è una terra che ha il fascino degli
scampati. Salvata dal cemento e dagli uomini, dall'inquinamento e dalle
offese del tempo. È la zona meno popolata dell'Italia continentale, un
pezzo di mondo selvaggio, fatto di grandi spazi dove si muovono mandrie
allo stato brado, baie solitarie dove pascolano daini e cervi, boschi dove
si nascondono volpi e cinghiali. Un posto protetto da decine di riserve
naturali, dimenticato dagli uomini, che sono andati ad abitare qualche
chilometro più in là, negli splendidi borghi antichi disseminati sulle
colline. Forse per questo la bassa Maremma di costa, distesa lungo l'Albegna
e l'Ombrone, allungata in mare a pugno sull'Argentario, va scoperta con
l'animo dei viaggiatori di un tempo. A piedi, in barca o in sella a un
cavallo o magari starsene comodamente seduti su di un moderno pullman come
abbiamo fatto noi del CAI di Mantova.
Sulla via del ritorno del borgo antico di Caparbio, ci siamo fermati nella
"Baia d'argento", che sorge poco dopo il porto di Santo Stefano, dove in
quel luogo incantato della splendida costa, è ubicato l'Hotel Ristorante
Baia d'Argento a quattro stelle, dove eravamo attesi per il pranzo assieme
al gruppo degli amici ciclisti, che erano rimasti nella zona
dell'Argentario, dove Sandro Zanellini aveva prenotato per tempo il pranzo
dell'arrivederci. In quello splendido locale abbiamo concluso la nostra
festa di primavera; ma che dico, quella non è stata una festa qualunque,
ma un vero convivio all'insegna dell'amicizia. Parlando dell'amicizia il
Papa Benedetto XVI, l'ha così definita: " Amicizia significa comunanza nel
pensare e nel volere. E questa comunione di pensiero non è una cosa
solamente intellettuale, ma è comunanza dei sentimenti e del volere, e
quindi anche dell'agire".
Il "Menù" era all'altezza della situazione. Alla fine del convivio ci è
stato presentato lo chef: Ivan Silvestri, un giovane napoletano, simpatico
e promettente che da affidamento per l'avvenire, con il quale ci siamo
complimentati.
Il vento della sera
Abbiamo letto in questi giorni, sulla Rivista "Lo Scarpone" del mese di
marzo 2006, una storia singolare e molto interessante, che ci riporta
indietro nel tempo e ci fa rivivere gli ultimi momenti della fine della
Seconda Guerra Mondiale. Nel mese di ottobre del 1947, quando per motivi
di servizio, dal paese di Ormea, interessante per le rovine di un castello
del XI secolo, per la chiesa con i suoi affreschi tardo trecenteschi e per
le graziose abitazioni, che sorge a pochi chilometri dalle sorgenti del
Fiume Tanaro, dove ero giunto nel mese di agosto dalla Scuola Allievi
Carabinieri di Bari, fui inviato in servizio provvisorio nella cittadina
di Boves, che dista pochi chilometri dalla città di Cuneo ed oggi é una
Stazione di villeggiatura, nonché storica, perché appartenne ai marchesi
di Torino, di Susa e di altre famiglie; a partire dal XV secolo fu anche
dei Savoia. La cittadina di Boves si distinse nella guerra di Liberazione,
durante la quale diede un gran contributo alla Resistenza nel Cunnese, e
il 19 settembre 1943 fu pressoché distrutta per rappresaglia dalle SS
tedesche, che uccisero cinquantasette civili e che per questi atti di
resistenza al nemico, il gonfalone del Comune, fu insignito dalla più alta
onorificenza, con la medaglia d'oro.
Nelle vicinanze della cittadina, in un territorio demaniale, sorgeva una
zona militare in mezzo ad un grande bosco e forse sorge ancora oggi: un
complesso di casematte a mo di bunker, che altro non erano che una
polveriera militare. A vigilare questa polveriera, vi era stato distaccato
un plotone di fanti, giovani reclute del CAR di San Rocco.
Sistematicamente e quasi tutte le notti, si verificavano rumori e fatti
strani, perciò i giovani militari di guardia, spaventati e con poca
esperienza esplodevano colpi d'arma da fuoco. Il ripetersi di questi
attacchi notturni allarmarono i Comandi militari responsabili, così si è
deciso di prendere dei provvedimenti per appurare le cause e la natura di
tale allarmismo creatosi fra i militari stessi. Il Comando Provinciale dei
Carabinieri di Cuneo, incaricato dal Distretto militare, ha istituito un
nucleo speciale di militari dell'Arma. A questo nucleo fui aggregato
anch'io. Da carabinieri siamo diventati fanti, con l'equipaggiamento di un
soldato, viveri, armi, capi di vestiario di cui egli è dotato. Con lo
zaino affardellato, abbiamo raggiunto il distaccamento della polveriera di
Boves e ci siamo inseriti senza problemi al plotone dei fanti. La nostra
vita era cambiata totalmente, svolgevamo i normali turni di guardia alla
polveriera e usufruivamo della libera uscita come gli altri militari.
Nessuno ha mai dubitato della nostra duplice attività: quella da
investigatori e quella da semplici soldati. Nel corso del nostro normale
servizio, abbiamo scoperto che non c'era mai stato alcun attacco esterno,
come si pensava in precedenza da parte di gruppi di delinquenti e
partigiani sbandati che si erano dati alla macchia fra le montagne delle
Alpi Marittime e del Cunese, commettendo violenze, rapine e abigeato di
bestiame nelle baite e nelle campagne del nord, taglieggiando i pastori e
gli agricoltori, vessandoli e imponendogli il pagamento di ingiusti
tributi. Quelli erano momenti tristi per tutti, eravamo appena usciti da
quell'assurdo conflitto mondiale, da quella guerra devastatrice che ha
sconvolto non solo il nostro Paese, ma il mondo intero.
Quei giovani militari, che presidiavano notte e giorno quell'obbiettivo
militare di grande importanza, immerso fra i boschi di quella regione
quasi montagnosa, erano soltanto spaventati, specialmente nelle ore
notturne e bastava il fruscio delle foglie, il lieve rumore che
assomigliava ad un leggero sibilo prolungato, prodotto dagli animali che
strisciavano o dalle foglie mosse dal vento della notte. Ogni minimo
rumore percepito, specie durante le ore notturne, era amplificato al
massimo ed allora la paura aumentava sempre di più ed ecco il motivo del
continuo uso delle armi da parte dei militari di ronda fra le casematte
della polveriera di Boves.
Dopo il rapporto del nostro comandante della squadra, furono rimossi i
militari di leva ed il compito della vigilanza alla polveriera fu
assegnato all'Arma Benemerita, che distaccò due squadre, una diurna e
l'altra notturna per un lungo periodo di tempo. In quella occasione, nel
tempo libero, con i miei amici abbiamo avuto modo di visitare diversi
borghi e fattorie, specialmente nel periodo delle sacre campagnole, con il
ballo a palchetto, perché attratti dalle belle e fascinose piemontesine.
In una di quelle feste padronali ho conosciuto molte persone del luogo,
fra cui un ex partigiano, che tutti da quelle parti chiamavano "Giuvanin"
e svolgeva il mestiere del marangone, che durante la seconda guerra
mondiale, apparteneva a un movimento di resistenza contro i nazifascisti,
con il nome di battaglia " Lupo" e che comandava una brigata partigiana
nelle montagne del Cunese. Tra un bicchiere e l'altro dell'ottimo barbera,
in una vecchia e tipica osteria piemontese, ricordo che egli, tra l'altro,
mi raccontò una storia molto interessante relativa ad un giovane e baldo
ufficiale italiano e che dello ufficiale aveva soltanto la divisa, ma che,
in effetti, si trattava di un partigiano ebreo, un caso strano e unico
nella storia partigiana del nostro Paese. Quel giovane ebreo, oltre alla
divisa, aveva assunto anche il nome dell'ufficiale che la indossava. Egli
si chiamava Biancastella. Il vero nome del giovane ebreo era Heinz Josef
Burger, che per motivi che non seppe spiegarmi, aveva adottato la nuova
identità.
Dopo oltre cinquant'anni, così per caso, e grazie allo " Scarpone",
abbiamo appurato come Harry Burger è diventato il partigiano Biancastella
di cui il partigiano piemontese con il nome di battaglia " Lupo", ci aveva
a lungo parlato nella piccola osteria alla periferia di Boves e, come così
per caso, egli è diventato un vero partigiano partecipando a diverse
azioni di combattimento e di sabotaggio contro i nazifascisti nella valle
di Gesso, diventando un valoroso partigiano.
LA FUGA DI UN GRUPPO DI EBREI
RACCONTANO UNA STORIA EUROPEA.
Facciamo nostro l'articolo di Adriana Muncinelli, che nella valle di Gesso
della provincia di Cuneo i colli Finestre e Ciliegia raccontano una storia
europea legata agli eventi più tragici del Novecento. Attraverso questi
due colli dopo l'8 settembre 1943 transitarono in fuga circa un migliaio
di ebrei provenienti dalla zona della Francia, che fino a quel momento
l'esercito italiano aveva controllato come alleato di Hitler. Gli ebrei
francesi, ma soprattutto quelli stranieri riparati in Francia in tempi
diversi per sfuggire alla persecuzione razziale nei loro paesi di origine,
erano affluiti numerosissimi nella zona di occupazione italiana, poiché il
nostro esercito non consegnava ai tedeschi gli ebrei che si trovavano
sotto la loro giurisdizione, ma si limitava a inviarli in domicilio coatto
in zone dell'interno.
In seguito all'armistizio e alla conseguente ritirata in Italia dei
reparti della IV Armata, molti degli ebrei in domicilio coatto a Saint
Martin Vèsubie e molti altri saliti precipitosamente dalla costa Azzurra
tentano di passare, attraverso la montagna, in Italia dove si illudono di
trovare la salvezza dal momento che gli italiani li hanno fino ad allora
protetti dalla deportazione. Ignorano che anche in Italia sono in vigore
dal 1938 leggi razziali molto dure e rigorosamente applicate, ignorano
soprattutto che l'Italia è in corso di occupazione da parte dei tedeschi.
Il passaggio di questa massa di ebrei di tutta l'Europa attraverso il
colle delle Finestre e, in numero inferiore, attraverso il Ciliegia è un
vero e proprio esodo biblico: si tratta di uomini, donne, vecchi, bambini
spesso in tenerissima età, tutti male o poco equipaggiati, carichi di
fagotti e di bagagli.
Tra questi ebrei in fuga c'erano Harry Burger e sua madre Theresia, Simone
Gockman con il marito, la figlia e gli anziani suoceri.
I due Burger rappresentano ciò che resta di una famiglia benestante di
ebrei viennesi travolti dalla persecuzione razziale dopo l'annessione
dell'Austria alla Germania. Fuggiti in Francia attraverso l'Italia, grazie
alle disponibilità economiche che sono riusciti a salvare vivono qualche
anno relativamente tranquilli. La figlia maggiore col marito riesce ad
espatriare a Cuba. Con l'arrivo dei tedeschi la situazione si aggrava: il
padre viene più volte internato e infine deportato ad Auschwitz.
Rimasti soli, Harry e la madre sono inviati in domicilio coatto a Saint
Martin Vèsubie. Attraversato dopo l'8 settembre il colle delle Finestre,
secondo a Valdieri dove sono raggiunti dal bando tedesco che ordina a
tutti gli stranieri presenti nella valle di consegnarsi per l'internamento
nel campo di concentramento di Borgo san Dalmazzo: 349 si consegnarono e
di loro 329 saranno deportati ad Auschwitz il 21 novembre.
Harry, sua madre e un piccolo gruppo di ebrei, anziché obbedire al bando,
risalgono a Madonna del Colletto, di lì scendono in valle Stura per
trovare rifugio a Moviola, presso una famiglia contadina. E lì che Harry
incontra un nucleo di militari deciso a resistere e si aggrega a loro. La
madre rimarrà fino alla Liberazione nascosta in vari luoghi della valle
grazie all'aiuto dei montanari e dei partigiani. I Burger emigreranno
negli USA nel 1950.
Simone Gockman, salita a Guizza col marito e la bimba di due anni, aveva
invece attraversato il colle Ciliegia. Discesa alle Terme di Valdieri, la
famiglia sfugge alla deportazione trovando rifugio, tra diverse avventure,
prima nei pressi di Boves, poi a Spinetta, successivamente sulle alture di
Demonte.
UNA STORIA VERA
Harry Burger alias " Biancastella", racconta la sua straordinaria storia
di partigiano sulle montagne del Cinese: " Ero il più giovane nel mio
nuovo gruppo e questo mi faceva sentire bene. Avevamo intrapreso il nostro
cammino attraverso le montagne fermandoci alla baita di un cacciatore.
L'ufficiale in carica mi disse che ora ero uno di loro. Mi consegnò un
fucile e affermò che ero un libero combattente, un partigiano. Ciò sembrò
davvero solenne, e ne fui felice. Adesso sarei stato capace di rispondere
agli spari. Non sarei più stato cacciato come un animale(…).
Ero orgoglioso e pieno di aspettative. Passammo la notte nella baita
mangiando cibo in scatola e dormendo sulla paglia. Il giorno seguente
proseguimmo, arrampicandoci sempre più in alto sulle montagne. Giungemmo
ad un lago e trovammo un'altra baita che divenne il nostro quartiere
generale per un po' di tempo. Uno degli uomini aveva granate a mano
tedesche. Quando si tirava la linguetta, la granata esplodeva dopo sette
secondi. Il nostro compagno ne prese una, tirò la linguetta e la gettò
nell'acqua. Il lago era pieno di trote e la detonazione ne uccise un gran
numero. Tutto quello che dovemmo fare fu radunarle e portarle sulla riva.
Accendemmo il fuoco e mangiammo pesce per cena. Non ritenevo legale questo
modo di pescare, ma la guerra era dura. Per la prima volta da anni mi
sentii veramente sicuro. Questi ragazzi sapevano cosa stavano facendo. Mi
fidavo di loro, ma ero ancora ingenuo ed essi si approfittavano di me. Un
giorno uno dei tenenti disse che voleva scendere a valle per scoprire come
stava andando la guerra. Ero l'unico in abiti civili, e mi chiese di
prestargli il vestito. Sembrò la cosa giusta da fare, così barattai il mio
vestito con la sua uniforme e le mie scarpe con i suoi stivali militari.
Mi andavano bene, perché avevamo quasi la stessa taglia. Egli partì quasi
subito. Dopo alcuni giorni non era ancora tornato e fu dichiarato
disertore. Non pensai che questo fosse molto divertente; ora ero bloccato
nell'uniforme di un ufficiale italiano. I ragazzi risero e dissero che
d'ora in poi sarei stato un tenente di prima nomina.
Nella tasca interna del cappotto trovai i documenti dell'ufficiale. Il suo
nome era Enrico Biancastella. Era nato a Bari ora sotto l'occupazione
alleata, perciò non si sarebbe potuto rintracciare nulla se fossimo stati
catturati dai nazisti. Presi il nome di quell'uomo. Da quel momento fui
Biancastella.
Adottare una nuova identità mi andava a pennello. La vita che avevo
conosciuto come Heinz Josef Burger era finita. Non sarei cresciuto, non
avrei continuato il lavoro di mio padre, comprando biglietti stagionali
per l'Australia, Vienna e per l'opera. Le regole erano cambiate del tutto
e se fossi riuscito a sopravvivere a questa guerra avrei dovuto cambiare
anch'io. Con il nome Biancastella divenni subito una persona differente da
quella che ero stato prima. Divenni un combattente della Resistenza. .(…).
Per ricordare il 25 aprile, il giorno della Liberazione, abbiamo voluto
far rivivere l'episodio del giovane tenente ebreo dalla nuova identità,
che partecipò a varie operazioni militari e diventò un vero e valoroso
partigiano, contribuendo così alla campagna di liberazione del nostro
Paese.
Concludiamo questo flash di memoria, con la poesia della poetessa Mariella
da Mondovì, che abbiamo conosciuto alla fiera del libro ad Alessandria, il
7 giugno 1954, dove abbiamo acquistato il suo libro " Quello che è
avanzato": una racconta di poesie dedicate ai partigiani appartenenti alla
resistenza contro i nazifascismi.
AMORE GARIBALDINO.
"La casa è silenziosa e il lume è spento.
La luna inonda un campo di ginestra.
Col cuore in gola aspetta alla finestra
E intanto ascolta il murmure del vento.
So che stanotte tu dovrai venire.
Domani sarà giorno di battaglia;
Sarà un incendio tutta la boscaglia
E tu dovrai fuggire oppur morire.
Ma se ritornerai un'altra volta
Asilo mi darai al tuo covile.
Ti chiederò di offrirmi il tuo fucile
E il demone sarò dalla rivolta.
Mi sto cucendo una camicia rosa
E se non ti vedessi più arrivare
La indosserò a venirti a vendicare.
Poi mi farò gettar nella tua fossa.
Pasqua a Barcellona.
1989
Non ricordo chi abbia scritto, che non si riesce ad indovinare se sia
stata Barcellona, con le sue indimenticabili attrattive a trasformarsi in
giardino, oppure sia stata la natura stessa a trasformarsi in città.
Percorrendo le strade di questa fantastica città ad ogni modo si
percepisce l'anima di queste piazze, nei suoi angoli meravigliosi e pieni
di storia. Il loro gusto artistico è un prototipo dell'educazione
popolare. Come del resto anche le grandi città, Barcellona possiede
numerosi punti di partenza e di confluenza. Tra questi diversi centri
nevralgici vi è la grande, bellissima piazza della Catalogna, nucleo della
metropoli barcellonese. Essa è una città - stato con due milioni circa di
abitanti con lingua propria, il " Catalano". Fu colonizzata dai Celtiberi,
popolo dell'antica Spagna, risultante della fusione degli Iberi coi Celti
invasori, fu conquistata prima dai Cartaginesi e poi dai Romani nel II
secolo a.C.
Il nostro pullman, nelle prime ore del pomeriggio, si è fermato
nell'apposito spazio riservato ai torpedoni turistici, nella grande e
maestosa piazza della " Catalogna", mentre la nostra comitiva, con capo la
guida spagnola, anzi barcellonese, come amano precisare perché essi non si
ritengono spagnoli, abbiamo iniziato la nostra escursione turistica
attraverso la città. In questa importante piazza, sboccano e confluiscono
le più importanti strade della città, come la " Ramblas", " Ramblas de
Catalogna", Paseo de Gracia, Rondo de S.Pietro, " Puerta de Angel" e tante
altre bellissime vie. Dal punto di vista architettonico e monumentale,
Barcellona è capace di ricostruire da sé venti secoli di storia. Possiede
anche collezione d'arte romanica uniche al mondo, Abbiamo potuto accertare
che vi sono due importanti stazioni ferroviarie sotterrane ed altre due
del metrò con numerose reti di autobus.
Alberi, giardini, fontane e stupende sculture ornano il centro della
grande Piazza Catalogna, la cui decorazione, ci fa notare la guida, è
opera dell'architetto Norberto. Di fronte alla " Ramblas", in uno dei
suddetti giardini, spunta come d'incanto una delle più belle statue della
città. " La Diosa", cioè la Dea. Lasciamo alle nostre spalle la " Piazza
de Catalogna" andando verso il grande porto commerciale e turistico.
Percorrendo quest'arteria, non solo scopriamo l'aspetto più pittoresco e
peculiare della fisionomia barcellonese, ma godiamo anche una visione così
insolita ed affascinante che mai più dimenticheremo. Qualcuno, non
rammento chi, ha paragonato la Ramblas de lo Flores - dei fiori - al "
Marché aux Fleur" di Parigi e Piazza di Spagna a Roma. Tutto ciò è
prodotto dai suoi centenari platani, che fiancheggiano il marciapiede
centrale, ricoperto di verde fogliame e dalle caratteristiche bancarelle
colme di fiori, miracolo di colori e di profumi.
Caratteristico il continuo andirivieni di gente di tutti i Paesi e di
tutte le condizioni sociali, gente che può camminare in fretta immersa nei
suoi pensieri, oppure passeggiare ed ammirare tranquillamente i negozi, le
bancarelle, felice di andare per La Ramblas. Nella Ramblas de los Flores
meraviglia tra le meraviglie, si trovano gli edifici più importanti
architettonicamente di tutto il viale " La Virreina", cioè la viceregina.
Questo edificio, ci informa sempre la nostra simpatica guida Don Vittorio
fu iniziato nel 1772 e si concluse nel 1784, sotto la direzione dello
scultore Carles Crou. Finita la " Ramblas de los Flores" ci troviamo
d'innanzi alla facciata del grande " Teatro del Liceo". Anche qui
interviene Don Vittorio, la guida di Barcellona, che ci informa
dettagliatamente, dicendoci che è uno dei più bei teatri d'opera al mondo,
tanto rinomato e celebre per le sue rappresentazioni, quanto la Scala di
Milano. Il nostro percorso sarebbe più caratteristico, però incompleto, se
non dovessimo visitare, seppure brevemente, l'antico Ospedale della Santa
Croce, interessante miscuglio di successivi stili architettonici. Non
possiamo tralasciare nemmeno la visita alla Chiesa di "San Pablo del
Campo", che si trova alla fine della strada che porta lo stesso nome. Essa
è un tempio romanico degli inizi del secolo dodicesimo, con pianta a croce
greca. La porta principale è fiancheggiata da capitelli del settimo e
ottavo secolo. Di rimpetto alla Plaza Real, sempre nella Ramblas, sbocca
la strada " Conde del Azelto" è alcuni passi più avanti ci appare il
Palazzo del Coude Guell, una delle opere più fantastiche del grande Gaudì.
In fondo alla Ramblas, troviamo dinnanzi a noi l'ampio, chiaro e luminoso
panorama del Porto, con i suoi impianti di carico e scarico di merci, le
innumerevoli imbarcazioni di ogni sorta ed il mare che apre il suo ampio
orizzonte al nostro sguardo. Nell'ampio piazzale del Porto, nel centro, si
alza maestoso il monumento a Cristoforo Colombo, la cui riproduzione è
diventata il simbolo di Barcellona.
Effettuiamo una visita, sempre breve, al "Pueblo Spagnol", villaggio
spagnolo. Esso è un grande nucleo urbano nel quale sono stati riuniti gli
stili architettonici del Nord e del Sud, dell'alta montagna e del mare di
tutta la geografia della Spagna. La realizzazione di questo
interessantissimo villaggio, costruito nel 1927 è celebre, poiché è
un'opera unica. Al centro troviamo la Plaza Castellana a destra
costruzione in stile di Caceres e di fronte ed attraverso i portici di
Sangù ese troviamo la Piazza Major. Questa è formata da un insieme di
edifici in stile Aragonese di Burgos della Navarra, della Catalogna, di
Soria e della Pastiglia. E' preceduta dall'Edificio del Comune di
Valderrobes. In fondo a sinistra, si trovano le gradinata di Santiago
centro e una insieme di case della Galizia. Ci sono in fondo al quartiere
Andaluso e quello Catalano. In diversi luoghi del Pueblo si trovano le
botteghe artigiane in cui i mestieri sono svolti alla vista del pubblico.
In questo lungo giro, abbiamo inoltre visitato il Palazzo Nazionale nel
quale si trovano il museo della ceramica e dell'arte della Catalogna.
Nella sua bellissima piazza, destinata a Fiere ed ai Congressi, c'è la
Fontana Magica dalle diverse combinazioni di giochi d'acqua. Nell'ammirare
quell'opera d'arte, potremmo dire di esserci incantati davanti a tanta
bellezza e alla maestria con cui avessero costruiti gli giochi dell'acqua
zampillante, che formavano una coreografia bellissima.
Sullo sfondo di questa meravigliosa piazza, possiamo vedere le grandi
colline del Tibidabo, mentre alle sue spalle, sorge una stupenda collina
tutta in fiore. Su quella collina stavano sorgendo gli impianti sportivi
più importanti, due campi sportivi e una piscina olimpica, per i giochi
Olimpici del 1992, che si svolsero appunto, a Barcellona. In quella
bellissima collina, oltre agli impianti sportivi, con i lavori incorso, si
trovano diversi parchi di divertimento per i giovani, con tanti giardini
di piante grasse e di fiori. Di lassù si domina la città sottostante e la
scogliera con il suo mare azzurro.
In Plaza de Toros sorge Las Arenas, destinata alle celebrazioni delle
famose " "Corridas, mentre in Piazza Nuova, possiamo ammirare un
particolare della facciata dell'edificio del " Collegio degli Artisti",
con un fregio di Ricasso e con dipinti di Mirò. Il giorno di Pasqua, siamo
andati ad ascoltare la Santa Messa nella Cattedrale, una meraviglia
dell'arte in stile gotico Catalano. L'intera opera si distingue per la
saggia semplicità strutturale, per l'uso sobrio delle sculture, per
un'ingegnosa gradazione delle luci e per l'eleganza, la fermezza e
l'audacia della distribuzione di tutti gli altri elementi architettonici.
Mentre all'interno si stavano svolgendo i riti religiosi della S. Pasqua,
all'esterno sul piazzale della facciata principale erano radunate
centinaia di persone, vestiti con il caratteristico costume e al suono di
alcune trombe, chitarre e tamburelli ballavano il caratteristico e storico
ballo della " Sardana".
"Santa Maria del Mar" è un altro dei più belli e caratteristici monumenti
del nobile e severo " Gotico - Catalano". Nel nostro itinerario
percorriamo " l'Isolato della Discordia", un gruppo di case che salendo
sulla sinistra, si trova tra le strade " Consejo de Ciento" e " l'Aragon".
In questo breve tratto del " Paseo de Grecia", sono rappresentati i
diversi stili dei più noti architetti dell'arte moderna che predominò in
maniera assoluta nella Catalogna, verso la fine del secolo scorso. Fanno
parte di questa "Discordia" architettonica, come ci suggerisce Don
Vittorio, prima la casa di " Lieò Moreno", esempio dell'originale genio
dell'autore " Domenich e Montaner" - " Eurique e Segner". Bisogna mettere
in rilievo il fatto che Gaudì, per la configurazione dei volumi, delle
colonne e dei balconi della casa costruita nel " Paseo de Grecia", partì
dalla forma delle ossa umane. Si tratta di una delle opere più originali
dell'artista. Sono da notare la sommità e i camini della " Pedrera", cioè
della casa " Milò". Nessuno rimane indifferente, quando contempla la
grande forza della facciata dell'edificio " Pedrera", con ciclopica
imponenza del suo ingresso e della sua concavità.
Non potevamo non soffermarci d'ammirare un altro dei più grandi capolavori
del grande architetto " Gaudì"; il Tempio della " Sagrata Famiglia",
situato tra " Colle di Provenza e Colle de Mallotca". Da cenni storici, ci
risulta che i lavori della ciclopica costruzione del Tempio iniziarono nel
1882, dagli architetti Mortorelli e De Villar. Soltanto nel 1891 il Gavudì,
assunse la direzione e la realizzazione di quello che era stata destinata
ad essere la grande Cattedrale di Barcellona. L'Opera non è ancora
terminata. E' terminata invece la città " Giardino", il nuovo quartiere
residenziale che Gaudì aveva costruito nel 1904. Nel 1914, egli concludeva
i lavori di questo parco veramente rivoluzionario nell'ambito delle
manifestazioni artistiche, meritando il seguente elogio del " Corbusier":
" Fra tutti gli uomini della sua generazione, in architettura, il Gavudì è
stato quello che ha avuto una maggiore potenza creativa". E' assolutamente
d'obbligo, ci diceva la guida barcellonese, per tutti coloro che vogliono
conoscere Barcellona, giungere ad un altro dei luoghi significativi e
spettacolari. Si tratta del " Tibidabo", vale a dire il punto più alto
della catena montagnosa della " Calcerola" che sovrasta la città. Infatti,
risulta è un'eccezionale vedetta, da dove si può contemplare per intero
l'area occupata dalla metropoli di Barcellona.
Ampi terrazzi, piazzole, viali ed incantevoli giardini circondano il
monumentale tempio del Sacro Cuore ed il parco dei divertimenti. Di lassù
si ammira la città adagiata ai nostri piedi, con l'ampia distesa del
Mediterraneo che si prolunga verso il lontano orizzonte. Si ammirano
inoltre, la meravigliosa e variata ondulazione delle cime della catena
montagnosa " La Robassada". Già paghi e soddisfatti di quell'abbagliante
panorama. Abbiamo raggiunto il parco " Cervantes", situato sulla nostra
sinistra, un giardino stupendo nell'interno della grande città. Quanti
edifici, monumenti, opere d'arte racchiude dentro di sé questa stupenda
città mediterranea ed Europea. E' assolutamente impossibile in così pochi
giorni visitarli tutti. Il pomeriggio del lunedì di Pasqua, c'erano in
programma, la Plaza de Toros, il Monumentale, la più grande arena della
Spagna, situata sulla " Plaza de Espana" la celebrazione della prima
corrida - la "Corridas" della stagione. Quasi tutta la comitiva ha
partecipato a questa manifestazione a noi sconosciuta.
L'arena era al completo di spettatori provenienti da tutta l'Europa,
avidi, come noi, di godersi lo spettacolo unico e pittoresco, che
conteneva in sé la costante emozione di sentire dinnanzi l'avvicinarsi
della vita e della morte, come ha definito questi momenti il grande
scrittore Ernest Hemingwa nel suo libro Morte nel Pomeriggio. Era senza
dubbio caratteristico vedere l'allegra e festosa sfilata della " Cuadrilla",
comitiva che accompagnava ogni Matador inneggiato dagli " Olé del pubblico
che segue ogni movimento della cappa del " Torero" ed ogni disegno
eseguito da questi con la " Muleta", nella sua sfida al bruto. La morte è
costantemente presente in tutte le fasi del combattimento, fino al momento
dell'uccisione, che per il " Matador" costituisce l'ora della vita. La
sera dello stesso giorno, dopo cena, la comitiva con capo la nostra
hostess, signora Maria, ha raggiunto Calle Aribon, una traversa del Gracia,
al Patio Andalusa, per godersi l'ottimo spettacolo di canto e di danza "
Flamenca, degustando nello stesso tempo, delle ottime bibite dei migliori
vini catalani.
L'ultimo giorno della nostra permanenza nella bellissima città di
Barcellona, alle 8 del mattino, a bordo del nostro torpedone, ci siamo
portati a 60 chilometri ad ovest della città, fino a raggiungere il Monte
Segato, cioè a Montserrat ove sorge uno dei più suggestivi Santuari della
Spagna, quello appunto della Madonna del Montserrat, incastonato come una
pietra preziosa fra rocce di composizione arenaria, formate nell'arco di
milioni di anni, per cementazione di sedimenti sabbiosi, costituiti per lo
più da quarzo e rocce resistenti. Queste rocce sono incorniciate da una
vegetazione di arbusti e pini mediterranei. Vi è una caratteristica
funicolare che collega le Piazze del Santuario ed il sentiero della Santa
Grotta, dove secondo la tradizione fu trovata l'effige della Madonna di
Montserrat. Lungo questa gradevole passeggiata, fra rocce a strapiombo,
scopriamo gli impressionanti complessi scultrici del Rosario Monumentale,
fra cui risulta quello della Resurrezione, realizzato dal Gaudì e di
Limono. La funicolare di San Joan, sale fino a 1000 metri di quota. Dal
terminale raggiungiamo l'interno della montagna attraverso un sentiero di
facile percorribilità che ci porta fino alla vetta di San Jeronì, a 1.124
metri, il punto più alto di Montserrat. Da lì si gode una vista
incomparabile del Santuario e della Catalogna Centrale. E' un vero peccato
che la nostra breve vacanza Pasquale terminò così presto. Secondo noi,
fare terminare questo tour, in un luogo di preghiera e di pace, nonché di
meditazione, è stata la cosa più bella che avremmo potuto fare.
Dopo l'attraversamento di splendide colline, pianure e villaggi
caratteristici della Provenza, ecco la bellissima Nizza, con le sue
passeggiate al mare, le " Promenade des Angleis", con i suoi bellissi
alberghi e ville sparse nelle colline sempre verdi che circondano e fanno
da cornice alla città. Raggiungiamo la super strada panoramica che in
pochi minuti ci porta a Montecarlo. Dall'alto del promontorio ci appare
superba, con i suoi grandi edifici, divenuti caratteristici nella
fisionomia di Monaco.
Alla fine, dopo di aver percorso la zona delle piscine, di fronte al
porto, il pullman è inghiottito da una galleria scavata nella montagna
granitica, sopra la quale si erge maestosa la rocca medioevale di
Montecarlo. Il torpedone scende una rampa e si ferma in una rimessa
sotterranea. Un ascensore ci porta in superficie e ci troviamo negli
splendidi giardini botanici dietro la Cattedrale.
In una di queste caratteristiche stradine, vi è ubicato un tipico
ristorante all'italiana, gestito da genovesi e, per un certo senso,
potevamo dire di essere a casa nostra. Dopo un vero pranzo, forse l'unico
del nostro tour, e tra un brindisi e l'altro, era giunto il momento dei
saluti e dell'arrivederci da parte degli amici organizzatori e di quelli
della comitiva. Il tour era finito lì, al tavolo del tipico ristorante
alla genovese.
Tutta l'Italia piange il piccolo Tommy.
Oggi non è una giornata qualunque, una giornata serena come le altre, che
davanti al display luminoso del nostro computer cerchiamo di raccontare,
come al nostro solito, una storia o un'escursione sui sentieri
dell'Appennino o delle meravigliose montagne delle Dolomiti. Ma oggi, è
una giornata di tristezza e soprattutto di dolore che ci coinvolge tutti e
tutti ne siamo colpiti dalla vicenda del piccolo Tommaso, barbaramente
ucciso e che tutta l'Italia piange.
E' un po' che siamo seduti di fronte a questa pagina bianca e candida come
la neve, che in fondo significa purezza, come era puro il piccolo Tommy.
Al termine dell'Angelus, anche il Papa Benedetto XVI, dalla finestra del
suo appartamento ha detto: " Siamo tutti colpiti dalla vicenda del piccolo
Tommaso, barbaramente ucciso. Il Papa ha aggiunto "Preghiamo per lui e per
tutte le vittime della violenza.
Come il Santo Padre, anche il nostro presidente Arzelio Ciampi, appena ne
è venuto a conoscenza, è rimasto molto addolorato per l'efferato delitto
del piccolo Tommy.
La notizia della tragica morte di Tommy, che ha fatto il giro del mondo,
l'abbiamo appresa domenica sera 2 aprile, quando lo speaker del
telegiornale delle 20,30 di Rai Uno, con animo tremante, ne ha dato la
tragica notizia. In quel momento tutto il Paese si è fermato e abbiamo
pianto di commozione. Si è proprio così, la tragica e triste vicenda ci ha
commossi e turbati fin nel profondo dell'anima. Nessuno si aspettava una
notizia del genere, al più ci aspettavamo la sua liberazione, ma purtroppo
non è andata così.
In quaranta anni di servizio nell'Arma Benemerita, un fatto del genere non
si è mai verificato. Abbiamo perseguito diversi casi di criminalità, come
omicidi, rapine, sequestri di persona a scopo di lucro, truffe, furti ed
altri generi di reati perseguibili a norma di legge, ma il sequestro e
l'uccisione di un bambino in tenera età non è mai stato compreso nella
statistica dei reati perseguiti. Ecco perché il caso del piccolo Tommy, ci
sembra un caso strano, un caso anomalo e inconsueto. Ai miei tempi, e non
mi ritengo naturalmente un matusalemme, i bambini erano e saranno sempre
sacri, perché essi sono un dono mandato dal cielo e rappresentano il bene
più prezioso che esiste sulla terra.
Il caso del sequestro anomalo di Tommy, fece, suscitò, destò molto
scalpore in tutto il Paese. Seguendo la cronaca giorno dopo giorno, sia
quella televisiva che quella giornalistica, constatiamo che spesso i
neonati finiscono dentro i cassonetti della spazzatura o addirittura
occultati dentro gli armadi e ciò è dovuto, come ci dicono gli psichiatri
che studiano questo fenomeno, a turbe mentale o a inquietudine post parto
da parte delle madri, ma che i rapitori eliminassero un bambino quale
ostaggio, per ottenere un riscatto si è verificato pochissime volte nella
casistica della storia criminale.
Sulla prima pagina de "La Stampa di Torino" del 6 aprile, è apparso un
piccolo articolo, ma di grande contenuto morale dello scrittore Giorgio
Faletti, sul caso Tommy, che riportiamo in questo nostro contesto
letterario, per non farlo diventare caduco, fugace come il tempo che passa
e vola via.
" IL GENIO DEL CRIMINE"
"In questi giorni abbiamo tutti avuto una conferma della quale avremmo
fatto volentieri a meno. La conferma è che non esiste un genio del crimine
e che l'invenzione che attribuiscono al male un'intelligenza superiore
sono da riferirsi solo alle funzioni letterarie e cinematografiche. Ogni
scrittore, infatti, provvede agli autori dei suoi crimini di carta o di
celluloide l'intelligenza e la fantasia di cui è dotato. Ed è
l'intelligenza di un uomo che crea, nei limiti umani del termine, e non
distrugge.
Tutt'al più possiamo concedere a un criminale vero un'astuzia diabolica
che, come definizione, contiene già dentro di sé i germi della sua
autodistruzione. Infatti, il limite del furbo, nella sua eccezione
superiore, dell'astuto, è che non riesce ad esimersi dall'esibire il
frutto della sua furbizia. L'astuzia si pavoneggia e si compiace e come
tale deve essere nutrita con l'esposizione con l'esposizione di se stessa.
E di certo Mario Alessi doveva sentirsi molto astutamente, con una calma
la cui immagine ci perseguiterà ancora per molto tempo, proclamava la sua
innocenza e lanciava i suoi appelli per la liberazione di Tommy, alle
spalle una storia di squallore e miseria da rasentare l'artefatto o quanto
meno il grottesco.
Questa vicenda, inizia con un tentativo di sequestro condotto con una
stupidità e un'ignoranza abissali non solo nei modi, ma soprattutto negli
intenti, di certo non è finita qui. Ci sono ancora molte domande cui
togliere il punto interrogativo. A questo provvederanno gli inquirenti, la
cui intelligenza è stata tale da non concedere a questi assassini nemmeno
il privilegio della furbizia, secondo una comprovata logica investigativa
per la quale di solito la soluzione più semplice è anche la più probabile.
Una vanga, un cane, una voce sotto un casco, un'impronta male lasciata su
un pezzo di nastro adesivo, la memoria di una testimone che ha avuto la
presenza di spirito di scoprire che il cavallo di Troia dell'alibi
conteneva in realtà degli assassini. Quegli stessi che sono entrati in una
casa di gente che stava vivendo un suo frammento di vita e, fuggendo su un
ciclomotore, ne sono usciti da padroni della vita di un bambino di
diciotto mesi. Esercitando poi questo diritto di padronanza subito dopo,
nel modo che agghiaccia il sangue nelle vene a chi sia dotato anche del
minimo potere di visualizzare. Altre domande sono di tutti quelli che
augurano ai propri figli l'intelligenza e non l'astuzia: come mai un uomo
condannato a sei anni di detenzione per stupro in due gradi successivi di
giudizio, non si trovava in prigione? Come mai nessuno si è reso conto
dell'evidente probabilità che un uomo come questo, giudicato un violento e
un picchiatore, reiterasse questo tipo di reato? Come può essere che una
donna, madre a sua volta, possa accettare di condurre a termine un crimine
proprio contro la figura di un bambino? Come è possibile che la sete di
denaro sia ancora una volta più forte del diritto alla vita?
Anche le risposte sono a carico di tutti perché tutti, nessuno eluso,
siamo preposti a darle. Di conseguenza, da oggi in poi, la nostra precisa
responsabilità dovrà essere il ricordo.
IL CASO TOMMY.
Dopo questa breve introduzione di rammarico e di dolore, veniamo al caso
di Tommy. La sera del 2 marzo scorso, un mese esatto dal suo ritrovamento,
il piccolo ed innocente Tommaso Onofri è stato strappato all'affetto dei
suoi genitori e del fratellino Sebastiano. Tommy soffriva di epilessia e
la sera del rapimento aveva quasi 40 di febbre. Come si fa a non avere
pietà di un bambino così sofferente? Bastava guardare i suoi occhi
innocenti e pieni di stupore, ma le belve, perché di vere belve
assatanati, di persone crudeli e spietate si è trattato, ma queste bestie
feroci non l'hanno capito, perché non hanno saputo leggerlo negli occhi
innocenti del piccolo Tommy.
I telegiornali, Porta a Porta di Rai Uno Task-chow televisivi delle altre
reti, i quotidiani e i settimanali, ne hanno parlato molto diffusamente
del rapimento del bambino. Fra le tante piste investigative, come abbiamo
avuto modo di sapere, ne emerge una, la più angosciante: il bambino di
Casalbaroncolo sarebbe stato portato via su commissione. E poi l'avrebbero
consegnato a chi ne aveva ordinato il rapimento. Gli organi competenti, la
magistratura e le forze dell'ordine, polizia e carabinieri, hanno
scandagliato ogni anfratto, ogni casolare abbandonato e persino un corso
d'acqua nei pressi di Pontremoli, che una sensitiva aveva indicato in una
segnalazione, insomma non hanno tralasciato nessuna traccia investigativa,
lo hanno cercato dappertutto, ma del bambino nessun indizio, si era
volatilizzato e svanito nel nulla.
Gli inquirenti hanno detto: "Noi cerchiamo un bambino vivo. Siamo convinti
che Tommy sia vivo". E' stata una delle pochissime dichiarazioni ufficiali
uscite dalla Direzione distrettuale Antimafia di Bologna che coordina le
indagini sul rapimento di Tommaso Onofri, il bambino di un anno e mezzo
svanito nel nulla la sera appunto del 2 marzo scorso. Da quel giorno, per
le forze dell'ordine non c'é stato un momento di sosta. Pattuglie di
militari cinofili, sommozzatori, carabinieri del RIS di Parma e agenti
investigativi sono stati sguinzagliati nel triangolo del territorio del
reggiano, del parmense e del mantovano, per trenta giorni lo hanno cercato
e sempre con esito negativo. In questo continuo, estenuante e paziente
lavoro da certosino, sicuramente è stato raccolto molto materiale
investigativo, che prima o poi darà i suoi risultati o per lo meno, sarà
molto utile ai fini delle indagini.
LE CONFESSIONI DI MARIO ALESSI.
"Il piccolo Tommaso Onofri è stato ucciso pochi giorni dopo il rapimento
avvenuto il 2 marzo a Casalbaroncolo. Lo ha confessato Mario Alessi, il
manovale siciliano fermato, nel corso degli interrogatori di oggi primo
aprile. Proseguono intanto le ricerche del corpicino del bimbo, vicino al
torrente Enza, proprio a ridosso tra le province di Parma e Reggio Emilia,
vicino a San Ilario d'Enza. Sul posto sono arrivati immediatamente anche i
Vigili del fuoco. Dal luogo presidiato dalla polizia che tiene lontani
giornalisti e curiosi, si è allontanato l'avvocato di Mario Alessi, Laura
Ferraboschi.
Nel tardo pomeriggio erano stati fermati, oltre ad Alessi, anche Salvatore
Raimondi, presumibilmente il pregiudicato siciliano che aveva lasciato
l'impronta sul nastro adesivo e Antonella Conserva, che sarebbe la
compagna di Mario Alessi.
Prima o poi qualche cosa doveva succedere, era nell'aria, infatti, dopo un
mese esatto dal suo rapimento, il cadavere di Tommaso Onofri, è stato
trovato dai vigili del fuoco nell'area lungo il torrente Enza, ad una
ventina di metri dal corso d'acqua. Il bambino, secondo alcune
supposizioni, sarebbe stato strangolato e secondo altri ucciso con un
colpo di badile alla testa, ma sarà l'autopsia a stabilirlo con esattezza.
Gli inquirenti sono giunti sul luogo accompagnati dal manovale siciliano
Alessi, indagato per concorso in rapimento. L'uomo sulla quarantina e con
un processo in corso per concorso in violenza sessuale, era stato già
indagato per falsa testimonianza dopo che il suo alibi non aveva trovato i
riscontri da parte degli inquirenti. Questi ha riferito che l'uccisione
del piccolo è avvenuta durante la fuga e la caduta in scooter, ma su
questa versione c'è discordanza con l'altro rapitore, Salvatore Raimondi.
Sembra che a colpire il bambino sia stato il Raimondi, ma lo hanno
sotterrato insieme.
E' stato Cesare Contini, lo zio del piccolo Tommaso Onofri, il cui corpo è
stato ritrovato appunto ieri, a Sant'Ilario d'Enza, vicino al torrente
Enza, a riconoscere la salma del bimbo rapito. Il riconoscimento è
avvenuto all'obitorio dell'ospedale Maggiore di Parma. Il riconoscimento é
durato circa un quarto d'ora e si è concluso intorno alle 9: 30. Per
chiarire l'intera vicenda, naturalmente non bastano queste poche e
spontanee dichiarazioni rilasciate dagli autori del crimine. Ma le
indagini degli inquirenti proseguono per scoprire e fare completa luce sul
vero movente del delitto.
Alle 15 di oggi 9 aprile 2006, a Parma si sono svolti i funerali di Tommy
in diretta tv su Rai Uno: la cerimonia funebre del bimbo di 17 mesi
sequestrato e ucciso è stata officiata dal vescovo Bonicelli.
Dopo un mese vissuto nell'incubo, e una settimana dopo aver appreso la più
orribile delle verità possibili, per Parma e per tutta l'Italia, è
arrivato il momento del silenzio, della riflessione e della preghiera.
Oggi alle 15 si sono svolti i funerali di Tommaso Onofri, (diretta tv su
Rai uno dalle 14.55) in quella meravigliosa Cattedrale, romanico -
lombardo che è uno dei più belli dell'Italia settentrionale; nella cupola
è rappresentata l'Assunzione di Antonio da Correggio, che molti anni fa
l'abbiamo visitato e ammirato per la prima volta e che proprio quest'anno
celebra i suoi 900 anni di vita e di storia. Abbiamo rivisto quella
stupenda Piazza medioevale, al fianco il Battistero vicino alla
Cattedrale, con preziosi rilievi all'esterno e all'interno; quelli
raffiguranti i mesi dell'anno sono tra i migliori dell'epoca in Italia.
Quella Piazza era gremita di gente, giunta da ogni parte d'Italia, per
dare l'ultimo saluto a Tommy. Abbiamo appreso dal cronista che sono state
distribuite a chi ha partecipato alle esequie, oltre 50 mila foto di Tommy.
Un telegramma inviato dal Card. Sodano al vescovo di Parma. Da Benedetto
XVI una speciale benedizione apostolica.
Nel corso delle esequie funebri, il vescovo di Parma mons. Silvio Cesare
Bonicelli, ha letto il telegramma della segreteria di Stato vaticana,
firmato dal segretario di Stato, Cardinale Angelo Sodano, indirizzato al
vescovo di Parma mons. Silvio Cesare Bonicelli, il Papa ha voluto inviare
il suo estremo saluto al piccolo Tommaso Onofri, ricordandolo come una
"innocente vita stroncata da inumana violenza", e nello stesso tempo far
giungere la sua spirituale partecipazione ai familiari e ai presenti ai
funerali, così come all'intera cittadinanza di Parma "colpita da così
grave lutto". "Allo stesso tempo - si legge nel telegramma - il Santo
Padre eleva preghiera al Signore perché accolga l'anima del piccolo
defunto e conforti i genitori e quanti ne piangono la tragica morte
suscitando anche pentimento in quanti hanno perpetrato esecrando crimine".
Da parte del Papa anche una speciale benedizione apostolica.
"Il sacrificio di Tommy non sia inutile"
Parla il padre del bimbo ucciso: ""Alle 50.000 persone che sono venute ai
funerali dico grazie, ho provato profonda emozione".
PARMA - "Ho provato profonda emozione e angoscia": è stato questo il
sentimento di Paolo Onofri, uscendo dal Duomo di Parma ieri, subito dopo i
funerali di Tommaso, vedendo la folla riunita per dare l'ultimo saluto al
bambino di 17 mesi rapito e ucciso alle porte della città emiliana. "Alle
50.000 persone che sono venute ai funerali dico grazie - ha detto il papà
di Tommy ai microfoni di Italia Uno - e spero che le persone accolgano il
nostro pensiero, cioè che il sacrificio di Tommy non sia stato inutile.
Perchè la vita umana è sacra". L'emozione è stata forte per quella Parma
che si è stretta attorno alla famiglia Onofri, e dopo essere stati quasi
due ore dentro al Duomo, la luce del sole e la folla hanno fatto uno
strano effetto: "Sembrava un grande sogno - ha continuato Paolo Onofri, ma
forse è il più grande incubo".
09 aprile 2006.
BLOCCATO IL CENTRO DI PARMA
Dalla grande finestra della televisione di Rai Uno, abbiamo potuto seguire
tutte le fasi del funerale di Tommy, Abbiamo potuto vedere che il centro
storico e le vie che sono state percorse dal corteo funebre proveniente
dall'ospedale Maggiore erano transennate, molte strade erano chiuse al
traffico e in quelle adiacenti la Cattedrale non si poteva nemmeno
appoggiare una bicicletta al muro. La cerimonia funebre è stata officiata
dal vescovo di Parma monsignor Cesare Bonicelli: vi sono stati anche
interventi del legale nonché amica di famiglia degli Onofri, Claudia
Pezzoni, e del presidente del Comitato per la liberazione di Tommaso,
Claudio Borghi. Inoltre alcuni bambini hanno letto poesie dedicate a Tommy.
LUTTO CITTADINO A PARMA
Naturalmente per la giornata di oggi è stato osservato il lutto cittadino:
bandiere a mezz'asta in tutti gli edifici pubblici, e in concomitanza con
l'inizio del funerale, i commercianti hanno abbassato le serrande dei
negozi, mentre gli autobus si sono fermati. L'invito, arrivato dal
vescovo, è quello di partecipare in silenzio, senza alcuna esposizione di
bandiere, vessilli e simboli di qualsiasi genere di appartenenza. Oggi
tutta l'intera comunità si è stretta per l'ultima volta attorno al suo
piccolo innocente, divenuto simbolo dell'atrocità dei tempi: e in Duomo -
così come nel piazzale antistante era altrettanto gremito - c'era posto
solo per il dolore, il silenzio e la preghiera. Al termine del funerale,
il feretro è stato fatto proseguire per il piccolo cimitero di Tizzano,
il. paese dell'Appennino di cui è originaria la madre Paola Pellinghelli,
dove Tommaso verrà sepolto.
ADDIO TOMMY.
Addio piccolo Tommy! Non posso fare altro che dirti addio! Vorrei essere
un poeta per scrivere una bella poesia come hanno fatto moltissimi
bambini, persone comuni e carcerati ma dato che non lo sono, ho preso in
prestito questi meravigliosi versi del grande e immortale poeta Giosué
Carducci, che dedicò al suo diletto e amato figlioletto:
" Pianto antico"
L’albero a cui tendevi
la pargoletta mano,
il verde melograno
da’ bei vermigli fior,
nel muto orto solingo
rinverdì tutto or ora
e giugno lo ristora
di luce e di calor.
Tu fior de la mia pianta
percossa e inaridita,
tu de l’inutil vita
estremo unico fior,
sei ne la terra fredda,
sei ne la terra negra;
né il sol più ti rallegra
né ti risveglia amor.
Ciampi apre la XX Olimpiade invernale a Torino
Le olimpiadi di Torino, ci richiamano all'antichità greca - Istituita
secondo la tradizione da Pelope dopo la sua vittoria su Enomano, re di
Pisa, o da Eracle in onore del padre di Zeus, secondo gli storiografi del
IV secolo a C. la prima Olimpiade ebbe luogo nel 776 a. C. Celebrati
dapprima sotto la direzione dei Pisati, ai quali si sostituirono in seguito
gli Elei, e frequentati in origine solo dalle genti dell'Elide, i giochi
duravano un giorno e comprendevano soltanto gare di corsa a piedi e di
lotta, cui ben presto si aggiunsero anche altre gare ( gare di cocchi, a
cavallo, pentathlon, pancrazio, ecc). Parimenti col passar del tempo,
accolsero atleti provenienti da ogni parte della Grecia e dalle colonie,
mentre la loro durata fu estesa dal 472 a.C. a cinque ( o sette) giorni.
Prima dell'inizio dei giochi venivano inviati messaggeri sacri che ne
annunciavano la prossima celebrazione invitando tutti i Greci a
parteciparvi e proclamando la tregua sacra. Gli atleti che dovevano essere
di stirpe greca e di condizione libera e non aver subito alcuna condanna,
giungevano a Olimpia dieci mesi prima dell'inizio dei giochi, per allenarsi
sotto la sorveglianza degli anodici. Ogni città inviava una delegazione
ufficiale ( teoria). Il primo giorno dei giochi, celebrati nella tarda
estate, era dedicato alle varie cerimonie religiose, fra cui il giuramento
degli atleti e dei giudici presso l'ara di Zeus Orchio. I giochi veri e
propri si svolgevano nei giorni seguenti e comprendevano varie gare, nelle
diverse discipline. Nelle Olimpiade moderne, pressappoco si svolgono gli
stessi riti e le stesse cose che succedono allora.
Le Olimpiade moderne, sono sorte su iniziativa del francese Pierre de
Coubertin che convocò a Parigi nel 1893 un congresso internazionale di
organizzazioni sportive, da cui nacque il CIO, le Olimpiade o giochi
olimpici moderni, dopo i primi faticosi inizi, si affermarono come una
grande manifestazione sportiva, da cui non erano estranei gli aspetti di
prestigio nazionale e politico, ma nella quale erano soprattutto affermati
i valori morali della lealtà e della fratellanza sportiva. La cerimonia
inaugurale dei giochi prevede, fra l'altro, il giuramento olimpico,
prestato da un atleta, e l'accensione del braciere che arde per tutta la
durata dei giochi, con fuoco trasportato con la fiaccola olimpica da una
staffetta di tedofori da Olimpia in Grecia, che ha fatto il giro di tutta
l'Italia, percorrendo 11 000 km. Ieri sera 10 febbraio nel grandioso stadio
addobbato a festa, si è svolta l'inaugurazione della XX Olimpiade invernale
di Torino, che per due settimane è la capitale indiscussa del mondo.
Abbiamo assistito alla grande sfilata degli atleti e per la prima volta le
due Coree hanno sfilato insieme. La grandissima atleta, Stefania Belmondo
ha acceso il tripode davanti a due miliardi di telespettatori.
Abbiamo invidiato le migliaia di persone che hanno assistito a questo
eccezionale evento mondiale nello stadio di Torino, che per l'occasione è
stato trasformato in un grande salotto vestito di bianco, ma noi non
abbiamo potuto fare altro che seguire la cronaca in diretta Tv, come del
resto lo hanno fatto milioni di altri telespettatori, standoci seduti nella
comoda poltrona di casa nostra, a fianco il caminetto acceso, mentre di
fronte a noi il televisore che trasmetteva l'evento più atteso dell'anno:
le Olimpiadi invernali di Torino. E' stato uno show emozionante e senza
precedenti. Con il telecomando abbiamo fatto zappign tra il canale di Rai
Uno e quello di Rai Due. Sul primo canale cera Pupo, che come fa tutte le
sere conduceva la fortunata trasmissione dei " Fatti vostri, mentre sulla
Rete Due, dalle ore 19, hanno avuto inizio i festeggiamenti del grande ed
emozionante show dell'Olimpiade invernale di Torino.
LO STADIO RINASCE VESTITO DI BIANCO.
Il cronista Roberto Beccantini, così ci racconta l'anteprima dell'inizio
della grande festa Olimpica nello stadio di Torino, che rinasce vestito di
bianco.
"Da Claudio Sala a Laura Bush, però questo stadio ne ha fatta di strada".
Ecco le prime parole famose dei Giochi torinesi ( o torinisti?). Le
pronuncia Piero Chiambretti in versione orso bianco. Si chiama pre- show:
introduce l'introduzione. Le sette in punto, l'arena è ancora mezzo vuota,
il pre - show serve a svegliarla, a collegarla con la storia che passa.
Prove di ola, esercizi di euforia. Sarà il freddo, sarà lo scarso
allenamento, ma rompere il ghiaccio, tanto per usare un lessico adeguato
alle circostanze, è tutt'altro che agevole. L'istruttore si sgola. Meglio
Irene Grandi e il suo aggressivo " Nel blu dipinto di blu". I
telespettatori potenziali sono due miliardi e mezzo, ma non è ancora il
momento. Lo sarà a minuti. Il mondo " oscurato" si perde, così, l'ultima
puntata della striscia Pietro § Del Piero, entrambi tedofori per le vie
della città, " la fiaccola mi è caduta - sorrido Chiambro - e così si è
bruciato l'uccellino di Ale". Domina il bianco: se non ora, quando? Bianchi
i ponchi in omaggio al pubblico, bianchi i sedili dell'arena: nel dubbio…
L'attesa ha il suo fascino, è una fata senza bacchetta magica che ci conta
e ci sbircia. Misura la febbre dell'evento. Lo speaker annuncia, marziale,
ed ora in poi non si potrà più uscire. Siamo tutti prigionieri di un sogno
dentro una scatola di cemento mai così armato, vista l'alta concentrazione
di teste coronate. Penso all'avvocato Agnelli. Questi sono i suoi Giochi.
Li ha voluti e suggeriti. Ricordarlo è il massimo. Torino respira con il
timbro della voce che scandisce il conto alla rovescia. Il cielo è un tappo
nero che preme sulle bollicine dell'impianto. Sinistri ronzii di elicotteri
accompagnano la colonna sonora. Sembra uno stadio di neve, l'Olimpico di
Torino, con i riflettori che, fiocchi giganteschi, disegnano traiettorie
seducenti. Dopo un siparietto con Gustav Thoeni, Chiambretti toglie il
disturbo. Ha fatto da apripista. Cortina 1956, Roma 1960, Torino 2006:
signore e signori, che la festa (ari)comincia.
Il Capo dello Stato prima di aprire ufficialmente i giochi ha visto molti
siti della città. La giornata del capitano Ciampi, come titolo il
quotidiano "La Stampa di Torino", ha detto: " Sono felice di essere a
Torino". Con un poco di emozione, nella voce. " Dichiaro aperta a Torino la
celebrazione della ventesima edizione dei giochi invernali".
Il giornalista Giovanni Cerreti, così incomincia il suo articolo: " Erano
le 22,10. Precisazione sabauda, puntualissimo, Carlo Azeglio Ciampi ha
appena battezzato queste Olimpiadi e adesso sono tutti in piedi. Saluta con
le due braccia alzate, il Presidente. E sorride contento, dev'essere anche
emozione. Rogge presidente del Cio ha detto " grazie Torino, grazie
Italia". Castellani presidente del Toroc ha aggiunto un "grazie presidente
Ciampi per averci sostenuto, grazie per essere qui". Ora, che si accenda il
braciere. E' andata, ci comincia davvero.
Il freddo è un fastidio e Ciampi si era appena messo i guanti di lana,
quando sono entrati i 183 del Team Italia. Salti, balli e canti.
Portabandiera è Carolina Kostner, la colonna sonora di Lucio Battisti, "
Una donna per amico". In piede, divertito dall'allegra banda che gli sta
sfilando sotto e manda saluti e baci, Ciampi ricambia e accompagna la
musica muovendo la mano come un direttore d'orchestra. Aspettando la
fiaccola olimpica e forse questo il primo vero momento di emozione, di quel
brivido che accompagna l'ingresso nello stadio della nazionale della neve e
arriva su fino al Presidente.
E' durata quasi un'ora la sfilata di squadre e bandiere, Ciampi è in
tribuna d'onore, accanto a Jacques Rogge presidente del Comitato
Internazionale Olimpico e partecipa divertito agli applausi di benvenuto.
Si adegua al pubblico, che aumenta il battimani per le delegazioni più
scarne o più strane: per i due rappresentanti di Bermuda, per i tre
dell'Etiopia con i capelli da rasta, per l'unico del Kenia o Nepal. Saluta
le due Coree per la prima volta dietro una bandiera sola. Il livornese
Ciampi, si scopre in tribuna, la passione per gli sci l'ha praticata nel
suo rifugio in Abruzzo, sull'altipiano di Rocca di Mezzo.
In mezzo allo stadio abbiamo visto Piero Chiambretti che chiambretteggia,
la diretta tv sta per incominciare e Ciampi ( " Ci vedranno due miliardi di
persone!") va a prendere posto. " Siamo felici e affascinati", come dice la
signora Franca. Sarà una gran bella serata per una bellissima figura. Anche
per il Presidente Ciampi.
TRA IL SERIO E IL FACETO.
Nel nostro zapping serale televisivo, tra il serio e il faceto, dalla
trasmissione molto popolare di Pupo ad "Affari Vostri", siamo passati
definitivamente su Rai Due ed abbiamo seguito fino alla fine del programma
inaugurale dell'apertura dei giochi olimpiade di Torino. Essendo noi
veterani dell'Arma Benemerita, l'alzabandiera e l'inno cantato da quella
bellissima bambina, oltre a farci venire la pelle d'oca, quel senso di
commozione, quello stato d'animo di cui si prova quel vivo sentimento di
gioia, ci hanno richiamati alla memoria, quando al comando del picchetto
d'onore per quel meraviglioso rito giornaliero dell'alzabandiera sul
piazzale del forte San Giuliano, dove vi era la sede del II Btg Carabinieri
di Genova. Quelli erano momenti emozionanti. Ancora oggi, come all'ora, ci
emozioniamo allo stesso modo, come è successo l'altra sera nello stadio di
Torino. Con l'inno di Mameli, i Giochi invernali diventano "
improvvisamente" nazionali. Il protocollo avrà pure i suoi versetti statici
e obesi, retaggio di cataclismi antichi e immutabili, ma quando Eleonora
Benetti, nove anni, ha intonato Fratelli d'Italia ho provato, come credo
milioni di italiani, fortissima emozione. Non mi vergogno a confessarlo.
C'era il coro, c'era lei. C'era, soprattutto, la sua voce. Lo stadio l'ha
seguita e pure il resto degli italiani dai più piccoli e sperduti borghi
antichi del nostro Paese.
Nel nostro zapping serale televisivo, tra il serio e il faceto, dalla
grande e bella città di Torino, in un silenzio religioso, quasi spettrale,
come se dalla riuscita o meno del suo assolo dipendessero i destini dei
Giochi. Eleonora ci ha messo l'innocenza della sua beata infanzia e,
immaginiamo, il calore rubacchiato a " nonno" Azeglio e a tutti noi nonni
d'Italia. Si sa quanto il nostro presidente abbia fatto per il tricolore e
l'inno. Li ha riesumati dalla cantina della diffidenza e li ha offerti in
dono all'orgoglio del Paese. Un orgoglio sano, non fanatico. Le Olimpiadi
si prestano a troppi giri di parole, se si lasciano in mano ai commercianti
di iperboli. La piccola e dolce italiana ci ha ricordato che anche la
musica più austera, cantata in un certo modo e in un certo posto, può e
deve rappresentare un momento di gioia, al di là di quello che succederà
poi sulle piste, quando drappi e colori torneranno a essere elementi di
divisione.
Le note tagliavano l'aria fredda, come quelle note che uscivano dalla
cornetta del trombettiere sulla Piazza d'armi di San Giuliano di Genova,
quando suonava l'attenti per l'alzabandiera. Il cronista dalla sua
posizione continuava dicendo che: "Sembrava una chiesa, lo stadio olimpico;
e tutti noi, fedeli di una setta che, ogni quattro anni, si dà appuntamento
per giocare ai Giochi. Una bambina, la sua voce. Quelle parole: Fratelli
d'Italia, l'Italia s'è desta. E la notte diventò metà fiaba e metà storia.
BEL MONDO
Abbiamo letto un bellissimo articolo di Massimo Granellini, riportato in
prima pagina de " La Stampa di Torino", con il quale egli ci racconta una
storia tutta al femminile. Egli così scrive:
" La Fiamma è donna. L'Olimpiade è donna. Torino è donna, e che donna:
elegante, magica, misteriosa, già nel quarto secolo San Massimo la chiamava
" La Madre". Da ieri Torino e le sue donne sono al centro del mondo. Di un
mondo che, visto da qui, in questa notte di energia pura, sembra già un
mondo di donne abitato da uomini sparuti e spauriti, tranne qualche vecchio
signore alla Ciampi, che quando viene nominato sa ancora togliersi con
maschia educazione il cappello.
La prima donna è Carla Bruni, torinese di Francia, e incede portando il
tricolore come la più algida delle cameriere un vassoio di striccini. La
seconda è una bambina di 9 anni, Eleonora, e canta l'inno di Mameli con
spigliatezza talmente soave che quasi ci si dimentica che è in play - back.
Anche le bandiere sono sorrette per lo più da mani di donna. Mani forti e
decise, come quelle della ragazza danese che sventola senza paura il
vessillo più calpestato dagli estremisti islamici. O della nostra Carolina
Kostner, inguainata come gli altri compari azzurri in un elegante giacca a
vento bronzea, liberamente ispirata alla carta delle vecchie caramelle
Sperlari. Femminili sono le canzoni che, dagli Chic a Gloria Caynor, fanno
da colonna sonora al passaggio degli atleti, avvolgendo i quaranta -
cinquantenni di ambo i sessi in una nuvola di compiacimento nostalgico. E
anche l'immortale Battisti canta di una donna: per amico.
Universo femminile è stato il filo che ha tenuto insieme tutte le canzoni.
Lo trovavi nei simboli della coreografia, nella forma a utero del
palcoscenico, nella conchiglia botticelliana da cui è uscita una Venere
senza pelliccia che si chiamava Eva ed era la Herzigova. Era una donna, e
che donna, la Ferrari che ha disegnato i cinque cerchi in testacoda. Non
era una donna il torinese che ha letto a bocca storta il discorso
inaugurale, l'ingegnere Castellani. Ma anche questa scelta, che a qualcuno
è sembrata una pecca nella sceneggiatura, conteneva un evidente segnale di
speranza, perché un mondo dove i Castellani danno i presidenti del comitato
organizzatore era un luogo di opportunità davvero per tutti.
L'emozione assoluta l'hanno forse regalata Sophia Loren, Isabel Allende,
Susan Saradon e le altre signore che hanno introdotto nello stadio la
bandiera olimpica. Solcava il campo con passo austero, vestite di bianco
come sacerdotesse pagane impegnate in un rito atavico di iniziazione
solenne.
Poi c'è stata Yoko Ono sul palco, e Franca Pilla, Cherie Blair e Laura Bush
in tribuna, una vedova e moglie che anche da sole vibrano di luce propria.
Infine la torcia, il sorriso aperto fu Deborah Compagnoni e quello tenace
di Stefania Belmondo, la donna che ha acceso il mondo. Un mondo di donne,
più pacifico e concreto, che non esiste ancora nella realtà, ma già vibra
nei cuori commossi della notte olimpica.
LA MERAVIGLIOSA CITTA' DI TORINO.
La prima volta che scoprissimo la città di Torino, avvenne moltissimi anni
fa, e fu nel mese di giugno del 1947, quando partiti da Alessandria e
diretti a Ormea, in provincia di Cuneo. Alla Stazione di Porta Palazzi,
nella attesa del treno per Savona, ci siamo fatti quattro passi fino alla
bellissima Piazza San Carlo, che è il "Salotto di Torino". Sul lato destro
della Piazza, vie è ubicato il Bar - Risorgimentale in stile barocco, che
di solito, lo frequentava ogni giorno il grande statista Camillo Benso di
Cavour, per il pranzo e le sue riflessioni. In quell'elegante locale
pubblico ci siamo entrati anche noi, per sorbire un buon caffè.
"Oggi, parlando con la gente di Torino, abbiamo scoperto che la maggior
parte della gente pensa all'industria e alla prosperità del Nord Italia. E'
certamente una città molto dinamica, ma è anche ricca di grazie e charm,
con splendidi esempi di architettura barocca e eccellenti musei,
incastonata in uno straordinario scenario ai piedi delle Alpi. Torino è
inoltre la sede della Sacra Sindone, della fabbrica di automobili FIAT, e
della squadra di calcio della Juventus. Oggi è la terza città d'Italia,
dove con grande entusiasmo si stanno svolgendo le Olimpiadi.
In passato, quando c'era la possibilità e i Signori superiori ci
concedevano un permesso giornaliero, andavamo spesso per diporto a Torino,
per visitare i suoi bellissimi monumenti, i Musei e le sue bellezze
artistiche. In due occasioni, siamo inoltre saliti fin lassù sul
meraviglioso colle di Superga, da dove si ammira l'intera città di Torino,
e dove l'occhio si perde all'infinito in un paesaggio mozzafiato, per
visitare l'imponente facciata barocca della Basilica, progettata da Juvarra
nel (XVIII secolo). E che dire della Mole Antonelliana? Questo eccentrico
edificio è per Torino l'equivalente della Torre Eiffel per Parigi, e cioè
un particolare punto di riferimento che caratterizza la splendida città
piemontese, quella città che fu la prima capitale d'Italia.
A Torino ci siamo ritornati anche qualche anno fa, mentre fervevano i
lavori di ammodernamento della città, per presentarla al mondo intero in
una veste più bella per l'occasione delle Olimpiadi del 2006. Transitando
per le strade del centro, le piazze e le periferie della città, ovunque vi
era un gran caos: cantieri aperti, strade interrotte e il mugugno del
popolo torinese. Così è successo un fatto raro e importante. Dopo tanti
borbottii e tante maledizioni e tante depressione antiolimpiche, abbiamo
scoperto di essere fortunati. Ci hanno regalato un sogno. E alla fine ci
siamo appassionati. In questi giorni abbiamo letto molti articoli sulle
Olimpiadi di Torino, ma quello scritto da Gabriele Ferrarsi, rispecchia il
nostro pensiero. Il titolo dell'articolo è:
LA NOSTRA PASSIONE.
"Sono nostre. Certo, abbiamo accettato - magari a malincuore - la
diplomatica finzione delle " Olimpiadi italiane. Però, nel profondo, adesso
sappiamo che queste sono le nostre Olimpiadi. Nostre, di noi torinesi.
Nostre perché le abbiamo volute e odiate, patite e temute e aspettate. Per
anni sono state una presenza costante, spessi ingombranti, nelle nostre
piccole, tormentate vite. Persi nella follia del traffico, sprofondati in
una città sventrata, affaticati dallo slalom tra i cantieri, esasperati
dalle polemiche meschine, umilianti dalle sentenze ammannite dai saloni che
ci spiegavano cosa fare e come fare - e intanto facevamo noi, soffrivamo
noi, ci incavolavamo noi - ogni mattina abbiamo maledetto il giorno che si
siamo buttati nell'impresa.
Tutti intorno stavamo a guardare, e un po' ridacchiavamo, e un po'
gufavamo. Guardali lì, i bogianen. Guardala lì, Torino che non ce la farà.
Gliel'abbiamo fatta. Dovevamo farcela. Afferrare l'attimo, l'occasione.
L'alternativa era un declino melanconico, la rinuncia triste ai sogni e
alle ambizioni. Siamo sinceri fino in fondo. Non ci credevamo. Per tutti
questi infiniti anni di lavoro e di stanchezze che le Olimpiadi erano
l'opportunità imprendibile: ma ci rodeva il dubbio, il timore inconfessato
di illuderci, di aggrapparci come naufraghi nella notte a un improbabile
relitto che ci avrebbe consentito di tirare avanti ancora un po', senza
salvarci.
Noi torinesi siamo così- La legge di Murphy l'abbiamo inventata noi: siamo
fermamente convinti che se una cosa può andare male, di sicuro lo farà. Ma
oggi, guardando la città bellissima che ci siamo conquistata, guardando in
Tivù e per la strada, oggi sappiamo: la festa allo Stadio, i giorni
incredibili che ci apprestiamo a vivere, non sono il punto d'arrivo. Sono -
devono essere - la partenza. Un nuovo inizio. Per una nuova Torino. Adesso
gli stranieri arrivano, guardano anche loro la città bellissima, e si
stupiscono. E dicono che non sapevano, dicono che è una meraviglia, e
dicono che siamo fortunati a vivere in una città così. Non lo sapevamo
neanche noi. Ci volevano gli stranieri, e le Olimpiadi, perché ci ce ne
accorgessimo.
Così è successo un fatto raro e importante. Dopo tanti borbottii e tante
maledizioni e tante depressione antiolimpiche, abbiamo scoperto di essere
dei ragazzi fortunati. Ci hanno regalato un sogno. E alla fine ci siamo
appassionati.
Questo cambia tutto. Cambia il nostro futuro.
Perché noi torinesi ci appassioniamo di rado. Ma quando ci appassioniamo,
facciamo cose strane e meravigliose. L'altra volta che ci siamo
appassionati per davvero, abbiamo fatto l'Italia".
PARALIMPIADI INVERNALI DI TORINO.
Ieri 19 marzo 2006, sono terminate le Paralimpiadi invernali delle
Olimpiadi di Torino, con le ultime medaglie vinte al Sestriere ( Torino).
Ancora due medaglie per l'Italia nell'ultima giornata delle Paralimpiadi
invernali: Daila Dameno ha vinto l'argento nello slalom categoria seduti,
Silvia Parente il bronzo in quella per non vedenti. Nelle due gare l'oro è
andato alla statunitense Victor e alla francese Casanova.
IERI PODIO SFIORATO - Ieri sera il milanese Enzo Masiello aveva sfiorato
l'impresa nella distanza lunga della classe "seduti", 15 chilometri, e, per
poco, non ha regalato all'Italia la prima medaglia del fondo alle IX
Paralimpiadi invernali di Torino 2006. Masiello, quarto all'arrivo sulla
pista di Pragelato, a soli 7 secondi dal bronzo, è partito fortissimo.
"Volevo fare una bella gara e provare a stare davanti - ha raccontato - e
ho tentato il tutto per tutto, ma all'ultimo giro ho pagato il grande
sforzo iniziale. Sono comunque soddisfatto e felice per la mia prova". Enzo
Masielllo, segnala una nota del Cip (Comitato Italiano Paralimpico), è
stato "davvero bravo finendo la quindici chilometri davanti ad atleti del
calibro di Zaripov (Russia), Anthofer (Austria), Fiedor (Polonia)". La gara
è stata vinta dall'ucraino Iurii Kostiuk con due russi secondo e terzo:
Taras Kryjanovski e Sergej Shilov. Nella gara dei 10 chilometri per le
donne "seduti", sempre ieri, l'azzurra Francesca Porcellato, si è ritirata
dopo il passaggio ai 3,3 km, quando si trovava in nona posizione.
I COMPLIMENTI DI CIAMPI- Il Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio
Ciampi, ieri di buon mattino ha chiamato il presidente del Comitato
paralimpico Italiano Luca Pancalli per congratularsi per le medaglie
azzurre alle Paralimpiadi e invitando gli azzurri al Quirinale mercoledì,
prossimo 22 marzo, quando saranno festeggiati tutti gli atleti che hanno
vinto le medaglie Olimpiche e Paralimpiche.
20 marzo 2006.
Con questo ultimo round dei ragazzi paraplegici, che sono stati bravissimi,
si sono concluse alla grande le nostre meravigliose Olimpiadi di Torino.
Il Passo San Pellegrino
Avvolto dalla bufera.
Alle ore sei del mattino di ieri 12 marzo, quando il gruppo degli
appassionati dello sci di fondo, della discesa e gli escursionisti del CAI
di Mantova, sono partiti alla volta delle montagne innevate del Trentino,
erano tutti felici e entusiasti di intraprendere il viaggio all'insegna del
buonumore. Il cielo era sgombro di nuvole e verso oriente l'orizzonte
incominciava ad albeggiare. Giunti alle porte di Verona e prima di
abbandonare la grande pianura Padana veneta, lentamente incominciava a
sorgere vigoroso e splendente il sole, quindi, vi erano tutti i presupposti
di una bella giornata all'insegna dell'amicizia, del divertimento e
soprattutto del sole, ma purtroppo, non è stato così, perché ben presto il
cielo si era tutto annuvolato e diventato di colore grigio e la visuale
incominciava ad essere ridotta. Subito dopo la cittadina turistica di Moena,
scendevano lentamente i primi fiocchi di neve, accompagnati da piccole
raffiche di vento che ben presto si sono trasformate in una grossa bufera
infernale. Poco prima del Passo, il pesante torpedone si era fermato pochi
minuti per fare scendere gli amici che praticano lo sci di fondo e subito
dopo era ripartito fermandosi nel piazzale del Colle Margherita, dove sorge
l'impianto sciistico. Gli impianti erano parzialmente funzionanti, tanto
che si sono fermati pochissimi amici sciatori che praticano la discesa. Il
resto della squadra dei mantovani, accompagnati da Maurizio Turazza, si
sono avviati verso il rifugio Fuciade. Il torpedone fece ritorno al Passo
San Pellegrino, posizionandosi nell'apposito parcheggio riservato ai
torpedoni.
Il vento freddo e gelato, che scendeva dal Monte Omo, spazzava via la neve
fresca creando una specie di turbine. I granuli gelati della neve portati
dal vento siberiano, ci sferzavano il viso e le mani, mentre la temperatura
al Passo San Pellegrino, era decisamente scesa e il termometro appeso fuori
del piccolo rifugio, dove Adriana, Marisa ed io ci siamo rifugiati, segnava
meno 12. Sul fondo stradale poco battuto e nei piccoli sentieri si era
formata una sottile lastra ghiacciata che ci impediva persino di camminare.
Abbiamo visto molte persone che sono cadute pesantemente a terra e
sicuramente hanno riportato, per lo meno, delle contusioni.
Questa mattina il " Corriere della Sera", così titolava l'articolo della
bufera di neve che ha investito non solo il Trentino Alto Adige, dove noi
del CAI di Mantova, ci siamo recati per trascorrere una bella giornata
sulle cime più belle e suggestive del mondo ma di tutto il nostro Paese.
Tutta l'Italia era in tilt per neve, vento, incendi e bufere e noi,
involontariamente, eravamo dentro alla bufera fino al collo.
Dalla Sicilia al Piemonte freddo e paura. Vento fortissimo, burrasche e
neve ieri in Italia. Il vento forte c'è stato un pò dovunque e mareggiate
sulle coste, neve e pioggia soprattutto al centro-sud con allerta meteo
della Protezione civile almeno fino a oggi e preoccupazioni per gli effetti
sull'agricoltura.
Quella di ieri è una coda d'inverno che ha investito tutta l'Italia, anche
se non sono mancate felici isole di sereno, come quello di cui ha goduto la
capitale nonostante la tramontana.
Il vento ha colpito tutto il Nord, dalla Val d'Aosta (con raffiche di oltre
110 km orari) al Piemonte e (dove ha contribuito a numerosi incendi) fino a
Trieste dove pero le raffiche di bora (o meglio ancora di grecale) si sono
limitate stavolta ai 95 km orari. Ma è stato soprattutto in Liguria, la
Lombardia e l'Alto Adige, nello specifico, al Passo di San Pellegrino che
il vento siberiano ha lasciato il segno.
Apprendiamo dalla cronaca televisiva e giornalistica, che c'è stato un
momento di forte paura per un gruppo di 19 escursionisti che erano
sull'Appennino tosco-emiliano, di questi, fino a ieri sera ne mancherebbe
ancora uno all'appello. Nella zona dove ci trovavamo noi del Cai di
Mantova, per fortuna non si è verificato nulla di grave o per lo meno di
essere citato. Secondo quanto ha riferito il presidente del Soccorso alpino
dell'Emilia-Romagna, Luca Calzolari, una volta che i soccorritori hanno
ricostruito la composizione del gruppo è risultato ancora assente un uomo.
Due erano riuscite a tornare quasi subito al rifugio, una era rimasta
ferita scivolando in un canalone ed era stata soccorsa. 15 sono le persone
soccorse ieri sera. Secondo quanto è stato poi precisato gli escursionisti
sono stati portati al rifugio Mariotti e non a quello Duca degli Abruzzi
come era stato riferito in un primo momento.
Il soccorso è avvenuto in un'area compresa tra il Lago Scaffaiolo e la
Croce Arcana. Sembra che il gruppo, prima dell'arrivo della squadra del
soccorso alpino, abbia cercato di ripararsi scavando un tunnel nella neve.
In base alle prime informazioni, ci sarebbe un caso più serio di
congelamento e diversi casi di principio di congelamento.
Abbiamo appreso inoltre che a Genova alcuni voli sono dovuti essere
cancellati o dirottati, mentre una nave portacontainer di 50 mila
tonnellate, spinta da raffiche che hanno raggiunto anche i 110 km orari, ha
rotto gli ormeggi scarrocciando per circa 500 metri e andando a adagiarsi
contro la parete interna della diga foranea. Nessun danno alle persone né
versamenti di combustibile in mare, ma per il salvataggio della nave è
stata determinante la rischiosa manovra di un rimorchiatore. A Savona
tratto in salvo dalla Capitaneria di porto l'equipaggio di una barca a
vela. A Milano invece si è sfiorata la tragedia con il crollo, di prima
mattina, di un ponteggio di otto piani: danni per fortuna solo materiali,
ma fosse accaduto in un giorno lavorativo - visto che si tratta di una zona
di transito molto frequentata - le conseguenze sarebbero state
probabilmente molto peggiori.
Lasciamo la cronaca nazionale e veniamo alla nostra escursione. Dopo di
esserci rifocillati nel piccolo rifugio alle pendici della montagna
innevata, poco oltre il centro sciistico del Passo di San Pellegrino,
Adriana, Maria e il sottoscritto, sotto la tormenta di neve e il freddo
polare che soffiava da nord, quasi carponi e imbacuccati come degli
eschimesi, abbiamo raggiunto il torpedone che era fermo nel piazzale. L'ora
stabilita, abbiamo raggiunto il piazzale del centro sciistico di Colle
Margherita, per attendere l'allegra brigata che si era spinta avvolti nella
bufera verso l'altopiano, verso le Fuciade. Al loro arrivo, abbiamo notato
che erano allegri, felici e contenti della loro piccola avventura nel bosco
sprezzato dal vento gelido, ma traspariva soltanto dai loro visi, dalle
loro parole, dal loro atteggiamento, soltanto quel poco che bastava per
farci capire che avevano bevuto un bicchiere di troppo. Insomma, erano
alquanto alticci ma felici. Si vede che l'ultimo bicchierino di grappa,
detto della staffa, ha riportato in loro l'allegria e il buonumore di
sempre. Dopo quella bufera siberiana, un poco di allegria non guasta mai.
Al momento della partenza, ci siamo accorti che all'appello mancava una
persona, mancava Franco Gilli, detto il solitario. Qualcuno continuava a
chiamare: Gilli, Gilli, dove sei andato! Gilli non c'era neppure nel bar. A
questo punto, il neo presidente Alberto Minelli, ha deciso di andare a
vedere se a volte si trovasse con gli amici fondisti. Raggiunto quella
località, ma Gilli non c'era neppure li. Fatto salire il resto degli amici
fondisti che ci stavano aspettando, si decide di fare ritorno al piazzale
del Colle Margherita. Dopo pochi minuti, come se nulla fosse, alla
chetichella, è sbucato fuori del mezzo della bufera l'amico Gilli. Quindi,
come recita un vecchio proverbio cinese, tutto bene, quando finisce bene e
l'ultimo chiude la porta.
Lo stesso è successo con il tempo. Abbiamo lasciato il Passo San
Pellegrino, che era ancora avvolto e battuto dal vento gelido e dalla
tormenta di neve, quando sono bastati pochi chilometri, per rivedere
spuntare un pallido sole che stava schiarendo le alte cime della grande
montagna Omo. Giunti sul colle che sovrasta la bella cittadina di Moena, ci
siamo resi conto che la tempesta di neve era soltanto un semplice ricordo,
un brutto sogno da dimenticare. Davanti ai nostri occhi si è presentato uno
spettacolo senza precedenti, uno spettacolo meraviglioso rischiarato dal
sole. Le alte cime dolomitiche innevate dal Gruppo del Latemar che spicca
per l'originale varietà d'aspetti. Come quasi in tutti i gruppi dolomitici
i due versanti di questo complesso montuoso, appaiono assai diversi. Ad
oriente anche se dirupato, il Latemar manifesta con i suoi brulli gropponi
un aspetto dolce e di indole buona, ma quello che conta è la spettacolarità
di questi fantastici e meravigliosi Gruppi innevati e illuminati dal sole.
Sicuramente, è stato un regalo che il tempo ci ha voluto fare, per farsi
perdonare dalla brutta giornata che abbiamo trascorso, immersi in un
paesaggio spettrale di dantesca memoria.
Quest'anno il tempo è stato inclemente con gli escursionisti e gli sciatori
del Cai di Mantova, incominciando con il Weekend in Val d'Aosta e
terminando con l'escursione di domenica al Passo di San Pellegrino. Noi
l'abbiamo messa tutta, l'entusiasmo non è mancato, come pure lo spirito, il
coraggio e la buona volontà. Per appagarci di queste insolite avventure
sciistiche, ci auguriamo fermamente, che almeno possiamo godere e
trascorrere un bellissimo Weekend nell'escursione di primavera nelle
meravigliose isole dell'Arcipelago Toscano.
L'INVERNO.
Fischio di vento, brividi di
Dentro il bosco che intonano
La marcia disperata
Verso l'altopiano delle Fuciade,
Percorse dalla nevicata sottile:
Che non cesserà per l'intera giornata.
Silenzio tremendo. La valle
Affonda con il peso delle alte
Abetaie contorte dal vento
Soffocata dalle nuvole grigie
Che sopra l'alta montagna
Si addensano.
Nessuna parvenza di schiarita
Per addolcire la vita,
Dall'escursionista solitario
Che a proseguir ti invita.
Ma il crepuscolo con livide ali
Di stornelli che sfiorano
I camini neri delle povere solitarie baite.
Immerse nel bianco e freddo mare
Di quel paesaggio lunare.
Vivere, amare
Che conta?
Tutta la valle è morta,
é silenziosa e s'affonda.
Una giornata di sole a Folgaria.
Domenica 12 Febbraio 2006
Reduci del Week-end in Val d'Aosta, di quella meravigliosa regione che
mostra al visitatore la sua duplice natura: quello di piccolo mondo chiuso
fra le montagne più alte d'Europa, con caratteri propri e irripetibili, e
quella di importantissima via di transito, un tempo grazie ai tradizionali
valichi alpini, oggi anche attraverso i trafori del Monte Bianco e del gran
San Bernardo. Questa stupenda Valle è giustamente celebre per i suoi
numerosi castelli e fortezze militari che punteggiano i passi e i punti
strategici di quelle vallate meravigliose. Anche oggi, che stiamo
percorrendo l'ampia Valle dell'Adige o Vallagarina come dir si voglia, con
i suoi contrafforti di arenaria quasi brulli e leggermente macchiati da una
vegetazione bassa e poco significativa, che scendono quasi a picco dalle
pendici del Monte Baldo, gareggia in bellezza con la Valle d'Aosta, con la
quale ha tratti in comune: un ampio solco longitudinale scavato dai ghiacci
nel cuore di maestose montagne dolomitiche, dalle quali scendono splendide
vallate laterali, un clima caldo e asciutto e una cornice naturale tipica
delle valli alpine. Ultima analogia i castelli: arroccati su alture
strategiche o adagiati nel fondovalle, ridotte a pittoresche rovine o
perfettamente restaurati, sono parte integrante del paesaggio. Subito
appena entrati in quest'ampia Valle dove scorre il fiume Adige, e che
prende il suo nome, basta guardarsi attorno per accorgersi di questi vecchi
forti militari, costruiti dagli austriaci e che delimitavano i confini del
nostro Paese.
Alle sette di questa mattina 12 febbraio, queste brulle montagne del Baldo
erano baciati dai primi raggi del sole. Nella Bassa padana, come pure nel
resto del nostro Paese, l'inverno è stato lungo e freddo. La neve è caduta
abbondantemente sia a nord che a sud, causando gravi disagi alle
popolazioni e soprattutto alla circolazione stradale.
Il grosso torpedone sta percorrendo la grande Val d'Adige, mezza in ombra e
innevata, mentre l'altra metà é illuminata da un sole tiepido e
primaverile. Percorrere e ammirare questo paesaggio fatato e metafisico,
dall'impressione di ammirare uno di quei paesaggi fantastici che il grande
pittore Giorgio De Chirico, era solito dipingere, dove il fatto interiore,
nel quale emergono sensazione, vita remota e vita attuale tentano di
uguagliarsi nel sogno. In quei paesaggi si poteva intravedere l'invenzione
fantastica, una favola letteralmente affascinante; sicché si può parlare di
una "poesia pittorica", dall'atmosfera e dal ritmo intraducibili, in cui si
concretano "melanconie", "ricordi", meditazioni sospese in uno spazio e in
un tempo mitici. Quindi, quelle stupende opere metafisiche, dipinte dal
grande pittore erano assolutamente paesaggi astratti e privi di aderenza
con la realtà, mentre questi che stiamo ammirando, in questa giornata
bellissima, rischiarati da un tiepido sole, sono paesaggi reali,
bellissimi, sono come le ha creati la Madre natura milioni di anni fa.
La Santa messa sul pullman.
Prima di lasciare l'autostrada, per inoltrarci sui sentieri e i campi
innevati della montagna di Folgaria, il nostro parroco don Enrico
Castiglione, che ha organizzato l'escursione sulla neve per i ragazzi
dell'oratorio, egli non finirà mai di stupirci con le sue continue
innovazioni, sia all'interno della Chiesa di Campitello che fuori, infatti,
egli ha voluto celebrato la Messa pro populo, quella celebrata, nelle
domeniche e negli altri giorni festivi, e applicata in favore dei ragazzi e
dei pochi adulti che viaggiavamo sul torpedone. Oltre ad essere un momento
di raccoglimento e di preghiera, è stato un atto veramente lodevole da
parte di Don Enrico. Quel momento catartico, mi ha richiamato alla memoria,
quando il cappellano militare celebrava la S Messa al campo d'Arma su di un
altare all'aperto. Sul pullman, naturalmente non c'era l'altare, ma il
nostro parroco ha ovviato alla bisogna, sistemando un pezzo di tavola alla
bella meglio tra un sedile e l'altro subito dietro il conducente
dell'automezzo. Così dopo la preghiera eucaristica che inizia con il
dialogo del prefazio seguita dal canone la cui parte centrale è costituita
con della benedizione, e la comunione del sacerdote e di noi fedeli,
accompagnata da un canto finale. Il rito di congedo dell'assemblea è
costituito da un'orazione, dalla benedizione e della formula che Don
Errico, ha pronunciato così: " La messa è finita, andiamo in pace sui campi
di neve e che il Signore ce la mandi buona".
Al Casello Autostradale di Rovereto Sud, il grosso torpedone ha lasciato
l'autostrada del Brennero e si è immesso nella provinciale che porta a
Folgaria. Subito dopo il piccolo borgo antico di Villa Vallagarina, da dove
si ammira un bellissimo paesaggio collinare coltivato a vigneto, la strada
s'inoltra in una forra, un profondo dirupo fra i monti e prodotta nei
millenni dall'acqua del torrente. Il cima alla compagna che separa la
vallata dalla forra, sorge un vecchio forte difensivo austriaco, fatto
costruire da Francesco Giuseppe nel 1800, che aveva il compito di fermare
il nemico che veniva da sud. La strada segue una serie di strettoie,
piccole gallerie scavate nella roccia calcarea e di piccoli tornanti prima
di entrare in un vero e proprio canyon, che ricrea un ambiente dolomitico
orientato verso il basso. Sul fondo della gola, muraglie rovesciate di
calcare alte oltre 900 metri e che culminano in vette surreali e
metafisiche attraversate da nuvole bianche e da squarci di neve
bianchissima e azzurre dei canaloni e le fontane di ghiaccio che bucano
dalle fessure della grande montagna.
Il torpedone fa fatica a salire quella rampa di strada tortuosa, dove le
pareti sono tagliate in verticale per decine e decine di metri nel punto
più profondo del canalone. Le curve sono sempre più strette, con piccoli
tornanti e mucchi di neve fresca ai lati. Una lunga coda di macchine ci
segue lungo il costone nella attesa di trovare un varco per superarci. A
metà percorso, incontriamo due piccoli villaggi montani, le cui case sono
state costruite quasi a picco sul profondo canalone. Piccoli fazzoletti
terrazzati, rubati alla montagna e coltivati a vigneto. A fianco alle case
piccoli orti scoscesi, dove germogliano sparute piante antropiche e dove in
primavera i contadini montanari coltivano le patate e qualche ciuffo di
lattuga o di altra verdura. Quando siamo transitati noi, quei piccoli
ritagli di terra erano coperti di neve, creando un paesaggio da presepe o
da cartolina illustrata. Si, è proprio così, quell'angolo di paese agreste,
con la piccola chiesa e a fianco alla quale la fontana e il piccolo
cimitero fra le case, creavano un paesaggio fantastico, dove regna tanta
pace e serenità.
Raggiunto l'altopiano tutto è ritornato alla normalità. La strada era più
ampia e scorrevole come pure il paesaggio innevato, con fronte la grande
montagna che sembrava riccamente incorniciata come un quadro d'autore.
Superiamo il centro abitato di Folgaria, con i suoi alberghi e le
infrastrutture turistiche, il nostro torpedone si è fermato nell'apposito
parcheggio riservato ai torpedoni nel Fondo grande, dove ci sono gli
impianti sciistici e le piste da sci. Ci sembrava che non ci fosse nessuno
o perlomeno pochi turisti, ma sia il parcheggio delle autovetture quanto
quello dei mezzi pesanti, fossero stati completamenti esauriti. Migliaia di
persone invadevano le piste sciistiche e i locali pubblici. Abbiamo dovuto
fare la coda per sorbire un caffè caldo al Bar del centro sportivo e poi
dicono che c'è carestia nel nostro Paese! Quale carestia?
I ragazzi dell'oratorio, appena scesi dal pullman si sono dispersi per i
campi innevati con gli slittini presi a noleggio. Si vedeva nei loro occhi
che erano veramente felici di trascorrere una giornata sulla neve, lontani
da casa e soprattutto dai compiti scolastici. Li abbiamo rivista al termine
della lunga giornata stanchi e felici. Si aggiravano vicino al torpedone
nella attesa che la signora Riccarda dessi loro le "lattughe": un dolce di
carnevale, che Don Enrico aveva fatto sistemare nel bagagliaio
dell'automezzo. Si vedeva che erano tutti stanchi e sudati ma felici di
aver trascorso un'intera giornata sui campi di innevati.
Dopo di aver sorbito un caldo e ottimo caffè in quel bar affollato da una
folla omogenea di turisti, con Adriana mia moglie, Pino e l'amico Tullio,
ci siamo avviati sulla strada asfaltata detta della Via Crucis, perché sul
lato sinistro vi sono tante piccole cappelle in muratura contenenti le
bellissime sculture di legno, che sono delle vere e proprie opere d'arte,
che rappresentano le varie stazioni del supplizio, della flagellazione e
della morte di Gesù Cristo, che lo portarono sulla piccola altura del
calvario, presso Gerusalemme, sulla quale fu crocifisso. Quella strada con
il fondo stradale gelato e resa sdrucciolevole, ci ha portati al Santuario
della Madonna delle Grazie: una località bellissima e coperta di neve.
Prima di iniziare la nostra breve passeggiata sui campi innevati,
doverosamente ci siamo soffermati reverenti a piegare il ginocchio nel
tempio della Madonna dispensatrice di grazie.
Stando fermi davanti al Santuario, si può ammirare un paesaggio stupendo,
un paesaggio pittura, immerso fra boschi di alte conifere e meravigliose
montagne innevate. Abbiamo seguito un lungo sentiero che dopo un giro
vizioso ci porta nel bosco e fa ritorno nei pressi del Santuario. Quel
sentiero è chiamato dai "cavalli", perché una slitta trainata appunto da
due cavalli fa la spola dal centro abitato di Folgaria al Santuario e
viceversa. E' stata una passeggiata molto distensiva e soprattutto
salutare, lontano dal rumore e dal fumo prodotto delle autovetture.
Quello è un paesaggio pianeggiante, é fatto apposta per chi non vuole fare
molta fatica e desidera godersi una giornata di sole all'aria aperta, senza
problemi e soprattutto senza quella folla opprimente e chiassosa. L'aria
era secca, pulita e frizzante, ma il sole era meraviglioso e valeva la pena
essere saliti fin lassù. Tutti i turisti erano concentrati a valle, dove
sorgono gli impianti sciistici e per via dei moltissimi automezzi, sembrava
una camera a gas.
Il resto della giornata lo abbiamo trascorso, dopo la pausa pranzo in un
piccolo locale tipico di nostra conoscenza, sul costone che si trova a
ridosso del paese e degli impianti sciistici, un luogo bellissimo e
soleggiato, dove tantissimi bambini con i loro genitori, si divertivamo a
sciare con lo slittino verso la piccola valle.
Il grande scrittore e storico romano Plinio il giovane, ammirando gli
ultimi raggi del sole che stava per tramontare dietro la grande montagna
dipinta di rosso del meraviglioso Vesuvio, come del resto stavamo facendo
anche noi oggi che siamo seduti su di un muretto a fumare la pipa in
tranquillità e non stiamo facendo altro che ammirare questo meraviglioso
tramonto dietro la grande montagna dolomitica, egli così faceva a scrivere
nel suo taccuino di viaggio:
" Carpe diem: coglie l'attimo fuggente che si dilegua rapido e veloce
come la vita nell'immensità!". Oh si, com'è straordinaria la vita! I
fenomeni celesti che ci circondano e ruotano intorno a noi da miliardi di
anni, con il loro ritmo incessante e i loro segreti, che poi non sono altro
che i segreti della creazione e della vita. Ammirare nel tramonto infuocato
quel dardo che in un baleno divampa e precipita in quell'attimo fuggente di
eternità che ci offre la quiete e l'abbandono dello spirito", sono attimi
grandiosi del mistero della vita, che ci lasciano meravigliati, attoniti;
sorpresi e increduli allo stesso tempo.
Concludiamo questo nostro itinerario sulla neve di Folgaria, con la
stupenda poesia: " Emozione", del poeta Marco Cabassi, al quale porgiamo le
nostre più sentite congratulazioni.
"Emozione
Muoviti libero
oltre il succedersi del tempo
un solo momento
un secolo
un' era
è nulla all'eternità
il lieve contatto dura un attimo
fuggente, il brivido scorre sulla pelle
il fuoco in un baleno divampa nell'animo
la Dea dell'Amore erompe in un palpito
mai si ferma un'emozione
ed è per sempre".
Avventure valdostane
- 17 - 18- e 19 febbraio -
La bufera infernal, che mai non resta,
mena gli spiriti con la sua rapina. (di dantesca memoria)
Un gruppo di giovani e meno giovani, ma sempre baldi e fieri "caini"
mantovani, appassionati delle montagne innevate siamo partiti con la
speranza nel cuore a bordo delle auto proprie, alle ore 6 del mattino di
venerdì 17 febbraio 2006, dal garage di Belfiore per raggiungere le piste
più belle dell'incantevole Valle d'Aosta. I presupposti di un bellissimo
Week-End in una delle zone sciistiche più belle d'Italia, con pernottamento
in un caratteristico Hotel a 6 Km da Aosta (a St. Pierre) e cene in
ristoranti tipici c'erano tutti, condizioni atmosferiche permettendo.
Il piano particolareggiato del programma e del modo in cui si era pensato
di poterlo attuare, era perfetto in ogni più piccolo particolare. Esso
prevedeva: Il primo giorno scieremo nel conosciuto comprensorio sciistico
di Pila; il giorno dopo andremo a Cervinia, dove scenderemo per le
spettacolari piste che la collegano a Valtournanche ed a Zermatt in
Svizzera, fra le meravigliose montagne del Cervino e del Monte Rosa.
L'ultimo giorno andremo a sciare sui fantastici pendii del Monte Bianco a
Courmayeur.
Appena siamo usciti dal garage di Belfiore, siamo entrati nel limbo, nella
dimora ultraterrena delle anime morte senza la speranza della luce. Quel
filo di nebbia che incominciava, pian piano a salire dai fossi e dai
canneti dove scorre il vecchio fiume Mincio, mi ha fatto pensare agli
immortali versi del poeta Carducci: " La nebbia a gl'irti colli/
piovigginando sale", oppure ai versi di Pascoli: " Dalle fratte/ sembra la
nebbia mattinal fumare". Mentre la nebbia si faceva sempre più fitta quel
luogo della Bassa padana, mi dava l'impressione dell'oltretomba ove le
anime dei giusti attendono e sognano di entrare nel paradiso. Seguendo la
Statale numero 10 che da Mantova porta a Cremona, la nebbia continuava a
salire e diventare sempre più fitta. Adriana, Marisa ed io, possiamo dire
di essere stati dei fortunati e soprattutto dei privilegiati, perché
eravamo stati ammessi a viaggiare sull'autovettura ammiraglia, che per
l'occasione si era trasformata in una vera e propria sala operativa, dove
il neo presidente Alberto Minelli, si collegava in continuazione con il
resto degli altri equipaggi e in special modo con, Maurizio Turazza, che
era la guida responsabile del settore sci di discesa. Alla guida
dell'autovettura ammiraglia, vi era la simpatica e bellissima Carla, che
per la sua bravura, l'abbiamo paragonata ad un angelo.
Superato il Lago di Viverone, come d'incanto la sorella nebbia, che ci ha
fatto compagnia per tutto il mattino, si era in una certa misura diradata
ed era ritornata la luce agognata, che illuminava i contrafforti della
grande montagna. Un pallido sole illuminava Bard: l'ultimo forte. E' della
prima metà dell'Ottocento il più recente esempio di architettura militare
in Valle: il forte di Bard, composto di tre opere di difesa poste a quote
diverse a dominare la via d'accesso alla Valle. Sorge su una spettacolare
rocca, fortificata da tempo immemorabile, dove nel VI secolo Teodorico pose
le "clausure Augustanae", e che nell'XI secolo era definita "inespugnabile
oppidum". La storia ci racconta che nel 1800 una piccola guarnigione austro
-piemontese resistette per ben 15 giorni all'assedio dei quarantamila
uomini di Napoleone che cancellò poi l'onta distruggendo il forte. Fu
ricostruito negli anni '30 dell'Ottocento, e dei lavori fu testimone
Camillo Benso di Cavour, giovane luogotenente del Genio, distaccato a Bard
nel 1831.
Un ponte romano, un campanile romanico, un castello medioevale sono visioni
tipiche della Valle d'Aosta, una regione in cui i monumenti si integrano
con il paesaggio fino a formare un tutt'uno col panorama. Per questo, ogni
volta che percorriamo questa strada e questa meravigliosa vallata, per noi
vuol dire scoprire pagine importanti di storia e arte. Prima di raggiungere
la città di Aosta, ci siamo fermati nel comprensorio di Nus, per fare
scendere gli amici sciatori di fondo che dovevano raggiungere le piste
innevate di Pila.
Attraversando la città di Aosta, che è forse la forma più compiuta della
città romana, con le sue chiese medioevali che emanano la stessa forte
spiritualità dei tempi di san Bernardo e sant'Anselmo; i castelli le
fortezze offrono un affresco completo della vita militare e feudale, con
una concentrazione di varietà di monumenti ( fortezze, manieri, torri e
casseforti) difficilmente riscontrabili in altre parti del mondo. Anche la
storia si è mantenuta intatta, in Valle d'Aosta.
Come scrisse Giuseppe Giocosa in Novelle e Paesi Valdostani "ad Annibale,
se vi passò, e a Cesare, il quale vi passò di certo, apparve da quelle cime
l'estesissima vista che noi vediamo, non mutata affatto né di forme, né di
colori, né di misure, né di minutissimi particolari.".
L'ARCO DI AUGUSTO.
Il primo monumento che abbiamo incontrato entrando nella città di Aosta, è
stato l'Arco di Augusto. Ancora oggi appare ai nostri occhi come un
imponente segno di potere e, se in origine era ornato di iscrizioni, trofei
e statue, abbiamo visto che attualmente ospita un semplice crocifisso,
copia di uno del XV secolo conservato nella Cattedrale: era un'offerta
votiva per scongiurare le allora frequenti inondazioni del torrente Buthier,
le cui acque tumultuose hanno ricoperto gran parte delle tracce romane
della città. La simpatica Carlina, segue la circonvallazione della città e
ben presto raggiungiamo la strada che ci ha portato a Cogne. Percorrendo i
primi contrafforti dopo la Dora, sulla nostra sinistra abbiamo incontrato
il castello di Aymavilles, che fu trasformato nel 1728 in un palazzo rococò
incastonato tra le quattro torri merlate dell'antico maniero feudale: il
puzzle è oggi attraente, ma suscitò in passato l'indignazione dei
viaggiatori ottocenteschi che con i loro diari illustravano al mondo le
bellezze della Valle, come in un certo senso stiamo facendo o crediamo di
fare noi semplici cultori dell'arte e delle bellezze, che la Madre natura
ci offre in questo paradiso terrestre.
VALLE DI COGNE.
Il nostro presidente ed amico carissimo Alberto, per il primo giorno del
nostro Week end valdostano, ha deciso di raggiungere la località sciistica
di Cogne, per trascorrere una bella giornata sulle famose piste di fondo di
Sant'Orso. Dopo questa decisione estemporanea, la nostra bravissima pilota,
seguendo la Strada Regionale, che attraversa il fiume Dora, lasciando alle
nostre spalle la località di San Pier, s'inerpica sulla vallata tortuosa,
percorrendo gole profonde e paesaggi mozzafiato tutti coperti da una coltre
di candida neve.
Valle di Cogne, un tempo importante centro minerario e oggi stazione alpina
rinomata per lo sci di fondo. Giovani e anziani, debuttanti e veterani,
professionisti e dilettanti: qui tutti trovano un'adeguata risposta al
proprio, personale modo di praticare lo sci di fondo. Questo comprensorio
offre, infatti, a tutti gli appassionati anelli e piste in grado di
soddisfare ogni esigenza in un ambiente sereno e soleggiato, alle porte del
Parco Nazionale del Gran Paradiso. Già, perché Cogne non è solo sport, ma è
anche parco, natura protetta, ambiente pulito, splendide montagne, poco
frastuono e rilassante tranquillità. Al fondo della Valnontey, dove si
inoltra la pista più "audace", si possono ammirare i ghiacciai che fanno da
corona all'unico monte di 4000 metri interamente italiano: il Gran Paradiso
, regno degli stambecchi e dei camosci. Cogne è definita a ragione da
numerosi esperti "la regina dello sci di fondo", grazie ad una rete di 80
km di piste sempre ben tracciate (di cui 5 km a innevamento programmato e
campo scuola), che si snodano ora nella luminosa prateria della conca di S.
Orso, ora nell'ombra dei boschi di conifere e betulle, ma sempre
all'interno di uno scenario incantato. La zona è anche sede di importanti
competizioni sportive, quali la Coppa del Mondo di Fondo, maschile e
femminile, su tracciati di 30 e 15 km, che si disputa in dicembre, e la
Marciagranparadiso , gara promozionale internazionale di 45 km, aperta a
tutti, che si disputa ogni anno in febbraio. Insomma è una località
conosciuta in tutto il mondo. Purtroppo, il tempo non è stato clemente con
noi del CAI di Mantova. Appena parcheggiato le autovetture lungo il
meraviglioso viale panoramico, si è messo a nevicare copiosamente. Le piste
erano vuote, si vedeva soltanto uno sparuto numero di temerari sciatori che
sciavano imperterriti nella grande valle di Sant'Orso. Ai margini delle
piste, vi erano infreddoliti alcuni cani da slitta che aspettavano di
trasportare qualche eventuale turista. Per completare l'opera, dalla Valle
del Gran Paradiso, soffiava un vento freddo e fastidioso. Non ci rimaneva
altro che fare quattro passi per il villaggio medioevale di Cogne, per fare
shopping e trovare un locale caldo per il pranzo.
Saint Pierre. Tornando dalla nostra piccola avventura da Cogne, sulla
statale si nota già da lontano, sull'alto sperone roccioso a piombo sulla
statale, il castello di Saint Pierre con la scenografia delle sue torri e
mura merlate. Così com'é oggi e come ci appare nella sua grandiosa bellezza
a noi profani dell'arte, il castello non rispecchia l'architettura
originale che risale al 1191. L'attuale pittoresca volumetria si deve a un
malaccorto rifacimento eseguito verso la metà dell'ottocento. Non c'è
dubbio però che il suo aspetto fiabesco, di notte reso suggestivo da una
sapiente regia di luci, ne abbia fatto il castello più conosciuto e
popolare della valle di Aosta. Lassù in cima alla collina, al limitare del
villaggio antico di Saint Pierre, immerso fra i vigneti terrazzati, sorge
il caratteristico e moderno albergo Meublè " Lo Fleyè", costruito
interamente in pietra e impreziosito dal caldo legno di Slovenia, che è
stato il nostro punto d'arrivo e di partenza.
Dalla spianata terrazzata si ammira un paesaggio mozzafiato dove l'occhio
si perde fra le cime innevate delle bellissime montagne. E' un luogo di
pace dove regna il silenzio assoluto:
…. Il silenzio comincia col far
Chiudere le labbra e poi penetra
Fino al profondo dell'anima,
Nelle regioni inaccessibili del
Gran Paradiso.
La storia ci racconta che proprio qui, sulla collina di Saint Pierre che,
circa 5.000 anni fa, i primissimi abitanti della Valle d'Aosta
s'insediarono, approfittando probabilmente del clima mite e dell'intensa
radiazione solare. Da allora saint Pierre non perse mai la sua importanza
strategica tant'è vero che, 4.000 anni dopo, sul suo territorio furono
eretti due meravigliosi castelli che sfidano il tempo e la storia.
L'Avventura valdostana all'insegna del cattivo tempo.
La nostra è stata una escursione da tempo programmata, che di solito si
svolge in modo imprevisto e straordinario. Sicuramente, in questo nostro
Week-end sulla neve, possiamo dire che non siamo stati molto fortunati,
perché siamo capitati in un periodo in cui il tempo è stato capriccioso e
bizzarro o meglio dire inclemente con gli appassionati della neve. E'
nevicato ovunque in continuazione e su tutti i fronti, non ci fosse una
località risparmiata. Si, è stato proprio così. Il tempo è stato avverso
alle nostre aspettative, che sono andate oltre ogni previsione. Siamo
partiti attraversando il tunnel della nebbia e ovunque abbiamo trovato
tutti gli impianti sciistici chiusi per l'eccezionale nevicata. A
Courmayeur, il sole si è fatto vedere per pochi minuti, soltanto per farci
ammirare il famoso "Dente del Gigante". La pista di fondo di Val Ferret è
stata dichiarata dalla polizia locale " off limite", per via della
probabile caduta di slavine. Infatti, il nostro gruppo, armato di
racchette, a capo il nostro presidente Alberto Minelli, avevamo percorso un
paio di chilometri all'interno della vallata, quando siamo stati invitati
dai vigili a fare dietrofront e ritornare al centro turistico de La Palud,
ma il fatto più grave si è verificato, quando un piccolo spazzaneve che
scendeva dalla valle ed era diretto al centro turistico de La Palud, ha
spazzato via la neve fresca, lasciando scoperto il fondo ghiacciato. Nulla
di grave per quanto riguarda la circolazione stradale, ma per noi turisti
appiedati e con le racchette, si è rivelata una vera trappola: molti di noi
siamo rotolati goffamente sulla neve e giù lungo la strada ghiacciata,
suscitando l'ilarità dei presenti, ma per fortuna senza alcuna conseguenza
degna di rilievo.
Quello che è importante in questi casi, non è soltanto la buona riuscita
dell'escursione, ma di essere di buon umore e vivere in sintonia con la
meravigliosa natura e in corrispondenza dei sentimenti e degli ideali fra i
componenti dello stesso gruppo. Si, è proprio così, abbiamo trovato il buon
umore e la serenità dello spirito, seduti tutti allo stesso tavolo
dell'antico e tipico agriturismo, la " Maison Rosset", condotto da Camillo,
di nostra vecchia conoscenza, che sorge in un antico e rustico casolare,
probabilmente del Settecento, con la volta del soffitto che ha forma curva
e bassa, con una piccola finestra che da luce all'angusto locale dalla via
principale del piccolo borgo antico di Nus. Al principio di quella strada
vi è posta una lapide che ricorda che nel medioevo passava la Via
Francigena: "Il cammino dello spirito". Più che un ristorante dei nostri
tempi, si potrebbe identificare in una vecchia osteria di antica memoria.
ma quello che conta non è il locale in se stesso, ma i cibi genuini che
vengono serviti. Tutte le volte che ci siamo stati ci siamo sempre trovati
come se fossimo a casa nostra. E' un luogo, che se pur mantiene la sua
rusticità, é veramente famigliare. Alla fine del convivio, perché di un
vero convivio si è trattato all'insegna dell'amicizia e della fratellanza,
che ci accomuna sempre ed ovunque al nostro sodalizio del CAI. In quella
occasione, abbiamo conosciuti nuovi soci, fra cui Loris Zuccoli, che ci ha
raccontato la straordinaria impresa Bice+Trekking, che dal Grande Fiume
hanno raggiunto le sorgenti del Monviso.
Dopo il saluto e il brindisi augurale, con il quale si è concluso il nostro
simposio, abbiamo sollevato il bicchiere, facendolo leggermente urtare con
quelli degli altri commensali, prima di bere tutti insieme il nettare degli
dei, in questo caso quel famoso "Vie de Nus", che era molto apprezzato da
Ponzio Pilato. La nostra festa si è conclusa con un simpatico omaggio
floreale alle signore presenti, che le è stato offerto da parte del
ristoratore: una meravigliosa orchidea .
Questo borgo antico sorge tra i vigneti, da cui proviene il famoso Vien de
Nus, che la leggenda narra apprezzasse già Ponzio Pilato. Nel paese sono
visibili le rovine del castello di Pilato, in cui, secondo la leggenda egli
avrebbe soggiornato. Dall'alto domina l'abitato il Castello dei Signori di
Nus che risale al XVI secolo, ma rifatto ed ampliato nel XVII secolo.
Il mattino dell'ultimo giorno del nostro Week-end valdostano, era cessato
di nevicare ed il cielo era rimasto completamente coperto, quindi, potevamo
benissimo raggiungere una delle tante località sciistiche della zona
attorno ad Aosta. Alberto Minelli si è prodigato moltissimo, telefonando in
continuazione a diversi centri sciistici della zona e finalmente con
Maurizio Turazza, hanno deciso di coordinare la partenza. Il gruppo degli
amici sciatori di discesa sono ritornati sulle piste di Pila, mentre quelli
di fondo e gli escursionisti abbiamo raggiunto la Valle di Brusson. Il
Centro di Fondo è situato sulla piana di Vallon, attrezzato per gli sport
estivi ed invernali, accoglie gli atleti di tutto il mondo in occasione di
competizioni sportive internazionali. Le piste di fondo Trois Villages, un
anello di 7 km, con innevamento programmato ad alta pressione, oltre ad
altri 15 km, che portano da Arcesaz ed arrivano ad Extrapieraz, sono tra le
migliori in Val d'Aosta - Sulla via del ritorno, anche Giove-Pluvio, ha
voluto accompagnarci sotto un violento acquazzone, tanto per non perdere
l'abitudine.
Il poeta così faceva a scrivere della montagna al calar della sera:
"La sera cala silenziosa tra i monti./
Le nevi eterne diventeranno grigie/
L'aria ed il cielo cambiano anch'essi colore, /.
Quasi per preparare una stupenda cornice all'alpe/.
Che sta raccogliendo l'ultimo bacio del sole./.
"Quel ponte ha un'anima, salvatelo".
Il nostro primo impatto nella terra Virgiliana o meglio dire nella "
"Bassa" padana, é avvenuto oltre trent'anni fa, con l'assunzione del
Comando della Stazione CC: di Gazzuolo, provenienti dal Cremasco, altra
località padana non molto distante, e precisamente dal borgo antico di
Bagnolo Cremasco. Nella nostra lunga permanenza a Gazzuolo, per ragione del
nostro servizio istituzionale, abbiamo visitato quasi tutti i paesi della
"bassa mantovana e dell'oltre Po reggiano", come Boretto, Brescello,
Viadana, Commessaggio, Pomponesco e Torre d'Oglio. Tutti luoghi dove
Giovanni Guareschi si è ispirato per scrivere il suo libro: "Peppone e Don
Camillo", anche se intorno aveva il mondo senza orizzonte della Bassa
padana, e quello, senza grandi picchi, di una prosa letteraria italiana che
raramente era incline alle virtù di una secca agilità. Lui aveva un mondo
linguistico suo, qualcosa inventato dal niente e riprodotto con l'astuzia e
la perizia dell'artigiano di genio.
Uno dei talenti era la capacità di coniare dei microcosmi autosufficienti
dentro di cui poteva declinare storie all'infinito, offrendo al lettore,
simultaneamente, il piacere della novità e la rassicurante presenza di una
cornice immutabile. Tipico esempio: il Mondo piccolo di Peppone e don
Camillo.
Da quando abbiamo lasciato il servizio attivo nell'Arma e siamo transitati
in quiescenza, abbiamo messo da parte i vecchi codici e i regolamenti e
siamo ritornati al vecchio amore della pittura, approntando gli attrezzi
del "pittore della domenica": cavalletto, tele, pennelli e casetta con i
colori e siamo ritornati nei vecchi e caratteristici borghi della " Bassa"
padana, per dipingere gli angoli più belli. Uno dei nostri itinerari
preferiti sono le sponde del vecchio fiume Oglio, con le sue bellissime e
pittoresche insenature, i cascinali, i fossati con i lunghi filari dei
pioppi e gli scorci panoramici. Gli angoli più belli del fiume, come pure
il vecchio ponte di barche dell'Oglio, sono stati oggetto della mia pittura
Alcuni anni fa, in una mostra estemporanea sull'argine dell'Oglio, abbiamo
dipinto un bellissimo quadro del ponte, tanto che la giuria giudicatrice
delle opere, l'ha ritenuto meritevole, sia per la sua prospettiva quanto
per l'impronta cromatica, assegnando immeritatamente il primo premio.
Adesso che sta per arrivare la dolce primavera, qui nella " Bassa" padana,
è meraviglioso farsi una bella, distensiva e lunga passeggiata in
bicicletta lungo i sentieri e le strade bianche che seguono l'argine del
vecchio fiume Oglio. Man mano che ti addentri nella valle scopri vasti
orizzonti lontanissimi, questi cieli che ti avvolgono completamente senza
le quinte delle montagne. Nel mese di Aprile e maggio, c'è tanto verde che
scoppia e aggredisce persino i sentieri e gli argini del placito fiume.
Oltre alla pianura senza orizzonte, anche le golene sono coltivate a
pioppeti e si può cogliere in questo profondo orizzonte una grande visione
dell'insieme e che persino ti ispira dei versi pastorali, ma noi non siamo
poeti ma semplici osservatori delle manifestazioni della Madre natura. Qui
è tutta poesia e bellezza, dove si può scoprire una realtà contadina che
molte persone non conoscono ancora. E' una natura che colpisce, una natura
che da queste parti ha un aspetto del tutto diverso dai sentieri dolomitici
e collinari.
Dopo Sant'Alberto, seguendo l'argine del fiume Oglio, si incontra il Ponte
di barche di Torre d'Oglio, oggi molto contestato fra i comuni limitrofi e
l'amministrazione provinciale. Seguendo sulla " Gazzetta di Mantova", gli
avvenimenti vari e la cronaca locale, abbiamo recepito che sarebbe
intenzione degli enti preposti di costruire un nuovo manufatto in cemento.
Nel corso del consiglio comunale di Viadana, di qualche giorno fa, è stata
approvata la mozione di Paola Gavazzi, (verdi) che impegna
l'amministrazione municipale ad esprimere parere contrario in conferenza
servizi. Con la mozione, sono state accolte altri emendamenti, tesi a
mitigare la polemica verso l'amministrazione provinciale ed a sollecitare
una valorizzazione complessiva di Torre d'Oglio.
Proseguendo la passeggiata oltre il ponte di barche, si ammira un paesaggio
naturalistico senza pari e proseguendo oltre, ci si può fermare dove
quest'ultimo si sposa con il grande e vecchio fiume Po, da dove l'orizzonte
si allarga e si confonde con il paesaggio piatto dell'altra sponda
reggiana, con lunghi filari di pioppi. Parlando dei chiassosi pioppi delle
golene, lo scrittore Giovanni Nuvoletti, così faceva a scrivere:
" C'era una volta…ieri, vecchia canzone d'amore sempre viva, sentita su le
cime dei pioppi alte su le verdi golene del nostro fiume".
Quell'angolo della foce dell'Oglio, è un angolo particolare dove si respira
un'atmosfera diversa, dove regna il silenzio e la pace. Di tanto in tanto,
questo silenzio è interrotto dal cinguettio degli uccelli acquatici che si
rincorrono nelle piccole anse del fiume. Guardando da vicino questo luogo,
ci sembra di ammirare una piccola oasi d'acqua stagnante dove si incrociano
diversi canali e si rincorrono le anatre selvatiche. Più avanti, gli aironi
grifi, continuano imperterriti e indisturbati a pescare i pesciolini e le
rane.
Pensando al passato, possiamo interpretare l'anima degli uomini che era
piena, solida, uniforme come il paesaggio si ammira nella sua vastità e
nella sua meravigliosa bellezza, tutto conquistato alle acque, che il poeta
cantava:
" Acque serene ch'io corsi sognando/
Nella dolcezza delle notti estive/
Acque che vi allargate fra le rive/
Come un occhio stupito, a quando, a quando./.
Oh! Nostalgiche acque di sorgiva, /
Acque lombarde che transitate7
Silenziosamente sotto il vecchio e
Glorioso Ponte di Barche del fiume Oglio.
Parlando ancora del fiume Oglio e del Ponte di Barche, l'attore regista
Terence Hill, all'anagrafe Mario Girotti, così scrive in un suo articolo,
apparso il 1 febbraio c. m. sulla Gazzetta di Mantova, che facciamo nostro,
per non farlo diventare effimero.
" Nel cercare un luogo adatto alla mia sceneggiatura mi accorsi che
protagonista assoluto non erano solo questi personaggi, ma soprattutto i
paesi e i luoghi sulla riva del grande fiume Po. Scelsi Pomponesco perché
affascinato dall'incredibile aderenza dell'impianto urbanistico
dell'abitato al paese rappresentato da Guerreschi e le sue terre limitrofe
con il Po, l'Oglio, i canali, la golena, i boschi, gli argini che
diventarono non solo paesaggio ma personaggi del film. Di quel periodo
della mia vita rimane ancora vivo il senso di appartenenza della gente alla
propria terra, una terra conquistata con fatica alle acque e mantenuta con
attenzione nei secoli, un territorio che sento ancora nell'anima, quando ci
ritorno e che mi permette di pensare di avere lì un pezzo della mia storia.
Oltre al paese il set più usato dalle riprese è stato quello intorno al
ponte di barche di Torre d'Oglio. Non chiedetemi le ragioni ma quell'aria
racchiusa tra gli argini del Po e dell'Oglio, cui si arriva dopo una lunga
strada tortuosa fiancheggiata da canali, da filari di pioppi e da boschi,
con il ponte in barche che vedi all'improvviso, quasi una striscia
galleggiante sull'acqua, quando c'è la nebbia, mi ha affascinato con la sua
bellezza che deriva da secoli di lavoro e di manutenzione degli uomini. Ho
attraversato il ponte in molti modi: a piedi, di corsa, in bicicletta, in
motocicletta, in auto e sempre mi sono chiesto come fosse possibile che
potesse esistere un tale miracolo che non solo galleggiava, ma navigava
perché si sa adattare all'altezza all'altezza dell'acqua e permette a tutti
noi di passarci, svolgere il suo ruolo in modo discreto ma affascinante, da
ormai ottanta anni. Tutte le volte che ritorno nel Mantovano ripasso dal
ponte, vi ho accompagnato amici e colleghi che sono sempre rimasti sorpresi
ed estasiati dell'atmosfera di questo luogo che ci fa sentire meglio, un
po' come dice Guareschi: " Si sta meglio qui, su questa riva".
Per me, ma credo per molti altri, il Mantovano ma soprattutto la " Bassa"
tra Viadana, Pomponesco e Dosolo è rappresentato dal ponte di Torre d'Oglio
e non è un caso che la sua fotografia si ripete su guide turistiche,
articoli che descrivono questo pezzetto d'Italia, non è un caso che è
scelto non solo da me ma da altri registi come set dei loro film.
Durante le riprese del nostro Don Camillo abbiamo ripercorso molte volte il
ponte, l'abbiamo sentito scricchiolare, risuonare, vivere sotto i nostri
piedi e quelli di Colin Vlakely; l'abbiamo scoperto nel funzionamento
grazie a due pontieri che ci hanno mostrato quanto fosse importante la loro
conoscenza del fiume e tutto avevano imparato dai vecchi pontieri prima di
loro. Ho saputo che l'amministrazione provinciale e i comuni hanno
approvato un progetto che cambierà per sempre questo miracolo sopravvissuto
di altre generazioni e forse grazie alla dimenticanza. Voglio sperare che
non tutto si misuri con costi e risparmi, voglio sperare che si possa
riconsiderare la necessità di mantenere il ponte attuale come si difende
l'anima di una terra che ho scoperto e amato anche grazie all'incredibile
testimonianza offerta dal ponte di Torre d'Oglio. Ritornare e non poterlo
più ritrovare sarebbe come perdere qualcosa della vostra e della mia anima.
Recentemente Terence Hill si è affermato come attore d'affermanti fiction
televisive italiane: dall'uomo che sognava con le aquile sino alla
fortunata serie di Don Matteo, giunta in questi giorni alle riprese a
Gubbio della quanta serie.
Più volte ci siamo trovati per caso, sul luogo dove erano riprese le scene
dei film di Terence Hill, tratti dal libro di Guerreschi, che riportava
sulla scena i suoi magnifici personaggi, il pretone Don Camillo e il grosso
sindaco Peppone. Fra tutti questi borghi antichi e le bellissime località
lungo le rive del grande fiume, siamo rimasti impressionati del bellissimo
ponte di barche che sorge ed attraversa il fiume Oglio. Questo ponte di
barche, che in questi ultimi tempi, vi sono state delle polemiche fra gli
enti locali confinanti.
Allegro Signor Terence Hill, il suo appello di fare sopravvivere quel ponte
dove ha girato un film e che fa parte della sua anima sicuramente
sopravvivrà. Come abbiamo letto fra le righe, il vecchio e glorioso ponte
di barche di Torre d'Oglio, rimarrà al suo posto, e probabilmente, al più
saranno apportare alcune modifiche di stabilità. Così sembra che si sia
espressa la Soprintendenza delle Belle Arti di Mantova.
Sicuramente, se dovessero eliminare il vecchio e pittoresco Ponte d'Oglio,
che ha fatto la storia contadina, e con lui sparirebbe un angolo
caratteristico e suggestivo della Bassa campagna mantovana, con le sue
insenature ai confini dell'oasi e le vedute del dolce paesaggio che si
snoda intorno alla foce con il grande e vecchio fiume Po. Il paesaggio
perderebbe la sua bellezza, la sua poesia e diventerebbe un luogo anonimo
del fiume Oglio.
I Greci dell'Aspromonte
Un proverbio cinese dice che chi ti ha dato un goccio d'acqua, come minimo
gli deve restituire una fontana. Questo, secondo noi, oltre che un
proverbio, è un pensiero profondo che nasce della filosofia della vita
dell'uomo. Non è la prima volta che ci soffermiamo sulle nostre pagine a
parlare dell'Aspromonte, come pure del piccolo borgo natio di Cosoleto,
dove abbiamo avuto i natali e tanto meno della nostra famiglia, con special
modo a Teresa mia madre, che oltre alla vita mi ha dato i principali
insegnamenti del vivere civile indicandomi la strada da seguire. Tutte le
strade che conducono al desiderio del cuore sono lunghe. Ma questa strada
l'occhio della mia mente poteva vederla tracciata su di una carta con tutte
le difficoltà e le complicazioni tecniche. Fino a quando mia madre è
rimasta in vita, oltre ad averla aiutata, sono sempre ritornato a trovarla
in quel piccolo e sperduto angolo del mondo, quello fu l'omaggio doveroso a
colei che mi ha dato la cosa più preziosa: a vita.
L'Aspromonte, sorge all'estremità del mondo greco, dove è nata la
democrazia e soprattutto la filosofia, tanto che i pitagorici introdussero
nella nostra civiltà il principio della funzione eminente della scienza del
numero nell'interpretazione della realtà: Una tradizione molto antica
attribuisce a Pitagora il primo uso del termine " filosofia", con la quale
egli intese indicare la condizione di chi ricerca il sapere.
L'Aspromonte, è la località dove approdarono i coloni della Magna Grecia lo
chiamarono "asprobuono", cioè biancomonte, per la neve che per diversi mesi
l'anno incappucciava la sua cima. Per loro, l'Aspromonte, fu un ricco
serbatoio di materie prime.
Gli insediamenti più antichi, nelle aree limitrofe alla montagna calabrese,
iniziarono a partire dalla seconda metà dell'VIII secolo a. C, A quel
tempo, foreste di pini, faggi, abeti e querce digradavano dal rilievo
centrale, fino ai litorali. Un'immensa ininterrotta distesa si alberi. I
greci diboscarono intorno ai centri abitati, soprattutto in prossimità
della costa, per piantare cereali, ulivi e viti, importati dalla
madrepatria. In poco tempo, questa zona raggiunse un grado di ricchezza
economica e culturale tra i più elevati della Magna Grecia. Nell'area
circostante l'Aspromonte furono fondati nuovi centri, il primo dei quali fu
probabilmente Reggio ( Rhèghione), in posizione dominante sullo stretto di
Messina, cui seguì Locri. Da quelli principali altri minori si sparsero in
tutta la regione, fino, quando, a partire dal IV secolo, iniziò un
indebolimento della città - stato calabresi. Le cause erano soprattutto
dovute alle guerre che queste combattevano tra loro e allo spostamento
delle rotte commerciali mediterranee verso nuovi paesi occidentali. Ne
approfittarono e Brettii ( Bruzi), un forte popolo di cacciatori e pastori
nomadi che invase le terre e le montagne fino all'Aspromonte. Contesero il
territorio prima alle città della Magna Grecia e poi ai Romani, dai quali
furono sconfitti e definitivamente soggiogati dopo che proprio in
Aspromonte avevano dato man forte allo schiavo ribelle Spartaco, nemico
giurato di Roma.
Esile filo che lega questa montagna alla cultura orientale si riannodò, nei
secoli successivi, con l'esodo di migliaia di monaci bizantini che, intorno
l'anno Mille, scelsero le aspre rupi dei monoliti dell'Aspromonte per la
loro esistenza da eremiti, fondandovi numerosi luoghi di culto, di cui
restano straordinarie vestigia ( dalla chiesa di Santa Maria di Tridetti,
XI - XII secolo, tra Brancaleone e Staiti, ai complessi rupicoli delle
Rocce di San Pietro, vicino a Natile di Careri.
L'Aspromonte Terra di Pastori.
Sia i monaci brasiliani, sia i Greci rifugiatisi sui monti, così come gli
stessi Bruzi, vivevano di agricoltura, ma soprattutto di allevamento,
ricavando dagli animali quasi tutto ciò di cui avevano bisogno per il loro
sostentamento. E tra tutte le attività economiche dell'Aspromonte proprio
la pastorizia è quella che meglio rappresenta le connotazioni umane di
questa montagna. Qui è possibile, infatti, incontrare la più arcaica tra le
culture del Sud, quella dei vecchi pastori, che per gran parte dell'anno
vivono in scomodi ripari di pietra, sui monti, mentre seguono le greggi e
le mandrie nelle estenuanti peregrinazioni in cerca di erba "senza padrone"
E' il pascolo brado, che porta pecore, mucche, asini, cavalli e persino
maiali, ma soprattutto capre, a scorrazzare su e giù per i crinali
dirupati, nel folto dei boschi, sul fondo delle gole, tra le macchie
intricate, con qualunque condizioni atmosferica. Ed è in questo eterno
cammino al seguito degli animali ( unica " ricchezza" per molte famiglie
che si è formata la cultura delle genti d'Aspromonte. Un patrimonio fatto
di tradizioni, di canti, di leggende tramandate oralmente, di intensa
religiosità e perfino ingenua, primitiva filosofia. Si, perché i vecchi
pastori d'Aspromonte sono anche, in un certo senso, dei filosofi. Ogni loro
gesto comunica semplicità, umiltà, fatalismo, quasi che abbiano appreso
dalla storia millenaria dei loro avi ad accettare, come gli storici, i
capricci di una natura talvolta crudele e ad assuefarsi alla povertà,
talvolta persino alla miseria. Ancora oggi non è difficile incontrare
questi strani personaggi senza tempo a Pietra Cappa o a Pietra di Fabo, tra
Natile e San Luca, ( il paese che diede i natali ad un figlio prediletto
dell'Aspromonte: allo scrittore Corrado Alvaro, che ha rivelato le sue
migliori doti di scrittore dove, muovendo da una tradizione di letteratura
regionale e realistica di tipo verghiano, ha saputo trasfigurare
magicamente con l'occhio della nostalgia i paesaggi e le figure della sua
Calabria. Nasce da quest'incontro la raccolta di racconti Gente in
Aspromonte), a Monte Jofri, vicino Samo, sul Monte Pinticudi, tra Platì e
Cimino, durante le lunghe ore passate sotto il cielo, per ingannare la
solitudine, molti di loro hanno imparato a produrre in modo artigianale non
solo gli attrezzi essenziali alle loro attività ( paioli, mestoli, sporte
di fibra di ginestra, bastoni, gioghi, collari) ed il cibo quotidiano (
ricotte, pecorini, insaccati, olive conservate, ma perfino oggetti dallo
spiccato senso artistico. Ne sono un esempio straordinario le " conocchie",
rocche per filare e telai per tessere le fibre pazientemente intagliate nel
legno d'olivo con figure umane e bassorilievi, che erano donate come pegno
d'amore alle donne ( ne esiste una splendida collezione di oltre 300 pezzi
presso il Museo Etnografico e del Folclore di Palmi). Per non parlare poi
degli strumenti musicali tradizionali, come le zampogne, le pipite ( i
pifferi solisti) e soprattutto le lire calabresi a corda, che proprio
presso le comunità grecaniche si sono conservate ( in pochi esemplari)
nella loro forma più antica, mentre dalla radice dell'erica ricavavano le
preziose pipe di radica. Momenti propizi per conoscere la cultura pastorale
dell'Aspromonte sono soprattutto le feste religiose presso i santuari,
primo fra tutti quello di Polsi, quando, in occasione di feste e
processioni, migliaia di pellegrini risalgono dai paesi bivaccando tra i
monti, dormendo, mangiando, suonando e ballando all'aperto.
I RICORDI
I ricordi del passato sono come le onde del mare che rotolano su se stesse
fino a spegnesi lentamente sulla riva. La stessa cosa sta succedendo dentro
di noi che cerchiamo di rievocare il nostro passato prossimo per vivere in
sintonia con il nostro presente di pensionati, ma anche nella nostra
memoria c'è qualcosa che come i sassi e le valanghe rotolano giù lungo il
pendio senza fermarsi, come il ricordare gli eventi e gli avvenimenti, gli
anni autarchici e spaventosi della Seconda Guerra Mondiale, quando si
faceva fatica a vivere giorno dopo giorno, perché il cibo scarseggiava e
non era sufficiente per nessuno, ma quel poco che si trovava era un cibo
sano, nutriente e genuino come gli anni della nostra fanciullezza. Leggendo
un bellissimo articolo d'attualità del giornalista Guido Ceronetti, apparso
su " La Stampa " di Torino, che ci racconta un momento attuale e critico
del nostro Paese, dove la sofisticazione, la manipolazione e la genuinità
dei cibi non è più quella di una volta.
Facciamo nostro l'articolo di Ceronetti, per non farlo diventare effimero,
caduco e fugace che ha durata di un solo giorno, come l'inesorabile passar
del tempo. Egli in quest'articolo ci presenta quell'uovo fresco "L'uovo -
specifico: di gallina - fresco, caldo ancora di nido pollaiolo, del tipo
che piaceva a Dante, sta diventando introvabile".
Oh, sì, l'uovo fresco, ancora caldo e appena fatto dalla gallina "rossa",
mi riporta indietro di molti anni fa e mi richiama alla memoria la
spensierata fanciullezza, quando nel piccolo borgo Aspromontano di Cosoleto,
mancava quasi tutto, ma l'uovo era genuino, era veramente fresco, come
quello che piaceva a Dante. Ricordo che tutte o quasi tutte le famiglie del
paese avevano le galline, quelle ruspanti, che razzolavano in libertà tutto
il giorno in campagna o ai margini dei fossi e delle case, per
dissotterrare i lombrichi e gli altri insetti o a razzolare nel mucchio di
letame vicino alla stalla dell'asino. In quei tempi, ahimè tanto lontani,
non esistevano gli allevamenti forzati, dove le galline erano stipate,
imprigionate, ingozzate di mangime chimico come succede oggi in questa
nostra epoca tecnologica. In primavera, improvvisamente, si vedeva spuntare
fuori la chioccia, che per quaranta giorni era sparita nei meandri della
stalla per covare in segreto le sue uova, con i suoi pulcini che le
correvano dietro per il cortile. Quella era una visione bellissima di
quella mamma protettiva, molto materna. Ricordo il piccolo anatroccolo e il
maialino bianco, che appena vedevano la zia Cristina, le correvano sempre
dietro come se fosse la loro mamma. Da molti anni non vedo più un pulcino,
un anatroccolo o un maialino bianco nei cortili delle case, perché una
legge comunitaria vieta allevare gli animali da cortile. Oggi, è permesso
allevarli soltanto nei grandi allevamenti lager, dove le è riservato un
trattamento particolare e non consono alle leggi naturali della genuinità.
Nel nostro paese non esisteva il negozio che vendeva le uova o il latte
fresco, ma in compenso ci pensava la signora Penelope, forse l'ultima
pastorella della colonia greca dell'Aspromonte, che tutte le mattine, con
le sue capre passava porta a porta, come fanno oggi i "v'cumprà", i
marocchini che ti vogliono vendere qualche cosa, ma la signora Penelope, ti
mungeva il latte fresco dalle sue capre e ti portava la ricotta ancora
calda, per la collazione di noi bambini, prima di andare a scuola. Oltre
alla ricotta fresca, nella sua bisaccia portava anche quella salata e
stagionata, che le massaie adoperavano per grattarla sulla pasta asciutta.
Teresa mia madre, prima di andare a scuola, mi faceva bere l'uovo fresco,
ancora caldo e appena prelevato dal nido della gallina, mentre nella
cartella, oltre ad una fetta di pane casereccio, ci metteva un pugno di
fichi secchi, quattro castagne ed alcune noci, per la merenda, ma questa è
un'altra storia, è una storia che fa parte del nostro passato prossimo.
Lasciamo i nostri ricordi del passato e ritorniamo a parlare dell'articolo
del giornalista Guido Cernetti, che così scrive:
"Da mesi, morse dal freddo che ne prolunga la sterilità invernale, le
galline degli ultimi privati con orto polligeno (abito in una zona dove
ancora ne esistono) non ne fanno, mi dicono. Ma sotto il neon glaciale del
super - market e del Centro Commerciale, le uova sono esibiti per frittate
da diecimila. Sopra lo scotolino c'è scritto tutto, giorno e ora di
nascita, luogo, nome dell'allevatore - così vorrebbero le leggi sanitarie
(fiducioso, non mi fermo a leggere). Rifiuto l'offerta multipla ( Un uovo
mi basta, una volta al mese), rifiuto l'uovo prodotto da galline stipate,
imprigionate, ingozzate di mangime chimico, che in verità nel parlare
popolare superstite ed è destinato all'uovo detto " di gallina", come se
fosse altro.
Infatti, è altro. Ed è frutto di strazio, di animale che la Tecnica
produttiva degrada, di essere vivente che dopo aver spremuto più uova che
pallottole un kalash-nikov è buttato nella spazzatura. L'uovo allevato ha
sapore segreto di lacrime, è violenza d'uomo che si esprime anche là, nel
buco gallinario, è natura degradata: lo mangi chi vuole, questo uovo
diverso, imitato, clonato, col tuorlo d'apparizione in un racconto di Poe -
io aspettavo, posso rinunciare benissimo all'uovo vero, aspetterò che una
mano umana me ne porga uno di gallina incartandolo con cura in una mezza
pagina dove s'intravedono fantasmi romani, reti violate dal rigore, morti
insanguinati.
C'è da rifletterci, tutto va così in fretta che non hai neppure tempo per
congedarti dalle cose che s'inabissano, nel vortice di un cosmico "Finale
di Partita". Basta che s'inoltri un po' di più il sospetto del contagio
aviario, e l'uovo scomparirà del tutto, insieme alla gallina ( senza che
mai nessun filosofo abbia dato una risposta certa alla celebre domanda: chi
è nato prima?) e, grazie al cielo, anche agli allevamenti intensivi di
ovaioli martirizzate e di polli da macello.
Parlando di uovo, s'intenderà l'ovulo femminile, anche quello già in
posizione da Gran Premio, nelle mani dei genetisti, per l'ultima folle
corsa verso i traguardi del nulla. L'Unione Europea non aspetta altro che
il profilarsi della falce pandemia (…Y era la Muerte, al ombro la
cuchilla, el paso largo… cos' Machado, vecchio amico del cuore poetante)
per cancellare, da un tavolo di Bruxelles riempito di ordinatori come
editto elettronico, tutti, pena tremende multe, i polli privati, tettoie di
lamiera, gallinette razzolanti in un poco di letame ( non immerse nel
fetore spaventoso degli allevamenti), povera entità femmina senza rivolta
verso il loro feroce padrone naturale gallo. E a suo cenno i ministri di
venticinque paesi ordineranno colossali sterminii, per fuoco e
inceneritori, di animali pennuti, come in tutta l'Asia, dal Mar della Cina
ai Dardanelli. Già stanno avvenendo, come fossero copie di giornali di
resa, documenti finanziari, carta cestinata, ad andare in fumo.
Beh, si rallegrano i medici, tutto colesterolo in meno! Aspettiamo a dirlo:
l'originario grembo del contagio aviario, la Cina dalle percentuali che
rendono estatici come scopolamine i potenti delle 'economie occidentali, ci
invaderà con surrogati di surrogati d'uovo " altamente competitivi" così da
non far mancare ai mangiatutto europei i dolciumi in serie e un colesterolo
più giulivo e tentacolare.
Nel mio inutile mestiere di spione dei segni dei tempi, vedo i roghi
scellerati di bestiole sacrificate dappertutto accesi i e resto in attesa
dell'introvabile uovo di gallina il cui guscio troveranno col cartellino,
sotto vetro blindato, al Museo delle Scienze Naturali, i nascituri. L'Uovo,
questo sconosciuto".
Si. Uno va avanti. E il tempo pure va avanti, finché ci si scorge di fronte
una linea d'ombra che ci avverte di dover lasciare alle spalle anche la
ragione della prima gioventù, e con lei, non solo i ricordi del nostro
passato prossimo, ma anche e soprattutto i sapori, i profumi della cucina
tipica del nostro meraviglioso Paese. In tutti i villaggi e i paesi in cui,
per ragione del mio servizio mi sono fermato, non ho mai più sentito quel
profumo piacevole, delicato che emana la fragranza del pane fresco
casalingo appena sfornato da un forno a legna. Se si scrutasse a fondo nel
mio DNA, forse si potrebbe trovare ancora quel sapore, quel profumo
delicato e fragrante del pane appena sfornato da Teresa mia madre. Si,
perché mia madre, per oltre quarant'anni, d'estate e d'inverno, alle sette
del mattino sfornata il pane della vita. Si, gliel'ho ancora nelle narici
quel profumo caratteristico e fragrante del pane fresco. La prima
pagnottella sfornata era la mia. A fianco al forno c'era il frantoio, così
con i miei amici, con i quali divedevo quella pagnottella, prima di andare
a scuola andavamo per farcela condire con l'olio appena sgorgato dalla
pressa. Il sapore del pane fresco, condito con l'olio d'oliva, vi assicuro
che era una collazione fragrante, gustosa e molto nutriente. I ragazzi
d'oggi, con le loro merendine, sono sicuro che non hanno di questi momenti
di goduria, ma quelli erano altri tempi.
Così faceva a scrivere la poetessa:
"Briciole
Briciole di storie
e delle memorie
del tempo che fu,
non vedo già più.
Un presente imminente
mi passa di lato,
mi prende
e sorprende
la mia fantasia.
Questa vita è la mia,
non è la poesia
di un sogno proibito.
E' il profumo scandito
di un dolcissimo evento
che non semina
briciole al vento,
ma germoglia calore
sul terreno del cuore.".
Il lago di Viverone
Ai piedi delle Alpi, con le sue acque cristalline di origine sorgiva si
trova il Lago di Viverone con le sue rive a sud ricche di fauna del tutto
incontaminata. Offre ai visitatori un ambiente naturale, riposante ed
incomparabile, caratterizzato dalla Serra, la morena più bella d'Europa. Il
ritrovamento degli insediamenti Palafitticoli che risalgono alla
Preistoria, ha permesso di riscoprire antiche civiltà di questo territorio.
Il Lago di Viverne è una ridenti località disseminate attorno al suo
specchio azzurro fra prati e boschi.
In un depliant leggiamo la storia e le caratteristiche geologiche del
luogo. "Il Lago di Viverne è posto a m. 230 sul livello del mare fra i
comprensori di BIELLA, VERCELLI e IVREA nella zona collinare morenica della
Serra. Ha una superficie di circa km2 6 con una profondità massima di m 70,
il suo perimetro è di km 10.500. La lunghezza è di m 3.500 e la larghezza m
2.600. La parte del lago a sud e a ovest è ricca di vegetazione, mentre la
parte nord è urbanizzata con alberghi, camping e spiagge. Anatre, germani
reali, folaghe, svassi e gabbiani formano la maggior parte della fauna; la
pesca è abbondante di coregoni, persici, tinche, lucci e pesci gatto. Una
linea di navigazione di recente istituzione unisce i porti lacuali del
Lido, Masseria, Comuna e Anzasco. Viverone è un importante fulcro per
escursioni nel Biellese, Monferrato, Valle D'Aosta e passaggio obbligato
per le gite d'Oltralpe".
Ci siamo fermati sul pontile del lago per ammirare le sue bellezze
paesaggistiche e in quella occasione, un barcaiolo canuto e con gli occhi
di brace di dantesca memoria di nome "Giovanin", che l'abbiamo definito il
traghettatore degli innamorati, sulla cui barca abbiamo effettuato una
romantica gita sulle placide e azzurre acque del lago. Alla fine del
viaggio, il simpatico barcaiolo ci ha raccontato una bellissima storia che
altro non era che la Leggenda del Lago. Una delle leggende più note che è
legata al Passaggio presso questo specchio d'acqua di S. Martino di Tours
(315 a -397) ricordato popolarmente per aver offerto metà del proprio
mantello ad un infreddolito mendicante di Amiens.
Si racconta, dunque, che S. Martino, proveniente da Aosta, passò per Ivrea,
ai cui cittadini chiese ospitalità: gli fu negata ed egli, allora, stese il
suo mantello sulle acque della Dora dalle quali si fece trasportare sino
nei pressi di Anzasco, dove fondò un borgo chiamato appunto S. Martino.
Sulla scomparsa nelle acque del lago del paese, la leggenda prevede due
varianti. La prima racconta che il paese fondato dal santo, divenuto
vizioso e dissoluto, è inghiottito dalle acque del lago per castigo divino.
L'altra versione vuole che, alla vigilia della catastrofe, un angelo fu
inviato sotto le sembianze di un mendicante a chiedere l'elemosina porta
per porta: ma solo gli usci di poche case si aprirono per aiutare il
povero. La lezione di S. Martino era stata dunque dimenticata! Allora
l'angelo avvertì i buoni di fuggire perché la città sarebbe scomparsa sotto
le acque; gli altri furono inghiottiti insieme al paese e, con lui, anche
la Chiesa di S. Martino fu sommersa nelle acque e da lì ogni tanto fa
sentire la sua campana. L'esistenza del borgo di S. Martino, di cui tracce
si trovarono in località Comuna ( lato Sud Est), risulta testimonianza da
un documento del XIII secolo, in cui la chiesa di San Martino è fatta
dipendere dall'abbazia di S. Michele e S. Genuario di Vercelli; inoltre la
chiesa diede per un certo periodo il nome allo stesso lago, che era
chiamato appunto Lago di S. Martino.
E, come su ogni lago che si rispetti, non manca certo la leggenda romantica
dell'amore finito tragicamente sulle sue sponde: così una misteriosa Donna
del lago tragicamente fa sentire, nelle notti di luna piena, i suoi gemiti
d'amore e il suo pianto si infrange lungo le rive del lago dove, una volta,
i suoi sogni sono scomparsi per sempre. Ma non tutti sono capaci di udire
la sua voce, perché bisogna saperla ascoltare col cuore.
Leggende meno suggestive forse, ma impregnante di quel mistero che vuole
sempre castelli e località antiche collegate per passaggi sotterranei ed
ignoti ai luoghi più diversi, hanno tramandato che il lago di Viverone
sarebbe unito per comunicazioni sotterranee con la Dora Baltea e con il Po.
Ma di questi collegamenti non è mai stata trovata alcuna traccia.
Guardando ora il Lago con uno spirito meno critico e logico, ma più
fantasioso e poetico, potrebbe forse ascoltare, un giorno, rispettosi, il
suo sussurro silente e sentire il suo potere gentile.
Così, a cuore aperto, potrebbe rivivere i ricordi della passione nella
struggente voce della Donna e poi trovare la calma che cercate nelle quieti
rintocchi della campana di San Martino.
Il Lago di Viverne o di Azeglio è situato al confine tra le province
piemontesi di Torino, Biella e Vercelli, dal punto di vista amministrativo
la superficie del lago è suddivisa fra tre comuni: Azeglio, Piverone e
Viverone. E' il più vasto bacino lacustre presente entro il grande
anfiteatro morenico d'Ivrea, ampio territorio che nelle ultime glaciazioni
quaternarie costituiva il tratto terminale del ghiacciaio Balteo, che qui
si esauriva con il progressivo scioglimento. E' un vero e proprio gioiello
naturale, posto ad un'altitudine di 230 metri, presenta una forma
irregolarmente ellittica.
Abbiamo lasciato le stupende sponde del Lago di Viverone e decidemmo di
proseguire il nostro viaggio verso la Valle d'Aosta, per concludere la
nostra giornata al cospetto di quelle meravigliose montagne. Giunti a Pont
San Martin, primo incontro con la civiltà romana, dove la vecchia strada
romana tagliata nella roccia a Dannas che è il punto di partenza
dell'itinerario verso la città di Aosta e sui paesi della valle che da Pont
San Martin si risale la strada stretta e tortuosa per Grassoney la Trinité
sino a Lillianes. La cosa che più colpisce di Lillianes è il grande ponte
in pietra a quattro archi che collega il paese alla chiesa parrocchiale. La
sua forma a schiena d'asino fa immediatamente pensare ai ponti romani, ma
la sua costruzione non risale che al XVIII secolo. Prima di allora esisteva
solamente un ponte di legno che venne più volte distrutto dalle acque in
piena del Lys. Stanca delle continue spese per la ricostruzione del ponte,
nel 1733 la comunità decise di costruirne uno interamente in pietra. Oltre
il ponte si trova la chiesa di San Rocco.
Seguendo la strada provinciale che prosegue nella vallata dove scorre il
fiume Lis, abbiamo incontrato bellissimo villaggi come Gressoney San Jan,
che è un'elegante stazione turistica, nota anche per la lavorazione del
legno. La parrocchiale, settecentesca, conserva portici del Seicento,
mentre Gressoney la Trinità, più a monte, dove ha avuto termine il nostro
viaggio escursionistico, conserva le caratteristiche case dei pastori
Walzer. Ma ci siamo domandati: chi sono i Walzer? I Walzer, sono uomini
delle montagne. A partire dal XII secolo, chiamati da feudatari italiani, i
Walzer, gruppi di montanari provenienti dal Vallese, si insediarono nelle
valli Nasca, Sesia e di Gressoney. Era gente di lingua tedesca in cerca di
nuovi pascoli che aveva attraversato con i suoi armenti impervi passi di
montagna. I Walzer si fermarono nelle parti alte delle valli evitando per
lungo tempo contatti con le popolazioni locali. In questo modo si formarono
numerose colonie che sono sopravvissute nei secoli fino ai giorni nostri,
conservando in parte i tratti tradizionali della loro cultura. Tra le
numerose borgate che presentano ancora costruzioni walzer (basamento in
pietra, massiccio uso del legno e ampi ballatoi), occorre ricordare (Pedemonte,
piccola frazione di Alagna Valsesia, (che in passato abbiamo visitato in
un'escursione con gli amici del CAI di Mantova, ed é uno degli esempi più
tipici dell'architettura di questi montanari. Vi si trova il Museo Walzer,
che raccoglie testimonianze dell'operosità e del carattere originale della
cultura di queste genti.).
Da Gressoney la Trinità, con le nostre motovespe, ci siamo spinte su di una
strada mulattiera, fino nei pressi della capanna C. Rivetti, a quota 1825
metri, a pochi chilometri del ghiacciaio dove si trova la sorgente del
fiume Lys, dove abbiamo ammirato una meravigliosa e spumeggiante cascata.
In questa nostra escursione, abbiamo scoperto e ammirato un paesaggio
splendido, un paesaggio mozzafiato, immerso fra i boschi e attorniato da
alte e superbe montagne, dove tra l'altro, si ammirano bellissime e
suggestive cascate, laghetti alpini e piccoli e meravigliosi paesini,
casolari, rifugi e abitazioni caratteristiche del Walzer, dove regna tanta
pace e tranquillità, immersi nel verde di una natura incontaminata,
attorniato da prati verdi e fiori azzurri.
Una leggenda montanara dei Walzer dice che in quella grande valle " in
mezzo alle montagne", vi è una grande culla dove il vento va a riposare.
Chi ha bisogno di lui, lo reclama a gran voce; basta affacciarsi alla valle
dove l'aria è addormentata e gridare, aspettare che l'eco ripeta più volte
il suo nome, fino a che il bambino invisibile apre i suoi occhi di cielo.
Allora l'aria scende dalla montagna, si avvia giù per la valle, corre sui
campi, trascinando semi di fiori e di piante. Il vento spazza la pianura,
porta a spasso le nuvole per il cielo. Ogni volta che passa il vento, la
gente della valle dice che si è svegliato il bambino che dorme in mezzo
alle montagne.
Un vecchio saggio montanaro, ha detto:"Quando sarai nella valle scoprirai
un grande segreto: non appena la luna sarà a picco sulla cima degli alberi
chiassosi sentirai uno strano fruscio dei rami, e un sibilo assordante
provenire dal cielo. Nel prato sotto gli alti abetaie appariranno come
stelle, fiori azzurri. Tutti insieme, nella loro breve vita, si
stringeranno l'uno all'altro, fino a diventare due grandi occhi che ti
sorrideranno."
Nel flash di memoria del nostro passato prossimo, troviamo sotto quel
pergolato maestoso, fra l'erbetta verde dei prati e l'ebbrezza del vento
che scendeva della montagna incantata che scomponeva i capelli della
fanciulla amata e che in quello sguardo che penetrava il profondo della mia
anima, riconosco Lei la mia ragazza, la ragazza del cuore che mi stava in
fianco in tutta la sua bellezza a raccogliere i fiori azzurri. Quel breve
tempo dei fiori azzurri durerà un'eternità, e quei due occhi, che per un
attimo mi guardarono attoniti non li dimenticherò mai più.
Il poeta Nello Zaniboni così scriveva dei colori dei fiori:
COLORI
Ci parla il colore, ci narra
la vita di un fiore, ci dice
il respiro del monte
colore dell'acqua di fonte
che sgorga dal sasso profondo,
colore del mondo.
Colore del lungo sentiero che porta alla cima
che ora ti appare e prima
pareva sparita
Colore di vita.
Colore è la vita.
Un flash di memoria
La Città di Alessandria, sorge nella pianura fra il Tanaro e la Bormida,
non lungi dalla confluenza dei due fiumi, a 95 metri d'altitudine. In
quella che un tempo era considerata la periferia della città, sorge la
Chiesa romanica gotica di Santa Maria di Castello e numerosi palazzi
settecenteschi. Un mattino della metà di settembre di molti anni fa,
proprio da quella piazzetta di fronte al monumento romanico, tre amici
scooteristi con le relative e belle ragazze alessandrine, siamo partiti per
un'escursione sul Lago di Viverone e a Gressoney la Trinitè.
L' escursione di cui oggi, dopo tanto tempo, cerchiamo di rievocarla sul
filo della memoria, che si è svolta negli anni Cinquanta. In quel tempo,
ahimè molto lontano, andava per la maggiore la "Vespa 150", oh si, la
"Vespa"!. La storia ci racconta che nel dopoguerra la Piaggio si soffermò
soprattutto nel settore dei motorscooter e a Pontedera fu iniziata nel 1945
la costruzione dei primi esemplari della " Vespa", "inventata" da Corradino
d'Ascanio, introdotta sul mercato nel 1946, che ottenne, in brevissimo
tempo, un notevole successo. Da allora sono stati venduti nel mondo oltre
16 milioni di esemplari in oltre cento versioni e modelli. In quel tempo,
al quale ci riferiamo, le macchine erano molto rare perché non accessibile
a tutti ed il mezzo di locomozione erano i motorscootur.
Nel 1953 è uscita la nuova serie della " Vespa 150 Sport". Ricordo che in
Corso Dante di Alessandria, c'era una concessionaria della Piaggio e in
vetrina faceva bella mostra di se, bella, nuova e fiammante la "Vespa 150
Special". A furia di guardarla, è finto che l'ho comperata, naturalmente a
rate, perché il nostro modesto stipendio non ci permetteva di pagarla in
un'unica soluzione, come del resto succede anche oggi.
Dopo di questo inciso o parentesi, che dir si voglia, che vuole precisare e
spiegare il nostro ricordo, che diede l'avvio al bum economico e
industriale post bellico del nostro Paese, veniamo alla nostra escursione o
meglio dire alla nostra scampagnata con le nostre morose. Quando il sole si
apprestava a sorgere verso oriente i tre amici scooteristi con le relative
ragazze sedute sul seggiolino posteriore transitavamo sul lungo ponte che
attraversava il Fiume Tanaro, lasciando dietro di noi la città di
Alessandria semi addormentata e diretti verso le basse colline di
Valmadonna. La strada provinciale prosegue verso la regione collinare
delimitata dal Po verso nord. Il solco vallivo del Tanaro la divide in
Basso Monferrato a nord e Alto Monferrato a sud. Ed é compresa
principalmente nelle province di Asti e Alessandria. I rilievi che formano
il Monferrato, dolcemente arrotondati in colline poco elevate, sono
costituite da terreni calcarei poco compatti e da depositi argilloso
d'arenaria o risalenti al terziario. Percorriamo un paesaggio collinare
unico nel suo genere e di grande bellezza paesaggistico, tanto che sembra
un meraviglioso giardino incantato, un paesaggio pittura, un luogo delle
fate.
Appoggiati alle loro curve, borghi arroccati e antichi castelli. Illuminati
da un sole che si mangia le ore e tinge di ocra i vigneti. Ecco il
Monferrato confinante con le Langhe. Raccontate da Beppe Fenoglio e Cesare
Pavese. Il mese di settembre è per antonomasia il periodo della vendemmia e
il profumo fragrante dell'uva matura e del mosto che incomincia a
fermentare nei palmeti, penetrava le nostre narici inebriandoci. La coltura
di gran lunga predominante nel Monferrato è quella appunto della vite.
Eppure generosa quando si tratta di soddisfare il palato con i suoi vini: (
Il Barolo, Il Barbera, Il Barbaresco, Il Moscato
e il Dolcetto). Terre di coltura contadina: Di tartufi e di nocciole. Di
pascoli, e di formaggi grassi. Una regione senza confini precisi, che si
estende pressappoco fra il corso del Tanaro e quello del Bormida di Spigno,
attraversata dalle valli del Belbo e della Bormida di Millesimo.
Nel nostro itinerario, inoltre, abbiamo ammirato lindi paesini raccolti
sulle colline, interessanti per la loro storia. Qualcuno ha scritto che
qualunque sarà l'itinerario scelto, alla fine non potrete che amarla questa
antica e generosa terra del Monferrato. Questa regione gliel'hanno
raccontata come una terra difficile, di agricoltori, dal carattere
spigoloso. Eppure generosa quando si tratta di soddisfare il palato con la
sua ottima cucina, una cucina molto rinomata nel mondo.
Questo itinerario storico e naturalistico percorre il confine del
Vercellese con e il Biellese, sfiorando diversi castelli (nel complesso se
ne possono contare moltissimi. Appena si lasciano le verdi colline
moreniche del Monferrato, il paesaggio cambia completamente. Al posto delle
coline abbiamo trovato un paesaggio pianeggiante e specchiate con le sue
eterne risaie, i fossati e i lunghi filari di pioppi e le grandiose cascine
sperdute nella grande radura. Quando siamo arrivati sul Lago di Viverone,
il sole era alto sul cielo. Abbiamo lasciato la grande pianura coltivata a
risaia e siamo entrati in un paesaggio diverso con piccole colline
moreniche che incorniciano il lago. Nella zona vi sono tanti castelli: essi
sono per lo più di origine alta medioevale, generati dalla frammentazione
del territorio tra i vari Conti de Canavise, e nel corso dei secoli hanno
mutato i caratteri difensivi per diventare dimore gentilizie; però
nonostante i ripetuti rimaneggiamenti sono ancora notabili alcuni elementi
originari. Molti sono ora privati, ma comunque visitabili: puntiamo su
Azeglio, paese natale di Massimo D'Azeglio, dando uno sguardo al castello
del XIV sec. rimaneggiato in stile neogotico inglese, i cui interni sono
stati quasi completamente distrutti da un incendio nel 1976. Ora inizia il
tratto che ci porterà a costeggiare metà del lago di Viverone: si passa per
la regione Ocarina, accanto a destra. Abate, antico ospizio lungo la Via
Francigena, e a sinistra al Maresco, in cui è possibile spiare gli svassi
tra i canneti, anche se le zanzare fameliche non permettono la sosta;
proseguendo sulla strada sterrata, bianca e ghiaiosa, si tiene la sinistra
ritornando sull'asfalto e, dopo una corta salita, ci si avvia verso il Lido
di Viverone dove ci fermiamo per uno spuntino in una tipica osteria dal
sapore antico.
San Valentino
Domenica 22 gennaio 2006
Anche quest'anno, come è successo negli anni scorsi, per trascorrere la
prima giornata della stagione invernale sulla neve nel Trentino, nella
bella località sciistica di San Valentino, ci ha pensato il CRAL Cultura di
Mantova.
Siamo partiti dal nostro borgo padano di Campitello, per raggiungere
l'autostazione delle corriere di Mantova che il sole era già alto nel
cielo, mentre una massa nuvolosa copriva inesorabilmente la pianura padana,
per fortuna non si trattava della noiosissima e pericolosa nebbia che fino
ad ieri ha formato un vero muro invalicabile di nebbiaccia fitta, umida,
fredda e impenetrabile per via della bassa temperatura, che era scesa
parecchio sotto lo zero, tanto che si è trasformata durante la notte in
"galaverna", creando un paesaggio astratto e metafisico, un paesaggio della
steppa russa, aveva insomma tutte le caratteristiche del paesaggio
norvegese.
. Dopo il territorio veronese, come succede quasi sempre, il cielo è
ritornato limpido e trasparente, mentre il sole illuminava i contrafforti
della Vallagarina: un lungo tratto di fiume Adige che scorre tra Verona e
Trento attorniato da valli, declivi e montagne in una successione di
paesaggi fantastici, colori, cittadine, castelli, richiami storici ed
eventi culturali, profumi e sapori e che dire della geometria perfetta dei
vigneti, quando in primavera sbocciano i teneri tralci, i rami giovane di
vite e delle altre piante fruttiferi. Un fascino che rimane anche d'inverno
e s'arricchisce
Grazie alle offerte legate alla neve dell'Altopiano di Brentonico dove, a
soli 25 chilometri da Rovereto, si trovano le aree sciistiche di Polsa, San
Valentino e San Giacomo. Località facilmente accessibili se si pensa che
per chi giunge da Milano o Bologna bastano poche ore di viaggio mentre per
arrivare da Verona o da Mantova ne basta una per ritrovarsi immersi nella
candida e soffice neve. Giunti al Casello Autostradale di Rovereto Sud.
dopo la pausa caffè i due grossi torpedoni, hanno lasciato l'Autobrennero e
si sono immessi sulla Provinciale che da Brentonico, in pochi minuti hanno
raggiunto il "paradiso bianco degli sciatori" che scelgono, sempre più
numerosi, la fortunata e bellissima località di San Valentino. Luoghi a noi
noti da molto tempo, per aver effettuato con gli amici del CAI di Mantova,
diverse escursioni nel periodo estivo e autunnale, quando i prati sono
fioriti e gli alberi dei boschi assumono quei caratteristici colori caldi e
bellissimi dell'autunno. Nel periodo invernale non ci siamo mai stati, ma
vi assicuro che è un luogo molto bello non solo per sciare, fare del fondo
o addentrarsi nei boschi con le "ciaspole", ma è meraviglioso camminare a
fianco ai bordi delle piste di fondo e di tanto in tanto fermarsi per
godersi, oltre il tiepido sole, il meraviglioso e struggente paesaggio, da
dove l'occhio può spaziare all'infinito e cogliere le bellezze delle catene
dolomitiche.
L'altopiano, disposto lungo il versante settentrionale del Monte Baldo, si
ricopre in inverno di un incredibile manto bianco trasformandosi in una
grande palestra per lo sci, il divertimento e le scoperte legate alla neve.
Tra queste si possono scegliere i corsi per principianti, gli allenamenti
per sci club e la partecipazione a gare, ci si può dedicare alle avventure
a contatto con la natura equipaggiati con le "ciaspole" in compagnia delle
guide alpine, oppure divertirsi sulle piste di pattinaggio su ghiaccio. Per
gli amanti dello sci nordico inoltre il Monte Baldo ospita il centro del
fondo San Giacomo con un anello scuola dove imparare i primi passi in
compagnia di esperti maestri e la pista agonistica "Baronessa Salvotti"
omologata per le gare FISI.
In questa località, ognuno di noi ha trovato il piacere di camminare in un
bosco coperto di neve, respirare a pieni polmoni l'aria salubre e fresca
della montagna, evitando per un giorno i veleni e le polveri sospese dello
smog nelle nostre città. Per gli amanti della natura, i contrafforti di San
Valentino sono il posto giusto per sciare o camminare con le ciaspole. E'
la palestra all'aperto dei Mantovani e dai Veronesi, dove i giovani possono
prepararsi per le gare o a incominciare ad avere il primo approccio con gli
sci e prendere confidenza con la natura circostante. Abbiamo saputo che
durante le Festività Natalizie e per tutto il periodo invernale, sono
davvero tante le proposte e le iniziative adatte a tutta la famiglia. Chi
ama camminare trova le piste per lo sci di fondo, le escursioni con le
ciaspole, termine trentino per le racchette da neve create proprio per non
sprofondare nel manto bianco scoprire i più vari itinerari sui monti
dell'Altipiano.
Ma lo sapevate che lo sci di fondo era ed è tutt'oggi uno sport completo
che permette l'impiego funzionale del tronco e di tutti gli arti, rispetto
alla marcia o alla corsa; la spinta sui bastoncini richiede un uso maggiore
delle braccia ed un dispendio energetico di gran lungo superiore.
Un simile lavoro muscolare comporta un funzionamento intenso del sistema
cardiovascolare e respiratorio. Tra gli atleti degli sport di resistenza, a
livello agonistico ed amatoriale, i fondisti presentano valori di potenza
aerobica più elevati. Ciò significa maggior ricchezza di ossigeno nel
sangue, ed un metabolismo che predilige e facilita il consumo di ossigeno e
la demolizione ed il consumo dei grassi lasciando meno "scorie" in circolo.
Cioè potenza e resistenza alla fatica ed agli stress. Il sistema
cardiovascolare si rafforza decisamente sia in portata che in dimensione.
Il movimento del fondo interessa la muscolatura per buona parte della sua
estensione, un utilizzo costante e completo che migliora la funzionalità di
tali organi, ma non bisogna dimenticare le lunghe escursioni a piedi sui
sentieri e godere con più calma del bellissimo paesaggio circostante.
Non dimentichiamoci che questo vale per tutti: giovani e meno giovani,
principianti ed anziani. Questo sport fu inventato dai militari tanti anni
fa, ma questo sport va affrontato per gradi, solo così si otterranno
notevoli risultati anche dopo il periodo invernale. La fluidità dei
movimenti, la concentrazione nello sforzo, la calma degli ambienti, la
bellezza dei posti rimettono in forma la "mens nel corpore sano".
Prima di raccontarvi la piacevole giornata trascorsa sulla neve in questa
località di sfuggente bellezza, che é San Valentino, come il solito,
vogliamo iniziare con la storia di questa località e soprattutto della
località San. Valentino.
Correva l'anno 1630 ed in quel tempo imperversava la peste fra la gente di
Gragnano. Su una popolazione di 30 000 anime ci furono circa 400 vittime.
La tradizione vuole che l'eremitaggio sia stato eretto, fra il 1650 - 1700,
dai superstiti dell'epidemia, fuggiti quassù fra queste montagne dopo aver
fatto un voto. La cappella e le camere servirono in seguito a chi cercava
riparo e salvezza. Per ultimo servì come rifugio a Geremia Paladini, il
quale sfuggi alla coscrizione da parte degli Austriaci ( 1842), all'epoca
sovrani nella zona. L'edificio in stato di degrado - che sorge esposto sui
precipizi rocciosi della Cima Momer - fu riedificato negli anni Settanta
del nostro secolo.
In passato, nel periodo estivo, come abbiamo detto sopra, con alcuni amici
del CAI di Mantova, Adriana mia moglie ed io, abbiamo fatto la nostra prima
conoscenza con la montagna del Monte Baldo. Ricordo che abbiamo effettuato
una bella escursione su quei facili sentieri, ora pianeggianti e ora
tortuosi che s'inerpicano dolcemente su per i pendii della montagna
incantata. Quella è una località molto bella, immersa in una vegetazione
arborea e floreale, dove il verde domina su tutto e fa da padrone assoluto
e poi, abbiamo scoperto una cosa molto importante: il silenzio assoluto,
interrotto di tanto in tanto dal cinguettio degli uccelli e il lamento
costante di qualche raro e querulo ruscello. Dallo scorrere dell'acqua del
ruscello, ho imparato che il tempo non ritorna, e con lui il passato.
Oggi, dopo tanto tempo, siamo ritornati in questi luoghi innevati per
rivedere e rivivere quel paesaggio meraviglioso, queste oasi di pace
magiche, ma ci siamo accorti che è tutto cambiato, trasformato, non è lo
stesso, come pure i sentieri, i torrenti e il paesaggio sono livellati dal
manto nevoso che da un aspetto da favola. .Tutto è sempre nuovo ai nostri
occhi: nasciamo dal nulla, non sappiamo da dove veniamo e perché esistiamo.
Andiamo come l'acqua del ruscello lungo il cammino che qualcuno ha
tracciato per noi.
Spesso non ci rendiamo conto della bellezza della natura che ci circonda e
ignoriamo persino la pace e la tranquillità che regna in questo paradiso
terrestre con il silenzio, e siamo convinti che il silenzio è una cosa
astratta e fuori della realtà, ma non è così. Giunto a questo punto, invito
i miei amici Campitellesi e Mantovani, che sono saliti fin quassù, con noi
su questa montagna incantata e bianca di neve a far silenzio nella loro
mente e a meditare sul mistero della vita. Si, ora occorre proprio una
pausa di silenzio, il silenzio della montagna innevata e silenziosa, il mio
silenzio, il silenzio di chi un giorno leggerà queste mie semplici
riflessioni, questi miei pensieri, che altro non sono che un ricordo
sfuggevole della bellezza dei luoghi. Ma, spesso ci domandiamo, che cos'é
il silenzio?
" Il silenzio comincia col far
Chiudere le labbra e poi penetra
Fino al profondo dell'anima,
Nelle regioni inaccessibili, dove
Dio riposa in noi.
Ritornando indietro nel tempo, cerchiamo di descrivere sul filo della
memoria, l'itinerario di quella nostra prima escursione sulla montagna
benedetta di San Valentino. Ricordo che siamo partiti dal parcheggio, che
si trova al margine del luogo che si entra nello stesso in direzione Nord -
est. Frecce azzurre e la segnaletica ( nr. 31, rossa, per Briano e Comer)
indicano la via. Dopo 50 metri si piega a sinistra e subito dopo a destra,
quindi sempre dritti, si passa per via privata, seguendo un lungo muro.
Dopo un breve percorso iniziale su di un sentiero pianeggiante, una
moderata salita entro una fitta foresta. Di tanto in tanto si apre uno
squarcio sul paesaggio stupendo, dove l'occhio si perde all'orizzonte con
viste panoramiche anche sul lago e su Gargano. Dopo 30 minuti, si arriva ad
una radura, dove le vie si dividono. Si piega a destra nel bosco, per
arrivare in pochi minuti nell'alveo asciutto di un torrente, nel quale si
scende per erti gradini.
Ora il piano, si va attraverso il fianco scosceso della montagna ed in
lieve salita, per giungere all'accesso dell'eremo, reso vivibile da un
piccolo ingresso ad arco. Pensando a quel piccolo eremo, mi viene in mente
il Santuario della Corona che sorge anch'esso sul Baldo ed è dedicato alla
Madonna Addolorata. E' detto " della Corona" ed è costruito in uno spiazzo
incavato in una parete di roccia, sporgente su di un dirupo di 400 metri
come quello di San Valentino.
Gia meta di eremiti in epoca medioevale, sorse per venerare un'antica
statua della Madonna Addolorata. La tradizione vuole che l'effige appaia
prodigiosamente tra le rocce del Monte Baldo la notte del 24 giugno del
1522, altrimenti la presenza della statua si spiega come dono di un ex-
voto agli eremiti della Corona.
Lasciamo la storia del passato e ritorniamo alla nostra escursione odierna.
Come ogni giorno succede, dopo lo svago all'aria aperta, immersi sui campi
innevati, abbiamo abbinato anche la scoperta dei sapori e della tradizione
montanara allo svago sulla neve. Quando lo stomaco si ribella e fa le
bizze, quando si mette a gorgogliare, che cosa si deve fare? Avvicinarsi
verso la "Malga Mortigola", per il pranzo conviviale, che l'organizzazione
del Cral, come sempre, ha prenotato per tempo.
Nelle nostre lunghe passeggiate, anno dopo anno, abbiamo scoperto le
meraviglie della montagna, camminando fianco a fianco sui sentieri
dolomitici e quelli appenninici con gli uomini rudi e forti del CAI di
Mantova, ma da alcuni anni, oltre al CAI, abbiamo scoperto anche un'altra
categoria di escursionisti, che sono i pensionati del CRAL di Mantova. Fra
queste due associazioni, dobbiamo dire che abbiamo trovato una grande
differenza fra loro. Quelli del CAI, non disdegnano neppure loro la buona
cucina, ma amano soprattutto camminare ed esplorare sempre luoghi nuovi per
fare un ottimo trekking, mentre quelli del CRAL, sono grandi cultori della
buona cucina e di camminare non se ne parla proprio.
Noi siamo calabresi di nascita e mantovani di adozione, ma dopo trent'anni
che abitiamo in Val Padana, abbiamo acquisito per diritto la cittadinanza
onoraria e con la cittadinanza, abbiamo ormai acquisito anche gli usi e i
costumi dei padani. Noi mantovani, scusate se mi definisco tale, per
antonomasia, siamo conosciuti dappertutto per essere dei buoni gustai, ma
soprattutto delle buone forchette, senza disdegnare un buon bicchiere di
lambrusco di quello doc, ma se invece dei bicchieri sono due, è sempre
meglio.
Dal villaggio di San Valentino, da dove si ammirava un paesaggio bellissimo
della catena montuosa del Monte Baldo, per l'ora di pranzo, eravamo attesi
presso "L'Agritur Malga Martigola" che si trovava immerso fra i boschi e le
pendici del Monte a 1200 metri di altitudine, con splendida vista
panoramica sulle valli del Trentino. La città di Rovereto, praticamente era
sotto i nostri piedi ed era immersa e circondata da un paesaggio bellissimo
di silenziose montagne imbiancate di neve, mentre l'Agriturismo, é situato
in una posizione unica, tranquilla e molto soleggiata e rappresenta il
punto d'arrivo e di partenza ideale per escursioni e passeggiate sul Monte
Baldo. Questo è un luogo dove regna tanta tranquillità ed è a stretto
contatto con la meravigliosa natura e gli animali della sua azienda ed è
ideale per una vacanza rilassante. Abbiamo avuto l'opportunità di gustare i
propri prodotti genuini e i piatti della vecchia cucina tipica trentina,
come la polenta " taragna" con il coniglio, le tagliatelle alla boscaiola
seguiti dagli arrosti di maiale.
Come succede tutte le volte che si va in gita culturale e soprattutto
gastronomica con il Cral, Escursionismo e Coltura, abbiamo conosciuto nuove
persone, con le quali abbiamo socializzato nel segno dell'amicizia.
La filosofia significa amicizia, socializzazione e soprattutto sviluppare
rapporti interpersonali in modo costruttivo con gli altri, e dove meglio di
un Agriturismo come questo poteva ospitare oltre novanta persone non più in
tenera età, seduti tutti in un unico ed ampio tavolo, in un locale
riscaldato oltre che dal calore umano, da una grossa " stube", ma
soprattutto da un bicchiere di quello buono, il Cabarnet o il Merlot, un
vino del Trentino, dal colore rosso rubino intenso, che si produce proprio
nella grande Val d'Adige o Vallagorina come dir si voglia.
Un bicchiere dopo l'altro per festeggiare, come scriveva il grande
scrittore e carissimo amico Mario Soldati, è quello che ci vuole, come del
resto sta succedendo oggi a noi in questa località sperduta fra i declivi
di questa montana incantata, dove regna la pace, la serenità ed il silenzio
ovattato dalla neve. Mentre sorseggiavo lentamente questo nettare degli
dei, osservavo il volto di ogni commensale e mi accorgevo sempre più che
oltre ad essere euforico erano felici di vivere in sintonia con la natura e
in accordo con l'armonia dei sentimenti e gli ideali fra le altre persone.
Ho compreso inoltre una sola cosa, che l'amicizia è un bene prezioso, un
sentimento che accomuna tutte le persone, indifferentemente della loro
posizione sociale, ma un vecchio proverbio dice che non è mai troppo tardi
per scoprire le cose belle della vita come l'amicizia. L'amicizia è una
delle forme spontanee in cui si manifesta la solidarietà tra gli uomini.
L'amicizia è il legame di affetto che si stabilisce tra due persone, sulla
base della comprensione spirituale, della confidenza, della stima reciproca
e con l'esclusione dell'utile ( almeno come scopo diretto).
L'amicizia è una delle occasioni in cui più facilmente si percepisce
l'esigenza umana di solidarietà, di vicinanza di altri esseri, simili a noi
per pensieri e atteggiamenti, il bisogno di affetto, di approvazione, da
parte degli altri.
Una delle contraddizioni più stridenti della nostra epoca è data dalla
condizione in cui si trova a questo proposito l'uomo moderno: mentre mai
come oggi gli uomini sono avvolti da una fitta rete di comunicazioni, di
parole, di immagini, di presenze di altri esseri viventi in tutto il mondo
( radio, televisione, giornali, città affollate, stadi ricolmi, rapporti di
lavoro e rapporti politici) l'uomo sente come mai prima il peso di una
paurosa solitudine. Specialmente la grande città suggerisce questo senso di
vuoto: le presenze sono quelle di estranei, la folla è anonima. Sono voci
esterne, molto spesso futili, che, però non possiamo fare a meno di
ascoltare, e che mettono in dubbio le certezze del giorno prima.
In questa zona oscura del nostro essere, in questo buio insormontabile
della certezza: la saggezza è messa in crisi dall'ambizione la serenità è
continuamente aggredita dalle tentazioni; le passioni si fanno beffe della
ragionevolezza. E il passar del tempo anziché placarsi spalanca nuovi
inquietanti interrogativi.
Come uscire allora da questo vicolo cieco? Simile ad un treno in corsa che
attraversa fasci di binari, la voce dei desideri apre e chiude gli scambi,
si entusiasma e si deprime, incapace di scegliere il binario giusto. Ma chi
sarà il vero macchinista del treno? Noi naturalmente, si, siamo noi stessi,
con le nostre gioie e anche con le nostre debolezze. E allora, ben vengono
questi raduni, questi convivi, queste evasioni, questi banchetti per farci
dimenticare sia pure per un giorno le sofferenze e le brutture della vita.
Il grande banchetto in questo rustico Agriturismo ai margini del bosco
della montagna trentina, mi ha richiamato agli immortali versi dal
Decamerone di Giovanni Boccaccio:
" Chi vuol essere lieto sia,
Di doman non c'è certezza".
Si, è proprio così, lo rammenta la larga partecipazione con cui il
Boccaccio contempla le vicende e i personaggi delle sue novelle che lascia
intravedere dietro di sé una prospettiva di vita raffinata e intelligente,
vagheggiata come traguardo ideale: in cui ben riflettono le aspirazioni e
le tendenze della società borghese della seconda metà del Trecento, che
veniva assumendo le idealità e le norme di decoro e gentilezza della
civiltà cavalleresca e cortese, adattandole alla realtà e alle esigenze
della vita comunale. Allo spirito di questa società è legato anche quell'atteggiamento
ottimistico e positivo che esalta i valori terreni e mondani e induce a
un'aperta fede nella capacità dell'uomo a dominare la realtà e se stesso,
che la critica odierna sottolinea nel Boccaccio, indicandola come base
della sua ardita e duttile accettazione delle vicende umane: così tutte le
novelle - quelle più congeniali e solidali ai suoi ideali e quelle più
estranee e lontane - trovano un proprio senso e valore profondo e si
compongono, filtrate dal vigile impegno letterario, in una scrittura
flessibile e vivace e insieme sostenuta e disciplinata secondo i modelli
della prosa d'arte latineggiante, nel variegato e realistico quadro di
un'epoca contemporanea come la nostra.
Trieste: come una visione.
Oggi, come il solito, non parliamo di montagna e quindi non abbiamo il
piacere di raccontarvi una storia o parlarvi di una meravigliosa località
del Trentino Alto Adige, della My Calabria, della verde Toscana oppure
dell'Appennino Tosco Emiliano, di descrivere una stupenda camminata in un
bosco innevato, respirando l'aria di montagna e delle passeggiate a cavallo
attorno al lago di Pinè o in Val di Cembra. L'anno scorso, con Adriana mia
moglie ed alcuni nostri amici, in un mattino freddo e splendente di sole,
siamo giunti in quella Valle meravigliosa dove abbiamo trascorso momenti di
grande felicità. Quest'anno, durante le Festività Natalizie, siamo saliti
fin sull'Altopiano di Siusi e dello splendido Sciliar, dove la vita ha un
altro significato e dove regna quel silenzio quasi australe che è veramente
un'altra dimensione, che si protrae per tutto il periodo invernale. Quello
è un paesaggio grandioso che nella sua vastità di un bianco irreale e
metafisico, ogni escursionista può davvero trovare tante proposte e
iniziative adatte a tutta la famiglia. Chi ama camminare, come facciamo
spesso noi, trova le escursioni con le ciaspole, ( termine trentino per le
racchette da neve create proprio per non sprofondare nel manto bianco), con
gli sci da fondo o se si è romantici, farsi trasportare dal cavallo su di
una di quelle slitte caratteristiche, sognando magari la steppa russa ed
ascoltando quella dolce musica del "Motivo di Lara".
Oggi, grazie al ritorno del " Caso di coscienza 2", la fortunata fiction di
Rai Uno, che ha avuto molto successo in passato e che ha visto Sebastiano
Somma nei panni di Rocco Tasca, una sorta di Perry Mason all'italiana,
sempre al servizio di quelli che non hanno i mezzi per far valere le
proprie ragioni in tribunale, poveri o, ma anche semplici cittadini
impotenti di fronte ai giganti dell'industria o della finanza. Questa nuova
serie, ci ha catapultati nel cuore della città di Trieste, la città più
amata dagli italiani, dove appunto sono stati girati i vari episodi della
seconda serie della fiction "Un caso di coscienza 2".
Nel cast, a fianco di Somma, abbiamo visto una bravissima ballerina del
"sabato sera": Loredana Cannata e Stephan Danailov ( già protagonisti della
prima serie), c'è la new entry Barbara Livi nei panni dell'anatomopatologa
Erica con cui l'avvocato Tasca intreccerà un legame sentimentale che
nasconde però il desiderio di vendetta di lei.
L'arrivo di Erica - spiega Somma - renderà il legalthriller un po' più
torbido" Infatti, " il mio personaggio - aggiunge Barbara Livi - è una
donna apparentemente fredda e distaccata che cova, però un grande rancore,
legato ad un mistero che verrà fuori nel corso della fiction e che non
saremo, al momento in grado di spiegare, e poi sarebbe ingiusto conoscere
la trama in anticipo altrimenti rovinerebbe la suspence a tutti noi
telespettatori. Da quello che abbiamo capito nella puntata precedente,
Erica farà comunque un percorso di cambiamento dopo l'incontro con
l'avvocato Tasca", rivela l'attrice in un settimanale.
Le sei puntate della nuova serie, prodotte per Rai Fiction dalla Red Film e
dirette da Luigi Perelli, sono tutte ispirate alla cronaca più attuale; dal
caso di " legittima difesa" di un tabaccaio che spara e uccide l'amante
della moglie, facendolo passare per un rapinatore, allo scandalo delle
valvole cardiache malfunzionanti, al risparmiatore truffato con
obbligazioni ad alto rischio che ci richiama al caso clamoroso di una
grossa industria di Parma. Infine, " grazie anche al nuovo Codice di
procedura introdotto nell'amministrazione giudiziaria italiana, che
consente le indagini anche agli avvocati, questa serie affronta il genere
della fiction legale con un nuovo taglio", trasformando il protagonista in
avvocato - investigatore, spiega il vicedirettore di Rai Fiction Max
Gusberti, che annuncia: " E' già in fase di scrittura la terza serie.
Quello che ci ha fatto tanto piacere, in questa nuova fiction, é stato di
rivedere un nuovo Perry Meson all'italiana, che ci ha fatto ritornare
indietro nel tempo e ci ha riportati al nostro vecchio amore, all'attività
investigativa, quale Comandante di Stazione CC, quando le indagini si
svolgevano empiricamente, ( che provenivano dal fiuto e dalla grande
esperienza investigativa e che si fondavano solo sulla pratica, privi di
alcun valore scientifico) come quell'indagine che svolgeva il famoso
commissario Maigret di Georges Simenon. A quel famoso personaggio del
commissario Maigret con la pipa hanno dato vita, sullo schermo e in serie
televisive, famosi attori quali, tra gli altri, Jean Gabin, Charles
Laughton, ed infine il nostro grande e impareggiabile Gino Cervi. In quei
tempi, ahimè ormai lontani, nel nostro piccolo, ci sentivamo dentro di noi
tanti piccoli Maigret, che cercavamo di approfondire le indagini o le
ricerche per acquisire maggiori conoscenze e soprattutto indizi
sufficienti, per scoprire il responsabile di un delitto, ma vogliamo
spiegare che cos'è un indizio? L'indizio è il segno, la traccia, la
circostanza e simile, perciò si può, indirettamente ma ragionevolmente,
arguire o supporre qualcosa. Nel linguaggio giuridico, perché di questo che
stiamo parlando, è la prova che si ricava, si deduce da un fatto accertato
per il quale si procede e i approfondiscono le indagini. Tutte le tracce e
gli indizi più insignificanti, portano sempre a carico, e indicano come
autore di un'azione, di solito delittuosa. Per svolgere l'attività
dell'indagatore, ai nostri tempi, oltre che all'intelligenza occorreva
avere fiuto: capacita di valutare persone o situazioni, avere buon fiuto e
intuito, avere quella capacità di intuire, l'immediatezza, la prontezza, la
rapidità nel capire senza ricorrere al ragionamento o alla riflessione.
Oggi, la tecnica dell'intuito e del fiuto è superata, c'è la tecnologia
scientifica più avanzata che porta, in poco tempo, a scoprire l'autore di
un atto delittuoso.
Questa seconda serie della fiction, oltre che farci vedere all'opera
l'avvocato Rocco Tasca nei panni di un piccolo Perry Meson, ci ha fatto
rivedere con piccoli flash la meravigliosa Città di Trieste, perché questa
serie di fiction, è stata girata proprio nella bellissima città Friulana,
con i suoi spaziosi viali, le piazze, il porto, mentre la città è dominata
dalla collina di San Giusto, coronata dallo storico castello.
Caratteristica delle condizioni climatiche di Trieste è la bora, che tutti
ne abbiamo sentito parlare per l'impetuoso freddo vento locale che talora
investe da E-NE la città con gelide e fortissime raffiche. Sul colle di San
Giusto è la città vecchia, con la zona storica e le strette, tortuose
viuzze; ai suoi piedi la città moderna. Centro cittadino e la storica
piazza dell'Unità, prospiciente il bacino San Giusto; una delle più vaste e
belle piazze d'Italia: a NE si trova il quartiere degli affari, con il
palazzo della Borsa. Attorno si sono sviluppati rioni periferici,
residenziali e industriali: San Luigi, San Sabba Borgo San Sergio il Canale
Rosso. Passeggiando nel centro moderno della città, si possono vedere
palazzi di diversa architettura e stile, come il Liberty e il
Rinascimentale diverso, con palazzi il famoso e meraviglioso Castello
Miramare, posto sopra una rupe con le sue torri che si specchiano in quel
mare azzurro e circondato da giardini fioriti e da piante esotiche e di
pini marittimi, da dove si ammira un paesaggio stupendo, un paesaggio senza
pari e soprattutto da sogno.
La prima volta che scoprimmo questa stupenda Città, fu il 12 giugno del
1954, quando Trieste tornò all'Italia dopo una lunga controversia
internazionale. In quel tempo, ero giovane carabiniere e prestavo servizio
presso il Comando Legione Carabinieri di Alessandria. Per il ritorno di
Trieste, fui aggregato ad un reparto di formazione dell'Arma, in grande
uniforme, che seguiva il reparto motociclista.
Ricordo che l'ammassamento delle truppe di vari reparti dell'Esercito
Italiano, fin dalle prime ore del mattino, erano ammassate nei pressi del
Castello Miramare. Incominciando da quella località, da dove ha inizio il
grande viale che porta nella meravigliosa piazza dell'Unità d'Italia, era
invasa da migliaia di persone festanti. La città era addobbata a festa dove
dominavano i colori d'Italia. Sui balconi, alle finestre e sui pennoni
sventolavano migliaia di bandiere tricolori. Al nostro passaggio i
triestini, felici e gioiosi lanciavano mazzi di fiori, accompagnati da
evviva l'Italia e da calorosi battiti di mano. Le ragazze, le bellissime
mule, come sono chiamate a Trieste, facevano di tutto per poterci
abbracciare. La cerimonia fu solenne. Il popolo, vecchi e ragazzi, hanno
festeggiato per tutta la notte, ballando sulle piazze e sulle strade. Si è
anche brindato alla fine delle ostilità e al ritorno alla madre Patria
della città. E' stata una festa bellissima, una festa che è difficile
poterla descrivere e dimenticare.
A Trieste, con Adriana mia moglie, ci siamo ritornati più volte, l'ultima
volta è stata pochi anni fa in una gita turistica organizzata dall'Ente
Valle di Campiello.
Il Triestino, come pure il turista come noi, che dopo una lunga assenza
arriva nella più bella città d'Italia, giunga dal mare, dalla strada
costiera o dall'altopiano, rimane sempre incantato dal meraviglioso e
immutato panorama che gli si presenta davanti agli occhi. E' una vista che
lo affascina e lo avvince in qualsiasi stagione. Trieste, come scrive lo
scrittore Bruno Razza, è come una madre che sempre attende e spera che i
suoi figli ritornano, gli si fa incontro in un ampio abbraccio affettuoso e
commovente, come è successo a noi, quando il 12 giugno del 1954, sfilammo
orgogliosamente per le sue strade e le sue piazze.
In questa vecchia canzone popolare, una delle più belle nel dialetto
triestino, sono espressi i pensieri e le sensazioni del figlio ritrovato
che ritorna nella città natia dopo tanti peripezie, spesso povero come
quando l'aveva lasciata, ma vedendola è ben consapevole della riacquistata
felicità.
Trieste mia
Parole di Raimondo Cornet - musica di Publio Carniel.
Cos on lontan de ti, Trieste mia, / me sento un gran dolor/ e più che
zerco de pararlo via, /più me /e ingropa el cor./ Le lagrime me cori zo per
viso/E digo fra le mi/ Che no ghe esisti un altro paradiso/ Più splendido
de ti!/ Un buso in mia contrada/ Un vecio fogolar; / un sial che pica in
strada, / do rose in un piter, / in alto quatro nuvoli, / de soto un fià de
mar, / xe 'l quadro più magnifico/che mai se pol sognar!/.
Lontan de ti, Trieste, ne go pase: / me manca el nostro ziel, / el verde
dei tui pini, le tue case/ e i muri del castel.
E penso al mio balcon in Rena vecia, quel caro balconzin!/ De dove vedo i
monti che se specie/ nel golfo zelestin.
Un buso in mia contrada…/ lontan de ti, son come l'useleto/ che vivi in s'ciavitù/
e me dispero e pianzo el mio dialetto/ che non lo sento più!
Ma quando torno, canto de alegria:/ me salta el cor sen/ e zigo: Ah si,
Trieste, ti sei mia!
Un buso in mia contrada……
La canzone triste e toccante dell'emigrante triestino, non rappresenta
altro che la similitudine della metafora della vita di ognuno di noi
specialmente, quando ci troviamo lontani dal focolare domestico e dal paese
nativo. La rievocazione dei luoghi più cari della fanciullezza che ci danno
tanta allegria e serenità. Lo stesso si può dire per la Felicità perduta.
Ma ci viene da domandarci, che cos'è la filosofia e la felicità? Essere
felice vuol dire essere contenti del presente e del passato del proprio
Paese. Tutti a parole, siamo convinti di essere stati felici in passato, e
tutti speriamo di essere felice in futuro; quando, però, si tratta di
riconoscere che si è felici proprio al momento in cui ci si pone la
domanda, ebbene, diciamo la verità, non tutti ce la facciamo.
Si, è proprio così, la filosofia non è altro che l'attitudine che permette
di sopportare serenamente le avversità della vita che passa veloce come il
Tempo. Esso passa e muta inesorabilmente non solo le cose ma anche e
soprattutto i lineamenti dei volti degli uomini e tutto ciò che li
circonda. Come scrive Bruno Razza, che di mestiere oltre che scrivere, fa
parte di quella schiera di persone che ogni giorno si dedicano a fare la
guida turistica della città di Trieste. Noi l'abbiamo conosciuto alcuni
anni fa e possiamo dire, che oltre ad essere profondo conoscitore della
città, possiamo dire che è uno dei figli prediletti della meravigliosa
Trieste. Mentre da un luogo ci spostavamo ad un altro, egli così si
esprimeva dicendomi: " Lei, signor Diego, come mi ha detto, manca da molti
anni da Trieste, e come per le altre città, vi sono però dei cambiamenti
dovuti non solo all'ineluttabile scorrere del Tempo e degli anni, ma anche
alla volontà o alla necessità dell'uomo. Chi oggi cammina per le vie delle
città intasate da veicoli che occupano in parte pure il marciapiede, non
può distrarsi né sollevare lo sguardo per ammirare i palazzi d'epoca di cui
è ricca la nostra città.
Forse è stato un errore eliminare i tram, i mezzi pratici, ecologici e
romantici che circolano ancora in varie metropoli anche nei quartieri più
antichi. Fortunatamente a Trieste ne è rimasto ancora uno po' speciale,
quello di Opicina. In una ventina di minuti con questo particolare veicolo,
la cui linea è un'opera di alta ingegneria, si può raggiungere con un
percorso straordinariamente panoramico l'altopiano carsico dando la
sensazione al passeggero di venire lentamente sospeso nell'aria vedendo
allontanarsi sotto i suoi piedi case e palazzi.
Il castello Miramare
Trieste, sul finire dello scorso secolo era dotata di vari musei Oltre
all'Orto Lapidario c'era il Museo di Storia Naturale, il Museo del Mare, la
Biblioteca Civica. Dopo la Prima Guerra Mondiale si sono aggiunti il Museo
del Risorgimento e il Museo del Castello di Miramare, le collezioni
Sartorio e Staviopulos con i loro rispettivi stabili e il Museo Teatrale
Schmidl. Dopo la Seconda Guerra la Risiera di San Sabba ed il Museo della
Guerra per la Pace sulla base delle collezioni Henriquez.
Il Museo più frequentato é quello del Castello Miramare con il suo parco
ricco di piante e di alberi d'ogni parte del mondo. Di questo gioiello si è
scritto e parlato molto. Volendo dargli un'appropriata definizione
sceglierei quella del Carducci: "Nido d'amore costruito invano", un verso
che richiede tutta la triste e appassionata storia degli infelici principi
Carlotta e Massimiliano. La principesca dimora, situata su di un roccioso
promontorio, dà al turista il più accogliente benvenuto dalla città ed è un
luogo di piacevoli sorprese per tutti coloro che arrivano in questo estremo
lembo della penisola. Centinaia di migliaia di visitatori ammirano ogni
anno stupefatti il candido castello sul mare che lo lambisce.
Il colle di San Giusto
Nei filmati della fiction, abbiamo visto più volte Sebastiano Somma nei
panni di Rocco Tasca, che filava a tutto gas in sella alla sua grossa
motocicletta, come pure faceva la cinica e tenebrosa Barbara Live, nei
panni dell'anatomopatologa Erica per le vie intasate e molto trafficate di
Trieste, che come tutte le città del nostro Paese, è una città molto
rumorosa e trafficata. In questa terza puntata della fiction, che dibatte
lo scandalo delle valvole cardiache malfunzionanti, l'avvocato Tasca, si
accorge che la sua collaboratrice Erica ci nasconde qualcosa di importante
e che cova, però, un grande rancore, legato ad un mistero che verrà fuori
nel corso della fiction. L'avvocato Rocco Tasca, scopre che Erica ha
asportato alcune pagine del fascicolo processuale del processo Manara e si
domanda, per quale motivo? Il suo indagatore privato Virgilio, lo avverte
che Erica, ripetutamente si incontra nel carcere con il detenuto Manara,
con il quale sta tramando qualcosa di strano, forse una vendetta nei suoi
confronti, forse é relativa a quel processo? Una di quelle sere l'avvocato
riceve delle avances da parte di Erica, e questa riesce a portarselo a
letto. Per il momento rimane sempre un mistero.
Lasciamo per un momento la fiction e ritorniamo ai nostri ricordi del
passato di tutte le volte che siamo stati a Trieste, in qualità di turista
e immedesimandoci con un nuovo visitatore che giunge per la prima volta e
desidera qualche ora di quiete, in una città cosmopolita come Trieste, gli
consigliamo di immergersi nel centro storico e possibilmente di raggiungere
a piedi il colle di San Giusto, dove sorge il piazzale della cattedrale che
è uno dei luoghi più tranquilli e meno alterati dove, tra i resti romani
dell'Orto Lapidario, gli edifici medioevali della cattedrale e del castello
e il Parco della Rimembranza, dove aleggia un'atmosfera di pace che invita
persino alla riflessione e soprattutto alla meditazione. Su questo colle,
come ci spiegò a suo tempo il prof. Bruno Razza, nell'ultima nostra
escursione a Trieste. " Su questo colle i Romani hanno lasciato le loro
vestigia quali la basilica forense, il propileo incorporato nel campanile,
il teatro romano e la porta d'epoca augustea popolarmente denominata l'arco
di Riccardo. Dopo la decadenza dell'Impero Romano la città, pur soggetta a
varie dominazioni, lottò sempre per una sua autonomia. La dedizione di
Trieste ai duchi d'Austria del 1382, legalizzata con la nomina di un
capitano dal duce Leopoldo, non la privò delle sue franchigie e libertà.
La dipendenza era soltanto formale. Sotto l'Impero Austro -Ungarico il
capoluogo giuliano godeva ancora di particolari privilegi. Data la primaria
importanza del porto, alcune comunità delle vicine nazioni si stabilirono a
Trieste e favorirono gli scambi commerciali con i loro paesi. I triestini,
quindi, conobbero molte altre culture, ma continuarono a parlare l'italiano
e quel dialetto divenuto il gergo della marina austriaca diffuso, assieme
al veneto, in tutto il bacino dell'Adriatico.
Grazie all'immigrazioni di popoli vicini e con l'incrocio delle varie
razze, nacque così una nuova generazione con bellissime ragazze, che per
questo motivo, vennero chiamate " mule". Quelle mule, che il 12 giugno del
1954, oltre che dispensare i loro baci, ci colmarono di fiori, come si
faceva con gli eroi, ma noi non eravamo eroi, ma soltanto fratelli
italiani.
A valorizzare il pensiero poc'anzi espresso riguardante il pudore e la
gaiezza delle ragazze e per confermare il detto comune che le Triestine
siano tra le più belle d'Italia, vediamo riprodotto un dipinto raffigurante
una contadina.
L'autore, Dyalma Stultus, amava ritrarre ragazze semplici, vestite
modestamente le quali svolgevano lavori umili di campagna o di volontariato
nell'assistere vecchi e ammalati. Tutto questo non succedeva soltanto a
Trieste, ma in tutte le città e i paesi grandi e piccoli del nostro
meraviglioso Paese, come pure nella My Old Calabria.
Dalle pagine ingiallite della storia millenaria dell'antica Tergeste,
emergono ai giorni nostri, molteplici evoluzioni storiche, religiose e
culturali, ma anche e soprattutto artistiche.
La città ha un'antica tradizione musicale perché ha fruito di due
importanti filoni quello italiano e quello mitteleuropeo. Inoltre Trieste,
erede in questo di Vienna, è in Italia la città dell'operetta per
eccellenza.
Tra i teatri della città, quello dell'opera è il più importante ed è
dedicato a Giuseppe Verdi. Il progetto si deve all'architetto veneto
Giannantonio Selva con l'ulteriore intervento dell'architetto Matteo
Pertsch. Dopo l'immane rogo della Fenice di Venezia, teatro progettato dal
Selva, si apprezza ancor di più il tempestivo restauro del Verde che,
sebbene oggetto di un vasto intervento di rifacimento, non ha mutato le sue
caratteristiche iniziali.
La conservazione di uno dei più gloriosi e preziosi tesori della città
onora Trieste ed è una realtà che contribuisce a renderla degna del suo
grande passato. Accanto al Teatro Lirico, Trieste annovera il Politeama
Rossetti, il Teatro Cristallo, il Teatro Miela, il Teatro dei Fabbri, il
Silvio Pellico, il Teatro dei Salesiani, il Kulturni Dom ed altre sale
minori. E' indubbiamente la città d'Europa nella quale, in proporzione al
numero di abitanti, la frequenza dei teatri è la più alta.
Oltre ai Teatri, la città di Trieste, è attorniata dalle sue impareggiabili
bellezze naturali, con il suo splendido Golfo: un mare azzurrissimo, con
paesaggi mozzafiato e le sue meravigliose coste. Per valorizzare
maggiormente tutto questo patrimonio culturale e paesaggistico, ci ha
pensato Rai Uno, con la serie della fiction "Un caso di coscienza 2", che
con le varie puntate, in onda in questi giorni, che sono stati girati,
appunto, completamente a Trieste, ha valorizzato ulteriormente questa
nobile e italianissima città.
Mille alberi scintillanti nella notte di Natale
Per rimanere ancora in sintonia con il ricordo della notte di Natale,
abbiamo incominciato questa nostra lunga cavalcata dei ricordi, viaggiando
sul filo della memoria, che richiama immagini, nozioni e avvenimenti del
nostro passato prossimo e del nostro presente, partendo dai luoghi
dell'infanzia, dalle pendici del massiccio dell'Aspromonte, per approdare
qui, alla vigilia di Natale, sull'Altopiano di Siusi, nel cuore delle
Demolite. Scrivere libri di viaggio e racconti del passato, come cerchiamo
di fare noi da alcuni anni, spesso queste rievocazioni sono noiosi,
ripetitivi e non colgono nel segno le cose veramente importanti. E poi
vanno sostenuti con una prosa adeguata, in modo che diventino un'opera
letteraria. Per fare tutto questo, ci vorrebbe la prosa semplice, chiara e
scorrevole di un vero narratore. Come abbiamo detto più volte, " noi non
siamo scrittori di professione ma semplici cultori della letteratura,
dell'arte e soprattutto della meravigliosa natura che ci circonda. In poche
parole, siamo autodidatta. Le cose le vediamo sotto un'altra ottica, sotto
un altro punto di vista da come le potrebbe vedere un vero scrittore.
Quando dobbiamo scrivere qualcosa, come sta succedendo oggi, che ci hanno
maggiormente impressionati, andiamo subito al nocciolo del problema, senza
curarci del resto. In poche parole ci manca l'arte dello scrittore e
l'occhio di lince di cogliere tutte le sfumature del vero racconto. Oggi,
siamo qui, in questo paradiso terrestre bianco di neve, dove la suggestione
e il fascino dei luoghi suscitano nell'animo umano grande impressioni del
grandioso fenomeno della natura. Dopo una lunga e meravigliosa passeggiata
sull'Altopiano di Siusi, in questo paesaggio incantato, in questo paesaggio
dei folletti e delle fate, mentre piano piano scende la sera e il sole
calando dall'alto del cielo, fra non molto si tufferà dietro il massiccio
dello Sciliar, mentre la nostra piccola squadra, con il sole che ritornò ad
illuminarci il viso, in fila indiana e passo dopo passo, si stava
avvicinando nella piazzola, dove gli amici sciatori di fondo ci stavano
attendendo al Gasthof Albergo, che altro non sarà stato che una moderna
baita, immersa fra mille alberi scintillanti dalla luce del tramonto, per
rifocillarci prima di riprendere il viaggio di ritorno.
Vicino alla stube, al tepore del caminetto, la nonna Maria, stava
mescolando nel paiolo appeso al gancio della catena del camino la polenta
di grano saraceno, mentre nel tegame di coccio c'era in caldo lo stufato di
capriolo per la cena. La nonna Maria, mentre rimescolava e rimescolava in
continuazione la polenta, raccontava ai suoi nipotini, nella sua madre
lingua Ladina, ( lingua derivata dal latino, parlata in alcune zone
dell'Italia settentrionale e della Svizzera), una fiaba meravigliosa dal
sapore di favola di due giovani innamorati che nella notte della vigilia di
natale hanno scoperto l'amore.
Il racconto incominciava con queste parole: "Il loro amore era ancora
giovane".
Si, era proprio così. Il loro amore era ancora giovane, meraviglioso e
intatto allorché Gabriel e Magdalena, due studenti, decisero di trascorrere
per la prima volta le vacanze natalizie lontano di casa, in una fiabesca
valle alpina, per guadagnare qualcosa come maestri di sci e potersi così
pagare i libri, l'appartamento e le tasse universitarie.
Il sole del tramonto accendeva le montagne di bagliori di porpora e d'oro
mentre i due giovani si riposavano nella loro camera, esausti dopo una
giornata trascorsa a insegnare lo spazzaneve a grandi e piccini. La prima
vigilia di Natale lontani dal calore delle loro famiglie, senza genitori e
fratelli, senza albero e doni e cena Natalizia, destava in loro una
sensazione strana e struggente, che non sanno come definire.
La notte santa calò silenziosa e avvolgente sui riflessi azzurrini della
luna sulla neve, mentre i due ragazzi si assopivano, vinti dalla
stanchezza.
" Sono già le otto, svegliati, non vorresti passare tutta la sera di Natale
a dormire!" Dopo un breve riposo Magdalena scosse l'amico, con una punta di
nervosismo, come se avesse paura di perdersi qualcosa di importante.
Il tempo era improvvisamente cambiato; il letto caldo e accogliente
esercitava un'attrazione irresistibile, in contrasto con il vento, la neve
e il freddo della gelida notte. " Ma dove vuoi andare?" mormorò Gabriel,
ancora mezzo addormentato.
" Vieni, mettiamoci la giacca a vento e andiamo a fare una passeggiata nel
bosco".
Gabriel, un po' controvoglia, la accontentò, ma quando la punta del naso
gli si arrossò per il gran freddo, gli tornò subito il buonumore. " Guarda,
tesoro, la ci sono degli slittini!" si riscaldava Gabriel, quando
arrivarono al punto il sentiero incrociava la strada forestale; e senza
pensarci troppo, tirandosi dietro con la mano sinistra uno slittino vecchio
e malconcio e afferrando con la destra la mano dell'amica, cominciò a
risalire una pista per slittini, senza saper dove sarebbero andati a
finire. Mentre avanzavano un po' a fatica, il mormorio del bosco innevato e
il fruscio della neve li toccò nel cuore. Erano in due, lontani da casa,
senza regali, ma erano insieme, e questo era la cosa più bella e più
preziosa. Tacevano; ognuno dei due ascoltava il respiro e la presenza
dell'altro. Gabriel strinse ancora più strettamente la mano della sua
Magdalena.
Il ritrovamento dello slittino era stato come una sorpresa di Gesù Bambino;
gli alberi coperti di neve si trasformarono come in sogno in migliaia di
alberi di Natale, la ragazza accanto a lui era come un dono del Cielo, e
improvvisamente la luna e le stelle tempestarono il buio della notte di
mille luci scintillanti.
" Lo sentì anche tu?" domandò Gabriel dopo un lungo silenzio.
" Si", rispose lei in un soffio.
Un sì come quello non lo aveva mai ricevuto in dono in tutta la sua vita:
aveva una meravigliosa eco di eternità, in cui sprofondare e addormentarsi
e lasciarsi sommergersi come dallo scintillio tenue ma fitto della luna e
delle stelle.
" Guarda, la davanti ci sono delle luci", sussurrò Magdalena, " andiamoci".
Davanti a loro sonnecchiava un idillico paesino di montagna; i tetti delle
case erano coperti da un metro di neve e luci vellutate filtravano dalle
finestre. Da una delle baite provenivano voci e canti di Natale.
" Vieni, entriamo!" " Non possiamo farlo, non possiamo chiedere di entrare
in una casa di gente che non conosciamo la vigilia di Natale!", rispose
Magdalena timidamente.". Tesoro, oggi possiamo fare tutto, lo stento. E se
non ci accolgono a braccia aperte, non faremo altro che augurare a questa
gente buon Natale e scendere a valle con lo slittino.". E con queste parole
Gabriel bussò alla porta di buon vecchio legno ed entrò in un'accogliente
stube di contadini, sempre tenendo Magdalena per mano. Dentro c'erano
alcune persone sedute intorno a un tavolo; un bel fuoco scoppiettava nel
caminetto.
" Oh, guardate che abbiamo qui! Presto, Maria, porta ai due innamorati -
l'ho capito subito - pota ai nostri amici del vin brulé ben caldo", disse
un vecchio contadino, con un sorriso di intesa.
I due ragazzi furono accolti con grande calore; dopo che ebbero conversato
e scherzato tutti insiemi, da un angolo della stube si levarono le note
della splendida canzone " It'e time to say goodbye" di Andrea Bocelli. La
canzone racconta dell'amore di un cieco per una donna che porta la luce
nella sua vita, come lo scintillio della luna e i raggi del sole.
"Sono stato cieco anch'io in questi ultimi anni, in cui ho perso tanto
tempo e mi sono fissato su falsi valori", pensava Gabriel, mentre si
perdeva nella melodia di Bocelli e la sua ragazza appoggiava la testa sulla
sua spalla. Gli si inumidirono gli occhi.
" Di fronte a tutta questa gente, non posso certo mettermi a piangere come
un bambino.". Si morse le labbra, ma inutilmente: una lacrima dopo l'altra
gli scese giù per le guance, arrossate dal dolore nella stube.
Un dolce sorriso si disegnò sui volti delle persone presenti nella baita:
avevano capito che la sera della vigilia, per quei due ragazzi, era
diventata un sacro pellegrinaggio nella terra dell'amore.
A tutti i nostri lettori.
Come in questa storia le montagne si accendono la sera di bagliori,
d'oro e porpora, così il Natale e il nuovo anno che inizia possono
infondere serenità e letizia nei vostri cuori. E' questo il nostro augurio,
non solo per Natale, ma per tutto l'anno.
Mantova nella storia napoleonica.
Ieri sera 28 dicembre, grande serata storica su Rai Uno. Piero Angela,
nella puntata di Super Quark, dedicata al grande condottiero di Napoleone,
come sì sol dire, ci ha preso per mano e ci ha catapultati a ritroso
nell'Ottocento, facendoci rivivere le grandi le leggendarie imprese
napoleoniche.
Abbiamo visto Napoleone Bonaparte, a capo di una grande armata, che ha
percorso l'intera Europa per 18 anni, conquistando vasti territori e
lasciando dietro di sé le idee e i nuovi fermenti della rivoluzione
francese. E' questa la trama dello speciale di Super Qual, il celebre
programma di scienza e cultura, che è andato in onda appunto ieri sera alle
ore 21. Questa puntata ha toccato da vicino anche il territorio Mantovano:
un percorso non solo d'arte, ma anche e di storia nel territorio dei
Gonzaga.
La città di Mantova é una città legata in modo indissolubile all'acqua.
Un'isola nella pianura che dell'isola ha mantenuto le caratteristiche
proprie. Una grande depressione naturale, colmata dalle acque del Mincio
che periodicamente straripava, circondava uno scampolo di terra sulla quale
si venne costituendo, nei tempi mitici del passato di Anno e Manto ( Manta
muntosi quondam fabbricata diablis, Baldus, II, 62) una città.
Le nostre origini non sono mantovane, ma viviamo in questa provincia da
oltre 30 anni, per ragioni del nostro lavoro. Conosciamo molto bene la
città di Mantova e le sue opere d'arte, come pure tutti i paesi e i
sobborghi di questa provincia della bassa padana. E' stato scritto che la
Lombardia non é soltanto la regione dai colori velati dalla nebbia, ma é un
susseguirsi di panorami incantevoli e sensazioni suggestive, quasi al
limite dell'irreale. Il verde fiume cantato dal poeta Virgilio scorre
attraverso un paesaggio che non colpisce al primo impatto, fatto di
pochissimi elementi, ma dal sottile incanto: acqua, prati. Il fiume
virgiliano, con le rive ornate di pioppi e salici, il Mincio ci accompagna
attraverso secoli di storia: dai ponti viscontei al contrafforte della
stupenda chiesa - museo delle Grazie, dalla risorgimentale Goito alla città
dei Gonzaga, che ha per sfondo il suggestivo scenario dei tre laghi formati
dal fiume ( Superiore, di Mezzo, Inferiore) dove un tempo si svolgevano
feste sfarzose: E nella sua valle il contatto con la natura diventa totale:
canali tagliati nel verde delle canne, erbe lacustri che creano strettoie,
ampi spazi che si aprono in distese di fiori di loto (avete letto bene,
fiori di loto!), che sbocciano in estate.
Solo chi entra in città da oriente o da settentrione per le porte di San
Giorgio attraverso il lungo terrapieno, sigillo tombale d'antico ponte
medioevale ivi sotto da non molto sepolto, o da Mulina percorrendo il
caratteristico ponte coperto impostato su di una diga millenaria, sol chi
entra in città da queste due direzioni provenienti dal Veneto o da Brescia,
ha l'esatta sensazione di Mantova. Un profilo basso, allungato, solo
segnato dall'elevarsi d'alcune torri che si rinserrano quali a protezione
dell'alta cupola centrale che tutto domina; non colori vivaci colpiscono la
vista del turista; un sottile velo di vapore ricopre tutto il panorama ed
attenua e smorza ogni vivacità di tinta; il grigio domina su tutto, ma un
grigio fatto di chiarezza, di trasparenza; la diresti una città d'argento.
Un profilo basso, allungato, appoggiato su di un tappeto di tenere canne il
cui verde subito sfuma in giallo mollemente aurato, tappeto cui fan corona
l'acqua del Mincio che talvolta nel colore si rammentano d'essere state
Garda, ma che più spesso hanno la mutevole luce dell'acciaio. Visione
eminentemente virgiliana; e se volgi lo sguardo a mezzogiorno, e di là dal
ponte ferroviario vedi alzarsi timidi e svettanti per l'aria i primi
pioppi, dietro i quali sorge la città di sogno e di leggenda; anche la sua
origine é avvolta nei misteriosi veli della leggenda, come abbiamo detto
sopra, e se pur ebbe tempi di splendore, conobbe anche ore di profonda
miseria; ma pur nella sventura mai non le venne meno quella giorgica
serenità di spirito che fece sbocciare dal suo seno dolci poeti, da
Virgilio giù giù fino ai più scuri tempi del medioevo. E proprio a Mantova,
prima ancora che alla corte di Federico, si va poetando d'amore in quella
lingua che non é più latino e presto sarà il bellissimo idioma italico.
Sulla Voce di Mantova di ieri 28 dicembre 2005, è apparso un bellissimo
articolo a firma di Paolo Bertelli, che oltre a parlare della straordinaria
impresa di Napoleone Bonaparte in Italia e specialmente nel territorio
Mantovano, ci fa la recensione del libro dello storico Massimo Zanca, egli
così scrive: "Nei mesi scorsi, infatti, le telecamere della testata
televisiva hanno effettuato numerose riprese nel territorio con la
partecipazione dei componenti dell'Associazione Nazionale Napoleonica
d'Italia, perfettamente equipaggiati ( grazie ad accorte ricostruzioni e
attente ricerche d'archivio) come lo erano le truppe francesi tra
Settecento ed Ottocento. Molti protagonisti delle riprese sono mantovani, e
tra questi è anche lo storico e ricercatore Massimo Zanca, autore di un
prezioso libro, fresco di stampa ( editoriale Sometti) dal titolo Dal
Mincio al Piave, Pozzolo 1800.
Il libro ha il pregio di prendere in considerazione un avvenimento storico
fino ad oggi curiosamente ignorato dalla maggior parte delle pubblicazioni.
Zanca ha inoltre avuto il merito di trattare la materia affrontando antiche
fondi di difficile reperimento.
Il volume prende in esame l'ultima fase della Seconda Campagna d'Italia,
dal novembre 1800 al gennaio 1801, cercando di colmare un grave vuoto
storiografico, perché fino ad oggi mancava un libro che trattasse questi
avvenimenti. Gran parte degli autori che hanno trattato la seconda campagna
d'Italia, infatti, hanno chiuso la loro narrazione con la battaglia di
Marengo e quei pochi che sono andati oltre hanno riservato un certo spazio
a quanto accadeva in Germania ( battaglia di Hohenliden) e solo qualche
pagina su quanto accadeva invece in Italia.
Il libro non è l'opera occasionale di uno studioso, bensì è parte di un più
articolato e ragionato progetto editoriale curato dall'Associazione
Napoleonica d'Italia ( in collaborazione con l'editoriale Somenti) al fine
di pubblicare una colonna storica dedicata alla studio di fatti militari di
età repubblicana ed imperiale finora ignorati dalla storiografia, spesso (
come nel caso della battaglia di Bozzolo) per il solo fatto che non era
presente Napoleone o che gli esiti militari non fossero propriamente quelli
desiderati. Il primo volume è stato quello dedicato alla battaglia di
Calmiero del 1805; il prossimo alla prima fase della campagna del 1799 (
offensiva di Scherer contro Verona). Ogni libro della collana è suddiviso
in cinque parti; l'illustrazione delle armate che combatterono, con tanto
di descrizione delle uniformi e della composizione degli eserciti;
descrizione dei luoghi in cui avvennero gli scontri; biografia dei generali
che combatterono; raccolta di memorie coeve. Molto importante è anche
l'apparato cartografico, curato da Sara Guerrieri, e fotografico. Ma alla
relazione del libro hanno contribuito anche diverse amministrazioni
comunali: Mantova, Marmirolo, Valeggio sul Mincio, Ponti sul Mincio,
Monzambano, Peschiera, oltre che la regione Veneto.
Per quanto riguarda l'attività dell'Associazione Napoleonica d'Italia,
oltre al sito www. Assonapoleonica. it vale la pena di rammentare l'impegno
per la realizzazione di rievocazioni storiche ( come avvenuto a Calmiero,
Peschiera, Bussolengo), convegni e giornate di lavoro, edizione di volumi,
nonché attività didattica in uniforme storica: l'impegno è quello di
promuovere la conoscenza del periodo compreso tra il 1769 e il 1821 ( anni
di nascita e morte di Napoleone Bonaparte).
Ma ancora avvenne nel 1800 a Pozzolo? Dopo Marengo, Napoleone stipulò con
il generale austriaco Melas un armistizio, in base al quale l'esercito
francese poteva arrivare sino al Chiese e quello austriaco schierarsi ad
oriente del Mincio. Dopo alcuni mesi di trattative le ostilità
ricominciarono a fine novembre 1800. Brune, comandante in capo dell'Armata
d'Italia, decise l'attraversamento del Mincio il 25 dicembre di fronte a
Monzambano, facendo un attacco diversivo a Bozzolo. Per un banale
contrattempo, l'attacco a Monzambano dovette essere annullato. Ne nacque
una battaglia furiosa a Bozzolo: il paese fu preso e ripreso per ben cinque
volte. I francesi, in inferiorità numerica, riuscirono ad essere padroni
del campo, ma gli austriaci del Feldmaresciallo Bellegarde tenevano ancora
saldamente l'orlo della pianura. Brume il giorno di Santo Stefano attaccò
col resto del suo esercito a Monzambano. I francesi passarono il fiume
senza difficoltà e, una volta raggruppate le proprie forze attaccarono
Salioze e Valeggio sul Mincio. Dopo questi fatti, nei quali i due eserciti
persero circa 20. 000, gli austriaci si ritirarono verso Verona ed
iniziarono una lenta ritirata ( con altri combattimenti come a Calmiero,
Montecchio, Castelfranco) che si concluse con l'armistizio di Treviso del
16 gennaio 1801.
Nella nostra lunga permanenza nel territorio Mantovano e in quello
Piemontese, ahimè, sono trascorsi oltre cinquant'anni, sia per motivi di
servizio, sotto le grandi ali dell'Arma Benemerita, che per diporto,
abbiamo visitato quasi tutti i paesi e i luoghi dove si sono svolte le
famose battaglie napoleoniche contro l'esercito austriaco. Ovunque fossimo,
abbiamo trovato cippi, lapidi e quanto altro possono ricordare quel
avvenimento storico.
Alessandria: Spinetta Marengo
A Spinetta Marengo nel comune di Alessandria ( frazione Spinetta Marengo),
presso la riva destra del fiume Bormida, a 96 m.d'alt. Nel corso della
seconda campagna d'Italia, Napoleone Bonaparte, valicate le Alpi attraverso
il Gran San Bernardo, raggiunse Milano ( 2 giugno 1800), spingendosi poi
verso ovest in cerca delle forze austriache e per tagliar loro le vie di
comunicazione. Il comandante in capo austriaco, generale Melas concentrò le
proprie forze ad Alessandria. Napoleone, deciso ad attaccare battaglia ma
privo di notizie precise sui movimenti avversari, si acquartierò nella zona
di Marengo. Il mattino del 14 giugno Melas, attraversata la Bormida,
attaccò improvvisamente i Francesi che, colti di sorpresa, in condizioni di
inferiorità numerica e con uno schieramento troppo esteso, rischiarono di
essere travolti e furono costretti a indietreggiare. Buonaparte, vista
peggiorare la situazione, ordinò alle due unità distaccate di rientrare, ma
solo Desaix fu in grado di riunirsi tempestivamente al grosso delle forze
francesi. Giunto sul teatro della battaglia verso le quattro del
pomeriggio, egli investì da sud le forze del generale austriaco Zach,
lanciate all'inseguimento dei Francesi, e li sbaragliò. Gli Austriaci
ripiegarono disordinatamente oltre la Bormida e il giorno seguente Melas
firmò ad Alessandria l'armistizio, con cui si impegnava a ritirare le
proprie forze a est del Ticino e a cedere le fortezze in Piemonte e in
Lombardia. A Spinetta Marengo, oltre ad un cippo che ricorda l'avvenimento,
in un piccolo Museo, vi è custodita la carrozza di Bonaparte, perché
danneggiata nel corso della battaglia di Marengo.
Peschiera del Garda
Tra Bellezza e storia.
Il primo luglio del 2001, quando siamo giunti nella cittadina Rivierasca di
Peschiera del Garda, il sole era già alto nel cielo e illuminava la
pittoresca e storica cittadina. Situata sull'estremità sud - orientale del
Lago dove defluisce il fiume Mincio. La fortezza con i pesanti bastioni, le
alte mura e i profondi fossati che la circondano danno alla bella cittadina
un aspetto importante ed austero. Il suo grande porto era anch'esso
illuminato dal sole e le barche si specchiavano nelle acque tremule
dell'antico porticciolo circondato su tre lati da vetusti edifici, creando
una rapida successione di immagini, di sensazioni che si combinavano
liberamente e creavano effetti fantastici, irreali e bizzarri: insomma, una
fantasmagoria di colori. Essendo un appassionato della pittura, ho definito
quell'immagine una meravigliosa tavolozza, dove in ordine cronologico vi
sono situati una gamma di colori propria di un pittore. L'impatto con la
cittadina di Peschiera, è stato con le truppe napoleoniche, che rievocavano
l'assedio della fortezza del 1801 tenuta dagli austriaci, mentre i primi
raggi del sole illuminavano in parte le stradine medioevali. I Bar del
lungolago e del centro storico erano affollati di turisti nazionali e
stranieri. Le stradine, i vicoli e gli incroci del borgo antico, erano
affollati da curiosi, che erano giunti per assistere appunto
all'eccezionale avvenimento storico. Oltre duecento comparse ridavano vita
all'episodio della famosa battaglia napoleonica.
Come abbiamo detto sopra, oltre 200 " renactors" fin dal mattino del giorno
precedente si trovavano accampati al di fuori e dentro le mura arlicensi.
Altri si erano aggiunti nel pomeriggio. Replicanti accorsi dalla Francia,
Austria, Germania, Inghilterra, Polonia, Repubblica Ceca e dal Piemonte,
per la rievocazione dell'assedio francese alla fortezza austriaca di
Peschiera, del quale ricorreva, proprio il I^ Luglio il bicentenario.
Sul quotidiano l'Arena di Verona, il giornalista Alvaro Joppi, così
scriveva in un suo articolo: " Oggi, Domenica primo luglio, sono arrivate
molte più persone di quante ci aspettavamo, fa presente lo storico Giorgio
Capone che è presidente del Centro di documentazione storica la Fortezza, "
tutte appartenenti a organizzazioni militari d'epoca che fanno capo ad
un'associazione sorta, in Inghilterra nel 1982, allargandosi poi in quasi
tutti i Paesi d'Europa, e da ultimo anche dal nostro Paese, tanto da
contare oltre 3 mila iscritti". Gente acculturata, collezionisti che hanno
investito anche decine di milioni in armi storiche iscritte per lo più ad
associazioni di Tiro a segno ad " avancarica", impegnate a riproporre e far
vivere la vita militare del periodo non solo napoleonico o austriaco".
Tutto rigorosamente secondo lo stile dell'epoca dalle tende alle divise
alle armi, ma non ai mezzi di comunicazione. Come abbiamo potuto
constatare, una di queste sentinelle, vestita a tutto punto con l'uniforme
che rispecchiava l'armata napoleonica, era dotato da un telefonino
cellulare dell'ultima generazione, per comunicare con il resto della truppa
e con il campo base. Un particolare questo, che se vogliamo, stonava con il
contesto storico. Ma questo è il progresso e le innovazioni del nostro
tempo e della nostra Epoca.
La ricostruzione fedele della vita degli accampamenti, dei bivacchi con
militari intenti a lavare o rammentare calzini e divise strappate, a
preparare e pulire i fucili, a cucinare e distribuire il rancio; pronti ad
eseguire gli ordini militari al suono di tamburi e pifferi. In quest'ottica
la battaglia fuori delle mura con sortita il pomeriggio del giorno
precedente dagli austriaci sfociata in combattimento, seguita da un
incontro di parlamentari delle due parti, con proclamata tregua e austriaci
che si sono ritirati entro le mura, mentre i francesi raggiungevano il loro
campo. Un regime di tregua, come ci ha spiegato la sentinella che abbiamo
incontrato nei pressi del Bar, che è sito all'angolo del porto, e che stava
armeggiando con il telefonino, che ha riportato i soldati di entrambe le
parti in libera uscita per la città, mentre nei campi, alla luce dei
bivacchi, si è cantato fino ad ora tarda. Battaglia che è stata ripresa
nelle prime ore di stamani con il piazzamento delle batterie dei francesi
che proseguirà con i duelli d'artiglieria nel pomeriggio, con l'intervento
di una lancia austriaca a remi dotata di cannoncino che appoggia le truppe
dall'acqua ( fossato). Il tentativo dei francesi di forzare la porta sarà
respinto dagli austriaci.
Quindi, un revival di quanto storicamente avvenne il 16 gennaio 1801 ( 26
nevoso anno IX) quando appunto a chiudere la battaglia e sospendere "
l'impeto della guerra nell'imminenza del suo scatenarsi attorno alla
fortezza", arrivò l'armistizio di Treviso. Presenti alla rievocazione
storica, promossa dalla Pro loco in collaborazione con il centro di
documentazione storica la Fortezza, e realizzata con l'intervento
dell'Associazione Storica Vivente di Milano e del Comitato di coordinamento
dei Gruppi di ricostruzione storica militare italiani, anche replicanti di
alcuni gruppi italiani in divisa austriaca e piemontese, nonché francese e
cisalpina.
Nelle edicole della cittadina Rivierasca, facevano bella mostra e
ristampate per l'occasione anche due stampe d'epoca dell'assedio, il
giornale storico e un annullo postale relativo all'evento.
Vi erano molti escursionisti, richiamati dall'evento, e fra questi anche
una comitiva di Campitello, che abbiamo assistito alla sfilata di alcuni
reparti per le vie della cittadina e allo svolgimento della vita militare
all'interno di un piccolo accampamento, fuori delle mura.
Noi escursionisti padani, ci siamo trovati così per caso fra quella folla
che assisteva a tale rievocazione storica, non lo sapevamo neppure. Ci
siamo fermati nella Piazzetta antistante il Porto, soltanto per degustare
una buona tazza di caffè nel Bar Centrale, nella attesa dell'imbarco per
effettuare una gita turistica nel Lago di Garda.
Come abbiamo riportato in principio, nella trasmissione rievocativa di
Super Quark di Piero Angela, abbiamo visto scorrere delle riprese
televisive, che hanno effettuato nel territorio Mantovano, con la
partecipazione dei componenti dell'Associazione Napoleonica d'Italia, che
rispecchiavano un accampamento militare francese, commentato sapientemente
da Alberto Angela. Quell'accampamento, era lo stesso che abbiamo visto il
primo luglio del 2001, fuori le mura di Peschiera del Garda.
Alla ricerca della fede immersi nella selvaggia e meravigliosa natura del
santuario di Polsi.
Dopo la splendida favola della notte di Natale che ha sapore irreale, ma
che nasconde la ricerca continua dell'uomo moderno che si trova confuso e
smarrito in un universo di messaggi spesso contraddittori che ci martellano
giorno dopo giorno fino a confonderci perfino le idee nel vivere in
serenità la nostra breve esistenza.
Quando la malinconia ci travolge l'anima, quando ci sembra che nulla abbia
più senso, a chi possiamo rivolgerci? A che cosa possiamo aggrapparci per
non essere travolti dallo sconforto? E' in questa situazione che spesso noi
anziani ci veniamo a trovare. Un uomo tornato nella sua terra d'origine,
anche se sia pure nel semplice ricordo del suo passato prossimo di
fanciullo, per compiere un viaggio a ritroso nel tempo e nello spazio che
si rivela, al tempo stesso, un pellegrinaggio nella memoria e un itinerario
di purificazione al Santuario della Madonna di Polsi. Quel ragazzo di
allora diventato oggi un uomo maturo sono io, che percorre i sentieri della
montagna dei contrasti per cercare la sorgente del fiume della vita, lungo
il suo corso scenderà poi fino al mare. A mano a mano che sale, tutte tutti
i traguardi raggiunti nella vita sembrano annullarsi con il trascorrere del
tempo, ma gli rimane nel cuore la consapevolezza di aver sempre compiuto il
proprio dovere. Infine l'ascesa si conclude: è arrivato alla cima del monte
dove trascorrerà una notte, una notte di luna piena come quella in cui era
nato, una notte che segna la sua rinascita spirituale. All'alba, scende
seguendo il sentiero impervio del Mont' Alto con la consapevolezza di aver
capito quali sono le tre passioni che dovevano guidare la nostra vita: la
fede, la pietà per il genere umano, la conquista dell'amore e la ricerca
del sapere.
Sono partito all'alba dal piccolo paese pedemontano di Cosoleto, che si
trova barbicato su di un pianoro coltivato ad uliveti e castagneti, cammino
a lungo prima di arrivare alla fonte della fede dove scorre il fiume
impetuoso della vita. Mentre salivo ricordavo le parole di Sirio nella
capanna durante quella notte di luna piena:
" La vita è uguale a un fiume che nasce fra queste montagne impervie come
un piccolo rivolo dove tutto è pace, purezza e silenzio". Seguendo il suo
corso sino al mare si può conoscere la vita.
Era il mese di luglio di moltissimi anni fa, quando avevo deciso di
intraprendere quel viaggio sui sentieri dell'altopiano dell'Aspromonte, per
raggiungere il Santuario della Madonna della Montagna di Polsi. Ciò che
sorprende il viaggiatore, oltre alla selvaggia bellezza dei luoghi, è
l'arcaicità delle forme di devozione e di culto, al punto che Polsi
rappresenta uno dei pochi luoghi del nostro Paese, in cui è possibile
riscoprire la più autentica tradizione religiosa dei pastori e dei
contadini. Un misto di ritualità pagana e cristiana. Alla madonna si arriva
in ginocchio o scalzi. Si offrono l'agnello, che è macellato sul posto. Il
rituale è cruento e ricorda i riti sacrificali dei Greci e dei Romani. Poi
se ne cucina la carne all'aperto e si banchetta.
Le strade per il Santuario ( due che da San Luca e una da Gambarie) sono in
grandi parti antiche mulattiere riadattate come carrabili, che attraversano
fitti boschi che girano sugli orli d'impressionanti dirupi. Nella domenica
d'estate, i sentieri risuonano dei canti e delle musiche tradizionali
suonate, con antichi strumenti ( zampogne, pipite, organetti, tamburelli)
dei pellegrini in festa. Fra quella massa umana eterogenea, spesso si
nascondono persone che hanno a che fare con la legge. In passato, quei
luoghi aspri e selvaggi, erano sicuramente frequentati dai briganti
Giuseppe Musolino e Giosafatto Talarico. Oggi, sicuramente si nascondono
gli associati alla famigerata n'dranghita.
Mentre attraversavo quei luoghi selvaggi, ricordavo l'antica favola che
spesso mi raccontava la zia Cristina del famigerato bandito Giosafatto
Talartico, il famoso cavaliere errante che cavalcava un bianco destriero e
portava i doni di Natale a tutti i bambini poveri dei paesi collinari della
meravigliosa Calabria, ma su quelle aspre montagne, oltre che il bandito,
signore della Sila Giosafatto Talarico, del quale troviamo notizie nel
libro di Elpis Melena, che dedica un lungo capitolo alla meravigliosa terra
di Calabria. Cento anni più tardi, su quei sentieri e su quelle aspre
montagne, si aggirava e si nascondeva negli anfratti e nelle capanne dei
piccoli paesi dell'Aspromonte e della Sila, il brigante Giuseppe Musolino,
che di bandito aveva soltanto il nome, ma che in effetti, come era successo
a Talarico, erano entrambi diventati banditi perché la legge aveva
infangato il loro nome da una condanna ingiusta, perché non sono stati
creduti e compresi della loro innocenza di questi briganti dell'Aspromonte.
Purtroppo, anche oggi succede la stessa cosa, perché la Giustizia con la "
G" maiuscola, perché spesso era ed è amministrata con molta superficialità.
Enzo Magri, ha scritto nel 1989 edito dalla Camunia, un libro sul
famigerato bandito. In passato abbiamo letto questo interessante libro, ma
recentemente, navigando su Internet, sul "Sito Poetare", a noi molto
familiare, abbiamo letto un'interessante recensione del poeta e scrittore
Salvatore Armando Santoro, che riportiamo alcuni brani in questo nostro
racconto. Egli così magistralmente scrive nella sua recensione del "Caso
Musolino":
"Enzo Magrì, dopo aver espresso il meglio di se stesso con un precedente
libro "IL BANDITO GIULIANO" pubblicato per i tipi della Mondadori nel 1987
ci offre un nuovo ed interessante spaccato della società meridionale
d'inizio secolo con il volume "IL BRIGANTE MUSOLINO" dove, narrativa ed
antropologia si intrecciano riuscendo a trasportare il lettore nel clima
politico e culturale a cavallo tra fine '800 ed inizio '900 e riuscendo a
fornire una chiave di lettura chiarissima della realtà geopolitica
calabrese di un periodo storico dove i soprusi baronali, l'arretratezza
culturale e morale della popolazione trovavano quasi una giustificazione
nell'azione del brigantaggio, mentre i tentativi repressivi da parte delle
forze di polizia si scontravano con gli atteggiamenti di omertà e di
complicità delle masse rurali che vedono nei ribelli un modo per esprimere
la loro rivolta contro lo sfruttamento cui erano sottoposti….
Il poeta scrittore Armando Santoro, così conclude dicendo:
Ed oggi potremmo concludere con un'amara considerazione: come possono i
cittadini, dopo aver saputo come realmente si siano svolti i fatti in quel
lontano inizio secolo, sopportare l'ingiustizia perpetrata dalle
istituzioni senza che queste avvertano ancor oggi il bisogno di avviare
autonomamente una revisione di quel processo per rendere giustizia ad una
persona che le stesse istituzioni costrinsero a diventare un assassino e
che poi punirono in modo così terribilmente atroce?"
Ritornando a parlare del brigante Giosafatto Talarico, oggi lo possiamo
considerare un fenomeno particolarmente interessante dei tempi passati.
Nato da una stimata famiglia nelle vicinanze di Cosenza, egli non sarebbe
mai diventato brigante se una vicenda che lo afflisse nella prima
giovinezza non lo avesse inimicato col mondo. La protezione cavalleresca
che egli concesse a tutti i poveri e agli oppressi, le irriguardose
richieste che egli fece a tutti i ricchi e ai prepotenti, gli procurarono
presto una grande stima presso i primi e la fama di temibile nemico presso
i secondi. Una volta pretese da Baracca, il più ricco proprietario terriero
della Calabria, che certo non possedeva meno di tre milioni di ducati, che
gli desse entro un certo tempo stabilito mille ducati, altrimenti egli
avrebbe arrecato ai suoi possedimenti un danno tre volte maggiore. Baracca,
ben sapendo che Talarico avrebbe mantenuto la sua promessa, non attese
neanche un attimo e gli pagò i mille ducati, che il capo dei banditi non
aveva però estorto per sé, ma soltanto per dividerli tra i molti bisognosi.
Insomma, egli non fu mai considerato dal popolo un vero brigante, ma una
persona giusta che toglieva ai ricchi e lo dava ai poveri.
La ripetizione però di simili imprese pirateschi non mancò di attirare di
lui l'attenzione delle autorità, cosa che in questo paese non fu sempre
scontata, e il re di Napoli, stufo delle infruttuose citazioni, mise
un'alta taglia sul capo del bandito e non tralasciò sulla pur di farlo
catturare vivo o morto. Quando anche questi tentativi fallirono, " venne a
patti con lui", cioè stipulò con lui una specie di contratto, secondo il
quale il bandito era libero di scegliere come luogo di residenza un'isola
dove avrebbe potuto vivere libero quale pensionato regale, perché desse la
sua parola di restare tranquillo: Talarico consentì a queste condizioni e
scelse l'isola di Lipari come residenza, e qui nell'anno 1855 si sposò con
una nativa del luogo e da allora ha goduto una rendita quale buon padre di
famiglia, ma questa è un'altra storia.
Come abbiamo visto sopra, il caso del brigante Musolino, è diverso da
quello del ricercato Talarico, egli non ha mai estorto nulla a nessuno e
neppure ha commesso nessuna forma di reato come quello attribuitogli.
Sicuramente, ha ricevuto dalla n'dranchita aiuto e protezione, mentre dai
residenti dei villaggi dell'Aspromonte omertà e favoreggiamento.
"Ma oggi, col senno di poi e guardando a quegli avvenimenti passati
diventano più chiare le parole rivolte ai giurati da Musolino nel processo
di Lucca che rappresentano oggi un macigno sulla coscienza delle persone
del nostro tempo che credono nell'efficienza e nell'efficacia della
giustizia e del diritto".
La Calabria si può vantare di essere appartenuta nell'antichità alla Magna
Grecia, alla patria di Caronda, Saleuco, Pressitele e Agatocle, dove anche
Pitagora diffuse le sue dottrine; però qui non hanno combattuto, come in
Corsica, per secoli popoli nemici per averne il possesso, non hanno bagnato
il suo suolo con il loro sangue, per fecondarla per la nascita di un
Napoleone. Qui non s'innalzano arditamente verso il cielo aguzzi monti di
granito come nelle Dolomiti Ampezzane e dell'Alto Adige, non vi sono i
boschi impenetrabili che ombreggiano orridi abissi, nessun timido muflone
va girovagando per la scoscesa montagna. Già Virgilio cantava l'alto
Taburnus e l'"infinita macchia della Sila. Plinio, Discoride e Strambone
non dimenticarono di menzionare le sue " boscaglie ricche di resina", anche
se Ateniesi e Siciliani le avevano diradate già nell'antichità e i
Napoletani hanno fatto il resto abusando di queste coste come magazzino per
il legno delle loro navi.
La graziosa conformazione delle montagne, il verde vivace della campagna,
l'aria fragrante che soffia per queste contrade, tutto mi sorrideva nella
mia giovinezza e mi richiama alla memoria la terra natia, quasi si tratta
di attirare un classico gaudente a Sibari. E tuttavia era la patria dei
banditi, la famigerata Calabria, quella che ora si trova nei miei ricordi,
la cui sola menzione richiama alla mente dei Nordici l'ombra di un bandito
condannato " in contumacia", col cappello di feltro che termina a punta, la
giacca di velluto riccamente ornata, le pistole, il pugnale decorato e il
lungo fucile, così come ci è presentato quale eroe dell'opera o del
balletto, in un ruolo tra il cavalleresco e il criminale: E come sembra,
questa figura che ai giorni nostri non appartiene soltanto al campo dei
miti, poiché, mentre io osservavo con grande interesse ogni anfratto e gola
di questa bella meravigliosa montagna chiamata Aspromonte, sentivo fare il
nome di Talarico e di Giuseppe Musolino, associato al racconto di ogni tipo
di avventura e ardite azioni cavalleresche, tanto che alla fine non potei
fare a meno di domandare a un vecchio pastore, che con il suo gregge si
aggirava nell'altopiano delle Gambarie e che sembrava particolarmente ben
informato, chi fossero questi famigerati briganti che fecero la storia
dell'Aspromonte, del Pollino e della Sila. Alla mia domanda, egli mi
rispose: " Quegli uomini chiamati briganti, per il popolo calabrese, ancora
oggi, sono considerati galantuomini e uomini d'onore".
Dopo un lungo cammino, sui sentieri impervi e pietrosi in un paesaggio da
sogno, proprio ai piedi di Mont'Alto, massima cima del massiccio
aspromontano, in una profonda solitaria vallata dalle alte e scoscese
pareti, sorge il Santuario dedicato alla Madonna della Montagna di Polsi.
Originariamente, forse fu romitorio di uno o più monaci bizantini spinti
verso i confini dell'impero dalla furia iconoclasta degli imperatori
isaurici; o di qualcuno di quei monaci fuggiti dalla vicina Sicilia, sotto
l'incalzare delle orde agarene durante la conquista araba dell'isola nel IX°
secolo, ritiratosi in preghiera in quei luoghi solitari ed inaccessibili.
Poi il sito fu abbandonato; forse a causa dell'estremo disagio e del rigore
invernale.
La Storia del Santuario.
" La leggenda vuole che nel secolo XI, nel posto dove ora sorge la chiesa,
sia stata rinvenuta da un pastore, una strana Croce di ferro, dissotterrata
miracolosamente da un torello. La Croce è tutt'oggi conservata nel
Santuario. A questo miracoloso rinvenimento si fa risalire l'origine del
monastero che fu, per alcuni secoli, sotto la cura dei monaci dell'ordine
di San Basilio Magno, praticanti il rito greco. Fu questo il periodo
spiritualmente più ricco e intenso del monastero. Verso la fine del secolo
XV, il sacro luogo passò sotto il governo di Abati commendatari, spesso
dimoranti lontano da Polsi, interessati soltanto alle ricche prebende e
rendite. Il Santuario subì un lento e graduale declino fino al secolo XVII.
Fu durante la prima metà di questo secolo che, il Vescovo di Gerace
Idelfonso del Tufo, iniziò un'ispirata opera di rinascita culturale e
religiosa a favore del Santuario. Programmò ed eseguì una serie di lavori e
ricostruzioni che in breve cambiarono radicalmente il pio luogo. Ingrandì
la chiesa e la rese più accogliente, la impreziosì con stucchi e
decorazioni, secondo l'uso del tempo; fece di una piccola e modesta
chiesetta di campagna, un vero tempio mariano, conservando, però, il bel
campanile bizantino. Ripristinò il convento e le case intorno ; ravvivò nel
popolo della diocesi il culto e la fede verso la Madonna della Montagna,
che del resto non si era mai spento. Il Santuario ritrovò lo splendore
spirituale delle origini e divenne il santuario più conosciuto della
Calabria, meta di pellegrini anche dalla vicina Sicilia.
Nel 1784 la Cassa Sacra, istituita per raccogliere fondi da destinare alle
popolazioni colpite dal terribile terremoto del 1783, fece requisire al
Santuario tutti gli arredi preziosi e le suppellettili sacre. L'ufficiale
che eseguì la requisizione mise insieme più di un quintale tra oro e
argento. Il Monastero subì anche la razzia del bestiame e delle derrate
alimentari.
Nella chiesa di Polsi si venera un bellissimo simulacro della Madonna, in
pietra tufacea, scolpito a tutto tondo da maestranze siciliane o
napoletane. Nulla si sa dell'arrivo di questa statua nella valle, a parte
le leggende. Alcuni autori, tra i quali Corrado Alvaro, un figlio
prediletto dell'Aspromonte, ritengono che il trasferimento sia avvenuto
verso la metà del secolo XVI. Del secolo XVIII è, invece, la statua lignea
della Madonna ; di lei si conosce la data d'arrivo a Polsi (1751) e il nome
del donatore : Fulcone Antonio Ruffo principe di Scilla.
Il reperto più misterioso e, per certi versi inquietante, è la strana
piccola Croce di ferro, dalla cui asta centrale si sviluppano due braccia
dalle volute irregolari e singolari, non riscontrabili in nessun altro tipo
di Croce. Sarebbe la Croce scavata dal torello e rinvenuta dal pastore
vagante per i monti, alla ricerca del bovino smarrito, da cui è nato il
culto polsino. Il monastero conserva anche un'antica icona del tipo
Brephokratausa del gruppo iconografico Odigitrìa (La vergine che reca il
bambino).
Notevole è la Via Crucis, con le stazioni in bassorilievi bronzei,
culminante con la statua del Cristo risorto (opera dello scultore calabrese
Giuseppe Correale) il cui itinerario si snoda, per più di un chilometro, su
un'erta boscosa, tra castagni e querce centenarie. Dello stesso scultore
sono le bellissime porte bronzee della chiesa, istoriate con episodi
biblici e scene che ricordano i miracoli attribuiti alla Madonna. Preziosi
i cancelletti della balaustra dell'altare maggiore, opera del celebre
scultore calabrese Vincenzo Jeraci. In un piccolo museo, all'interno del
Convento, sono conservati oggetti preziosi di varie epoche, paramenti
sacri, immagini, libri e pergamene, ex voto, che sintetizzano la vera
storia del Santuario.
La festa più animata della Calabria
"Corrado Alvaro, il più grande scrittore calabrese dei tempi moderni, è
nato a San Luca. Ha concluso la sua interessante monografia "Calabria"
[Firenze, 1931] con la descrizione della festa al Santuario di Polsi: la
festa più animata della Calabria, che si celebra per tre giorni, all'inizio
di Settembre.
Scrive l'Alvaro: "Ognuno fa quello che può per fare onore alla Regina della
festa: la gente ricca può portare, essendo scampata da un male, un cero
grande quanto la persona di chi ha avuto la grazia, o una coppia di buoi, o
pecore, o un carico di formaggio, di vino, di olio, di grano; ci sono tanti
modi per disobbligarsi con la Vergine delicata, come la chiamano le donne.
Uno denudato il petto e le gambe, si porta addosso ad una campana di spine
che lo copre dalla testa ai piedi, spine lunghe e dure come crescono nel
nostro spinoso paese, e che ad ogni passo pungono chi ci sta in mezzo. Una
femminella fa un tratto di strada sulle ginocchia; e così le ragazze fanno
la strada ballando, e balleranno giorno e notte per le ore che hanno fatto
il voto, fino a che si ritrovano buttate in terra o appoggiate al muro, che
muovono ancora i piedi. E i cacciatori, poi, che fanno voto di sparare
alcuni chili di polvere; in quei giorni non si parla di porto d'armi, e i
Carabinieri lo sanno. Gli armati si dispongono nei boschi intorno al
Santuario e sparano notte e giorno .
Si vedono le mille facce delle Calabrie. Le donne intorno dicono le parole
più lusinghiere alla Madonna, perché si commuova. Sul banco coperto di un
lino, le donne buttano gli orecchini e i braccialetti; gli uomini tornati
da una fortunata migrazione le carte da cento e da più: è una montagna
d'oro e di denaro che per la prima volta nessuno guarda con occhi cupidi.
La Vergine guarda sopra di tutti, e i gioielli degli anni passati la
coprono come un fulgido ricamo .Al terzo giorno di Settembre si fa la
processione e si tira fuori il simulacro portatile…. Tra lo sparo dei
fucili che formano non si sa che silenzio fragoroso, non si sente altro che
il battito di migliaia di pugni su migliaia di petti, un rombo di umanità
viva tra cui l'uomo più sgannato trema come davanti a un'armonia più alta
della mente umana. Le semplici donne che non si sanno spiegare nulla, si
stracciano il viso e non riescono neppure a piangere .
La stessa cosa succede ogni anno a mezz'agosto ad Acquaro, per i
festeggiamenti di San Rocco, però, a differenza di Polsi, non sono
consentiti gli spari con i fucili, ma a concludere la festa e il
pellegrinaggio, vi sono i fantastici fuochi artificiali.
Ecco la grandiosa suggestione della festa della "Madonna di Polsi", il cui
trono è davvero su questi monti della meravigliosa Calabria!"
Seguendo il vecchio fiume della vita, che scaturisce dalla grande montagna
del Mont'Alto, che in quel periodo della stagione era diventato un semplice
ruscello, mi disse: " Fra poco ci lasceremo, ma non voglio vederti triste.
E' triste chi non conosce la vita e i suoi misteri, e chi non sa sorridere.
Ricordati sempre che, quando ci siamo conosciuti, ti ho fatto sorridere con
le mie favole, e vorrei che il sorriso di allora illuminasse sempre il tuo
volto. Ama la vita come tutte le creature che hai incontrato sulle mie
sponde. Sono semplici, vivono in un mondo piccolo, eppure cantano la
canzone della vita, senza note stonate, con allegria, come quei musicisti
che hai incontrato lungo i sentieri del Santuario.
" Dio è sceso dalla montagna con le mie acque, senza dimenticare un
granello di sabbia né l'universo infinito". " Io sono quel fiume
straripante d'amore che corre verso l'eternità. "Adesso devo salutarti. Lui
è lì, e ti aspetta. " Addio amico della mia infanzia, della mia
fanciullezza, della mia maturità. E' l'ora del tramonto, anche il sole
calerà nel mare e tutto a poco a poco svanirà, come in un sogno. Addio, il
fiume ti dice addio".
La meravigliosa favola
della notte di Natale
La Notte di Natale.
Un'antica leggenda calabrese narra che, all'inizio della novena del Santo
Natale in Aspromonte, uno strano cavaliere del passato in sella ad un
cavallo bianco come la neve, attraversa al galoppo l'Altopiano
dell'Aspromonte e si ferma in tutti i piccoli villaggi, per portare la
buona novella ai pastori che sono accampati con il loro gregge al limitare
dei boschi.
Come per magia, giunge sempre improvvisamente e sparisce oltre le colline
aspromontane, prima che tramonta la pallida luna dietro le bianche montagne
del Montalto. Nessuno conosce il suo nome e neppure la sua età, si dice che
è un bellissimo giovane, ma le anziane nonne dei villaggi, raccontano che
si tratta di un fantasma, quello dell'ultimo cavaliere errante che ha
visitato per primo la grotta del Presepe, dove in una piccola mangiatoia
giaceva Gesù Bambino.
La leggenda dice che questo cavaliere errante, si potrebbe identificare con
il bandito Talarico. Ma chi fu questo famigerato Talarico, pochi lo sanno
con precisione. E' un fenomeno particolarmente interessante dell'Ottocento.
Nato nelle vicinanze di Cosenza da una stimata famiglia, egli non sarebbe
mai diventato brigante o cavaliere errante se una vicenda che lo afflisse
nella prima giovinezza non lo avesse inimicato col mondo.
La protezione cavalleresca che egli concesse a tutti i poveri e agli
oppressi, le irriguardose richieste che egli fece a tutti i ricchi e ai
prepotenti, gli procurarono presto una grande stima presso i primi e la
fama di terribile nemico presso i secondi, tanto da diventare leggenda.
Una volta pretese da Baracca, il più ricco proprietario terriero della
Calabria - che certo non possedeva meno di tre milioni di ducati - che gli
desse entro un certo tempo stabilito mille ducati, altrimenti egli avrebbe
arrecato ai suoi possedimenti un danno tre volte maggiore. Baracca, ben
sapendo che Talarico avrebbe mantenuto la sua promessa, non attese neanche
un attimo e gli pagò i mille ducati, che il cavaliere non aveva però
estorto per sé, ma soltanto per dividerli tra molti bisognosi. Un tiro più
ardito è il seguente. Quando Talarico giunse un giorno, che era la vigilia
di Natale, con il suo cavallo bianco in un villaggio dell'Aspromonte, fu
fermato da una giovane contadina: " Oh Talarico" disse ella quasi
vergognosa, " io amo Giovanni ed egli anche mi ama e mi sposerebbe persino
senza dote, se riuscissimo a trovare i soldi da pagare il prete, che si
rifiuta di sposarci se non gli paghiamo le tasse; non può aiutarci?"
" Se questa sera, due ore dopo l'Ave Maria, ti troverai con il tuo
fidanzato dietro la chiesa, sarà fatto, piccola mia", rispose Talarico
laconico, mentre continuava la sua strada. Tentennanti tra timore e
speranza i due fidanzati di trovarono puntualmente al luogo stabilito.
Anche Talarico non si fece attendere e cominciò a bussare con tutta la sua
forza alla porta della canonica. " Chi è?" domandò una voce maschile dalle
finestre del piano superiore. " E' Talarico". " Talarico!" ripeté
balbettando il curato di campagna, morto di paura. "Si", replicò perentorio
il cavaliere, " e vi ordina di dargli immediatamente cento ducati". Il
servitore di Dio, conosciuto quale avaro benestante, era convinto che un
rifiuto da parte sua lo avrebbe fatto incorrere soltanto in pene maggiori e
obbedì tremando all'ordine di Talarico. " E adesso, poiché abbiamo la
dote", continuò il capo dei banditi, " vada e unisca in matrimonio questa
giovane coppia e impari da ciò che non si nega impunemente il matrimonio a
due amanti senza mezzi".
L'Aspromonte è una delle montagne più misconosciute e fraintese d'Europa,
segnato fino a qualche anno fa da tragici fatti di cronaca e a torto
giudicato impenetrabile. In un territorio ancora in parte selvaggio,
descritto con meraviglia da viaggiatori come Edward Lear e Norman Douglas,
si dipanano lunghe ed articolate gole fluviali, si stendono foreste
ataviche, si ergono pittoreschi monumenti di roccia, si nascondono alte,
fragorose cascate. A tutto ciò si aggiungono le specie particolarissime di
fauna e di flora: dall'aquila al gatto selvatico, dall'abete bianco fino ad
alcune rarissime felci preistoriche e poi vi sono i villaggi e paesi
barbicati sui pendii aspromontani. Il nostro meraviglioso Paese, oltre a
Norman Douglas, è stato meta dei grandi scrittori e artisti del Settecento,
come Ferdinando Gregorovius, uno dei più affascinanti storici di tutti i
tempi. E tale fu la passione che lo animò per tutta la vita per questa
nostra terra, tale fu l'amore che per lei nutrì sia nell'esaltazione
spirituale ed intellettuale di fronte alla "storia", sia nella tenera e
devota sensibilità quasi filiale con la quale seppe cogliere e penetrare
l'anima italiana, che volle essere definito, nel suo necrologio, "
cittadino romano"! Leggendo le pagine dei suoi libri: " Sulle tracce dei
Romani" e sulle " Tracce dei Greci", noi sentiamo rinascere nell'anima
nostra l'entusiasmo di essere non solo " cittadini romani", ma,
soprattutto: Italiani.
Ferdinando Gregorovius, come Norman Douglas. Elpis Melena e Edward Lear,
amarono moltissimo il nostro Paese e specialmente l'Aspromonte, definendo
cosi i villaggi aspromontani barbicati sui costoni " Piccoli presepi
illuminati dal sole". La zia Cristina, nelle lunghe notti della novena
natalizia, seduti di fronte al tepore del focolare scoppiettante, ogni anno
ci raccontava sempre la stessa storia del fantasma, quello dell'ultimo
cavaliere della notte di Natale.
Oggi, in questa giornata uggiosa, fredda e nebbiosa di metà dicembre,
mentre sono seduto di fronte al displey del mio personal Computer e cerco
di rievocare la favola di Natale, che la zia Cristina mi raccontava nei
lontani anni della mia fanciullezza, mi ritorna in mente una triste notte
di Natale, che ha lasciato tracce profonde e indelebili nella mia memoria.
Correva l'anno 1930, in quel tempo ahimè molto lontano, avevo appena solo
tre anni di età e ricordo che da alcuni giorni continuava a piovere e a
tirar vento, un vento freddo ed impetuoso. Nel cuore della notte, si era
scatenato un turbine, una specie di uragano, che Teresa mia madre, come
pure le altre persone del paese lo chiamavano "levantina": vento di levante
che spira da est, in particolare dal Mediterraneo. In poco tempo, ha
divelto, sradicato, strappato dal suolo e spezzato come fuscelli i secolari
e alti alberi di ulivo e scoperchiato le povere case del paese. Noi siamo
stati colti nel sonno nel cuore della notte, ricordo che mia madre mi ha
avvolto in una coperta e siamo scappati via dalla casa, che faceva acqua da
ogni parte. Mio padre, si buttò sulle spalle il vecchio " tabarro", una
quasi logora mantellina militare della grande guerra mondiale 15/18, accese
la lanterna a petrolio e abbiamo trovato rifugio in una piccola stalla,
dove c'erano un asino, un cavallo bianco e alcune capre. Vedendo quel
bellissimo cavallo, chiesi a mia madre dov'era il cavaliere fantasma della
storia che ci aveva raccontato la zia Cristina. Oggi, pensando al passato,
a quella notte turbinosa nel tepore della stalla, mi sembra di aver
vissuto, sia pure per una sola notte, nella mangiatoia dell'asinello la
nascita di Gesù Bambino. A ricordarmi tutto questo, c'erano tutti i
presupposti della Notte di Natale, mancava soltanto il bue, ma al suo posto
c'era la bellissima cavalla bianca del cavaliere fantasma che aiutava i
bisognosi e specialmente i bambini poveri.
La storia del Santo Natale.
Mancano pochi giorni al Santo Natale, ma oltre agli auguri degli amici più
cari, ci sono giunti anche quelli di Don Enrico Castiglioni, parroco del
nostro piccolo borgo di sapore medioevale di Campitello, la storia ci
racconta che la Chiesa dei primi due secoli non sembra avere conosciuto una
festa della natività di Gesù Cristo. Di origine occidentale, la sua
celebrazione comparve a Roma verso il 330 diffondendosi durante l'IV secolo
in tutte le chiese di rito latino. La data 25 dicembre fa pensare che si
abbia voluto ricordare la nascita di Gesù Cristo "sole di giustizia" e
"luce del mondo" ( come lui stesso si definisce nel Vangelo di san
Giovanni) allo scopo di contrapporsi alla celebrazione pagana del solstizio
d'inverno e della nascita di Mitra (dies natolis solis invicti), che il
paganesimo del III -IV sec. Festeggiava appunto il 25 dicembre. Sotto
l'influenza di san Giovanni Crisostono e di san Gregorio Nazionzeno anche
l'Oriente, verso il 380, adottò la data del 25 dicembre. Dal punto di vista
liturgico, la festa del Natale è caratterizzata dalla celebrazione di tre
messe solenni: a mezzanotte, all'alba, al mattino. Quest'ultima risale al
IV secolo; la messa dell'alba alle origini non era in relazione liturgica
romana della martire Anastasia di Sirmio come omaggio alla corte bizantina
all'inizio del VI secolo; quella di mezzanotte, originatasi in Palestina
dall'uso di celebrare il Natale, la notte, presso la grotta di Betlemme,
comparve in Roma dopo il concilio di Efeso (431), presso la basilica di
Santa Maria Maggiore. Le tre messe si divulgarono in tutto l'Occidente dopo
il Mille. Ogni sacerdote può celebrare tutte e tre le messe, distanziate
opportunamente e anche di seguito, oppure può celebrare una sola. La
rappresentazione del presepe che ha luogo nelle chiese in occasione del
Natale si rifà a san Francesco d'Assisi che, secondo la tradizione, ideò a
Greccio nel 1223 il primo presepe.
"Ma al di là di queste notizie storiche noi tutti sappiamo ormai dalla
Parola di Dio che il Natale celebra il mistero della nascita di un Bambino
che nel cuore della notte di duemila anni fa ci ha liberati dalla paura.
Quella notte si trasforma in Notte Santa perché un Dio diventa presenza
nella nostra vita, compagnia del nostro cammino, possibilità di vittoria
sul male e sul peccato. Quella notte è Santa perché da quel momento un Dio
mi viene a cercare pur nel buio del mio nulla e del mio peccato, per dirmi:
" Io ti posso amare di un amore eterno, se vuoi. Io ti posso salvare dalla
disperazione, se vuoi. Io ti posso ricoprire d'oro con l'abbondanza della
mia grazia che sola può sciogliere i legami del tuo peccato, se vuoi".
Per approfondire meglio ulteriormente questi molteplici e meravigliosi
aspetti del Natale ci viene incontro S. Gregorio Nazianzeno ( Vescovo in
Oriente nel IV secolo) con questi pensieri suggeriti in un sermone sul
Natale:
" Colui che da altri la ricchezza si fa povero: Chiede in elemosina la mia
natura umana perché io diventi ricco della sua natura divina. E colui che è
la totalità, si spoglia di sé fino all'annullamento. Si priva, infatti,
anche se per breve tempo della sua gloria, perché io partecipi della sua
pianezza. Oh sovrabbondante ricchezza della Divina Bontà! Ma che cosa
significa per noi questo grande mistero? Ecco: io ho ricevuto l'immagine di
Dio, ma non l'ho saputa conservare intatta. Allora egli assume la mia
condizione umana per salvare me, fatto a sua immagine e per dare a me,
mortale, la sua immortalità.
Era certo conveniente che la natura umana fosse santificata mediante la
natura umana assunta da Dio. Così egli con la sua forza vinse la potenza
demoniaca, ci ricordò la libertà e ci ricondusse alla casa paterna per la
meditazione del Figlio suo.
Il buon Pastore che ha dato la sua vita per le sue pecore, cerca la pecora
smarrita sui monti e sui colli sui quali si offrivano sacrifici agli idoli.
Trovatala se la pone su quelle medesime spalle, che hanno portato il legno
della croce e la riporta alla vita dell'eternità.
Dio si fece uomo e mori perché noi ricevessimo la vita. Così siamo
resuscitati con Lui perché con Lui siamo morti; siamo stati glorificati
perché con Lui siamo resuscitati.".
Se questo è vero allora il Natale non sarà più un'indigestione di cibi
succulenti, un bearsi di viaggi esotici, un deliziarsi all'ascolto di canti
e cantilene romantiche e strappalacrime, oppure un semplice accontentarsi
di fare a gara a chi allestisce il presepe o l'albero migliore perché così
vuole la tradizione, ma sarà il vero Natale per me se permetto a Cristo di
entrare nella mia vita accogliendo con gioia il dono della sua grazia.
Allora sì che potrò accostarmi al presepio con lo spirito vero del Natale e
sentirò la sua voce che mi sussurra:
- " Va a vincere la fragilità, la dolcezza e l'egoismo che schiavizzano
l'uomo e sii strumento di pace…."
-"Va a nutrirti di Me nel Pane dell'Eucaristia: li troverai già risorto e
pieno di luce perché anche la tua vita risplenda della mia stessa luce…."
-" Va a riconciliarti con Dio Padre e con i fratelli nel Sacramento della
Confessione: lì mi troverai come colui che dalla vera pace del cuore e ti
fa gridare a squarciagola e senza vergogna alcuna quanto è stato buono il
Signore con te…"
-" Va a bussare alla porta del povero, lì mi troverai e riascolterai le mie
parole: qualsiasi cosa avete fatto ad uno dei più piccoli dei miei
fratelli, l'avete fatto a me…"
Non sembra vero, ma è proprio così, è capitato anche a noi la stessa cosa,
quando in quella lontana notte triste e tempestosa di Natale, mio padre
bussò alla porta di un suo lontano parente e ci fu aperto. Anche la sua
modesta casa era stata scoperchiata dalla tempesta notturna e non aveva
altro da offrirci che uno sgabello vicino al focolare e un umile giaciglio
nella tiepida stalla, in compagnia dell'asinello, di un cavallo bianco e di
alcune capre. Al risveglio, era lì premuroso ad offrirci, come si fa agli
ospiti graditi, una ciotola di latte caldo con dentro la tipica ricotta
fumante: siero che rimane dopo che è stato fatto il formaggio dal latte
delle capre, accompagnata con una fetta di pane casereccio. All'alba, come
d'incanto, la tempesta si era placata come pure la pioggia. Nel fare
ritorno nella nostra modesta casa scoperchiata, il buon pastore ci ha
detto: "Amici carissimi, andate con Dio! In questa giornata benedetta del
Santo Natale.
Poco dopo, quando siamo ritornati a casa, anche il sole stava per spuntare
da dietro la massa nuvolosa. Appena entrati siamo stati accolti da un
tiepido raggio di sole, che da una breccia del tetto scoperchiato, stava
illuminando la cucina quasi allagata. In un angolo vicino al focolare
spento, c'era ancora il piccolo presepe che la zia Cristina, come succedeva
ogni anno, aveva fatto per me.
Il Natale significa, nascita, rinascita e riferimento, ma anche pace e
soprattutto amicizia. Direi che oggi, in questa nostra epoca in
trasformazione, é una parola quasi dimenticata, eppure l'amicizia continua
ad essere un complemento indispensabile in tutte le situazioni. Ve lo
immaginate un gruppo di persone, chiamato ogni giorno a fare squadra, in
mansioni esecutive o ai vertici decisionali, senza quella amalgama
fondamentale che solo l'amicizia può dare? Direi proprio di no, soprattutto
se si pensa ai contenuti che la sostanziano: fiducia, disponibilità,
rispetto e generosità, tre aggettivi quest'ultimi che nelle feste natalizie
assumono un grande significato fra gli uomini di buona volontà. Concludiamo
questo nostro racconto di Natale, facendo nostre le belle parole augurali
di Don Errico Castiglione, tanto che le vogliamo estendere a tutti gli
amici del Sito Poetare.
"Voglio infine esprimere il mio augurio Natalizio per voi attraverso un
pensiero di Santa Madre Teresa di Calcutta:
" Gesù venne in questo mondo per uno
scopo. Venne per darci la buona
Novella che Dio ci ama, che Dio è
Amore, che ama te e ama me. Egli vuole
Che ci amiamo vicendevolmente come
Egli ama ciascuno di noi. Amiamolo!
Come lo amò il Padre? Lo diede a noi.
Gesù come amò me e te? Dando la
Propria vita…. Diede tutto quello che
aveva…. La sua vita…. Per me e per te…
Quando guardiamo la mangiatoia,
Capiamo come ci ama ora di tenero
Amore, te e me, la tua famiglia e ogni
famiglia. E Dio ci ama di un amore
tenero. Tutto questo Gesù è venuto a
Insegnarci: il tenero amore di Dio."
Il caso Diana
La storia è vera, non come quelle che passano di bocca in bocca, si
trasformano e arrivano distorte. Questa la conosco perché l'ho vissuta e
voglio raccontarla prima che diventi leggenda metropolitana, come oggi si
vuol dirsi. Da sempre sono in contatto con il piccolo popolo; fa parte
della mia vita come appartenne a quella della mia famiglia, in un connubio
che risale ad alcune generazioni fa, fatto di amicizia, di collaborazione,
di solidarietà. Così incomincia un racconto della bravissima Antonella
Gallazzi". Abbiamo preso in prestito l'inizio del suo racconto, perché in
un certo senso, ci sono le stesse affinità di pensiero. Anche noi, in un
modo diverso, si capisce, siamo sempre stati in contatto con il piccolo
popolo di provincia, in un connubio, fatto di amicizia, di collaborazione e
di solidarietà, quale comandante di Stazione Carabinieri. La nostra non è
una storia che sa di favola, come quella che abbiamo appena letta, scritta
appunto da Antonella Gallazzi, ma di una storia fatta di criminalità e di
delinquenza comune, che purtroppo, giorno dopo giorno, le cronache dei
giornali registrano e ne sono piene. Il "Caso Diana", tratta di un'indagine
di polizia giudiziaria e si riferisce all'incendio doloso di un alberghetto
di terz'ordine del vecchio centro storico dei "carruggi" della meravigliosa
città di Genova, dove vive quel piccolo popolo di cittadini onesti e
laboriosi, ma anche e soprattutto di diseredati, extra comunitari, drogati,
prostitute e truffatori, che per sopravvivere, sono costretti a delinquere,
commettere una miriade di fatti criminosi, che vanno dalla prostituzione,
alle piccole truffe ed ai piccoli furti, e qualche volta ci scappa persino
l'omicidio doloso. Questa vicenda: una successione di cose, di avvenimenti
che si alternano tra loro, ci è stata raccontata con dovizia di
particolari, dal nostro collega e amico d'infanzia Giovanni in un mattino
splendente e luminoso di Settembre, in una modesta trattoria di Sirmione
del Garda.
Molti anni fa, appunto, quando il sole era ancora alto nel cielo, a bordo
della nostra autovettura " Ford Fiesta", condotta da Adriana mia moglie,
abbiamo parcheggiato nell'ampia Piazza di Sirmione, antistante il Castello
a amò di fortezza, costruito da Mastino della Scala, entro la cerchia delle
antiche mura che circondavano il Borgo medioevale. E' uno dei più belli
castelli superstiti dell'età scaligera.
La penisola di Sirmione è molto frequentata per lo splendore del paesaggio
e anche per le cure termali. Fu decantato dai poeti (Catullo e Carducci)
affascinati dalla bellezza dei luoghi che descrissero in versi immortali.
Tutta la penisola sembra un grandioso e magnifico parco naturale, percorso
da viali e sentieri fra una rigogliosa vegetazione di ulivi, cipressi,
lauri e magnolie. Tre colline si alzano all'interno; la prima posta a
levante detta, " Cortine", la seconda a ponente chiamata " Movine", la
terza a settentrione posta fra le due, chiamata " Grotte" di "Catullo" sede
di un antico palazzo romano.
Quello splendido mattino autunnale, il Lago di Garda era bellissimo,
attorniato da un panorama fantastico, conorizzonte le montagne imbevute e
dipinte d'azzurro, mentre il cielo era striato di giallo di Napoli. Il
cielo sereno e l'alta pressione presente sulla località del lago, ci hanno
fatto apparire le cime delle Alpi nella loro grandiosità ed imponenza e
scenografica bellezza. Quello era uno scenario di quinta teatrale di grande
bellezza paesaggistica, gustato dalla rupe terminale della penisola,
proprio dove sorgono ancora le vecchie vestigia della villa romana, fatta
costruire da Catullo, quale sua residenza estiva.
Dopo il giro turistico della penisola e del Borgo, mi ero spinto avanti, in
un vicolo di fianco al Castello, avevo visto, in una rientranza del vicolo
un piccolo portico di legno con l'insegna di una trattoria "La Pergola",
uno dei nomi, così belli e così sinceri, che si davano alle osterie verso
la fine del secolo scorso; allora la gente credeva e attendeva fiduciosa ad
un mondo migliore: La Pergola, il progresso, la perseveranza, l'amicizia,
la pace.
Entrammo accolti dal profumo delizioso che veniva dalla cucina. Vi erano
bottiglioni lucidi e neri, senza etichetta, il rosso cupo del barbera e il
rosato del Valpolicella splendeva nei bicchieri posti sui tavoli, i clienti
qua e là, soli o a due o a tre, con i loro volti e il loro sommesso,
tranquillo parlottio ci rassicuravano. Tutto ci piaceva, tutto ci attraeva
di quel rustico e caratteristico locale che ci portava lontano nel tempo.
In quel tempo, quando l'amicizia, la fratellanza era una cosa meravigliosa,
mentre oggi, in questo mondo del progresso, del consumismo, tutti quei
valori umani e sociali posso dirsi dimenticati, perché tutti abbiamo fretta
di arrivare e sovente, dimentichiamo le cose semplici della vita, come del
resto erano le persone dall'ora, schiette e naturali, amichevoli.
Così scriveva il grande Mario Soldati, quando parlava della sua terra,
delle sue Langhe, della gente semplice e laboriosa del vecchio e nobile
Piemonte.
Prendiamo posto nell'angolo, in fondo alla sala vicino alla finestra che da
lago. Da lì si poteva godere una vista meravigliosa senza eguali. Ma in
quel momento qualcuno, come nei " Racconti del maresciallo" di Mario
Soldati, con voce a me nota e familiare era alle mie spalle, e guarda caso,
era un maresciallo dei carabinieri, un mio carissimo amico dei tempi
lontani. Mi chiama "Diego!". Mi volto di scatto, e lo vedo seduto vicino
alla parete. Si alza, ci viene in contro. " Giovanni"! Sì Diego, Giovanni
Casentino, il maresciallo maggiore aiutante dei carabinieri, l'amico della
mia infanzia. Con Giovanni ci eravamo conosciuti da fanciulli in quel
piccolo paese alle pendici dell'Aspromonte. Tre amici indimenticabili,
accomunati nel bene e nel male, nella gioia e nel dolore. Quest'ultimo,
cioè Giuseppe, dopo gli studi medi frequentò la scuola nautica, fino a
diventare Capitano di lungo corso della Marina Mercantile, mentre Giovanni
si era arruolato nell'Arma dei carabinieri, come del resto avevo fatto
anch'io, raggiungendo il massimo grado dei sottufficiali.
"Allora sei in pensione", " no, ancora! Tra qualche anno". In quella
occasione mi raccontò brevemente la sua vita, le sue peregrinazioni, mi
parò della sua famiglia e del nuovo incarico. Attualmente comandava il
Nucleo di Polizia Giudiziaria, presso il Comando Provinciale di Genova.
Ecco, oggi sono qui di passaggio, in una missione speciale; " Segreti
d'Ufficio".
Giovanni si sedette al nostro tavolo e fu nostro ospite, così per poter
chiacchierare tranquilli come una volta, senza farci sentire dagli altri
astanti. Fu in quella occasione che mi parò, tra l'atro, del caso " Diana".
Era una storia comune a tante altre, che capitano ogni giorno, e che le
forze di polizia sono chiamati ad affrontare e risolvere.
Erano le tre del mattino, continua Giovanni, quando la città era immersa
nel sonno, mentre nei bassifondi della città di Genova, in Piazza
Caricamento, in Via Prè e nei dintorni del grande Porto, i ritardatari
stavano abbassando le serrande dei locali pubblici, mentre gli ultimi
ubriachi, prostitute, marinai ed altre persone stavano ritornando alle loro
case, alle navi ancorate, agli alberghi dove alloggiavano.
Improvvisamente, quel silenzio notturno, è stato squarciato dal sibilo
penetrante dal suono prolungato delle sirene, che si udiva a grande
distanza, dei mezzi della protezione civile e delle numerose autoambulanze,
che si dirigevano in Piazza Caricamento, dove era ubicato l'albergo di
terz'ordine " Diana", nel quale si era sviluppato un incendio di grosse
proporzioni.
Oltre agli agenti della Squadra Mobile della Questura, ai Vigili del Fuoco
e ad un numero imprecisato di autoambulanze, vi erano fatte convergere sul
luogo alcune Gazzelle dei Carabinieri del Nucleo Radiomobile, che si trova
di perlustrazione nei paraggi. In tutte le strade della città addormentata,
si vedevano autoambulanze sfrecciare, a sirene spiegate, che facevano la
spola tra Piazza Caricamento e gli Ospedali della città, quello di san
Martino e quello di san Pier d'Arena. Nei pressi dell'edificio in fiamme,
oltre alle sirene si udivano le grida di terrore e d'angoscia delle
persone, non ché il rombo assordante dei motori proveniente dalla strada e
dalla sopraelevata che è di fronte al grande Porto Commerciale della città.
L'edificio era completamente distrutto, dove le pareti erano crollate,
erano esposti alla vista letti rotti, tavoli bruciati, vecchie stanze da
bagno, tubi contorti alle pareti, pezzi di calcinacci schizzati sul
pavimento. Qua e là giacevano una scarpa o un brandello di stoffa, sfuggiti
per miracolo alle fiamme. La gente, come il solito, si era fermata a
fissare sbigottita le macerie, ma era prontamente allontanata dalle forze
dell'ordine.
Mi avvicinai con circospezione alla facciata dell'edificio, attraverso i
vetri frantumati delle porte scrutai nell'atrio, i cui pilastri di cemento
stavano ancora in piedi oltre ad una parte delle strutture murarie e dal
vano delle scale. Il bancone ed i mobili adiacenti a quella che doveva
essere la cassa resistevano ancora, così pure altre suppellettili, alcune
sedie impregnate d'acqua e rovinate dalle fiamme e soprattutto dal fumo
giacevano ancora sul pavimento che era stato calpestato dai piedi infangati
dai soccorritori e cosparso di pozze d'acqua. Osservando attentamente il
disastro, sentii che le mie indagini si presentavano molto difficili, per
accertare, se era possibile, e stabilire le vere cause dell'incendio.
Proseguendo l'ispezione al secondo piano, vicino al ballatoio, per mezzo
del quale si accede alle camere del lato posteriore dell'edificio, sotto ad
un telo cerato scoprii il cadavere di una giovane donna dell'apparente età
di 25 anni, di carnagione direi olivastra, in posizione supina, che
fissasse con gli occhi vitrei, la bocca aperta in un muto grido,
un'orribile cicatrice che le sfregiava la guancia sinistra dallo zigomo
alla mascella e quindi alla carotide, la testa immersa in una pozza di
sangue ancora caldo e vischioso. Giaceva direi quasi composta sul
pavimento, come una bambola rotta. Indossava un informe vestito di colore
verde scuro uscito da qualche svendita. Le scarpe a spillo tipo sandali,
con la punta intrecciata, erano dello stesso colore verde e malconcio e
così pure la borsetta di paglia, non certo sicuro di paglia di Firenze, che
le era caduta di mano. All'interno di lei, all'infuori di un pacchetto di
preservativi della marca " Hatù" già iniziato, non vi era nient'altro che
poteva interessare all'indagine.
Su di una mano priva di guanto né anelli, risultava una traccia leggera, là
dove di recente c'era stato probabilmente un anello. Il punto
dell'omicidio, non era quello in cui era rinvenuto il corpo senza vita
della donna, lì era probabilmente il punto in cui era caduta stremata, morì
per dissanguamento, e una mano pietosa, nel trambusto dell'incendio,
ricoprì il suo corpo con quel telo cerato.
Da quanto risultò dalle successive indagini, sembra che la lite avvenne
nella sua camera da letto, sita sullo stesso piano al numero 52, ove
sicuramente avvenne lo sfregio ed ella scappò per i corridoi interminabili,
cercando una via di scampo e un immediato soccorso; ma con certezza, il
fumo e le fiamme le impedirono di andare oltre. Nella sua corsa picchiava i
pugni contro le solide pareti, forse per attirare l'attenzione delle altre
persone, o per tentare disperatamente di aprire qualche porta o gli
sportelli chiusi dell'ascensore, per raggiungere il piano sottostante, e
quindi, forse la salvezza.
L'improvviso fragore, la vampata del fuoco, il calore e le fiamme la
circondavano, mentre cercava una via di scampo percorrendo il corridoio e
poi le scale, scorticandosi le dita sulla ringhiera metallica. I soccorsi
furono tempestivi e i superstiti furono inviati a mezzo delle numerose
autoambulanze della Croce Rossa Italiana e della Croce Verde agli ospedali
della città e all'obitorio quelli che non gliel'hanno fatta. Alcune delle
vittime non furono mai identificate, perché prive di documenti
d'identificazione.
Subito pensai: Che ne è dei registri, delle schede? Sono state recuperate?
I carabinieri e i vigili del fuoco che stavano operando mi risposero che
forse erano andati distrutti dalle fiamme. Era noto che da anni, forse da
sempre, all'albergo " Diana" non si tenevano dei registri attendibili, la
gente andava e veniva, era un vero porto di mare, come si vuol dire, e un
covo di delinquenti e prostitute: L'ultima teppa prima di finire sotto i
ponti o sgozzati nei " Carruggi" del centro storico della città. In queste
vie e viuzze vivono gente ai margini della Legge, ladri, delinquenti,
prostitute, spacciatori, travestiti e drogati.
Gente di ogni risma delinquenziale, che viveva e vive tuttora, ai margini
della società. Quello è un fenomeno che troviamo in tutte le grandi città,
specie nelle città dove esistono dei grossi scali marittimi come Genova e
Marsiglia. Nella grande sala del Pronto Soccorso, il medico di guardia ci
ha fornito i nomi di quelli che erano stati medicati e subito dimessi; ma
nessuno di loro ha lasciato un recapito. Abbiamo chiesto di parlare con i
quindici degenti rimasti ricoverati, ma il dottore ci ha invitati a
fermarci pochi minuti con loro, perché le loro condizioni erano gravissime.
" Essi non sono in grado di parlare, tanto meno dell'incendio. Non ci sono
speranze, poveri diavoli".
L'Ospedale di San Martino è un complesso Ospedaliero imponente e
modernissimo, uno dei maggiori della Regione Liguria, situato in una
meravigliosa zona della città. Di lassù la vista domina superbamente un
panorama senza eguali, immerso nel verde di meravigliosi pini marittimi e
di piante mediterranei.
Giacevano in un candido lettino, nel reparto grandi ustionati, un uomo
dall'apparente età di circa sessant'anni. Appena ci ha scorti, ci ha
riconosciuti subito, chiamandoci per nome: Lasciatemi parlare comandante,
ci disse l'infermo. " So bene che mi resta poco da vivere, sebbene sia
anche troppo per me. Ormai sono spacciato. Perciò, visto che posso ancora
parlare, lasciatemi dire". " Potrebbe servire a rendere giustizia alla
povera, cara amica - Veronica - Credete che se la sia cavata!". No, non
credo, ma in un ceto senso se l'ha voluto". Veronica era una bella ragazza,
direi alquanto sventata, proprio stupida, senza rimedio. Veda Comandante,
Veronica era corsa come me, per molti anni, da quando è venuta a lavorare
qui a Genova da Marsiglia, è stata costretta ad esercitare il mestiere più
vecchio del mondo ed ha vissuto una vita squallida, fra gente di basso ceto
e dubbia moralità, nelle vecchie stradine del centro storico, soggiogata da
un bruto sfruttatore. Egli aveva in ballo molti traffici loschi, dominava
anche gli spacciatori di stupefacenti e piccoli rapinatori. Quella notte,
nella sua camera d'albergo, attigua alla mia, evidentemente Veronica si
ribellò e lo minacciò più volte di farlo saltare per aria, se lui non le
restituiva, prima di tutto la sua libertà, e una parte dei suoi modesti
guadagni, per potersi rifare una nuova vita".
L'uomo parlava. Ad un tratto. Questi che era coricato, immobile sul
lettino, mosse le labbra in una smorfia di spasimo. " Spero che se la sia
cavata, ripeteva. Ma forse è meglio di No. Bene, soggiunse con una risata
soffocata, forse ci incontreremo all'inferno. Arrivederci comandante."
Scusi se la disturbo ancora un momento signor Antonio. Sì, quell'infermo
era una persona di nostra conoscenza per via dei suoi trascorsi. Era un
povero diavolo che viveva ai margini della società. Non potrebbe darci
qualche altra indicazione circa l'amico della signorina Veronica? E anche
circa l'incendio dell'albergo " Diana"?. " Si, era un ceffo, uno dei più
crudeli ed incalliti delinquenti che si possono trovare sulla terra. E' un
marsigliese ed il suo nome è - Antuan Raimondì - detto il -corsaro- ed ha
circa 30 anni. Circa l'incendio, non sono in grado di precisare se è stato
appiccato dal " Corsaro", o che sia avvenuto per altre cause. Sicuramente
sarà stato lui, per eliminare ogni traccia di violenza. Voglio aggiungere
che Veronica portava al dito un brillante molto costoso, di cui ignoro la
provenienza. Certamente di provenienza furtiva o da qualche azione
criminosa".
Fuori all'aria fresca, lontano dall'odore dell'Ospedale, lontano di tanta
sofferenza e dall'uomo bendato di nostra conoscenza, che attendeva sola la
morte e che stava soffrendo le pene dell'inferno, rivedevo la posizione
della giovane donna morta, fra le macerie dell'albergo distrutto dalle
fiamme. Lo sguardo vitreo dei suoi occhi, la bocca aperta in un muto grido,
il terrore in quell'atmo che si consumava una tragedia, una delle tante,
che ogni giorno siamo costretti a rilevare in questo strano mondo. Pensavo
anche, e cercavo di coordinare ed analizzare il racconto agitato di
Antonio, tutto bendato, disteso sul candido lettino del " Reparto Grandi
ustionati dell'Ospedale di S. Martino, in attesa della morte, in seguito
alle gravissime ustioni riportate nell'incendio dell'albergo " Diana".
Nelle successive indagini di Polizia Giudiziaria e negli accertamenti
presso gli archivi della Questura di Genova, abbiamo cercato molto per
giungere all'identificazione e quindi abbiamo interessato la Gendarmeria
della Corsica e quella di Marsiglia. Da queste due località della Francia,
sono a noi giunte sufficienti informazioni, per stabilire l'esatta identità
della mondana e anche dell'uomo detto il " Corsaro".
Il Raimondi, fu attivamente ricercato dall'Interpol, ma con esito negativo
Poche ore dopo, l'uomo all'Ospedale che aveva brevemente parlato con noi,
decedeva in seguito alle gravissime ustioni riportate.
Caro amico e collega carissimo, disse proseguendo nel suo racconto
Giovanni, devi sapere che lo sfregio, di solito, come te ben sai, è
praticato da elementi della malavita, per uno sgarro, oppure per un torto
subito, o per richiamare a maggiore ubbidienza alcune persone a loro
soggiogate, specie donne, che praticano la prostituzione. In genere, ciò
avviene appunto nel campo del dominio della prostituzione, ma non è mai
letale, come è capitato alla povera " Veronica".
Qualche tempo dopo, siamo venuto a conoscenza che il pregiudicato -
Raimondi - era stato ucciso in un conflitto a fuoco con gendarmi francesi,
in una zona montagnosa della Repubblica di Andorra, sui Perinei, ai confini
con la Spagna, in territorio confinante con la Catalogna, per un grosso
traffico di eroina e valuta straniera.
In seguito la Gendarmeria Francese, ci comunicava, inoltre, che il Raimondi,
al momento della sua identificazione, portava al dito mignolo della mano
sinistra, un grosso anello di brillante da donna a forma di doppia piramide
nella parte superiore avente per complessive numero 32 facce romboidali e
triangolari di grande valore commerciale.
Se il Raimondi abbia appiccato il fuoco, per cancellare ogni traccia del
suo crimine, che ha portato alla distruzione totale dell'albergo " Diana",
non lo sappiamo e probabilmente non lo sapremo mai.
E' più che probabile, ma non abbiamo elementi validi, oltre al racconto del
morente corso, per attribuirlo al Raimondi.
Alla fine del pranzo, nel tipico ristorante " La Pergola" di Sirmione,
Giovanni ci salutò con molta cordialità e partì per riprendere e portare a
termine i suoi accertamenti molto riservati, " Segreti d'Ufficio" come li
definiva lui.
Dopo di aver trascorso un paio d'ore con l'amico e carissimo collega
Giovanni, in quel tipico locale, con il quale, oltre al racconto del "Caso
Diana", abbiamo rievocato i lontani anni della nostra fanciullezza e dei
nostri trascorsi nell'Arma Benemerita. Questi ricordi, fanno parte
integrante della nostra vita e li conserviamo gelosamente dentro di noi.
Fuori del rustico ed accogliente ristorante, ci attendeva una meravigliosa
giornata, da vivere in quel paradiso terrestre della penisola di Sirmione,
dove tutto è incanto e bellezza. I piccoli scorci che abbiamo definito
"piccoli quadri", che rispecchiano la bellezza paesaggistica e la natura,
incastonati come pietre preziose, microcosmi da sempre ammirati dall'uomo
Essendo le strutture del microcosmo corrispondenti alle strutture del
macrocosmo, ogni variazione del primo si riflette sul secondo ed ogni
caratteristica dell'uno determina le caratteristiche dell'altro.
Percorrendo in lungo ed in largo le stradine ed i sentieri panoramiche di
questo incantevole giardino, fucina dei pittori della domenica, cogliendone
ogni aspetto, gustandone sin nel profondo la duplice bellezza, quella della
natura e quella dello splendore delle creazioni, ecco quello che ci hanno
consentito quei meravigliosi luoghi, in quel pomeriggio colorato d'autunno.
Il pensiero corre veloce come il pennello quando si trova a dover lottare
con il tempo, sapendo cogliere l'attimo più intenso di quella luce. Si, è
proprio così, é l'ora del tramonto, e la luce sembra piovere a ondate
sempre crescenti. Il disco folgorante sembra legato ad un filo di lana, che
da un momento all'altro sta per precipitare dietro le coloratissime colline
moreniche. Il suo labbro tagliente sembra gocciolante; le gocce di sì puro
lavacro, sembrano, ricadendo sulla superficie del lago, come stille di
fuoco, dilatarsi, inseguirsi, e d'onda in onda scorrendo, venire a
spegnersi contro le piccole insenature", dove una famigliola di anatre
colorate, in fila indiana, si sta avvicinando alla riva, per trascorrere la
notte nei loro nidi, dopo una lunga e faticosa giornata di pesca.
Tutto questo è la tavolozza dei sentimenti che ci portiamo dietro nelle
nostre peregrinazioni sui sentieri del nostro bellissimo Paese, che tutto
il mondo ci invidia.
Prima di concludere, dobbiamo soltanto affermare, che non è affatto vero,
come dicono certi politici e ambientalisti, che tutto è ormai degradato: ci
sono ancora ambienti come questo del Lago di Garda, di montagna, alpini e
appenninici, incontaminati. Vasti spazi da percorrere in libertà. Però la
libertà di comportarsi bene non solo con la natura, ma anche e soprattutto
con l'umanità.
Mentre sto guardando l'acqua placida e colorata della superficie del lago,
mi vengono in mente le parole di Romano Battaglia, quando parla del fiume
della vita:
"Guardando l'acqua scorrere fra le rocce, allontana in me la realtà della
vita quotidiana per inoltrarmi nel sentiero incantato, dove i pensieri
cattivi si infrangono sulla scogliera della fantasia.
Viene qualche uccello ad abbeverarsi, farfalle bianche volano sulla
superficie dell'acqua. Avverto il palpito della natura che in sé mantiene
il potere della rigenerazione. Tutti gli uomini disperati hanno ritrovato
grazie alla natura, l'equilibrio e l'umanità che avevano perduto. Lamartine
aveva ragione di scrivere che….
La natura ti invita e ti ama: riposati nel suo seno, che essa ti apre
sempre; quando tutto per te cambia, la natura resta la stessa, e lo stesso
sole sorgerà suoi tuoi giorni.
L'isola di Capri.
Pensando a questa meravigliosa ed incantevole isola di Capri, immersa in
mezzo a quel clauco mare, uno si sente quasi vivere doppiamente. Imperocché
è assai ristretta la cerchia dell'umana vita, tante sono le cose che
quotidianamente ci stringono, ci contrastano da ogni parte, ci condannano
ad una lotta penosa, meschina, in un orizzonte che pure sarebbe vasto. Ogni
orizzonte è bello; bello è contemplare dall'altezza della civiltà
l'orizzonte del pensiero, delle scienze, delle arti, l'armonia che presiede
all'ordine di tutte le cose create. Dall'alto del monte Solaro, pensavo a
Humboldt, al cui genio, credo, andavamo debitori di trovare il mondo così
bello, così mirabilmente ordinato, e, e fissando poi lo sguardo sul capo
Miseno e sul Vesuvio, pensavo pure a Plinio, l'homboldt dei Romani, non che
ad Aristotile, genio veramente universale ed ordinatore dell'umano sapere.
Ma oggi, senza disturbare questi grandi uomini della scienza, mi viene da
pensare al "Tempo" che passa così veloce, tanto che mi sembra ieri, eppure
sono trascorsi cinquant'anni da quel lontano mese di settembre del 1957.
Questa è una data indimenticabile, ma soprattutto é indelebile, che affiora
con una certa regolarità nella nostra memoria e ci ricorda il tempo della
"Felicità", perché in quel tempo eravamo in viaggio di nozze o meglio dire
in Luna di miele a Capri. Essere felice vuol dire essere contenti non solo
del passato che non esiste più, ma soprattutto anche del nostro presente.
Luciano De Crescenzo, così scrive nel suo nuovo libro " Il Tempo e la
felicità":
"Tutti, a parole, sono convinti di essere stati felici in passato, e tutti
sperano di essere felice in futuro; quando però, si tratta di riconoscere
che si è felici proprio nel momento in cui ci si pone la domanda, ebbene,
diciamo la verità, non tutti ce la fanno". san'Agostino, né le "
Confessioni", parlando del passato e del presente ,ci dice che non esiste
il passato, ma solo il presente del passato ( che poi si chiama "memoria")
Non esiste il futuro, ma solo il presente del futuro ( che poi si chiama
"speranza". L'unico ad avere qualche probabilità di esistere potrebbe
essere il presente o, per meglio dire, il presente del presente ( che poi
in ultima analisi, sarebbe " l'intuizione diretta")
Si, è proprio vera, quest'affermazione: "Capire il tempo equivale capire la
vita, e di conseguenza anche la Felicità. Seneca, trecentocinquant'anni
prima di sant'Agostino, ha trattato a lungo l'argomento Tempo. Alcuni
temono che la Felicità sia un bene molto lontano, quasi irraggiungibile,
motivo perciò corrono a più non posso nella speranza di avvicinarla, senza
mai rendersi conto che più corrono e più se ne allontanano. La Felicità,
invece, sostiene Seneca, è un bene vicinissimo, alla portata di tutti:
basta fermarsi a raccoglierla. Il che, in un certo qual modo, mi ricorda
una massima del divino Buddha: " E' più facile essere felici salvando una
formica che sta per affogare, che non fondando un impero". Noi, cioè
Adriana ed io, non abbiamo fondato un impero, ma una famiglia che dura
ancora nel tempo, il che oggi non è proprio così. Nel nuovo clima politico
- sociale,i matrimoni, appena nati, subito dopo poco tempo, finiscono
dritti dritti nelle aule di tribunali.
Lasciamo quest'argomento d'attualità, e ritorniamo a parlare del nostro
passato prossimo, e più precisamente della nostra escursione nell'isola di
Capri. Qualche giorno prima di raggiungere l'isola degli innamorati,
passeggiando nei viali dalle cento fontane di Villa d'Este di Tivoli,
abbiamo incontrato i coniugi Scarpa: due simpatici veneziani, in giro in
Vespa per l'Italia, alla scoperta dei luoghi più significativi del nostro
meraviglioso Paese. Nel proseguimento del nostro viaggio di nozze, il
giorno successivo,ci siamo dato l'appuntamento nella Piazza del Plebiscito
di Napoli. Infatti, li abbiamo ritrovati ad attenderci davanti alla
Cattedrale di san Francesco. Il mattino del giorno seguente, alle ore 8 del
mattino, dal porto di Napoli, ci siamo imbarcati sul vaporetto di linea "
Il Gabbiano" e siamo salpati alla volta di Capri.
La vista dell'isola ha sempre esercitato su me un vero fascino per la sua
conformazione monumentale, per la sua solitudine, e per i cupi ricordi di
quell'imperatore romano, che, signore del mondo intero, considerava quello
scoglio come sua e vera proprietà. Il 14 settembre 1957, una domenica di
buon mattino, con un tempo stupendo andammo a Sorrento, e di là
costeggiando la rupe calcarea ci dirigemmo verso Capri. Il mare non era
meno tranquillo del cielo; le linee del paesaggio si perdevano
all'orizzonte in una luce vaga ed indecisa; Capri però ci appariva davanti
imponente, grave, rocciosa, severa, con i suoi monti selvaggi, con le sue
rupi rossastre di roccia calcarea, tagliate a picco. Sull'altura si
scorgeva un bruno castello rovinato; qua e là avanzi di antiche costruzioni
e tante casette sparse e biancheggianti sui pianori colorati dal ginestra
selvatico dai fiori gialli; scogli aspri e ripidi, in cima ai quali
svolazzavano falchi di mare e grigi gabbiani, assuefatti al caldo sole
autunnale, come dice Eschilo; in basso caverne, grotte oscure, misteriose;
sul dorso del colle una piccola città di aspetto gaio, con case bianche,
mura alte e una cupola di chiesa; più in basso ancora, sulla zona ristretta
della spiaggia, un piccolo porto per i pescatori ed una lunga fila di
barche tirate a secco.
Quando il bianco vaporetto stava approdando nel molo, suonavano le campane
della chiesa per annunciare il mezzogiorno. L'amico Mario Scarpa, da buon
veneziano e amante della buona cucina, ha detto: " Diego, siamo proprio
giunti l'ora di pranzo, non sei contento?" Subito dopo sbarcati, poco
lontano dal porto, ci siamo fermati nel piccolo ristorante di " Zi
Francesca". Tutto era silenzio e tranquillità; non si vedevano che pochi
pescatori, alcuni ragazzini e pochissimi turisti. Eravamo giunti in una
solitudine quasi selvaggia e romantica insieme, un luogo ideali per gli
innamorati. Dopo un pranzetto veloce, a base di pesce fresco e innaffiato
da un vinello quasi pallido ma generoso, con l'allegria di sempre,
riprendemmo la strada per raggiungere il centro di Capri.
Da quel punto della marina una strada ripida e scoscesa, che, fra mura di
giardini, in poco tempo ci ha portato alla piccola città. Era meraviglioso
osservare quei giardini aperti nei seni della rupe che erano coltivati a
viti, a uliveti e ad agrumi, ma la vegetazione era scarsa e poco
lussureggiante. Quello che erano spettacolari, erano gli affacci
panoramiche, che sembravano delle quinte teatrali. Dopo di aver percorso
lunghe scalinate, finalmente siamo giunti nella famosa piazzetta. Alcuni
abitati, vestiti a festa stavano ciarlando, seduti sui gradini della
chiesa. Parecchi ragazzi giocavano allegramente sulla piccola piazza,
davanti alla chiesa, che pareva era fatta apposta per i loro giochi.
Attorno alla piazzette, che da sempre è stato il centro nevralgico di
Capri, sorgono diversi Bar ed alcuni negozi di souvenir. Al ristorante non
ci è stato servito il caffè, perché non avevano la macchina espressa. Al
Bar della piazzetta, oltre al caffè, abbiamo degustato un ottimo gelato
alle fragole, e più tardi, Mario, l'amico occasionale veneziano, che di "
ombrette" ne era intenditore, di tanto in tanto, ne approfittava, come
diceva lui, per rinfrescarsi la gola con il nettare di Capri, pregiato vino
bianco. Un vino secco, profumato e armonico, che si produce nell'isola
omonima e sulle pendici del Vesuvio. Esiste anche un capri rosso, quello
che ci è stato servito al ristorante.
… L'agglomerato urbano è costituito da piccole case bianche a cupola adorne
di colonne, loggiati e terrazzati, affacciatesi su strette, tortuose viuzze
tutte confluenti nella minuscola Piazza Umberto I fulcro della vita mondana
e turistica di Capri. La chiesa barocca di santo Stefano, rifatta nel 1687,
presenta i tradizionali motivi di copertura a volte e cupole
dell'architettura caprese.
…Capri fu centro importante già in età preistorica. Le tracce più numerose
degli uomini dell'età della pietra e dell'età del bronzo sono state
rinvenute nella grotta delle Felci, sopra Marina Piccola- Dai secoli VII
-VI a.C. fu fiorente colonia greca. Durante il principato di Augusto
l'intera isola fu incorporata nel dominio dell'imperatore. Augusto vi fece
costruire ville sontuose, seguito poi da Tiberio che abitò nell'isola dal
27 al 37. Dodici sarebbero state le ville imperiali, la più grandiosa delle
quali è " Villa Iovis", alla sommità del promontorio orientale dell'isola.
Fino all'età Flavia, Capri fu residenza saltuaria degli imperatori;
successivamente vi furono relegati personaggi della corte imperiale.
Successivamente seguì le vicende di Napoli. Durante le guerre napoleoniche,
occupata dagli inglesi in nome dei Borboni nel 1806, fu riconquistata nel
1808 dalla flotta franco -napoleonica inviata da Murat. Dalla seconda metà
del XIX sec. dato il grande sviluppo di Capri come centro internazionale.
…Come abbiamo detto sopra, le case, che sorgono sul promontorio, sono
bianche e piccole, con i tetti a terrazza, avevano quasi tutte una pianta
di vite arrampicatesi per le mura e nella parte più in ombra, germogliava,
come germoglia ancora oggi, una pianta dei famosi limoni di Capri, dai
quali i capresi ricavano il famoso " limoncé". La stessa architettura
caprese, nel nostro peregrinare escursionistico, l'abbiamo trovata nelle
isole Eolie e nei paesi del Nord'Africa, e precisamente nei villaggi che
sorgono sulle coste del Mediterraneo, nelle vicinanze di Tunisi e di
Mahadia.
…Nella stessa maniera che la natura con le sue forme, con le sue tinte
contribuisce a rendere eminentemente poetica quest'isola magica, fantastici
parimenti e degni di un idillio vi appaiono gli abitanti. La cittadina di
Capri, la quale giace sopra una depressione del monte fra le colline di S.
Michele e del Castello, ha un aspetto assai caratteristico che la distingue
dalle altre isole del Golfo. Le case, oltre alla vite e al limone, sono
attorniate per lo più da un terrazzino o da una loggia coperta o veranda,
resa più graziosa di solito da una pianta di vite e da vasi di ortensie,
garofani e oleandri. Quando il giardino è aderente alla casa, vi dà accesso
per lo più un pergolato che congiunge questo quella. Ciò forma il più bel
ornamento delle abitazioni dell'isola, poiché consiste in un basamento in
muratura a doppia fila, sul quale sorgono i pilastri che sostengono le
traverse di legno cui si appoggia la vite. Tutti quei pilastri e quelle
colonne danno alle case, anche alle più povere, un certo aspetto grandioso
ed alla loro architettura un carattere antico e ideale. Si direbbero i
portici di un tempio; ricordano più di una volta le colonne delle case di
Pompei.
I capresi, settemila circa, sono il popolo più pacifico della terra: uomini
di sensi, dolci d'indole, svegliati d'ingegno e straordinariamente operoso,
fanno in genere i pescatori e soltanto quest'ultimi posseggono qualcosa di
proprio: la loro barca e il pesce che raccolgono, ma soprattutto sono
ottimi accompagnatori turistici e di grande cordialità. Conoscono ogni
angolo, ogni anfratto, ogni grotta e ogni segreto dell'isola, ma
soprattutto la storia dell'imperatore Tiberio
…Subito dietro la chiesa, una stradella con una lunga scalinata e
tantissimi affacci paesaggistici, ci hanno portati sulla spiaggia della
Marina Piccola, dove sorgono i famosi Faraglioni, che sono diventati un
cliché turistico, conosciuti in tutto il mondo. Oltre ai Faraglioni, vi
abbiamo trovato una spiaggetta deliziosa, silenziosa e tranquilla.
Proseguendo oltre con la barca, vi sono le famose grotte scavate dal mare
fra gli scogli e le falesie dove nidificano i gabbiani e pascolano le
capre, é una costa dalle alte parete grigie e rocciose che scendono a picco
sul mare. Quello è un paesaggio spettacolare e metafisico. Ammirando quella
felice località, baciata dal sole autunnale, ti sembrava di vedere
l'inferno dantesco, illustrato con le incisioni di Gustave Doré,disegnatore
e pittore francese che illustrò la Divina Commedia.
Il nome dell'isola.
Il nome dell'isola, presso i Greci ed i Romani, era Caprea. Spiegando la
parola latinamente, significherebbe " isola delle capre, ma altri la
derivano dalla lingua fenicia, nella quale, come ci spiega il grande
scrittore Ferdinando Gregorovius , nel suo libro " Sulle tracce dei Greci",
nella quale Caprain significa due città. I Greci la considerarono quale
isola delle sirene, e tuttora un punto della spiaggia si chiama la Sirena.
Se non che, le isole delle Sirene di Omero giacevano di fronte Capri, verso
Amalfi ed il Capo Minerva; e quella denominata oggi Capo di Campanella, è
ritenuta per l'isola di Circe. Tuttavia, tutto il tratto di mare
all'interno è mitologico e ricorda l'Odissea ed il canto delle sirene, le
quali traevano alla rovina i naviganti, allorquando dal golfo di Posidonia
si accostavano a questi ripidi scogli, sorgenti appena sulle onde. S'ignora
da dove vennero i prima abitatori dell'isola, ma molto probabilmente dalla
terra ferma e furono i vicini Osci. Si ritiene pure che vi approdino i
Fenici, ed essi si è attribuita la fondazione delle due città, imperocché
l'isola, parte piana e parte montuosa, dovette di necessità avere due
centri di popolazione. Strambone ha di fatti lasciato scritto: " Capri ebbe
anticamente due città ma ora non ne possiede che una" Più tardi vennero i
Greci nel bel golfo di Napoli, nel cratere, come lo chiamano gli antichi
geografi, e presero stanza lungo le coste e nelle isole. Secondo quanto
asseriscono poi Tacito e Virgilio, si stabilirono in seguito a Capri i
Telebori, gente di stirpe arcaica. Il primo Greco signore dell'isola si
chiamava Telone.
In quel periodo, circa otto secoli prima della nascita di Cristo, i Greci
si stabilirono nei due golfi di Posidonia e di Napoli, edificarono Cuma e
Napoli, s'impossessarono delle isole di questo stupendo mare, e imposero
all'alto abitato di Capri il nome che ancora oggi conserva di Anacapri, che
è quanto dire Capri superiore. Se il viaggiatore o il turista che sbarca in
quest'isola di sogno fa attenzione al linguaggio che oggi si parlano quei
di Capri, si ritrovano parole di origine greca, e di tipo greco sono le
fisionomie distinte e nobili delle donne,specialmente di quelle anziane, di
foggia greca i paramenti, l'acconciatura dei loro capelli ed il modo con
cui dispongono il "muccadure", sorta di velo col quale sogliono ricoprirsi
il capo. La stessa cosa succede ancora oggi, nella bella cittadina
rivierasca di Bagnara Calabra, ove la zia Cristina ebbe i natali.
Ritornando alla storia, possiamo dire che sebbene più tardi i Romani
abbiano essi pure posseduta l'isola, tuttora, come a Napoli e Bagnara, in
gran parte è sangue greco quello che scorre nelle vene d'e' suoi abitatori
e dei Greci; essi hanno la grazia e la dolcezza che li rendono accetti al
turista che capita per caso e che rendono idilliache persino le loro nude
rocce e fanno dimenticare anche quel demone che fu Tiberio. In quell'epoca
a noi lontanissima i greci sembra che costruissero nell'isola dei templi,
dei quali rimangono parecchie vestigia. Si è detto pure che la gioventù di
Capri fosse valentissima nei ludi ginnastici che allora si praticavano
nella palestra greca.
Lasciamo la storia di questa stupenda isola felice, dove regna il silenzio,
l'allegria e la musica e veniamo a parlare del nostro viaggio di nozze, con
la visita, che per noi fu una vera scoperta, della Grotta Azzurra.
Grotta Azzurra.
La torre di Damecuta indica che nei paraggi si trova, sotto la spiaggia la
famosa Grotta Azzurra, la meraviglia di Capri, ma non la sola che si possa
vedere in quest'isola delle sirene. Don Peppino il barcaiolo, ci ha
condotti con tanta maestria nelle viscere della montagna alla scoperta
della Grotta Azzurra. Navigando dolcemente nella famosa grotta, mi sono
venute in mente tutte le storie delle fate che la zia Cristina mi aveva
raccontato fin da bambino. Il mondo ed il giorno erano scomparsi; Adriana,
io ed il barcaiolo, ci trovavamo in un elemento nuovo di luce cerulea. Le
onde si muovevano appena e scintillavano con tutta la velocità dei colori,
con tutto lo splendore delle pietre preziose; le pareti erano rivestite di
una misteriosa tinta azzurra, quasi fossero quelle di un palazzo di fate.
Tutto lì dentro era nuovo, strano,, misterioso. Il silenzio era così
profondo che nessuno osava aprir bocca. Provammo a dire qualche parola, ma
tacemmo subito; non si udiva più che il tonfo del remo ed il frangersi
delle onde contro le pareti, dalle quali si sprigionavano sprazzi di luce
fosforescente. Avrei voluto tuffarmi, immergermi in quella specie di bagno
di luce. Secondo me, da quello che narra Svetonio, ivi si dovevano bagnare
Tiberio e nuotare con le belle fanciulle del suo harem. Fra quelle onde
fosforescenti quei corpi giovanili dovevano splendere di luce magica, ne
dovevano marcare allora il canto delle sirene, né l'armonia dei flauti, a
rendere quel bagno più voluttuoso.
Qualche tempo prima, nel museo di Napoli, vidi dipinta sopra un vaso greco
una sirena, in atto di sollevare due bianche braccia, sorridere e battere
l'un contro l'altro due cembali d'argento. Tali dovevano essere le sirene
della magica grotta, che solo gli uomini prediletti dalla fortuna ed i
bambini possono ancor oggi vedere.
Napoli, Capri e Venezia, senza dubbio, sono le tre località più belli del
mondo, dove regna la bellezza, il silenzio e l'amore. Questi tre itinerari,
non per caso, quotidianamente, sono inseriti nel viaggio di nozze dei
novelli sposi. Non poteva essere diversamente essendo stata definita fin
dall'antichità il luogo delle fate e delle sirene. Il grande scrittore
inglese Norman Duglas, grande innamorato di quest'isola incantata, così
faceva a scrivere di Capri:
"Capri è un luogo fatto apposta per gli uomini stanchi della vita; non
saprei indicare un altro in cui coloro i quali ebbero a soffrire dispiaceri
d'amore o di altro genere, potessero finire più tranquillamente i loro
giorni", Infatti, egli dalla caotica e nebbiosa città di Londra, il suo
ultimo viaggio lo fece terminare proprio a Capri. Ci venne proprio per
morire.
Adriana ed io, siamo stati lieti di aver potuto contemplare tanto
spettacolo delle armonie della natura, scesi di lassù per imbarcarci sul
vaporetto per fare ritorno a Napoli, quando il sole verso Ischia volgeva al
tramonto. Il mare s'imporporava già a occidente e l'isola di Ponza, la
quale emergeva lontana e bella dalle onde, quasi giaceva in una sfera di
luce, rosseggiava come le gote di una fanciulla dal profilo greco e con il
viso fasciato con il bianco velo, come se tutt'intorno fosse in fiamme.
Pensieri e riflessioni
sulla scogliera
Questa mattina appena sono giunto sulla scogliera di Levante della
meravigliosa Liguria, per prima cosa, ho sistemato il cavalletto per
dipingere uno scorcio bellissimo, in una prospettiva sfuggente La scogliera
di Portofino è bellissima illuminata dal sole, mentre il mare si è messo un
vestito pettinato - grigio - celestino, e zitto zitto sta partendo. Ci
lascia all'asciutto, e gli scogli grandi e piccoli, secchi e puntiti,
aspettano che ritorni. Siamo, loro ed io, mentre Adriana è più in fondo a
prendere il sole sulla spiaggetta, abituati a questi viaggetti che ogni
tanto anche il mare fa. Dove va, non lo so. Noi non vediamo più in là dalla
lunga linea grigia dell'orizzonte che costituisce tutt'intorno al limite
della nostra vista e dove sembra unirsi mare, terra e cielo; si allarga
tanto più quanto più alto è il nostro punto di osservazione. Dai suoi
viaggetti di tramontana anche il mare ritorna sempre, a volte tutto
contento e allegro, a volte furibondo che un subitaneo libeccio lo rimandi
a casa, e allora rotola la sua ira sulla scogliera con onde fragorose e
salatissime e la sua vaporosa brezza si deposita sul nostro viso, quasi per
accarezzarlo. Anche io mi arrabbio e lo tratto male, e lui tratta male me,
e spesso litighiamo come due vecchi amici bizzarri, poi facciamo delle paci
celestiali, e lui mi racconta che vanno al di là dell'orizzonte e che solo
un poeta potrebbe ripetere senza sciuparle Mentre osservavo il paesaggio,
per cogliere qualche particolare importante da riportare sulla tela, più
volte mi sono detto: " Avrei una voglia matta di chiudermi lassù in una
stanza all'ultimo piano di quel castello medioevale, che è posto sulla mia
destra, e che da molti, da moltissimi anni è deserto, senza telefono, senza
campanello, senza voci di bambini, senza televisione, senza nessuno, senza
scampanare di chiese, e vedere che cosa succede. Sono sicuro che non
succederà nulla, vivrò nella solitudine, lontano da ogni cosa, lontano
dalle brutture della vita che ci circondano, in questo nostro mondo
corrotto. Cercherò di immaginare una corte gaudente e magnifica, con belle
donne e briosi cavalieri e artisti di fama. Più volte ho letto, nelle
vecchie cronache, il racconto di fastosi conviti e allegre adunate nella
Rocca. Con interesse e amore storico o con nostalgica curiosità cercherò di
frugare nei tempi andati, senza soffermarmi con prolissità a seguire date
su date unendo anello ad anello in una catena ininterrotta di avvenimenti,
scoprire con appassionato interesse i ricordi salienti che illustrano
questo storico monumento. Fra le vecchie mura di questo grande Castello
forse giovane donne e gioiosi cavalieri, freschi paggi e adolescenti
avranno celatamente raccolto qualche raggio di sole, ma la grave
oppressione della dispotica tirannia del signore inquieto ed ambizioso ha
velato cupamente questi lunghi anni. Così un poeta innamorato di questo
castello scrisse in una notte di plenilunio sognando nel suggestivo bosco
delle annose querce, pini marittimi, ginestre profumate che crescono
spontanee ai piedi della Rocca, rievocando con il felice aiuto della
fantasia, della leggenda e della storia, figure di ben note che, nella
Rocca, hanno lasciato il ricordo della loro vita tormentosa di passioni e
di rinunce, di odi e di prepotenze, di dolcezze e di crudeltà. Nel mio
sogno mi attarderò nell'elegante cortile e nelle austere sale che ricordano
splendori o tediose malinconie. Lascio questi pensieri di sogno, scaturiti
dalla mia fantasia, dalla facoltà immaginativa e ritorno al mio quadro,
agli scogli di natura trachitica, che è una roccia eruttiva, derivante da
magmi sienitici. Con struttura porfirica e si presenta ruvida al tatto per
la presenza di vacuoli. Questi grossi massi sporgenti da una grande parete
ripida e levigata di colore chiaro con striature che vanno dal grigio al
giallo, caratteristico per la forma. Da qualche minuto sto osservando le
piccole pietre che rotolano fra la sabbia della piccola spiaggetta e le
terre rosse, biancastre della dorsale appenninica, qui ogni cosa è
anfratto, i pianori delle colline, ogni collina con il suo nome e il suo
posto, compaiono nella mia mente in una successione di calde immagini E'
sera, il mare si è placato e anche la sua ira è cassata contro la scogliera
trachitica. Ora tutto è calmo intorno a me. Ho fatto la pace con le onde
spumose del mare, la sua fresca brezza dolcemente mi avvolge come una
carezza.
Questo luogo paradisiaco, fatto di cielo, terra e mare confusi in un
insieme di sublime bellezza, offrono a Portofino un incomparabile
spettacolo. Quante volte siamo venuti in questo luogo di serenità e di pace
con Adriana e la nostra piccola principessa Tiziana, ma ogni volta ci è
sembrata la prima volta. Il viaggiatore o il semplice escursionista, che vi
giunge per la prima volta, ha l'impressione di essere elevati in un mondo
dove non regna che la poesia. Quasi senza avvedersene sale dal cuore alle
labbra una parola che è ringraziamento e preghiera: ringraziamento al
Divino Artista per la dolce profusione dei migliori tesori della Sua
tavolozza, preghiera a Lui perché eterni nell'anima il ricordo della
grandiosa visine.
Gli scrittori Onorio ed Eugenio Muraglia, figli prediletti della
meravigliosa Liguria, hanno scritto a quattro mani un bellissimo libro,
dove hanno cantato le meraviglie di questa terra aspra e generosa.
Scrivendo di Portofino, hanno scritto che è disposto a semicerchio e che ha
le carezze del mare ai suoi piedi, sopra i tetti il sorriso delle fronde,
che la terra del monte alimenta. Tra le fronde, per un tratto, qualche
casa; poi la cima del monte esuberante di verde.
Intorno alle sue origini, da noi tanto lontane, mistero. Si chiamò Porto
Delfino un tempo, per l'abbondanza dei delfini che popolavano il suo mare;
mutò poi il nome in quello attuale. Fu sotto il dominio romano prima, dei
PP, Benedettini poi, della Repubblica di Genova a partire dal 1414. Teatro
di guerre tra coloro che, attraverso i secoli, lottavano per non perdere e
per accrescere la propria potenza; subì in tempi più vicini a noi la
dominazione dei Francesi, degli Inglesi, degli Spagnoli e degli Austriaci.
Nel 1815 entrò a far parte del regno del Piemonte e Sardegna.
Tra le opere, rimaste a testimoniare l'asprezza degli avvenimenti del tempo
trascorso, va ricordato il forte S. Giorgio, situato su di un colle a
difesa del golfo. Già esistente nel 1425, successivamente restaurato e reso
più possente, in varie occasioni assolse egregiamente il compito suo,
impedendo al nemico l'entrata nel paese ed evitandone il saccheggio e la
distruzione. Le ultime armi vi furono collocate da Napoleone I quando nel
1800 unì la Liguria al suo Impero.
Così un ignoto poeta innamorato di Portofino, scrisse in una notte di
plenilunio, sognando nel suggestivo bosco degli ulivi, delle ginestre e
delle rose, rievocando con il felice aiuto della fantasia, di quella che
ormai è diventata leggenda la triste fine di una tormentata contessa, che
lasciò il ricordo della sua ancor giovane vita tormentata:
"…. Sull'aspra e tormentosa scogliera, /
In una notte di plenilunio di primavera
Sognando nel suggestivo bosco di rose/
Dove sbocciano pure le mimose./
Al calar della sera si ode
Il dolce canto di una triste capinera,
Mentre solitaria si aggira l'ombra infelice e innamorata.
Di una principessa velata
Di una principessa poco amata,
Mentre le onde gelide della sera
Cancellarono il ricordo di quella vita tormentata.
Il mondo che cambia.
Per rimanere ancora sulle bellissime e quasi selvagge spiagge di Mahdia
Beachi, dove la sabbia è stata definita di borotalco, per il suo colore
bianchissimo e per la sua impalpabilità; una qualità di sabbia che non
avevamo ancora mai visto così fine e bianca. Si poteva camminare per ore
senza accusare il minimo fastidio ai piedi, e poi, che dure del mare
azzurro, verde e pulito? Era uno spettacolo ammirare quell'immensità del
mare che all'orizzonte si fondeva con il cielo, formando un tutt'uno e poi,
c'era quella costante e fresca ventilazione che attenuava moltissimo quel
torrido clima africano. Nel contemplare tutto questo, nelle nostre lunghe
passeggiate lungo il grande e vasto arenile, fiancheggiato da piccole dune
che delimitavano la pianura retrostante brulla e quasi bruciata dal sole,
dove come fortezze medioevali turrito si elevano i favolosi e moderni
alberghi, mentre le piccole onde si spegnevano lentamente nella lunga
battigia, mi sono accorto che mi mancava qualche cosa, si, è proprio così,
mi mancava la costa frastagliata e macchiata di verde dai pini marittimi e
soprattutto dalle caratteristiche insenature rocciose della meravigliosa
Liguria.
Mentre osservavo tutto questo, spesso mi veniva in mente l'ultima
escursione che abbiamo effettuato a Porto Venere nella trascorso primavera,
quando con Adriana mia moglie, ci siamo concessi una pausa sugli scogli
della Baia di Lord Byro, per ammirare quel paesaggio infinito, mentre le
rumorose onde del mare s'infrangevano fra gli scogli dove eravamo seduti.
Ricordo, che mentre ammiravamo le piccole onde spumeggianti che
s'infrangevano contro la scogliera, sentivamo il rumore cupo e prolungato
del mare, con il suo caratteristico muggito e il sibilo del vento della
sera. " Oh dolcissimo mare! Vorrei essere una barca per seguirti oltre
l'orizzonte e sentire ancora la tua voce e il tuo respiro, il tuo cupo
ruggito, il rumore fresco e spumeggiante delle tue onde, esse sono come le
acque del fiume della vita, sono chiare come all'origine. Il principio e la
fine hanno la stessa luce.
In quell'ora del tramonto, osservando il trionfo della luce all'orizzonte e
sulle onde del mare, offerte dai fenomeni luminosi che accompagnano tale
momento della giornata, il mio pensiero sorvolava l'immensità del
Mediterraneo e si fermava nella My Old Calabria e rivedevo la Marinella e
la roccioso costa aspra, sopra la quale sorge la linda città di Palmi, e
più avanti, dopo il monte Sat'Elia, incomincia Bagnara e la Costa " Viola",
con la storica cittadina omerica di Scilla, di fronte alla quale si
affaccia superba " Cariddi". Nella visita al Museo di Tunisi, abbiamo
ammirato il grande e meraviglioso mosaico romano dove ci parla di quelle
località. Dove il grande guerriero e navigatore di Ulisse, è rappresentato
legato all'albero maestro della sua nave, per non essere ammaliato dalle
bellezze delle sirene. Queste stupende località, oltre a ricordare i miei
natali, mi ricordano oltre ad una pagina storica dell'Odissea, anche una
pagina della storia del nostro passato prossimo dell'antico costume del
popolo calabrese. In quel tempo, le donne di Calabria e dell'intero Sud
d'Italia, specialmente nel mese di settembre, quando scendevano sulle
spiagge per immergersi nelle fresche acque marine della Costa Viola, che
oltre che curative, nel mese di settembre, terapeutiche per diverse
patologie, esse si immergevano completamente vestite dalla testa ai piedi.
Oggi non è più così, anche In Calabria e nelle località balneari del Sud,
si sono perse quelle antiche regole di un antico costume che regnava da
sempre, probabilmente dal tempo della Magna Grecia.
Nelle nostre lunghe e quotidiane passeggiate sulla grande spiaggia del
Golfo di Madia Beach, abbiamo visto che ancora oggi le donne tunisine,
anziane e sposate, fanno ancora il bagno completamente vestite, come
facevano le nostre nonne della Calabria di nostra lontana memoria e non
solo. Ma dobbiamo tener presente che qui in Tunisia, vige la legge cranica,
che vieta alle donne di fare il bagno spogliate, mentre nel Sud d'Italia,
fare il bagno spogliati era considerato un tabù. Abbiamo osservato che una
piccola minoranza di ragazze tunisine, in genere non osserva il divieto del
Corano, e seguono anch'esse la moda, indossando persino il costume a due
pezzi e sono orgogliose di farlo, insomma, seguono la moda occidentale.
La popolazione indigena, di solito, si concentrava in una località
discostata da quelle frequentate dai turisti occidentali, in una specie di
campeggio, dove le donne accudivano i bambini e li seguivano anche dentro
il mare, poi si sdraiavano al sole per asciugare anche i vestiti, lontano
degli sguardi indiscreti. Quella è la loro maniera abituare di vivere il
mare, di comportarsi secondo i dettami della loro religione islamica.
Pensando al passato cerchiamo di vivere il nostro presente, ma giorno dopo
giorno, ci rendiamo conto che il mondo è veramente cambiato sempre in
peggio. Per rendere questo nostro mondo consumistico e tecnologico in
trasformazione, ci hanno pensato soprattutto gli stilisti e i Mass media ed
in particolare la televisione, lanciando la moda dell'abbigliamento audace
che è frutto del processo di liberazione della donna. A questo punto ci
domandiamo, e la morale dove è andata a finire? Sicuramente in un cul di
sac
Qualche tempo fa, mi raccontava un amico, abbiamo deciso di fare una visita
in una nota sala da ballo alla periferia di Verona, al solo scopo di bere
qualcosa e di trascorrere qualche ora in allegria, come si fa di solito.
Una volta dentro, ci è sembrato di essere entrati in un bordello di lusso
di antica memoria, Si, proprio così, soltanto che le prostitute di quel
tempo lontano, erano vestite sufficientemente e non sembravano quello che,
in effetti, erano, mentre in quella sala da ballo, che oltre alla musica
assordante, le ragazze, incominciando dalla ragazza cubista, erano
completamente spogliate o con vestiti molto succinti, che ti dava
l'impressione di essere entrati nella bolgia dantesca dei lussuriosi. Che
tempi ragazzi" E questa me la chiamano modernità. Si vede proprio che noi
siamo completamente invecchiati.
Alcuni giorni fa, leggendo l'articolo, apparso sulla " Voce di Mantova",
del giornalista Giuseppe Calligaris, che rispecchia il nostro punto di
vista e il nostro pensiero ed inquadra il nostro tempo libero e modaiolo da
parte delle donne che amano vestirsi per il solo bisogno di apparire e
soprattutto di abbordare un ragazzo, con la paura di essere stuprate, come
purtroppo succede ogni giorno specie nelle grandi città. In questi ultimi
tempi, questo reato si è verificato con una certa frequenza, e secondo gli
psicologi, è dovuto per la maggior parte dei casi appunto,
all'abbigliamento molto audace, specie dalle ragazzine liceali. Per dire il
vero, anche in passato si registravano fatti del genere, ma soltanto che
raramente erano denunciati all'Autorità competente, perché la famiglia non
intendeva mettere in piazza l'onorabilità della figlia. Parlando della
violenza carnale o stupro, come dir si voglia, spesso causa alla persona
che lo subisce un grave trauma psichico, un turbamento della stabilità
psichica, prodotta da tale violenta reazione emotiva e sconvolgente, che si
porta dietro per tutta la vita.
Il giornalista Giuseppe Callegari, ha scritto una storiella molto
simpatica, significativa e convincente, che facciamo nostra, per fare
risaltare maggiormente il nostro pensiero e i ricordi del nostro passato
prossimo. Egli così scrive: " Una volta, era il tempo della mia giovinezza,
mi sono presentato a casa con due amiche. Mia madre si dimostrò formalmente
gentile, ma quando se ne furono andate mi chiese ragione di tale
frequentazione. Per dire il vero fu anche lapidaria e la sua frase " Adesso
vaia in giro anche con le puttane?" non lasciava molto spazio a mie
eventuali mistificazioni in relazione al mestiere di Giuditta e di
Giovanna. Nel 2005, se si ripetesse la stessa situazione, non sono così
sicuro che mia madre potrebbe dimostrare le qualità divinatorie di allora.
Infatti, dai quattordici anni ai quaranta, ed alcuni casi, purtroppo di
più, le femmine amano vestirsi con il dichiarato obiettivo di abbordare.
Mostrano la pancia, a prescindere dalla temperatura esterna, elargiscono a
tutti il colore delle mutande, a prescindere dal luogo. In pratica si
comportano da prostitute, ma questo non si può dire perché si tratta di un
insulto gratuito nei confronti di chi esprime la propria creatività e che
ha il sacrosanto diritto di vestirsi come vuole. E' molto lontana da me
l'idea castrare la realizzazione personale dell'universo femminile e di
condizionare il modo di vestire, ma non riesco a capire come mai trent'anni
fa le donne che si vestivano quasi come adesso erano prostitute ed ora,
invece, abbigliamenti più audaci sono frutto del processo di
liberalizzazione della donna. Ma per favore. Non facciamo ridere. Non
esiste rivoluzione che non prevede la partecipazione consapevole dei
diretti interessati al cambiamento. Nel caso in cui una ristretta
oligarchia di potere decide per tutti non ci sono persone liberate, ma,
solamente, inconsapevoli schiavi che al pari degli uomini precedono su
binari rigidamente prefissati che, per loro natura, non prevedono nessuna
convergenza di riflessione e di critica. Le donne libere e creative del
duemila si limitano a salire in carrozza, con la speranza che, alla fine,
si arrivi da qualche parte. L'unica libertà che è loro concessa è quella di
scegliere le stazioni di salita e di discesa. Poi non possono decidere
nulla se si esclude il colore delle mutande e gli orpelli con i quali
guarnire l'ombelico. In pratica, le donne sono state trasformate in
prostitute che non possono neanche stabilire il prezzo della prestazione o
devono concedersi, gratuitamente e preferibilmente al maschio che esprima
tutti i connotati della dittatura della moda. Questa è la donna
dell'occidente! Con buonapace di tutti coloro che vogliono liberare le
donne islamiche dal velo. Credo, invece, che bisognerebbe riconvertire i
calzifici in crisi e fabbriche di veli in grado di coprire pietosamente
tutte quelle pance e quei sederi che svolazzano come palloncini ed hanno
affidato al vento tutta la loro vita. Purtroppo, i sederi saranno,
inesorabilmente e ineluttabilmente, per terra.".
A proposito di questa nuova moda succinta, svolazzante e direi soprattutto
invitante alle aggressioni da parte degli uomini, secondo il nostro punto
di vista altro non è che una digressione del nostro tempo in
trasformazione, che oggi va per la maggiore nel nostro Paese, adottata
specialmente dalle ragazze e dalle donne più giovane e che fece molto
discutere 'specialmente nel campo della scuola. Questa nuova moda, se moda
si possa chiamare, sembra che è alla ricerca della liberazione della donna.
Non mi sembra che le donne sia del passato che di quelle del presente sono
segregate. La parola segregare ha un altro significato. Quella dello
spogliarsi così libertinamente, come sta succedendo oggi, fa perdere
persino il senso della poesia. Se i grandi poeti di un tempo assistessero a
questo esibizionismo, sicuramente si rivolterebbero nelle loro tombe e le
definirebbero allo stesso modo con il quale le ha definite la madre del
giornalista Giuseppe Calligari: " prostitiute".
Un vecchio proverbio che andava per la maggiore nel tempo della mia
giovinezza, così recitatava e recita tuttora: " La donna va spogliata
lentamente sul talamo dell'amore, per ammirare ed apprezzare sino in fondo
le sue dolci forme e la bellezza del suo roseo e meraviglioso corpo".
La My Old Calabria, non è soltanto una montagna sconosciuta e fraintesa
d'Europa, segnato fino a qualche anno fa da tragici fatti di cronaca e a
torto è giudicata impenetrabile. In un territorio ancora in parte
selvaggio, descritto con meraviglia da viaggiatori come Edward Lear e
Norman Douglas, si dipanano lunghe ed articolate gole fluviali, si stendono
foreste ataviche, si ergono pittoreschi monumenti di roccia, si nascondono
alte, fragorose cascate. A tutto ciò si aggiungono le specie
particolarissime di fauna e di flora: dall'aquila al gatto selvatico,
dall'abete bianco fino ad alcune rarissime felci preistoriche e poi vi sono
i villaggi e paesi barbicati sui pendii aspromontani, dove nella giovane
età, noi ragazzi, fin dai banchi di scuola, ammiravamo la bellezza
esteriore delle ragazze calabresi. Ci bastava di ammirare una caviglia o
magari attraverso le trasparenze del corpo diafano, che lasciava passare la
luce della bianca e sottile camicetta o della maglietta, per immaginare
tutto, come recita una bella canzone che dopo tanti anni va sempre per la
maggiore di Baglioni. Le bellezze appariscenti e nascoste delle ragazze del
nostro tempo, furono cantate da grandi poeti e portate sulle tele dai
grandi pittori. I giovani d'oggi, hanno finito di sognare e di
immaginare tutto. Quello che ammirano oggi, lo potremmo definire, senza
tema di essere smentiti, un'offesa alla sensibilità del maschio latino. Ma
che cos'é l'immaginazione? E' quella forma di pensiero consistente nella
libera associazione d'immagini elaborate dalla fantasia.
Lasciamo la fantasia e l'immaginazione delle bellezze nascoste delle nostre
bellissime ragazze e ritorniamo a parlare dalla meravigliosa Calabria che
oltre a Norman Douglas, è stato meta dei grandi scrittori e artisti del
Settecento, come Ferdinando Gregorovius, uno dei più affascinanti storici
di tutti i tempi. E tale fu la passione che lo animò per tutta la vita per
questa nostra terra, tale fu l'amore che per lei nutrì sia nell'esalazione
spirituale ed intellettuale di fronte alla "storia", sia nella tenera e
devota sensibilità quasi filiale con la quale seppe cogliere e penetrare
l'anima italiana, che volle essere definito, nel suo necrologio, "
cittadino romano"! Leggendo le pagine dei suoi libri: " Sulle tracce dei
Romani" e sulle " Tracce dei Greci", noi sentiamo rinascere nell'anima
nostra l'entusiasmo di essere non solo " cittadini romani", ma,
soprattutto: Italiani.
Ferdinando Gregorovius, come Norman Douglas. Elpis Melena e Edward Lear,
amarono moltissimo il nostro Paese e specialmente Capri e le isole Eolie,
tanto che Douglas, venne a morire a Capri nel 1952, all'epoca il solo
straniero ad essere stato nominato cittadino onorario dell'isola. Aveva
passato gli anni della Seconda Guerra Mondiale a Londra, imprecando contro
il cibo, la dissolutezza di vita e di costume specialmente delle
giovanissime, la loro mentalità e soprattutto del clima inglese. L'unico
sollievo era di sedersi su un divano in compagnia di Nancy Cunard e di
giocare ai Wagons Lits, immaginando di essere su un treno che attraversava
la Francia diretto in Italia. Il suo ritorno a Capri, da lui tanto atteso,
avvenne nel 1946, non senza difficoltà. Quando Norman, oramai vecchio -
aveva settantott'anni - andò a chiedere il visto al consolato italiano a
Londra, si sentì rispondere che i permessi erano rilasciati a chi volesse
fare un breve viaggio in Italia, non a chi avesse l'intenzione di viverci.
" Ma io non ci vado a vivere". Rispose Douglas, " ci vado a morire".
Norma Douclas, prima di morire, aveva così scritto di Capri:
" Lieto di aver potuto contemplare tanto spettacolo delle armonie della
natura, scesi di lassù quando il sole verso Ischia volgeva al tramonto. Il
mare s'imporporava già a occidente e l'isola di Ponza, la quale emergeva
lontana e bella dalle onde, quasi giaceva in una sfera di luce, rosseggiava
come le gote di una fanciulla dal profilo greco e con il viso fasciato con
il bianco velo, come se tutt'intorno fosse in fiamme.
Addio pertanto, bella e romita isola di Capri.
Al rientro dal deserto
del Sahara.
Con il tramonto del Sole, il grande orizzonte infuocato del deserto rosso
del Sahara che si era tinto di un'intensa e misteriosa luce che illuminava
tutto l'oriente, ma ora, pian piano si stava attenuando il grande fenomeno
della natura che si ripeteva, come accade dal giorno della creazione ed ha
costituito per noi materia di osservazione sulla sponda del Mediterraneo.
Quello è stato uno spettacolo indescrivibile, ove il pittoresco e lo
scenografico si fondono in armoniosa composizione tra cielo e mare, creando
quel fantastico paesaggio fantasmagorico che ci riempie l'animo. E' quasi
buio; troviamo le sale molto animate per l'arrivo di altre comitive di
nostri connazionali. Ci sono turisti provenienti dalla verde Toscana ed
altri della Val Padana, si vedeva che erano alquanto impacciati e spaesati,
ma questa è una cosa naturale che succede ad ognuno di noi, quando giunge
in una località sconosciuta.
Nei giorni che seguirono, all'ombra dei caratteristici ombrelloni e
sdraiati sui comodi lettini, trascorrevamo il nostro tempo a parlare con
l'amico vacanziere mantovano, tra il serio e il faceto. Tra la lettura di
un buon libro, un attimo di riflessione sul nostro tempo, sulla vita del
passato e del presente e uno sguardo per ammirare la profondità di quel
glauco mare, ci è venuto in mente il racconto accorato della signora Mery
e, quel ricordo ci ha portati indietro nel tempo, facendoci rivivere una
pagina del nostro passato prossimo, il ricordo della devastante guerra, i
ricordi che vivono come transumati in una vita prenatale - mossa dal
crepitio di una brace nascosta. Ma qualche ritrovato fascino nel respiro
dell'ora che finisce intorno, finché nell'ombra appena insinuatisi…. Ho
sempre inteso ogni ritorno al passato prossimo intessuto di reticenze, di
spazi d'ombra, come rintracciare, come interrogarne il suono più segreto
che quelle parole? Solo a volte una parola più aperta, più mossa, lacera il
bozzolo di questo piccolo mondo e mette le ali. L'orlo schiumoso dei
flutti, le screziature d'una conchiglia in cui si percepisce la fievole eco
di età remote. Un minor soffio di vita, una pacata rinuncia. Le parole
accorate della minuta e simpatica signora Mery, la " Penelope", tessitrice
berbera, avevano questo significato.
L'ultimo conflitto mondiale.
La storia ci racconta che nel corso della Seconda Guerra Mondiale, fase
finale delle operazioni svolte in territorio tunisino tra le forze
dell'asse e quelle anglo - franco - americane ( novembre 1942 - maggio
1943) Subito dopo gli sbarchi statunitensi in Marocco e Algeria ( 8
novembre 1942), Kesselring inviò in Tunisia la 5^ armata tedesca
(comprendente il XXX corpo d'armata italiano), al comando del generale von
Amim, che si schierò nel settore ovest, respingendo gli attacchi alleati.
Le truppe di Rommel, ritiratesi attraverso la Libia dopo la sconfitta di EL
- Alamein, superato il confine tunisino alla fine di gennaio e si
schierarono sulla linea di Mareth nel settore sud. A partire dal 20
febbraio il comando delle truppe schierate ( riunite nella nuova 1^ armata
italiana) fu assunto dal generale Messe, essendo Rommel rientrato in
Germania. In febbraio un attacco dell'Asse a ovest contro il passo di
Kasserine, dopo un iniziale spettacolare successo, fu arginato A sud l'8^
armata di Montgomery, dopo di aver conquistato Medenine ( 16 febbraio), e
respinto un attacco avversario ai primi di marzo, il 17 marzo sferrò
l'offensiva contro la linea di Mereth. Dopo violentissimi e incerti
combattimenti la 1^ armata italiana, minacciata d'aggiramento, si ritirò
sulla linea dell'uadi Akarit ( 30 marzo) Sul fronte ovest von Arnim fu
costretto lentamente a indietreggiare, mentre nel settore di Enfidaville a
partire dal 19 aprile si ebbero furiosi attacchi inglesi che, sebbene
respinti, provarono duramente le truppe di Messe. La superiorità di uomini
e mezzi degli alleati li portò a conquistare il 7 maggio Tunisi e Biserta,
mentre le truppe dell'Asse, prive di rifornimenti e allo stremo delle
forze, ripiegarono su capo Bon. Pochi riuscirono a reimbarcarsi per
l'Italia: von Arnim capitolò il 12 maggio, Messe il giorno seguente.
Il sergente Antonio Trentinella e centinaia dei suoi commilitoni, perirono
proprio in quella grande battaglia di Diserta il 7 maggio 1943.
La signora Mery, una delle tante figlie di quell'atroce ed inutile guerra,
nei giorni di tristezza e di malinconia, scrutando la profondità del vasto
orizzonte, sogna il Bel Paese, la Patria di quel papà che non ha mai avuto
la gioia di conoscere.
Che cosa sia stata la guerra?
Il grande storico e scrittore Jean D'Ormessono, così scrive della guerra:
"Che cosa sia stata la prima guerra mondiale 15/18, il massacro più
formidabile dopo il diluvio e la grande peste, dopo le carestie della Cina
e dell'India e le campagne di Napoleone, che cosa sia stata questa guerra,
prova generale molto puntuale di ciò che sarebbe accaduto, per completare
l'opera, appena vent'anni dopo, non ho bisogno di raccontarvelo. Lo sapete
tutti a menadito. Barbuse, Dorgelès, Genovoix, Jules Romanins, e anche
Remarque o Salomon, oppure Hemingwuey o Martin du Gard o Drieu La Rochelle
o il grande storico Indro Montanelli e tanti altri storici, ve ne hanno
detto quasi tutto ciò che era possibile dirne. Le Seconda Guerra mondiale,
alla quale ci riferiamo in questo nostro capitolo, è stata una macchia nera
e rossa che si estende all'infinito prima di restringersi, una ferita che
si apre prima di chiudersi, un flusso seguito da un riflusso. La Prima,
come ci racconta la storia, è stato un corpo a corpo che trova il suo punto
d'equilibrio, s'affossa nelle trincee e non la smette più di uccidere
nell'immobilità. La vittoria rimane continuamente sul filo del rasoio. Più
volte, basta un nonnulla perché il campo dei vinti divenga il campo dei
vincitori. All'inizio dell'estate del 1918, alla domanda se sia sicuro
della vittoria, lo storico francese Ludendorff dichiara ancora: " Rispondo
con un sì categorico". Una delle spiegazioni della Seconda Guerra mondiale
è che la Prima è stata vinta solo per fortuna, quasi per caso, comunque sul
filo di lana. Nessuno dei due eserciti è inferiore all'altro. La sanguinosa
partita a scacchi, il braccio di ferro strategico sarebbe potuto essere
vinto da qualsiasi contendente aggrappato alle proprie trincee e ai propri
reticolati. Tra valore ed ostinazione uguali, più d'una volta è stato il
ceco destino a creare la differenza.
Probabilmente per piacere a quelli che se fanno gli apologeti, la guerra,
come sempre, contribuisce potentemente al progresso delle tecniche.
Indubbiamente l'elettricità, il telefono, l'automobile, l'aviazione
esistevano prima del '14, ma è la guerra che li fa progredire
formidabilmente e li proietta nel futuro. I secoli hanno sempre un poco più
o poco meno di cento anni. Il settecento è breve: si apre con la morte di
Luigi XIV, nel 1715 e si chiude il 14 luglio 1789 con la presa della
Pastiglia. Dopo un intersecolo di venticinque anni, che non appartiene né
al piacere di vivere né alle agognate tempeste, né ai filosofi né ai
romantici, l'Ottocento comincia a Waterloo il 18 giugno 1915 con la caduta
di Napoleone e si conclude nell'agosto 1914. La Prima guerra mondiale apre,
con grandi squilli di trombe, il secolo della seconda e della paura della
Terza. E lo fa entrare in un mondo nuovo in cui i discorsi di quello
vecchio sono coperti dalle tombe.
…. La guerra, barbaro strumento di progresso scientifico e tecnico,
manifesta anche delle capacità di fusione che la pace non ha. Le classi
sociali che si ignorano sono mescolate nella stessa fornace. Individui che
la vita quotidiana non avrebbe mai messo insieme si incontrano e vivono
l'uno accanto all'altro, come sta succedendo oggi qui sulle spiagge
tranquille e meravigliose della Tunisia, e nello specifico, qui a Mahdia
Beach Club, dove ci troviamo per trascorrere le nostre vacanze estive.
Qui ci troviamo alla congiunzione del passato, del presente e del futuro.
Lo vedremo. Queste ragazze che stanno correndo e giocando liberamente
dietro ad una palla sulla grande spiaggia sono ancora delle bambine: il
futuro è loro. Sono già delle donne: il mondo è loro, con i loro sogni e le
loro passioni.
La devastante Seconda Guerra mondiale, che come abbiamo detto sopra, fu
combattuta nei deserti e sulle coste di questa antica terra di vulcani, di
deserti infuocati e spiagge sognate, che nei 60 anni di pace, ha prodotto
una fusione di popoli mescolati nella stessa fornace che il grande turismo
di massa ha portato, valorizzando le bellezze naturali di questo nobile
Paese.
La pipa di schiuma
Questa mattina, non so perché, a volte succede, non avevo voglia di sedermi
davanti al mio Personal Computer, per scrivere un nuovo racconto o magari
di tentare di farlo. Forse, questa mia momentanea pigrizia o svogliatezza,
come dir si voglia,sicuramente deriva dalla giornata noiosa, uggiosa e
nebbiosa che copre inesorabilmente le strade, le case, e i campi
circostanti. Ma ormai, dopo cinquant'anni che viviamo nella nebbia dovremmo
essere abituati, ma il ricordo della My Old Calabria e della meravigliosa
Liguria,che fu la nostra seconda patria, è rimasto dentro di noi, come pure
la nebbia, che non ci facciamo più tanto caso., per così dire, ci siamo
alquanto abituati. Parlando a proposito della nebbia, qualcuno ha così
scritto: " Se immergiamo le mani nel viscere delle donne padane,
sicuramente troviamo il DNA della nebbia". Egli aveva veramente ragione.
Guardando i libri contenuti nella vetrinetta dello studio, il nostro
sguardo si è posato con insistenza sulla piccola teca dove é custodita la
nostre modesta raccolta di pipe, perché oltre ad essere un cultore della
pipa, siamo anche un modesto fumatore. Ci piace sentire il profumo del
tabacco e vedere quella nuvoletta celestina che si diffonde lentamente
attorno a noi. Ovunque andiamo in vacanza, come è successo anche quest'anno
nella bella e verde Tunisia, con le sue meravigliose spiagge vivibili,
silenziose ed assolate, con una sabbia bianca che abbiamo definito di
borotalco, senza parlare del suo azzurro mare e della fresca ventilazione.
Visitando il centro di questa capitale, che è facile da visitare per le sue
dimensioni, che, al contrario di molte capitali non sono certo enormi. La
moderna Tunisi ha nella medina il suo cuore pulsante di antichi fasti. Una
vera e propria città nella città. Al suo interno c'è uno dei siti più
interessanti: la moschea di Zitouna ricostruita nel nono secolo sulla
struttura originale del settimo. Gli architetti dell'epoca riciclarono, per
questa costruzione, 200 colonne della distrutta Cartagine per farne l'atrio
della preghiera dei fedeli, e ancora la casbah e il suq, luoghi intrisi
degli odori e dell'atmosfera nordafricana. Tunisi si compone di altre due
parti con caratteristiche proprie, la città "europea" , e le periferie
povere , chiamate Gourbivilles situate intorno alla città. Non vi invitiamo
a visitare quest'ultime per via della scarsa sicurezza personale che
possono garantire, piuttosto, la parte moderna, sorta negli anni del
protettorato francese è una città moderna con influenze architettoniche
liberty. In queste vie c'è una vita pulsante che fa di questa capitale una
delle città più moderne dell'intero continente africano. Percorrendo le
stradine i vialetti nel cuore dell'antico souq e la visita nell' antica
Medina. Oltre ad ammirare una interessante prospettiva si può godere
dall'alto salendo sui tetti dei bazar che la circondano, dove è possibile
trovare le scale d'accesso senza una guida che sappia districarsi tra
viuzze e portici, aggirarsi fra montagne di tappeti e dare uno sguardo
compiacente al proprietario del bazar che concede il passaggio sperando in
un buon affare al ritorno. Tetti che di perse rappresentano tante delle
piccole opere d'arte arricchiti con finissime decorazioni realizzate con
mattonelle di ceramica dipinte a mano a formare colonne, archi e piccole
finestre affacciate su viuzze e cortili sottostante andirivieni . Nel corso
di questa nostra esperienza escursionista, abbiamo girovagato,osservato
ogni piccolo dettaglio del paesaggio e delle opere d'arte. Aggirandoci per
la medina, stando sempre uniti a non perderci in quell'autentico dedalo di
stradine, lasciandoci trasportare in un caleoscopio di colori, profumi e
sapori che da ogni angolo attiravano la nostra attenzione in un susseguirsi
di piccole mosche , portoni, piccoli bar, bazar di tutti i tipi e carichi
di ogni genere di merce. Transitando in una di queste antiche stradine ,
con Adriana mia moglie ed altri nostri simpatici amici piemontesi, dove
abbiamo acquistato i souvenir da portare ai nostri amici e parenti.
Proseguendo nel cuore nevralgico del suq di questa antica città, all'angolo
di un piccolo cortile, abbiamo scoperto un minuscolo laboratorio
artigianale, dove si lavora la schiuma di mare ( silicato di magnesio).
Incuriosito, mi sono fermato quasi di scatto, per assistere alla
lavorazione di quel minerale marino. Al suo dischetto di lavoro, era seduto
un anziano berbero con il suo fez di colore rosso sul capo, ed era intento
a scolpire da quel pezzo di schiuma una pipa. Quell'oggetto, piano piano ,
assumeva sempre più la forma inconfondibile di una pipa. L'anziano artista,
era curvo sul suo deschetto e stava incidendo con un piccolo attrezzo il
materiale, come un orefice su di un monile cerca di ricavare un'immagine.
Per un momento mi ha dato l'impressione di vedere il grande scultore
Benvenuto Cellini, che stava incidendo con il suo cesello uno dei suoi
capolavori, ma quello non era Cellini, ma un vecchio e sapiente artista
berbero che stava terminando il suo capolavoro. Appena terminato
l'incisione me lo ha fatto vedere da vicino. Era una pipa molto originale e
rappresentava un beduino con la barba. Ho chiesto all'incisore se era in
vendita quella pipa ed egli mi ha risposto di si. Oltre alla pipa di
schiuma, ho comperato altri oggetti scolpiti dall'artista, fra cui anche
un'altra pipa ricavata da un pezzo di radica di un vecchio e secolare
ulivo. Questi bellissimi oggetti, che altro non sono che piccole opere
d'arte, che fanno bella mostra di se nella nostra vetrinetta. Fra queste
pipe e altri oggetti quasi preziosi, vi è la pipa di radica Charatan: una
pipa di radica proveniente dall'Algeria, porosa e bisognosa di lunghe e
pazienti cure per dare dei risultati eccezionali. Questa preziosa pipa, mi
è stata donata dal rimpianto Presidente Sandro Pertini, molti anni fa. . In
quel tempo, haimé ormai lontano, ero comandante della Stazione Carabinieri
di Bagnolo Cremasco, quando nel mese di ottobre del 1970, nel minuscolo
Comune di Chieve, compreso nel nostro territorio, la Sezione del Partito
Socialista di quel Comune, in occasione dell'inaugurazione della nuova Casa
del Popolo aveva invitato un importante personaggio del partito socialista.
Il Comando intermedio di Crema, al quale dipendeva la nostra Stazione, ci
avvertiva che per tale cerimonia, probabilmente sarebbe giunto da Roma, il
Senatore Sandro Pertini. Conoscevamo il Senatore da molti anni , quando per
ragione del nostro servizio eravamo nella Città di Savona. Di tanto in
tanto, egli da Roma si recava a Stella: un comune della Liguria ( prov. Di
Savona), che é ubicato nell'alto bacino del torrente Sansobbia dove era
nato nel 1896 e dove viveva nella casa paterna la sorella .La notizia ci ha
fatto molto piacere e per l'occasione, come succede in questi casi, abbiamo
predisposto un servizio d'Ordine pubblico, per garantire l'incolumità
dell'alta personalità politica. Appena sceso dall'autovettura "blu", il
Senatore , non curandosi della turba di gente e personalità politiche
locali e provinciali che era al suo seguito, si è avvicinato e
calorosamente e mi ha salutato come un vecchio amico. Al termine della
cerimonia, egli mi ha voluto a suo fianco anche per il pranzo. Parlando del
più e del meno, mi ha chiesto se fumavo ancora. Gli ho risposto che fumavo
le sigarette, ma mi ha sconsigliato di passare alla pipa, perché secondo il
suo parere , il tabacco si assaporava di più ed era meno dannoso alla
salute. Nel frattempo ha pregato il suo autista di prendere la scatola
contenente le pipe e mi ha fatto dono della pipa più bella: una Charatan,
accompagnata da un pacchetto di tabacco che usava fumare lui.
Quella pipa l'ho fumata e la fumo ancora oggi , specialmente nelle più
importanti occasioni, perché oltre ad essere una pipa prestigiosa da
collezionasti , rappresenta per me un vero cimelio , un oggetto donatomi da
un grande e celebre personaggio, come il Presidente Sandro Pertini, molto
amato dagli italiani.
La pipa, intesa come oggetto che permette di aspirare fumo e vapori, è nota
fin da tempi antichissimi, in ogni parte del mondo, nella sua forma più
semplice: una cupola provvista di fori, nel cui interno vengono fatte
bruciare erbe odorose oppure essenze; il suo uso, all'inizio, era puramente
rituale. La scoperta di particolari droghe ( oppio, tabacco) favorì
l'evoluzione della pipa quale oggetto personale per usi voluttuosi. In Asia
e in America ( e sembra, in modo autonomo, anche in Nuova Guinea)
comparvero per la prima volta pipe semplici e composte che si diffusero, in
seguito, in Africa e nell'area del Mediterraneo; in Asia venne elaborata
una particolare pipa ad acqua (narghilé), dalla quale derivano i prototipi
usati in Africa. Nel nostro soggiorno in Tunisia, abbiamo potuto constatare
che il narghilé è molto in uso, sia nei locali pubbliche quanto nei centri
turistici. In Europa, la pipa composta si diffuse dopo l'introduzione del
tabacco dall'America. Le antiche, primitive pipe sono ancora usate in
alcune zone dell'Africa ( pipe a terra o a forno): constano di una cupola
di terra provvista di fori, per cui il fumatore aspira il fumo stando
sdraiato per terra. Le pipe semplici, formate da un tubo sottile in legno,
osso o pietra, sono diffuse soprattutto nell'America Meridionale.
Fra le più originali pipe, oltre al narghilé, vi sono quelle cerimoniali,
che possono avere un solo grosso fornello dal quale si dipartono più
cannelli, il "calumet" e la pipa -tomahawk, che molti anni fa, nel nostro
viaggio escursionistico nell'America dell'Ovest e nel Nuovo Messico ,
abbiamo visto fumare un gruppo d'indiani, che gestiscono il grande e
meraviglioso complesso del Monument Vally . In quella occasione, siamo
stati invitati a partecipare a quella singolare cerimonia.
Parlando della radica di erica, che si fanno pipe molto apprezzate e
dobbiamo dire che oltre all'Algeria e alla Scozia,questa rustica pianta
germoglia anche nella brughiera dell'Aspromonte della My Old Calabria.
Abbiamo letto sul sito "Fumarelapipa" che fino alla seconda guerra mondiale
le pipe Charatan hanno forme classiche e dimensioni contenute, la radica
usata è appunto quella di provenienza algerina, perché molto morbida,
porosa e bisognosa di lunghe e pazienti cure per dare dei risultati
eccezionali. Oggi, in commercio, vi sono una miriade di marche di pipa, ma
per lo più fabbricate da ditte artigianali che danno poche garanzie di
qualità. Molto spesso queste pipe vengono fabbricate non sempre con le
ottime radiche, ma con altre qualità di legno che non danno al tabacco
quell'aroma che si richiede. Nella nostra modesta collezione, oltre ad un
paio di pipe da collezionisti, vi sono pipe di modesta qualità, pipe, come
si vuol dire per tutti i giorni. Nelle grandi occasioni, adoperiamo a
rotazione, una di quelle prestigiose per dare anche un senso alla festa.
La composizione delle pipe moderne. Le pipe odierne sono composte di due
parti, il fornello e il bocchino. Il fornello, nelle pipe più pregiate,
soprattutto in quelle inglesi, è costituito in radica, legno della radice
di erica arborea o di altre ericacee. Alcuni famosi costruttori Hanno
voluto, di comune accordo, usare una terminologia che differenzia le pipe a
seconda dei particolari legni, e tale terminologia è entrata nell'uso
comune. Si suole parlare di bruyère facendo riferimento alla pipa di legno
che, debitamente trattato, si presenta, al termine del processo di
lavorazione, liscio, lucido e di colore rosso mogano con più o meno lievi
venature quasi nere. Si parla di root briar riferendosi alla pipa di un
legno più chiaro e tendente più al giallo che al rosso ( legno che si trova
per lo più in terreni aridi e rocciosi).. Viene chiamata poi shell briar
quella lavorata in un legno nero sabbiato e ruvido, per lo più di
provenienza algerina. Viene infine denominata tanshell quella prodotta con
un legno proveniente dalla Sardegna, simili al precedente, ma di colore
marrone più o meno rossiccio. La lavorazione di tali legni è piuttosto
lunga e complessa e richiede un'opera artigianale altamente specializzata.
Come abbiamo detto sopra, per ottenere il fornello vengono usati altri
materiali, più o meno pregiati, quali la cosiddetta schiuma di mare (
silicato di magnesio), l'ebano, il corno, l'osso, l'avorio, l'argilla (
pipe di gesso), la porcellana, ecc. Anche per quanto riguarda il bocchino i
materiali variano ( corno, osso, ambra, ebanite o, più comunemente, materie
plastiche). Innumerevoli sono le forme delle pipe sia per il fornello, sia
per il bocchino. Le forme più comuni sono indicate anch'esse con
terminologia inglese.
Sembra assodato che una vera e propria industria della pipa sia sorta in
Inghilterra verso la fine del Seicento.
In questo nostro contesto, è successo che spesso ci siamo ripetuti, come
del resto succede anche ai grandi scrittori, ma anche oggi a conclusione di
questo capitolo dedicato alla pipa, vogliamo riportare la citazione
dell'amico Puleo a proposito della mia vecchia e prestigiosa pipa.
Rileggendo il vecchio articolo, apparso sul notiziario nr. 7 dell'autunno
2003 del CAI di Mantova, intitolato " Festa bagnata, festa fortunata"
Alcuni brani, i più significativi li abbiamo riportati nel capitolo
precedente che tratta della festa del " CAI" in Val di Sella, che tra
l'altro così faceva a scrivere:
Nemmeno per la nostra consueta festa, conclusiva di una stagione
metereologicamente poco fortunata, Giove Pluvio si è mosso a compassione.
Eppure dopo due mesi di piogge, neanche fossimo a Ranchipur, il nostro
avrebbe avuto di che essere soddisfatto. Invece è piovuto a tutto spiano "
sui nostri volti ( assai poco) silvani e sulle nostre nani ignude" Buon per
noi la presenza di un paio di pulmini e di un paio di spericolati alla
guida ( Gabriele e Grenzele) che hanno fatto la spola tra i pullman e
l'inizio del sentiero che porta al rifugio Sauch, cioè tre chilometri più
in là, stabilendo record da Guines con il carico, per portare gli oltre
cento partecipanti. Un paio di fuoristrada si sono poi incaricate di
portare i meno propensi ad assumere le condizione di bagnate fino alla meta
della nostra festa.
Con i più inclini all' eroismo, ci siamo incamminati per il torrente…
scusate, volevo dire sentiero…. Muniti di ogni genere di protezione e dopo
aver guadato i fiumi e laghetti improvvisati per circa un'ora, ci siamo
trovati fradici ed intirizziti nel luogo delle promesse delizie accolti con
giubilo dagli asciutti presenti. Nel nostro dolce cicaleccio passo - passo,
si intrecciavano domande quali: ét vist al ruol? Et trovà di funs? Ad
argute risposte: Ma va a dal via al ….! ( che tradotte suonano così: Hai
visto il roccolo per la cattura degli uccelli? Hai trovato funghi? No,
perché la pioggia mi velava lo sguardo!).
Pioggia o non pioggia, il menù è stato all'altezza della situazione come
del resto tutta l'organizzazione. Veramente accogliente la sala da pranzo
avvolta in un tripudio di festoni colorati qualità dei più noti
partecipanti. Come per esempio quello con un" W la Livia, il più bel
sorriso del CAI", la quale Livia, sconvolgendo non poco gli ammiratori
caini, si era presentata accompagnata da un ragazzetto biondo, tale Kramer,
non meglio identificato..
Tra le note allegre che accompagnano la festa, quella della costante caccia
al marito nella calca generale da parte di una simpatica signora .Avete
visto Diego? No, l'abbiamo perso nel bosco! Erano le divertite risposte
degli interpellati. Diego, Diego, dove sei? Mentre la figura imperturbabile
del "Maresciallo Diego Cocolo", dell'inseparabile e invidiabile pipa (dono
del Presidente Pertini), sempre ad un passo dietro di lei che fumava la sua
storica pipa".
Val di Sella: Borgo Valsugana
30 Ottobre .2005 Pranzo sociale del CAI -
La Valsugana. Quest’ampia valle trentina,
dove oggi in questo fine ottobre bellissimo e colorato, siamo saliti per
festeggiare con gli amici del CAI di Mantova, la nostra festa sociale,
corrisponde all’alto corso del Brenta, dai laghi di Levico a Caldonazzo
fino alla confluenza del torrente Cismon. I primordi del turismo sono
legati alle antiche stazioni termali di Levico e, mille metri più in alto
sulla montagna, di Vetriolo. Tra i molti castelli e fortezze che un tempo
furono eretti a cominciare dal confine veneto, sono da ricordare quelli di
Ivano, sede di esposizioni artistiche, e di Pergine Valsugana, pregevole
esempio di magione nobiliare fortificata. Caratteristico è l’artigianato
della Valsugana, soprattutto quello dei metalli: rame, ottone, ferro
battuto. I nomi di questi luoghi della Val Sugana, Altopiano di Asiago,
Pasubio, Cima Dodici, Monte Ortigara – evocano le aspre battaglie
combattute durante la prima guerra mondiale. Ovunque, un ossario, una
lapide, un piccolo cimitero, una croce su un sasso ricordano l’immenso
sacrificio di vite umane, ma noi oggi non siamo qui per ricordare che da
qui è passata la grande guerra, ma per ricordare la nostra prima escursione
in Valsugana.
Oh si, il tempo!, Esso passa così veloce
che neppure ti rende persino conto che è passato. Ma se il passato non è
più, e il futuro non è ancora, lui, il Tempo, in quanto separazione tra due
entità che non esistono, come fa esistere? Non esiste il passato, ma solo
il presente del passato ( che poi si chiama “memoria”) Non esiste il
futuro, ma solo il presente del futuro che si chiama “l’intuizione”. Però,
rendersene conto, come sta succedendo a noi oggi, è già qualcosa. La nostra
memoria ci ricorda che la prima volta che con Adriana mia moglie ed altri
amici del piccolo borgo medioevale di Gazzuolo, abbiamo scoperto le
bellezze naturali di Sella di Valsugana, è stato il 19 agosto del 1978, in
occasione dell’anniversario della morte del Presidente del consiglio Alcide
De Gasperi, uno dei più grandi statista del nostro tempo, e soprattutto del
nostro Paese. Ahimé, in quel tempo ormai lontano,che fa parte del nostro
passato prossimo, quando comandavamo la Stazione dei Carabinieri di
Gazzuolo: un piccolo paese che in fondo non era che una strada, tutto una
lunga strada ordinata e abbellita di qualche palazzotto, di un nobile
porticato e di tante dignitose casette . Parlando di questo borgo antico,
lo scrittore Giovanni Nuvoletti, così faceva a scrivere:
“ L’anima degli uomini era piena, solida,
uniforme come il paesaggio, tutto conquistato alle acque, che il poeta
cantava:
Acque serene ch’io corsi
sognando/
nella dolcezza delle
notti estive/
acque che vi allargate
fra le rive/
come un occhio stupito, a
quando, a quando./
Oh! Nostalgiche acque di
sorgiva,/ acque lombarde”.
In quel tempo, per
l’occasione, le Acli del piccolo borgo medioevale, organizzarono una gita a
Trento e in Val Sugana. A quella escursione commemorativa siamo stati
invitati . Alle ore 10, nella magnifica Piazza di Trento, dove sorge il
Palazzo Pretorio e il Duomo,vi erano schierate le Autorità politiche,
militari e religiose del Trentino, e varie rappresentanze della DC, di
diverse regioni del nostro Paese, fra cui quelle della provincia di
Mantova, capeggiate dall’On. Tabacci , Alle 10, dopo la Santa Messa, l’On.
Andreotti ed altri uomini politici trentini e mantovani della DC, dopo di
aver commemorato la figura del grande statista, hanno deposto una corona di
fiori davanti alla targa commemorativa dello statista scomparso
improvvisamente nel 1954. Al termine della cerimonia commemorativa, il
gruppo dei Gazzolesi, ci siamo recati presso la villa della famiglia De
Gasperi, dove fummo ricevuti con grande cordialità e simpatia dalla Signora
De Gasperi e dalla figlia Romana nel giardino della loro villetta , sita
sul di un colle della Val di Sella, in una posizione molto panoramica,
attorniata da meravigliosi boschi di alte abetaie.
In quella occasione, oltre alla città di
Trento, con i suoi prestigiosi monumenti, abbiamo scoperto quel
meraviglioso paesaggio della Valla Valsugana, con i suoi bellissimo prati e
i boschi di coniferi. Dopo il pranzo in una tipica osteria ai margini del
bosco, ci siamo sparpagliati alla ricerca di funghi, e come spesso succede,
abbiamo raccolto soltanto quelli non commestibili, ma quello che conta è
che abbiamo trascorso una bellissima giornata a contatto con la
meravigliosa natura fra le montagne del Trentino – Alto Adige.
Non ci sembra neppure vero, ma dopo
tantissimi anni, in questa giornata tiepida e colorata di fine ottobre,
siamo ritornati fra queste splendide e meravigliose montagne, fra questi
boschi con i colori caldi e bellissimi di questo stupendo autunno, con uno
splendido e tiepido sole, con le sue ombre e le sue luci, gli umori, gli
odori e le tradizioni di un’antica terra, per visitare un museo all’aperto
che mai nessun architetto saprà imitare. Grazie alla grande conoscenza di
questi luoghi dell’amico e per noi grande presidente Sandro Zanellini, che
ci ha regalato ancora una volta questa grandissima emozione. Questa volta
non siamo saliti fin quassù per commemorare e rendere omaggio ad un grande
statista , ma per ammirare la meravigliosa natura che ci circonda, ma
soprattutto per rinnovare la nostra grande amicizia agli amici del CAI di
Mantova, con i quali, per molti anni, su questi sentieri dolomitici,
abbiamo condiviso momenti di grande gioia: le gioie dell’amicizia e dello
stare insieme.
Oggi, in questi luoghi immortalati alla
storia , oltre che a festeggiare la nostra festa sociale, abbiamo avuto
modo di conoscere da vicino i sentieri e gli antichi borghi della
Valsugana, che nella precedente escursione di moltissimi anni fa non
abbiamo avuto neppure il tempo di ammirare nella loro meravigliosa
bellezza. Come é nostra abitudine, quando scopriamo un posto nuovo,
cerchiamo sempre di indagare e di scoprire la sua storia antica o
medioevale. Lo stesso abbiamo fatto oggi, abbiamo scoperto che il Borgo di
Valsugana, non è un semplice borgo, ma è l’antica (Ausugum),l’imponente
roccaforte romana a presidio della strada Claudia Augusta Altinate. La sua
storia si fonde con la spettacolare mole di Castel Telvana, una storia
lunga e travagliata.
La storia, oltre
che maestra di vita, è la narrazione e l’interpretazione dei fatti storici
e umani, riguardante la vita politica, militare, civile, religiosa e
sociale realmente accaduti e ritenuti meritevoli di ricordo. La storia del
Borgo Valsugana, infatti, ci ricorda che nel 1300 viene citato col nome di
Borgum Ausugi, storpiatura popolare dell’antico nome indicante lo sviluppo
urbano attorno all’antico nucleo.
E’ da sempre la “
capitale della Valsugana”, favorita dalla splendida ed assolata posizione
sull’importante arteria di comunicazione romana è sempre stata città a
forte vocazione mercantile. Nel primo ‘800 un devastante incendio distrusse
quasi completamente il borgo, ancora costruito gran parte di legno, che
dovette essere ricostruito ex novo. La bella cittadina conserva un fascino
molto elegante nelle sue spaziose piazze e,come elemento caratterizzante, è
attraversata dal fiume Brenta, qui ancora poco poco più che un grosso
torrente, ed unita dal ponte romano. Caratteristici i porticati pedonali
nel lungo l’argine del fiume, famosa la Scala a Telvana che conduce ai
monasteri francescani e delle clarisse e prosegue con il “ sentiero dei
castelli”, al cospetto delle affascinanti e vissute mura del Castello
Telvana A testimonianza di un magniloquente passato il movimento aggregato
bastionato di Castel Telvana è il protagonista di uno tra i più
spettacolari paesaggi del trentino. E’ la naturale icona di Borgo
Valsugana.
Nell’avvicinarsi
in questi luoghi meravigliosi la magia cresce man mano che il turista ci si
addentra nel cuore antico del vecchio borgo e percorre le sue stradine
medioevali, ed in effetti questa mulattiera è una stradina medioevale, e
dopo alcuni tornanti si raggiunge il retro del castello Il colpo d’occhio
è notevolissimo, le torri parzialmente diroccate e i muri “vissuti”
sprigionano un fascino da far trattenere a stento l’emozione.
Apprendiamo che il
castello è di proprietà privata e non è visitabile interamente, ma é
raggiungibile con una splendida mulattiera detta “sentiero dei castelli”,
con partenza dal centro storico del Borgo, salendo la scala Telvana,
passando dalla Chiesa dei Frati e dopo aver raggiunto il castello si
prosegue sulle pendici del monte Ciolino per raggiungere i resti di Castel
S. Pietro per uscire a Talve di Sopra. La storia di questo castello è lunga
e avventurosa, come del resto lo sono quasi tutti i castelli del Trentino –
Alto Adige . Un primo documento ci dice che fu distrutto dai Franchi nel
590, altri documenti provano le vicissitudini del tardo medioevo. Venne
bruciato nel 1685 e quindi risistemato a residenza baronale.
Lasciamo la
storia, che forse, per qualcuno dei nostri eventuali lettori, non avvezzi
alle storie del passato che il nostro Paese ne è ricco, potrebbe essere un
poco noiosa e veniamo alla nostra bellissima passeggiata su questi sentieri
che attraversano un paesaggio di grande bellezza naturalistica. Camminando,
un passo dopo l’altro, come è costume degli uomini del CAI, su questi
sentieri rischiarati dai colori caldi e luminosi dell’autunno, ma coperti
di foglie morte dove è sepolta la storia dei nostri valorosi alpini, ma
soprattutto del nostro Paese, perché, come abbiamo detto sopra, da qui è
passata la grande guerra mondiale. Lo scopo della nostra escursione a Borgo
Valsugana, oltre che a festeggiare la chiusura escursionistica del CAI per
il corrente anno, è soprattutto alla scoperta dell’arte e della bellezza
dei luoghi. Sandro Zanellini, che come del resto fa tutti gli anni, ci ha
voluta fare un bel regalo, diciamo così, ci ha presi per mano e ci ha
condotti in mezzo a questi meravigliosi boschi colorati, per scoprire non
solo lo splendido paesaggio, ma l’Arte Sella/ l’Artenatura,
come in passato ci ha fatto conoscere il famoso “Roccolo”, che si trova in
località Ciavo, in Valle di Cembra, dove sorge il Rifugio Sauch. Anche il
“Roccolo” è un complesso vegetale di faggi ed abeti rossi, potati con cura,
in moda da creare una galleria circolare, una specie di pergolato con una
doppia serie di archi. L’esistenza del “Roccolo” è ricordata in documenti
del 1830 e l’attività di uccellagione che venne esercitata fino al 1968.
Sullo spazio centrale del roccolo venivano posti gli uccelli di richiamo,
opportunamente legati e mimetizzati. Quando a torno a loro, dove era stato
sparso del cibo, si era posato un bel numero di frisoni, di storni, di
tordi, di merli, di cardellini, di fringuelli ed altro, dal “casotto”
mascherato fra gli alberi, venivano agitati gli spauracchi. Gli uccelli
istintivamente fuggivano e andavano a cadere nelle reti poste attorno al
pergolato
Arte Sella /Artenatura
– itinerario tra arte e natura
Risaliti
con i due pesanti pullman in Val di Sella fino al parcheggio presso il
Ristorante, da dove abbiamo proseguito a piedi, percorrendo una strada
sterrata raggiungendo in poco tempo la Malga Costa: una vecchia malga
ristrutturata e trasformata in piccolo museo e sede dell’associazione Arte
Sella. Alla Malga Costa, il gruppo degli escursionisti si è diviso in due
tronconi: il piccolo gruppo capeggiato da Carlo Borghi, ha proseguito sul
sentieri che porta in poco più di 15 minuti, sempre percorrendo un comodo
sentiero, abbiamo raggiunto la famosa “ Cattedrale Vegetale”. Dopo di aver
ammirato questa imponente opera abbiamo ridisceso la strada per un
chilometro circa, fino a raggiungere l’inizio del “Percorso Arte Sella”,
mentre il grosso della comitiva ha proseguito lungo una strada forestale
sul versante sud chiamato “ Artenatura”, che si sviluppa lungo una
strada forestale sul versante sud. Dopo la visita alle opere di “
Artenatura”, il gruppo si è ricomposto sul luogo di partenza, ma come
spesso succede c’è sempre un ritardatario. Infatti, mancava all’appello
l’amico Baruffaldi. Sono subito iniziate le ricerche di Bruno. Dov’è Bruno?
L’amico Bruno era rimasto indietro, perché, come recita Celentano, “ Bruno
è lento”, non per quello che intendeva il cantante, ma per via delle sue
gambe che gli impediscono di stare al passo degli altri escursionisti.
Il monte
Armentera, è un luogo dove abbiamo potuto ammirare le opere scultorie e
nello stesso tempo abbiamo goduto di quel particolare ambiente dove la
natura trionfa con la sua meravigliosa bellezza
La nostra breve
escursione in Val di Sella, ai lati della stradina forestale e nel
bellissimo bosco circostante, abbiamo ammirato bellissime , che sono vere e
proprie opere d’arte e natura, dove artisti di fama internazionale,
provenienti da varie parti del mondo, hanno lasciato i loro segni con
l’istallazioni di opere fatte usando esclusivamente materiali naturali
reperiti sul posto. Sono perciò opere fatte con sassi, rami, tronchi,
liane, foglie, terra, ecc.
E’ stato scritto
in un reportage su internet che: “Sarà la natura che ne determina la durata
e la sopravvivenza. Le opere sono lasciate al degrado naturale e possono
durare qualche giorno, qualche mese o qualche anno, ma alla fine il bosco
se le riprende e le decompone. Già questo ci lascia intuire il senso del
tempo e dell’opera della natura, forse la prima riflessione per capire
questa forma d’arte. Sono il tempo ed il bosco, come creatura vivente
indistinta, gli elementi che sopravvivono, si rinnovano, trapassano il
tempo stesso e ci ricordano che tutto il resto è polvere e cenere.
Ma queste opere
hanno anche un fascino, diciamo così, proprio, anzi meglio: una loro
collocazione nel tempo. Ed ecco la seconda riflessione.
Ci siamo
domandati:“ma è arte moderna questa? Si, sono vere e proprie opere
d’arte, fatte con materiali reperiti sul posto. Abbiamo detto e pensato ed
eccola qui la magia, perché di vera magia possiamo parlare! Ecco da dove
nasce il loro fascino più profondo trasmettendo autentiche emozioni. Sono
costruzioni che ci sembra di aver sempre conosciuto, fanno parte del nostro
patrimonio genetico…. In fin dei conti sono costruzioni che sono da sempre
esistente. Una sublimazione che le fa a loro volta trapassare la caducità e
le fa sopravvivere anch’esse alla polvere. Sono costruzioni che ci
ricordano i nostri antenati preistorici, le loro capanne, i loro riti
magici, il loro lavoro nel bosco. Lavoro che si è protratto per millenni
fino alle soglie di questa nostra stanca civiltà. Eccola quindi la magia:
sono macchine del tempo. Ed infine il bosco con i suoi colori, le sue luci,
gli umori, gli odori. Siamo in un museo all’aperto, che mai nessun
architetto saprà imitare. Anche questa è una grandissima emozione. Abbiamo
letto in un depliant illustrativo di Arte Sella, questo consiglio:
“Volete un
consiglio: Evitate l’estate, le manifestazioni “artistiche” e le giornate
di affollamento e andate a visitare questo itinerario d’arte da soli, in
una giornata di tardo autunno o nel primo inverno, possibilmente in un
giorno feriale quando probabilmente non incontrate nessuno. Scegliete una
giornata di nebbia in pianura, qui certamente vi sarà un caldo sole ad
illuminare il fuoco d’artificio di colori del bosco . Noi abbiamo scelto
questa meravigliosa giornata di fine ottobre, con le sue meravigliose luci
e colori, che non sono altro che vero e proprio fuoco d’artificio
Dopo circa un paio d’ore di passeggiata
nel bosco, tanto è durata la nostra escursione nella galleria d’arte
moderna all’aperto, si esce in località Pontera sulla strada asfaltata con
la quale in 15 minuti abbiamo raggiunto il ristorante “Tre Faggi”, dove
siamo stati raggiunti dai nostri amici “ Caini”, che li stavano
aspettando, per iniziare in allegria ed amicizia il pranzo sociale di fine
stagione escursionistica.
Tra paesaggi colorati, montagne storiche e
illuminate da un tiepido sole autunnale tra l’Arte Sella e l’Arte Natura,
il menù è stato all’altezza della situazione come del resto tutta
l’organizzazione. Veramente accogliente il luogo, la sala da pranzo quasi
affollata e il personale del ristorante gentile e cortese, ma i
maccheroncini alla boscaiola, lo spezzatino di vitello e l’ottima polenta
rustica della Valsugana, con i suoi sapori e i profumi della montagna, ci
ha presi tutti per la gola. Quindi, oltre che un pranzo, il nostro è stato
un vero convivio all’insegna dell’amicizia.
L’anno scorso, la nostra festa sociale si è
svolta sulle colline dell’Appennino Modenese, nella bellissima e storica
località da Polignano a Gombola. E’ stata una festa “diversa” dal solito.
Un’escursione, una festa, una occasione gastronomica? Tutto questo messo
insieme, in una giornata bellissima, immersi in un paesaggio unico, dove
l’occhio si perde nel grande orizzonte collinare. E’ stata la camminata “
goliardica”, odorante di leccornie di antichi e vecchi sapori dimenticati.
La mitica camminata “vinesca e tortellosa” in cui lo stomaco è diventato
più pesante degli scarponi, un cammino allegro, gioviale, una giornata
degli assaggi dei buoni prodotti della cucina emiliana.
Rievocando il passato per vivere il nostro
presente, ci viene in mento la “Festa bagnata, la Festa fortunata” del CAI
al Rifugio Sauch, dove abbiamo scoperto il famoso “ Roccolo”, come oggi qui
in Valsugana, abbiamo scoperto l’Artenatura fra i magnifici boschi
colorati. Di Val di sella Nel rievocare quella festa ci viene in mente un
bell’articolo dell’amico Puleo, che così faceva a scrivere:
“Pioggia o non pioggia, il menù è stato
all’altezza della situazione come del resto tutta l’organizzazione.
Veramente accogliente la sala da pranzo avvolta in un tripudio di festoni
colorati qualità dei più noti partecipanti. Come per esempio quello con un”
W la Livia, il più bel sorriso del CAI”, la quale Livia, sconvolgendo non
poco gli ammiratori caini, si era presentata accompagnata da un ragazzetto
biondo, tale Kramer, non meglio identificato.
Come l’ombra di Banco si aggirava Sandro (
che nell’intimità viene deferentemente chiamato “ Presidente”) imbacuccato
fino agli orecchi per una influenza incipiente, riconoscibile soltanto per
la presenza silenziosa accanto a lui del fido scudiero Jolanda.
Apoteosi finale del pranzo con ben 19 torte (
diciannove) a sfidare più l’interessato giudizio dei famelici commensali
che non quello severo della giuria a pasticcere incorporato. Avevamo almeno
mezzo chilo di torta a testa. Da quel poco che è rimasto e dalla
soddisfazione generale gridata, credo debba considerarsi ex equo il
risultato della gara tra tutte le “ caine” partecipanti. Alle tre premiate
della giuria: Nadia, Marisa e Franca, è giustamente attribuita anche
l’ovazione.
A conclusione della festa i tradizionali
giochi. Costretti in sala dall’inclemenza del tempo, non ne hanno risentito
sia la partecipazione che l’allegria generale che li ha accompagnati,
complice come sempre un micidiale Carletto. Tra le note allegre che
accompagnano la festa, quella della costante caccia al marito nella calca
generale da parte di una simpatica signora. ( La simpatica signora
era Adriana mia moglie, mentre il ricercato Diego,che sono
sempre io medesimo) Avete visto Diego? No, l’abbiamo perso nel
bosco! Erano le divertite risposte degli interpellati. Diego, Diego, dove
sei? “
Lasciamo i ricordi del passato e ritorniamo
alla nostra escursione sui sentieri di Val di Sella, con i suoi stupendi
paesaggi infuocati dell’autunno.
Quando abbiamo lasciato il piazzale del
“Ristorante i Tre faggi”, il sole era ancora alto nel cielo e i suoi raggi
si riflettevano sulle montagne colorate, creando quella magia e quel
fascino della bellezza dell’imminente tramonto. Nell’avvicinarsi allo
storico Borgo di Valsugana, la magia cresceva man mano che il pulmino
condotto dal bravo e simpatico Claudio, si avvicinava verso le grande valle
verde e punteggiata dalle “case biancheggianti come pecore pascenti”
di manzoniana memoria. La strada provinciale è stretta e tortuosa, sembra
di percorrere una stradina medioevale, ed in effetti in passato non era
altro che un sentiero tracciato dai Romani e resa viabile dagli alpini
durante la grande guerra. Dall’ampio e spazioso cruscotto del moderno
pulmino,tra un tornante e l’altro il Borgo medioevale appariva e poi subito
dopo scompariva, dandoci la possibilità di ammirare quello splendido
paesaggio solo per pochi minuti .. Da quella posizione il colpo d’occhio è
notevolissimo, tanto che si potevano ammirare le torri parzialmente
diroccate e i muri “ vissuti” che sprigionano un fascino da fare trattenere
a stento l’emozione.
Era già quasi sera quando i due torpedoni si
sono fermati sull’ampio piazzale della “Distilleria Marzadri”,che sorge a
Nogaredo , nei pressi di Trento. Dopo una breve visita ai nuovissimi
impianti dello stabilimento, un piccolo ricevimento, prima di passare dallo
spaccia acquisti. La ciurma dei “ caini” era attesa per l’ultimo
bicchierino della staffa.
Concludiamo questa nostra bellissima
passeggiata sui sentieri colorati della Val di Sella, con questa stupenda
poesia del grande poeta Charles Boudelaire, che come noi amava il mare, la
montagna e soprattutto l’evasione e la meravigliosa natura.
“Felice chi con ali
vigorose/
le spalle alla noia e ai
vasti affanni/
che opprimono col peso la
nebbiosa vita,/
si eleva verso campi
sereni e luminosi!/
Felice chi lancia i
pensieri come allodole/
in libero volo verso i
cieli nel mattino!/
Felice chi, semplice, si
libra sulla vita e intende/
il linguaggio dei fiori e
delle cose mute” .
Le vacanze sono terminate
Nella foga di rievocare e di cercare di raccontare le esperienze vacanziere
di questa estate caldissima, mi sono reso conto che è veramente finita. A
rammentarmelo sono state sufficienti le prime mattinate fredde, piovose e
brumose di questo mese d'ottobre che è giunto alla sua naturale
conclusione. Abbiamo ancora davanti ai nostri occhi lo spettacolo di quelle
immense spiagge quasi desertiche e bianchissime di una sabbia definita di
borotalco di Amahdia Beach in Tunisia, con il suo mare limpidissimo dove
l'occhio si perde nell'infinito orizzonte e dove si fonde e diventa un
tuttuno tra cielo e mare con la costante e fresca ventilazione che ti dava
l'impressione di essere in vacanza nella bella e verde Toscana e nella
ventilata Liguria, ma non abbiamo ancora dimenticato il caldo orrido e
soffocante del deserto del Sahara, con le sue meravigliose bellezze
paesaggistiche: tramonti infuocati, paesaggi astratti , irreali e
metafisici, luoghi di meditazione e di preghiera e nello stesso tempo sono
luoghi dove regna il silenzio assoluto. Lassù fra le dune infuocate dal
sole persino le immagine e i suoni giungono sfumati ed evanescenti, ma
quando arriva improvvisamente il sibilo del vento del Sahara, cambia ogni
cosa come pure il paesaggio. Tutto si trasforma in una sola notte e rimane
soltanto il ricordo del giorno precedente . La nostra guida indigena ci ha
riferito che succede spesso questo fenomeno in quella regione desertica in
cui la vita animale e vegetale è quasi assente a causa del rigore del clima
e quando uno si alza il mattino vede che tutto è cambiato e che persino le
dune sono state spostate dal vento sahariano.
Le forme del rilievo. Un tempo si attribuiva il modellamento desertico
all'azione predominante del vento; in realtà è importante anche l'azione
delle acque correnti: il vento si limita a rimaneggiare le sabbie
costruendo le dune, ad asportare le particelle fini della superficie del
suolo lasciando una copertura pietrosa, il (reg,) e a modificare la forma
di ciottoli e rocce, dove spesso emergono le "rose del deserto". Invece le
acque correnti, benché rare, hanno un'azione energica a causa dell'assenza
di vegetazione. Gli acquazzoni autunnali incidono profondi solchi su tutti
i pendii, conferendo anche alle colline colorate d'azzurro e di rosa,
dovute ai minerali, meno pronunciate un profilo scarno. In mancanza di
alimentazione sufficiente, in mancanza di sorgenti, le acque si perdono ai
piedi dei rilievi ripartendosi in sottili falde e abbandonano più o meno
lontano i detriti che trasportano. Verso valle, nelle gole profonde,
abbiamo visitato una bellissima oasi, dove germoglia la palma di datteri e
dove il beduino coltiva le sue verdure e la frutta.. Ma che cos'é l'oasi?
La storia geologica ci racconta che è una zona isolata in mezzo a un'area
desertica, nella quale può crescere la vegetazione e può insediarsi l'uomo.
La Geografia fisica ci spiega che - il termine oasi, riferito dapprima
dagli Egizi, poi da Erodono, alle macchie di vegetazione perdute nel
deserto Libico a ovest del Nilo, attualmente è usato per indicare tutte le
aree di vegetazione e di colture isolate in mezzo ai deserti. Esse devono
la loro esistenza alla presenza di acqua proveniente da una sorgente o da
un fiume o da una falda acquifera sotterranea che emerge o che è captata
per mezzo di un pozzo comune o artesiano o, più raramente, vi è portata per
mezzo di canali sotterranei ( detti foggara nel Sahara). Le oasi si trovano
appunto nel deserto del Sahara, in Arabia, nei deserti dell'Asia centrale;
sono spesso disposte a catena lungo le valli secche degli uadi o a corona
lungo gli argini montuosi delle depressioni desertiche. Come abbiamo
riferito sopra, l'albero principale delle oasi africane , come quelle che
abbiamo visitato noi in Tunisia,è la palma da datteri, accompagnata da
albicocchi, fichi, melograni. L'estensione delle oasi è molto variabile.
Non abbiamo ancora dimenticato l'estate che stava avanzando e ci ricordava
che stava arrivando il momento della partenza ed era giunto il momento di
preparare le valigie. Per ricordarci i giorni che hanno preceduto la nostra
partenza, alla scoperta del continente Tunisia, ci ha pensato l'editoriale
della " Rivista il Carabiniere" a cura del direttore. Elio Toscano, con il
titolo: "Serene vacanza", apparso nel numero del mese di agosto 2005. Egli
così faceva a scrive:
" La copertina ci ricorda che è arrivato… il momento delle vacanze. Lo
abbiamo atteso per un anno intero e finalmente eccoci qua, pronti a partire
o "già partiti", come il … " già mangiato!" con il quale è solito
rispondere un mio amico sornione quando qualcuno lo invita a pranzo
all'ultimo momento. Non importa, poi dove si vada, se dietro l'angolo o
all'altro capo del mondo: l'importante è " staccare la spina", fare
qualcosa diverso dalla routine quotidiana. Non importa neppure se ci
attendono code interminabili di traffico, ritardi incomprensibili di treni,
navi e aerei e ogni sorta di altro disagio: la cosa che conta è evadere,
partire. E il bagaglio? Deve contenere tutto quello che può servire, anche
quel superfluo, altrimenti non si spiegherebbero le auto stracolme di buste
e valige, i borsoni faticosamente trascinati, tutti rigorosamente muniti di
rotelle per favorirne il traino ( che grande invenzione le rotelle dopo il
somaro e le ciabatte!). Capisco ora perché sempre il mio amico sornione,
osservando con preoccupazione i bagagli preparati dalla moglie, le domandi:
" Ma quanti spazzolini da denti hai intenzione di portare?" Distratto
com'è, non sa che la sua signora ha aderito con convinzione a una campagna
di igiene dentale, Eppure, di tanto in tanto alla sera, ella si era
prodigata a spiegargli l'importanza dell'argomento, ma lui come al solito
non le aveva prestato attenzione, ancora con la mente stracarica dei
problemi della giornata. Ma, a proposito delle cose utili c'è un libro nei
bagagli? E' meglio due: uno piuttosto..,. pesante, magari l'ultimo
pubblicato, perché fa moda, e uno… leggero perché distende.. Piano piano mi
sto convincendo che la partenza per le vacanze è pur essa una fatica. Ma,
quanto a rinunciarvi, non ci penso neppure, o forse si? Potrei finalmente
godere di una città semideserta, scoprire quel cantuccio grazioso sempre
nascosto dalla solita aiuto in seconda fila, assaporare il piacere di
respirare in libertà ( a proposito, perché l'aria delle città è più pulita
in agosto benché non piova?), incontrare qualcuno che certamente importante
non è, altrimenti sarebbe in vacanza. E chissà che quello sconosciuto non
possa offrirmi qualcosa di gratificante: ad esempio il piacere di essere
preso in considerazione, lui che è costretto a non muoversi per il peso
degli anni o per mancanza di mezzi. Vuoi vedere che, se sono fortunato,
posso incontrare una " bella persona", semplice, aperta, con il cuore in
mano. E mentre faccio queste riflessioni, anch'io preparo la mia valigia
per le vacanze. Per coerenza prenderò solo uno spazzolino da denti. Merito
un riconoscimento per il mio coraggio!
E voi, cari lettori? Elucubrazioni a parte, sono certo di interpretare i
vostri sentimenti, rivolgendo un sincero ringraziamento a quanti lavorano e
vigilano per la serenità e la sicurezza delle nostre vacanze. Ma anche un
pensiero solidale a quelle tante " belle persone" che stanno lì ad
attendere pazienti il nostro prossimo rientro".
Anche Adriana mia moglie, come la protagonista del racconto, ha iniziato un
mese prima della partenza a preparare le valigie. Ha riempito le due grosse
valige con le rotelle di vestiti, come se dovesse effettuare uno dei tanti
traslochi compiuti in passato per motivi di servizio tra il vecchio e il
nuovo comando di Stazione CC.. Per fortuna, ha messo due soli spazzolini da
denti, ma in compenso ha riempito una valigetta di flaconi di crema solare
di alta protezione per il sole cocente della Tunisia, che poi in effetti,
abbiamo trovato una temperatura accettabile e fresca. Si, è stato proprio
così, l'aria era fresca e ristoratrice che non sembrava di essere nel nord
Africa, ma sul litorale della meravigliosa Liguria. Di quel meraviglioso
soggiorno sulle spiagge di Mahdia Beach, ci è rimasto un bellissimo
ricordo, e forse, se la salute ci assiste e tutto procede regolarmente come
dovrebbe procedere, per il prossimo anno potremmo farci un pensierino.
Oggi, nelle nostre quotidiane e lunghe passeggiate nelle campagne, lungo
gli argini del vecchio fiume Oglio, le capezzagne fiancheggiate dai lunghi
filari dei chiassosi e colorati pioppeti o nella periferia del nostro
piccolo borgo di Campitello, che è sito Bassa padana, in questa verde valle
senza orizzonte e quasi addormentata. A questo proposito, dobbiamo dire che
la campagna lombarda non è soltanto la regione dei colori velati e ovattati
dalla brumosa e fastidiosa nebbia, che abbiamo avuto modo di rammentarlo in
queste pagine, che ormai sono giunti alla fine di questo nostro ennesimo
"zibaldone" o contenitore come dir si voglia, è un susseguirsi di panorami
incantevoli e sensazioni suggestive, quasi al limite dell'irreale,
specialmente in questo periodo autunnale dai colori caldi e sfumati, una
tavolozza completa dai colori meravigliosi che la Madre natura ci offre. La
stagione migliore resta per me l'autunno dei colori e dall'aria limpida )
l'autunno delle tradizioni, l'autunno delle sagre, delle grandi mangiate,
,(specialmente qui in Val Padana) delle riunione delle famiglie, degli
amici e dai parenti. Essendo un pittore della domenica, così sono stato
definito dalla critica, perché amo dipingere all'aria aperta i miei
paesaggi, a contatto con la meravigliosa natura proprio nel periodo
autunnale, perché è la stagione più bella con i suoi colori caldi, luminosi
e trasparenti e che solo il Bel Paese ci sa donare in questa stagione. In
passato, fin dalla giovane età, ho studiato molto la pittura dei
Macchiaioli toscani, tanto che continuo ancora oggi ha dipingere i miei
quadri estemporanei in quello stile che lo caratterizza la " macchia" di
cui ne deriva il nome.
A questo punto ci viene di fare una riflessione sul Bel Paese. Il nostro
non é un Paese qualunque, un paese come gli altri, ma un vero paradiso
terrestre, dove la natura si sposa con la meravigliosa bellezza del
paesaggio, che il mondo intero ci invidiano. L'Italia é un Paese piccolo,
bellissimo, con tremila anni di storia, dove ogni luogo, ogni pietra sono
carichi di simboli e di ricordi. Ogni singola regione é un microcosmo. La
Lombardia, per esempio, dove noi oggi viviamo felicemente de oltre quarant'anni,
ha i colossi innevati e la pianura nebbiosa. La Toscana montagne di marmo e
coste coperte di pini. La Sicilia le rocce nere di Catania e quelle di
Palermo, senza parlare delle isole Eolie, con i suoi "giganti fumanti", i
vulcani fantastici e le montagne bianche di pomice, e poi c'è Ustica,
Linosa , Lampedusa, Pantelleria, scagliate così lontano da toccare quasi le
coste Nord'Africa, che punteggiano il grande mare, il pelago degli antichi.
Le preziose pietre che il dio Nettuno ha staccato dalla collana e gettato a
ventaglio intorno alla Sicilia per adornarla con una corona. Ma noi oggi,
non siamo qui per ricordare e cercare di descrivere questi luoghi
fantastici, come le vide Ulisse. E su questo territorio variegato, sono
cresciute, nell'arco dei millenni, le civiltà greca, etrusca, romana,
bizantina, medioevale, rinascimentale, barocca, moderna, città Stato e
imperi.
Una bellezza in miniatura, vulnerabile dal turismo di massa. Che, perfino -
come scrive il sociologo Francesco Alberini - quando non costruisce niente,
ne altera comunque lo spirito. Pensiamo a Venezia, l'orgogliosa capitale di
un impero i cui palazzi, sul Canal Grande, erano le dimore delle potenti
famiglie patrizie le cui navi hanno dominato il Mediterraneo e combattuto,
in cento battaglie, i turchi. Oggi questi stessi palazzi sono alberghi e
quello del doge é un elegante contenitore per mostre e convegni. Chi arriva
incontra folle di turisti anonimi che mangiano, prendono fotografie e
comperano souvenir. Se vuol evocare il passato, se vuol vedere l'antica
Venezia, deve appartarsi, cercare la solitudine. Noi andiamo sulle spiagge
tropicali o del Nord'Africa, come è successo a noi questa. estate in
Tunisia, per trovare il sole, il mare, l'eccitante scoperta del Sahara. Non
ci interessano i dettagli delle chiese, le forme delle case, l'armonia di
un giardino. Ci siamo domandati più volte, ma cosa vede un turista a Lucca,
a Roma, a Caserta, a Capri, a Napoli se non é capace di percepire il valore
simbolico delle forme?
Il turismo, in un Paese come il nostro, richiede preparazione. Richiede di
percepire l'armonia delle forme architettoniche, il colore delle case,
degli alberi, del cielo, le ombre e i chiaroscuri. Richiede di sentire le
vibrazioni del passato davanti a un monumento, a una fontana, a una vecchia
chiesa. Di lasciarsi penetrare dal mistero dei volti e dei corpi. Per cui,
quello che abitualmente appare un tessuto uniforme, dispiega la sua
ricchezza di particolari e di significati. Per sviluppare turisticamente il
nostro Paese, le strade, gli alberghi, i giardini dovrebbero amplificare
questa percezione. O, perlomeno, non disturbarla. Evitando tutto ciò che é
violento, volgare, moderno, chiassoso. Come i grandi condomini, i centri
commerciali sgargianti, le luci alogene che distruggono la notte.
Si tratta, in fondo, di rifare la scelta che alcuni dei nostri più celebri
luoghi turistici hanno già fatto. Prendete il golfo di Napoli. La costa che
va da Pozzuoli a Castellammare costruita, cementificata, congestionata,
povera, non ha più turismo. Questo vive a Sorrento, Ravello, Amalfi,
Positano, Capri, Ischia e anche, in tutta la costa della meravigliosa
Liguria, dove noi oggi, siamo giunti per rivedere e godere, mentre per
altri scoprire questo microcosmo di bellezza e di armonia.
Si, lo so, non é più la vecchia Liguria dell'Ottocento, con la povera e
rozza gente: pochi agricoltori, pochi pescatori, che sanno di vivere amaro,
fatto di stenti, di sacrifici, di privazioni, di lavoro duro e continuo. Ma
il verde e il mare sono autentici. In più ci sono i paesini antichi e
pittoreschi, barbicati sui pendii, la tradizione artigiana. Per non parlare
della gastronomia e soprattutto dal clima. Non manca però non di una grazia
tutta sua, che le viene dai colli degradanti vagamente verso il mare.
San Marino
25 Settembre 2005 escursione
Sono trascorsi oltre 30 anni dall'ultima volta che siamo saliti sul Monte
Titano, tanto che sembra ieri. Sembra che il tempo si sia fermato, ma ahimé
è trascorsa una vita intera. Ci domandiamo spesso che cos'é il Tempo? San'Agostino,
nelle sue confessioni, ci parla del passato e del presente. Il Tempo è il
presente, ovvero quel breve istante che separa il passato dal futuro. Ma se
il passato non è più, e il futuro non è ancora, lui, il Tempo, in quanto
separazione tra due entità che non esistono, come fa esistere? Lo stesso si
può dire per la giovinezza e la Felicità. Essere giovani vuol dire essere
anche felici. Essere felici vuole dire essere contenti del presente.
Luciano De Crescenzo, nella prefazione del suo libro " Il Tempo e la
felicità", così scrive:
"Tutti, a parole, sono convertiti di essere stati felici in passato, e
tutti sperano di essere felici in futuro; quando, però, si tratta di
riconoscere che si è felici proprio nel momento in cui ci si pone la
domanda, ebbene, diciamo la verità, non tutti ce la fanno.
Quindi non esiste il passato, ma solo il presente del passato ( che poi, in
ultima analisi, sarebbe " l'intuizione").Rendersene conto è già qualcosa.
Riflettiamo un' attimo sulla famosa domanda " Chi siamo, da dove veniamo, e
dove andiamo? Essa presuppone, quanto meno, la conoscenza di tre
riferimenti che hanno tutti e tre a che vedere col Tempo, e precisamente:
dove siamo in questo momento, e dove andremo a finire dopo che saremo
morti." Noi non ci poniamo questa domanda, perché capire il Tempo equivale
capire la vita, e di conseguenza anche la Felicità. Noi siamo felici di
essere ritornati dopo tantissimi anni su questa rupe ed ammirare questo
meraviglioso paesaggio che si presenta davanti al nostro sguardo. Siamo
partiti dal nostro borgo padano di Campitello, con la gioia nel cuore e con
lo stesso entusiasmo d'allora, per ripercorrere lo stesso itinerario di
quel paesaggio incantato. Questa mattina ,nelle ore antilucane ci siamo
lasciati dietro di noi il mondo senza orizzonte della Bassa e brumosa Valle
Padana e siamo entrati in un paesaggio collinare bellissimo, tanto che lo
abbiamo definito: paesaggio pittura, per la sua meravigliosa bellezza.
I due grossi torpedoni dell'APAM di Mantova, con il loro prezioso carico
umano, lasciato il piatto litorale Adriatico, nei pressi di Rimini, si sono
immessi sulla carrozzabile che in poco tempo ci hanno condotti nel paese
più bello el mondo: a San Marino. Con questa escursione, l'Azienda ha
inteso festeggiare con i propri soci, la festa sociale di fine stagione
escursionistica.
Chi non conosceva ancora questi luoghi collinari, si è reso subito conto
che stava percorrendo un itinerario diverso dal solito, un itinerario
meraviglioso, immerso nel verde degli ulivi. Man mano che gli automezzi
arrancavano su verso la bellissima collina, si rendeva conto che stava per
entrare in un altro mondo, un mondo fatto di dolcezza, di serenità, ma
soprattutto di bellezza paesaggistica. A secondo delle volute della strada,
compariva e poi spariva la bellissima visione del Monte Titano. A vederla
da lontano la città - Stato di San Marino, sembra un paese da cartolina,
una barca arenata su di una montagna verde, che con le sue torri bucano il
cielo, e sullo sfondo il mare Adriatico. Ma da vicino è ben un'altra cosa:
d'inverno spesse volte è gelido e nevoso come pure le sue meravigliose
colline che degradano verso il mare, e per tutto l'anno è frequentato da
migliaia di turisti provenienti da tutto il mondo.
San Marino, capitale della piccola repubblica di san Marino,come abbiamo
detto, è arroccata sulle ripide falde del monte Titano fino al 738 m.
d'altezza, è una cittadina suggestiva, cinta da mura secolari, con tre
porte ( di San Francesco, della Rupe, della Fratta), dominata dalle
"penne",è un centro turistico assai frequentato,é collegato a Rimini da una
bella strada molto panoramica. Appena si sono fermati i due grossi
torpedoni nell'apposito parcheggio,gli escursionisti mantovani si sono
divisi in due squadre: la prima alla quale facevamo parte noi campitellesi,
siamo stati accompagnati nel giro turistico della città dalla bravissima
signora Giuliana: una simpatica guida, che oltre ad accompagnarci per la
visita, ci ha illustrato la storia e le bellezze paesaggistiche di questa
antica Citta-Stato.
La storia: San Marino, ufficialmente Repubblica di San Marino, è un piccolo
Stato indipendente, situato appunto in territorio italiano, tra la Romagna
e il Monte feltro, fra le province di Pesaro e Urbino (Marche) e di Forlì -
Cesena ( Emilia Romagna). Attorno alla Rocca, nell'arco di trent'anni,
periodo in cui risale la nostra prima visita, abbiamo constatato che,fuori
le mura, sono nati una miriade di piccoli e lindi centri abitati, con
stabilimenti e capannoni industriali, tanto che stentavamo a riconoscerli.
In poche parole è nata una città satellite.Il territorio del minuscolo
Stato è posto tra le valli della Parecchia a nord e del Conca a sud; ha la
forma di quadrilatero irregolare, con rilievo prevalentemente collinare,
culminante nell'aspra rupe di San Marino o monte Titano ( 738 m), dalla
configurazione dissimmetrica, fortemente inclinata, e costituito da una
massiccia placca di calcari arenaci del miocene. L'economia del paese, già
basata sull'agricoltura ( frumento, vite, olivi) e la pastorizia, si è
notevolmente evoluta in questi ultimi decenni, con lo sviluppo del turismo
di massa e dell'industria. Situata infatti al centro dell'acrocoro
collinare a pochi chilometri dall'Adriatico, in linea d'aria, San Marino è
meta di di un continuo flusso di visitatori, che è la fonte principale del
reddito della popolazione che è costituita dal commercio di oggetti -
ricordo e di prodotti tipici dell'artigianato, quali i lavori artistici in
ceramica, in legno e in metallo, monete in oro e argento. Infatti,
transitando per le sue stradine, carruggi e piazzette,che oltre ad ammirare
da questi affacci un paesaggio bellissimo, immerso nel verde delle colline
circostanti, il turista si ferma per ammirare questi negozi commerciali, e
spesso acquista dei souvenir per portare,quale ricordo agli amici e ai
parenti.
Proseguendo nel percorso turistico, la nostra guida, oltre che illustrare i
monumenti della città, ci ha spiegato anche la storia di San Marino,
dicendo: ". L'origine del piccolo Stato, il più piccolo d 'Europa,
risalirebbe a un tagliapietre cristiano di origine dalmata chiamato Marino
( IV secolo) che, per sfuggire alle persecuzioni di Diocleziano, abbandonò
la natia isola di Arbe e approdò con alcuni compagni schiavi sulle spiagge
di Rimini. Recatosi poi sul monte Titano, vi avrebbe fondato una comunità
religiosa, che da lui prese il nome, e avrebbe eretto sulla cima una
cappella votiva ( diventata poi monastero, intitolato a San Pietro) ove
Marino sarebbe sepolto. Con la redazione dei primi statuti, nella seconda
metà del XIII secolo, San Marino diventò repubblica di fatto autonoma e,
pur insidiata dai vescovi di Rimini e Montefeltro e poi coinvolta nelle
contese fra guelfi e ghibellini, riuscì a conservare la propria
indipendenza, che venne formalmente riconosciuta dalla Chiesa (1291).
All'inizio del XVI secolo, per non cedere a Cesare Borgia, San Marino
decise di sottomettersi a Venezia, ma invano, sicché cadde per pochi mesi
sotto il dominio del Valentino (1503). Altre minacce vennero da Pier Luigi
Farnese e da papa Paolo IV ( 1556). Nel corso del XVII secolo, si determinò
un lungo periodo di decadenza politica durante la quale il Gran consiglio
assunse sempre più carattere oligarchico. Annessa per breve tempo allo
Stato Pontificio dal cardinale Alberini, godette ancora di libertà,
minacciata soltanto nel 1786 dal cardinale Valenti. Da allora, e anche
durante la dominazione francese in Italia, conservò la propria
indipendenza, riconosciuta da Napoleone ( 1797) sin dal congresso di Vienna
( 1815). Fra le due guerre mondiali anche san Marino conobbe il regime
fascista e le sue istituzioni furono modificate in senso autoritario e
liberale. Sempre nel periodo del fascismo, Benito Mussolini, che era
romagnolo, fece costruire una piccola ferrovia che da Rimini raggiungeva
San Marino. Durante la seconda guerra mondiale fu bombardata dagli inglesi
e mai più ripristinata. Oggi, esistono soltanto le piccole gallerie da dove
transitava il caratteristico trenino, dono dal Governo Italiano.
Nel corso della seconda guerra mondiale subì un pesante bombardamento a
opera dell'aviazione inglese ( giugno 1944) e gravi danni da parte dei
Tedeschi in ritirata. Dopo il periodo dell'occupazione alleata a San Marino
si tennero elezioni democratiche che portarono al governo i social
comunisti. Nel 1964 il potere passò alla coalizione moderata formata da
democristiani e socialdemocratici, che ne uscì rafforzata dalle successive
elezioni del 1964, ecc . et ecc fino alle ultime elezioni delle ultime
elezioni del 2002, che la nuova coalizione stata formata PSS e PD.
Lasciamo la storia e la politica e ritorniamo alla città di San Marino.
L'abitato conserva in parte aspetto medioevale, con casette in pietra,
stridette e scalinate caratteristiche e qualche edificio monumentale: tutto
però è stato largamente restaurato a varie riprese. Esistono resti delle
tre successive cinte murarie con le tre famo porte. La chiesa di San
Francesco, del X IV secolo,, fu rimaneggiata nei secoli XVIII - XIX e
conserva interessanti pitture gotiche e rinascimentali. La basilica di Sam
Marino risale al XIX secolo. Il palazzo del Governo è ina interpretazione
ottocentesca ( F. Azzurri, 1894) dell'architettura comunale nel medioevo.
La Riviera Romagnola
Sul piazzale riservato ai pullman turistici c'era un po' di confusione,
torpedoni pronti per partire mentre altri , come i nostri, erano in attesa
che giungessero gli escursionisti. Nella massa c'è sempre qualche
ritardatario che si attarda e non osserva l'orario stabilito, oppure fa
fatica a distaccarsi da quel posto incantevole come é la città di San
Marino. Nulla di tutto questo. Il fatto è che due signore del nostro gruppo
si sono trovate in difficoltà e si sono confuse nella folla omogenea di
quella massa di turisti internazionali. Vedendo che non arrivavano, sono
scattate, per modo di dire, le ricerche delle due signore ritardatarie. Il
volenteroso Pierino ed altri due accompagnatori dell'APAM, si sono dati da
fare, ripercorrendo a ritroso l'itinerario turistico che porta fino a quasi
al vertice del Monte Titano. Le due signore, per nulla preoccupate, erano
sulla spianata della Basilica di San Marino, a godersi da quella finestra
panoramica il meraviglioso paesaggio. La partenza era stata fissata per le
ore 12, mentre i due moderni torpedoni si sono mossi con 30 minuti di
ritardo. Gli organizzatori erano preoccupati di giungere in ritardo al
Ristorante " La Conchiglia" di Bellaria, dove la comitiva mantovana era
attesa. Nulla di grave, e come recita un vecchio proverbio: " Anche il
cielo può attendere".
BELLARIA- L'escursione si è svolta a San Marino, ma la nostra festa é
continuata al Ristorante " La Conchiglia",sito vicino al mare nella linda
cittadina balneare di Bellaria. Questo centro turistico e balneare fa parte
della Riviera Riminese, dopo Riccione e Cattolica vi é Bellaria . Nella
seconda metà dell'Ottocento sorsero lungo il mare i primi quartieri
balneari, ma soprattutto dopo la prima guerra mondiale l'abitato si estese
in misura considerevole, allargandosi fino alla costa; gravemente
danneggiata dai bombardamenti dal cielo e dal mare nel 1943 - 1944, la
città di Rimini fu ricostruita e si espanse ulteriormente fino a
comprendere i sobborghi litorali, nacque così ( la cosiddetta Riviera
Riminesi ).
Abbiamo scoperto questa meravigliosa Riviera Riminesi negli anni Sessanta,
quando da Caravaggio (Bergamo), nel mese di settembre, abbiamo trascorso
una breve vacanza a Viserbella, che sorge a pochi chilometri dalla città di
Rimini. Il ponte Romano detto di Tiberio, che attraversa il Fiume Marecchia,
che separa Viserbella dalla città di Rimini. Fu in quell'anno che per la
prima volta siamo saliti sul Monte Titano ed abbiamo scoperto i
meravigliosi paesaggi da dove l'occio spazia e si perde nell'orizzonte
collinare fino a giungere al mare Adriatico . A Viserbella non ci siamo mai
più ritornati, ma in compenso abbiamo trascorso per moltissimi anni le
nostre vacanza nella bellissima Cattolica, la Regina dell'Adriatico, alla
quale siamo particolarmente affezionati.Lasciamo i ricordi, perché fanno
parte del nostro passato prossimo, e veniamo al presente, a questa giornata
meravigliosa e splendente da un sole caldo autunnale.
IL PRANZO SOCIALE- I due grossi torpedoni del CRAL. A .P. A.M. di Mantova
si sono fermati davanti all'Hotel la " Conchiglia", sito a poche decine di
metri dal mare, dove eravamo attesi per il pranzo. Appena scesi dagli
automezzi una buona parte degli escursionisti hanno preso d'assalto i
servizi igienici dell'Hotel, mentre gli altri prendevano posto al
Ristorante. Il nostro piccolo gruppo dei Campitellesi hanno preso posto in
un tavolo al principio dell'ampia sala, avendo di fronte il resto dei soci
del Cral. L'ora per iniziare il pranzo era quella giusta, ma lo stomaco
reclamava abbondantemente. Quello che ci consolava l'attesa, sicuramente
era la ricchezza del menù. I tavoli erano preparati a dovere ed anche il
personale si presentava nella loro impeccabile divisa scura con pantaloni
per la cirtostanza, che per dire la verità sembravano due pinguini del polo
sud. Peccato, perché erano due belle ragazze carine e soprattutto
giovanissime e vestite così davano l'impressione di essere due androgine:
contemporaneamente presentavano caratteri maschili e femminili. Con una
camicetta bianca e la gonna scura, sicuramente avrebbero fatto più bella
figura. Non cera bisogno di nascondere le gambe e la loro femminilità.
Qui a Belluria,come nel resto in tutta la Romagna,prima del lambrusco,
della musica e dell'allegria fu inventato il trionfo della cucina romagnola
che è rinomata in tutto il mondo e per essere più precisi, si potrebbe dire
che proprio qui è nata l'Accademia della piadina e del mangiare bene. Il
menù del nostro convivio era ricco e variegato, si, perché di un convivio
si è trattato. Il pranzo è incominciato con l'insalata di mare e bruschetta
di alici, frittellini di bianchetti e zucchini,seppioline ripieni con
piadina romagnola, tanto per iniziare e solleticare i succhi gastrici del
nostro stomaco . Per primo piatto ci sono stati servite le famose "
Lavagnette alla pescatora e gli strozzapreti allo scoglio. Sono seguiti per
secondo piatto, una fantasia di pesce alla griglia. Nella pausa, è stato
servito un sorbetto al limone, per alleggerire lo stomaco. Durante questa
pausa oltre al sottoscritto, altre persone hanno approfittato per fare
quattro passi per fumare una sigaretta. Noi abbiamo acceso la pipa e ci
siamo diretti nella vicina spiaggia, per fare quattro passi distensivi o
meglio definirli digestivi, per permettere allo stomaco di poter continuare
la fase finale del convivio. Naturalmente, come succede in questi convivi,
non si è andato per il sottile neanche con le libagioni. Le bottiglie
dell'ottimo lambrusco hanno fatto la loro parte. Insomma, eravamo tutti
allegri e felici di aver partecipato a questa festa gastronomica in grande
amicizia e in grande allegria.
La giornata era limpida, calda e bellissima, la spiaggia era quasi deserta
ed il mare limpido e bellissimo. Sulla spiaggia regnava tanta pace e
serenità. Si sentiva soltanto lo sbatticchiare delle piccole onde che si
spegnevano dolcemente nel bagnasciuga. Guardando la profondità del mare e
della lunga spiaggia deserta, mi sono venute in mente le bellissime spiagge
di Mahadia Beach in Tunisia, dove abbiamo trascorso quest'anno le nostre
vacanze estive, dove la sabbia è stata definita di borotalco, per il suo
colore bianchissimo e per la sua impalpabilità; una qualità di sabbia che
non avevamo ancora mai visto così fine e bianca . Si poteva camminare per
ore senza accusare il minimo fastidio ai piedi, e poi, che dire del mare
azzurro e pulito? Era uno spettacolo ammirare quell'immensità del mare che
all'orizzonte si fondeva con il cielo, formando un tutt'uno e poi, c'era
quella costante e fresca ventilazione che attenuava moltissimo quel torrido
clima africano. Nel contemplare tutto questo, nelle nostre lunghe
passeggiate lungo la grande spiaggia dove le piccole onde si spegnevano
lentamente nella lunga battigia, mi sono accorto che mi mancava qualche
cosa, si, mi mancava la costa frastagliata e macchiata di verde dagli ulivi
e dai pini marittimi e soprattutto delle insenature rocciose della
meravigliosa Liguria.
Alla fine del convivio o pranzo sociale come dir si voglia, sono seguiti il
discorso di saluto dagli organizzatori e il brindisi di commiato, con
l'arrivederci al prossimo anno.
L'AMICIZIA-Mi sono accorto, con la mia grande soddisfazione, che in questi
convivi gastronomici, spesso si conoscono tante persone che non conoscevi
prima e spesse volte, senza volerlo, nascono o possono nascere delle vere
amicizie. Oh, si, mi dimenticavo di questa bellissima parola, che vuol dire
tante cose e che oggi, in questo nostro tempo consumistico e tecnologico
sembra poco di moda. Tutto ciò succede perché non si conosce il suo vero
significato intrinseco, interiore, intimo, che vuol dire benevolenza,
fratellanza, affezione familiare, intimità e simpatia. Il segreto di
un'esistenza felice sarebbe proprio questo: sapere identificare al momento
giusto le persone e i sentimenti profondi per istituire la vera amicizia.
Si direbbe un traguardo elementare, se non fosse che a quella che possiamo
definire " la voce della coscienza", che dovrebbe guidarci senza sbagliare
la rotta, si oppongono giorno dopo giorno centinaia di altri fattori.
Sono voci esterne, molto spesso futili, che però non possiamo fare a meno
di ascoltare, e che mettono in dubbio le certezze del giorno prima.
In questa zona oscura del nostro essere, in questo buio insormontabile
della certezza: la saggezza è messa in crisi dall'ambizione, la serenità è
continuamente aggredita delle tentazioni; le passioni si fanno beffe della
ragionevolezza. E il passar del tempo anziché placarsi spalanca nuovi
inquietanti interrogativi.
Come uscire allora da questo vicolo cieco? Simile ad un treno in corsa che
attraversa fasci di binari, la voce dei desideri apre e chiude gli scambi,
si entusiasma e si deprime, incapace di scegliere il binario giusto. Ma chi
sarà il vero macchinista del treno? Noi naturalmente, si, siamo noi stessi,
con le nostre gioie e anche con le nostre debolezze.
Quando i due grossi torpedoni stavano lasciato la Riviera Romagnola, il
grande disco del sole, che sembrava legato ad un filo di lana, lentamente
stava per tramontare verso occidente, mentre la sera calava silenziosa
sulla grande pianura Romagnola.
"L'aria ed il cielo cambiavano anch'essi colore, quasi per preparare una
stupenda cornice all'alpe che stava raccogliendo l'ultimo bacio del sole."
Il cenobio del Monte Titano
Nella Repubblica di San Marino il culto dello Stato, cui la leggenda fa
risalire il merito di aver fondato la Repubblica, è diffuso e sinceramente
sentito. Ed è appunto la leggenda che ci tramanda la figura di questo
tagliapietre che, venuto dalla natia isola di Arbe in Dalmazia,che salì sul
Monte Titano ed ivi fondò una piccola comunità di cristiani perseguitati
per la loro fede al tempo dell’Imperatore Diocleziano .Quindi, questo
tagliapietre
dalmata ,altro non era che uno dei Magi e che come i Magi donarono a
Gesù, oro, incenso e mirra, essi donarono a Cristo la propria libertà , la
propria preghiera, il proprio affetto, e riconoscerlo come Dio,
abbandonando
le varie forme di idolatria che ci presenta il mondo d’oggi. Tale
atteggiamento
richiede certamente una conversione continua, sull’esempio dei Magi stessi
che tornarono ai loro paesi per un’altra strada. Infatti l’incontro con
Gesù sul Monte Titano, è stata determinante per la loro fede: “ Siamo
venuti
per adorarlo” Questa frase, riportata dall’evangelista Matteo, è stata
detta dai Magi, e proprio i Magi sono stati presi da San Marino come
modello
per la sua nuova comunità di fedeli che si è formata sul Monte Titano.
Comunque sia, è un luogo per meditare e per pregare appena sorge la
luce del giorno: “la luce della vita che nasce la mattina e muore la sera.
La vita è come la luce e come l’acqua: non può tornare sui suoi passi.
Bisogna
capire il suo significato nel presente. Vi è in ogni essere umano qualcosa
che nessun altro ha e che solo il Creatore della vita conosce ed è in grado
di donare”
E’ certo comunque che la zona fu abitata fin dai tempi preistorici, ma
è solo dall’età medioevale che ne abbiamo notizie certe sull’esistenza di
un Cenobio, di una Pieve, di un Castello, di elementi in definitiva che
convergono ad una conferma del fatto che sulla vetta del Monte Titano
esisteva
una Comunità organizzata. Mentre l’autorità dell’Impero si andava
attenuando
e quando ancora non si era affermato il potere temporale del Papato, si
affermò qui, come in altre città d’Italia, la volontà dei cittadini di dare
a se stessi una forma di governo.Ecco quindi il Comune. E mentre ognuna delle città italiane intitolava
la propria libertà ad un Santo, la piccola comunità del Monte Titano,
memore
della figura leggendaria del tagliapietre Marino, si chiamò “Terra di San
Marino” poi “ Comune di San Marino” e infine “Repubblica di San Marino”
Enrico Maria Beraudo, parlando dell’ Adorazione e contemplazione,
che sono concetti che ci sembrano sorpassati. Eppure è¨ proprio questo ciò
che il Papa domanda ai giovani, come si coglie dal tema di questa XX
Giornata
Mondiale della Gioventù a Colonia: “ Siamo venuti per adorarlo” Questa
frase, è stata detta dai Magi, e proprio i Magi sono stati presi dal Papa
come modello per i giovani. . Infatti, l’incontro con Gesù, il Cristo,
cambia
in profondità e dona il coraggio di compiere scelte coraggiose di
testimonianza
della fede negli ambienti in cui si vive.
L’appello del Papa al mondo “ Più diritto e giustizia”
Si, un mese fa, proprio il 25 agosto scorso, il Papa Benedetto XVI,
ha incontrato a Colonia un milione di giovani e nell’omelia ha detto loro:
“Libertà non vuol dire godersi la vita. Dio non è un mercato, una religione
creata con il fai da te non ci aiuta”
Parlando al milione di giovani raccolti nella
spianata di Marienfeld il Pontefice ha auspicato che nel mondo, tra tutti,
prevalga la “potestà” del diritto e della giustizia. Ai giovani ha anche
rivolto il suo ringraziamento è per queste ore meravigliose trascorse
insieme,
per queste ore che mi avete donato, in una comunione con tutti. Sappiamo
tutti di essere importanti, di non avere un luogo adeguato per ospitare
il Signore. Ma ha quindi sottolineato, tra l’entusiasmo della folla cheproprio per questo siamo qui, e impediamo che le divisioni ci allontanino
gli uni dagli altri. Un fuori programma che per qualche secondo ha
inceppato
la macchina organizzativa e il cerimoniale della celebrazione liturgica,
con quanti fra di coloro che assistono il Papa nella Messa che non sapevano
che fare, ma che la folla di giovani ha invece premiato con applausi
scroscianti. Poi la liturgia è proseguita.
Il Pontefice si è poi rivolto direttamente ai giovani nell’Omelia,
tracciando una linea da seguire nel rapporto tra la vita di tutti i giorni
e la fede. E sulla difficoltà di far convivere i propri desideri e gli
insegnamenti della Chiesa. Libertà , ha detto ai ragazzi, che non vuol dire
godersi la vita, ritenersi assolutamente autonomi, ma orientarsi secondo la
misura della verità e del bene, per diventare in tal modo noi stessi veri e
buoni. Per il Papa l’adorazione è un gesto di sottomissione, il
riconoscimento di Dio come nostra vera misura, la cui norma accettiamo di
seguire, un gesto
necessario, anche se la nostra brama di libertà in un primo momento resiste
a questa prospettiva. La sottomissione diventa unione perchè colui al quale
ci sottomettiamo è amore In questo modo,sottomissione acquista un senso,
perchè non ci impone cose estranee, ma ci libera in funzione della più
intima
verità del nostro essere. Poi un invito a non piegare la fede alle proprie
necessità e a non vivere una religione fai da te. Sarebbe la soluzione più
facile ma è nell’ora della crisi ci abbandona a noi stessi. Dio, dice,
non è un mercato religioso. In vaste parti del mondo esiste oggi una strana
dimenticanza di Dio, sembra che tutto vada ugualmente anche senza di lui.
Ma al tempo stesso esiste anche un sentimento di frustrazione, di
insoddisfazione di tutto e di tutti. Viene fatto di esclamare: non è
possibile che questa sia la vita. Davvero. No. E cos’ insieme alla
dimenticanza di Dio esiste come un boom religioso. Non voglio screditare
tutto ciò che c’è in questo
contesto. Può esserci anche la gioia della scoperta .
In questa nostra escursione nella piccola Repubblica di San
Marino,proseguendo fra quelle linde stradelle, soffermandoci sugli affacci
panoramiche, visitando i piccoli centri che sono sorti in conseguenza dei
primi insediamenti urbani della popolazione: in ognuno di essi c’era
qualcosa da scoprire, e da visitare.
I Castelli sono collegati tra di loro da una rete urbana agevole e di rara
bellezza, che consente piacevoli soste in aree verdi, nell’incantevole
cornice
appenniniche e del Montefeltro. Nella Basilica di San Marino, costruita
all’inizio del XIX secolo sulle fondamenta della preesistente Pieve
Romanica.
Ricca di statue e quadri pregevoli. La statua di San Marino è del
Tavolini;
l’altare maggiore contiene l’urna con le ossa del Santo, dove abbiamo
piegato
il ginocchio e rivolto una speciale preghiera. Oltre alla Basilica di San
Marino , abbiamo visitato altri templi religiosi e leggendo qualche brano
della loro costituzione repubblicana, abbiamo compreso che il saggio
spaccapietre venuto dall’Adriatico,e rivolgendosi ai suoi discepoli,
sicuramente si sia espresso con le stesse parole che si è rivolto il Papa
ai giovani nella spianata di Marienfeld di Colonia: “Sappiamo tutti di
essere imperfetti, di non avere un luogo adeguato per ospitare il Signore”
E’ proprio per questo siamo qui, e impediamo che le divisioni ci
allontanino gli uni dagli altri
Le parole del Pontefice, sembrano essere scritte a posta per questo il
popolo
religioso, libero e democratico che da centinaia di anni continua a vive
in pace con il mondo alle pendici del Monte Titano.
Soggiorno a Mahdia Beach Club
La settimana prima della partenza per Madia Beach Club, qui in Val Padana,
come del resto in tutte le regioni del Bel Paese, si boccheggiava per
l’ondata anomala del gran caldo sahariano che ha causato molti disaggi alle
persone anziane che vivono da sole e quindi bisognosi di assistenza e di
cure. A causa dell’ondata eccezionale di caldo si è aggiunta anche la
siccità e i fiumi lombardi, compreso il grande Po, sono diventati una
pozzanghera, causando danni ingenti all’agricoltura. è stato definito dai
meteorologi un fenomeno eccezionale senza precedenti, si vede proprio che
le stagioni
stando proprio cambiando Lo stesso fatto si è verificato due anni fa, ma
quest’anno la colonnina di mercurio ha registrato valori altissimi,
sfiorando oltre i 38 gradi. Per fortuna, la notte del 30,qui in Lombardia,
sono arrivati i primi temporali che hanno mitigato la grande e
insopportabile calura, portando un pò di refrigerio e i valori pian piano
stanno ritornando a quelli stagionali.
Lasciamo questi fenomeni atmosferici e veniamo alla nostra partenza per
l’agognata vacanza nelle spiagge tunisine.
Siamo partiti da Mantova alle ore 22 di Lunedì 4, per l’aeroporto di Verona
Catullo e alle ore 01 di martedì- 5 Luglio, con un volo charter della
Tunisair diretti all’aeroporto di Monastir. Dopo due ore di attesa,
finalmente l’altoparlante dell’aeroporto annunciava la partenza. Di notte
non abbiamo mai intrapreso un viaggio aereo, anzi, adesso che ricordo,
siamo partiti alle ore 22 con un Boing dell’aeroporto di New York, diretti
a Milano.
E’ stata una sensazione straordinaria, perchè dopo due ore di volo, abbiamo
assistito ad uno spettacolo bellissimo dell’aurora boreale. Questa volta
non è¨ successa la stessa cosa, dagli obloo non si vedeva nulla, soltanto
una massa nuvolosa che copriva il cielo. Quando il volo charter è atterrato
all’aeroporto di Monastir era ancora notte fonda. Prima di scendere
dell’aereo, abbiamo fatto i nostri complimenti ai piloti e all’assistente
del volo, una simpatica e carina ragazza tunisina molto educata, per il
perfetto servizio di bordo e soprattutto per il volo e l’atterraggio, che è
stato veramente morbido Il personale di bordo era sicuramente marocchino,
ma si esprimevano in un quasi perfetto italiano.
Dopo essere transitati dalla dogana per i consueti controlli, ci siamo
riuniti vicino all’accompagnatore che dopo un breve controllo ci ha
accompagnati fuori dell’aerostazione. Fuori dell’aeroporto di Monastir
c’era un piccolo pullman dell’Hotel che ci attendeva. L’aria fresca della
notte, per un momento, ci ha fatto dimenticare le lunghe notte infuocate
della Val Padana, e quell’aria fresca, oltre che accarezzarci il viso , ci
ha tirato su il morale facendoci passare la sonnolenza La comitiva dei
mantovani, costituita da 27 persone, erano quasi tutti addormentati e
facevano fatica a tenere gli occhi aperti. L‘orologio segnava le ore 03 del
5 luglio 2005.
Alcuni ciclisti e un ciclomotore ci stavano precedendo. Lo stradone era
illuminato a giorno da una lunga fila di lampioni. A fianco al semaforo,
che era illuminato dal fascio di luce spiovente del lampione, illuminava la
figurina di una donna giovane, di donna velata, che teneva per mano un
bambino scalzo. Piccole case con verande dall’aspetto vagamente tropicale,
qualche bar ancora aperto e dall’aria spartana semivuoto, lunghi viali di
palme si succedevano, e man mano che il piccolo pullman avanzava, sembrava
che quelle lunga fila di palme spuntassero dalle tenebre. Dopo quaranta
minuti di viaggio, l’automezzo si è fermato proprio davanti al grande
complesso turistico di Mahadia: un grande complesso costruito su tre
livelli affacciato direttamente sulla spiaggia con un mare tra i più belli
della Tunisia a circa 40 minuti dell’aeroporto di Monastir: l’architettura
tipica moresca ed il grande giardino ne fanno uno dei migliori complessi
della zona adatta a tutti i tipi di clientela. Nel complesso vi sono due
piscine, una esterna con ampio solarium ed una al coperto. Discoteca,
boutiques di artigianato. Centro benessere con sauna. Per quanto riguarda
lo sport, vi sono un campo di pallavolo, aerobica, acqua gym, ping-pong,
boccette, campi da tennis ed immersioni. Vi è inoltre il gruppo di
animazione locale parlante italiano che propone attività diurne, gare e
tornei. Le serate vengono allietate da spettacoli di cabaret, varietà e
folcloristici. Insomma, se uno si vuole divertire e fare dello sport non c’era¨
che la scelta.
Dopo una lunga notte trascorsa tra l’attesa per sbrigare le pratiche
d’imbarco all’aeroporto di Catullo e il viaggio aereo fino all’aeroporto di
Monastir e da qui alla villaggio turistico di Amhadia, abbiamo dormito
molto poco. Alle ore 9 del primo mattino, per dire la verità un pò più
tardi del solito), quando ci siamo alzati e ci siamo affacciati dal
terrazzo
della nostra camera, da dove si dominino, baia, la lunga spiaggia ancora
vuota e l’immensità del mare azzurro. In lontananza, si potevano vedere il
complesso portuale ed alcuni palazzi della cittadina. Dopo una rapida
colazione con brioche e cappuccino, nel bar moresco vicino alla piscina,
abbiamo fatto una breve passeggiata nel complesso turistico, solo per
sgranchirci le gambe e per renderci conto del luogo dove siamo giunti in
piena notte.
Fu al quel punto, che ci siamo resi conto che non stavamo sognando, ma
eravamo giunti nel villaggio turistico di Madia beach club, sito sulle
coste della Tunisia, vicino alla città medioevale di Mahdia. Tutt’attorno
regnava un grande silenzio, si sentiva soltanto lo sbatacchio delle onde
del mare che si infrangevano contro gli scogli rossi e bruciati dal sole
della costa.
Tanto per cambiare, quest’anno siamo usciti fuori dal guscio, abbiamo
deciso di cambiare completamente il nostro normale itinerario delle nostre
vacanze estive fuori dei confini del Bel Paese. Ricordando le parole di una
brava giornalista svedese, di cui non ricordiamo più il suo nome, che
parlando dell’Italia, cosa scriveva in un suo articolo sulla Rivista “Il
Carabiniere”:
-A Voi italiani, per apprezzare meglio le vostre meravigliose coste, le
grandissime spiagge dell’Adriatico, le isole assolate della Sicilia e della
Sardegna, le meravigliose montagne con le incantevole vallate, dominate
dalle stupende,le città d’arte e i paesaggi mozzafiato della verde Toscana,
bisognerebbe visitare altri Paesi, sia del Mediterraneo che dei vari
continenti, solo cosa potete rendervi conto che vivete in un paradiso
terrestre che tutto il mondo vi invidia. Non occorre che vi portiate dietro
gli spaghetti, il parmigiano reggiano , l’olio d’oliva e il fiasco di vino
chianti, perchè ovunque andiate,troverete altre meravigliose località ,
altri monumenti, altre città bellissime. In questi nuovi luoghi dovete
gustare la loro cucina, i loro prodotti, conoscere le loro abitudini e le
loro tradizioni, solo cosi potete fare un paragone tra le bellezze del
vostro Paese e quelle che incontrerete-
Parlando ancora d’Italia, il grande scrittore tedesco Ferdinando
Gregorovius, nel suo libro: “ Sulle tracce dei Romania”, cosi conclude
l’ultimo capitolo:
- Ma è ormai tempo di finire, essendo già troppe queste pagine. Se ci
volgiamo a considerare tutto quanto si mostra all’escursionista in un cosa
breve tratto di strada, non possiamo fare a meno di meravigliarci per la
ricchezza di queste contrade. Nessun’altra al mondo è così- penetrata e
animata dallo spirito. La natura e la storia hanno versato la loro
cornucopia sull’Italia ed ogni epoca storica vi ha lasciato la sua
impronta.L’Italia è la madre della civiltà in occidente e la Pandora della
sua cultura sia nel senso buono che nel senso cattivo della parola,ma per
apprezzare tutte queste bellezze naturali e artistiche, bisogna che le
nuove generazioni si spingono oltre i confini del Bel paese-
Entrambi gli scrittori, avevano veramente ragione nell’affermare tutto
questo.
Fin dalla giovane età abbiamo avuto il pallino dell’escursionismo, ma per
motivi contingenti abbiamo ritardato i nostri viaggi esplorativi. Soltanto
nell’età matura si è potuto realizzare questo nostro desiderio di evadere,
di conoscere altri Paesi, altra gente, altri usi e costumi, ma anche
soprattutto la cucina e i sapori di altre località . Non è la prima volta
che attraversiamo i confini d’Italia per turismo. Il primo Paese che
abbiamo visitato è stata la coloratissima Catalogna, con la città di
Barcellona e le grande opere di quel genio che si chiamava Gaudy. Dopo
Barcellona, abbiamo visitato le
Canarie con Tenerife e i picchi vulcanici, la magnifica Madrid con le sue
corride e le sue bellezze artistiche e naturali. Il sud della Francia, con
la verde e profumata Provenza, con il Canyon du Verdon, la stupenda Vienna
e le città più significative dell’Austria. Però, il viaggio più lungo che
abbiamo effettuato, è stato quello nel Sud Ovest degli Stati Uniti
d’America, con il Grand Canyon, il Nuovo Messico, la città del divertimento
e delle follie di quella grandissima città nel deserto di Las Vegas, con la
bellissima California.
Quest’anno, per conoscere i Paesi che si affacciano nel Mediterraneo,
abbiamo scelto le coste del Nord Africa, incominciando appunto dalla
Tunisia.
Hammamet
La seconda località della costa tunisina che abbiamo visitato, è stata la
cittadina di Hammamet, località molto nota a noi italiani, per le vicende
giudiziarie che coinvolsero On. Bettino Crax, e dove trovò rifugio e
protezione dal governo di Tunisi nel 1992, egli fu coinvolto insieme a
molti altri figure del mondo politico, in particolare del PSI e della DC,
nelle inchieste di “Mani Pulite”. Travolto dagli scandali, nel 1993 si
dimise dalla sua carica di segretario del PSI e, persa l’immunità
parlamentare e in aperta polemica con la magistratura, a partire da quell’anno
visse, fino alla sua morte nel 2000, nella sua villa di Hammamet, che non è
una semplice villetta, ma un vero castello. Egli è sepolto nel cimitero di
questa cittadina mediterranea, che sorge su di una piccola duna che domina
la grande spiaggia sottostante. Abbiamo deposto sulla sua tomba un
mazzolino di fiori di lillà: un arbusto che cresce spontaneo nei giardini e
lungo i viali che portano al cimitero. Questa pianta rustica produce fiori
a pennacchi, di colore tra il viola e il rosa, é un fiore molto profumato.
Avremmo voluto deporre un mazzetto di garofani, ma a Hammamed non coltivano
questa qualità di fiori. Il nostro è stato soltanto un pensiero, un omaggio
ad un grande e sfortunato politico del nostro Paese.
Egli ogni giorno, come più volte la RAI/ TV ci ha fatto vedere in passato,
amava passeggiare lunga quella spiaggia sabbiosa, avendo di fronte il
grande Mediterraneo ed in fondo al quale, sicuramente cercava
d’identificare nella sua mente, in un punto immaginario la sua meravigliosa
Sicilia, provando sempre dentro di se una grande tristezza, come del resto
succedeva spesso al generale Giuseppe Garibaldi, che da Caprera, guardava
sempre verso la Costa Azzurra, dove sorge la sua amata città di Nizza,
mentre e il grande Napoleone Bonaparte, prima dall’isola d’Elba e poi
dall’isola sperduta di Sant’Elena, sognava la Patria lontana.
“ IL Cinque maggio”
Alessandro Manzoni, in morte di Napoleone, compose, con eccezionale
rapidità fra il 18 e il 21 luglio 1821, non appena la notizia giunse in
Italia. L’originalità dell’ode consiste nella concezione religiosa che
l’ispira, nel riconoscere l’attuarsi della volontà di Dio in tutto il
destino dell’imperatore, sia nella gloria sia nella sventura.
Non ci risulta che un poeta contemporaneo abbia dedicato all’On. Bettino
Craxi, una lode. Sicuramente non è stato un valoroso condottiero come
l’imperatore Napoleone e Garibaldi, ma è stato un grande politico. Oggi, è
stato persino dimenticato anche da quelli che si ritenevano suoi
colonnelli, ma che in effetti non lo sono mai stati. Nella bella regia di
Hammament che guarda verso il Mediterraneo, vive la moglie dello statista,
che ogni giorno porta i fiori freschi sulla sua tomba.
“Mani Pulite”
I giovani d’oggi si domandano, ma che cosa vuol dire “Mani Pulite?”. Molti
dei nostri giovani non conoscono questo termine con il quale dal 1992 i
media indicarono l’inchiesta giudiziaria, avviata dalla procura di Milano,
che evidenziò l’esistenza di un sistema politico ed economico profondamente
condizionato nel suo sviluppo dalla presenza di relazioni illecite e lesive
della libera concorrenza. Nel corso degli anni Ottanta il versamento
illegale di somme di denaro (tangenti) a politici e amministratori al fine
di ottenere commesse ed appalti dagli enti pubblici. Partita dal comune di
Milano ( da qui il termine “Tangentopoli”, città delle tangenti), ben
presto l’inchiesta si estese a macchia d’olio su tutto il territorio
nazionale. Le indagini della magistratura coinvolsero l’intera classe
dirigente di quella che venne denominata “ Prima Repubblica”, evidenziando
particolari responsabilità nei partiti componenti la maggioranza di
governo.
Lasciamo queste vicende giudiziarie, che ormai fanno parte della storia del
nostro Paese e ritorniamo alla nostra escursione di questa antica cittadina
che si affaccia sul Mediterraneo.
Se non fosse per l’architettura moresca degli edifici, anonimi e
indifferenti al punto da essere diventati caratteristici nella fisionomia
di Hammamet, anzi la città di adozione di Bettino Crax, come tutti i
turisti italiani chiamano confidenzialmente questa città appena mettono
piede in Tunisia. La sua felice posizione, è dovuta al grande Golfo che
prende il nome di Hammamet, dove sorgono tante belle e linde cittadine
turistiche, come Nebeul, Bou Ficha e la cittadina rivierasca di Hergia che
conclude le lunghe spiagge assolate. Camminando nel centro storico, spesso
s’incontrano donne velate e bambini scalzi che corrono in quelle strette
viuzze e non ti mollano se non ci dai alcuni centesimi di euro, per i loro
bazar colorati, per gli uomini vestiti di bianco con lunghi camicioni, che
sembrano tanti frati dell’ordine francescano, potremmo dire di trovarci
nella zona della “Gucceria” di Palermo o nel grande porto peschereccio di
Mazzara del Vallo. Quello che cambia è il paesaggio. Nell’entroterra si
ammira un paesaggio metafisico e lunare, una landa bruciata dal sole con
pochi alberi ad eccezione di qualche palmeto attorno ad un pozzo, che forma
una piccola oasi. Si vedono piccole case bianche con terrazza: delimitate
attorno da una ringhiera o da un muretto; hanno funzione di copertura e
nello stesso tempo per raccogliere l’acqua piovana. Le stesse case colorate
di bianco le abbiamo visto nelle isole Eolie, in Puglia e in tante altre
località del Sud del nostro Paese. Spesso si vede un magro asino legato ad
una stanga di legno, che gira in continuazione attorno ad un vecchio pozzo
e con quel continuo girare un argano tira su l’acqua, per permettere al
beduino di irrigare quel fazzoletto di terra rossa e arsa dal sole che
circonda la casa. Sul litorale il paesaggio cambia completamente, come pure
il modo di coltivare i campi. Ovunque abbiamo ammirato un paesaggio
bellissimo che sembrava un giardino. Le colture si differenziano, dai
frutteti agli agrumeti e agli uliveti. Nelle nostre brevi soste, abbiamo
fotografato alcuni tronchi di queste secolari piante , che in un certo
senso rassomigliano a quelli che germogliano in Puglia: piante basse con il
tronco antico, dove si produce una qualità d’olio molto ricercata nel mondo
arabo.
Sul litorale tunisino germoglia l’ulivo.
Da questo lembo del deserto della Tunisia, dove germoglia fin
dall’antichità l’ulivo, dapprima filiforme, poi sempre più consistente e
ramificato, quindi si torce per la furia del vento, si sviluppa, si
rinchiude in sé, piegandosi, quasi piangente, fino a subire una mortale
erosione: l’ulivo. Facendo un paragone con la My Old Calabria, dove le
piante d’ulivo sono altissime e mastodontiche, specialmente quelle della
pianura di Giaia e di .Rosarno, detta localmente la “ Piana” ha la forma
approssimativa di un pentagono ed è dovuta al sollevamento del golfo di
Gioia, colmato da depositi alluvionali. Sale dal mare ai terrazzi che la
cingono intorno, sui quali tra i 200 e i 400 metri salgono i grossi centri
di Taurianova, Cittannova, Polistena e Cinquefrondi. Il clima mitissimo
della pianura, riparata dai venti freddi e aperta all’umidità del Tirreno,
ne fa una regione di alta fertilità. Vi regnano appunto gli ulivi che in
essa raggiungono dimensioni gigantesche, si che una sola pianta dà fino a
140 litri di olio. La grandiosa opera di bonifica che ne ha fatta una delle
zone più importanti per la produzione dell’olio, fu cominciata nei primi
anni del secolo scorso dal marchese Vito Nunziante che nel 1816 fondò il
paese di S. Ferdinando. Anche il circondario del nostro piccolo borgo
aspromontano di Cosoleto, è una località dove germoglia l’ulivo e si
produce una qualità di olio più ricercato, dovuto al terreno collinare più
esposto al sole.
Umberto Pinotti, in un suo articolo, parlando dell’ulivo di Puglia, così
scrive: “ La botanica lo definisce come “ albero sempre verde delle oleacee
con foglie coriacee, piccoli fiori biancastri e frutti a drupa”. State
certi, i tecnicismi finiscono qui. Non mi addentrerò in tal campo, pur
rimanendo tra i campi, anzi tra gli uliveti, per mostrarvi, più che
narrarvi, le immagini suggestive dell’ulivo che germoglia in Puglia, quelle
che esprimono con maggiore effetto, il crescere, ad onta degli anni, le
continue mutazioni scientifiche ( perché di forme spettacolari si tratta),
per poi arrivare alle linee sculture naturali, a mo di ardite forme museali”.
Le stesse piante le abbiamo osservate nell’entroterra della Tunisia, che
oltre che ammirare in natura lungo il litorale del golfo queste forme
contorte e gibbose, che il tempo e gli agenti atmosferici nel corso dei
secoli hanno trasformato in vere opere d’arte, il beduino del deserto si è
trasformato in un bravo artigiano e nelle lunghe sere d’inverno, sotto la
tenda o nel suo rudimentale laboratorio, ha intelligentemente imparato ad
intagliare questi nodosi tronchi, ricavandovi degli oggetti utili per la
casa e anche delle piccole opere d’arte. Negli empori dei villaggi, come
nei famosi e antichi souq della medina, bei bazar e nei centri turistici
della costa tunisina, fanno bella mostra di se queste meravigliose
sculture, ricavate appunto dai tronchi contorti dei secolari ulivi. L’ulivo
lo troviamo in versi in una poesia di Gabriele d’Annunzio, da Dante e ne
troviamo tracce nei Vangeli.
Da La sera fiesolana di Gabriele d’Annunzio:
“ Dolci le mie parole ne la sera ti sie,
come la pioggia che bruiva
tiepida e fuggitiva, commiato
lacrimoso de la primavera su i
gelsi e su gli olmi e su le viti
(,,,) e su gli olivi, su i fratelli
olivi che fan di santità pallidi i
clivi e sorridenti”.
Un’immagine che viene poi ulteriormente ripresa ne L’ulivo:
“ Esili foglie,
magri rami, cavo tronco,
distorte barbe, piccolo frutto,
ecco, e un nume ineffabile
risplende nel suo pallore!”
L’ulivo era simbolo di forza già nell’antica Grecia dove, in Atene, i
vincitori venivano coronati con le sue fronde. Ma il ramoscello era anche
simbolo di pace. Come tale lo ritroviamo nei Vangeli e poi lo ricorda
Dante:
“E come a messager
Che porta ulivo tragge la gente
Per udir novelle, e di calcar
Nessun si mostra schivo”.
Parco Nazionale dell’Ichkeul
Il mattino successivo, quando siamo usciti dal piccolo alberghetto di
periferia, nell’apposito spazio riservato ai torpedoni, vi era in attesa il
nostro pullman che ci stava attendendo. Cento metri più avanti, in una
piccolo carruggio con portici dall’architettura squisitamente araba e
impreziositi da mattonelle dipinti regolarmente a mano, c’era un piccolo e
caratteristico bar. Alcuni di noi sono entrati nel locale, mentre il
rimanente degli escursionisti si sono seduti attorno ad un tavolino sotto
il fresco porticato. In quel locale abbiamo consumato la prima colazione a
base di tè . dolcetti e “cafè” lungo alla turca. Quando abbiamo lasciato il
paesino di Sidi Bou Said, il sole era alto nel cielo e spirava un
venticello fresco e molto godibile. Il nostro torpedone si è diretto verso
il Parco Nazionale dell’Ichkeul, un luogo meraviglioso, tanto che l’UNESCO
lo ha dichiarato patrimonio dell’umanità fin dal 1980, con la seguente
motivazione:
“ Situata nel punto più settentrionale dell’Africa, la zona paludosa dell’Ichkeul
costituisce una delle aree più frequentate dagli uccelli europei nel
periodo dello svernamento. Inoltre rappresenta una delle poche aree
mediterranee dove il fenicottero trova le condizioni ideali per nidificare.
L’interesse biologico è accresciuto dalla presenza della rara lontra e di
un piccolo branco di bufali nani, reintrodotti per recuperare un elemento
dell’ecosistema esistente in tempi remoti”
Seguiamo la Strada Statale che da Tunisi porta a Mateur e da qui a Biserta
e quindi a Capo Blanc, dove si è situato il Parco Nazionale di Ichkeul ,
quello è il punto più settentrionale dell’Africa, presenta un singolare
equilibrio di acque dolci e salate: Il Lago Ichkeul si trova tra la Laguna
di Diserta, una laguna di mare a elevata salinità, e la superficie di
impaludamento formato da corsi d’acqua stagionali, gli nadi Tinja, Joumine
e Segnane. Le invasioni marine hanno più volte raggiunto la zona del lago,
dando origine a un delicato equilibrio tra acqua dolce e acqua salata.
Stretta fra gli acquitrini a sud del Lago Ichkeul, s’innalza un’imponente
rupe di 511 metri di altitudine, conosciuta con il nome di Gebel Ichkeul.
Alcuni fanno derivare questo toponimo dalla parola italiana “ scoglio”, con
cui i siciliani avrebbero battezzato la montagna. La natura dolomitica del
terreno, le numerose fratture del massiccio e la presenza di rocce calcaree
nel versante meridionale conferiscono nuovi elementi di peculiarità al
Parco. Le rocce calcaree dolomitiche, inoltre, si estendono ben oltre
l’area del lago e vengono ricoperte dai tre uali da strati argillosi e
fangosi. Quando abbiamo visto questa grande montagna calcarea, per un
momento abbiamo dimenticato di essere in Tunisia, ma di percorrere una
località delle Dolomiti, soltanto che qui non ci sono le nostre bellissime
montagne coperte di boschi e di queruli torrenti, però ci sono i ricordi
dell’ultimo conflitto mondiale.
Il nome della località di “Biserta”, evoca in noi ricordi lontani, ricordi
della Seconda Guerra Mondiale, quando lo spicher annunciava alla radio, nei
bollettini di guerra, che le nostre truppe, in quelle località stavano
combattendo aspre battaglie contro gli anglo - americani. Era il 2 aprile
1943. Quel giorno il porto di Sfax viene bombardato da aerei anglo-
americani. Stessa sorte tocca nei giorni successivi agli altri centri della
costa come Susa, Biserta e la stessa Tunisi, il cui porto è reso
inutilizzabile. La storia ci racconta che il giorno successivo, il 3
aprile, opponendo sempre una stremua e ordinata resistenza, le forze italo-
tedesche cominciano ad arretrare verso nord sulla cosiddetta linea di
Enfidaville.
Nella notte del 5 - 6 aprile, l’8^ armata del gen. Momtgomery sferra un
poderoso attacco alla linea dell’Akarit. A mezzanotte la 4^ divisione
indiana raggiunge quota 275 aggirando così da sud l’Akarit. Ma la linea non
viene sfondata e le truppe dell’Asse possono retrocedere ancora verso nord,
verso cioè la nuova linea difensiva di Enfidaville, una serie di rilievi
che si estendono fino al Djebel Mansour e che rappresenta l’ultima
protezione di Tunisi. Le perdite dell’Asse sono enormi: la divisione
italiana Centauro è stata sciolta e quelle che sono rimaste non raggiungono
il 50% degli effettivi. Percorrendo quei luoghi per noi storici, ci siamo
fermati a parlare con un anziano tunisino, che aveva la nostra stessa età
anagrafica, che vive all’interno dell’area del Parco, in una casetta al
limitare della zona paludosa: una casa fatta di pietra e recintata a mo di
fortino con dei muri a secco, dello spessore di due metri circa, per
riparare l’abitazione dai forti venti invernali, il quale ricordava ancora
gli aspri combattimenti di quella crudele guerra, che ha sconvolto il mondo
intero. Nella sua abitazione conservava ancora, quale cimelio, un elmetto
italiano e una baionetta in dotazione ai militari germanici. Dopo questo
inciso, ritorniamo a parlare del meraviglioso Parco Nazionale dell’Ichkeul.
La visita del Parco, è consentita soltanto accompagnati con il loro
personale e muniti da. fuoristrada dell’organizzazione. La guida del Parco,
che ci ha accompagnati nel nostro giro esplorativo,ci ha riferito che il
Parco ospita ogni autunno affollati stormi di uccelli migratori, che
giungono dall’Europa centrale e settentrionale per approfittare della
mitezza del clima tunisino fino all’inizio della primavera. I moriglioni e
i mestoloni cono le specie più rappresentate, con più di 100.000 individui;
ad essi si aggiungono le alzavole, i germani reali, le folaghe, i fischioni
e le oche comuni. Le elevate temperature che si registrano a partire dai
mesi di marzo e di aprile provocano una progressiva diminuzione del livello
dell’acqua del lago e in aumento della salinità. Comincia allora il periodo
della cova per le specie nidificanti, fra le quali molte sono minacciate
d’estinzione. Il raro gobbo rugginoso si riproduce in questi luoghi con
regolarità e il Lago Ichkeul serve anche come punto di ritrovo per
individui provenienti da zone che in questa stagione si prosciugano ( sono
state osservate concentrazioni estive di addirittura 800 esemplari.
Il L’Ichkeul è anche conosciuto per l’alta concentrazione di fenicotteri.
Questi eleganti trampolieri, facilmente riconoscibili per il collo e le
zampe molto allungati, compiono grandi emigrazioni fra le zone costiere del
Mediterraneo occidentale: una stessa popolazione utilizza indistintamente
le lagune e le saline litoranee che circondano il Mediterraneo a seconda
dei livelli idrici e dell’abbondanza di risorse alimentari reperibili nelle
diverse zone. Da un depliant del Parco, apprendiamo che l’Ichkeul gioca un
ruolo fondamentale nell’ambito degli spostamenti dei fenicotteri, perché
rappresenta la maggiore area umida di tutta la costa nordafricana. In
passato, nell’area umida del Mediterraneo occidentale, solo la Camargue (
Francia), la Sardegna, nei pressi nelle vicinanze di Cagliari, e l’Ichkeul
sono in grado di assicurare tali condizioni. Oltre agli uccelli migratori,
nel Parco abbiamo visto da vicino, una mandria di bufali d’acqua
nordafricani, reintrodotti nel Parco a partire dal 1976. Questa escursione
che abbiamo definita culturale, è stata molto istruttiva ,perché ci ha dato
la possibilità di conoscere e scoprire, oltre che ammirare molto da vicino
il magnifico e particolare paesaggio, la fauna e la flora, ci ha fatto
conoscere in particolare un luogo veramente stupendo. E’ una località che
racchiude dentro quest’area definita della climatologia relativamente
arida: una grande pianura verde e paludosa, dove regna il delicato
equilibrio tra acque dolci e salate e poi c’è tanta pace e serenità.
Il poeta così faceva a scrivere: “ E’ un luogo per meditare e per pregare
appena sorge la luce del giorno: la luce della vita che nasce la mattina e
muore la sera. La vita è come la luce e come l’acqua: non può tornare sui
suoi passi. Bisogna capire il suo significato nel presente. Vi è in ogni
essere umano qualcosa che nessun altro ha e che solo il Creatore della vita
conosce ed è in grado di donare.
Mentre osservavamo la bellezza della natura circostante, il saggio beduino,
che mi stava vicino sul limitare della grande palude, ha detto: “Adesso
occorre una pausa di silenzio: il silenzio della del lago, il mio silenzio,
il silenzio di chi sa leggere in questa immensa e meravigliosa natura”.
Escursione a Tunisi, Sidi Bou Said
Le nostre vacanze qui in Tunisia stanno per terminare, ma ancora ci
rimangono pochi giorni alla partenza per il nostro meraviglioso Paese. La
signora Latifa: una giovane e bellissima tunisina dagli occhi verdi, che
assomiglia molto alla bellissima signora Fefa, la moglie di Provera, il
magnate della “ Tim”, che è l’incaricata del nostro tour operator la “Turisanda”,
la quale ci ha proposto un’occasione unica, per immergerci nei colori della
vecchia e storica città di Tunisi e del Parco Nazionale dell’Achkeul.
Prendiamo a volo la sua proposta e di buon mattino ci affrettiamo a partire
con una comitiva di piemontesi e di tedeschi per Tunisi.
Era molto presto e in cielo brillavano ancora le stelle, mentre la luna
stava per tramontare dietro il grande deserto del Sahara.. In poche parole,
quelle erano le ore antilucane, un orario non consueto e fuori
dell’ordinario per dei turisti come noi. Appena partiti, quasi subito
alcuni escursionisti, compreso lo scrivente, ci siamo riaddormentati e
quando siamo giunti alle porte della città di Tunisi, il sole era alto nel
cielo. La visita della città di Tunisi e del grazioso paesino di Sidi Bau
Said è un’altra delle escursioni giornaliere che normalmente i tour
operetor propongono a chi soggiorna sulla costa.
E' stata un'occasione per immergersi nei colori e nei profumi che offrono
le affollate viuzze della Medina vero cuore pulsante, al di la dei turisti
che vi si aggirano, del modo di sentire e concepire la vita dei popoli
arabi, con una spruzzo di archeologia legata alla visita del Museo del
Bardo e del Parco archeologico di Cartagine per concludere la giornata con
la visita del caratteristico paesino di Sidi Bou Said, immerso nei suoi
tenui colori pastello con tonalità bianche e azzurre che sembrano
proiettarlo in una dimensione unica con il mare sottostante che sovrasta
dalla cima di una collina verdeggiante. La moderna Tunisi, che esisteva già
all'epoca di Cartagine con l'antico nome di Tynes, è arrivata oggi ad
inglobare con i sui sobborghi di candide villette immerse in quieti
giardini ad inglobare le antiche rovine della città fenicia che così
tenacemente contrastò lo sviluppo di Roma nell'area mediterranea, ma lo
scarso interesse che vi posero i romani dopo la definitiva conquista della
zona fece si che il vero sviluppo della città avvenne solo dopo la
conquista mussulmana, così che oggi Tunisi rimane fondamentalmente una
città araba con nessuna traccia del periodo romano e bizantino.
E' con la costruzione della Grande Moschea di Zitouna ( Moschea dell'Ulivo
) risalente al 732 d. C. che si può collocare l'inizio del vero e proprio
sviluppo della città di Tunisi. La moschea, utilizzata ancora oggi per il
culto è visitabile solo nel cortile interno con il suo bel colonnato a
fregi geometrici, è il cuore dell’antico souq ed è la prima tappa della
visita nella medina. Un interessante prospettiva si può godere dall’alto
salendo sui tetti dei bazar che la circondano, dove è possibile trovare le
scale d’accesso senza una guida che sappia districarsi tra viuzze e
portici, aggirare fra montagne di tappeti e dare uno sguardo compiacente
che concede il passaggio sperando in un buon affare al ritorno. Tetti che
di perse rappresentano tante delle piccole opere d’arte arricchiti con
finissime decorazioni realizzate con mattonelle di ceramica dipinte a mano
a formare colonne, archi e piccole finestre affacciate su viuzze e cortili
sottostante andirivieni. Terminata la visita della moschea abbiamo
girovagato, aggirandoci per la medina, stando sempre uniti a non perderci
in quell’autentico labirinto di stradine, lasciandoci trasportare in un
caleidoscopio di colori, profumi e sapori che da ogni angolo attiravano la
nostra attenzione in un susseguirsi di piccole mosche, portoni, piccoli
bar, bazar di tutti i tipi e carichi di ogni genere di merce. Quando ci
siamo stancati di girare, la nostra guida ci ha portati a visitare il Museo
del Bordo, uno dei musei più importanti al mondo per la sua collezione di
maschere e mosaici romani realizzati tra il II e IV secolo e ritrovati
durante gli scavi archeologici condotti negli anni nei vari siti ubicati in
Tunisia. Il museo è poco lontano dal centro ed è situato nel Palazzo del
Bardo residenza ufficiale dei bey husseniti, le sue sale sono organizzate
per periodi storici ed ospitano reperti risalenti ai periodi Preistorici,
Punici, Cartaginesi, Romani e Proto-Cristiani. Alcune sale prendono il nome
dai grandi e maestosi mosaici che ospitano come la sala di Bacco e Arianna
il cui mosaico, che occupa tutta una parte, è stato ritrovato nella casa di
Ulisse a Dougga in cui l’eroe è legato all’albero della sua nave per
resistere al canto delle sirene. Quel grandioso e meraviglioso mosaico, per
un momento, mi ha riportato in dietro nel tempo e mi ha fatto rivivere nel
ricordo lo stretto di Messina, Scilla e Cariddi, la costa Viola e la My Old
Calabria. In un’altra sala abbiamo ammirato con molto interesse un mosaico
molto interessante dal punto di vista storico in cui è raffigurato il poeta
Virgilio che regge in mano l’Eneide seduti tra le sue due Melpomene
(tragedia). Anche questo mosaico ci ha richiamato alla bella Mantova e
ripensando ai versi del poeta:
……
primis Idumeas referam tibi, Manta, palas
Et vividi in campo templum de marmore ponam
Propter aquam, tardis ingens ubi flexibus errat
Mincius, et tenera praetexit haurundine ripas”.
Adesso per completare la visita non manca che il parco archeologico di
Cartagine. In questa visita, ci ha detto la nostra guida: “ Non aspettatevi
comunque grandi cose, perché la maestosa città fenicia venne rasa al suolo
subito dopo la conquista romana e di quella rimangono che pochi resti, tra
cui quelli meglio conservati riguardo le Terme fatte edificare da Antonino
sul mare”. Più interessante si è rivelata la visita del caratteristico
paesino di Sidi Bou Said a circa 17 km. da Tunisi. Visitando questo
villaggio, abbiamo constatato molto da vicino che si rivelano le atmosfere
dei paesi delle isole greche, dall’architettura delle case ai toni pastello
bianco alle piante che si fanno largo tra una casa all’altra dentro
minuscoli giardini ed è stato un vero piacere passeggiare e fermarsi a bere
un tè in dei bar che sulla piazzetta principale si affacciano a picco sul
mare sopra il paese. Ammirando quel paesaggio, ci sembrava di essere su di
un affaccio dei tanti piccoli paesini che si affacciano sulla costa
Amalfitana, come Vietri, Maiori, Ravello o Amalfi.
Le cascate del Dardagna
17 Aprile 2005.
Per concludere in bellezza le escursioni invernali di quest'anno, il CAI di
Mantova, sotto la guida sapiente dell'amico Sandro Zanellini e dei suoi
bravissimi collaboratori, ha organizzato una bellissima escursione
nell'Appennino Bolognese e precisamente nel Parco Regionale Corno delle
Scale, dove si possono ammirare oltre ad uno stupendo paesaggio collinare e
montano, le più belle cascate del Dardagna,inserite nel quadro del Parco.
Regionale.
Le previsioni meteorologiche del giorno precedente non erano delle migliori
e non promettevano nulla di buono. Nelle ore antilucane, quando ci siamo
alzati, il cielo era completamente sgombro di nuvole e le stelle in cielo
erano splendenti. Subito dopo che il grosso torpedone ha lasciato il
piazzale Mondatori di Mantova, verso oriente il cielo incominciava a
tingersi da quel bel colore rosato, come succede immediatamente prima del
sorgere del sole, quindi, come era successo la settimana precedente,
c'erano tutti i presupposti, per trascorrere una stupenda giornata
sull'Appennino Bolognese, dove eravamo diretti.
Dopo la località di Sasso Marconi, dove abbiamo lasciato l'Autostrada per
Firenze, abbiamo imboccato la provinciale che porta a Porretta Terme,
Gaggio Montano, e al Santuario della Madonna dell'Acero. Prima di superare
le prime balze montagnose per raggiungere il Santuario della Madonna
dell'Acero,abbiamo attraversato la meravigliosa e bellissima vallata dove
scorre il torrente Dardagna. Quella è una valle ampia e aperta, dove erano
fioriti i ciliegi, il prugno, il melo e le altre piante da frutta, mentre
gli appezzamenti seminati a grano erano di un verde scuro bellissimo. Pure
le piante del bosco incominciavano a germogliare, mentre il sole tiepido
illuminava l'intera vallata. Davanti ai nostri occhi scorrono, come nella
sequenza di un film, i lindi borghi e i paesini barbicati sui colli e
illuminati dal sole primaverile. Più avanti incontriamo l'antico centro
storico e agricolo di Marzabotto, di origine etrusca (VI secolo. a.C.) e
forse denominata Misa. Distrutta dai Galli nel IV secolo a.C. Durante la
seconda guerra mondiale due reggimenti di SS, guidati dal maggiore tedesco
Walter Reder, circondarono il comune di Marzabotto e trucidarono per
rappresaglia 1.836 civili ( 29 settembre - 5 ottobre 1944), i cui resti
sono custoditi in un ossario. In un'altra escursione culturale, abbiamo
visitato questo borgo etrusco. E' ben riconoscibile la pianta della città a
schema ottagonale. Restano avanzi della cinta muraria e, sull'acropoli,
tracce di edifici sacri; due le necropoli esplorate. I materiali rinvenuti
nella zona erano conservati in un museo gravemente danneggiato durante la
seconda guerra mondiale. E' stato sostituito da un piccolo antiquarium.
Per un tratto , parallelo alla statale, corre la ferrovia Bologna -
Porretta Terme e, vedendo quel treno che procedeva lentamente verso quella
bella cittadina termale, è stato come un lampo, un flash di memoria che mi
ha catapultato indietro nel tempo,oppure sarà stato quel gradevole profumo
dei fiori di questa incipiente primavera e, un improvviso timore pervase il
mio animo. La cosa di cui mi ero accorto, che si palesava con insolita e
inspiegabile prepotenza, aveva a che vedere con lo scorrere del tempo
Avevo provato una sensazione simile molti anni prima, quando leggendo un
articolo sulle "Fiamme d'Argento", un mio collega rievocava quel tempo
lontano, quel tempo che non ritorna più e che aveva a che fare con la
nostra permanenza a Gaggio Montano. Le finestre della mio studio erano
aperte, vedevo un cielo senza nubi, di un azzurro pulito e intenso, come le
lunghe sere trascorse sotto la tenda "Canadese", sistemata sotto il
secolare castagno, vicino alla fontana termale. Oggi, che sono seduto sul
torpedone che ci sta portando al Parco Regionale Corno alle Scale, e
vedendo quel treno che corre quasi parallelo alla statale, ha risvegliato
in me i vecchi ricordi della giovinezza. Ahimé, troppi anni sono trascorsi
dal quel mese di luglio, quando a termine dell'anno accademico la Scuola
Sottufficiali dei Carabinieri di Firenze, per ritemprare lo spirito e le
membra, dei neo sottufficiali, a bordo di quel treno, abbiamo raggiunto
nelle prime ore del mattino la stazione ferroviaria di Porretta Terme, e da
qui, in fila indiana, preceduti dal Comandante della Scuola colonnello
Vinciguerra, a cavallo del suo destriero bianco, i due battaglioni
raggiungevamo il Campo d'Arma, sistemato sulle colline della Stazione di
villeggiatura di Gaggio Montano, a quota 575 metri di quota. Da quelle
colline si ammira un paesaggio meraviglioso, da dove l'occhio spazia nel
grande orizzonte e si perde fra le colline sottostanti. Quel piccolo centro
montano fu Patria dell'umanista Cola Montano. Su un'altura, a dominio
dell'abitato, faro e campana dei caduti attribuita al Giambologna.
Lasciamo questi ricordi, che fanno parte della nostra giovinezza e
ritorniamo a parlare della nostra escursione.
Abbiamo da poco lasciato la grande vallata verde ed in fiore e dopo una
serie di tornanti che ci hanno portati nel cuore della grande montagna dove
in conseguenza della grossa nevicata della notte precedente, abbiamo
trovato un paesaggio tutto diverso, un paesaggio invernale e un cielo
completamente coperto con una temperatura sotto lo zero. Ad appena nove
chilometri da Vidiciatico,in mezzo ad un grande faggeta ,si trova il
Santuario della Madonna dell'Acero. E' una suggestiva località circondata
da immense foreste di faggi e di abeti, posta ad un'altitudine di metri
1195.
Prima di iniziare la nostra escursione alle cascate del Dardagna, entriam a
piegare il ginocchi nel tempio della Madonna dell'Acero, Divina
dispensatrice di Grazie.
Il nome della località deriva da una vecchia stampa con l'immagine della
Beata Vergine vestita alla greca, affissa al tronco di un albero posto su
uno spiazzo nel XIV.
La leggenda narra che due fanciulli sordomuti, mentre erano intenti a
custodire il proprio gregge al pascolo, furono colti da un temporale e
trovarono rifugio sotto u enorme acero. Durante l'imperversare del maltempo
apparve la Madonna che fece loro acquistare l'udito e la favella. Intorno
all'Acero sorse così una cappelletta che racchiudeva l'albero sfrondato da
tutti i rami.
L'attuale suggestivo Santuario, realizzato in stile semplicissimo, come un
insieme di piccole case rurali che si trovano prevalentemente su queste
montagne, una accanto all'altra, a mo di antico villaggio chiuso, che
risale probabilmente al Medioevo. ( XVI e XVII) secolo.
Dal piazzale antistante il Santuario, che è un balcone panoramico, da dove
si ammira un paesaggio stupendo ed in fondo alla valle scorre il torrente
Dardagna, che nasce in un'ampia conca, racchiusa a sud da imponenti cime:
il Corno alle Scale di m. 2000, il Cornacchio m. 1881, il Capolino m. 1853
e lo Spigolino m. 1827. Le sue acque limpide si incuneano in una stretta
valle, in un ambiente estremamente selvaggio, tra boschi di faggio e ripide
pareti di roccia, che scendono impetuose formando una serie di sette
cascate di singolare bellezza.
Il nostro itinerario è iniziato dal Santuario della Madonna dell'Acero, da
quota 1195 metri. Dall'acero secolare, simbolo del Santuario, che fa bella
vista di se proprio dietro il campanile, e proprio da questo punto parte il
sentiero nr. 331 che conduce alle sette cascate. La lunga e rutilante fila
degli escursionisti del CAI, ci siamo incamminati su di un sentiero coperto
di neve fresca molto difficoltoso. Quello che doveva essere un sentiero
forestale, che attraversa un fitto bosco di coniferi e di antichi faggi,
che s'immette sul sentiero che costeggia la riva destra del fiume, non era
altro che un terreno uniforme livellato e coperto dalla neve. Adriana ed
io, che come al solito siamo rimasti a chiudere la lunga fila dei "caini",
dopo qualche ora di cammino, visto che il sentiero si era reso
impraticabile, abbiamo fatto marcia indietro, raggiungendo la località di
partenza, dove era parcheggiato il nostro torpedone. Quando abbiamo
raggiunto il luogo d'arrivo e di partenza, abbiamo effettuato una lunga
passeggiata nei paraggi alla scoperta di luoghi nuovi ed antichi. Alle ore
12, come prescritto sulla tabella di marcia, a bordo del pullman, abbiamo
raggiunto il rifugio Cavone, dove abbiamo consumato il pranzo. Per digerire
lo squisito piato di capriolo con la polenta, era necessario effettuare una
lunga passeggiata. Infatti, seguendo la strada provinciale, che attraversa
il Parco Regionale Corno alle Scale, dove si trovano gli impianti di
discesa, abbiamo raggiunto il rifugio Duca degli Abruzzi presso il Lago
Scaffaiolo, dove abbiamo incontrato i nostri amici, che uno alla volta,
molto provati, venivano fuori dal sentiero che dalle Cascate porta appunto
al rifugio Duca degli Abruzzi. In quella occasione ho tracciato sul mio
taccuino brevi versi per conservare il ricordo di quell'atmosfera
irripetibile, in quel luogo del silenzio, dove si ode solo il sibilo del
vento:
Nella montagna silenziosa e bianca di neve s'ode
La voce del vento della sera e in lontananza
Il belare di un capriolo che si dispera.
Un piagnucolare malinconico e lento,
quasi come il sibilar del vento.
Su una parete fragile di gelo
dove profuma un fiore senza stelo
Ma il belare del capriolo è una triste melodia
che a tutti i cuori porta tristezza e malinconia
Ma questi miei pensieri in questi luoghi del silenzio,
Si trasformano subito in poesia
Dai primi amici che abbiamo incontrato,abbiamo appreso che a causa della
abbondante nevicata della notte precedente, non è stato possibile
proseguire verso il Passo dei Tre Termini, al Monte Cornaccio ed infine
alla cima del Corno alle Scale. Il gruppo, oltre al presidente Sandro
Zanellini, ideatore di quest'escursione resasi impossibile completare per
cause naturali. era coadiuvato dei rispettivi coordinatori: Alberto Minelli,
(il probabile nuovo presidente del Cai) e Elio Mori. Per completare il
percorso breve,e consentire al resto del gruppo di raggiungere la meta è
stato necessario tracciare il sentiero, passo dopo passo, con gli scarponi
Se avessero portato le "racchette da neve" come spesso succede, forse, in
questo caso, sarebbero state molto utili, ma non si può tutto prevedere
nella vita.
Per ovviare a tutto questo, le bravissime guide, con l'aiuto di baldi
giovani escursionisti, hanno dovuto pestare la neve o meglio dire aprirsi
un varco, creando così un sentiero nel quale uno dietro l'altro hanno
raggiunto la strada provinciale, dove c'era il torpedone in attesa. Senza
dubbio, è stata una escursione molto faticosa.
Tutto questo disagio si poteva leggere sul volto degli escursionisti e
soprattutto su quello degli amici Sandro Zanellini, Carlo Borghi e Alberto
Minelli, che sono considerati i guri carismatici della montagna. Insomma, i
nostri amici erano molto provati, ma nel contempo felici di aver in parte
portato a termine l'escursione alla quale ci tenevano moltissimo.
La lunga sosta al rifugio Cavone, la cordialità del gestore, lo spuntino e
la polenta calda con capriolo e formaggio, il tepore del rifugio e un buon
bicchiere di vino, hanno contribuito moltissimo a far ricuperare il vigore
fisico, ma soprattutto ha contribuito molto l'aria fresca e pura della
montagna a fare ritornare il colorito e soprattutto il sorriso sulle labbra
degli amici escursionisti mantovani.
In questa giornata d'incipiente primavera, è successo di tutto, è nevicato,
grandinato e persino il sole ha fatto capolino dietro le nuvole, ma quello
non era il sole di primavera, ma di una giornata fredda e nera da
dimenticare.
Vedendo tutto quel mondo bianco di neve, silenzioso e disabitato, che aveva
l'apparenza di un sogno. A tratti una voce pareva ripetermi le parole di
Khalil Gibran:
Forse hai sentito parlare della montagna
Benedetta. Qualora tu ne raggiungessi
mai la cima, proverai un solo desiderio:
scendere e ritrovarti con chi abita a valle.
Ecco perché si chiama la montagna benedetta.
Ma il dolore che cos’è?
A questo punto viene da chiederci:”Ma il dolore che cos’é?”
In questo nostro contesto, abbiamo voluto raccontare le sensazioni di un
paziente nei giorni successivi ad un delicato intervento chirurgico, ma ci
siamo domandati, ma che cosa è il dolore? Il dolore è sofferenza fisica,
sentimento di pena, di affezione, sofferenza morale, pentimento,
contrazione, ma la vita umana, per modo di dire, è composta e intessuta,
parte di dolore, parte di noia ( Leopardi), quindi il dolore oltre che
fisico lo riscontriamo nella letteratura e nella poesia. Allusione
letteraria: Poscia, più che ‘I dolor, potè ‘il digiuno, parole in cui il
conte Ugolino conclude il racconto della sua tragica morte ((Dante, Inf .
XXXIII,75), ma anche nella filosofia – Nel Fedone, Platone cerca di
dimostrare come dolore e piacere nascono in qualche modo l’uno dall’altro;
secondo Aristotole si ha il piacere quando l’individuo si realizza secondo
la sua natura, e all’opposto si ha uno stato di dolore quando l’individuo
agisce contrariamente alla sua natura, cioè per difetto o per accesso.
Secondo i filosofi pessimisti, come Schopenhauer, solo il dolore è reale,
mentre il piacere altro non è che la sua provvisoria assenza: secondo
costoro il dolore manifesta l’universale volontà di vivere. Per i filosofi
ottimisti, come Epicureo, gli unici valori della vita sono il piacere e la
felicità, mentre il dolore è un disvalore, è il male, che bisogna ridurre
mediante un esercizio costante della volontà e dell’intelletto. Oggigiorno
il dolore è visto sotto diversi aspetti: come dolore essenzialmente
fisiologico ( mal di denti) che implica un minimo di emozione psicologica;
come dolore essenzialmente psicologico, emozione implicante una
ripercussione fisiologica. La tradizionale distinzione tra dolore “ fisico”
e dolore “morale” deve quindi essere attenuata, perché ogni dolore di volta
in volta presenta una interiorità coscienziale e una esteriorità
fisiologica osservabili direttamente e rivela, con sfumature diverse,
l’unione profonda dell’elemento soggettivo con quello oggettivo.
A questo proposito, è stato chiesto da una studentessa al prof. Ferrosi,
docente di letteratura all’Università di "La Sapienza" di Roma, se un dolore
molto forte, è legata sicuramente la disperazione. L’uomo può risalire da
questa baratro dell’animo e tornare quindi alla tranquillità delle cose?
Secondo Lei, questa tranquillità può essere del tutto restaurata? Egli ha
così risposto:
“In genere, se guardiamo all'esperienza poetica, credo di no, perché in
fondo la poesia promette anche, in un certo senso, consolazione dal dolore
. Uno dei più grandi poeti della tradizione italiana, che Leopardi amava
moltissimo, cioè Petrarca, in un suo famoso verso, dice: "Perché cantando
il duol si disacerba", perché cantando, appunto, con la poesia il dolore
perde la sua acerbità. Però non svanisce, non sparisce insomma. Un senso di
impossibilità di conciliazione resta inevitabilmente. E' impossibile essere
veramente tranquilli. Questa è la condizione umana. Però la poesia, come
tante altre forme culturali, in fondo ci aiutano a superare parzialmente il
nostro rapporto anche brutale, immediato, con la violenza della natura. La
natura di per sé, - Leopardi insiste tanto su questo - non è un elemento
positivo. Contiene, produce assolutamente non tanto il male, quanto
l'indifferenza. Esiste una contraddizione radicale, costitutiva, tra
l'uomo, la sua cultura, le attese che ha dalla vita e invece la condizione
naturale. Da questa contraddizione non si esce, però le forme culturali in
qualche modo sono come degli argini per superare parzialmente, per creare
una comunità civile, quella che Leopardi chiama "la social catena", che
però riesce a sostenersi, a vivere, ad essere tale, solo se è cosciente dei
limiti dell'umano. Mentre chi crede che appunto la tranquillità sia
possibile totalmente inventa miti che possono essere illusori, ingannatori
e possono produrre nuova violenza. Quindi dal dolore non si esce mai
totalmente, però abbiamo dei mezzi -e la società andando avanti ne accumula
sempre di più - per, controllarlo e tenerlo a distanza. E noi, tra l'altro,
siamo molto più fortunati, che tutti i nostri antenati fino a pochi decenni
fa - perché, tra l'altro, abbiamo gli anestetici; tra gli altri oggetti
avevamo presentato, appunto, uno strumento chirurgico proprio per mostrare
come ci sia una certa ambiguità nell'uso dei mezzi per uscire dal dolore .
Per uscire dal dolore , dalla malattia è stato necessario spesso creare
nuovo dolore, tagliare, amputare, intervenire. Ai tempi di Leopardi, se uno
aveva una cancrena a una gamba gliela tagliavano senza nessuna anestesia ,
come successe a tanti personaggi, come per esempio Piero Maroncelli,
prigioniero nel castello dello Spielberg insieme a Silvio Pellico che ne
parla ne Le mie prigioni. L'esperienza del dolore fisico era totale,
lacerante, ma anche l'esperienza per uscire dal dolore e dal pericolo della
morte era totale. Ora noi siamo particolarmente fortunati per cui abbiamo
perso, tra l'altro, perfino la capacità di sentire certi minimi dolori.
Abbiamo paura di tutto. Questo può essere anche pericoloso, però, in
effetti, siamo molto più fortunati degli uomini del passato e forse per
questo la nostra poesia contemporanea spesso finisce per creare immagini
artificiose dello stesso dolore, della stessa violenza, della stessa
sofferenza. Riportiamo qui di seguito il pensiero poetico di Leopardi
riguardo la sua concezione del dolore.
O natura cortese,
Son questi i doni tuoi,
Questi i diletti sono
Che tu poi porgi ai mortali. Uscir di pena
è diletto fra noi,
Pene tu spargi a larga mano; il duolo
Spontaneo sorge: e di piacer, quel tanto
Che per mostro e miracolo talvolta
Nasce d'affanno, è gran guadagno. Umana
Prole, cara agli eterni! assai felice
Se respirar ti lice
D'alcun dolor: beata,
Se te d'ogni dolor, morte risana.
Piacer figlio d'affanno;
Gioia vana, ch' è frutto
Del passato timore, onde si scosse
E paventò la morte
Chi la vita aborrìa;
Onde il lungo tormento,
Fredde, tacite, smorte,
Sudar le genti e palpitar, vedendo
Mossi alle nostre offese
F O natura cortese,
Son questi i doni tuoi,
Questi i diletti sono
Che tu poi porgi ai mortali. Uscir di pena
è diletto fra noi,
Pene tu spargi a larga mano; il duolo
Spontaneo sorge: e di piacer, quel tanto
Che per mostro e miracolo talvolta
Nasce d'affanno, è gran guadagno.
A due passi dall'inferno
Può capitare di trovarsi all'improvviso a due passi dall'inferno, sotto i
fari rotondi e cristallini di una fredda sala operatoria, sdraiati con la
sola consapevolezza della fragilità del nostro rivestimento corporeo.
L'ambiente color verde acqua dovrebbe infondere serenità e invece si viene
martoriati da una serie infinita e varia di aghi che scavano ai confini
dell'anima e sfilano vene tirandole come fili d'acciaio. Ma le vene, per
loro natura delicate a volte si spezzano e allora dolori sordi e profondi
s'insinuano nella carne e varcano la soglia dell'essere riducendo il corpo
in una massa informe di fibre.
Al terzo lungo respiro viene a mancare il naturale ossigeno e la bocca
s'irrigidisce come un sasso, si percepisce coscientemente la rigidità
cadaverica, l'arresto della vita, l'impotenza totale e il buio.
L'anestesia inizia il sui decorso e sulla massa di carne avviene il
martirio. Voci indefinite e luci sfocate accompagnano un semi cosciente
ritorno alla vita, brividi di ghiaccio bollente invadono ossa e carne
amalgamate in un tutto informe, mentre, la pressione sale e scende
vorticosamente. Aghi e aghetti di ogni tipo e dimensioni vengono introdotti
in un corpo che chiede pace e silenzio, poi il dormiveglia
nell'avvolgimento di tubi,tubicini di plastica e cateteri non da
possibilità di alcun movimento. Il lungo filo del drenaggio fa scorrere
sangue marcio e putrido e quando viene staccato dal corpo con un colpo
secco e come se sfilassero le viscere interne in un dolore inaccettabile.
Dolori di ogni tipo bussano alla porta e il male mette in ginocchio a tal
punto che anche il pianto non è possibile perché a sua volta provocherebbe
ulteriori contrazioni ancora più dolorose. Al paziente non è consentito il
pianto, già, dicono si deve essere forti, sopportare. D'altra parte
l'antidolorifico somministrato evita le emorragie ma fa contrarre i muscoli
interni provocando pari dolori.
Il silenzio e il buio sono gli unici compagni che scandiscono le ore
interminabili, mentre fuori, brilla il sole e la vita continua.
I pensieri mettono a dura prova l'essere umano riproponendo alla coscienza
tutti i quesiti del vivere, tutti i perché dell'esistenza e si procede in
un cammino di fede e di ricerca del proprio io interiore, a sostegno di
qualcosa di ancora integro che possa sostenere un corpo martorizzato.
Il giorno dopo leggiamo sui quotidiani che la tecnologia scientifica fa
passi da giganti e che la priorità del sistema sanitario è: " il paziente
non deve soffrire", "la cultura del dolore dev'essere prioritaria", " prima
di tutto viene il benessere del paziente". Che siano solo belle parole?
Ma la Sanità, gioca le sue due carte vincenti: in pre-ricovero, day
hospital, con uno scrupoloso elettrocardiogramma testa che il cuore del
malato sia in grado di essere sottoposto a tutte le angherie: in segui
vengono richieste svariate firme su liberatorie in cui il paziente viene
messo in condizione di assumersi ogni responsabilità su qualsiasi tipo di
imprevisto che potrebbe intercorrere durante l'intervento, dispensando così
in modo totale la struttura sanitaria e gli operatori. Alle richieste di
spiegazioni, viene detto con tono orgoglioso che la prassi moderna offre
una " totale consapevolezza del degente". Quando l'intervento ha esito
positivo, il chirurgo, di verde vestito, con un lungo sospiro di
soddisfazione batte una mano sulla spalla de paziente dicendogli " Ci ha
fatto veramente tribolare, è stata dura, ma ce l'abbiamo fatta".
La vita riprende, talvolta con postumi, ma tutto bene, anche se negli occhi
brillano ancora i fari rotondi e cristallini della sala operatoria, ma
avevamo previsto anche questo tra le firme all'accettazione consapevole.
Concludendo: la Sanità è dalla parte del paziente, sempre, tutto chiaro,
non si nasconde nulla, né soprattutto il dolore.
I sentieri della fede
Dopo l'esperienza nel Nord d'Africa, con l'antica città di Tunisi e la
grande Moschea di Zitouna, i famosi carruggi e le piccole opere d'arte
arricchiti con finissime decorazioni realizzate con mattonelle di ceramica
dipinti a mano a formare colonne, archi e piccole finestre affacciate su
viuzze e cortili sottostanti brulicanti di un incessante andirivieni di
turisti internazionali. Girovagando in una miriade di viuzze della medina
con il rischio di perdersi nell'autentico labirinto di stradine, nel cuore
dell'antico souq e della medina, all'ombra degli alti minareti ed il suo
mare azzurro, dove ci siamo lasciati trasportare in un caleidoscopio di
colori, profumi, piccole moschee, portoni colorati, piccoli bar, bazar di
ogni genere di merce e poi c'è la cordialità della gente tunisina. Eravamo
là,dove cielo e mare si fondono in quelle immense spiagge assolate e le
bianche cittadine che punteggiano la grande costa litoranea. Tutto questo
ci è rimasto impresso nel cuore dell'antico souq e della medina. Gli alti
minareti e le basse colline verdeggianti con gli antichi uliveti, con il
deserto del Sahara , le sue dune bruciate dal sole, le sue cime rossastre e
i meravigliosi paesaggi di paradisi terrestri e d'inferni infernali. Dopo
di aver ammirato tutto questo, siamo ritornati nella nostra bellissima ,
brumosa ed afosa Val Padana, che non è la regione dei colori velati dalla
nebbia, ma è un susseguirsi di panorami incantevoli e sensazioni
suggestive, quasi al limite dell'irreale. Per quest'anno le nostre ferie
sono terminate, ma a riempire il nostro tempo libero ci rimangono le lunghe
passeggiate sui sentieri dolomitici. Questa nostra prima uscita, dopo le
lunghe vacanze estive, oggi 18 agosto, siamo saliti fin quassù in cima a
questa rupe dantesca in pellegrinaggio, al Santuario della Corona, per
incontrare Gesù, mentre a Colonia dal 16 al 21 agosto, si svolgerà la XX
giornata della Gioventù. Naturalmente, noi non siamo più tanto giovani, per
affrontare un viaggio così faticoso in una marea festante di giovani
provenienti da tutto il mondo in quella bellissima città della Germania,
però, possiamo incontrare Gesù anche qui, fra le nostre meravigliose
montagne del Monte Baldo, dove il Santuario della Corona, è incastonato
nella cavità dell'aspra montagna , in questa giornata mondiale della
Gioventù,dedicata all'adorazione e alla contemplazione di Dio.
Adriana ed io, come ogni giovane, come ogni altra persona, per dare un
senso alla propria vita, come fecero i Magi, deve mettersi in cammino e,
come Marta e Maria, deve darsi da fare nelle cose materiali come in quelle
spirituali. Il cammino, però, non può essere improvvisato; ci si deve far
guidare da Cristo che è la stella, colui che ci rinfranca nel nostro
cammino e il pane della vita che ci nutre in ogni Eucaristia. Con questo
sentimento volevamo affrontare il percorso lungo la scalinata che da
Brentino conduce al Santuario in pellegrinaggio, un percorso che abbiamo
percorso molte volte, ma oggi, dato la nostra età non giovanile, abbiamo
preferito raggiungere il santuario con la nostra utilitaria.
Prima di addentraci nel nostro racconto, dobbiamo spiegare dove sorge il
santuario della Corona. Esso sorge sul Monte Baldo ed è dedicato alla
Madonna Addolorata. Viene detto " della Corona" ed è costruito in uno
spiazzo incavato in una parete di roccia, sporgente su di un dirupo di 400
metri. La storia ci racconta che nel Medioevo fu meta di credenti, sorse
per venerare un'antica statua della Madonna Addolorata. La tradizione vuole
che l'effige apparve prodigiosamente tra le rocce del Monte Baldo la notte
del 24 giugno del 1522; altrimenti la presenza della statua si spiega come
dono di un ex - voto agli eremiti della Corona.
Oltre al santuario, dove la statua è esposta al centro dell'abside, si
trovano la Cappella delle Confessioni e la Scala Santa, formata da 28
gradini da salire in ginocchio, per meditare la Passione di Cristo.
Enrico Maria Beraudo, parlando dell' Adorazione e contemplazione, che sono
concetti che ci sembrano sorpassati. Eppure è proprio questo ciò che il
Papa domanda ai giovani, come si coglie dal tema di questa XX Giornata
Mondiale della Gioventù . Egli così scrive:
" Siamo venuti per adorarlo". Questa frase, riportata dall'evangelista
Matteo, è stata detta dai Magi, e proprio i Magi sono stati presi dal Papa
come modello per i giovani.
Come i Magi donarono a Gesù oro, incenso e mirra, il Papa invita i giovani
a donare a Cristo la propria libertà, la propria preghiera, il proprio
affetto, e riconoscerlo come Dio, abbandonando le viarie forme di idolatria
che ci presenta il mondo d'oggi. Tale atteggiamento richiede certamente una
conversione continua, sull'esempio dei Magi stessi che tornarono ai loro
paesi per un'altra strada. Infatti, l'incontro con Gesù, il Cristo, cambia
in profondità e dona il coraggio di compiere scelte coraggiose di
testimonianza della fede negli ambienti in cui si vive.
Non è stata la prima volta che siamo saliti fin quassù alla Corona e forse,
non sarà neppure l'ultima. Fino a quando le nostre forze ce lo
consentiranno e persiste in noi lo stesso spirito religioso, continueremo a
salire con la stessa devozione di sempre, per piegar il ginocchio davanti
alla Vergine Maria .
La prima volta che siamo saliti fin quassù, se non erro, è stata molti anni
fa e precisamente nella primavera del 1995, quando stavano spuntato i primi
fiori profumati e le cince chiassose che volavano da un ramo all'altro del
grande bosco di conifere. Seguivamo la lunga e chiassosa scolaresca delle
elementari di Campitello, con gli insegnanti e le madri dei ragazzi. Dopo
quella volta, ci siamo ritornati ancora più volte con lo stesso entusiasmo
di sempre. Molti scrittori hanno scritto del santuario della Madonna della
Corona, ma l'articolo di Carmen Santi, ci è piaciuto moltissimo, perché
rispecchia la realtà dei luoghi e soprattutto del paesaggio. E'un
godibilissimo racconto che porta il lettore ad immaginare di trovarsi in
quei luoghi della fede senza esserci mai stato.
"Ci si stacca da Brentino Bellunese, lungo la via del Santuario. L'inizio è
a gradoni, di quelli lunghi che tagliano il fiato.. Subito la strada
diventa sentiero e salendo si accorcia il passo. La prima sosta alla croce.
Quella che si vede dall'Autobrennero e che non sembrava così grande. Poi di
nuovo in mezzo ai sassi. E mentre cammini ci pensi, a come si è riusciti a
costruirlo là, in alto. E ti chiedi se qualcuno è mai caduto in quel
crepaccio, perché ora ci sei sopra e ti fa un po' paura. E cosa cercavano
gli eremiti che per secoli ci sono andati. E forse, oggi, mentre cammini,
cerchi qualcosa anche tu.
Il sole è più lento e butta innanzi le nostre ombre, cosicché ci camminiamo
sul cuore. Alziamo la testa e guardiamo se ci si avvicina, ma il santuario
non c'è più,è nascosto dietro la piega del Monte Cino. La strada è tutta
uguale. Ma lungo la via scorrono i misteri del rosario. Le parole sono
difficili e il cammino ancora lungo.
Ci si ferma, il bosco è finito. Sulla fiancata del monte ci voltiamo a
guardare la Val d'Adige, con la sua geometria perfetta dei suoi vigneti e
frutteti e il fiume che scorre silenziosamente. Si distinguono persino le
sue volute, che ti da l'impressione di vedere un grande serpente
addormentato tanto che ne distingue persino l'azzurro. Quella stessa che
tante volte abbiamo attraversato ad andatura di crociera con il pesante
pullman del Cai, che ti porta sulle grandi montagne dolomitici per le
nostre escursioni sulla neve o sui sentieri che attraversano i luoghi più
belli, per trascorrere una giornata a contatto con la meravigliosa natura.
Quando il cielo è sereno ed il sole sta spuntando da dietro le alte cime,
lo vediamo illuminato dai primi raggi del sole. Sembra legato ad un filo di
lana e ti sembra che da un momento all'altro possa precipitare nel vuoto.
Altre volte, quando il cielo è coperto non riesci neppure ad individuarlo,
ma sai che c'è.e questo ti riempie l'anima di gioia.
" Il sentiero torna gradinata e le rampe conducono ad una grottina. Due
foto di bambini sono state messe là, sotto una pietà del Michelangelo.
Fiori di carta e devozioni. Si sfoglia il quaderno delle firme di chi è già
passato, frugando nei nomi e nei pensieri. Sembra che lì, ci sia
qualcos'altro, qualche altra storia, che non è la tua, ma che, in qualche
modo, ti appartiene.
Percorriamo gli ultimi degli oltre millecinquecento gradini che abbiamo
fatto oggi, e poi Madonna della Corona. Lassù é silenzio. Perché è silenzio
quello fermo dalla roccia in cui è scolpita, quello immortalato nelle
stazioni di bronzo della via Crucis".
E' silenzio dappertutto, fuori e dentro il Santuario. Ma che cosa è il
silenzio? Il poeta, parlando del silenzio, ha così scritto:
" Il silenzio è un lembo di cielo che/
scende verso l'uomo. Viene dai /
grandi spazi interstellari, dalle marine/
senza risucchi della luna fredda./
Viene di là dai templi, dalle/
epoche anteriori ai mondi, dai/
luoghi dove i mondi più non esistono./
nelle regioni inaccessibili, dove Dio/
riposa in noi."
Come tutte le domeniche, quassù al santuario della Corona, c'è una lunga
fila di fedeli che sono saliti da Brentino o come abbiamo fatto noi oggi,
sono scesi da Spiazzi con il piccolo pulmino- navetta. I turisti e i
fedeli, lasciano l'autovettura nel parcheggio e scendono al santuario a
piedi o con il mezzo pubblico. Nel silenzio della bellissima chiesa, quello
dolce delle donne anziane e di giovani ragazze, con in mano la corona del
rosario. Siamo saliti tutti fin quassù per piegare il ginocchio davanti
alla Vergine Maria, per pregare e chiede qualche grazia. Anche noi, abbiamo
chiedere una grazia alla Madonna, ma qui alla Corona non si viene soltanto
per chiedere la grazia, anche se numerose sono le tavolette ex voto esposte
nella navata della chiesa. E un momento di riflessione, ma anche una
parentesi per riposarsi, per ritrovarsi.
Abbiamo rivisto alcuni vecchi amici, gente che amano la montagna come noi,
e che una volta all'anno salgono fin quassù la lunga scalinata di
millecinquecento gradini, per ringraziare la Madonna. Io non ho chiesto
nulla,ho soltanto ringraziato la Vergine Santissima, per quello che ho
avuto, per ciò che mi è stato dato dalla vita. Una vita piena di rischi e
di pericoli, ma quello era il mio lavoro quale tutore dell'ordine e della
sicurezza pubblica. I pericoli erano sempre alla portata di mano, ma non ho
mai pensato al peggio. Adriana mia moglie, ha acceso una candela alla
Madonna, ha pregato molto a lungo per l'unica figlia che abbiamo, affinché
la Madonna la protegge sempre nel suo cammino, nel cammino della vita.
Quassù in alto, se ne tocca per un attimo il senso della vita. Si intravede
uno scorcio del suo segreto. Il vostro segreto scorrerà in torrenti a
cercare il fiume della vita.
E il fiume avvolgerà il vostro segreto e lo condurrà verso il grande mare,
il mare della vita,dalle parole di Gibran Kahlil Gibran.
Colosseo El -Jem
Dopo una settimana di permanenza nel villaggio turistico di Mahdia Beach
Club, che è situata a limitare della grande spiaggia di sabbia molto chiara
e che sembra borotalco per quanto sia fine, di fronte al ventilato mare
azzurro del Mediterraneo, con Adriana mia moglie e altri quattro amici
vacanzieri, decidiamo di partecipare ad una escursione nell'interno della
costa, alla scoperta del Colosseo El - Jem. Davanti al grande complesso di
Mahdia Beach, ogni cinque moniti di solito si ferma un taxi, si perché qui
in Tunisia si viaggia molto con il taxi, é il mezzo di locomozione più
economico che ti porta ovunque Nelle prime ore del pomeriggio del 10
Luglio, decidiamo di andare sulle colline di El Jem. Superato la cittadina
di Monastir, proseguiamo verso la cittadina moderna di Scusse. Man mano che
il vecchio taxi si allontanava verso l'interno e ci appaiono le prime
collinette che delimitano il lago di Sabkhet Sidi el Hani, un territori
quasi verdeggiante e coltivato ad uliveto, qualche piccolo vigneto ed altre
piante antropiche. Quella è una zona umida, dove gli aironi stanno di casa.
Seguendo la provinciale, incontriamo poche dune sabbiose e bruciate dal
sole. Le prime case che incontriamo nel nostro itinerario sono di solito
basse e rossi, delimitati da alte piante di palme che rendono il luogo più
fresco e naturalmente più vivibile. In un piccolo bar di periferia vi è
gente che gioca a dama, beve del te freddo alla menta e fuma il calomè
dell'amicizia. Il piccolo locale era saturo di fumo e una nuvola biancastra
copriva ogni cosa (Adriana ha detto: " Si vede che qui in Tunisia non vige
la legge antifumo come da noi con la Legge Sirchia); c'è l'oste dietro il
bancone alto con il piano di marmo rosa e con il fez sul capo. Sembra uno
dei tanti anonimi bar che s'incontrano nell'antico souq nella medina di
Tunisi oppure nel porticciolo di Mahdia, frequentato da pescatori tunisini
e siciliani, ma qui siamo lontani dal mare e gli avventori sono tutti
beduini che giungono dall'altopiano desertico del Sahara. Fuori, sotto una
piccola tettoia a mo di pergolato, sono legati i loro cammelli che ruminano
in continuazione. Mentre procediamo nella nostra escursione verso l'interno
della landa desertica, la luce diventa sempre più violenta, una luce quasi
accecante, tanto che bisogna proteggere gli occhi con gli occhiali scuri da
sole. Il giro continua sotto la vampata del sole, nell'alito pesante dello
"chergui": una specie di scirocco, che asciuga la bocca e fa increspare la
pelle. Quando giungiamo in una piccola oasi, un boschetto di palme, dove
magnifiche macchie di oleandri altissimi in fiore stendono un'ombra
accogliente e dove aleggia tutt'intorno un profumo delizioso di fiori. (E'
lo stesso profumo che l'anno scorso abbiamo percepito sulla piccola
spiaggia di Santa Maria Navarrese, sul golfo di Orosei, con le sue isolette
rosse e bruciate dal sole) , ci ripariamo là sotto con le stesse reazioni
di una carovana che giunga all'oasi dopo un mese di marcia nell'inferno
tunisino. Vicino alle modeste case costruite di fango e di pietre rosse
bruciate dal sole, in quel paesaggio lunare e metafisico, scorre pigramente
un canale dall'acqua verdastra, dove si abbeverano i cammelli. Infatti, una
piccola mandria di questi quadrupedi allo stato brado, sguazzano in quella
melma verdastra e si dissetano in quella pozza d'acqua quasi putrida. Una
pozza d'acqua stagnante e quasi salmastra.
Ognuno di noi, ha dietro una bottiglia d'acqua minerale. Ci dissetiamo e ci
riposiamo all'ombra del boschetto di palme. Più avanti c'è anche un piccolo
stagno con le erbe palustri, di quelle erbe che qui in Val Padana
germogliano lungo i fossi d'irrigazione o nelle località palustre del
Mincio. Nel piccolo borgo aspromontano di Cosoleto, mia madre Teresa, con
quelle erbe palustre impagliava le sedia di casa, la stessa cosa succede
anche qui nei villaggi tunisini.
Dopo una breve sosta, ripartiamo verso le colline riarse dal sole. Sotto
quelle colline scorgiamo un vasto accampamento di beduini, con le tende
marrone che si confondono con il terreno circostante. Alcune capre e
altrettanti asini neri e alcuni magri muli si aggirano alla ricerca di
qualche ciuffo d'erba. Un cane di media taglia di colore nero li segue in
silenzio, quando ci raggiungi ci annusa e non abbaia, si vede che è
abituato vedere dei turisti da queste parti. Nel cielo uno stormo di anatre
selvatiche sorvolano il luogo il territorio, mentre uno stormo di corvi
neri volteggiano sopra di noi. Più avanti, da un cespuglio di rovi, si
alzano in volo uno stormo di pernici dalle piume brune che d'inverno
diventano completamente bianche, sicuramente andavano alla ricerca di una
pozza d'acqua, in quella località arsa e bruciata dagli implacabili raggi
del sole. Alcune nubi bianche nel cielo accentuano la luminosità
dell'ambiente. Non ci fermiamo a parlare con i nomadi dell'accampamento,
perché abbiamo capito che vogliono essere lasciati in pace. Senza volerlo,
stavamo attraversando la regione del lago di Sebkhet Sidi el Hani. in
prossimità delle colline dietro le quali incontriamo un piccolo villaggio
anonimo che sorge vicino ad un piccolo lago salato che si chiama Sebket
Cherita, sulla strada che porta a EL JEM. La nostra guida decide di
fermarsi per visitare un piccolo laboratorio dove vengono tessuti i
tappeti. Ci fermiamo e in un cortiletto con i muri costruiti di fango come
le case del villaggio, veniamo ricevuti dalla padrona di casa: una signora
dell'apparente età di circa 60 anni e ancora giovanile, indossa un vestito
molto vaporoso di seta bianco che sembra una odalisca. Ci fa vedere la sua
casa fresca e accogliente, alcuni tappeti sul pavimento con parecchi
cuscini rossi; non ci sono sedie in quella stanza e sulle pareti notiamo
alcune fotografie di militari italiani, li conosciamo per l'uniforme
inconfondibile. Una di quelle fotografie riproduceva la figura di un
giovane e baldanzoso sergente d'artiglieria, con il pizzetto e la bustina
infilata sotto la spallina sinistra. La signora ci racconta che nel 1943,
anche da quelle parti sono passate le truppe tedesche e quelle italiane.
Sua madre ancora ragazza, si innamorò del sergente Antonio Trentinella,
nativo di Palmi Calabro, e l'anno successivo è nata lei. Ci chiediamo se ha
conosciuto suo padre e che fine abbia fatto. " Non ho mai conosciuto mio
padre, poiché è caduto in combattimento durante lo sbarco degli anglo
americani nella battaglia di Monastir, nel corso della seconda guerra
mondiale, fase finale delle operazioni svoltesi in territorio tunisino. Mi
sento italiana come voi e seguo tutti i programmi della vostra televisione
e gli avvenimenti politico - sociali del Paese". In passato, ha detto la
signora Mery Trentinella, una vera berbera dalle fattezze europee: " Ahimé!
molti anni fa, sono stata in Italia, sono andata per. conoscere i parenti
di mio padre e desideravano tanto che rimanesse lì con loro, ma qui nel
villaggio c'era rimasta mia madre da sola che aveva bisogno di me, così,
dopo un breve soggiorno a Palmi, ritornai nel mio villaggio. Si, mi è
piaciuto moltissimo il vostro Paese, siete veramente fortunati:è un
giardino". La signora Mery,ci vuole offrire una tazza di te alla menta con
la schiuma, come si usa da quelle parti quando ricevono degli ospiti.
Abbiamo capito che per lei eravamo degli ospiti molto importanti, perché ci
ricordava l'Italia, il paese di suo padre.
In quella stanza vi era un'ombra piacevole e la temperatura era fresca, se
confrontata con quella esterna. Su di una mensola fissata alla parete,
facevano bella mostra di se alcune bottiglie d'olio d'oliva. La padrona di
casa ci dice che quell'olio lo ha ricavato dalle olive prodotte da alcune
sue piante vicino alla collina. Prima di salutarla, ci ha fatto vedere il
suo piccolo laboratorio, dove ogni giorno intreccia i famosi tappeti
tunisini che sono famosi nel mondo. La salutiamo e proseguiamo la nostra
escursione verso El Jem Alcuni chilometri oltre il villaggio, in una forra
pietrosa e selvaggia si scorge una casa di beduini ombreggiata da un ciuffo
di palme, poi sbuchiamo in una valletta chiusa tra gli speroni rocciosi e
violacei della collina, dove sorge un altro villaggio di tunisini del
deserto tra un grosso palmeto, un oliveto e un campo di mandorli. Le case
sono quelle tradizionali, identiche alle altre che abbiamo incontrato
nell'architettura moresca , ma dipinte di bianco e di azzurro che portano
al paesaggio una nota di colore leggera e impertinente. Quella è una valle
povera e scarsa di risorse idriche e l'agricoltura e quasi inesistente e
costringe una buona parte dei giovani, ragazzi e ragazze a raggiungere ogni
giorno Monastir, Mahdia e Tunisi , oppure le città turistiche della costa,
dove svolgono la loro attività in qualità di camerieri o inservienti presso
i moderni alberghi che punteggiano la bellissima costa.
Il nostro taxi, condotto dal bravo Mahamed, che oltre a fare il taxista è
una brava guida turistica , veramente molto brava e preparata, ma
soprattutto é un giovane molto educato e rispettoso. Per
fortuna,l'automezzo è fornito di bevande fresche e dell'aria
condizionata,tanto che non ti sembra neppure di trovarti in quelle lande
infuocate. Lasciato l'altopiano e le piccole colline pietrose, l'automezzo
si è diretto verso una grande vallata, fiancheggiata da due colline
rocciose, dove germogliano alte palme e i contadini coltivano verdure. La
guida ci ha spiegato che quella è una piccola oasi. Su quell'altopiano
sorgeva appunto EL JEM. La nostra escursione, praticamente volgeva a
termine. Ancora pochi chilometri ed eccoti giunti. Al confine del Sahel e
della foresta d'uliveti, a 60 km da Suusse in direzione del Sfax si trova
appunto il meraviglioso villaggio di EL JEM. Esso un villaggio tipico
dell'entroterra tunisina, con le sue case basse e dipinte di bianco. Ogni
casa ha il suo giardinetto, dove coltivano i fiori profumati, come le rose
e le buganvillea: una pianta dicotiledone rampicante dai colori vivaci
coltivata a scopo ornamentale. L'autovettura si è fermata nella piazza
assolata del Colosseo. Nel centro di El Jem sorge l'imponente anfiteatro
romano noto col nome di Colosseo africano di grande interesse archeologico
ed artistico, ma anche di grande bellezza . Il Museo Archeologico, attiguo
all'area degli scava, ospita splendidi mosaici di ville romane. Il Colosseo,
è il più vasto complesso geologico del Maghreb. Questo meraviglioso
anfiteatro romano, misura 148 metri di lunghezza, 122 di larghezza e 36
metri d'altezza.
Un paio di giorni prima della nostra escursione a EL JEM, nell'anfiteatro
romano, sponsorizzato dalla Tim e trasmesso dalla Rai Uno, si è svolto un
concerto dall'orchestra e dal coro della Scala di Milano, diretto dal
maestro Muti, che hanno eseguito brani dell'opera "Il Mefistofile". A
questa eccezionale ricorrenza, alle porte del Sahara, nell'anfiteatro
Romano più bello del mondo, sono intervenuti le massime autorità tunisine e
personaggi dell'industria e della politica del nostro Paese. Questo
eccezionale concerto, è stato definito dal maestro Muti, il "Sahara e
l'amicizia".
In questa nostra escursione, tra cielo e terra, dove l'occhio si perde
all'orizzonte e si fonde con il mare, in questo paesaggio lunare e
metafisico, dopo di aver visitato il complesso storico dell'anfiteatro
romano, che sfiora le dune del grande deserto, che è uno spettacolo
bellissimo nella sua aridità totale dove il vento soffia forte e sposta le
dune del deserto, facendo cambiare persino la fisionomia del paesaggio.
Tutti sappiamo che cosa sia il Sahara: è un deserto privo di sbocco verso
l'esterno e i corsi d'acqua, incassati nei massicci montuosi, si perdono
poi nei loro stessi depositi alluvionali, in conche saline. Le pianure
delle regioni cristalline sono dominate da rilievi residuali; gli altopiani
sedimentari sono limitati da lunghe scarpate rocciose e le loro superfici,
spoglie e rocciose, formati i tavolati delle hamada. Le distese di ciottoli
prendono il nome di reg. La sabbia si accumula a forma di dune nelle conche
o vicino ai rilievi originando talvolta campi molto estesi detto erg, nei
quali le dune sono allineate in lunghe catene delle dorsali appuntite,
separate da stretti canaloni. Seguendo le piste polverose, si osservano nei
lati delle rocce rosse con la superfici levigate, striate e scannellature,
che rivelano l'azione erosiva di antichi ghiacciai oppure dal vento che
soffia in continuazione. Pensavamo di incontrare quelle lunghe carovane di
cammelli, ma siamo rimasti delusi. Le lunghe carovane sono state sostituite
dai moderni fuoristrada muniti da tutti i confort. Come ci spiega la nostra
guida, il nomadismo è ormai soltanto un fatto arcaico in continuo
arretramento, come la vita nelle oasi; l'acqua viene ottenuta grazie a dei
pozzi artesiani, quelli a bilanciere o a carrucola. L'integrazione del
Sahara nell'economia è stata consentita dallo sfruttamento delle grandi
ricchezze minerarie che esso racchiude. Petrolio e gas naturale.
Quel paesaggio astratto, metafisico e lunare del Sahara,che racchiude in se
tanta bellezza, ma soprattutto il fascino che ha suscitato in noi
occidentali non ha paragoni. Lo abbiamo definito un paesaggio astratto
perché é lontano dalla realtà, quindi è un paesaggio irreale e
meraviglioso, oltre che negli occhi, ci è rimasto scolpito nella mente,
perché noi occidentali non siamo abituati a vedere un gioiello di così
grande bellezza naturalistica.
Quando siamo rientrati al nostro albergo il sol era già tramontato ma per i
colori forti del tramonto rendevano il paesaggio meraviglioso e irreale. E'
sempre uno spettacolo assistere al calar di un astro al di là della linea
dell'orizzonte; in particolare, il calar del Sole. Quello spettacolo
offerto dai fenomeni luminosi che accompagnano tale momento della giornata
è impareggiabile.
" Di là della " facciata" moderna trapelano ancora - scendendo lungo le
strade e le piste del deserto - le strutture antiche. Nelle tende dei
Berberi , nelle città imperiali c'è ancora un mondo fertile di sensazioni".
La poesia è un brano di vita che viene imprigionato nella trama della
parola, mentre la sabbia rossa sottile e impalpabile del grande deserto del
Sahara, viene dal vento imprigionata nel instabile duna che ora c'è e
subito dopo sparisce nella trama della natura. La stessa cosa possiamo dire
della vita.
Val d'Anna e il silenzio
Con Adriana mia moglie e alcuni nostri amici,che non eravamo intenzionata
seguire la lunga e rutilante fila degli escursionisti, con il medesimo
torpedone, abbiamo raggiunto la linda e bellissima cittadina di Ortisei,
mentre il resto della comitiva, ha proseguito seguendo il sentiero numero
33, dal quale si raggiungerà quota 1993, il famoso sentiero n. 35 "Munkel
weg" con il quale si transiterà, per un buon tratto senza rilevanti
dislivelli, sotto le vertiginose pareti del versante nord delle Odle. Al
termine di questo sentiero si farà una breve sosta alla Malga Casnago m.
1996, per ammirare un panorama stupendo delle cime delle Odle. Dopo la
sosta, sempre sul sentiero nr. 35, si raggiungerà Malga Brogles m. 2045, si
inizia a scendere sul versante della Val Gardena transitando dalla stazione
intermedia della funivia del Saceda. A questo punto si può scegliere di
scendere a Ortisei con la stessa funivia o proseguire a piedi fino in
paese, dove sarà il pullman in attesa per riportare la comitiva a Mantova.
Dislivello in salita m. 500, in discesa m. 900 ( senza la funivia), durata
circa ore 5/6 ore. Coordinatori Maurizio Turazza e Sergio Goldoni.
Quando il nostro torpedone si è fermato nella bella cittadina di Ortisei,
il sole splendeva e rendeva più piacevole passeggiare lungo le sue linde
stradine e le piazzette del centro storico. Ortisei è il centro principale
della ladina Val Gardena, situata a 1.234 metri d'altezza, in una verde
conca montana dominata dal gruppo dolomitico del Sassolungo. E' un centro
industriale dell'artigianato artistico dell'intaglio su legno E'.
importante stazione di villeggiatura e di sport invernali. Seggiovie e
funivie raggiungono le cime più alte del comprensorio montagnoso. Nella
parrocchiale settecentesca di Sant'Ulrico, nella chiesa gotica di San
Giacomo e in quella barocca di Sant'Antonio, si trovano pregevoli
sculture lignee di artisti locali. Questa bellissima cittadina la
conoscevamo da molto tempo, ma in questi ultimi anni è stata completamente
ricostruita, tanto che facevamo fatica a riconoscerla. Per un momento, ci
sembrava di passeggiare lungo le strade della famosa cittadina di San
Moritz, con il suo famoso "Trenino rosso del Bernina.
A Ortisei non c'è il famoso "Trenino Rosso", ma in questi ultimi anni, è
stata costruita una scala mobile che attraversa, per mezzo di due gallerie
scavate nella roccia della montagna che collega la cittadina al terminale
della cabinovia del Saceda. Oltre che un capolavoro d'ingegneria, é una
vera opera d'arte, che arricchisce l'attrazione turistica della piccola
città ladina della Val Gardena.
Parlando dell'arte a Ortisei, da molti anni, esiste l'Accademia della
scultura. Passeggiando nel centro storico, abbiamo ammirato le bellissime
sculture del maestro Ernest Demez, che dopo di aver frequentato l'Istituto
d'Arte di Selva in Val Gardena dove si è diplomato nel 1974. Poco dopo ha
iniziato a insegnare scultura in legno presso lo stesso Istituto, dove
insegna tuttora.
Il tema fondamentale della sua produzione è la figura femminile. Si tratta
di opere eseguite con estro ed abilità tecnica in forme naturalistiche
accanto a espressioni scultoree molto semplici, tendenti all'astratto,
espressive, slanciate, alla ricerca della bella linea e dell'armonia delle
forme. Un altro materiale da lui prediletto è il bronzo, in cui realizza
per lo più opere di dimensioni ridotte. Ammirando le sue splendide opere in
legno, che sceglie minuziosamente nei boschi circostanti, realizza quelle
magnifiche opere. Noi non siamo veri scultori, ma in passato, abbiamo
plasmato l'argilla che ci ha dato tanta soddisfazione e le nostre piccole
opere sono state apprezzate dai critici dell'arte, conseguendo numerose
segnalazioni.
Il nostro piccolo gruppo, composto dal sottoscritto, da Adriana mia moglie,
dell'amica Teresa , Terzilla e Bruno, per raggiungere Val d'Anna, ci siamo
serviti da questa scala mobile, che in pochi minuti ci ha condotti nella
verde e meravigliosa Val d'Anna, dove un sentiero che costeggia un querulo
ruscello , ci ha portati dritti, dritti alla baita caffè Val d'Anna, che è
una vera oasi di pace per rilassarsi e recuperare energie con la gustosa
cucina ladina. Per concludere il pranzo,non poteva mancare il
caratteristico e gustoso strudel
Quello è il luogo del silenzio e della pace. Dopo il pranzo, seduti al sole
sulle sedie a sdraio, si percepisce persino il rumore del silenzio della
Val d'Anna.
"... Il silenzio comincia col far
Chiudere le labbra e poi penetra
Fino al profondo dell'anima,
nelle regioni inaccessibili, dove Dio riposa in noi."
La nostra non è stata una vera e propria escursione, ma una piacevole e
distensiva passeggiata, su di un sentiero pianeggiante da dove l'occhio
spaziava su di un paesaggio macchiato dell'azzurro del cielo e dal verde
dei suoi magnifici boschi.
Mentre a ritroso ripercorrevo quel sentiero ombreggiato dalle altissime
abetaie, "ho imparato dallo scorrere dell'acqua di quel querulo torrente
che il tempo non ritorna, e con esso il passato. Tutto è sempre nuovo ai
nostri occhi: nasciamo dal nulla, non sappiamo da dove veniamo e perché
esistiamo. Andiamo come il torrente lungo il cammino che qualcuno ha
tracciato per noi".
"Adesso io sono qui, in mezzo a questo paradiso terrestre, in questa oasi
di pace e di serenità, guidato dalla forza invisibile che governa il mondo,
e domani sarò in un altro posto, lontano da questa dimensione divina
Traversata del gruppo delle Odle
Per la prima volta dopo molti anni che siamo soci del CAI di Mantova, oggi
12 giugno 2005, abbiamo effettuato una bellissima escursione in Val Gardena
e la Val di Funes in collaborazione con il gruppo "Trekking" del Cral Poste
di Mantova. Si vede proprio che qualche cosa sta cambiando, con i nuovi
eletti del gruppo direttivo del vecchio e glorioso sodalizio. Infatti,
nelle elezione di qualche mese fa, è stato eletto il nuovo Presidente,
nella persona di Alberto Minelli,mentre la Vice Presidenza, è toccata al
nostro carissimo collega Lino Di Mauro, i quali si sono distinti
nell'ultimo triennio, per la loro serietà e professionalità. Ci associamo
al saluto del Presidente uscente Nello Zaniboni, (al quale va il nostro
personale saluto, il più cordiale e sincero per la sua costante e
costruttiva opera dedicata al nostro sodalizio, e soprattutto per la sua
grande simpatia, Grazie Presidente! Ti ricorderemo per la tua eclettica
personalità e soprattutto per le tue bellissime poesie, che in certi
momenti ci hanno fatto gioire e anche sorridere.) Al neo presidente, va il
nostro cordiale benvenuto e di buon lavoro,ma soprattutto per aver ben
organizzato e portato avanti nell'ultimo triennio con molto impegno il
gruppo dei fondisti e degli escursionisti sulla neve.
Dopo le lunghe passeggiate sulla neve di quest'inverno sull'altopiano di
Siusi, del Passo di Sanpellegrino e in altre magnifiche località delle
Dolomiti, finalmente abbiamo trovato una giornata libera per trascorrerla
con i nostri amici escursionisti sui sentieri freschi, bellissimi e
panoramici della Val di Funes e della Val Gardena.
La geografia, scienza che ha per oggetto la descrizione della Terra sia
nelle sue caratteristiche fisiche e climatiche, sia in riferimento alla sua
posizione nell'universo, sia in rapporto ai fenomeni connessi con la vita e
con l'attività dell'uomo, nel nostro caso nella descrizione del mondo
alpino e dolomitico, ci dice che la Val Gardena e la Valle di Funes sono
due meravigliose e famose valli parallele dell'Alto Adige, Questi valli
sono separate da una catena di montagne senza dubbio fra le più
spettacolari delle Dolomiti: le Odle. Questa catena di monti è una
frastagliata schiera di vette, culminanti con il Sass Rigais che si erge
sullo sfondo. " Odle", che in ladino significa "aghi", è un nome
particolarmente appropriato; dalla Val di Funes, infatti, queste vette
appaiono come una fitta serie di guglie e di spigoli affilati, in cui
predominano decisamente le linee verticali. Le due cime principali
affiancate sono il Sass Rigais, in cui predominano decisamente le linee
verticali, le due cime principali affiancate sono il Sass Rigais m. 3025 e
la Forchetta, di pochi metri più bassa. Queste cime sono celebri per aver
aperto nel 1925 l'era del 6^ grado. Inoltre sono state rese celebri dal
grande alpinista altoatesino, nativo della Val di Funes, Rheinold Messner,
che proprio su queste pareti ha mosso i primi passi guidato dal papà.
Naturalmente,noi non scaliamo quelle superbe e maestose cime come ha sempre
fatto il grande scalatore Rheinild Messner, ma possiamo affermare di
conoscerle molto bene per averle ammirate da una certa distanza. In
passato, siamo saliti fino alla forcella delle Odle e siamo scesi
attraverso il lungo e scosceso costone detto " il ghiaione", fino a
raggiungere la valle opposta. Quella è stata una escursione molto
impegnativa, faticosa ma bellissima, ti sembrava di essere in paradiso e di
toccare con le mani quelle alte vette.
Questa mattina, 12 giugno, quando siamo partiti da Mantova, il sole stava
spuntando progressivamente da Oriente, in un cielo parzialmente macchiato
di rosa, ma verso Occidente stava avanzando una massa nuvolosa biancastra,
che non prometteva nulla di buono, ma non bisogna mai disperare. Il motto
di noi " Caini padani", è di non fermarsi mai , di proseguire sempre verso
la meta. Infatti, superato la grande e verde pianura Padana,che in questo
periodo è uno spettacolo che riempie gli occhi e il cuore .
Il Nuovo Messico e il peperoncino
Davanti al moderno aeroporto di Albuquerque c'era in attesa un grosso e
moderno torpedone condotto dalla simpatica miss Giannine, una americana di
origine irlandese, con le fattezze mascoline e con due occhi castani molto
espressivi, che è stata la nostra autista per l'intero percorso del nostro
lunghissimo tour americano. Il torpedone ci ha condotto fino al centro
della città, dove si trova ubicato il grande Hotel Hilton, dove la comitiva
ha pernottato.
Albuquerque è una bella città di 230 mila abitanti del New Messico
Centrale, situata sulle sponde del Rio Grande, 38 chilometri a Sud Ovest di
Santa Fé. E' un grosso centro industriale e commerciale dello Stato e
centro missilistico. E' la città folcloristica per eccellenza, dove sono
conservate le tradizioni culturali e popolari di quel paese.
Il mattino del 4 agosto, la comitiva dei mantovani, dopo una ricca
colazione, è partita alla volta della città di Santa Fe' con il bus
condotto appunto da miss Giannine , attraverso Tijeras Canyon, Ceder Crest
e Turquoise Trail percorrendo la SS. nr. 14, passando per le miniere, a
fianco della vetta del Sandia Peark che misura 3255 metri sul livello del
mare. Santa Fé è una città dalle vie tortuose e strette circondate da
edifici in stile pueblo. E' stato fatto un grande sforzo per mantenerne
l'aspetto storico, e ancora oggi questa città è un incrocio di cultura
indiana e messicana. Il territorio che la circonda è molto vario: si passa
dalle aride e sottili "mese" (piccoli altopiani) ai pascoli montani e alle
estese praterie e pianure steppose. La città di Santa Fé è posta a 2134
metri s.l.m. e vi è la sede dello Stato del New Messico ed è anche la
capitale dell'antico popolo indiano, di cui conosciamo il valore combattivo
attraverso le moltissime pellicole cinematografiche. E' una città sita
sulle falde delle Montagne Rocciose, la cui catena più interna è meno
elevata di quelle occidentali, ma più compatta e più omogenea nella sua
struttura. Fra le due serie di catene, quella esterna e quella interna, si
stendono altopiani aridi e stepposi, cosparsi di laghi salati residui di
più estesi bacini: l'Altopiano della Columbia a Nord, il Gran Bacino al
Centro, e a Sud, l'altopiano del Colorado presentano generalmente un
aspetto roccioso e arido, salvo che sulle pendici dei monti. Nel corso del
nostro lungo ed interminabile percorso escursionistico, abbiamo potuto
osservare che talvolta gli altopiani sprofondano in ampie depressioni dove
la temperatura raggiunge, in questo periodo agostano, valori altissimi.
Gli altopiani sono solcati da fiumi che scorrono incassati in gole profonde
anche 1500 - 1800 metri, dalle pareti rapidissime, i famosi canyon, di cui
abbiamo sentito parlare e che in questa escursione internazionale abbiamo
toccato con le mani, li abbiamo ammirati nella loro interezza e nella loro
selvaggia bellezza.
La città di Santa Fé in questa giornata splendida ci ha ospitato e da qui
ha inizio la nostra fantastica avventura escursionistica nei grandi parchi
naturali, storici e archeologici di questo grandissimo paese americano.
Questa città si estende su un altopiano a 2134 metri di quota, in mezzo ad
un vasto deserto sud occidentale, tra i monti del Sangue di Cristo e le
Jmez Montain, in una zona così bella che gli indiani Pueblo Ima chiamavano
"il luogo in cui danza il sole".
Venne fondata dagli Spagnoli circa un decennio prima dell'arrivo in America
dei padri Pellegrini, e per decenni fu contesa agli indiani Pueblo. Poi
nell'Ottocento, fu luogo della "frontiera", finché nel 1846 la città passò
dal Messico agli Stati Uniti. Tuttora è rimasta una città di grande
atmosfera, un centro turistico importante e conserva il fascino di una
vecchia città coloniale spagnola.
E' situata al centro delle Montagne Rocciose ed è bagnata dal fiume Pecos.
Il giorno successivo, cioè il 5 agosto, nelle prime ore del mattino,
abbiamo lasciato questa bellissima cittadina che rispecchia non solo
l'architettura spagnola, ma anche la sua lingua ed i suoi costumi. Il
grosso torpedone si è diretto verso Durango, attraverso la cittadina di
Toas imboccando per prima la Statale 285 per oltre 60 chilometri e
successivamente la nr. 68 per altri 70 km circa. Essa è ricca di storia ed
è situata a Nord di Santa Fé, dove abbiamo visitato il Kit Carson Home and
Museum, che ospita oggetti appartenuti all'eroe del Nuovo Messico e ai
vicini pueblos. In questa località abbiamo visitato il villaggio indiano
dei Navajo.
Dopo la visita in questi insediamenti indiani, il torpedone ha proseguito
per Durango sulle strade statali nr. 64 e 86 attraverso la Carson National
Forerest e le St. Juan Montain, passando per Tres Piedras, Amarilla, Chama
e Pegosa Spring.
Questo popolo di antica stirpe americana è stanziato nell'Arizona e nel New
Mexico, è di lingua athabaska ed ora è confinato in riserve ridotto a circa
30.000 indiani che praticano la pastorizia e l'artigianato. Essi opposero
agli Stati Uniti un'accanita resistenza con il loro famoso capo Geronimo.
Incominciando la nostra visita escursionistica dalla cittadina di
Alburquerque, di Santa Fè e finendo nei villaggi dei Navajo, che sono
compresi nel territorio del Nuovo Messico,dobbiamo dire che ovunque abbiamo
notato un particolare molto importante che riguarda il famoso "peperoncino
rosso", di cui oggi gli esperti nutrizionisti ne parla tanto, specialmente
nei dibattiti televisivi. Soffermandoci nei villaggi del popolo indiano,
abbiamo notato che davanti alle loro porte vi erano appesi al sole grossi
mazzi di peperoncini. Vedendo tutto questo, Adriana mia moglie e le altre
signore, sapendo che io sono nato nella Vecchia e cara Calabria, una delle
regioni del Sud d'Italia dove si coltiva questa pianta erbacea che
insaporisce le vivande e rende la vita più frizzante, mi hanno posto questa
domanda: " Ci sai dire dove è nato il peperoncino?" Con precisione, per
dire la verità, non lo sapevo e credevo che come l'ulivo e la vite, erano
giunti a noi nel periodo della Magna Grecia, ma in effettui non è così.
Questo piccante benefattore dal nome latino: Capsicum annuum della famiglia
delle Solanacee. Insomma,questa pianta erbacea, é parente stretta al
tabacco, alla patata,al pomodoro, giusquiamo (g hyoskyamos). Luogo di
origine: America meridionale, é coltivata da sempre dal popolo indiano.
Si, è proprio così, i peperoni, le patate, i pomodori e il tabacco, sono
giunti nel vecchio continente dall'America meridionale, portate da
Cristofaro Colombo e non dalla Grecia come si credeva. Se immergiamo le
mani nelle viscere delle donne padane troviamo il DNA della nebbia, mentre
in quelle delle donne del sud del nostro Paese, si trova sicuramente quello
del "pipi infernale". Per averlo alla portata di mano, ricordo che mia
madre lo coltivava in un vaso sul balcone, vicino ai coloratissimi gerani,
mentre mio padre lo coltivava nell'orto di casa, per farsi la scorta per
tutto l'anno. In casa ne facevamo molto uso, come il cacio sui maccheroni.
Nella grande piana di Petrace, che dista pochi chilometri dal piccolo borgo
aspromontano di Cosoleto che mi diede i natali, i contadini ne producono in
grande quantità. In questi giorni abbiamo letto un bellissimo articolo di
Maria Zaniboni, apparso sul mensile il " Carabiniere" di Aprile, ci
descrive l'autentico identikit del peperoncino rosso piccante, uno dei più
preziosi collaboratori della cuoca, uno dei più fedeli amici dell'uomo.
Quello pimenta qualsiasi vivanda alla quale viene sposato, che ne esalta il
sapore. Che gli conferisce un tocco inconfondibile ( senza dubbio un tocco
di classe!) e, nello stesso tempo, difende da: infarto, artereosclerosi,
difficoltà digestive, artrosi, reumatismi, alcolismo, calvizie, alterazioni
della pressione, sterilità, vecchiaia, cancro, e persino il fumo.
Tutte queste interessanti notizie, oltre ad averle lette sull'articolo
della Zaniboni, li conoscevamo fin dalla fanciullezza, ma quelle contenute
in un libretto intitolato appunto Peperoncino rosso piccante ( Grafiche
Effigi, Bologna), che cita la giornalista Zaniboni, non lo abbiamo mai
letto. Ella prosegue dicendo: " Un ufficiale della Guardia di Finanza e
paroliere di succoso, Ettore Liuni, ha raccontato il romanzo di questa
pianticella che quattro secoli fa attraversò per la prima volta l'Atlantico
su una caravella in compagnia della patata e del tabacco, con rotta verso i
porti dell'Europa. La sua fortuna fu rapida e immediata: i veri intenditori
e i gastronomi raffinati ne capirono subito i pregi e lo introdussero senza
indugio nelle loro preparazioni.
Il peperoncino rosso, dunque, dilatando le papille gustative, permette un "
assaporamento" completo delle vivande fin nelle loro sfumature più segrete.
Sottolinea ed esalta i sapori, ma non li condiziona ( a patto che sia usato
crudo, in modo che tutti i suoi preziosi componenti - Sali, fermenti,
enzimi, vitamine- non vengono alterati dal calore). Il suo " piccante" ha
inoltre un fortissimo valore antiputrefattivo ed è appunto contro la
minaccia delle infezioni intestinali che nei Paesi a clima molto caldo (
dall'Abissinia all'India, dal Messico al Pakistan, dall'Arabia all'Italia
meridionale) lo adoperano come base essenziale di tutte le salse.
Né va sottovalutato un altro requisito importantissimo del peperoncino. Un
requisito che lo pone nella schiera dei benefattori dell'umanità: dei
ricercatori hanno scoperto che il peperoncino e il tabacco possiedono in
comune una " glicoproteina". Sono cioè della stessa famiglia, ma, come
avviene spesso tra parenti, cercano di neutralizzarsi l'uno con l'altro.
Avviene così che, consumando quella " glicoproteina" col mangiare il
peperoncino, si attenua la voglia di assumere altra ancora fumando tabacco.
Il che é come dire se uno è abituato a quella certa dose di " droga", può
prenderla benissimo attraverso il peperoncino piuttosto che attraverso la
sigaretta, con quel vantaggio per l'organismo che è facile immaginare.
Ed ecco come l'autore chiude questa sua carrellata sulla pianticella, il
cui valore è inversamente proporzionale alla sua dimensione: " Il
peperoncino è come un amico; amato, rispettato…! Sii con lui, sempre, non
solo perché ne hai bisogno tu, ma presentalo anche agli altri…. Chissà…
l'amicizia chiama amicizia".
Durante il nostro lungo viaggio escursionistico nel Nord Ovest degli Stati
Uniti d'America, abbiamo conosciuto diverse tribù di indiani ed abbiamo
compreso, che fra di loro esiste una grande amicizia. In fondo al Gran
Cayon, abbiamo pernottato in una locanda gestita dagli indiani e nelle
pietanze che ci sono state servite, uno dei più fedeli amici era appunto il
peperoncino rosso. Abbiamo constatato inoltre, che le pareti della cucina
erano tappezzate di peperoncino rosso. La stessa cosa succede ancora adesso
nella My Old Calabria.
La visita del Comandante Generale dell'Arma
Bagnolo Cremasco è un piccolo borgo antico della pianura Lombarda in
provincia di Cremona, a ovest di Crema, tra il fiumi Adda e il Serio che
sorge su di una duna sabbiosa, prodotta migliaia di anni fa dalle acque
dilaganti dell'Adda, generando il lago Gerudio, che oggi, con le continue
bonifiche, non esiste più. Negli anni Sessanta, sia giunti dalla cittadina
di Caravaggio, che diede i natali al grande pittore Michelangelo Merisi,
detto il Caravaggio.
Dopo il racconto del capitolo precedente della " Mucca magra" della nonna
Luisa, i nostri ricordi ci portano nuovamente a questo antico borgo
lombardo, e ci fanno ricordare una pagina della nostra vita.
Come scriveva il grande giornalista e storico Indro Montanelli, "noi
anziani ricordiamo il passato per vivere il presente e spesso comminiamo su
di un tappeto di foglie morte, dove sono sepolti i nostri ricordi, le
nostre passioni e la storia del nostro meraviglioso Paese". Ma da questi
lontani ricordi, dato che di ricordi del nostro passato prossimo stiamo
parlando, oggi dai meandri della nostra memoria, emerge un brano molto
significativo della nostra vita militare, che crediamo opportuno e doveroso
dover rievocare. In questo brano , ricorderemo un grande uomo e soprattutto
un grande Comandante e un carissimo amico, scomparso tragicamente nel
compimento del dovere in una notte tormentosa sulle montagne di Serra San
Bruno,Catanzaro, in una notte del 1977, in seguito ad una varia
dell'elicottero sul quale faceva ritorno a Roma, con il suo stato maggiore.
Stiamo parlando del Comandante Generale dell'Arma, Enrico Mino, nato a
Esimo Lario, Como, nel 1915
Ma chi era il Generale Mino? Era una bravissimo Comandante Generale, che
frequentò l'accademia militare, conseguendo la nomina a sottotenente del
genio nel 1936. Partecipò alle operazioni in Africa settentrionale dal 1940
al 1943 al comando di unità delle trasmissioni, meritando una promozione
per merito di guerra. Frequentò la scuola di guerra e il NATO Defence
Callege. Successivamente ebbe il comando delle trasmissioni del III corpo
d''armata nel 1958, poi fu addetto militare a Madrid nel 1959. Promosso
generale, fu comandante delle trasmissioni del V corpo d'armata nel 1961,
capo reparto dello SM dell'esercito nel 1963, consigliere militare aggiunto
del presidente della repubblica nel 1965, comandante della divisione
Folgore nel 1967 - 1968. Generale di corpo d'armata nel 1969, ebbe il
comando della regione militare della Sicilia. Nel 1973 assume il comando
generale dell'Arma dei Carabinieri in sostituzione del generale Corrado San
Giorgio.
Ma noi oggi lo vogliamo ricordare stanco e gioioso come quando venne a
trovarci nella nostra Stazione di Bagnolo Cremasco. Naturalmente, devo
confessare, che per la Stazione Carabinieri di Bagnolo Cremasco, quella
vista è stata un avvenimento senza precedenti. Visite di personalità così
importanti si verificano molto raramente, a meno che non accada qualche
cosa che da molta risonanza in campo nazionale e che suscita molto clamore.
Non era successo nulla di tutto questo a Bagnolo Cremasco. Era un
pomeriggio d'agosto e la giornata era calda, ma era un caldo secco,
respirabile, esente dall'afa, di quell'afa che sovente stagna in quella
parte della pianura Lombarda. L'aria calda e soffocante da noia, fastidio e
persino nausea, ma non si può cambiare il clima di una località a nostro
piacimento.
Quel pomeriggio il telefono dell'Ufficio della Stazione squillò secco
ripetutamente. Dall'altra parte del filo c'era il collega Airini,
capoufficio del Comando Compagnia di Crema, che mi avvertiva che, con molta
probabilità, fra pochi minuti sarebbe passato dal Comando della Stazione il
Comandante Generale dell'Arma.
Il collega riferiva di aver captato tale notizia nel corso dei saluti, tra
il Comandante Generale ed il Comandante della Compagnia, il quale, aveva
chiesto a quest'ultimo dove si trovava l'ubicazione della Stazione CC. di
Bagnolo Cremasco. Non feci in tempo ad attaccare il ricevitore, che fuori
della Caserma, si erano fermati i due motociclisti di scorta,mentre subito
dopo, giungeva il corteo delle autovetture con a bordo gli Ufficiali
Superiori al seguito del Generale Mino.
Le mura della Caserma tremarono per il boato prodotto dall' "Attenti" del
sottoscritto, non ricordo di aver mai dato un comando così secco ed
energico, neppure al corso allievi sottufficiali o nel corso degli esami
per conseguire la promozione a Maresciallo, quando, sotto i portici del
Comando Generale a Roma, dovevamo sostenere la prova di comando di un
plotone, sotto lo sguardo della Commissione esaminatrice.
Premetto che, avevo avuto l'onore di conoscere il Sig. Comandante Generale,
alcuni anni prima a Caravaggio. A quell'epoca, egli era Comandante della
Regione Militare della Sicilia e, tutti gli anni, veniva a fare visita
all'avvocato Rondelli. Erano vecchi amici, fin dagli anni giovanili, quando
entrambi frequentavano l'Accademia Militare di Modena. Ogni volta che
veniva a Caravaggio, ero loro ospite a pranzo, nel solito Ristorante del
Signor Baruffi, che è ubicato nei pressi del Santuario della Madonna.
Dopo l'attenti, il sig. Comandante Generale, mi tese la mano, salutandomi
con molta cordialità, come si fa con i vecchi amici che si ritrovano dopo
un lungo tempo, lasciando nell'atrio gli altri Ufficiali Superiori, mentre
noi ci accomodavamo nell'Ufficio di Stazione. Il nostro è stato un
colloquio breve, direi molto cordiale, sincero, affettuoso e aperto. Mi
parò del comune amico, avvocato Rondelli ed in fine si complimentò con me
per la mia recente promozione a Maresciallo. Mi disse di aver letto, con
molta attenzione, quel bellissimo articolo scritto nei miei riguardi dal
giornalista Giuseppe Bianchissi, intitolato: " Il Maresciallo pittore". In
quella occasione volle visitare il mio modesto studiolo, ammirando con
molto interesse quadri, come pure quelli appesi alle pareti dell'Ufficio e
ne ha accettato uno per ricordo. Era un mini quadro, che riproduceva un
angolo molto suggestivo e significativo del Santuario di Caravaggio.
Ricordo, che si era seduto sulla poltroncina, si vedeva che era stanco,
affaticato e soprattutto assetato, tanto che per prima cosa, mi ha chiesto
un bicchiere d'acqua fresca.
Da quel pomeriggio caldissimo d'agosto, non l'ho più rivisto, il Sig.
Comandante Generale Enrico Mino. Qualche anno più tardi, nell'epoca delle
Brigate rosse, egli periva in seguito ad un incidente aeronautico, sulle
montagne della My Old Calabria. Nei miei ricordi lo rivedo sempre, allegro
e pieno di tanta simpatia. Così lo voglio ricordare anche oggi, in questa
giornata caldissima di fine maggio. Nell'album dei ricordi, conservo
gelosamente una sua fotografia, che il signor Baruffi, scattò nel suo
ristorante di Caravaggio, mentre stavamo brindando all'amicizia.
La notte più corta
E' l'ultimo giorno nel suolo americano, in quella terra lontana e
misteriosa, che ci ha arricchito di una nuova esperienza, facendoci
conoscere un mondo nuovo, gente nuova e nuove amicizie, un modo di vita
inconsueto, insolito, straordinario che si differenzia grandemente dal
nostro modo di vivere quotidiano, dalle nostre vecchie usanze, dal nostro
carattere e temperamento mediterraneo, di natura così diversa da quelle
popolazioni.
Siamo partiti da New York alle ore 22, con il Boing 747 della TWA, che
abbiamo battezzato la grande nave spaziale; viaggiava ad una velocità di
crociera di 900 km/h. Alle ore 24, ora locale, la notte era finita.
Improvvisamente l'orizzonte del grandioso deserto liquido si andava
progressivamente tingendo di una intensa luce rosea che illuminava tutto
l'oriente dopo l'alba prima dello spuntar del sole.
Quella era l'aurora, che per la sua eccezionale luminosità abbiamo
paragonata al fenomeno luminoso delle regioni polari, cioè l'aurora
boreale.
Il grandioso fenomeno della natura si stava ripetendo, come accade dal
giorno della creazione ed ha costituito per noi materia di osservazione da
dietro l'oblò del grande velivolo.
Il disco sfolgorante del sole stava emergendo dal mare e dalla nostra
postazione appariva e scompariva, quasi sommerso dal grande orizzonte. Il
suo labbro tagliente sembrava gocciolare; e le gocce di sì puro lavacro
parevano fermarsi sulle onde spumose dell'Atlantico, come stille di fuoco
che si dilatano e si inseguono contro le onde del deserto liquido.
A . Stoppani, nel suo libro "Il Bel Paese" edito nel 1948 da Vallardi, così
scrive del grande spettacolo del sorgere e del tramonto del sole:
"Quante volte, quand'ero fanciullo, avevo letto nei poemi greci, che il
sole si levava dal mare la mattina, e si tuffava la sera! Io leggevo queste
cose, ma non intendevo come quei bravi uomini del tempo antico potessero
così credere, e fantasticare.
Qui a Milano il sole non lo vediamo sorgere dall'abbaino di una casa, e
cadere dietro il comignolo d'un'altra … Più fortunati se lo vediamo
levarsi, per esempio, da una fila di pioppi e tramontare dietro una selva
d'ippocastani. Fortunatissimi quelli che lo scorgono al mattino affacciarsi
alle vette delle Prealpi, e nascondersi la sera dietro le nevose propaggini
del Monte Rosa. Ma vederlo sorgere dal mare, tuffarsi in mare … misurare
tutta l'immensa sua via … Ah! è uno spettacolo che riempie l'anima!".
Si, è veramente così. E' uno spettacolo indescrivibile, ove il pittoresco e
lo scenografico si fondono in armoniosa composizione tra cielo e mare,
creando quello spettacolo che riempie l'animo.
Abbiamo avuto il privilegio di vedere quel grande disco sfolgorante
spuntare progressivamente dal mare, dall'immenso Oceano Atlantico, nella
notte più corta della nostra vita, che ha avuto la durata di poche ore; è
stata come un soffio, un alito di vento nell'orizzonte infinito.
Eccoci a casa nostra, nel più bel Paese del mondo, in questa bellissima
Valle Padana fatta di campi opulenti e sciolti filari, di canali specchiati
e strade fini come capelli, di casolari sparsi e perduti nella nebbia;
contrade di alluvioni e carestie, di giorni e stagioni ripetuti nella
gloria di silenzi, di amori semplici, di contrastanti eventi bellici,
contrada perduta alla conoscenza delle genti, centro e confine del mondo
per chi vi ha dimorato Terra antica e meravigliosa, nessuno aveva osato
alzare lo sguardo sul tuo volto splendido e macilento, immergere le mani
nel tuo grembo per ritrovare le monete false e preziose e stenderle al
risonante vento della vita . Così scriveva nel suo libro "Il giorno della
madia" Danilo Bizzarri.
"C'era una volta ... ieri", una vecchia canzone d'amore sempre viva,
sentita sulle cime dei pioppi alte sulle verdi golene del nostro fiume.
Ecco i declivi dell'area morenica, labirinti delle zone umide con il loro
intruso di canneti le campagne arate di questa piatta Padana, la complessa
geometria dei sistemi di irrigazione, i borghi storici che sfilano ai lati
della strada e disegnano il paesaggio sulle sponde del fiume virgiliano,
sono le nude geografie del Parco Naturale del Mincio. Di quest'area
protetta l'acqua è l'elemento dominante, che talvolta nel colore si
rammenta d'essere stata Garda, ma che più spesso ha la notevole luce
dell'acciaio.
Il nostro lungo, meraviglioso e favoloso tour, attraverso gli infiniti
orizzonti del continente America, è terminato nel luogo da cui siamo
partiti, nella piatta e bellissima Valle Padana, dove è tutto più razionale
tra i suoi lunghi filari di pioppi, di canali specchianti e di campi
opulenti.
Ecco la città di Mantova. Un profilo basso, allungato, solo segnato
dall'elevarsi d'alcune torri che si rinserrano quasi a protezione dell'alta
cupola centrale che tutto domina; non colori vivaci colpiscono la nostra
vista: un sottile velo di vapore ricopre tutto il panorama ed attenua e
smorza ogni vivacità di tinta; il grigio domina su tutto, anche in questo
periodo agostano, ma un grigio fatto di chiarezza, di trasparenza; la
direste una città d'argento. Un profilo basso, allungato, appoggiato su di
un tappeto di tenere canne il cui verde subito sfuma in giallo mollemente
dorato, tappeto cui fan corona l'acque dei suoi laghi. Visione
eminentemente virgiliana; e se volgi lo sguardo a mezzogiorno, e di là del
ponte ferroviario vedi alzarsi timidi svettando per l'aria i primi pioppi
del locus Vergilianus creatovi nel bimillennio di sua nascita, vai
ripensando i versi del poeta.
"...primus Idumeans referam tib, Mantua, palmas Et viridi in campo templus
de marmore ponam Propter acquam, tardis ingens flexibus errat Mincius, et
tenera praetiexit harundine ripas".
Per concludere e continuare a parlare della nostra bella Mantova e
soprattutto della lussureggiante pianura Padana, in questi giorni abbiamo
letto, come del resto facciamo tutti i giorni,sulla " Voce di Mantova", una
storiella quasi provocatoria, sulla rubrica " El tabac del nonno" Il bravo
cronista così ce la presenta:
"Son venuti a Mantova i nostri amici romani a ricambiare la visita. Ha
portato con loro il nipote, un ragazzino di quattordici anni. La zia che lo
ha trovato piuttosto intelligente e sensibile, l'ha portato in giro per
fargli scoprire una realtà che ancora non conosceva: La primavera padana.
Fa un certo affetto, per chi non è abituato, scoprire questo orizzonti
lontanissimi, questi cieli che ti avvolgono completamente senza le quinte
delle montagne. E tutto quel verde che scoppia a maggio e l'erba che
aggredisce l'asfalto. Un verde copiato dagli stilisti per i loro maglioni:
bello, che bella tonalità. Si, sono i colori della natura.
Il giovanetto ha visto anche i monumenti, ovviamente, ma ad impressionarlo
di più è stata la natura. I monumenti sono opere dell'uomo, fatti per
soddisfare le proprie esigenze e, per fortuna, spesso i propri gusti, ma è
La natura che stupisce, una natura che dalle nostre parti ha un aspetto del
tutto diverso dal resto del paese. La zia l'ha accompagnato a vedere il Po.
Questa ferita che taglia la pianura e, a volte la ferisce con le alluvioni,
ma che è stata l'asse lungo il quale, durante i secoli, sono sorte città e
si sono coltivati i campi. Anche a Mantova, gli ha spiegato la zia, è nata
in riva al fiume, la dove questo si allargava in quelle anse che i
mantovani chiamano un po' pomposamente laghi. Il giovanotto0 è rimasto un
po' perplesso di fronte alla distesa di erba che sta impadronendosi del
lago di mezzo, dalla sponda est fin verso il fronte di San Giorgio. I
cigni, più che galleggiare, ormai ci camminano sopra. Avete i cigni?, ha
chiesto0 stupito il ragazzino. Si. E anche gli aironi cenerini, le nutrie e
i pesci siluro. Degli ultimi due avremmo anche potuto fare a meno, una cosa
di cui invece alla quale non si poteva rinunciare è stato il risotto alla
pilota: una cosa sconosciuta a Roma che ha sollevato l'entusiasmo del
giovane ospite: Così come i tortelli di zucca. Abituato all'olio, ha
scoperto la civiltà del burro e l'apprezzata parecchio. Anche se i suoi
l'hanno messo in guardia contro il colesterolo. La zia l'ha
tranquillizzato: sono secoli che qui si viaggia col burro e con il maiale e
la polenta; più che altro nei secoli passati si moriva di fame, di
pellagra, altro che colesterolo" Quella zia aveva veramente ragione. Quando
gli albanesi eravamo noi, dal sud al nord del Bel Paese, c'era tanta
miseria e tanta fame. Negli anni Quaranta, ricordo che nel 1946, ho
incontrato moltissime donne e signorine della bassa padana, nelle risaie
del Vercellese e del Monferrato a trapiantare il riso. Tutti i giorni
stavano con i piedi nell'acqua e dormivano nei fienili, per portare a casa
alla fine della stagione un sacchetto di riso, per superare il lungo
inverno padano. Sicuramente erano altri tempi, quando non si conosceva
neppure il significato della parola " colesterolo, diabete e
dell'ipertensione" In quei lontani anni della fine del conflitto della
Seconda guerra mondiale, non esistevano neppure tutti quei problemi che
oggi affliggono l'intera umanità l
L'AMERICA
Sorvola le nuvole bianche come neve
il grosso velivolo con i passeggeri,
va incontro agli orizzonti
le praterie e i grandi tramonti;
sorvola l'Oceano radiante,
va verso la terra degli emigranti,
indiani e bisonti.
Il sole ci segue sulla rotta costante
in questa giornata emozionante,
a contemplare l'annegar del giorno
sull'altopiano siderale
di Santa Fe' è la capitale.
Il pellirossa con le piume al vento
nel mitico atteggiamento di guerriero
corre impavido sul suo bianco destriero,
non ha fatto nulla di male,
ma nel suo viso quasi nero
vede il peccato originale.
Voglio andar fino in fondo,
per conoscere e capire
questo meraviglioso "Nuovo Mondo".
E' fatto di tutto, e fatto di niente,
è il mondo sognato dalla povera gente,
giunta dal nord, dal sud del vecchio continente.
Seguiamo le orme dei nostri avi,
per scoprire ed ammirare
queste bellezze naturali,
le Montagne Rocciose,
il Grand Canyon e le dune sabbiose
del Colorado con i pinnacoli gibbosi.
Ma in tutti i cieli nascono le stelle,
il nostro Paese è uno di quelli.
Sempre vorrei ammirare quelle stelle
a ricordar le praterie e gli orizzonti
che fan capolino dopo la bufera
sotto l'arcobaleno come un ponte.
Intorno al Grand Canyon impazziva la natura
a ricamar di fiorellini i prati.
Oh quali e quante son le vie del mondo!
Io le ho percorse tutte a cercar pane
e ho scoperto che l'uomo è un animale immondo
e che le bestie sono tutte umane.
Las Vegas città di lussuria e divertimento,
dove tutto è effimero e ha la durata di un momento,
luci abbaglianti, bellezze e colore,
la gioia, lo sfarzo e tanto dolore.
San Francisco città bella e incontrastata,
dall'Oceano sei sempre baciata;
Sei regina della California,
terra di sogni e di memoria,
sei come un fiore di zagara
amata e molto profumata.
Quante bellezze conserva questa terra.
di questo globo di cui l'uomo è nulla.
Sorgi o splendida luna, e vai,
segui l'onda di questo mare dorato;
sei sempre al margine del mio sogno passato,
di questa chimera vaga,
ancor non sei tu paga.
Sfreccia il Boing verso l'orizzonte,
a riportar i "Caini" ai loro monti
e la terra natia della Val Padana,
vai verso la Patria mia così lontana.
Ammiro questa notte la stupenda luna,
in questa terra antica americana
e le stelle ad una ad una
fino all'albeggiar del giorno,
perché domani, domani è un altro giorno.
San Francisco, 16 - 8 - 96 .
Il grande orizzonte
Il nostro è stato un viaggio alla scoperta di una parte del nostro pianeta
a noi sconosciuto e questo già predispone al senso di una grande avventura;
se anche si vola fino alla luna, giorno per giorno ci si accorge come
questa vecchia Terra resti sconosciuta nella sua intima essenza, ed è
un'essenza ben più ricca di quella che può essere al nostro selenico
satellite. Ci sono le componenti della storia, della civiltà, della
cultura, delle virtù e dei vizi, delle sofferenze e delle passioni, in una
parola c'è l'uomo. E' sull'uomo, sugli uomini di vario colore, esperienze e
condizioni, che si appunta la ricerca che abbiamo sistematicamente osato
effettuare; è qui che sono i ritratti esemplari raffigurati nel quadro e
sullo sfondo dell'ambiente di vita, dei rapporti di lavoro, dello status
politico e sociale di quella grande massa umana che ha popolato il
continente americano. Chi si addentrerà nella lettura di queste semplici
pagine, senza fatica, comprenderà quale fosse il nostro stato d'animo
nell'intraprendere il lungo itinerario nella terra che i nostri padri,
prima di noi, hanno percorso in un momento critico della storia del nostro
Paese.
Al termine del giro escursionistico dei bellissimi Parchi Nazionali e dei
vari Stati americani che abbiamo attraversato, la sensazione è di aver
fatto un grande passo avanti verso quei luoghi meravigliosi a noi
sconosciuti, verso una terra primitiva nelle sue fasi geologiche, nata
dall'accumulo di milioni di organismi e gusci calcari, formatosi 150
milioni di anni fa, nell'era dei dinosauri del Giurassico, ove sfumano i
confini tra realtà e immaginazione.
Il giro di questo mondo sconosciuto in poche pagine: è quello che offre
questo nostro itinerario turistico-culturale attraverso i famosi Parchi e
gli straordinari Canyon degli Stati Uniti d'America da qui l'attualità
tenuta con onore in primo piano, ma la ricerca si è valsa del metodo
scientifico, che approfondisce i temi, li confronta e li media col sussidio
della più ampia attualità. Mi permetto di assicurarvi che tutto quello che
leggerete in queste mie modeste pagine, che sono quasi una guida agli Stati
Uniti è rigorosamente vero, esse rispecchiano la realtà dei luoghi o se si
preferisce di quanto è essenziale conoscere dell'America dell'Ovest.
Le poche pagine di questo nostro manoscritto, offrono una migliore
conoscenza del pianeta America e garantisce una informazione sui parchi
naturali e sulle popolazioni che noi chiamiamo primitive, ma che in effetti
costituiscono un agglomerato di individui uniti dai vincoli di discendenza,
di comunanza di costume e tradizioni indiane dei famosi pellirosse.
Superati i vecchi schemi della tradizionale geografia per continenti, la
materia è stata concepita e voluta badando alle effettive realtà
geo-politiche dei nostri giorni così profondamente cambiate rispetto ai
tempi in cui le generazioni degli adulti di oggi andavano raminghe.
Impressioni
Si è scritto che non si dovrebbe mai visitare l'America per la prima volta:
c'è il rischio di tornarsene con un mucchio di idee sballate sul Paese e
sulla sua popolazione. Questo perché fra tutti gli abitanti del pianeta
Terra, a parte alcune tribù beduine, gli americani sono quelli che più
tendono a dare un'impressione falsa di sé. Non è che siano particolarmente
incline alla bugia (ai livelli più alti della loro amministrazione pubblica
tuttavia , il fenomeno è macroscopico e costituisce la regola). Piuttosto è
falsa la maggior parte delle cose in cui essi credono.
Sugli usi e costumi degli americani, in generale, non c'è molto da dire.
Tutti avrete avuto l'occasione di conoscere almeno un americano; un
turista, un militare della Nato con stanza a Verona o a Sigonella, o un
funzionario della Ford. Bene, vi basti sapere che come si comportano in
pubblico, così gli americani si comportano in privato, fra le pareti delle
loro case.
Quello che invece non è molto noto, fuori degli Stati Uniti, e la singolare
coscienza di classe. Gli uomini d'affari, per esempio. I businessmen
americani sono convinti di essere gli effettivi capi della repubblica, per
il loro senso pratico che si manifesta nelle trattative commerciali, spesso
eccessivamente complicate, e per la loro profonda conoscenza delle tecniche
manageriali e di quelle delle pubbliche relazioni.
In questo senso si esprimeva il direttore di uno dei tanti alberghi dove
abbiamo pernottato nel corso del nostro itinerario turistico:
"Gli scienziati hanno un uguale complesso di superiorità: per la loro
dimestichezza con le discipline nucleari, con la biologia, con le tendenze
procreative dell'umanità, con l'intelligenza e l'ottusità delle macchine
calcolatrici. Gli intellettuali, infine, si credono i migliori per la loro
capacità di interpretare senza conformismi le intenzioni del Pentagono e
quelle dell'imperialismo della loro Nazione".
Gli affari, negli Stati Uniti, vengono conclusi o per mezzo del telefono o
a tavola, del resto anche nel nostro Paese succede la stessa cosa. Perciò i
ristoranti più cari sono - tranne poche lodevoli eccezioni - anche i
peggiori, come abbiamo potuto constatare nella grande metropoli di San
Francisco, avendovi il mangiare un'importanza del tutto secondaria.
Il turista farà bene a rivolgersi ai locali meno vistosi, dove si da più
peso ai piatti e al servizio che alla cornice.
L'America è, come si sa, un Paese molto vasto. Diversamente dall'Australia,
non ha grandi zone disabitate. In generale, i visitatori come noi vogliono
visitare New York, Washington, San Francisco, Los Angeles e almeno alcuni
dei suoi famosi parchi nazionali, come il Grand Canyon e quelli della Nuova
Inghilterra. Date le enormi distanze fra l'uno e l'altro di questi posti,
sono costretti a servirsi dell'aereo, a meno che non siano disposti a
sopportare un trattamento scandaloso e spese pazzesche. Unica fra le
Nazioni evolute, l'America è priva di una rete ferroviaria dignitosa, in
grado di consentire al turista di farsi un'idea del paesaggio senza
spendere un occhio della testa. Il fatto è che anche i treni, negli Stati
Uniti d'America, sono mossi dall'iniziativa privata: si tratta del solo
Paese del mondo in cui questo servizio avviene.
Si va dove vuole la società proprietaria, al prezzo stabilito dalla società
stessa: il che fa pessimo servizio; come ci è stato riferito da alcuni
nostri connazionali che abbiamo incontrato nella metropoli di San
Francisco.
Il visitatore europeo, a meno che non sia stato consigliato di scendere
all'aeroporto John Kennedy per motivi tecnici, come noi o per altri motivi,
per tornare a casa farà bene a preferire a quello di New York l'aeroporto
di San Francisco, perché è più moderno e funzionale.
Ciò non dipende dal pur spiccatissimo genio americano alla confusione. New
York, obiettivamente, avrebbe bisogno con la massima urgenza di un nuovo
aeroporto, che però almeno per il momento si è deciso di non darle.
La mucca della Luisa
In primavera qui nella pianura Padana e meraviglioso farsi una bella e
lunga passeggiata lungo i sentieri e le strade bianche che seguono l'argine
del fiume Oglio. Man mano che ti addentri nelle vallate scopri vasti
orizzonti lontanissimi, questi cieli che ti avvolgono completamente senza
le quinte delle montagne. C'è tanto verde che scoppia specialmente in
questo mese di maggio che aggredisce persino i sentieri e gli argini del
placido fiume. Oltre alla pianura anche le golene sono coltivate e si po'
cogliere una grande visione dell'insieme e che persino ti ispira dei versi
pastorali, ma noi non siamo poeti, ma semplici osservatori delle
manifestazioni della Madre natura. Qui è tutto poesia e bellezza, dove si
può scoprire una realtà contadina che molte persone non conoscono ancora.
E' una natura che stupisce, una natura che da queste parti ha un aspetto
del tutto diverso dai sentieri dolomitici e collinari.
Dopo Sant'Alberto, seguendo l'argine del fiume Oglio,abbiamo incontrato il
Ponte di Barche di Torre d'Oglio, da dove si ammira un paesaggio
naturalistico e proseguendo oltre, ci siamo fermati dove questo ultimo si
sposa con il grande fiume Po, da dove l'orizzonte si allarga e si confonde
con il paesaggio piatto dell'altra sponda reggiana, con lunghi filari di
pioppi.
Parlando dei chiassosi pioppi delle golene, lo scrittore Giovanni Nuvoletti,
così faceva a scrivere:
" C'era una volta….. ieri", vecchia canzone d'amore sempre viva, sentita su
le cime dei pioppi alte su le verdi golene del nostro fiume".
Quell'angolo della foce dell'Oglio, è un angolo particolare dove si respira
un'atmosfera diversa, dove regna il silenzio e la pace. Di tanto in tanto,
questo silenzio è interrotto dal cinguettio degli uccelli acquatici che si
rincorrono nelle piccole anse del fiume. Guardando da vicino questo luogo,
ci sembra di ammirare una piccola oasi d'acqua stagnante dove si incrociano
diversi canali e si rincorrono le anatre selvatiche. Più avanti, due aironi
grigi e più in là due cigni eleganti e bellissimi, che continuano
imperterriti a pescare indisturbati i pesciolini e le rane.
Pensando al passato, possiamo interpretare l'anima degli uomini che era
piena, solida, uniforme come il paesaggio che stiamo ammirando nella sua
vastità e nella sua meravigliosa bellezza, tutto conquistato alle acque,
che il poeta cantava:
" Acque serene ch'io corsi sognando/
nella dolcezza delle notti estive/
acque che vi allargate fra le rive/
come un occhio stupito, a quando, a quando./
Oh! Nostalgiche acque di sorgiva,/
acque lombarde".,
Abbiamo detto che è una campagna immersa nel silenzioso fervore delle
opere; riposato paesaggio d'argine da cui per la gran distesa si possono
scorgere lontani profili di monti, il Baldo e le prime cime delle Alpi
discoste e nevose che ci sono familiari. Ammiravamo quel paesaggio del
tempo passato, ripetevamo nella nostra mente i nomi quasi misteriosi di
vette che tante volte abbiamo ammirato da vicino e percorso i suoi
sentieri. Ricordavamo quella lunga e rutilante fila di escursionisti del
CAI di Mantova, che si addentrava nei suoi recessi, in quei luoghi
appartati che offrono un rifugio silenzioso e tranquillo a tutte quelle
persone che volevano vivere una giornata serena e tranquilla all'ombra
delle grandi abetaie. Nei giorni limpidi come è oggi, volgendo lo sguardo a
mezzogiorno, l'Appennino si disegna domestico e quasi confuso nella linea
dell'immensa pianura.
In quel pomeriggio luminoso, il sole calando calando, molto presto si
sarebbe tuffato dietro le alte montagne del sud- ovest. Il cielo verso
oriente si era tinto di rosa, creando un paesaggio da sogno, un paesaggio
da quinta teatrale. Ci voleva la macchina fotografica per immortalare
quello spettacolo cosi bello, ma noi abbiamo fatto di più. Nel nostro
borsello da viaggio vi era contenuto l'occorrente per fissare sulla piccola
tela quell'attimo fuggente. Poche pennellate sul mini cartoncino ed il
gioco era fatto. Si, è stato proprio cosi, adesso potevamo nuovamente
salire in sella alla nostra bicicletta e continuare la nostra passeggiata
l'ungo l'argine del Po.
Nei pressi del piccolo borgo antico di Squarzarolo, sorge una piccola
casetta rurale con la sua "barchessa". Nel campo dietro la casa, un'anziana
signora con il suo gatto bianco fra le braccia, stava guardando la sua
magra mucca grigia con a fianco la capretta che brucavano l'erba del
piccolo campo. Più in là, poche galline e un gallo con la cresta rossa,
venivano rincorse dal cane, un bastardino bicolore. Insomma, tutto
l'insieme formavano un bel quadretto agreste, in quello spettacolo offerto
dai fenomeni luminosi che accompagnano la giornata in quel momento del
tramonto. Per un momento, mi sembrava di ammirare un quadro del grande
pittore Giovanni Segantini, che era solito dipingere quelle scene
campagnole nelle sue montagne, alla ricerca della luce. Ma più che il
grande maestro Segantini, quella scena così tenera e piena d'umanità, mi ha
richiamato alla mente un caso delle miserie umane che spesso la vita ci
riserva. Quella visione di grande modestia, che non mette in mostra le
proprie qualità, i propri pregi ma anzi cerca di farli apparire
insignificanti, mi ha riportato indietro nel tempo e mi ha catapultato nel
borgo medioevale di Bagnolo Cremasco.
Un pomeriggio d'autunno di molti anni fa, la signora Luisa, ha pigiato il
campanello del Comando della Stazione CC. ed ha chiesto al militare di
servizio di voler conferire con il comandante.
Appena entrata in ufficio, mi ha parlato diffusamente della sua vita, della
sua solitudine e della sua indigenza. Ella viveva sola in una vecchia e
decadente casa nella golena del fiume Adda. Viveva con una magra mucca, una
capra, un cane, alcune galline e tre gatti. I ragazzi della contrada la
chiamavano la strega e spesso le rompevano i vetri dell'unica finestra. Un
giorno, un cacciatore di passaggio, le uccise uno dei tre gatti. Insomma,
spesso era oggetto di scherno e di danneggiamento della sua modesta
abitazione ai margini della golena. Mi ha riferito di essersi rivolta ad un
noto avvocato di Lodi, per sporgere querela di danneggiamento, d'ingiuria e
di maltrattamenti , ma il legale esigeva un pagamento anticipato. Per
pagare la sua parcella, avrebbe dovuto vendere l'unico bene che possedeva,
la mucca, oppure la baracca dove viveva.
Tranquillizzai la signora Luisa, nel frattempo preparai un processo verbale
di denuncia contro ignoti, come previsto dall'articolo 638 del C.P. Per
questi reati di danneggiamento, e ingiurie si procede a querela di parte,
ma essendo il denunciante persona indigente non era necessario presentare
una denuncia querela su carta legale come è previsto dalla Legge. Dalle
successive indagini, abbiamo in poco tempo, scoperto il cacciatore che
aveva ucciso uno dei tre gatti, identificando inoltre tutte quelle persone
che avevano recato alla signora Luisa, i danneggiamenti alle piante e alla
sua modesta abitazione.
In seguito, per altri motivi, abbiamo conosciuto l'avvocato di Lodi, il
quale ci disse: " Se tutti i Marescialli fossero come lei, noi avvocati
potremmo cambiare mestiere". Non è proprio così signor avvocato. Se lei si
fosse interessato del caso, la signora Luisa, per pagare la sua parcella
avrebbe dovuto vendere la magra mucca e anche la baracca, é avrebbe dovuto
andare a vivere sotto i ponti dell'Adda.
Esaminando la posizione sociale della denunciante, abbiamo informato il
Sindaco del comune di Casaletto Ceredano, territorio compreso nella sua
giurisdizione, affinché si adoperasse per farle ottenere una minima
assistenza economico sanitaria in favore della signora anziana bisognosa,
tra l'altro, anche di cure sanitarie.
La località dove abitava la signora Luisa, era un luogo tranquillo e nello
stesso tempo isolato dal mondo; un luogo lambito dal fiume e quindi
soggetto ad essere allagato nel periodo delle piogge. In quelle occasioni,
oltre alle golene, veniva allagata anche la sua modesta casetta.
In seguito, quella località è stata inserita nell'itinerario giornaliero
delle nostre perlustrazioni, e spesso ci fermavamo a conversare con la
nonna Luisa. I ragazzi che prima le erano ostili, dopo il nostro intervento
le portarono un bel gattino in segno di pace, e anche altre cose. Spesso
andavano a farle compagnia ed aiutarla nei piccoli lavori nell'orto.
Cercate di non piangere più! E' brutto veder piangere una nonna. Si,
perché, voi adesso siete la nostra nonna adottiva.
Quando la povera donna si scosse dallo stupore, ormai sorrideva. Ma i
ragazzi se n'erano andati via in silenzio e alla chetichella. Certo,
avevano capito molte cose, che prima non sapevano. Allora la Luisa guardò
il gattino che era ancora spaesato, lo sollevò da terra, lo presi in
braccio ed incominciò ad accarezzarlo. Ormai non si sentiva più sola e
abbandonata da tutti in quella golena di fronte al fiume. Adesso aveva il
conforto e il calore umano che proveniva dal cuore dei bambini che si
univano per strapparle un sorriso.
L'ultima volta che siamo andati a trovare la signora Luisa, e questo è
successo un po' di tempo prima che avvenisse il nostro trasferimento, per
motivi di servizio ad altra sede.
Oh, si, dopo tanto tempo, chi mi viene in mente? La Luisa! Quella simpatica
vecchietta che i ragazzi della golena dell'Adda chiamavano la strega del
bosco, ma nessuno conosceva il suo nome. Da quando era deceduto suo
marito,viveva da sola o meglio in compagnia delle sue galline, il cane: un
bastardino bicolore , la magra mucca, una capretta tibetana e tre gatti.
Coltivava un fazzoletto di terra, alcune piante di vite di lambrusco e
qualche geranio sotto la pergola. Era stata definita una misantropa, perché
conduceva una vita solitaria, senza alcun contatto con gli altri e per
questo motivo i ragazzi la indicavano ironicamente con il soprannome della.
strega del bosco, ma in effetti era una persona semplice , ma onesta e
timorata di Dio, che temeva di far cose ingiuste o di offendere gli altri.
Luisa? Si potrebbe chiamare piuttosto " Nonna Geranio", commentavano alcune
donne che abitavano lungo il fiume. Era una donna taciturna, che cercava il
calore umano e la luce! La Luisa infatti se ne stava tutto il giorno nel
campo ad accudire la mucca, la capra e le galline per non perdere un raggio
del sole benefico che il buon Dio dona a tutti, anche ai più poveri come
lei; e se talvolta, specialmente nel lungo inverno lombardo, era costretta
a starsene tappata in casa e come succede per il lambrusco nelle damigiane
in cantina, anche il lungo inverno finiva di fermentare, la prima finestra
che si spalancava era la sua. Poveretta, aveva sempre freddo! Quelle mani
soprattutto!
Pedalando lungo l'argine del Po, nell'ora del tramonto, quando il paesaggio
e le cose ci appaiono sotto un'altra prospettiva, mentre il grande fiume
della vita scorreva lentamente verso il mare, una piccola nave fluviale
solcava le sue lente e piccole onde, lasciando dietro di se una lunga
striscia bianca e spumosa. Vedendo questa bianca imbarcazione navigare
lungo il fiume, mi è venuta in mente una bellissima poesia della nostra
principessa Tiziana, con la quale chiudiamo questo nostro racconto che é
scaturito da un'autentica ispirazione di un fatto realmente accaduto e non
da un'idea o da impulso improvviso che deriva da un intervento superiore o
dell'immaginazione. Ha contribuito moltissimo la vista di quel quadretto
agreste, che sembrava uscito dal pennello di un grande pittore, con una
vecchina che accudiva una magra mucca, un capretta, alcune galline e una
modesta casetta d'argine illuminata dai colori del tramonto, in quel
paesaggio metafisico, mi hanno richiamato alla memoria una pagina autentica
della nostra vita, dei nostri ricordi di quel tempo passato che non ritorna
più.
Il Cristianesimo
Dopo il grande Papa
Giovanni Paolo II, i signori cardinali hanno eletto il Papa Benedetto XVI,
il quale si è definito: “ Un semplice e umile lavoratore nella vigna del
Signore” ed ha proseguito dicendo : “mi consola il fatto che il Signore sa
lavorare ed agire anche con strumenti insufficienti e soprattutto mi
affido alle vostre preghiere. Nella gioia del Signore risorto,. fiduciosi
nel suo aiuto permanente, andiamo avanti. Il Signore ci aiuterà e Maria
sua Santissima Madre starà dalla nostra parte”.
Abbiamo
letto alcuni cenni biografici del Santo Padre, è abbiamo compreso che
oltre ad essere un grande uomo di fede e anche un grande teologo, un
filosofo, uno storico e un’umanista. Tra le sue numerose pubblicazioni un
posto particolare occupano l’introduzione al “Cristianesimo” e soprattutto
della “Nuova Dottrina della Chiesa”. Parlando della cristianità, abbiamo
letto un bellissimo libro scritto da monsignor Maggiolini sul tema: la
“Fine della cristianità”. Successivamente, . sul “Corriere della Sera”, il
sociologo Francesco Alberoni, nel commentare questo libro, scriveva un
bellissimo articolo, al quale abbiamo attinto e facciamo nostro. Il suo
articolo era intitolato:“Perché il Cristianesimo, anche se muore, poi
risorge”
Monsignore Maggiolini osserva che la società si sta scristianizzando e
che, se continua così, il Cristianesimo potrà addirittura scomparire
dall’Italia. Mi pare impossibile. Sta sparendo, è vero, una certa pratica
religiosa, i dogmi perdono di importanza e viene dimenticato il
catechismo. Ma il Cristianesimo, una volta entrato, lascia nel cuore degli
uomini una strana, indelebile speranza: quella nella redenzione etica del
mondo.
Nei
Vangeli, come leggiamo ogni domenica nell’ascoltare la S. Messa,
apprendiamo sempre più che Gesù annuncia l’avvento del regno di Dio.
Allora ogni colpa sarà perdonata, ogni male eliminato, gli affamati
verranno saziati e il sorriso spunterà sulle labbra di chi piange. E
questa trasformazione incomincia ad avvenire già con la sua presenza sulla
terra. Egli infatti, predica e pratica un ordine morale trascendente.
Nella “
Parabola delle vigne”, il padrone da a tutti lo stesso salario, ai primi
come agli ultimi, facendo valere la sua bontà contro la logica
meritocratica del mondo. In un’altra continua, con una generosità non
umana, un immenso dedito di 10 mila talenti ( un talento equivaleva a
6.000 danari) al suo servo che, invece, esige la restituzione di 100
denari( un denaro era la paga giornaliera di un bracciante agricolo) dal
suo compagno. In quella del “Figliol prodigo”, il padre non solo perdona
le colpe commesse, ma accoglie il figlio dilapidatore festeggiandolo. E’
una bontà inconcepibile, al di fuori degli schemi del comportamento umano.
E questo stesso tipo di bontà Gesù l’attua praticamente. Perdona
l’adultera prima di chiederle il pentimento e la salva dalla lapidazione
rischiando la sua vita. E, come strada per il Regno, dice: “ Non
giudicare, porgi l’altra guancia, ama il tuo nemico.”.
Egli non
lascia una “ Legge” dettagliata come la Toràh ebraica e la Sharia
islamica, ma un ideale trascendente. Nessun cristiano, perciò, può
considerarsi “giusto” o “ salvo”. Ma non può nemmeno ignorare il male,
perché, Gesù si contrappone esplicitamente a Satana, “ il principe del
mondo”. Risultato: il Cristianesimo è una religione complessa, difficile,
che si presta a molte interpretazioni e divergenze. Ma è inconfondibile
proprio perché ha al suo centro quella promessa, quell’ideale sublime. Se
gli uomini lo dimenticano, se non credono più, non cercano più, non
sperano più nella trasfigurazione della natura umana, il Cristianesimo si
eclissa. Se lo ritrovano, rinasce.
Perciò
il Cristianesimo è scomparso nelle guerre quando abbiamo compiuto atti
spaventosi contro gente come noi. E’ scomparso nella caccia alla streghe,
nella persecuzione degli eretici. E’ scomparso nei massacri delle
rivoluzioni francese e russa, nei campi di sterminio tedeschi e sovietici.
Scompare ogni volta che saccheggiamo compiaciuti ciò che hanno costruito
gli altri, ogni volta che perseguitiamo un innocente. Scompare quando ci
facciamo accecare dall’avidità, dall’invidia e dalla vendetta. Quando
inganniamo, falsifichiamo i fatti. Quando ci appelliamo alla legge e alle
istituzioni dimenticando lo spirito che le ha generate. Perché, nel cuore
delle istituzioni dell’Occidente, anche quelle laiche, c’è, quasi sempre,
l’ideale di fratellanza, giustizia e verità che ha trovato la sua
espressione nelle parole e nell’esempio di Gesù Cristo.
Visto in
questa prospettiva, il Cristianesimo è già morto molte volte, e continua a
morire oggi. Però è rinato altrettante volte e continua a rinascere. E’,
morto fra i cristiani e fra i non cristiani, è rinato e rinasce fra i
cristiani e fra i non cristiani.
Noi
osiamo dire che nulla è perduto e che dobbiamo sempre andare avanti e non
“avere paura”, perché Dio e con noi. Il grande padre della Chiesa,
Giovanni Paolo II, il Papa Boys, il grande trascinatori di popoli, ha così
scritto:
“ Quando
giunse la “ sua ora”, Gesù disse che erano con Lui nell’orto del Getsemani,
Pietro,Giacomo e Giovanni, i discepoli particolarmente amati:
“Alzatevi, andiamo!”. Non era Lui solo a dover “ andare” verso
l’adempimento della volontà del Padre, ma anch’essi con Lui.
Anche se
queste parole significano un tempo di prova, un grande sforzo e una croce
dolorosa, non dobbiamo farci prendere dalla paura. Sono parole che portano
con sé anche quella gioia e quella pace che sono frutto della fede. In
un’altra circostanza, egli stessi tre discepoli Gesù precisò l’invito
così: Alzatevi e non temete!”. L’amore di Dio non ci carica di pesi che
non siamo in grado di portare, né ci impone esigenze a cui non sia
possibile far fronte. Mentre chiede, Egli offre l’aiuto necessario per
superare ogni difficoltà.
Parlo di
questo da un luogo in cui mi ha condotto l’amore di Cristo Salvatore,
chiedendomi di uscire dalla mia terra per portare frutto altrove con la
sua grazia, un frutto destinato a rimanere. Facendo eco alle parole del
nostro Maestro e Signore, ripeto perciò anch’io a ciascuno di voi: “
Alzatevi, andiamo!” Andiamo fidandoci di Cristo. Sarà Lui ad
accompagnarci nel cammino, fino alla meta che Lui solo conosce”.
Tu
sei venuto alla riva;
non cercavi né saggi, ne ricchi,
solo mi chiedi che io ti segua.
Signore, mi hai guardato negli occhi,
sorridendo hai pronunciato il mio nome;
sulla spiaggia ho lasciato la barca,
insieme a te solcherò un altro mar”.
“ La
Storia lo giudicherà il Papa più grande dei nostri tempi.
Pochi
hanno influito più di lui – sotto un profilo religioso, ma anche morale e
sociale – sul mondo di oggi”
Così
scriveva Billy Graham – Leader protestante.
Ora che
non c’è più Giovanni Paolo II, affidiamo la nostra grande fede e la
speranza al nuovo Padre della Chiesa, al Papa Benedetto XVI, che è
l’autore del “Nuovo Catechismo”, affinché ritorni quella pratica
religiosa, che molti ritengono perduta, e che i dogmi riprendono
importanza nella cristianità. Perché il Cristianesimo, una volta entrato,
lascia nel cuore degli uomini, quella strana, indelebile speranza: quella
nella redenzione etica del mondo.
Gli
uomini del nostro tempo hanno bisogno di essere spronati, incoraggiati,
stimolati e seguiti.
“Visto
in questa prospettiva, il Cristianesimo è morto molte volte, e continua a
morire oggi. Però, è rinato altrettante volte e continua a rinascere. E’,
morto fra i cristiani e fra i non cristiani, è rinato e rinasce fra i
cristiani e fra i non cristiani. Questo è quello che il Papa Benedetto XVI,
ci ha voluto dire nel suo breve discorso il giorno che è salito sul trono
di Pietro .
Concludiamo questa nostra riflessine con un’espressione d’incitamento di
Giovanni Paolo II:
“Spalancate le porte a Cristo….!
Aprite i
confini degli stati, i sistemi economici, quelli politici…
Non
abbiate paura!”
La fumata bianca
Quel fil di fumo biancastro che usciva dal fumaiolo della Cappella
Sistina, ha richiamato alla mente di in ognuno di noi ricordi del tempo
passato, quando le famiglie, specialmente nei piccoli centri rurali come
il nostro, nelle lunghe serate d'inverno si ritrovavano davanti al
focolare domestico, quando tutta la famiglia era riunita in cucina, che
faceva anche da sala da pranzo e da salotto al tepore del vecchio
focolare,dopo una lunga giornata di lavoro nei campi. Nel focolare il
ciocco rimaneva sempre acceso e veniva alimentato dalla padrona di casa
che era detta l'angelo del focolare. A noi ragazzi, bastava un pugno di
fichi secchi e le castagne arrosto per essere felici, mentre la zia
Cristina, perchè in ognuno di noi c'era una vecchia zia, che era ritenuta
la letterata della famiglia, ci raccontava e favole e ci parlava dei poemi
omerici, mentre oggi in questo nostro tempo consumistico e tecnologico, le
favole le racconta la televisione.
Parlando del focolare domestico, il poeta Giuseppe Ungaretti cosa scriveva
in una sua poesia:
Sedersi accanto al focolare: Sto/ con le quattro/ capriate/ di fumo/ del
Focolare….
La stessa cosa succedeva in ogni parte del nostro Paese e anche a Mantova,
come abbiamo avuto modo di leggere nella rubrica che c'è "Al tabach del
nonno" sulla Voce di Mantova.
Tra le contraddizioni che affliggono la zia mantovana che in questi giorni
E' esplosa in tutta la sua evidenza. Come è¨ noto, questa zia che atea,
eppure di fronte a certe liturgie tende ad emozionarsi, come del resto
facevamo noi ragazzi in quel tempo lontano della nostra fanciullezza. Ma
queste emozioni non hanno nulla a che fare con le favole della zia
Cristina.
Questa volta non si tratta delle favole ma del fumo biancastro che usciva
dal camino della Cappella Sistina che ha annunciato l'evento dell'elezione
del nuovo Papa. Fin dal giorno precedente, le telecamere ed i cronisti di
Rai Uno, erano piazzate su quel fumaiolo per annunciare a tutto il mondo
Dell'evento epocale.
La zia mantovana non poteva fare a meno di apprezzare un rito che risiede
ad ogni insulsa modernizzazione. Non c'è un tabellone luminoso a dare la
notizia, ne un messaggio in internet, ma un semplice fil di fumo. E, poi
le campane a festa. Il camino, il fumo, neppure tanto lontano, in cui la
stufa era il simbolo della casa, della famiglia. Attorno alla stufa, e
prima
ancora al camino, ci si raccoglieva per scaldarsi quando fuori faceva
freddo: sulla stufa bollivano le pentole e là attorno ci si raccontavano
le storie.
I nonni, le zie e le favole. Oggi i nonni e le zie, quando va bene, cioè¨
se sono sani e se lo possono permettere, vivono da soli e li si va a
trovare una volta ogni tanto. Quando va male vengono depositati negli
ospizi. Al massimo possono star seduti vicino ad un termosifone e le
storie, quasi sempre non vere, le racconta la televisione. A loro è
passata la voglia
di raccontare, forse perchè ai figli e ai nipoti è passata la voglia di
ascoltarli. Via i camini, i focolari, le stufe, non è rimasto nemmeno più¹
quell'angolo della casa dove la famiglia aveva ancora un senso. Sulla
stessa lunghezza d'onda l'Argia, con la differenza che lei, fervente
cattolica, a quel camino e a quel fumo ha dato un significato che va oltre
la nostalgia; quel fumo, così povero, così semplice, segna momenti
straordinari per la grande famiglia dei cristiani. Qualcuno, che
evidentemente non ha capito niente, durante le cronache televisive, ha
tentato di rovinare tutto cercando di spiegare come sia possibile produrre
un fumo bianco, ma la poesia, per fortuna è rimasta. Una poesia dal
sapore d'antico, che ha commosso i credenti come l'Argia, ma anche quelli
che non credono come la zia. Fin che ci sarà un filo di speranza. Conviene
attaccarsi a quello. Il resto è talmente pieno di scemenze da risultare
vuoto.Si, è proprio così. I tempi sono proprio cambiati e pure la vita è
cambiata, ma a noi della Terza età , è rimasto il sapore dell'antico, le
tradizioni, il
ricordo vivo di fatti, di valori culturali e di usanze antiche, tramandate
di generazione in generazione ed il ricordo del nostro passato prossimo
non può essere sradicato dalle nuove tecnologie. Tutto questo nessuno
potrà mai portarcelo via. Finchè vivranno questi principi, sicuramente
continuerà ad uscire dal fumaiolo della Cappella Sistina quel fil di fumo,
per annunciare al mondo intero l'avvenuta elezione del nuovo Papa.
Il primo giorno della riunione del conclave, la grande Piazza di San
Pietro, era quasi completamente vuota, mentre fin dalle prime ore del
mattino del 19 Aprile, è stata invasa da migliaia di fedeli e di turisti
provenienti da tutto il mondo. Era quella folla anonima e orante delle
grandi occasioni che eravamo abituati a vedere quando si affacciava da
quella storica finestra il Papa Giovanni Paolo II.
Nelle prime ore del pomeriggio, dalla grande finestra di Rai Uno, in
diretta Tv, il cronista annunciava l'avvenuta fumata bianca e da un
momento all'altro si attendeva l'apparizione del cardinale camerlengo dare
l'annuncio del nuovo Papa, successore di Giovanni Paolo II. L'annuncio non
si fece attendere molto e dal balcone della Basilica di san Pietro, ecco
il solenne annuncio che il mondo intero stava attendendo.
Mattutino
Tu es Petrus
Ricordiamo i funerali del Papa Wojtyla, Giovanni Paolo II con un brano del
vaticanista Gianfranco Ravasi, che così scrive :
"E proprio qui, ai piedi di questa stupenda policromia sistina/
si riuniscono i cardinali -/
una comunità responsabile per il lascito delle chiavi del Regno…./
La policromia sistina allora propagherà la Parola del Signore: /
Tu es Petrus -udì Simone, il figlio di Gitana./
" A te consegnerò le chiavi del Regno"…./
Era così nell'agosto e poi nell'ottobre,/
del memorabile anno dei due conclavi,/
e così sarà ancora, quando se ne presenterà l'esigenza/
dopo la mia morte.
Mentre le spoglie terrene di Giovanni Paolo II ricevono il saluto della
Chiesa e dei popoli e la preghiera si fa veramente universale, noi
ritorniamo a quei versi che egli aveva scritto nel 20003 nell'opera
poetica Trittico romano.
Egli evocava quel lontano 1978, il " memorabile anno dei due conclavi":
là, sotto il gigantesco Cristo di Michelangelo e la tenera e quasi timida
Vergine Madre, egli aveva pronunciato quell'accettazione che avrebbe
cambiato, certo, la sua vita ma che soprattutto avrebbe profondamente
inciso in quella della Chiesa e della stessa storia mondiale.
Senza imbarazzo, con la serenità della fede, egli aveva già guardato anche
a questo giorno, quello della sua morte. Anzi, aveva immaginato di
seguire, stando ormai nella casa del Padre divino, la vicenda della
successione apostolica, segno della Chiesa che continua il suo
pellegrinaggio nel tempo e nello spazio.
Ecco,allora, che risuonano quelle parole di Cristo che incombevano scritte
o cantate su di lui nella Basilica vaticana tutte le volte che in essa
celebrava: Tu es Petrus. E' il messaggio di fiducia rivolto alla Chiesa
che naviga attraverso i secoli, superando bufere e valicando nuovi mari. A
noi il Papa continua a ripetere di " non aver paura" e di seguire - come
un giorno aveva detto -"Cristo via principale della Chiesa, ma che è anche
la via di ciascun uomo".
Il trenino rosso
Oggi non siamo qui davanti al nostro personal computer, per descrivere le
consuete passeggiate sui sentieri Alpini e Dolomitici, su quel paesaggio
innevato ed ovattato dalla neve, per scoprire che la tendenza del nostro
corpo, nonostante la leggerezza dell'aria e dello spirito,é comunque
quella di scendere verso il basso e poi, già che ci siamo, fino a valle,
mentre oggi ci succede al contrario, dalla grande valle terrazzata di
Tirano, saliamo verso il Marteratsch, il ghiacciaio più grande delle Alpi
Retiche,dove regna il silenzio e la solitudine interiore di questi luoghi
incantati, di questi luoghi dei folletti e delle fate. Finalmente, dopo un
lungo, brumoso e freddo inverno padano, il CAI di Mantova,sotto la guida
sapiente dell'amico Sandro Zanellini, ha messo da parte i tradizionali
sentieri dolomitici, e ha come si suol dire, rotto il guscio ed ha varcato
i confini del nostro meraviglioso Paese, per scoprire una località
particolare e non consueta alla maggior parte di noi vecchi veterani
dell'escursionismo nostrano.
Mentre il Trenino Rosso, attraversava la grande vallata gelata al cospetto
del grande e superbo ghiacciaio, dove regna soprattutto la pace, la
meditazione, l'armonia e la bellezza dei luoghi, della luce e dei colori,
ma soprattutto dove regna il silenzio, che per un attimo ti sembra di
rivivere quel religioso silenzio dei chiostri. Ad un tratto del
percorso,Adriana mia moglie, parlando del silenzio ,mi ha chiesto: " Ma da
dove scaturisce tanta pace e questo infinito silenzio ovattato dalla
grande valle ghiacciata? Oh, si, il silenzio:
"Il silenzio,viene di là dai tempi, dalle
epoche anteriori ai mondi, dai
luoghi dove i mondi più non esistono."
Ci voleva proprio il famoso "Trenino Rosso: una ferrovia internazionale a
scartamento ridotto Tirano - Bernina - Sant Moritz", il treno che scala le
montagne incantate, per farci scoprire una pagina di una meravigliosa
favola creata dalla tecnologia e della sapiente mano dell'uomo. Si, è
proprio così, oggi parleremo di un trenino che scala le montagne in uno
scenario spettacolare da quinta teatrale: un indimenticabile percorso
ferroviario che inizia, appunto, da Tirano e termina nella bellissima
cittadina di Sant Moritz, in territorio Elvetico.
Prima di iniziare a parlare di questo nostro viaggio mozzafiato sul
Trenino Rosso, che supera una pendenze del 70% ( senza cremagliera),
raggiungendo un'altitudine di 2253 metri sul livello del mare, che senza
dubbio, è una cosa unica in Europa, ci dobbiamo soffermare e raccontare le
nostre impressioni sulla bella cittadina di frontiera di Tirano, che sorge
in una bellissima vallata terrazzata, dove germoglia fin dall'antichità,
la vite, probabilmente portata dai Romani.
Tirano conserva resti delle mura e del castello medioevali, due porte
turrite del XV secolo ( erette per volere di Lodovico il Moro), la
quattrocentesca collegiata di San Martino, con campanile romanico e bel
portale laterale. Palazzi signorili dei secoli XVI, XVII e XVIII, adorni
di pregevoli affreschi, stucchi e "stufe". Notevolissimo è il santuario
della Madonna di Tirano, con portale romanico e l'interno di un bellissimo
barocco fiorito, mentre l'organo ligneo è l'opera più pregevole che dà al
Santuario una larga fama e suscita l'ammirazione dei visitatori.
Silvio, il bravissimo conducente del pesante pullman, appena entrato nel
centro storico della bella cittadina di Tirano, con una manovra a lui
congeniale, che fa parte delle sue quotidiane abitudini, ha effettuato un
seme giro della Piazza, e si è andato a fermare proprio di fronte alla
collegiata di San Martino, dove è ubicato un Bar,dandoci la possibilità di
poter sorbire in santa pace, la tradizionale tazzina di caffé fumante.
Gioia e delizia di noi italiani.
Palazzo Salis.
Poco discosto dalla collegiata, sorge il Palazzo Salis, dove eravamo
attesi dalla simpatica e bravissima signora Angela,la direttrice
dell'antica casa vinicola Salis. Appena ci ha visti, ci ha accolti con il
tradizionale salito: " Allegra!" che è il saluto ospitale che gli
Engadinesi si scambiano quando si incontrano La signora Angela,.ci stava
aspettando per la visita dell'antico maniero . La storia della famiglia
Salis ha origine nel lontano Medioevo quando attorno al XII secolo i primi
rappresentati, infeudati dal vescovo di Coira, si trasferirono dalle
originarie terre comasche a Soglio in Val Bregaglia, la valle che da
Chiavenna porta a nord - est verso l'Engadina, qui ebbero origine i vari
rami della famiglia Salis che si sparsero successivamente in diverse
località dell'attuale Svizzera, soprattutto nella regione di Coira. Un
ramo della famiglia Salis, e precisamente Rodolfo Andrea von Salis Zizers
fu infeudato di vari beni in Valtellina e così toccò al figlio Giovanni
pensare ad amministrarli.
Dopo essersi stabilito a Tirano nel 1646, egli fu nominato due volte
podestà grigione e poi governatore della Valtellina, iniziando la
costruzione del palazzo di Tirano, che abbiamo visitato, locale dopo
locale. Alla fine della visita del bellissimo palazzo Seicentesco, siamo
stati introdotti nel " Santuario della cantina". Sul lato sinistro dello
Scalone si accede attraverso un vecchio portone in legno di castagno, alle
cantine che si sviluppano sotto l'intero perimetro del corpo centrale del
palazzo. La nostra accompagnatrice, ci ha spiegato che da documenti
dell'epoca attestano che dal 1665 la famiglia Salis riforniva, con i suoi
pregiati vini, le nobili famiglie locali oltre al vescovato di Coira e
alla Corte dell'imperatore Leopoldo I d'Asburgo. Nel nostro percorso
esplorativo, abbiamo constatato che le cantine si collegano ad un'ampia
struttura a rustico, adiacente al palazzo, dove ha la sede produttiva
l'azienda vinicola.
Prima di congedarci, la signora Angela, ci ha offerto un ricco spuntino,
innaffiato il tutto con gli ottimi vini che si producono nelle vigne
terrazzate della Valtellina.
Il poeta così faceva a scrivere.
Oltre la montagna, nella gola della luna crescente,
là, dove Oriente sposa Occidente,
Mimue ricerca ognor cosciente
quel che d'attraente le riserva
il presente.
Eterna giovinezza
in coppa poi accarezza,
anelando dentro al vino, ciò che a noi cela il divino
Nel tardo pomeriggio, abbiamo raggiunto il piccolo paese terrazzato di
Teglio, che è barbicato al vertice della collina, dove germoglia da sempre
la vite e da dove si ammira un paesaggio mozzafiato. E' circondato
dall'acrocoro di montagne altissime che hanno per sfondo il massiccio
delle alte e innevate montagne Orobiche che fra l'altro, fu sede del
trattato del 1512 in virtù del quale Tirano passò ai Grigioni. In questo
borgo medioevale di grande bellezza paesaggistica, in posizione panoramica
di grande respiro, sorge l'Hotel Ristorante Combolo, che ci ha ospitati
per la cena ed il pernottamento.
Benvenuti alla Cena in Valtellina.
Qui a Combolo, è nata L'Accademia del Pizzochero, una specie di
tagliatelle confezionate con la farina di grano Saraceno e condite con i
famosi formaggi di Teglio. Nel menù del nostro convivio, perché di un
convivio si è trattato, oltre agli Sciatt di Teglio su prato di cicorietta.
Per, primo piatto ci sono stati serviti i famosi "Pizzoccheri
dell'Accademia, mentre per secondo piatti, la Brisavola con Crema di
Braulio. Naturalmente, come succede in queste cene convivio, non si è
andato per il sottile con le libagioni. Le bottiglie dell'ottimo vino dei
colli terrazzate di Teglio, hanno fatto la loro parte. Insomma, eravamo
tutti allegri e felici di aver trascorso una serata in grande allegria.
Il nostro pullman, condotta dall'amico Silvio, alle ore 8 del mattino, era
già pronto davanti all'albergo Combolo, gestito dalla famiglia di Laura
Valli, che ci ha accompagnati con il famoso Trenino Rosso della Bernina
fino a Sant Moritz. Dalla stazione di Tirano ci accingiamo a compiere per
la prima volta un viaggio che possiamo definirlo ,un viaggio d'avventura.
Attraversando regioni di confine così diverse, ma per certi versi molto
simili, potremmo cogliere gli aspetti più suggestivi di un tragitto che
non si limita ad essere un semplice collegamento tra l'Italia e la
Svizzera, ma si rivela un'occasione per un diretto confronto tra due
realtà che presentano una certa affinità sia dal punto di vista geografico
che culturale.
Quindi, è stata un'avventura unica nel suo genere a bordo di un mezzo
unico in Europa: il Trenino Rosso del Bernina, che senza l'aiuto della
cremagliera, ma esclusivamente per adesione, " si arrampica" sulla
montagna raggiungendo, nel punto più alto, la stazione ferroviaria
dell'Ospizio Bernina, a 2253 metri, fermata che prende il nome
dall'omonimo ospizio, situato sul valico della carreggiata del Passo
Bernina a 2309 metri.
Dopo un paio d'ore di viaggio su quel fantastico Trenino Rosso, eccoci
giunti all'agognata meta della nostra singolare avventura. Siamo a Sant.
Moritz, il cuore della mondanità engandinese di fama internazionale, dove
sorgono le ville più belle dei grandi personaggi dell'industria, del
cinema e dello sport. Le piante dei giardini delle di queste bellissime
residenze erano, tutte fiorite. Insomma, era un'esplosione di luci e di
colori in quella vallata riparata dalle grandi montagne innevate, dove
grazie al microclima, ti sembra di vivere in un altro mondo, in un'altra
dimensione.
Per concludere questo nostra avventura molto piacevole, dobbiamo
doverosamente rendere omaggio alla simpatica signorina Laura Valli, che
tra l'altro, è autrice di un bel libretto escursionistico,che illustra
sapientemente la valle di Tirano e di Sant Moritz, che ci ha fatto da
guida per tutto il viaggio, raccontandoci ogni particolare sia storico che
culturale. Ella, oltre che bravissima guida turistica, è una giovane molto
simpatica e estroversa. Grazie Laura
Cronaca padana
Nel corso della nostra vita, spesa al servizio delle istituzioni, noi
carabinieri, quali tutori dell'Ordine e della sicurezza pubblica, siamo
stati chiamati a risolvere molti casi del genere, gravi e meno. gravi,
impegnativi e semplici. Ci viene alla mente un caso buffo, ma che aveva le
caratteristiche di un fatto di grande criminalità, oggi divenuto quasi di
modo, il sequestro ed il rapimento di una persona. Sicuramente,
l'intervento era giustificato in merito alle prime e frammentarie notizie
che giungevano, via filo, da un Comune compreso nella nostra
giurisdizione.
Nella centrale Piazza del borgo antico e storico di Commessaggio, una
piazza dalla quale si diramano Via Alessandro Borrini e Via Carducci, a
quell'ora, davanti ai bar e davanti alle case, sostavano diecine di
persone in cerca di un po' di sollievo dall'afa opprimente di quella sera
d'agosto..
Premettiamo che Commessaggio è ubicato nella valle Padana, ove l'afa sta
veramente di casa, specie nel mese di luglio e in quello di agosto.
Erano le ore 22 circa, del 17 agosto del 1979, quando due autovetture
provenienti dalla Circonvallazione, giunte in piazza si erano arrestate,
ne erano scesi sei o sette persone che avevano sparato alcuni colpi di
arma da fuoco contro un giovane che si trovava già nella piazza,
esattamente all'angolo tra questa via e via Borrini, il quale indossava
una maglietta bianca ed in seguito agli spari era caduto a terra, ma era
stato sollevato prontamente dai suoi feritori e caricato su una delle
vetture, ma non nei sedili, nel baule.
Da tale segnalazione, come si vede ce n'era a sufficienza per suffragare
l'ipotesi del regolamento di conti, oppure del sequestro di persona. Noi
investigatori abbiamo tenuto in conto soprattutto questa seconda ipotesi,
facendo riferimento al fatto che i colpi d'arma da fuoco esplosi nella
piazza potevano essere destinati ad intimorire un possibile ostaggio, non
necessariamente a provocare il ferimento di qualcuno, Al riguardo non
doveva essere dimenticato che il Borgo ove era avvenuta l'azione criminosa
si trova proprio a cavallo tra due altri paesi e che in uso di questi , un
mese prima, era stato sequestrato un commerciante. Appena siamo giunti sul
posto, abbiamo avuto la sensazione che si fosse trattato di una
segnalazione fasulla, quanto della segnalazione di un episodio ritenuto
tanto grave quanto autentico ed invece rilevatosi una vera messinscena .
Dapprima, come avviene sempre in questi casi, abbiamo registrato una serie
di "non so, non c'ero"; " ne ho sentito parlare e non ho visto nulla". Il
classico atteggiamento di chi sta sulla difensiva nelle eventualità di "
avere delle grane" come del resto succede ogni giorno nel nostro Paese,
tormentato dalla malavita organizzata, dove questi fatti succedono per
d'avvero e non nella finzione, come è risultato il nostro racconto.
Successivamente, quando il clima si è fatto più disteso, quando i primi
accertamento hanno reso possibile scartare con quasi assoluta certezza
l'ipotesi del ferimento o del rapimento " veri", tutti si sono un pò
sgelati e in molti hanno finito per dire che, loro , avevano capito
benissimo che si trattava di uno scherzo. Sicuramente il fatto aveva
destato allarme e non solo fra la popolazione che aveva assistito, sia
pure a breve distanza, a tutto ciò che era accaduto.
Dalle prime indagini svolte sulla Piazza in cui era stata segnalata la
sparatoria non erano stati rinvenuti bossoli " e questo sarebbe stato
spiegabile con l'uso di un revolver", ma soprattutto non era stata trovata
alcuna traccia di sangue, tanto meno risultava denunciata la scomparsa o
il rapimento di alcuna persona. Ci eravamo subito resi conto che si era
trattato di uno stupido scherzo e quindi avevamo iniziato le relative
indagini per l'identificazione dei responsabili dell'insano gesto. E'
stato un lavoro di normale amministrazione ed in poco tempo, siamo giunti
all'identificazione di tutti i giovani, perché di giovani si trattava che
avevano preso parte alla, diremo così, bravata. Sulla dinamica
dell'episodio è risultato che tutto si è svolto nelle modalità descritte,
si è trattato, di un stupido scherzo di un branco di giovinastri di un
paese vicino, come del resto lo hanno dimostrato le indagini
successivamente svolte, in vena di sfogare la noia derivante dal caldo
afoso di quel lontano agosto, con una bravata allo scopo di spaventare
qualcuno e provocare l'intervento in forze dei carabinieri e degli agenti
di P.S.
L'indagine è continuata fino al suo normale esaurimento, non solo per
ulteriore verifica dei fatti, quanto per fare luce completa e soprattutto
per l'identificazione degli autori della stupida messinscena . Essi non si
sono resi conto che non si può scherzare simulando episodi che purtroppo
sono ormai all'ordine del giorno nel nostro martoriato Paese a cui spesso,
troppo spesso, siamo chiamati ad assistere, a volte passivamente. Abbiamo
volutamente citato questo stupido episodio, soltanto per fare conoscere di
cosa sono capaci i nostri ragazzi ma ciò non è colpa loro. La colpa è
soltanto del sistema, del progresso, della tecnologia e anche e
soprattutto di noi adulti. Essi sono continuamente bombardati da notizie
spesso esagerate, dalla grande informazione che propone loro scene e
sequenze di atti svolti dalla grande criminalità. Andate piano ragazzi,
non cercate di imitare le brutture della vita.
- Tratto da Memorie di uno scrittore -
Un gioco pericoloso da ragazzi
Parafraso il titolo di un vecchio film del neorealismo che ha messo in
evidenza problemi di carattere soprattutto sociali e politici. Era
l'Italia del dopoguerra, anche al di là delle rovine provocate dalle
bombe, era un Paese prevalentemente agricolo. Le nostre fabbriche erano
state distrutte e le nostre esportazioni erano poca cosa, così senza
scambio non eravamo in grado di importare ciò che ci era assolutamente
necessario per la nostra sopravvivenza e per il nostro progredire. Gli
uomini validi, quelli che erano sopravvissuti alla guerra crudele,
cercavano la sopravvivenza emigrando nei Paesi vicini, oppure si
arruolavano volontari nell'Arma dei Carabinieri o nelle altre forze di
polizia. Solo i giovani hanno di questi momenti. Non parlo dei
giovanissimi. No. I giovanissimi, per essere esatti, non hanno momenti. E'
privilegio della prima gioventù di vivere in anticipo sui propri giorni,
in tutta una bella continuità di speranze che non conosce pause né
introspezioni.
Uno chiude dietro di sé il piccolo cancello della mera fanciullezza ed
entra in un giardino incantato. La perfino le ombre splendono di promesse.
Ogni svolta del sentiero ha una sua seduzione. E non perché sia una terra
ignota. Si sa bene che tutta l'umanità ha percorso quella strada. Ma si è
attratti dall'incanto dell'esperienza universale da cui si attende di
trovare una sensazione singolare o personale: un po' di se stessi.
Si va avanti, allegri e frementi, riconoscendo le orme di chi ci ha
preceduti, accogliendo il bene e il male insieme - le rose e le spine,
come si dice - la variopinta sorte comune che offre tante possibilità a
chi le merita o, forse, a chi ha fortuna. Si. Uno va avanti. E il tempo
pure va avanti, finché ci si scorge di fronte una linea d'ombra che ci
avverte di dover lasciare alle spalle anche la ragione della prima
gioventù.
Lo scrittore Joseph Conrad, nel suo libro " La linea d'ombra", cosi
scrive:Questo è il periodo della vita che può portare i momenti ai quali
ho accennato. Quali momenti? Momenti di tedio, di stanchezza, di
scontento. Momenti d'irriflessione. Parlo di quei momenti nei quali i
giovani sono propensi a commettere atti inconsulti", come a commettere un
finto rapimento e a rinunciare ad un'occupazione senza motivo.
Ecco il titolo del film al quale ci riferiamo:
" Non c'è pace fra gli ulivi"
Oggi l'Italia è un paese moderno dove più ancora dell'industria sono i
servizi a trainare l'economia così come negli altri grandi paesi
dell'Ovest. Oggi nel nuovo lima politico sociale siamo risultati la 5^
potenza mondiale e le nostre tecnologie sono conosciute dappertutto il
mondo e non solo per l'alto livello tecnologico, ma per la ricchezza, la
quantità e la qualità dei nostri prodotti. Quindi possiamo affermare che
dall'ultimo conflitto mondiale, da quel cumulo di macerie che era il
nostro paese Paese, il progresso scientifico e tecnologico ha reso
possibile l'affermarsi di una nazione democraticamente progredita che ha
raggiunto il vertice, ponendosi al livello delle grandi potenze mondiali.
Possiamo benissimo dire che è passata molta acqua sotto i ponti da quei
lontani momenti bui della nostra storia.
In questi ultimi anni abbiamo assistito alla caduta dei muri, delle
frontiere dei paesi dell'Est Europei, ed ogni giorno assistiamo al crollo
di quel grandissimo castello di cartapesta, come dicono i politici, che
per 45 anni ci ha fatto veramente paura, una paura ossessiva. Anche quei
popolo oppressi torneranno ad acquisire quella libertà agognata e con essa
la speranza di una vita migliore, la stessa vita che andavano cercando i
nostri emigranti attraverso i paesi dell'Europa, di cui narrava la storia
quel vecchio film neorealista della fine della guerra.
Oggi nel nuovo clima politico - sociale, in questo disordine, con si
capisce e non si sa neppure dove si vuole andare. Tutto questo marasma,
questo stato grave e progressivo di emancipazione e nello stesso tempo di
decadimento degli organismi politico - sociali - è molto palese, sia nelle
grandi città che nei centri periferici.
In quest'era moderna del grande consumismo di massa, giorno dopo giorno,
veniamo bombardati e questa volta non dagli aerei nemici, ma dalla stampa
nazionale ed internazionale, nonché dalle reti televisive, sui gravi fatti
di criminalità che ogni giorno succedono nel mondo ed in particolare nel
nostro Paese.
Di fronte a questo stato di cose l'enorme progresso scientifico e
tecnologico non perde certo la sua importanza, ma non basta da solo a
conciliare radicalmente tutti gli aspetti tristi e meno tristi della vita,
per poter dare la tranquillità all'uomo. Tali fatti, giorno dopo giorno,
diventano sempre più drammatici. Come abbiamo detto, in questo marasma
istituzionale, si è creata instabilità in ogni settore dell'economia
nazionale e non solo in questo settore, ma anche in quello produttivo e
sociale.
Ogni giorno, migliaia di uomini delle forze dell'ordine sono sul piede di
guerra, di quella guerra che sembra senza fine. Essi sono impegnati
costantemente, sia di notte che di giorno, per reprimere e prevenire,
nonché risolvere problemi che interessano l'intera collettività.
Dal Sud al Nord del nostro meraviglioso Paese, oggi come oggi, non c'é
veramente pace fra gli ulivi.
Dal Mezzogiorno d'Italia, alla Sicilia, alle Alpi e alla grande e
mobilissima Valle Padana i fenomeni di delinquenza organizzata e della
grande criminalità stanno diffondendosi a macchia d'olio. Dal traffico
degli stupefacenti al racket del - pizzo - e delle tangenti, dei boss in
libertà e della Giustizia diremo così malata e un susseguirsi di atti
criminosi. Si può sicuramente dire che ogni giorno, le piazze, le strade
delle nostre città e dei piccoli centri periferici, vengono continuamente
irrorati dal sangue generoso dei nostri figli migliori, da quegli uomini
valorosi e impavidi che combattono la grande criminalità organizzata, per
garantire il normale svolgimento della vita degli uomini e delle
Istituzioni del nostro Paese democratico.
- Tratto da Memorie di uno scrittore -
Tanti consigli ed è subito business
Se è vero che nel 2030 ci saranno più di 15 milioni di italiani con oltre
65 anni, è facile prevedere un allargamento notevole dell'indotto relativo
all'invecchiamento. L'attesa media di vita a quell'epoca dovrebbe arrivare
a 78 anni per gli uomini e 85 per le donne, quindi ancor di più sarà un
buon investimento preoccuparsi dei bisogni di costoro. Già da ora il
pullulare di consigli, non sempre disinteressati, sull'alimentazione e le
terapie " i sostegno" costituiscono una letteratura cospicua sia in
edicola che in libreria. Tra gli ultimi pubblicati c'è la "Guida per
invecchiare bene e vivere a lungo" di Olivier de Ladoucette ( Newtonfg
Compton), monumentale prontuario di rimedi e citazioni che abbraccia tutti
gli aspetti del passaggio critico verso l'età avanzata. Dai " predatori
del ricordo", poetica definizione dell'ictus amnesico, agli incidenti
dello sport che valgono per chi naturalmente può permettersi di fare sport
in vecchiaia. Per tutti gli altri, distorsioni, epicondiliti, fratture e
stiramenti si curano alla stessa maniera, anche se a provocarli non è la
racchetta da tennis, ma lo spazzolone per dare lo straccio sui pavimenti.
Non ci si tira indietro sugli aspetti che riguardano la sessualità
dell'anziano, delle magiche pilloline azzurre al massaggio testicolare .
Più riservato a un'elite per cui i capelli bianchi sono l'orgoglio che
attesta una vita di successo è il " Vivere a lungo e bene" edito da
Marsilio. Esperti dibattono sui problemi della vecchiaia nell'ambito di un
premio che viene dato ogni anno a Cortina d'Ampezzo a illustri e
privilegiati testimonial dell'invecchiamento come Zichichi, Veronelli o
Rita Levi Montalcini. Lo storico ispiratore del premio è Alvise Corsaro,
autore cinquecentesco di un trattato dal titolo " Come vivere a lungo e
bene" che anticipava, di qualche secolo, ma con ponderato realismo, i
consigli più spiccioli che oggi occhieggiano in tante pillole di saggezza
che è possibile cogliere ciclicamente in moltissimi periodi. Medici e
specialisti, anche forti della loro esperienza di vita, dicono la loro
sull'antico problema della gioventù che fugge. Radicali liberi, oli
essenziali, antiossidanti in abbondanza. Attività stimolanti, confronti
intellettuale, seguire convegni e coltivare rose ( già ma al centro
anziani si può scegliere di solito solo tra le bocce e lo scopone).
Qualcuno suggerisce che la compagnia di uno o più cani, senza considerare
quanto possa incidere nel budget di un medio pensionato il loro
mantenimento, soprattutto quanto il quadrupede che tira sia causa di
rotture di femori e rotule da parte di chi con osteoporosi o mano tremola
stia dall'altra parte del guinzaglio. Chi magnifica il potere rinvigorente
della scherma, chi dello sci fuoripista dove non c'è nessuno.
Già, ma perché illustri scienziati del mantenimento senile non si fanno un
giro d'inverno nei giardinetti pubblici? Dove filtra uno spicchio di sole,
vedranno folle anziane di lucertole incappottate. E d'estate perché non si
affacciano negli ipermercati? Sono le uniche oasi con aria condizionata,
dove i vecchi metropolitani passano le giornate per fuggire alla misera
gloria di " far numero" tra le vittime del clima, punto di forza dei
telegiornali in tempo di ferie.
Noi che non siamo nati ieri, ma molti anni fa, e precisamente nel lontano
1927, in quel piccolo borgo aspromontano di Cosoleto, dove gli anziani si
sedevano sulle panchine o sui muretti nella piazza del Municipio, e ci
raccontavano la loro vita di gioventù. Quelle persone non erano vecchi, ma
erano soltanto imbruttiti a causa del duro lavoro nei campi, nelle miniere
e nei cantieri delle grandi metropoli degli Stati Uniti. Era gente
invecchiata prima del tempo, ma con il sorriso sulle labbra e non avevano
i grilli per la testa, come succede ai nostri giorni.
Noi non andiamo a sedersi nei giardinetti del paese,prima di tutto che qui
a Campitello dove noi viviamo felicemente in pensione, non ci sono
giardinetti, ma quando possiamo andiamo con gli amici del CAI di Mantova,
a fare una bella escursione sulle meravigliose vallate e gli altopiani
innevati delle Dolomiti, dove si respira una boccata d'aria pura. Non è
necessariamente obbligatorio scalare le alte cime come facevamo un tempo,
ma una breve passeggiata nei sentieri pianeggianti. E quello che ci vuole
per stare in buona salute, oltre a una buona e sana alimentazione Oggi,
per vivere meglio e più a lungo, è necessario camminare per almeno 30
minuti al giorno,come ci suggeriscono i medici e gli esperti nutrizionisti,
avere degli hobby, essere interessati a qualche cosa, come scrivere e
leggere un buon libro, dipingere un bel paesaggio, socializzare con gli
altri e giocare alle carte. Si, proprio così! Un vecchio proverbio così
recitava: " Giocare alle carte, amare le donne e fumare la pipa, è la cosa
più bella della vita. Non importa che il nostro ministro della salute
Sirchia, con una legge che porta il suo nome abbia di recente vietato il
fumo, noi continuiamo a fumare la nostra amica pipa.
- Tratto da Memorie di uno scrittore -
Lo scorcio panoramico del castello Miramare
Dopo un lungo itinerario, che abbiamo attraversato la grande pianura
Padana - Veneta, possiamo dire di essere giunti alle porte di Trieste. Il
Castello Miramare, é un flash che coglie chiunque giunga dalla pianura, é
un piccolo paradiso per gli occhi, con i suoi declini ondulati, la macchia
mediterranea ed il suo parco di piante rare. Il castello ci appare
improvviso sull'estrema punta tra il mare e il verde, appollaiato sul
costone del parco, ma quel castello fantastico che ci é apparso come un
flash, é subito sparito dietro la montagna che scende e precipita subito
nel mare azzurro formando una meravigliosa insenatura. Si potrebbe dire
che ci é apparso come un miraggio, uno di quei miraggi improvvisi che
spariscono subito, dandoci l'impressione di assistere ad un fenomeno
ottico, in uno di quei fenomeni che si verificano solo nei deserti
infuocati , come quello del Sahara o la Valle della morte in California,
dovuto ad uno di quei fenomeni di rifrazione ottico consistente nella
deviazione che subisce un raggio luminoso quando da un mezzo trasparente
passa in un altro mezzo trasparente diverso, (per esempio, dall'aria
all'acqua, dall'aria al vento o da uno strato all'altro dell'atmosfera),
per cui gli oggetti lontani appaiono in due immagini, una delle quali
capovolta, come se fosse riflessa da uno strato d'acqua. Infatti, in quei
pochi attimi che osservavo il paesaggio da finestrino dell'automezzo, si é
verificato tutto questo: prima abbiamo visto il castello sull'estrema
punta rocciosa, ma subito dopo il riflesso nelle acque della piccola baia
per poi sparire del tutto. Anche il pullman era sparito in una piccola
galleria che attraversa il costone roccioso che termina nella baia dove
sorge il castello. Quando era uscito dall'altra parte della montagna,
l'immagine dello stupendo maniero era completamente sparito, ma si poteva
ammirare il bellissimo parco ed il mare: un balcone panoramico proteso
verso l'orizzonte, creando un paesaggio suggestivo e fantastico, da dove
l'occhio si perde e si fonde tra cielo e l'immensità del mare.
Seguiamo il lungomare ombreggiato da meravigliosi pini marittimi ed altre
piante rare , dove una piccola folla di bagnanti stava prendendo il sole
sul lungo molo, mentre tanti bambini correvano felici sotto l'ombrosa
pineta. Davanti alla Stazione Ferroviaria, il torpedone si é fermato per
caricare la nostra guida che ci stava attendendo ed é subito proseguito
verso il centro della città e lungo il litorale, dove sorgono gli impianti
portuali e i vecchi cantieri navali di cui Trieste ne andava orgogliosa.
Oggi quei cantieri, che in passato sono stati un vanto delle maestranze
triestine, ora sono fermi ed in parte trasformati in altre attività
commerciali. Vi sono rimasti soltanto i bacini di carenaggio, dove le navi
vengono messe in secco per la riparazione della carena. Proseguendo oltre,
il torpedone si é fermato sul Piazzale della Risiera di San Sabba.
La Risiera.
Il grande complesso di edifici dello stabilimento per la pulitura del riso
- costruito nel 1913 nel periferico rione di San Sabba - venne dapprima
utilizzato dall'occupatore nazista come campo di prigionia provvisorio per
i militari catturati dopo l'8 settembre 1943 ( Stalag 339). Verso la fine
di ottobre, esso venne strutturato come Polizeihafdtlager ( Campo di
detenzione di polizia), destinato sia allo smistamento dei deportati in
Germania e in Polonia e al deposito dei beni razziati, sia alla detenzione
ed eliminazione di ostaggi, partigiani, detenuti politici ed ebrei.
Nel sottopassaggio, si trova il primo stanzone posto alla sinistra di chi
entra era chiamato " cella della morte". Qui venivano stipati i
prigionieri tradotti dalle carceri o catturati in rastrellamenti e
destinati ad essere uccisi e cremati nel giro di poche ore. Secondo
testimonianze, spesso venivano a trovarsi assieme a cadaveri destinasti
alla cremazione.
Proseguendo sempre sulla nostra sinistra, si trovano, al pianterreno
dell'edificio a tre piani in cui erano sistemati i laboratori di sartoria
e calzoleria, dove venivano impiegati i prigionieri, nonché camerate per
gli ufficiali e militari delle SS, le 17 micron - celle erano riservate
particolarmente, (come ci ha spiegato il signor Bruno Ralza, la nostra
guida triestina, una persona molto preparata e soprattutto simpatica) ai
partigiani, ai politici, agli ebrei, destinati all'esecuzione a distanza
di giorni, talora settimane. Le due prime celle venivano usate a fini di
tortura o di raccolta di materiale prelevato ai prigionieri: vi sono stati
rinvenuti, fra l'altro, migliaia di documenti d'identità, sequestrati non
solo ai detenuti e ai deportati, ma anche ai lavoratori inviati al lavoro
coatto ( tutti i documenti, prelevati dalle truppe iugoslavi che per prime
entrarono nella Risiera dopo la fuga dei tedeschi, furono trasferiti a
Lubiana, dove sono attualmente conservati presso l'Archivio della
Repubblica di Slovenia) Le porte e le pareti di queste anticamere della
morte erano ricoperte di graffiti e scritte: l'occupazione dello
stabilimento da parte delle truppe alleate, la successiva trasformazione
in campo di raccolta di profughi, sia italiani che stranieri, l'umidità,
la polvere, l'incuria - in definitiva - degli uomini hanno in gran parte
fatto sparire graffiti e scritte. Ne restano a testimoniare i diari dello
studioso e collezionista Diego de Henriquez ( ora conservati dal Civico
Museo di guerra per la pace a lui intitolato) ove se ne trova l'accurata
trascrizione. Quelle che abbiamo visto e letto noi, sono alcune pagine
riprodotte nel percorso della mostra storica.
Bruno Ralza, ci ha spiegato che nell'edificio a quattro piani venivano
rinchiusi, in ampie camerate, gli ebrei e i prigionieri civili e militari
destinati per lo più alla deportazione in Germania: uomini e donne di
tutte le età e bambini anche di pochi mesi. Da qui finivano a Dachau,
Ausghwitz, Mathausen, verso un tragico destino che solo pochi hanno potuto
evitare.
A favore di cittadini prigionieri nella Risiera - ed in particolare dei
cosiddetti " misti" ( ebrei coniugati con cattolici) - intervenne
direttamente presso le autorità germaniche il vescovo di Trieste, mons.
Santin, in alcuni casi con successo ( liberazione di Giani Stuparich e
famiglia), ma in altri senza alcun esito.
Ci é stato spiegato dalla nostra guida, che nel cortile interno, proprio
di fronte alle celle, sull'area oggi contrassegnata dalla piastra
metallica, c'era l'edificio destinato alle eliminazioni - la cui sagoma é
ancora visibile sul fabbricato centrale - con il forno crematorio.
L'impatto al quale si accedeva scendendo da una scala, era interrato. Un
canale sotterraneo, il cui percorso é pure segnato dalla piastra
d'acciaio, univa il forno alla ciminiera. Sull'impronta metallica della
ciminiera sorge oggi una simbolica Pietà costituita da tre profilati
metallici a segno della spirale di fumo che usciva dal camino.
Quello é stato un luogo della sofferenza e dello sterminio della vita
umana, concludendosi con i forni crematori. E' nella lucida registrazione
del terribile snaturamento cui tutti, nessuno escluso, vennero sottoposti
nell'universo di quel lager della "Risiera di San Sabba". Oggi quel luogo
é stato trasformato in un museo, per non dimenticare, dove il sacrificio
di tantissime persone di diversa estrazione sociale, coinvolgendo senza
alcun motivo plausibile, intere comunità ebraiche ,cittadini slavi,
militari e civili italiani. Per rendersi conto che cosa voglia dire o
significare un lager, basta leggere il libro di Primo Levi, "Se questo é
un "uomo", che fu deportato nel lager di Auschwitz, vittima é testimone
della massima quota di orrore che il XX secolo abbia prodotto.
- Tratto da Attacco al cuore dell'Europa -
Alla scoperta di Trieste
Il Friuli - Venezia Giulia é una terra antica e meravigliosa con le sue
colline dolcissime, le pianure fertili, rocce maestose, queruli torrenti
pittoreschi, laghi romantici, boschi meravigliosi con animali in libertà. La
regione, quasi tutta una "riserva" naturale, ha le sue punte di diamante nel
Collio ( famosi i suoi vini), nella Carnia ( grandi gli artigiani del legno) e
nel Carso ( dove tutto sa di storia). Ma noi oggi, in questa giornata luminosa
di fine maggio, siamo diretti nella meravigliosa Città di Trieste, che é la
Regina del suo stupendo golfo, con la sua storia romana ed il Castello del
Belvedere. Prima di soffermarci a parlare di questa Città italianissima dalle
mille vicende politico - amministrative, vogliamo iniziare dalla regione
carsica e dai paesi della costa che sono carichi di storia e di memorie in
questa primavera che é appena decollata e che presenta uno spettacolo unico:
la natura s'incendia" di colpo e dà vita ad carosello multicolori.
Mentre siamo seduti davanti alla pagina bianca del nostro Computer, dalla
nostra memoria emergono ricordi bellissimi che hanno coronato felicemente
alcune escursioni con i nostri amici mantovani. Quello che emerge maggiormente
é l'ambiente naturale, teatro di una gita di alcuni anni fa e che risulta
evidente già dal nome della zona che abbiamo percorso: " Car" o " Kar" in
celtico significa " sasso". E di rocce e di pietre, qua e là ricoperte da una
vegetazione tanta bassa da apparire quasi una lanugine, é tutto gran parte del
leggendario Carso, carico di storia italica. Ma quando i sassi lasciano il
posto alle verdi e ombrose " doline"; quando la primavera o l'autunno
"incendiano" le pinete; quando esplodono come oggi le fioriture primaverili,
allora il Carso offre uno spettacolo irripetibile. Quella nostra lontana
escursione é partita dalle foci del Timavo, cantate da Dante e considerate da
Virgilio l'ingresso degli Inferi data la suggestione che provoca l'improvviso
apparire delle acque del fiume, che escono dalla rocce dopo 40 km di
tumultuosa corsa sotterranea, Per raggiungere Duino (é consigliabile la strada
costiera). Qui il castello dei principi di Torre e Tasso e i resti di quello
dei signori di Duino sono accomunati da numerose leggende, invece, che in
questi luoghi Rilke compose alcune delle sue poesie più belle. Dalle
romantiche scogliere di Duino si passa a Sistiana, protesa nel mare, cui si
accede attraverso una fitta vegetazione boschiva. Se il giardino botanico " la
caesica" é la ragione " in più" per una sosta ad Aurisina, la tappa a Prosecco
é dettata dalla possibilità di una camminata eccezionale, lungo i 3 km. Della
"strada vicentina", che permette di arrivare a Villa Opicina. Andata e ritorno
a piedi, quindi di nuovo in macchina, destinazione Monrupino, uno dei comuni
più piccoli d'Italia, famoso per le cave, per il Santuario e per la casa
carsica nella frazione di Rupingrande. (Con questa deviazione, abbiamo
scartato la Città di Trieste ed il suo magnifico "Golfo"). Un'altra deviazione
" di rigore" per scendere oltre i 100 metri di profondità della Grotta del
Gigante, tanto grande che potrebbe racchiudere la basilica di San Pietro.
L'arrivo a Bagnoli della Rosandra coincide con l'obbligo di parcheggiare la
macchina o la corriera se si vuole scoprire la straordinaria bellezza naturale
della Valle della Rosandra. Una manciata di chilometri e si arriva a Muggia,
pittoresco paese di pescatori, con le calli e i campielli tipici della
tradizione veneta, che per un momento ti da sensazione di percorrere i
territori veneziani. Ma subito ci si rende conto, che il prezioso che domina
il porticciolo, é appunto nella città vecchia, l'antichissimo Santuario, sono
vere e proprie perle.
Questa mattina, stiamo percorrendo un altro itinerario che non é da meno a
quello descritto, ma é altrettanto bello e lussureggiante. Quando siamo
partiti alla volta di Trieste dal nostro borgo padano di Campitello,con una
gita organizzata dall'Ente Valle, la natura era ancora addormenta come pure
gran parte dei campitellesi, mentre verso oriente il cielo era limpido e
striato di giallo. C'erano tutti i presupposti di una bellissima giornata, di
una giornata diversa che ci stava portando verso la "porta orientale d'Italia.
I primi bagliori dell'aurora schiarivano e illuminavano la bellissima pianura
padana, col contorno lontano lontano delle Alpi e degli Appennini che serve a
fondere insensibilmente l'immensità verde del piano con l'immensità azzurra
del cielo. Il Massiccio del Monte Baldo era là di fronte a noi muto e
silenzioso, mentre il chiarore del sole nascente illuminava la sua punta
innevata, mentre il resto della pianura rimaneva in un cono d'ombra. Visione
eminentemente virgiliana.
I primi raggi del sole ci hanno colto nella bellissima valle vicentina, dove
sorgono i Monti Berici, piccolo e compatto gruppo di pittoreschi colli, dove
si riscontrano le alchimie dei grandi pittori veneti, che hanno dipinto gli
sfondi di questi stupendi paesaggi che si levano come un'isola nella piatta
vicentina, con un contorno delineato in maniera netta e decisa da un rapido
salto. Dominati dalla modesta quota del Monte Alto (444 m), si articolano in
valli relativamente larghe e in modesti corsi d'acqua che, con il piccolo Lago
di Filmon, caratterizzano il paesaggio, in parte plasmato dall'opera dell'uomo
e intensamente coltivato a vigneto. Le attrattive principali dei Monti Berici,
che partendo da Vicenza, può essere compiuta lungo le numerose strade che si
addentrano nei rilievi fino a Barbarano Vicentino, sono la dolcezza del
paesaggio, i panorami, le bellissime ville sparse un po' ovunque i superbi
vigneti che producono ottimi vini che sono famosi nel mondo. Questo
meraviglioso paesaggio dove regna la pace agreste, lo stiamo percorrendo a
bordo di un grosso torpedone. Ma l'Autostrada " Serenissima", che ci sta porta
a Venezia, per poi proseguire verso la " Porta orientale d'Italia", per
ammirare la stupenda città di Trieste ed i suoi monumenti.
Ad un tratto ci siamo accorti, che il nostro pullman stava percorrendo una
costa piatta e incerta alla ricerca di un equilibrio fra terraferma e mare,
dove lascia improvvisamente il posto a dirupi incombenti sulle acque dell'alto
Adriatico e ci ha fatto capire che siamo giunti nel territorio di Trieste.
Trieste é una città d'atmosfera al confine con la Slovenia, con un grande e
attivo porto, fiancheggiato da graziosi edifici e lambito dalle onde
dell'Adriatico. Prima di giungere al Castello di Miramare nel golfo di Trieste
, abbiamo attraversato l'uniforme pianura friulana che termina contro i
bastioni, non elevati ma sicuramente compatti, dell'altopiano carsico. Una
terra di contrasti, dunque, sottolineati anche dalla presenza di culture
diverse, come testimoniano certi squarci goriziani che ricordano le città
d'oltremare, le chiese di vari riti attorno al Canale di Ponterosso a Trieste,
i nomi delle alture e dei paesi, con le loro componenti illiriche, germaniche,
carniole, anche se in questi luoghi la lingua franca é rimasta quella veneta,
un idioma tutto italiano. Ma una gita, come questa che stiamo facendo noi
oggi, da questi parti sembra che ci conduce alle porte, non solo geografiche,
dell'Italia. Ma oggi, con l'unione dell'Europa unita, non ci sono più confini
da rispettare, si é liberi di inoltrarsi liberamente anche oltre i territori
triestini, dove un tempo era severamente proibito.
- Tratto da Attacco al cuore dell'Europa -
Un nuovo patto
Dopo il dramma dei sequestri di civili inermi da parte dei terroristi o dei
guerriglieri iracheni di quell'armata che abbiamo definito, in un altro
capitolo, la " Quinta colonna" Oggi, in questo capitolo, cercheremo di parlare
del dramma delle sevizie ai prigionieri iracheno da parte del personale
adibito alla loro vigilanza nelle carceri di Bagdad. In un articolo di fondo
dell'opinionista Angelo Panebianco, apparso in prima pagina del " Corriere
della Sera" di martedì 11 maggio, così ci spiega il suo pensiero che
condividiamo ed ecco perché riportiamo alcuni passaggi dell'articolo.
"Il segretario della Difesa Rumsfeld, artefice della vittoria su Saddam
Hussein in Iraq, é anche il primo responsabile di quella che sempre più
somiglia a una disfatta americana nel dopoguerra iracheno. Una volta abbattuto
il regime di Hussein, Rumsfeld e i suoi collaboratori si sono messi ad
accumulare errori. A cominciare dal rifiuto di dare retta a quei generali
secondo i quali un Paese come l'Iraq sarebbe stati necessari non meno di 500
mila soldati per controllare il territorio e portare a termine la missione.
Per continuare con l'errata scelta di sciogliere l'esercito iracheno o
l'incapacità di identificare interlocutori credibili e stipulare solidi
accordi con le tribù sunnite. Per finire con questa vicenda, stupida e
criminale, delle torture con tanto di foto in posa, che é certo il più grosso
successo propagandistico conseguito da Al Quadea dopo gli attacchi alle Twin
Towers. Chiedere la sua testa, nonostante la difesa d'ufficio che ne ha fatto
Bush, é a questo punto un diritto e un dovere degli alleati dell'America
presenti, come noi italiani, in Iraq.
Resta però il fatto che una sconfitta dell'America sarebbe una catastrofe per
tutti. Corrisponderebbe a una vittoria del terrorismo fondamentalista in Medio
Oriente che tutti finiremmo per pagare. Per questo, le scelte alla Zapatero
restano irresponsabili e sbagliate. Ne é sufficiente limitarsi a incrociare le
dita sperando solo che il piano messo a punto dell'incaricato dell'ONU, Brhimi,
per favorire una nuova fase politica in Iraq vada in porto.
Piuttosto, é forse arrivato il momento per gli europei - e l'Italia, per la
posizione assunta in questa vicenda, potrebbe dare un importante contributo -
di proporre agli americani una ridefinizione del patto che storicamente lega
le due sponde dell'Atlantico, una nuova alleanza, in cui siamo ben definiti
diritti e doveri del contraenti, per una lotta al terrorismo che, comunque
vada in Iraq, impegnerà le democrazie occidentali per molti anni a venire. Un
nuovo patto fra le democrazie , che rinnovi e adatti le nuove condizioni,
quello che esse siglarono quando, all'inizio della guerra fredda, diedero vita
alla Nato con lo scopo di fronteggiare l'imperialismo sovietico. Forse ci si
potrà arrivare solo dopo le elezioni americane ma sarebbe importante
cominciare a discuterne subito, proprio nel momento più buio della vicenda
irachena.
Questo nuovo patto dovrebbe fondarsi sull'implicito riconoscimento sia dagli
americani che dagli europei ( francesi e tedeschi in primo luogo) degli errori
commessi. Gli americani dovrebbero riconoscere che nonostante la loro grande
potenza militare, da soli, senza il sostegno attivo di tutta l'Europa, sono
impotenti, impossibilitati a battere il terrorismo. La sconfitta di Rumsfeld é
la sconfitta dell'idea che la superpotenza non abbia bisogno di nessuno, salvo
qualche alleato occasionale. E' lecito pretendere dall'America una maggiore
umiltà. Ma anche gli europei hanno colpe gravi. Hanno finto di non vedere che
l'11 novembre 2001 il terrorismo non aveva dichiara guerra alla sola America
ma anche all'Europa e che, nella sua volontà di potenza, esso non lascia ai
suoi nemici altra alternativa se non combattere o sottomettersi .
Un nuovo patto fra le democrazie occidentali può nascere solo se, preso atto
degli errori, Stati Uniti ed Europa si riconosceranno reciprocamente non solo
come alleati indispensabili ma anche, come già fecero durante la guerra
fredda, quali parti di una stessa " comunità", cementata da valori e
istituzioni che i terroristi vorrebbero distruggere. Impegnandosi solennemente
a discutere e decidere insieme, d'ora in poi, le future strategie.
- Tratto da Attacco al cuore dell'Europa -
Pietralba
Guardando queste meravigliose montagne tinte di blu, ma più che di un colore
preciso, si tratta di un'essenza, forse di materia evanescente che dall'alba
al tramonto assume i più strani riflessi, grigi, argentei, rosa, gialli,
purpurei, viola, azzurri, seppia, eppure é la stessa, come la faccia umana non
cambia anche se la pelle é pallida o bruciata.
Per capirle , le Dolomiti e le montagne in generale come pure questo paesaggio
incantato e soprattutto di riflessione che stiamo ammirando dal piazzale del
Santuario di Pietralba, veramente occorre un po' di più di una piccola sosta.
E non vogliamo dire arrampicare in piena regola, poiché non é necessario,
poiché non ne saremmo più capaci, come un tempo, quando abbiamo incominciato a
praticare l'escursionismo con il CAI, ora bastano i sentieri pianeggianti che
partono e confluiscono da questa bellissima piazza, che oggi, a differenza
degli altri giorni, é illuminata da un sole splendido, seppure soffia un
venticello che fa persino piacere ricevere i suoi influssi benefici. Entrare,
avventurarsi fra gli alti boschi di conifere, ammirare le alte e bianche cime,
ascoltare i silenzi, sentire la misteriosa vita e la bellezza del creato,
scoprire le tracce di un passato glorioso, fatto di villaggi arroccati e
fortezze impenetrabili, vecchie baite isolate al limitare del bosco e di cime
superbe, ma anche di residenze lussuose di principi e vescovi austriaci. Ci
basta solo questo per essere felici, per amare la montagna.
" Montagne !Che siete belle, purissime nelle albe violacee
Frementi negli arrossati tramonti
I vostri picchi strapiombanti nelle nevi eterne io amo
I vostri ghiacciai silenziosi......"
Ma oggi qui a Pietralba, in questo mese Mariano, é un giorno di festa, un
giorno dedicato alla Madonna di Pietralba. Il piazzale é affollato da una
folla omogenea di fedeli che sono giunti da ogni parte delle fresche e
pittoresche vallate del trentino e dell'Alto Adige, per festeggiare e pregare
Maria Waldrast in Tirolo.
" Maria Waldrast", convento - santuario dei Servi di Maria, si trova sopra il
paese di Matrei presso il Brennero, a 1641 metri di altezza: é quindi uno dei
conventi più alti delle Alpi. Esso sorge ai piedi della maestosa montagna del
Serles, alta m. 2718, ed é incastonata in una valletta tra ampi boschi e verdi
prati. Durante tutto l'anno il santuario é meta di pellegrini, come pure punto
di partenza per escursionisti e scalatori. Non é raro vedere che già durante
la notte le torce degli escursionisti si muovono dal fondo valle, passano
accanto al convento e salgono verso il Serles per ammirare da lassù il sorgere
del sole. Noi oggi il sole lo abbiamo ammirato molto prima che giungessimo fin
quassù. Infatti, sorgeva molto prima che il nostro grosso torpedone
attraversasse la grande e lussureggiante Valle dell'Adige. Quando siamo
transitati da questa valle bellissima, per la sua perfetta geometria dei
vigneti e frutteti, si trovava in un cono d'ombra, mentre il sole illuminava
le cime delle montagne brulle che degradino dal superbo Monte Baldo.
Quando il nostro pullman si é fermato sul grande piazzale, erano in corso le
celebrazioni del 450 esimo anniversario dell'origine del Santuario della
Madonna Addolorata di Pietralba. Un anniversario veramente straordinario,
perché ha rivelato che questo luogo " sui monti", lontano da ogni centro
abitato, non solo non é rimasto isolato, ma addirittura nel tempo di 450 anni
ha accresciuto la propria attrazione, la propria capacità di parlare agli
uomini del nostro tempo. Si può dire che nel 1553 Pietralba abbia attirato
subito molti fedeli ( e curiosi insieme), perché erano tempi molto tristi.
Basta pensare agli eserciti che dalla Germania scendevano in Italia per fare
guerre e saccheggi, alla riforma protestante che pochi decenni prima era
scoppiata in Germania sconvolgendo l'unità religiosa dell'Europa, alle
numerose epidemie e carestie che imperversavano sia nelle valli che sui monti.
Ma questo Santuario rivela la capacità di suscitare interesse nonostante il
mutare dei tempi: sia nei periodi di benessere come ai tempi di Maria Teresa
d'Austria ( 1740 - 1780) o della Belle Époque ( fine '800 e inizio '900) o nei
nostri tempi di sviluppo economico; sia nei tempi di flagelli nazionali o
internazionali, come durante le varie guerre, specialmente durante le due
ultime guerre mondiali.
In un momento di riflessione, ci siamo domandati e non solo noi, quale é il
segreto di questo interesse dei fedeli ( e non fedeli) é stato ricercato,
dalla comunità dei frati Servi di Maria che dal 1718 custodiscono il
Santuario, nel messaggio spirituale che la Madonna ha voluto inviare al suo
primo interlocutore, il Leonhard Weissenstein, e poi a tutti coloro che qui
hanno cercato un senso alternativo per la vita rispetto ai molti che il mondo
propone. Perché, come ci ha spiegato il vecchio frate che si trovava al
botteghino per ricevere le offerte e vendere le pubblicazioni ai fedeli, con
il quale abbiamo scambiato poche parole di circostanza. Egli ci ha detto: "
Ogni Santuario ha un suo messaggio specifico e questo aiuta a vivere più
intensamente un aspetto del Vangelo ( Buona Novella) che Gesù Cristo ha
affidato ai suoi discepoli".
Mentre stiamo ammirando questa moltitudine di fedeli che puntuale ogni anno
raggiunge questo luogo del silenzio, questo luogo di pace e di preghiera in
onore della Madonna di Pietralba. Pensando a tutto questo, ci viene da fare
una riflessione sul tempo e sulla vita.
Si, é proprio così. E' sempre un momento particolarmente emozionante iniziare
un nuovo anno di vita. Benché il tempo ci scorra intorno e davanti, senza che
noi normalmente ce ne accorgiamo, distratti da mille occupazioni e
preoccupazioni, tuttavia ci sono dei momenti come questi, in cui avvertiamo
l'importanza e la grandezza del tempo in cui viviamo e la velocità con cui
scorre.
- Tratto da Attacco al cuore dell'Europa -
La grotta del vento
Anche quest'anno il CAI di Mantova, come sua abitudine, ci ha proposto una
bellissima escursione sulle Alpi Apuane, per visitare la "Grotta del Vento",
che é situata al centro del Parco Naturale delle Alpi Apuane ed é fra le
grotte più complete d'Europa, presentando una straordinaria varietà di
fenomeni che vengono illustrati con precisione e competenza da esperte guide
speleologiche.
Anche questa mattina di domenica 28 marzo 2004, come del resto succede tutte
le volte che dobbiamo partire per le nostre lunghe escursioni sui sentieri
dolomitici, la sveglia é suonata molto presto, ma oggi é suonata un'ora prima
per via dell'ora legale. Percorrendo la Via Vitellio, la strada principale del
borgo padano di Campitello, per raggiungere il piazzale della Pesa pubblica,
dove all'ora stabilita é giunto il grosso torpedone, condotto dall'amico
Ignazio e con a bordo gli amici escursionisti mantovani. In quell'ora anomala,
che potremmo benissimo definire antelucana: che procede la luce del giorno, ma
che quella fioca luce, quel chiarore antelucano, era offuscato da una leggera
foschia che caratterizza appunto questa nostra regione padana. La velatura di
quella nebbiolina bassa, copriva inesorabilmente ogni cosa ed in un certo
senso rendeva più caratteristico il paesaggio. Sembrava la velatura di un
dipinto, che il pittore, per dare più trasparenza alla sua opera aveva così
sapientemente velato. Quindi, eravamo partiti all'alba, quando la natura ha
ancora gli occhi semichiusi, e nell'aria si avverte il respiro lento del
Creatore che pensa al nuovo giorno.
Superato la dorsale della Cisa, dopo la lunga galleria autostradale, la nebbia
era completamente sparita. Si ammirava il massiccio appenninico dalle chiare
forme alpine aspre e dirupate ( non per nulla gli é stato dato il nome di "
Alpi" Apuane), che separa tre regioni della individualità ben precise: La
Lunigiana, la Garfagnana e la Versilia. La massa nuvolosa biancastra era come
d'incanto sparita. Anche il cielo aveva acquistato una luminosità diversa ed i
primi raggi del sole completavano il paesaggio.
Fra le Apuane e il mare si estende la luminosa Versilia, regione che ha due
volti distinti: quello più interno, collinare e punteggiato da antichi borghi,
e quello costiero, pianeggiante e nel quale si sono sviluppate le famose "
marine". E' proprio qui che può essere individuato il luogo nel quale sorse in
Italia il turismo marino: a Viareggio nel 1827 fu iniziata la costruzione del
primo stabilimento balneare. Da allora, poco alla volta, la cimosa costiera é
stata colonizzata da centri turistici, alcuni dei quali divenuti di fama
internazionale. Oggi, nel periodo estivo, da Viareggio alla marina di Carrara
tutta la Versilia si trasforma in una grande città dove allo svago balneare si
affianca la possibilità di visite storico - artistiche nella fascia collinare
e nella vicina Lunigiana.
Nell'attraversare l'Appennino per entrare in Garfagnana e raggiungere
Fornovalasco in provincia di Lucca, ci hanno pensato i primi raggi del sole .
Era decisamente cambiato tutto: la visibilità, il paesaggio e il clima. La
mattinata serena, illuminata da un sole primaverile, stava preparando i
presupposti per una bellissima giornata sulle alte e scoscese montagne Apuane.
Vedendo quelle montagne tutte forate dall'uomo alla ricerca del prezioso marmo
bianco, per un momento mi sono abbandonato ai ricordi; essi hanno lasciato in
noi un gradito ricordo di giorni lontani.
Ricordo che la montagna che dovevamo raggiungere era lassù, nascosta tra le
nuvole bianche. La sua vetta era viola, il suo profilo assomigliava a quello
di un animale addormentato. Man mano che l'automezzo saliva su quella strada
stretta e tortuosa, la vegetazione si faceva sempre più scarsa.
Gli alberi, le felci, le siepi si diradavano, apparivano qua e là nude rocce.
Ogni tanto con lo sguardo cercavo di spaziare nell'immenso paesaggio
sottostante per ammirare la pianura e più giù il mare immenso: lontane,
velate, scorgevo anche le isole. Tutto quel mondo silenzioso e disabitato
aveva l'apparenza di un sogno. A tratti, oltre al rumore del motore
dell'automezzo, che con le marce ridotte faceva fatica a salire, una voce
pareva ripetermi le parole di Khalìl Gibran:
" Forse hai sentito parlare della montagna
Benedetta. Qualora ti ne raggiungessi
Mai la cima, proverai un solo desiderio:
Scendere e ritrovarti con chi abita a valle.
Ecco perché si chiama la montagna benedetta".
Quell'altopiano si inarcava verso il suo margine a ponente, con qualche ciuffo
sparso di vegetazione bassa, sorbi, rododendri, ginestre, già rinsecchiti ed a
un certo punto, guardandomi attorno , mi sembrò di affacciarmi a un abisso. La
montagna brulla era tagliata come un panettone, quattro - cinquecento metri
sopra un altro mondo. Era davvero un altro mondo quel grande spazio caldo di
pulviscolo dorato che in basso velava i campi, i boschi e i villaggi sparsi in
mezzo ai castagneti e più oltre si scorgeva il mare.
Una meraviglia ha esclamato Adriana, una cosa fantastica; si spalancava fra le
rocce d'un bel grigio azzurro, spaccate, squarciate dalle mine che avevano
messo a nudo le viscere bianche. Il marmo usciva dalla terra rossa, così
candido che abbagliava. Avevamo una vista completa del bacino marmifero. In
quella località c'erano almeno una quindicina di cave tutt'intorno, grandi e
piccole, collegate da strade, vagoncini Decauville, lizze, teleferiche.
Alcune, su in alto, erano appena una ferita; la più grande, in basso, era
immensa. Le mine e il filo elicoidale avevano lavorato bene addentro, lo
squarcio era alto non meno di cento metri, largo il doppio, e anche ben
profondo, slabbrato, rosseggiante, con i blocchi bianchi che venivano fuori,
sui quali s'accaniva una moltitudine di operai. Specie sul piazzale centrale,
bianco di polvere e di massi di marmo in attesa d'essere trasportati, c'era un
fervore, un'alacrità che si comunicava a tutto l'anfiteatro. L'area era
attraversata dal ronzio fitto del filo elicoidale, il martellio di centinaia
di strumenti non aveva posa. Quella era una scena non nuova per noi, una scena
già vista più volte nelle nostre escursioni sui monti Apuane, dove sorgono
appunto le cave del marmo bianco di Carrara. Ma ogni volta che ammiri quello
scenario, ti sembra sempre la prima volta. E' bello osservare da vicino le
bellezze nascoste della natura nel cuore di quelle brulle montagne delle
Apuane . Quei grossi cubi di marmo bianco, celati per miliardi di anni nelle
visceri della grande montagna, attraverseranno gli oceani e serviranno per
impreziosire i grandi palazzi, le piazze e i monumenti nel mondo.
- Tratto da: Attacco al cuore dell'Europa -
I trulli di Alberobello
Per rimanere nel territorio della "Magna Grecia", dal roccioso Gargano ci
spostiamo nella Bassa Murgia, per visitare le costruzioni di Alberobello, che
sono di origine sconosciuta ma di grande unità formale e strutturale, che
costituiscono un eccezionale esempio di tecnica architettonica proto storica
giunta fino ai giorni nostri.
Nell'estate degli anni Sessanta, abbiamo deciso di ritornare nella vecchia e
bellissima città di Bari, in quella città che ci ha visti ragazzi inesperti
della vita, quando per la prima volta lasciavamo il piccolo paese aspromontano,
per intraprendere quella che fu la nostra carriera militare, al servizio del
nostro Paese.
Siamo ritornati con lo stesso entusiasmo di allora ma con la conoscenza di
oggi. Come scriveva lo scrittore - Joseph Corn - nel suo libro La linea
d'ombra : " Uno chiude dietro di sé il piccolo cancello della mera
fanciullezza ed entra in un giardino incantato". Abbiamo passeggiato nel
bellissimo lungomare che conduce alla frequentata e moderna spiaggia balneare
di S. Francesco all'Arena che la cinge tutt'intorno. Abbiamo ripercorso i
vicoli della città vecchia, ove si trova ubicata la Cattedrale di S. Nicola
che fu iniziata nel 1087, sopra l'antico edificio dei governanti bizantini.
Questa basilica, una delle quattro chiese palatine della Puglia é la prima e
la più importante della dominazione romana. Maestoso e solenne é l'interno
della Basilica, ricca di notevoli opere d'arte: il Ciborio, cioè il
tabernacolo dell'altar maggiore, del secolo XII é il più antico che esiste in
Puglia; il monumento a Bona di Polonia, figlia di Gian Galeazzo Sforza e
moglie di Sigismondo I re di Polonia, di tipo sansovinesco; ai piedi di esso
vi é una bella sedia episcopale dell'abate Elia sostenuta da tre saraceni..
Dalla chiesa superiore si discosta nella cripta con volte sostenute da colonne
di varia forza e materiale, ove é la tomba del santo.
Nella Bari medioevale, con viuzze strette e tortuose, possiamo ammirare i
monumenti più insigni, mentre la città moderna offre corsi ampi e regolari,
abbelliti da fontane e giardini, come il corso Cavour con il teatro
Petruzzerlli, oggi ridotto ad un ammasso di rottami, a seguito di uno
spaventoso incendio, forse di natura dolosa, come hanno accertato gli organi
competenti.
Per chi non é mai stato a Bari, possiamo dire che vi sono delle piazze
spaziose, ombreggiate da palme e adorne da insigne monumenti, antichi e
moderni. I dintorni immediati della città, popolati fittamente, accolgono
numerosi e grossi borghi agricoli, ai quali i secoli hanno lasciato preziosi
ricordi: Modugno con l'ardito campanile dell'Annunziata, seicentesco ma di
forma romanico - pugliese: Carbonara, in comunicazione con la città per una
strada disseminata di ville e giardini, e fra Carbonara e Bari, sorge la
famosa cittadella militare, ove nelle casermette " Porcelli" aveva sede il 2^
Battaglione Allievi Carabinieri.
Mentre, esternamente, osserviamo attraverso l'ampio cancello del Corpo di
guardia, il complesso di edifici a pianterreno e l'ampia piazza d'arme, dove
si svolgevano quotidianamente le esercitazioni ginnico militare, vediamo
scorrere nella nostra memoria i ricordi di quel tempo lontano con una certa
nitidezza, come da una pellicola cinematografica, ma i fotogrammi ci appaiono
un poco offuscati, diminuiti di quella luminosità, di cui la nostra mente
cerca di focalizzare i personaggi e le cose. Ricordi che sono rimasti
indelebili e difficilmente verranno cancellati. Essi fanno parte della storia
della nostra vita.
Lasciato alle spalle Carbonara si entra nel tempio degli ulivi. Foresta ariosa
regolare e solare. La terra si contrae verso il promontorio di Leuca, e gli
ilivi acquistano imponenza. Sono alberi secolari, rami enormi e chiome rade.
Se altre testimonianze non ci fossero, mura e tombe, essi da soli starebbero
ad attestare dell'antichità della regione Puglia. Tronchi spaccati e
scoppiati, grotte profonde scavate entro le ceppaia sono piantati a grande
distanza l'uno dell'altro.
Scorgiamo, nel corso del nostro itinerario, mentre la nostra utilitaria
percorre veloce i lunghi viali e le strade assolate da un pallido sole
primaverile, lunghe file diagonali di colonne tortili e barocche, a perdita
d'occhio che, sostengono il padiglione d'argento. Schieramento di colossi che
formano lunghi viali alberati, in una frescura rianimatrice. Tutto questo
paesaggio ci riporta indietro nel tempo, in quel tempo lontano, quando abbiamo
chiuso dietro di noi il piccolo cancello della mera fanciullezza, e ci induce
a paragonare questi colossi a quelli a noi molto cari delle grandi valli
argentate aspromontane e non troviamo alcuna differenza.
Ci dà perfino la sensazione di percorrere quel giardino incantato della
Calabria silente.
Abbiamo potuto osservare che in tutta la Puglia, sia fuori che sulle pendici
del Gargano e nelle colline delle Murge ove si annidano voragini inesplorate e
misteriose, come quelle imbutiforme delle regioni carsiche formatesi per
azione delle acque meteoriche o per sprofondamento, non si nota l'ombra di un
bosco. Abbiamo potuto constatare che da quelle parti si può incontrare
soltanto qualche ombrellone di pino solitario, qualche querceto di caccia
bandita, molta macchia dove i cacciatori inseguono l'ultimo cinghiale
superstite; nient'altro. L'oliveto sostituisce il bosco. Ma dove la foresta e
una moltitudine in tumulto, un modo di manifestare con grandezza e autorità
della natura misteriosa, l'oliveto piantato e allevato dall'uomo, é un bosco
che vive di vita propria, piena di consapevolezza e dignità.
Da quelle parti, il solleone sfronda gli alberi, dissecca l'area e spacca la
terra, la sgretola, la sbriciola. Alla fine dell'estate gran parte di quelle
briciole sono diventate pietre e il terriccio che li impolpava se né andato in
polvere ed é rimasto il nocciolo del sasso.
I contadini e i pastori raccolgono i sassi sparsi per liberare del flagello i
loro campi e farne ripari. Costruiscono con essi muretti divisori , come
abbiamo potuto constatare in un altro itinerario di cui ne abbiamo parlato in
un altro contesto letterario, attraversando alcune zone selvagge e nello
stesso tempo meravigliose della Sardegna, dove sorgono i leggendari Nuraghi,
che come i Trulli, la loro storia si perde nella notte dei tempi.
Molti scrittori hanno scritto sulla Puglia. Non ricordo dove ho letto e chi
abbia scritto sul fenomeno delle pietre: " Gli uomini raccolgono i sassi
disseminati sui campi e i sassi ripullano, li diresti tuberi che si
moltiplicano smossi dall'aratro. Essi sono le rughe, le crepe, i bitorzoli, i
porri, le chiazze di una faccia che é stata sbattuta dalla sofferenza che c'è
risparmiata nella fatica e nelle privazioni, che non ha avuto il tempo di
truccarsi".
Oltre a questo paesaggio che si potrebbe definire lunare con tutti questi
sassi disseminati sulla superficie dei campi, c'è l'altra pietra nascosta a un
palmo della superficie. Una pietra che intorno a Lecce diventa tenera e
pastosa, colore di crema, come abbia assorbito il poco d'acqua non ancora
asciugata dal sole. E' stata definita dai tecnici, pietra da incidere come una
lastra di cera, da intagliare quasi per gioco. Gli artigiani la lavorano a
guisa d'argilla, per foggiare vasi da fiori e statue. Dagli artigiani locali,
abbiamo appreso, che la pietra di santa Croce a Lecce é molto famosa, con essa
si é potuto costruire quel barocco senza esempio e senza imitatori, visione
festosa e favolosa di colonne e cariatidi, masse e trine, fregi, colonne e
cornici.
In questo nostro itinerario, abbiamo appreso che con le stesse pietre i
pastori costruiscono i muretti divisori dei poderi, che non son difesi da
siepi o da staccionate e con esse costruiscono pure le capanne. Nel mezzo
delle grosse masserie, che abbiamo incontrato lungo il nostro cammino, abbiamo
avuto modo di vedere l'antica capanna a forma di pigna, spaziosa e solida che
il tempo non ha diroccata. Sulla nostra strada abbiamo incontrato molti
villaggi, costruiti con tale materiale a cupolino, e i famosi trulli, in
quella terra che conta a distesa i più leggiadri nomi di villaggi: Alberobello,
Altamura, Gioia del Colle, Acquaviva delle Fonti ed altri piccoli borghi. Esse
sono case costruite a tetto conico di pietre sovrappose senza cemento,
caratteristiche della Puglia. Abbiamo attraversato villaggi e città ed ovunque
sono emerse opere d'arte di grande interesse artistico e culturale.
Il contrasto fa più grandi i trulli. Sembrano favolose arche ormeggiate in
quella marea di fumi che sale la sera dai casolari accesi. Danno il senso
dell'eternità immanente tra le cose caduche, che hanno il tempo di durare un
solo momento e poi sparire. Le cattedrali pugliesi offrono la maggiore
attrattiva, insieme con qualche palazzo patrizio rinascimentale, con alcune
chiese del Salento, con i famosi castelli Svevi e angioini, con le colonne
terminali della Via Appia, l'anfiteatro di Lecce, le anfore preziose venute
alla luce negli scavi del Tarantino.
Attraverso la letteratura apprendiamo che, la poesia latina ebbe qui la sua
culla. Virgilio vi morì, e vi nacque, sui margini, Orazio: la filologia,
scienza che studia i testi letterari, soprattutto nel loro aspetto linguistico
e stilistico, ci insegna che la grande letteratura italiana non si ha da
cercare in questi luoghi dove la tradizione fu rotta da molti secoli di
assoluta depressione spirituale e sociale.
Doveva essere un grande pensatore, colui che ha scritto questa massima che
ricordo di aver letto molti anni fa, reminiscenze scolastiche: "Il volto
moderno di un paese sta dipinto sullo sfondo della sua storia".
- Tratto da: Attacco al cuore dell'Europa -
La conversione San Giovanni Rotondo sorge sul promontorio roccioso del Gargano, a pochi chilometri dalla cittadina di Manfredonia e quindi dal mare. Questa località é meta continua di pellegrini provenienti da tutto il mondo e con ogni mezzo, che vanno per pregare sulla tomba di Padre Pio. C'è un posto in cima al monte, fra fiori/ gialli e bianchi blocchi di granito, dove /si vede il mare brillare nella sera che muore/. Fra odori di erbe selvatiche e di ceri accesi,/ dolci ricordi sciolgono il nodo alla gola/che hai avuto nel giorno di meditazione./ C'è un posto in cima al monte dove si spegne la malinconia/ come il sole nel mare e ti senti libero perché sei ritornato, ragazzo, a pregare fra le cose perdute nel tempo. /C'è un posto in cima al monte da non scordare mai/ perché fra i fiori gialli , le rocce bianche e l'aria della sera,/ ritrovi il dolce incanto di una felicità perduta: la preghiera. Questo é il luogo giusto dove l'uomo moderno possa trovare la conversione. L'uomo moderno ha più bisogno di conversione, troppo avvinto come é dall'effimero che allontana Dio. La mentalità tecnologica, favorita dai mirabili progressi della scienza, favorisce la fiducia, a volte sconsiderata nei " miracoli" del progresso. Un neo illuminismo. Si fa meno di Dio. Viene meno il senso del peccato. E non si avverte la necessità di una conversione a Dio, di un deciso cambiamento di rotta. Oggi si preferisce parlare di colpa, più che di peccato. La colpa é un dato psicologico che riguarda riferimento a se stesso: " mi fai sentire in colpa - si usa ripetere. Il peccato, invece, é un dato morale che fa riferimento a Dio. E l'atteggiamento di autosufficienza, di autonomia, favorisce l'oblio di Dio. Il chiasso dei mass - media non lascia spazio a quel silenzio interiore donde nasce la preghiera, la riflessione sulle motivazioni che possono dare valore alla vita, il riconoscimento dei propri limiti ontologici. Si aggiunga il clima di amoralità, di relativismo morale. Pendiamo al controllo degli ideali e dei valori, anche laici, oltre che religiosi, e avremo un quadro alquanto desolante e proprio non favorevole alla conversione. Il Padre rimane li, sulla soglia di casa, sempre più solo, ad aspettare i suoi figli: quei figli redenti, salvati, santificati, ma accecati dall'orgoglio, da una superba luciferina. E senza umiltà non può esserci conversione, la conversione é un atto di profonda umiltà. Ma l'uomo moderno é felice, sereno, vivendo come se Dio non esistesse? No! Egli é sempre più triste, angosciato, inappagato, succube di mille paure. Certamente l'umanità vive un periodo nuovo della sua storia, caratterizzata da profondi e rapidi mutamenti che progressivamente si estendono all'intero universo. " L'uomo nella sua interiorità trascende l'universo: in quella profondità egli torna quando si volge al cuore, la dove lo aspetta Dio, che scruta i cuori, là dove sotto lo sguardo di Dio egli, con la sua radicale conversione, decide il suo destino" ( Gaudium et Spes). La conversione a Cristo, la nuova nascita col Battesimo, il, il dono dello Spirito Santo, il Corpo e il Sangue di Gesù Cristo ricevuti in nutrimento, ci rendono " santi e immacolati al suo cospetto" come la Chiesa stessa, sposa a Cristo, é " santa ed immacolata davanti a Lui. Tuttavia la vita nuova ricevuta nella iniziazione cristiana non ha sospeso la famiglia della natura umana, che richiede combattimento con l'aiuto della Grazia. Si tratta di combattimento della conversione, in vista della santità e della vita eterna alla quale il Signore non cessa di chiamarci. La stessa cosa succede a San Giovanni Rotondo , in quel luogo di meditazione e di pace, dove Padre Pio, ci attende con la sua benedizione. Una preghiera sulla tomba del Santo, vale come una conversione. - Tratto da Attacco al cuore dell'Europa -
A Madrid la morte arriva all'alba sui treni In quel tempo ormai lontano e che fa parte della storia dell'Europa e del nostro Paese, sui Monti Pallidi , sul Gavia, sull'Adamello e nella Valle del Piave e di Caporetto, si é combattuta la Grande Guerra 1915/18: una lunga estenuante e sanguinosa guerra di trincea, dove il nemico si conosceva ed era di fronte, defilato nelle gallerie scavate nella montagna e nelle trincee scavate anch'esse nella roccia, mentre oggi in questo nostro tempo tecnologico e terroristico, non sai mai da dove possa arrivare da un momento all'altro. I Kamikaze, arrivano senza preavviso e depongono le bombe sui treni e gli aerei colpiscono improvvisamente le due Torri Gemelle di New York, come fecero i Kamikaze giapponesi nell'ultima guerra mondiale 1940/45 nel Pacifico, sorprendendo ed affondando l'intera flotta navale americana, con i loro piccoli aerei, mentre a Madrid la morte é arrivata all'alba sul treno dei pendolari.1 L'11 marzo, il giorno della apocalisse, abbiamo conosciuto parzialmente questa grande metropoli che piange i suoi figli migliori. I cronisti, della carta stampata e della televisione. Che sono entrati nei vagoni della morte, divelti dalla furia delle bombe, per raccontarci come se ci fosse ovunque un odore intenso, che dava alla testa. Hanno interrogato tutte le perone che hanno incontrato e si sono informato dell'accaduto. Insomma, ci hanno raccontato tutto, per filo e per segno. Noi oggi, che siamo seduti davanti al nostro computer e cerchiamo di parlare di questo genocidio, perché di genocidio si tratta, immaginiamo di trovarci sul luogo del disastro, sulle vie adiacenti alla grande stazione di Madrid, prima dello scoppio degli zainetti imbottiti di tritolo dai terroristi Kamikaze. Nelle vie adiacenti alla grande Piazza della Stazione, sorgono tanti Musei, negozi, Bar, Ristoranti e piccole botteghe artigianali. Come succede in tutte le città del mondo, in un mattino di primavera, si vedono persone che transitano in automobile, in bicicletta e sui tran e anche a piedi con il giornale sotto il braccio. Davanti al piccolo ristorante vi sono una pila di cassette vuote e altre piene di verdura e pesci, mentre due operatori ecologici cercano di pulire la grande Piazza. Di fronte al Bar, vi sono due vigili urbani che chiacchierano, forse stanno commentando il risultato della partita di calcio, disputatasi la sera precedente. Il cronista Pierangelo Sopegno, sulle pagine de " La Stampa di Torino", incomincia il suo articolo, raccontandoci in questo senso l'accaduto, osservando le persone e interrogandole sul tragico avvenimento verificatosi poco prima sui treni che portavano i pendolari a Madrid. "Lo stupore e l'orrore che appare sul volto di queste persone é molto grande. Il signor Enrique Lique, autista della Croce Rossa, così racconta: "Cerano cadaveri ammucchiati irriconoscibili, brandelli sparsi non riconducibili ad alcuna persona". Fin dalle prime ore del giorno, nelle frammentarie notizie del telegiornale di RAI Uno, che annunciava il proditorio attacco nel cuore della vecchia Europa. Lo speaker, l'annunciatore del telegiornale, ci parlava di una nuova Guarnica dell'Eta. Molti si domandano, ma che cos'é la Guarnika? Guarnika - Lumo, é una piccola città che costituisce un simbolo molto importante per I baschi. Per secoli infatti i loro capi si sono riuniti qui, sotto una quercia, in assemblee democratiche. Il 26 aprile del 1937 Gernika - Lumo ( Guernica) fu bersaglio del primo bombardamento nazista voluto dal generale Franco. Il celebre dipinto di Picasso che rievoca il tragico evento é conservato a Madrid. La città fu in seguito ricostruita perdendo così la sua fisionomia originaria. In un giardino, all'interno di un padiglione custodito, si trova il tronco pietrificato di 300 anni fa della suddetta quercia, la Germikako Arbola, o Quercia di Gernika, simbolo delle radici della gente basca. Una pianta più giovane, originata da essa, é posta accanto. I baschi si recano presso questo antico albero quasi fosse meta di pellegrinaggio. La casa de Juntas, nelle vicinanze, é una ex cappella dove si riuniva il parlamento della provincia di Vizcaya sin dal 1979, quando le province basche riconquistarono la loro autonomia. In una stanza un soffitto con vetrate istoriate raffigura la quercia e cittadini baschi che discutono I loro diritti. Accanto, il Parco Europeo ospita sculture della pace di Henry Moore ed Eduardo Chillida. Ma é anche la più famosa opera singolare del XX secolo, questo dipinto di protesta contro la Guerra Civile, fu commissionato dal governo repubblicano spagnolo nel 1937 per una mostra parigina. L'artista si ispirò al violento attacco aereo sulla città basca Guarnika - Lumo effettuato da piloti tedeschi. Il dipinto rimase alla New York gallery fino al 1981, in quanto l'artista aveva espresso il desiderio che la sua opera non tornasse in Spagna fino al ripristino della democrazia. Dal Prado fu trasferita al Centro de Art Reina Sofia 1992. L'opera di spicco di questo museo d'arte del XX secolo é senza dubbio Guernica di Picasso. Sono presenti tuttavia anche altri capolavori di artisti importanti quali Mirò. La collezione é ospitata negli antichi locali dell'ospedale Generale di Madrid, che fu costruito alla fine del XVIII secolo. I due ascensori esterni in vetro furono aggiunti nel 1992 quando l'edificio venne trasformato in un centro d'Arte. L'interno, regolato da un sistema informatico, conserva pur tuttavia l'atmosfera dell'edificio originario. Apprendendo quella triste e atroce notizia del proditorio attacco al cuore di Madrid, per un momento, immaginiamo di trovarci in quella grande città, fra quella folla omogenea di pendolari che si reca a Madrid per lavoro, ma non é necessario essere lì, perché lì ci sono i cronisti della televisione e della carta stampata che ci raccontano tutto. Un cronista, ancora assonnato, incomincia così la sua cronaca in diretta: " Era l'alba e c'era la luce che piano piano si diffondeva sulla grande città. Il Prado era ancora chiuso. Un signore di mezza età arrivava da casa, dalla calle Tellez, e stava entrando nella stazione di Atocha. Un certo Pablo era seduto sul marciapiede di fronte al Bar La Joya, con il suo cappotto unto, la barba grigia e i denti neri, vicino a quelli che uscivano dalle scale del metro e che passavano senza guardarlo. L'edicolante della piazza era appoggiato con i gomiti sui giornali mentre contava un resto. Il signor Carlos Rodriguez stava scendendo le scale della stazione con un compagno di lavoro, vestiti dalla tuta azzurra di lavoro e parlavano di calcio. Gli diceva che il gol di Zidane poteva non bastare, che la partita l'aveva vinta Salgado, un terzino, " gli dicevo questo". Isabel Vega vedeva gli studenti passare nella stazione di Santa Eugenia: " Fanno sempre un gran fracasso dopo una partita del Real Madrid". Era una mattina qualunque a Madrid, una mattina come tutte le altre quel giovedì 11 marzo, alle ore 7 e 35. C'era una luce pallida. Ignacio Benito si sedette accanto a Pablo, fuori dal Bar La Joya. Posò per terra la bottiglia senza tappo. " Ecco, fu in quel momento", dice. Anche il cronista Pierangelo Sapegno, il cronista de " La Stampa di Torino", che ha raccolto queste testimonianze, si trovava da quelle parti e nel suo articolo ha scritto le stesse cose, le stesse impressioni dell'accaduto. Anche il cronista del Primo Canale del TG Uno, Paolo Di Giannantonio, era fra quella miriade di giornalisti, per testimoniare l'accaduto.Ricardo Larrainazar ricorda d'aver sentito " una piccola esplosione, e subito dopo altre due, molto più forti". Corsero fuori dalle mura, verso i binari. A ricordare, dice che la prima cosa che ha pensato e che l'esplosione veniva da dentro il treno. " Mi sono detto: una bomba". Ma l'orrore era quello che aveva davanti, quello che avrebbe voluto non vedere e che invece doveva vedere. Ricardo é un medico traumatologo. E il suo lavoro, ed é andato incontro a quello che gli entrava negli occhi, un'immagine terribile. " Nel giro di dieci metri non c'era un corpo umano completo. Solo resti, braccia, gambe, piedi sperduti anche senza le scarpe, tronchi di uomini e di donne,, facce che erano come se ti guardassero da un altro mondo". Ma questo era un altro mondo. Le persone vive stavano a circa 15 metri, dice Ricardo. Pablo sul suo marciapiede di fronte alla stazione davanti al Bar La Joya, ha incominciato a vedere tutta la gente che correva e scappava uscendo dal metro e saltando fuori dalle case come in un circo impazzito. " Beh, anch'io mi sono mosso", dice. Fa un sorriso sporco, con la bocca vuota e pochi denti che spuntavano. " Ma io non ce la faccio più a correre". Invece c'era tutta una città che correva, c'era Madrid che andava all'improvviso, svegliandosi dietro a un incubo, i due bus rossi pieni di gente che si svuotavano, i furgoni gialli con la scritta tutta maiuscola Ambuulancia Urgencias che correvano davanti al Prado strepitando con le sirene nel mattino che veniva, e tutto questo agitarsi da una parte all'altra come se tutto fosse esploso, anche l'aria. Dal cielo scendevano gli elicotteri. Le altre esplosioni erano nella stazione di El Pozzo e di santa Eugenia nella zona sud Est di Madrid, quartiere operaio, di giovani, immigrati. Dieci bombe più altre tre inesplose, preparate apposta per colpire i soccorritori ( metodo più consono al terrorismo musulmano che a quello dell'Eta), ma scoperte dai poliziotti e fatte brillare. Ieri sera, i numeri dicevano: 192 morti e 1427 feriti, molti gravi. I giornalisti che si trovavano sul luogo dicono, che é stata una vera carneficina, che ci ricorda l'11 settembre di due anni e mezzo fa a New York. - Tratto da "Attacco al cuore dell'Europa" - Ma l'isola non è solo natura Quando tornai a Campitello, gli amici mi chiesero? " La Sardegna é bella? Ti sei divertito?". Ora, la Sardegna non appartiene alla categoria della bellezza: la bellezza é una cosa divina, o umana, o di una natura fatta di somiglianza dell'uomo e di Dio; mentre la Sardegna e i primi uomini che sbarcarono su quest'antica terra come i Greci, i Cartaginesi, gli Etruschi e i Romani, non conoscevano i nostri dei, forse nessun dio, ma conoscevano benissimo alcune tecnologie che ci sono state tramandate nel tempo: la lavorazione dei metalli per esempio e l'arte del plasmare l'argilla e la costruzione dei nuraghi. Ad un certo punto ci siamo domandati chi fossero e donde venissero i primi uomini che abitarono quest'isola benedetta da Dio? La storia non ci da assolutamente una mano. In Sicilia, in Oriente , in Spagna, in America, sbarcarono i Vichinghi e le popolazioni celtiche e due grandi immaginazioni si fusero. Chissà se anche in Sardegna successe la stessa cosa? Noi non lo sappiamo e forse mai lo sapremo. Noi oggi, su questo altopiano bruciato dal sole di agosto, stiamo camminando sopra un tappeto di foglie ed arbusti morte, dove é sepolta la storia della bellissima Sardegna e anche del nostro Paese. Roma non era stata ancora fondata, quando la Sardegna, era un crocevia per i popoli del Mediterraneo. Greci, Etruschi e Cartaginesi si contendevano le ricchezze del sottosuolo, e le loro tracce ( ma anche quelle di chi é venuto dopo) possono essere seguite con itinerari studiati ad hoc. Dai sentieri dei pastori del Neolitico al percorso dei nuraghi e delle chiese e ville romane del I secolo; dal giro delle Pievi. Parlando di Pievi, ci ritorna in mente la vallata nella quale sorge maestosa la più bella ed artistica basilica di Saccargia, che si vede svettare nella vallata, é certamente la più alta ed accogliente un simile gioiello dell'arte romanico - pisana. Un porticato che ingentilisce l'ingresso, un campanile con i suoi quaranta metri con alternanza di bifore e trifore, l'eleganza del gioco del bianco calcaree con il nero basalto, fanno di questa basilica del XII secolo una vera opera d'arte, Ma oltre alle Pievi, vi sono i siti archeologici con la scoperta di tombe etrusche e romane: Facilmente raggiungibile percorrendo la SS. 388 che da Oristano porta verso i monti del Gennargentu. Sulla riva sinistra del fiume Tirso, Forogianus fu valorizzata dai Romani, che la chiamarono Acque Hypsitanae ed anche Forum Trajani. Rinvenuta una florida sorgente di acque termali, che raggiungono temperature anche di 60 C., ci costruirono un grosso complesso termale, di cui é ancora possibile visitare gli abbondanti resti; molto originali e ben conservata la testa di leone, dalla quale ancora oggi, come allora, l'acqua sgorga per riversarsi nella grande vasca.. Cornus, é a poco distante da S. Caterina di Pittinuri, dove si possono visitare i resti molto scarsi, di questo antichissimo centro che fu fondato sicuramente dai punici. Qualche traccia di acquedotto e di terme denota una successiva occupazione ad opera dei Romani. La Sardegna, é un nome antico, una terra antica, un popolo antico: tre elementi che nella loro brevità riescono in parte a dischiudere quel mondo sardo che pur sviluppandosi nel Mediterraneo, tra mille denominazioni, ha tuttavia mantenuto i suoi antichi simboli, i caratteri inconfondibili, che non l'accomunano a nessun'altra terra, a nessun altro popolo, a nessun'altra civiltà. Ancora oggi, non si conosce la vera origine di questo antichissimo popolo. Nel nostro girovagare nel territorio della vecchia e cara Sardegna, abbiamo potuto constatare che non c'è palmo di terra che non conservi una tradizione; come i dialetti perché le tradizioni sono innumerevoli e si intrinsecano tutte con feste popolari, con canti e manifestazioni folcloristiche, che affondano le loro radici in un remotissimo passato. In questa terra antica e meravigliosa, dove il paesaggio é di una incredibile varietà: dalle zone pianeggianti e monotone del Campidano, a quelle montuose e tormentate della Gallura, dalle alte costiere della Riviera del Corallo alle dolci spiagge di Costa Rei, dalle fitte boscaglie del Supramonte alle desertiche dune di Ingurtosu alle vallate dell'Ogliastra, ai queruli ruscelli, alle grotte, ai picchi, ai torrenti, agli istmi , alle spiaggette, insenature e falesie, che colpiscono per la loro selvaggia bellezza di S. Maria Novarrese, che l'abbiamo definito con un solo nome: un paradiso terrestre tra cielo, terra e mare. Non é la prima volta che sbarchiamo in questo che abbiamo definito un vero paradiso terrestre, tra terra e mare, ma possiamo dire di conoscere molto bene ogni regione, ogni località di questa stupende isola. L'ultima volta che siamo stati a Santa Maria Novarrese, che é posta in quella cornice di un mare di incomparabile bellezza, come abbiamo più volte detto, fu nell'autunno del 1999, con gli amici " Caini" di Mantova. Vedere ed ammirare quel paesaggio fantastico, stando in piedi sopra una vecchia e traballante corriera e ammirarlo dall'alto dal cielo, seduti comodamente su di un moderno aeroplano, c'è una grande differenza. Si ammira una Sardegna dalle spiagge di sabbia impalpabile, o dei bianchi sassi levigati da un'acqua cristallina, o dagli scogli contro i quali si infrangono spumeggianti onde che si susseguono, quello é un angolo di una Sardegna meno conosciuta, ma altrettanto bella. Un angolo dove regna la tranquillità, dove il sogno e la poesia si fondono, creando un vero angolo di pace e di felicità. - Tratto dal libro: Il golfo di Ortisei - Le Grotte del Bue Marino Non distante da Cala Gonone, in pochi minuti di barca, si trovano le grotte più importanti della Sardegna, che così si chiamano per la presenza, come abbiamo scritto nelle pagine precedenti, della foca monaca mediterranea. Constano di due parti: una che si può visitare a piedi, con il solo ausilio di torce o luci, l'altra no, poiché trattasi di un fiume che sgorga dalle viscere della terra, dando la possibilità al visitatore di percorrere solo qualche centinaio di metri. Queste grotte, ci sono state indicate dalla nostra guida, ma per motivi di sicurezza non le abbiamo visitate, ma la barca si é fermata proprio davanti alle due grotte. L'ingresso delle grotte del Bue Marino a Cala Gunone, fanno parte del complesso massiccio calcareo, dove germogliano piccoli cespugli mediterranei. Seguendo la nostra navigazione, abbiamo superato e ci siamo anche fermati, per ammirare il complesso calcareo di Cala Luna e il Grottone dei colombi di Cala Gunone. Questa costa frastagliata é un concentrato di meraviglie, e in un certo senso, ha le stesse caratteristiche dell'isola del Giglio, della Capraia e dell'isola di Monte Cristo, ed é davvero una sorpresa, per il turista che giunge per la prima volta e non solo per gli occhi. Le piccole insenature, le falesie , gli strapiombi e le spiaggette incontaminate che a volte non sono più grandi di un fazzoletto di finissima sabbia , delimitate dal mare azzurro e sormontate dalle alte coste frastagliate. Queste piccole spiagge, che possono ospitare pochissime persone, dove la vita ha un altro significato: la privacy degli anonimi bagnanti che desiderano trascorrere una breve vacanza all'insegna della magnificenza della natura, cercando di vivere una giornata lontano dalla confusione e dal causo. In questo nostro mondo in trasformazione, l'uomo sente il bisogno di isolarsi, di cercare di vivere in sintonia con la Madre natura un periodo di riposo e di vacanza nella serenità, per ricaricarsi di quell'energia necessaria per continuare a vivere in pace con loro stessi e con quel mondo fantastico che li circonda. Ma é anche vero che l'uomo sente come non mai prima di adesso il peso di una paurosa solitudine e inquietudine, e spesso sceglie questi luoghi per esorcizzarla. Specialmente la grande città suggerisce questo senso di vuoto: le presenze sono quelle di estranei, la folla é anonima. Gli uomini assorbiti dalle loro occupazioni, si scambiano rari, convenzionali manifestazioni di rapporti umani. Questi luoghi , non sono adatti per i giovani, almeno che non praticano degli hobby, come la pesca subacquea o la navigazione in superficie, magari in compagnia di una loro coetanea, per cercare di trascorrere una giornata diversa e lontano dagli occhi indiscreti. Nella nostra permanenza a S. Maria Navarrese, non siamo stati soltanto ad arrostire sulle piccole spiagge o a navigare in quel meraviglioso mare, ma abbiamo diversificato le nostre vacanze, rivisitando anche i luoghi che ci videro l'ultima volta che siamo stati nell'Ogliastra e precisamente sull'altopiano del Golgo, ove regna la pace, la meravigliosa e selvaggia natura, la solitudine, la poesia, la speleologia, l'archeologia, alla ricerca della storia degli uomini dei nuraghi e per riportare alla luce resti di interesse archeologico che riguarda l'antico popolo della Sardegna. Parlando della meravigliosa e selvaggia natura dell'altopiano del Golgo, ci viene in mente una bellissima lirica dello scrittore Bernard Grzimeke, il quale così scrive. " Nei prossimi decenni e nei prossimi secoli gli uomini non andranno più a visitare le meraviglie della tecnica ma dalle città aride migreranno con nostalgia verso gli ultimi luoghi in cui vivono pacificamente le creature di Dio e i poeti che avranno salvati questi luoghi saranno benedetti. Ed invidiati dagli altri, perché saranno la meta di fiumi d turisti. La natura e i suoi liberi abitanti non sono come i palazzi distrutti dalla guerra Questi si possono ricostruire, ma se la natura sarà annienta. Nessuno potrà farla rivivere". Si, é proprio così, egli ha veramente ragione nel dire tutto questo. Questo paesaggio agreste, questi luoghi diversi dagli altri, che dopo cinque anni di assenza oggi ci rivede nuovamente da semplici turisti e non da escursionisti come allora con i nostri amici " caini" mantovani, in quest'altopiano bruciato dal sole a ripercorrere lo stesso itinerario di allora, per rivedere quelle bellezze naturali che la natura ha creato milioni di anni fa, lo abbiamo trovato lo stesso di allora, non ha subito nessun cambiamento o trasformazione e così dovrà rimanere negli anni avvenire, perché i posteri possono godere di tanta bellezza. - Tratto dal libro: Il golfo di Ortisei - Sempre più "computer" Noi siamo nati con la macchina da scrivere Olivetti lettera 22, che ci ha accompagnati per moltissimi anni nella nostra attività di Polizia giudiziaria nell'Arma Benemerita, quale comandante di Stazione, fino al giorno del pensionamento,ma da quando l'abbiamo archiviata, è stata sostituita con il personal computer: credetemi non è stato molto semplice iniziare e risolvere i problemi, tanto che nei primi tempi, abbiamo incontrato molte difficoltà, che come in tutte le cose,ci vuole molta pazienza,applicazione e studio ma con la costanza e con la buona volontà tutto si è reso più semplice Nel corso di questi anni, spesso ci siamo domandati che cosa è il computer? Oggi, nella vita moderna, nell'epoca consumistica e tecnologica, non si può fare a meno di questa macchina quasi perfetta. Ormai il computer è come l'autostrada. Come l'auto ci consente di lavorare e di svagarci, di visitare una mostra e persino di fare shopping. Ma a differenza delle quattro ruote, il nostro personal computer non ha davanti a se un futuro di ingorghi, di traffico caotico, di paralisi che spesso incontriamo nei nostri lunghi e corti viaggi sulle autostrade e sulle urbane e in quelle statali e provinciali. Anzi. Le nuove reti telematiche - internet e intranet, di cui ci riserviamo di parlarne più diffusamente nel capitolo successivo, - stanno tessendo in tutto il mondo, giorno per giorno, una tela di comunicazione e di relazioni che ci consentirà di " spostarci" da una parte all'altra, restando nei nostri uffici, nelle nostre case. Il "telelavoro" è già una realtà in crescita, così come le " vetrine" dei negozi di internet cominciano a essere sempre più frequentate. .Prima di avere il primo impatto con il nostro personal computer, ci siamo documentati , leggendo i fascicoli di " Computer No Problem" - passando dalla teoria alla pratica dei programmi. Quali sono le caratteristiche dei programmi principali dei " motori" di queste " automobili" senza ruote, capaci tuttavia di portarci molto lontano? Acquisire le nozioni di base, adesso c'è bisogno d'altro ed è ciò che ci hanno offerto i numerosi fascicoli, " Computer No Problem - dalla teoria alla pratica" Dopo le nozioni di base cera bisogno di capire quali vantaggi pratici ognuno di noi ne poteva trarre, al di là del sentito dire e delle campagne pubblicitarie. Per noi della Terza età, non è stato molto facile e comprensivo, ma con tanta pazienza siamo riusciti ad inserirsi in questa grande autostrada telematica. Oggi, siamo in grado di navigare, scrivere i nostri racconti, organizzare un viaggio, conoscere a fondo l'opera di un pittore e soprattutto effettuare delle ricerche storiche e culturali. Con il nuovo personal computer "Packard Bell, di nuova generazione, dopo un po' di pratica, riusciremo sicuramente ad esplorare quelli che ieri erano i nuovi scenari del futuro, mentre oggi sono gli scenari del presente, come il matrimonio tra TV e PC ( il teleputer) in un settore che è segnato da un'evoluzione che non né più irraggiungibile come si pensava fino a qualche tempo fa: non si fa in tempo a farsi un'opinione su ciò che conviene acquistare che nuove tecnologie hanno già reso obsoleto il nostro computer, che abbiamo da qualche giorno archiviato nello stesso scaffale dove è stata collocata la vecchia e cara macchina da scrivere "Olivetti-lettera 22 " Conoscere il futuro è ancora un'utopia, ma prepararsi ad affrontarlo è indispensabile. Sono sicuro, che dopo un lungo tirocinio di apprendimento con il nuovo personal computer, insieme faremo un lungo viaggio alla scoperta di nuovi motori di ricerca e navigare sulla grande ragnatela che è l'internet. - Tratto da: Memorie di uno scrittore - La pagina bianca Sì, é proprio così, dopo otto anni abbiamo archiviato il vecchio e caro computer, l'amico delle lunghe giornate di serenità. Lo abbiamo sostituito con questo nuovo e credetemi, é stato veramente triste mandarlo in pensione, come abbiamo fatto con la macchina da scrivere lettera 22, che ci ha accompagnato per tutto il percorso della nostra lunga carriera militare nell'Arma Benemerita. Per noi, oltre che una scatola tecnologica, é stato più che un amico, é stato il nostro amico , al quale abbiamo confidato i nostri segreti, le nostre impressioni e i nostri momenti creativi, ma anche i nostri momenti di svago, ma era giunta l'ora di essere accantonato, perché era diventato vecchio e pesante. I suoi " file", avevano invaso e appesantito la sua flebile memoria. In questi otto anni abbiamo scritto moltissimi libri escursionistici, abbiamo inserito centinaia di fotografie che ci ricordano giorni e località pieni di serenità, in compagnia dei nostri amici del CAI di Mantova. Oggi, siamo seduti davanti al nostro nuovo Personal Computer, e che cosa si é presentato al nostro cospetto? la solita e bianca pagina. Aveva scritto una nostra cara amica poetessa, che " il foglio bianco é qui che attente il bacio della penna". Con questa affermazione ben incomincia la magia della poesia. Senza dubbio, il "dono di scrivere" va oltre l'umano sentire e crea quella particolare condizione comunicativa che coinvolge, trasporta e talvolta la trasforma in lettere". Noi non siamo poeti, ma amanti della poesia e della letteratura, ma in un certo senso ci possiamo definire dei poeti della pittura, perché scriviamo le nostre poesie con il pennello, trasformando i colori della tavolozza in poesia sulla tela bianca. I nostri paesaggi cromatici, non sono altro che dei veri e propri racconti, attinti direttamente dalla meravigliosa natura che ci circonda. Amiamo moltissimo trascorrere le nostre giornate all'aria aperta sui campi innevati delle Dolomiti e sui sentieri alpini. Nelle brevi e fredde giornate d'inverno quando la meravigliosa pianura padana é avvolta dalle nebbie, dà sicuramente un senso di tristezza e malinconia, prendere e andare a camminare in montagna dove ancora uno spicchio di sole riscalda ed illumina all'orizzonte una schiera di creste, cime e valli imbiancate di neve , che persino ti danno la sensazione del foglio bianco del computer, é come il fascino del grande nord. Lì c'è un luogo che non conosce rumore, se non il sussurro del vento interrotto dalle grida rauche degli uccelli. Un luogo dove il silenzio é poesia e dove la natura diventa grandioso, seducente, struggente spettacolo. Raggiungere le alte cime dove puoi ammirare dei vasti orizzonti innevati, in una terra di paesaggi estremi, assoluti. Di paesaggi primordiali fatti d'acqua, roccia, ghiaccio. Una terra di dirupi vertiginosi, montagne nude, altopiani sterminati che in inverno si trasformano in abbaglianti distese gelati, solcati da branchi di caprioli in cammino verso le vallate. In primavera, quando arriva il disgelo, appaiono laghi di cristallo, foreste di smeraldo, vallate di velluto tempestate di fiori che fanno da corona a villaggi da fiaba, dove la vita segue il ritmo della luce e dell'ombra, dell'avvicendarsi sereno e sempre uguale delle ore, dei giorni, delle stagioni. Questa terra, queste bellissime vallate, capace di dare brividi selvaggi e nello stesso tempo poetici, é la patria di gente miti, tolleranti e accoglienti ed é il teatro di fenomeni ammalianti, come il sorgere ed il tramonto del sole. Camminare con passo lento e cadenzato in questi altopiani bianchi di neve come l'altopiano di Siusi, al cospetto del Sasso Piatto e del Sasso Lungo, una passeggiata in questi luoghi dove regna il silenzio e la solitudine, é un'esperienza irripetibile, capace di scatenare l'antica vertigine di fronte al sublime mistero del mondo. Questi luoghi candidi d'una coltre di neve e di ghiaccio, che ci richiamano alla pagina bianca del computer, sono i luoghi della serenità, della felicità , del silenzio e della pace interiore dell'uomo . Oh, si , la felicità! La parola felicità indica uno stato straordinario di gioia, una pienezza eccezionale di vita. Una condizione di grazia che non può durare per sempre, ma che é per sua natura labile. Nel momento stesso in cui io dico " si, sono felice" mi può succedere qualcosa che distrugge la mia felicità. Basta poco, un nonnulla, un semplice contrattempo, o anche semplicemente un mutamento di umore, e l'incantesimo in questi luoghi da favola é finito. Esiste un'enorme zona d'ombra, ha scritto Javier Marias, in cui solo la meravigliosa natura, la letteratura e le arti in genere possono penetrare; di certo, come disse il maestro Juan Benet, non é per illuminarla o rischiararla, ma per percepirne l'immensità e la complessità: é come accendere una debole fiammella che per lo meno ci consenta di vedere che quella zona é lì e di non dimenticarlo". La vita é insieme questa fonda oscurità e questa luce fioca ma tenace. Le filosofie, le religioni, le articolate visioni del mondo devono responsabilmente scegliere tra queste due verità, pur facendo i conti con entrambe; devono dire se prevale la luce o la tenebra, se l'esistenza é illuminata da un significato o se é un precipitare nell'abisso. La letteratura invece non ha doveri di coerenza ideologica, non ha messaggi da proporre ne sistemi filosofici e morali da enunciare; può e deve rappresentare la contraddittoria esperienza del tutto e del nulla della vita, del suo valore e della sua assurdità. La vita é fonda oscurità e luce fioca ma tenace come il foglio bianco del personal computer. Andare per boschi e sottoboschi dove tappeti di foglie secche crepitano sotto i nostro piedi cadenzando il passo, dove in certe figure di uccelli con il loro pigolio, cercano qua e là di che sopravvivere. Come scriveva Vittorio Mason, parlando del Monte Grappa " la montagna della pianura". Andare là dove la fugace apparizione di un camoscio o un capriolo s'insinua nel nostro cammino, dove una coltre di bianche nebbie a mezz'aria intercedono tra la terra e il cielo lasciando sbucare da un mare di spuma le dorsali dei monti colorate di blu, riflessi dorati e bruno - bordeaux. Andare con il freddo che punge, che ti fa colare il naso, che ti fa sentire chi è il più forte, andare su sentieri scontati e che quasi d'incanto ti rivelano ampi squarci di vedute mai viste prima e particolari in altre stagioni dimenticati, che meraviglia! Poi il silenzio, che come l'aquila volteggiante nel cielo dipana i suoi echi nell'aria, insinuandosi in mezzo alle impronte lasciate sulla neve. Ma quella grande distesa di neve che sembra un lenzuolo quasi crespato, è anch'esso un foglio bianco, dove ci possiamo scrive con un piccolo bastoncino le frasi più belle, le frasi d'amore alla donna del nostro cuore. E' la stessa cosa che spesso facciamo sulla pagina bianca del nostro personal computer. - Tratto da: Memorie di uno scrittore - Primo amore "Forse c'è ancora dietro la Torre quel collegio/ dove tu di nascosto mi scrivevi/ quei bigliettini clandestini e brevi:/ "T'aspetto questa sera all'ombra della Torre del Belvedere. Quanti sospiri dietro le inferiate/ che imprigionavano i tuoi sogni audaci!/ Cento ragazze giovani e vivaci/ ed il lugubre suon di una campana./ E tu sei stata ai margini del sogno./ Forse dopo tanti anni aspetti ancora/ il nostro appuntamento di quell'ora./ Ed attraverso le infinite strade/ oscure e interminabili del tempo,/ ti rivedo all'ombra del fanale cieco/ e dei tuoi passi ancora sento l'eco/ fra l'ondeggiar dei platani nel vento./ Ora che tante cose son passate e la vita pur é cambiata/ La Torre antica mi par sempre più lontana/ che sapeva di mesta fanciullezza. Oggi che ammiro l'orizzonte come prima/ tu sarai maestra o dottoressa in medicina/ in qualche borgo piemontese di collina . Dopo cinquant'anni son ritornato/ su questo balcone panoramico di periferia./ Stelle d'autunno e alberi colorati / spruzzano il cuore di grande fantasia./Mi son smarrito un attimo per via/ dove c'è ancora un segno, la panchina colorata e la Torre del Belvedere in sintonia./ Mi sono accorto camminando per via/ che fra i giovani c'è la stesa e chiassosa e goliardica allegria/ Bastava poco per essere felici, un cartoccio di caldarroste e quattro chiacchiere in funivia. Dopo la visita alla Piazzetta della Torre del Belvedere, il sacrista della Cattedrale, ottimo conoscitore della storia della città, delle chiese e dei Musei e nella nostra escursione ci ha fatto da cicerone , per illustrarci il resto della città di Mondovì Piazza. Egli esordì dicendo: " Notevole la chiesa della Missione, con fastoso interno barocco; la Cattedrale settecentesca di San Donato, opera di F. Gallo. Il Palazzo dei Bressani del XIV secolo; il Palazzo Vescovile ( già dell'università; a Breo si trovano la settecentesca chiesa di San Filippo, anch'essa di F. Gallo, la parrocchiale dei Santi Pietro e Paolo. Nel territorio, il celebre santuario di Vicoforte. La città é sorta verso la fine del XII secolo, ad opera degli abitanti di Vicoforte, Vasco e Carassone che s'erano ribellati al vescovo di asti di cui dipendevano, fu dapprima denominata Monterico . Presa é fatta distruggere dal vescovo di asti, i suoi abitanti la poterono ricostruire solo dopo vent'anni. ( 1233) con l'aiuto dei Milanesi. Conquistata dagli Angioini (1260) poi di nuovo dal vescovo di Asti, ebbe verso la fine del XIII secolo una certa autonomia. Il borgo passò ancora sotto gli Angioini (1305 - 1374), i Visconti (1374 -1355), i Marchesi di Monferrato, che lo tennero sino alla fine del XIV secolo. Ricevuto il titolo di città ed elevata a diocesi da papa Urbano VI ( 1388), agli inizi del XV secolo entrò a far parte dei possessi dei Savoia e conobbe un periodo di notevole sviluppo nelle sue attività commerciali e si riprese solo con il ritorno ai Savoia ( 1559) e l'istituzione temporanea della sede universitaria ( 1560 - 1566). Elevata a Capoluogo di una delle dodici province degli Stati Sabaudi ( 1622), si distinse nella seconda metà del XVII secolo, per aver capeggiato una lunga lotta contro la tassa sul sale imposta dal duca Vittorio Amedeo II. Durante la prima campagna di Bonaparte in Italia, sulle alture di Mondovì, il 22 aprile 1796, i Francesi del generale Massena sconfisse i Piemontesi del generale Colli costringendoli a firmare l'armistizio di Gherasco. Verso le ore 12 circa, la comitiva dei Campitellesi, ha lasciato la storica città di Mondovì Piazza, con i suoi bellissimi monumenti e i suoi prestigiosi palazzi e le sue bellezze naturali. Il nostro torpedone, ha attraversato il centro della città di Mondovì Breo, e si é diretto verso gli altopiani, e subito dopo la Stazione Ferroviaria, si é fermato nella frazione di San Giovanni, dove la comitiva era attesa per il pranzo. Alla fine del lauto pranzo, tutti allegri e felici, come spesso succede in queste occasioni, ci siamo diretti verso Chiusa Pesio, per visitare quella suggestiva e famosa Certosa, immersa nell'interno di una bellissima foresta di castagneti e faggeti, che in questo periodo autunnale assumono una bellissima colorazione. Mondovì Il mattino di Domenica 24 ottobre, appena aperto la finestra della camera della Casa del Pellegrino, dove con Adriana mia moglie, abbiamo trascorso la notte, i primi raggi del sole illuminavano già la cupola ellittica più grande del mondo e la campagna tutt'intorno. Da quella finestra si godeva un paesaggio bellissimo fatto di colline con i colori chiari e brillanti dell'autunno che degradavano dolcemente verso il fiume della vita - Quello, oltre un luogo di preghiera e di riflessione, é un luogo di pace dove regna il silenzio assoluto, che l'uomo ramingo va sempre cercando sui sentieri del mondo. Quanti ricordi scorrono nella mia mente mentre osservo questi luoghi che videro fiorire la mia giovinezza. E' stato un viaggio pieno di emozioni e di riflessioni: i palpiti e gli ardori della giovinezza si uniscono alla calma della maturità. Ma chi sono io? Mi domandavo. Mentre passavano per la mia mente questi pensieri, un falco roteava alto nel cielo. Che cosa cerco, e quale sarà il mio destino? Ammiravo quei luoghi e la mia mente si apriva, anche gli avvenimenti lontani mi apparivano molto vicini: credevo di ascoltare le parole di mia madre che mi aveva dato i primi insegnamenti della vita. Ma quel silenzio catartico, invece di assopire il fluire dei ricordi del passato, mi spingeva a cercare delle risposte e mi domandavo: Oh! Si, il silenzio! Ma da dove viene il silenzio? .... Il silenzio viene di là dai tempi, dalle Epoche anteriori ai mondi, dai Luoghi dove i mondi più non esistono. Il silenzio comincia col far Chiudere le labbra e poi penetra Fino al profondo dell'anima, nelle Regioni inaccessibili, dove Dio Riposa in noi. Intanto, da uno dei quattro campanili che sovrastano il meraviglioso Tempio della Madonna di Vicoforte, giungevano i rintocchi della campana, che oltre a destarci da quella riflessione, ci annunciava l'ora della Messa. Dopo la Santa Messa all'altare della Vergine, la comitiva dei pellegrini padani si apprestava a raggiungere Mondovì Piazza, per visitare i suoi monumenti. La città di Mondovi, é assai pittoresca e d'impronta barocca con caratteristici spunti panoramici. La città é costituita da una parte alta, che sorge su di un colle, a 550 metri di altezza, chiamata ( (Mondovì Piazza), dove si trovano i monumenti principali, e da una parte bassa, centro della vita commerciale e industriale ( Mondovì Breo), con il sobborgo di (Mondovì Carassone), a 395 metri d'altezza, collegata alla città alta da una funicolare. Il torpedone si é fermato in principio dell'abitato, a duecento metti dal centro storico, dove sono concentrati i monumenti più belli. Percorriamo quella strada stretta e lastricata di porfido e fiancheggiata da caratteristiche case antiche che rispecchiano i tempi passati della storia. Dopo circa 50 anni, ho rivisto e ripercorso quei luoghi che mi videro giovane carabiniere. Mi sono accorto che non é nulla cambiato, tutto é rimasto come allora. I bar, i negozi e forse anche le stesse persone, si apprestavano a svolgere le stesse cose di quel tempo lontano. La stretta e scoscesa piazza principale con gli stessi personaggi di sempre: i pittori che esponevano i loro quadri, le bancarelle con i dolcetti e i souvenir, la grande padella fumante delle caldarroste e l'uomo che ti invitava a compare un cartoccio di castagne fumante, di castagne appena arrostite. Erano calde e fragranti quelle castagne. I nostri amici le hanno comperate quasi tutti. Noi non le abbiamo comperate per non tingerci le mani, ma perché sono pesante nel digerirsi. Un tempo lontano, quasi tutte le mattine comperavo un cartoccio di castagne fumanti, come del resto facevano i miei amici del liceo. Si, perché in quel tempo, frequentavo saltuariamente ed in qualità di uditore i corsi di studio . Alla fine dell'anno scolastico, dava gli esami da privatista. Passa il tempo, ma le abitudini non cambiano mai, é sempre la stessa cosa. Ricordo quando gli studenti da Mondovi Brevo, salivano con la funicolare a Mondovì Piazza, per recarsi nei vari istituti scolastici, che si trovavano e si trovano tuttora a Mondovì Piazza, c'era sempre la stessa cagnara. Di questa cagnara degli studenti, mi viene in mente una bellissima e significativa poesia di Mariella da Mondovì, anch'ella studentessa, che così faceva a scrivere. " STUDENTI MONREGALESI. Quando scoccan le otto al " Moro" Di studenti gaia schiera S'incammina assai ciarliera Verso la funicolare; Urta, spinge, soffia e pesta, Fin che muove poco lesta La carrozza traballante. Altri a piedi per la "viotta" S'incammina soli o in frotta Fino agli occhi intabarrati Quando il gelo di gennaio Ed ancora di febbraio Di una squallida tristezza Vesti i campi e la città Fin che marzo se ne va. Ma poi quando al mezzogiorno S'aprono l'aule tenebrose Fuor irrompono impetuose Le falangi di " studiosi". Scherzan, ride, ognun sospira Ed é allegro, fuor di mira Di un pedante professore Che l'oppresse per quattr'ore Con noiose dicerie. Quando si marinava la scuola, il che succedeva spesso, gli studenti monregalesi, si ritrovavano nei giardinetti della Torre del Belvedere a conversare con gli amici, a flirtare con la ragazza del cuore, oppure a intrattenere una relazione sentimentale di breve durata. Quella, é una posizione paesaggistica bellissima, da dove si domina e si ammira un paesaggio mozzafiato sulla città sottostante, sull'altopiano di Mondovì Breo, ma soprattutto sulle Alpi e le colline monregalesi. E' il luogo dove incontravamo spesso l'anziano pittore "Giuvanin", ricordo ancora dopo tanti anni il suo nome. Con Giuvanin,( Giovannino) eravamo diventati amici e tra una pipata e l'altra, mi parlava della sua grande passione per la pittura e dei suoi quadri, che così sapientemente ritraeva sulla tela bianca, sistemata sul suo vecchio e traballante cavalletto artigianale, quel paesaggio velato, quel paesaggio lento e delicato da un colore all'altro. Non lo so e forse non lo saprò mai, se la grande passione per la pittura e per la pipa, mi sia nata per spirito di emulazione. Nessuno di noi può dire di non aver emuli, non essere uguagliato da nessuno. Il fatto é, che anche nell'innamoramento succedeva e succede ancora adesso la stessa cosa fra i giovani di oggi e quelli di ieri, succede sempre per emulazione. In quel balcone panoramico, all'ombra della vecchia Torre, ho avuto il mio primo flirt con Nerina: una ragazza dai capelli biondi e gli occhi azzurri, che arrivava ancora pudica e maliziosa nel suo grembiulino nero da collegiale, bella qual sole, bianca come la luna, agile e ignara di essere il centro, l'ombelico del mondo. Ma un bel giorno, quel piccolo , grande amore adolescenziale, volò via come una farfalla colorata e si é persa negli orizzonti infiniti della vita. Ciò sta a significare, che non era il vero, grande amore , ma un semplice flirt giovanile. Mi sembra di descrivere Lila, il personaggio dell'ultimo libro di Umberto Eco, che s'intitola: " La misteriosa fiamma della regina Laona", con il quale conclude il suo capolavoro. Il nostro é stato un semplice e fugace ricordo di gioventù, che passa e vola via come una capinera al tramontar del sole. La fucina degli Dei. La grande montagna di Teyde, che a lungo abbiamo ammirato, abbiamo percorso, abbiamo fotografato, é un vulcano parzialmente attivo, che raggiunge grandi altezze dove si possono ammirare grandiosi panorami sulle vicine isole dell'arcipelago delle Canarie. Non sappiamo se anche nelle sue visceri, come in quelle di Vulcano, che con lo Stromboli, dominano il Mediterraneo, si trovasse la fucina degli dei, ma é sicuro che da tempo immemore su queste isole del sole, abitava l'antichissimo popolo dei Guanches: un popolo di guerrieri che potremmo paragonare agli uomini primitivi della Grecia, ai tempi del leggendario Ulisse. Lo scenario del grande inferno di Teyde doveva essere quello del girone dantesco, tra le esalazioni solfuree che toglievano il respiro e il vulcano periodicamente in attività con esplosioni e lanci di massi incandescenti si riversavano sui villaggi primitivi, sulle campagne, sul mare e sui boschi . Salire sul vertice del Teyde, e come salire sul cratere di Vulcano o di Stromboli. Il visitatore che approda a Tenerife, non può che notare la grande montagna rossastra che domina l'intera isola. Il contatto non é solo fisico, legato allo sviluppo di un arcipelago di isole ed isolette alle pendici di un cratere attivo, ma molto più profondo, spirituale. Le attività degli isolani e la loro stessa vita dipendono da quella montagna chiamata Teyte, mentre all'origine il suo vero nome era la "Montagna infernale", così vicina ma anche così tranquilla da alcuni secoli. Visitando e ammirando quei luoghi emersi miliardi di anni fa dal profondo dell'Atlantico, mi sembrava di ammirare il grande Vulcano dell'Etna o quello del Vesuvio, il Vulcanello e lo Stromboli, che si trovano ad un tiro di cannone delle Coste della Sicilia, di fronte alle Coste della amata e vecchia Calabria, da dove da fanciullo dai giardini di Palmi, che é un balcone aperto sulla Costa Viola, ammiravo incantato questi piccoli giganti della natura, e mi domandavo spesso che cosa fossero. Poche parole bastano a trasmettere il forte richiamo delle Eolie. Ieri come oggi grandi viaggiatori famosi quali Dumas, Houel, Guy De Monpassant, De Dolomieu e l'Arciduca Luigi Salvatore d'Austria, hanno esplorato i luoghi e studiato l'economia, le tradizioni e i costumi dandone un resoconto puntuale anche in grande opere come quella in otto volumi dell'arciduca d'Austria. Si, é proprio così. Le isole dell'Arcipelago delle Canarie, come quelle delle Eolie, sono creature vulcaniche nate dalla presenza attiva dei quattro elementi: aria, acque, terra e fuoco. Emersero dal mare durante il pleistocene e da allora hanno più volte preso e mutato forma. L'evoluzione é ancora in atto tanto é vero che in entrambi le località, sono sorti dal mare nuovi isolotti poi inabissandosi. A Lipari colate di pomice ed ossidiana del monte Pelato e della Forgia Vecchia risalgono al 729 d.C., che i vulcani di Vulcano e Stromboli sono tuttora attivi e che a Vulcano, Lipari e Panarea, acque e fanghi termali ci rammentano che sottoterra non é tutto finito. In questo nostro viaggio alle Canarie, anche se non siamo ricercatori o vulcanologi, abbiamo notato le stesse caratteristiche e gli stessi fenomeni che si verifica o che si sono verificati nel passato nelle bellissime Isole Eolie. Quindi, possiamo benissimo affermare che sia le Isole Eolie , le Pelaghi, come pure le Isole delle Canarie, offrono ai turisti, agli studiosi , agli amanti del mare e della natura la loro bellezza naturale. Un mare ancora pescoso e pulito, grotte e scogliere altissime, spiaggette nere di materiale vulcanico, colate e rocce rachitiche. Anche se la storia non lo conferma, possiamo immaginare che forse anche Ulisse, nelle sue peregrinazioni sia giunto o perlomeno transitato dall'Arcipelago delle Canarie, come fece il nostro grande navigatore Cristoforo Colombo. Le Isole Eolie, devono il loro nome ad Eolo, signore dei venti, che qui, secondo Omero, avevano il so regno. Isole piene di sorprese e di contrasti. Chi oggi vi si avvicina, con la nave o l'aliscafo, non può fare a meno di essere sopraffatto dalla magnificenza del suo paesaggio e di essere invogliato ad esplorarlo. Navigando nel suo mare, come abbiamo fatto noi pochi anni fa, abbiamo incontrato Salina, villaggi preistorici a Lipari, Panarea , Filicudi e i tesori archeologici che il mare ha restituito e sono gelosamente conservati nel Museo Archeologico di Lipari. Isole del vento e di sole che hanno forgiato il carattere e l'identità degli isolani. Nonostante le vicissitudini della storia e i cambiamenti imposti dal mondo moderno, questa identità é sopravvissuta con i suoi costumi e le sue tradizioni. "Le isole del vento": nel corso dei millenni, le eruzioni le hanno più volte modificate nelle dimensioni e nell'aspetto, la stessa cosa é successa alle "Isole del sole", quelle isole che compongono all'arcipelago delle Canarie, a noi non é dato sapere che a creare questo paradiso terrestre vi sia stato un dio , il loro nome si deve probabilmente ad una sirena o ad una dea allontanatasi dall'Olimpo, e vagando per le coste del Mediterraneo sia approdata in quelle dell'Atlantico, dove fra quelle acque abbia sparso le meravigliose perle e gli zaffiri che componevano la sua preziosa collana che cingeva il suo affusolato collo di dea, dando vita alle "Isole del sole". Le coste i fondali sono stupendi ma anche l'interno é ricco di fascino: imponenti vulcani come il Teyde che é sempre attivo, bizzarri formazioni rocciose, fitta vegetazione, villaggi preistorici, parchi sempre verdi e deserti infuocati e bruciati dal sole. Mentre Ustica, Linosa, Lampedusa, scagliate così lontano da toccare quasi le coste dell'Africa, Marettino, Levonzo e Favignana punteggiano il grande mare, il pelago degli antichi. Le preziose pietre che il dio Nettuno ha gettato a ventaglio intorno alla Sicilia per adornarla con una corona. Ed ecco le Pelagie ( dal greco, isole dell'alto mare) come le vide Ulisse. Ci si sofferma ad osservare le immagini di queste meravigliose isole. Ecco Ustica: sopra gli scogli che si tuffa nella spuma del mare, porta tracce millenarie dalla presenza dell'uomo. Linosa: lava nera e brillante, é abbagliante di colori mediterranei che da lontano i pescatori scorgevano per l'approdo. Lampedusa: scheggia d'ocra, si stende piatta e rassicurante nel mare di turchese e di blu zaffiro. Pantelleria: terrazza di viti basse, verde di ciuffi di capperi e bianca di calce dei dannusi, acque termali e saune naturali. Marettino: crosta dura di rocce all'esterno, penetrata da grotte di magica atmosfera, frammento che per primo, seicentomila anni fa, dichiarò la propria dipendenza staccandosi dalla Sicilia: Levanzo: minuscolo altopiano nel mare, erede di un mucchietto di case di preistorici abitanti che lasciarono sulle pareti delle grotte i racconti visuali della loro civiltà. Favignana e la mattanza sono legate da un vincolo che si perde nella notte dei tempi. Ma c'è qualcosa che accomuna le Canarie con il Mediterraneo: il tonno che navigando dalle coste dell'Atlantico giunge fin qui per riprodursi in nacque calde. Un viaggio inciso nella memoria genetica. Una pesca sanguinosa? No, una necessità di sopravvivenza che rispetta regole ferree e segue rituali sociali e religiosi. Terra di vulcani Il grande picco che sorgeva al vertice della grande montagna, che avevo alla mia sinistra e dal quale non sapevo distaccare lo sguardo non era più il vulcano di Cadamosto che aveva ammirato nel 1505, egli così diceva: "Et ha nel mezzo un monte in modo d 'una punta fatto altissima, la quale continuamente arde. Et così si afferma da cui quella ha veduta, et oltre cacio dicono che questo monte havia d'altezza meglia sei" Non era neppure lo Stromboli, il gigante fumante della mia fanciullezza, ma il Teyde. Anche Cristoforo Colombo aveva veduto il Teyde in tutta la pompa della sua collera. Nel suo giornale di bordo, il giovedì 9 agosto 1492, quando per la prima volta andava cercando il Nuovo Mondo così scriveva: "De spues tomò el almirate a Canaria, y adobaron muy bien la Pinta con muecho trabajo y diligeneias del almirante, de Martin Alonzo y de los demas; y al cabo vinieros a la Camera. Vieron salir gran fuego da la Sierra de la isla de Tenerife que es muy alta en gran manera". Lo scrittore Paolo Mantegazza, parlando del vulcano Teyde, così scriveva: " Il nome di Echeyde, inferno; che si cambiò poi in Teyde e che i Guanches diedero al picco di Tenerife era in quel tempo ben meritato; e nelle carte manoscritte del secolo XIV e XV potete trovare quest'isola indicata con il nome di Isola dell'inferno. Così come io la vedevo, mi ricordava piuttosto il nome di Nivaria dato dagli antichi romani all'isola di Tenerife. Quando ho trovato coperto tutto il cono di neve era il 25 di marzo. Anche nei tempi antichi però le ire di quel vulcano erano interrotte da lunghe pause In un giornale di navigazione trascritto da Boccaccio da Certaldo e scoperto a Firenze si legge che nel 1541, i Fiorentini e i Genovesi, avendo fatto un viaggio alle Canarie, trovarono il picco del Teyde senza eruzione. E in quel tempo l'Etna ebbe una calma di molti secoli; e il Vesuvio, in riposo da 25 anni, non incominciò a dar segni di vita che un secolo dopo, mentre nel quindicesimo secolo, Teyde, Etna e Vesuvio si risvegliarono in una volta sola. Dalla conquista in poi le eruzioni del Teyde furono poche. Se n'ebbe una il 24 dicembre 1704, preceduta da 25 scosse di terremoto in meno di tre ore. La lava che sgorgò dalle sue visceri si vede ancora alla Gumbre di Fasnea, al sud - ovest della Ladera di Guimar. Una seconda eruzione si ebbe il 5 gennaio 1708 e allora si aprirono nello spazio d'un chilometro più di 30 bocche di eruzione. Il 1 febbraio dello stesso anno nuove scosse e nuove eruzioni. Il 5 gennaio 1706 dopo un gran terremoto il vulcano fece esplosione a due leghe da Carachico. La città fu distrutta e non rimasero che alcune vie deserte e la lava continuò a rovesciarsi sui colli vicini per tre mesi. Da quel giorno l'Inferno dei Teyde al di d'oggi sonnecchia e si contenta di distillare pigri vapori di zolfo nei suoi crepacci trachitici. Berthelot, attraversando il fondo del cratere da nord a sud, poté introdurre la mano nel più profondo crepaccio, onde levarne cristalli di zolfo e non risentiva che un calore sopportabilissimo. In un'altra gita al Pico trovava un calore insopportabile e vapori solfuri che lo soffocavano". Tenerife possiede varie sorgenti di acque acidule, e quella di Fuente Salada e l'Acgua - Azeda di San Miguel e l'Acgua Agria sono acque che risentano certamente l'influenza del vulcano sonnacchioso, ma non ancora spento.". Non si può sempre vivere in mezzo alle nubi, ne in mezzo agli entusiasmi: per cui, girando intorno intorno i miei occhi e cercando di assorbire lentamente tutte quelle bellezze e formare un tesoro per le lunghe noie della Pianura Lombarda, incominciammo a scattare diapositive e prendo appunti sul nostro vecchio e caro taccuino. Ma a tratti una voce pareva ripetermi le parole di Khalil Gibran: "Forse hai sentito parlare della montagna benedetta. Qualora tu ne raggiungessi mai la cima, proverai un solo desiderio: scendere e ritrovarti con chi abita a valle. Ecco perché si chiama la montagna benedetta". Benedetto é anche il suo clima, la flora e la fauna. Mentre camminavo a passi lenti e cadenzati lungo i sentieri di quelle vallate silenziose, mi sono spesso domandato: Perché mai tante persone posero il piede sulle rocce che circondano la bella cittadina di Tenerife e se ne sono innamorati? Ci sarà sicuramente una ragione. Perché mai Humboldt che ha esplorato tutto il mondo, che ha ammirato le selve vergini dell'America alla luce del suo genio ha serbato le sue più calde parole d'ammirazione alla Valle d'Oratova; perché Bertholot, De Buck, Schacht, Gabriel de Belcastel son divenuti poeti sul suolo dei Guanches; perché io stesso ricordo così bene i pochi giorni che con gli amici mantovani abbiamo trascorso a Tenerife, che é come una gemma preziosa della mia vita? Tenerife, irta di rupi con il vertice della sua cima priva di foreste fu chiamata, l'Eden dell'Oceano, e ora un paradiso che rassomiglia alla nostra Enna, resa nel passato celebre dalla favola di Proserpina e che é tappezzata tutto l'anno di viole profumate e di fiori bagnava le sue terre all'onda di laghi incantevoli. Perché tanto fascino, si domandava il grande scrittore Paolo Mantegazza, se raccolto intorno a quest'isola fortunata, a quest'isola del sole? Anche noi, seppure per pochi giorni, abbiamo respirato le sue brezze marine, credo, e ne sono certo, di aver scoperto il mistero che avvolge tutto questo; credo che tutti quelli che sono giunti prima di noi, hanno ammirato quella Montagna benedetta di Teyde, e hanno benedetto quella terra, perché avevano trovato quella gioia di vivere, perché si sentivano più sereni, più lieti, più vigorosi; perché quel clima é uno dei migliori del mondo e la natura ammirata attraverso l'aria che ci ravviva e ci esalta, ti sembra cento volte più bella. L'universo piglia sempre colore e forma dall'organismo che lo sente. Adriana mia moglie, me lo diceva ogni giorno: " Da quando siamo qui a Tenerife, il tuo umore é diverso, i tuoi piccoli acciacchi sono spariti, la tua serenità d'animo ha subito una trasformazione. Sei sempre più allegro e prendi la vita con filosofia, senza mai rattristarti". Ella aveva ragione. Succede sempre così tutte le volte che esploriamo un angolo del nostro meraviglioso pianeta. E' successo altre volte, come per esempio, quando abbiamo esplorato quelle poche località del Nord Ovest degli Stati Uniti d'America, l'arcipelago delle Isole Eolie, il Continente Sardegna, i sentieri delle Alpi , delle Dolomiti, le Città d'arte , i paesaggi e le coste del nostro Paese, che sono l'ultima essenza della bellezza. La maggior parte di noi italiani, giriamo il mondo da Nord a Sud alla ricerca dell'angolo felice, ma ci dimentichiamo che il giardino del mondo é proprio il Bel Paese . Ma nessuna cosa agisce più pronta sull'animo nostro a deprimerci e ad esaltarci, a farci lieti o tristi quanto l'aria che venti volte al minuto penetra nel più profondo del nostro viscere respiratorio, stringendosi in un intimo amplesso col sangue e con i nervi. Vi é certa atmosfera che al primo respiro ci accarezza con tanto amore e ci rinfresca con tanto vigore, tanto che ce ne sentiamo sollevati da terra e che ci da una immediata gioia; vi é invece cartaria che nella prima ora ci fiacca, ci annoia, ci illanguidisce e ci fa scontenti di vivere. Vi sono paesi e località, dove il primo pensiero é un sorriso; e fra questi, abbiamo scoperto, che vi é appunto anche Tenerife. L'aria che si respira in queste Isole del Sole, in questi luoghi sperduti fra l'Africa infuocata e l'Oceano dalle sue acque fredde, é una mina inesauribile che sta aperta alle ricerche dell'avvenire, é un oceano di elementi combinati, disciolti, sospesi. E' come l'aria che respiriamo, o che vorremmo respirare ogni giorno della nostra vita. Geograficamente, come tutti sanno, Tenerife é posta al 28' grado di latitudine nord, e al 13 di longitudine ovest, e questo suo posto nel mondo può già dirci qualcosa di molto generale nel suo clima. Il termometro, in questa prima decade di dicembre non vi scende al disotto di più 12, ne ascende al disopra dei 28: vedete quanta magia di tepori si nasconda in queste cifre! Il solo abitato di quest'isola fortunata, di quest'isola felice non conosce il gelo ne le nevi delle nostre Dolomiti , é queste si possono soltanto trovare sulle alte vette del Teype, ad abbellire il panorama, non già a raffreddare gli abitanti e i migliaia di turisti che ogni giorno giungono da ogni parte del mondo. Se Tenerife é il paradiso dei climi subtropicali, il Bel Paese é la culla della storia, della democrazia, dell'arte, del Rinascimento, ma soprattutto é il giardino del mondo. Ecco perché una moltitudine di gente si é innamorato del nostro meraviglioso Paese, circondato da oltre 8000 chilometri di Coste e di splendide spiagge, di montagne stupende e di pianure affascinanti, come la terra di Lombardia: Essa non é soltanto la regione dei colori velati dalla nebbia, ma é un susseguirsi di panorami incantevoli e sensazioni suggestive, quasi al limite dell'irreale. Ma anche qui, sulle sponde dell'Atlantico, ci sono luoghi incantevoli, luoghi da sogno, tanto che ci siamo innamorati di questa terra antica di vulcani. Laguna e leggenda Qualche giorno prima di effettuare l'escursione nell'isola De La Gomera, con una squadra mista tra mantovani ed altri escursionisti stranieri che soggiornavano nel nostro albergo, con un pullman locale, abbiamo raggiunto la vivace città universitaria e precedente capoluogo dell'Isola, La Laguna, che é per ampiezza il secondo centro urbano di Tenerife. Nella zona vecchia, da visitare a piedi, abbiamo ammirato molte belle piazze, edifici storici e interessanti musei. Gran parte dei monumenti sono tra l'Iglesia de Nostra Senòra de la Concepelòn, del 1502, e la Plaza del Adelantato, dove si trovano il municipio, un convento (con un caratteristico balcone) e l'elegante Palacio de Nava. Era una bella mattina ed il sole di dicembre era tiepido, quando é giunto sul piazzale dell'Hotel un torpedone di una compagnia locale. Percorrendo una strada asfaltata ma stretta, tanto che pullman procedeva a velocità moderata verso l'antica città della Laguna. La strada era animatissima: carovane di cammelli, di muli e di asinelli solitari e montanari che seguivano le cavalcature, le panaderas della Laguna e i venditori di frutta e verdura, si recavano verso la città, perché probabilmente era giorno di mercato, invadendo quella via pittoresca e animandola con cento voci diverse. Il tintinnio dei campanelli del dromedario e dei muli, lo schioccar delle fruste e il brulichio della gente a piedi e i gridi irosi degli arrieros si confondevano in un unico concerto di chiasso vivace, mentre un contadino indigeno più allegro degli altri, seguendo a piedi la sua mula carica di patate, cantava la canzone popolare dell'isola: " Tu Palaha/ Palomita mia/ Tu palahà/ Que yà viene al dia". Non dimenticherò mai la strana impressione che mi fece all'entrata di quella città medioevale. Vedendo quelle case in pietra e le vie strette e acciottolate, mi ha dato la sensazione di entrare in una antica città dell'Umbria o della Toscana. Le case erano quasi tutte della fine del quattrocento o del cinquecento, di basalto nero, con le colonne moresche e le finestrelle gotiche; fra casa e casa castelli, sulle colonne, sugli architravi, sulle croci, dappertutto muschi e licheni, erbe e alberelli senza fine, veri boschi lillipuziani, una caricatura grottesca dei giardini di Babilonia, di cui la storia ci racconta. Paolo Mantegazza, che é stato duecento anni prima di noi, così scrive: Quell'angolo di Laguna era però grottesco cupo e triste, perché il Sempervivum urbicum col suo portamento di piccola palma, colle sue foglie glauche, con la fisionomia di un alberello in miniatura andava d'accordo colla fantastica architettura moresca e coi neri basalti di quelle vecchie case. Io mi credeva in pieno cinquecento e mi pareva di veder sognando quelle scene che il genio plastico di Balzar e la fantasia feconda del Dorè, hanno illustrato nei Contes drolatiques". Egli ci racconta anche la storia di questa città, ci dice che La Laguna fu fondata nel 1497 da Don Alonzo Fernandez de Lugo. Nella vasta e fertile pianura che la circonda, nei monti vicini ricchissimi allora di dense foreste, nel lago che allora esisteva a pochi passi di distanza, egli aveva veduti gli elementi per costruire la capitale dell'isola. Da vero spagnolo pensò prima a Dio e poi agli uomini Ma i frati che lo accompagnavano ebbero la parte migliore nella distribuzione delle terre; i Francescani, gli Agostiniani e i Domenicani ebbero ricchi conventi e vasti territori. La città della Laguna non aveva ancora venticinque anni di età e 1200 abitanti e già contava due parrocchie, tre monasteri e quattro cappelle. Poco dopo tre altri conventi di monache ed un altro di frati scalzi rendevano ancor più santa la città di Lugo. Il monastero di San Diego del monte é uno dei luoghi più deliziosi dell'isola. Chiuso fra alberi secolari, avanzo delle antiche foreste, profumato dal timo, dalla lavanda e dagli allori domina la vasta pianura e il lontano orizzonte del Picco. Nella cappella, dove riposa il Beato Padre Giovanni di Gesù morto nel 1687, é rappresentato in marmo il fondatore del convento, Don Juan de Ayala, nobile discendente degli eroi della conquista. Il Convento di San Francesco vanta una delle più belle chiese dell'isola. Là trovate il palladio ( simulacro Palladie che proteggeva la casa e la città che lo ospitava) della città e la rendita del Convento, il miracoloso Santissimo Cristo, Alonzo de Lugo si fece seppellire nella cappella di San Miguel de las Victorias, lasciando forti somme per arricchire il mausoleo che doveva chiudere le sue ceneri e per fondare feste che celebrassero per i secoli avvenire le sue gesta gloriose. Gli altri signori imitarono il loro capo e a volta a volta arricchirono il convento e i frati. E molti di questi al tempo di Berthelot, occupati soltanto di digerir bene e di fare la siesta non avevano mai letto la storia della conquista e ignoravano perfino i nomi dei fondatori del convento. E quell'illustre viaggiatore, tutto nervi e tutto cuore, si indignava con quei beati lazzaroni e si vendicava immortalando nelle sue opere il padre Vasconcellos, che moriva di indigestione e che pesava più di 200 libre. Dinanzi a tanta buaggine chiusa in uno dei più bei luoghi del mondo che avrebbe virtù di dar poesia a un matematico, egli mormorava fra i denti i bei versi del grande poeta Gresset: .... O vous, defuntes seigneuries Vous, preux barons à courtis manteaux Hauts, justiciers, grands sènechaux De antiques chavaleries,................. Gli adoratori del tempo che andrebbero matti, percorrendo le cupe vie e le piazze gotiche della noble ciudad de la Laguna. Camminando fra quelle strade e stradine vi ricorda gli splendori del Medioevo, le pompe spagnole portate senza mutamento alcuno sul selvaggio terreno dei Guanches, Se la Laguna é la città delle memorie antiche é anche la sede della scienza, es una docta ciudad L'università della Laguna, fu fondata nel 1817 per opera del marchese di Villanuova del Prado e di Don Pedro Bencomo. Il palazzo dove risiede era un convento di Agostiniani, uno dei primi fondati, e dove nella cappella di San Giorgio che risale al 1501 e che é la più antica, riposano in pace il signor di Grimone e la sua nobile signora, con questa semplicissima screzino: " A qui yace Iorge Grimon Y su muger; Que en santa gloria sea, Amen!" Dopo la visita alla città de La Laguna, proseguendo sulla strada che porta verso il mare, abbiamo incontrato Santa Orsola, che dovrebbe invece, secondo le tradizioni locali, chiamarsi Salto d'Orsola; perché là da una di quelle rupi che sporgono sul mare si gettò Lucrezia. Un'eroica fanciulla che messa alle strette da un signorotto spagnolo trovava nella morte un mezzo sicuro di difendere la sua virtù - I preti cercarono di cancellare io profano ricordo e battezzarono il villaggio con il nome di Santa Orsola; meticolosa ipocrisia che non riusciva a spegnere la gloriosa memoria dell'eroica donzella. In questa località, la comitiva si é fermata per ammirare il paesaggio più bello dell'isola.. Sotto di noi vi é la valle ridente dell'Oratova che ci sta d'inani, e più avanti il Picco di Teyte e l'Oceano formano un quadro, dove il contrasto di una natura tutta dolcezza chiusa fra il gigante dei monti e l'infinito piano dei mari non ci lascia parlare, ma ci fa sospirare di quando in quando, quasi le parole fossero di troppo in quel paradiso. Proseguendo oltre, ci fermiamo ad ammirare quel paesaggio aspro e selvaggio, dove i muri verticali di basalto, dove la feconda natura ha seminato nelle profonde fessure il Salix canariensi, il Salanum nova, la Boehmeria rubra, il Poterium caudatum, l'adianto, la ruta e tante altre piante, or glauche, ora di un verde cupo che stendono le loro braccia serpentine, ed ora si lasciano ondeggiare sul precipizio, con le chiome in basso e le radici in alto. - Qui e là troviamo qualche dracena e qualche palma dattilifera, delle molte che popolavano l'isola un tempo; ed ora appena rispettate dalle mura protettrici di un giardino. Le palme danno in questo paese datteri di poco inferiori a quelle della vicina Africa e alcune sono altissime, come quella che abbiamo visto ad Orotova. Esse si aggiungono spesso l'altezza di 40 metri. Il nostro torpedone si é fermato alla periferia di Oratova, in quel giardino che si chiama la Villa dell'Oratova, benedetta da uno dei cieli più azzurri, ridente di uno dei più lieti sorrisi della natura. Nel fascino che questo paese esercita sul turista sembra celato l'opera di un negromante, Io non ho trovato le magnifiche foreste del Trentino Alto Adige, non ho visto mugghiare i torrenti attraverso i graniti coronati di pini; ne ho vagato sull'onda azzurra di laghi fantastici,, ne ho folleggiato nelle onde verdeggianti e profumate di prati senza fine; eppure ricordo l'Orotova come un paradiso terrestre, dove saprei vivere e morire senza desiderare altro di meglio. Un lembo di questo mistero affascinante ce lo ha svelato Paolo Mantegazza, dove ci ha raccontato del clima di questo lembo dell'Africa; ma credo che in molte scene della natura vi siano certe bellezze modeste e nascoste che non balzano all'occhio di tutti noi turisti, né sorprendono imperiosamente l'ammirazione, né sorprendono i sensi; ma lentamente ci penetrano e con sicura vittoria ci fanno innamorare. E' proprio come di alcune fisionomie che lontane dalla classica perfezione dei lineamenti sanno però ispirare più tenaci e profonde passioni. I contrasti pacati qua e la interrotti da una rupe inverdita da licheni; il mare reso grazioso e quasi fratello di un lago alpino per le montagne che lo abbracciano in un seno. Per un momento mi sembrava di percorrere uno di quei sentieri ormeggianti del Trentino con le montagne si s specchiano nelle acque profonde e placide dei suoi laghi.; e gruppi di alberi quasi dimenticati in mezzo al prato coltivato e le ville sparse con un certo disordine che é tutto bellezza; e infine un mondo di forme abbozzate, di pensieri accennati ma non rivelati; quasi un abbozzo di un mio quadro appena iniziato, di un'opera sublime che la mano irrigidita dal genio lasciò incompiuta ci esercitano i sensi senza stancarli, ci accarezzano la fantasia senza umiliarla, ci tengono sospeso il pensiero in una vaga contemplazione che può ripetersi ogni giorno senza mai giungere alla noia. Dinanzi alla perfezione di un'opera sublime siamo assorti e la mente non può far altro che ammirare; il nostro amore proprio é quasi confuso. Dinanzi al bello abbozzato il nostro pensiero si fa parte viva di quel quadro incompiuto e lo corregge e lo colpisce a suo modo e voluttuosamente s'incarna con la natura, quasi volesse involare un raggio della sovrana voluttà del creare . - Così é la valle dell'Oratova. " Quella città sembra non avere mercanti, né officine, ne chiasso di carri né di cavalli: Sono tutti proprietari, sono tutti nobili e ricchi; sembrano tutti felici. Non sapete dove finisce la natura e dove comincia l'opera dell'uomo: le piante e i giardini fanno lieta corona alle case di pietra nera, le case medioevali con le chiese in stile gotico,, sembrano solo costruite per abbellire il paesaggio. In molti punti la classica architettura delle vie non si trova, e case e chiese ed orti s'intrecciano e si confondono in mille modi in mezzo a quell'eterna primavera. - Fanatico adoratore dell'ordine io non ne sentiva il bisogno. - Il padre Espinosa in un libro che scrisse cento anni dopo la conquista aveva già scritto, parlando degli abitanti della Villa de La Oratova: " Es la gente de este pueblo ( porquè lo quiere el suelo) muy caballeroso, aunque algo altiva, y come las haciendas de sus padres se han dividido en muchos hijos, no tienen la possibilidad que querrian para mostrar los animos que representan. Orbene al di d'oggi quella gente é ancora caballerosa, ma non é più attiva. Mantegazza, continua dicendo: "Nel giardino della Signora Machado io mi credeva trasportato in America; passeggiava fra alti filari di banani e sotto l'ombra dell'abaeate ( Persea gratissima), del mango ( Mangifera indica), della chirimoya ( Anona squamosa), del yuayavo (Eugenia Michelli) , e delle palme e di tante altre piante che mi dimostravano come in quella terra profumata si potessero avere le frutta del tropico, senza i raggi infuocati di quel cielo. Nello stesso giardino, non lungi dall'eterna dracena trovate una palma gracile, sottile, altissima che si dice sua contemporanea e che certo esisteva fino dai tempi della conquista; anch'essa continua a dar foglie sempre verdi e fiori sempre fecondi. Feci anche un corsa al giardino botanico che sta fra la Villa e il Porto dell'Oratova. Questo parco fu istituito con l'altissimo intento di acclimatarvi le piante che dalle calde regioni del vecchio e del nuovo continente si volevano introdurre in Europa. E infatti nei primi tempi della sua fondazione vi si potevano vedere i Pandanus dell'India, le Bankisia dell'Australia, le palme d'Africa e d'America; ora però é trascurato dal governo spagnolo e qua e là convertito in un orto domestico o in un bosco disadorno. Quanti viaggiatori lo visitarono in questi ultimi tempi hanno gettato la loro parola di biasimo per l'ignobile trascuratezza in cui é lasciato quel giardino botanico, ma nessuno ha mai detto una parola di lode per quel distinto giardiniere, il quale, dopo aversi veduto tolte tutte le risorse poco a poco, inviato a a posto migliore si ostinava a rimanervi, troppo innamorato delle piante ch'egli stesso aveva piantate e che aveva veduto crescersi sotto gli occhi. Egli mi diceva colle lacrime agli occhi: Vuos voyez bien, ces chères plantes ont ètè ma ruine: mille fois je les ai voulu abandonner, et je n'en ai pas eu le courage. Pauvres petite plantes! Je les aime tant. - Quel buon vecchio mi commosse davvero ed il gli strinsi la mano con effusione e lo ricordo ogni volta che vedo il bel ramoscello di caffè pieno di bacche mature ch'egli stesso mi colse". Oggi, nella città universitaria di Oratova, in quella città che abbiamo definito Medioevale, paragonabile alle belle città della verde Umbria, il giardino botanico descritto dal Paolo Mantegazza, esiste ancora, e possiamo dire che é ben curato in ogni suo particolare. Le vecchie piante di banane che abbiamo visto, forse sono quelle di cui ci parla lo scrittore, ma vi sono moltissime piante che noi non abbiamo mai conosciute nella Vecchia Europa, e che impreziosiscono quel meraviglioso giardino. L'Isola de la Gomera. Due giorni prima di lasciare Tenerife, per fare ritorno nel nostro Bel Paese, c'era ancora una facile escursione naturalistica da effettuare nel nell'Isola de La Gomera: Il Parco Nazionale del Garajonay, della durata dell'intera giornata, con 4/5 ore di cammino nel Parco. Abbiamo visitato una delle isole più naturali di tutto l'arcipelago. La Gomera, é la più accessibile e visitata delle isolette occidentali: solo 40 minuti di aliscafo da Los Cristiano, a Tenerife ( 90 col traghetto) Molti trascorrono, come abbiamo fatto noi, una sola giornata sull'isola, girandola in pullman con un tour organizzato dal CAI. Altri noleggiano un'automobile e la esplorano autonomamente. Quella de La Gomera, é un giro suggestivo ma sicuramente faticoso per un giorno solo, poiché il terreno é molto accidentato e l'altopiano centrale é segnato da burroni molto profondi. Guidare lungo questi crepacci significa destreggiarsi con infiniti tornanti. Per godersi l'isola é meglio sostarvi un po' ed esplorare con calma, preferibilmente a piedi, un passo dopo passo, come siamo abituati noi "caini". Il tempo per tutta la giornata é stato bello, come pure lo scenario di La Gomera é stato spettacolare. Abbiamo ammirato cime rocciose che spuntano da erti pendii coperti di felci, e le colline coltivate a terrazze luccicano al sole per le palme e i rampicanti che avevano da poco terminato la loro fioritura. La parte migliore di questo paesaggio é il Parque Nacional de Garajonay. Abbiamo visitato una delle isole più naturali , é un'area riconosciuta é protetta dall'UNESCO. La sua gente ed i suoi paesaggi conservano tutta la tradizione di un antico popolo attaccato alle loro radici e alle loro millenarie tradizioni. Abbiamo percorso attraverso i suoi boschi, unici in Europa, ammirando le sue alture e le sue profondità. La città principale é San Sebastian, dove si trova il porto d'attracco del traghetto é sulla costa orientale: un insieme di edifici bianchi intorno a una piccola spiaggia. Alcuni luoghi ricordano Cristoforo Colombo che qui si rifornì d'acqua prima di partire per i suoi viaggi avventurosi. Un pozzo nella dogana reca queste orgogliose parole: " Con quest'acqua fu battezzata l'America". Secondo la leggenda, Colombo pregò nella chiesa de la Asuncion, e alloggiò in una casa locale. Dietro le brulle colline a sud, si trova Playa de Santiago, l'unica vera stazione turistica dell'isola, con una spiaggia di ghiaia grigia. Valle Gran Rey, all'estremo ovest, é una fertile valle di palme e terrazze, oggi invasa da stranieri in cerca di una vita alternativa. A nord, piccole strade si snodano sparsi qua e là su spiagge di scogli. Las Rosas é un noto punto di ritrovo per comitive di un ufficio turistico e di un ristorante ecologico con una bella vista, dove la comitiva dei mantovani ha pranzato, gustando la sua cucina. La strada che va verso la costa passa per Vallehermoso, villaggio che pare minuscolo sotto l'enorme Roque de Cano, una massa di lava solidificata. Sul litorale settentrionale si trova Los Organos, affascinante formazione rocciosa di colonne di basalto cristallizzate, simili alle canne di un organo. In questa nostra escursione, abbiamo visitato alcuni paesini caratteristici del Parco Nazionale del Garajonay. Quando il sole si apprestava a tramontare sulle onde umide dell'Atlantico, facendo ritorno a Los Cristiano. Quando siamo sbarcati dal traghetto, abbiamo assistito al tramonto più bello che l'isola ci ha regalato. In quel tramonto vi era il fascino misterioso di quell'isola felice, di quell'isola del sole. Per testimoniare la nostra presenza nel deserto, abbiamo portato con noi una concrezione mineraria: una rosa del deserto, che fa bella mostra di se nella nostra vetrinetta dei ricordi. Siamo partiti da Tenerife, contenti di aver veduto, ammirato e percorso in lungo e in largo questo paese del sole. Abbiamo portato dentro di noi una esperienza unica, ma soprattutto la gioia di aver potuto realizzare un vecchio sogno che era stato accantonato nel cassetto. Ma é ormai tempo di finire, essendo già troppe queste pagine. Una giornalista svedese, innamorata delle bellezze del nostro Paese , così scriveva in un suo articolo: "Voi vivete nel Bel Paese, nel luogo più bello del mondo. Se io vi dicessi che le Dolomiti, Napoli con il suo Vesuvio, Capri, Amalfi , Sorrento e Taormina, sormontata dal superbo vulcano dell'Etna, sono luoghi unici sulla Terra, sono sicura che non sapresti rispondermi, ma per saperle valutare dovreste visitare il resto del mondo". Ella aveva veramente ragione. Noi siamo reduci dell'Arcipelago delle Canarie, ma se ci volgiamo a considerare tutto quanto si mostra al turista o al viaggiatore questo luogo del silenzio e del sole, in un così breve soggiorno, non possiamo a meno di meravigliarci per la ricchezza di queste contrade che delimitano la grande Teyde. Nessun'altra località nel mondo é così penetrata e animata dallo spirito. La natura e la storia hanno versato la loro cornucopia su quella appendice del Nord Africa, bagnata dall'Oceano Atlantico ed ogni epoca storica vi ha lasciato la sua impronta. Parlando della natura, dello splendore delle creazioni del genio e della storia, rivivere e risentire e riscoprire fuori e dentro di noi tutta la stupenda bellezza del Bel Paese, ecco quello che ci consentono le pagine scritte da uno dei più affascinanti storici di tutti i tempi quando nel 1861, il grande scrittore e viaggiatore Ferdinando Gregorovius, così scrive nel suo libro " Sulle tracce dei Romani": " L'Italia é la madre della civiltà in occidente e la Pandora della sua cultura sia nel senso buono che nel senso cattivo della parola. Se essa ora risorge e chiede il suo posto di nazione indipendente, fra tutti quei popoli che dopo aver da lei ricevuto la propria civiltà, la sfruttarono, la saccheggiarono, la signoreggiarono, lo fa in nome di un suo incontrastabile diritto. Sì, questa é una nobile terra, degna dell'amore del genere umano! Ed anche in mezzo al caos sconfinato dell'età presente, in questa nauseante mescolanza di errori e di verità. Anche oggi noi Tedeschi non possiamo, né mai lo potremmo, far tacere la voce del nostro ardente voto per la liberazione di questa terra". E tale fu la passione che lo animò per tutta la vita per questa nostra terra, tale fu l'amore che per essa nutrì sia nell'esaltazione spirituale di fronte alla "storia", sia nella tenera e devota sensibilità quasi filiale con la quale seppe cogliere e penetrare l'anima italiana , che volle essere definito, nel suo necrologio, " cittadino romano"! Leggendo queste pagine noi sentiamo rinascere nell'anima nostra l'entusiasmo di essere non solo "cittadini romani", ma, soprattutto, Italiani. La pesca a Tenerife Nelle nostre lunghe escursioni, ci siamo spostati da un porto all'altro, e ovunque abbiamo notato che ci sono molti pescatori che si dedicano alla pesca d'altura e lungo le coste delle isole. La pesca offre ai Canarii grande risorse; essendo quelle isole popolate di pesci squisitissimi e assai vicine a quella parte della Costa occidentale dell'Africa che sta fra il Capo Bianco e il Capo Non e che é certamente una delle coste più ricche di pisce di tutto l'Atlantico. Di notte si possono vedere sull'onda nera del mare non lontano da Tenerife una miriade di barchette che portano sulla prora grosse lampade a gas che emettono una luce rossastra che illumina quella parte di mare, e i loro riflessi tremolanti tra la forte luce fa vedete e sparire le figure dei pescatori intenti con le fiocine e con le reti ad acchiappare i pesci che corrono alla luce. I pescatore di Santa Croce di Tenerife sono chiamati chichareros; perché la chicarra é il pesce che pescano più spesso. Osservando questi bravissimi pescatori , mi sembrava di assistere ad una battuta di pesca a Posillipo , nel Golfo di Sorrento o in quello di Capri con le caratteristiche lampare. Gita all'interno dell'Isola: Barranco dell'Inferno. Il gruppo degli escursionisti del CAI di Mantova, é giunto fin qui a Tenerife, per esplorare una parte delle sue montagne , dei suoi Canyon e del suo deserto. La prima escursione che abbiamo effettuato é stata quella di Barranco dell'Inferno. E' stata una escursione facile, per tutti, della durata di mezza giornata. Dal paese di Adeje, che abbiamo raggiunto con un autobus di linea, siamo entrati in un lussureggiante canyon che si inoltra tra alte pareti rocciose , percorrendo un sentiero ben tracciato e segnato, fino a raggiungere, dopo circa un ora e 30 minuti la parte terminale dove abbiamo ammirato una bellissima triplice cascata, superando un dislivello in salita di 240 metri. Nel corso della nostra escursione su quei sentieri ombreggianti di una vegetazione lussureggiante, abbiamo incontrato diverse escursionisti isolani molto educati e gentili. Ogni gruppetto che incontravamo dovevamo rispondere al loro cordiale saluto: Vaya V. Con Dios ,- Buenos dias - Vaya V. Con la virgen - Dios lo guarde - Vaya V. En muy hora buena - Intanto, passo dopo passo, il sentiero ci portava fra pareti brulle e senza alberi nel bellissimo Canyon che si inoltrava tra le alte pareti di lava scura. La seconda escursione a Barranco de Masca. L'escursione a Barranco de Masca, ha avuto la durata di un'etera giornata, percorrendo dei sentieri scoscesi non particolarmente difficili, ma per buoni camminatori. Da Tenerife siamo partiti a bordo di un pullman locale, che ci ha portati a Mesca: un piccolissimo borgo posto a cavallo su di una punta rocciosa a strapiombo sul canyon più profondo dell'isola. La strada che abbiamo percorso per raggiungere il villaggio é stata veramente impressionante, per i tantissimi tornanti che tagliavano longitudinalmente la montagna brulla e strapiombante, che per il solo guardarla ti venivano le vertigini. In questo villaggio abbiamo consumato il pranzo, che consisteva nel cestino che ci avevano distribuito, prima della partenza, all'Hotel. Da quella posizione, abbiamo ammirato un paesaggio mozzafiato, dove lo sguardo si perdeva nell'immensità della vallata. La discesa é stata un poco faticosa, percorrendo il canyon fino a raggiungere il mare. Dopo una meritata sosta di riposo e di ristoro, con un battello passando sotto le vertiginose pareti de Los Acantilados de los Gigantes, dopo un paio d'ore, abbiamo raggiunto il porto di los Cristianos nei pressi de Las Americas. La sagra di Campitello Qua a Campitello, siamo di sagra, per festeggiare la solenne commemorazione religiosa del patrono del paese: : San Celestino I^ Papa. Nella grande e moderna piazza, costruita di recente, che sorge al centro del paese di sapore medioevale, si sono concentrate e posizionate le numerose e moderne giostre che hanno richiamato una grande folla di cittadini, provenienti anche dai paesi limitrofi, portando seco i loro bambini. Insomma, oltre alle leccornie e al frastuono delle giostre, alle luci colorate si diffondeva nell'aria tanta allegria, quell'allegria dei giorni di festa. Per un momento ci é sembrato di essere al Prater di Vienna, solo che mancava la grande ruota panoramica. Sia pure per due giorni, abbiamo dimenticato persino la guerra in Iraq, con i continui bombardamenti, gli attentati dei kamikaze, i rapimenti, le perone sgozzate come se fossero capretti e le brutture della vita. La sagra di Campitello, come tutte le sagre dei paesi padani, non é soltanto una festa religiosa, ma é anche una festa per i bambini con le giostre, é una tradizione che si rinnova nel tempo, ma soprattutto é una festa culinaria dove ancora oggi si usa invitare i parenti e i conoscenti . Le tavole sono imbandite, come ai vecchi tempi, con piatti tradizionali e non mancano di certo i gustosissimi tortelli di zucca con gli amaretti, i tortellini in brodo di cappone o le deliziose "foiade", il salame nostrano, i cotechini e le grigliate, il tutto innaffiato con il lambrusco di Sabbioneta, ma credo che non si usa più, come nei tempi passati, il "Al bevr in vin". Al bevr'in vin. Ricordo che fino a diversi anni fa, quando il maresciallo comandante della stazione e le altre autorità civili e religiose del paese, si veniva invitati in queste ed altre ricorrenze, prima del pranzo vero e proprio, le donne di casa annunciavano il bevr'in vin. Aperitivo e antipasto insieme, e assai più corroborante, questo é come l'anticamera del pranzo mantovano, segnandone insieme la saggezza e la golosità. Prima di sedere a tavola, venivano infatti servite le scodelle con un saggio del primo piatto, se questo era di brodo, e ognuno a gradimento ci versava il lambruscone spumeggiante, che accende l'appetito e i canti della bassa padana. Giovanni Nuvoletti, grande conoscitore dell'arte culinaria, nel suo libro " Un matrimonio mantovano", così scrive: " Il sorbir metteva a posto lo stomaco, ben disponendolo alle mangiate. Anche a Mantova, principi e popolo non disdegnavano le visite alle osterie che con tale conforto avviavano i loro clienti a gradire poi il buon pasto familiare. Secondo il costume mantovano, il bevr'in vin veniva sorbito volgendosi reciprocamente le spalle. Curiosa finezza padana, dove in genere non si va molto per il sottile; invece in tali circostanze si considerava che il piatto, tingendosi con il vino di un equivoco violetto, potesse suggerire sgradite immagini ai vicini", specialmente alle signore. Campitello e gli altri paesi della bassa padana, che noi conosciamo molto bene, sono stati da noi definiti: " paesi dai ritmi lenti", per il semplice fatto che la vita di ogni giorno scorre serena e pacifica come il tempo, senza preoccupazioni, senza ansie, apprensione e soprattutto stress, di quel malessere che produce alterazione o sconvolgimento dell'equilibrio umano. La gente si muove con una certa calma, perché non vi sono esigenze particolari. Le persone anziane come noi, nel pomeriggio si ritrovano nei piccoli e antichi bar, per socializzare, leggere il giornale, commentare le notizie e fare quattro chiacchiere, ma soprattutto per sorbire un buon caffè, ci può uscire anche una partita a briscola o a tressette. L'anima degli uomini era ed é tutt'oggi piena, solida, uniforme come il paesaggio, tutto piatto e brumoso che un tempo lontano conquistato alle acque, che il poeta cantava: " Acque serene ch'io corsi sognando/ nella dolcezza delle notti estive/ acque che vi allargate fra le rive/ come un occhio stupito, a quando, a quando/. Ho! Nostalgiche acque di sorgiva, acque lombarde". Le nostre, perché mi ritengo ormai un padano dopo 50 anni di residenza, sono campagne immerse nel silenzio, attorniate dagli alti e chiassosi pioppi come pure questi borghi antichi dalle case di mattoni rossi e ingiallite dal tempo; riposato paesaggio d'argine da cui per la gran distesa si possono scorgere lontani profili di monti. Dagli argini dove scorre il silenzioso fiume Oglio, che lambisce il vecchio borgo medioevale di Gazzuolo, a noi tanto caro e le campagne specchianti di Campitello, da dove nelle giornate meno brumose, si possono vedere le propaggini del Baldo e le cime delle Alpi discoste e nevose. Spesso, camminando per le strade del borgo, mi sono accorto che i giovani danno del tu a tutti, ragazzi e anziani compresi. E' un'abitudine che si é diffusa in questi ultimi anni, e ciò non mi dispiace affatto. Oggi i giovani, con l'avvento delle nuove tecnologie: i telefonini, i computer con internet, é nata la voglia di tutto subito che mettono in sordina le altre dimensioni del tempo. La memoria del passato e l'attesa del futuro rinunciano dunque a favore dell'eterno presente. Ma come scrive Bruno Ascari, sulle pagine della Voce di Mantova: " Senza tradizioni e senza ricordi viene meno il senso del tempo ne deriva una generazione senza storia, scarsamente interessata a progettare un diverso futuro". Posso pensare, con tanta nostalgia, a come abbiamo vissuto la nostra giovinezza, quando esistevano altre forme educative, quando davamo soltanto del tu ai nostri coetanei, mentre agli altri cittadini, come ordinava la buona creanza e anche la legge del vecchio regime, davamo del voi fin dalla metà del secolo scorso e anche prima? "La novità crede di aver vinto la sfida; tutto più breve, tutto più veloce, tutto più vicino. Tutto più omogeneo, integrato, assimilato. La distanza che ogni epoca ha avuto sono state cancellate: nei rapporti, classi, età, idee, sesso. E' l'epoca del livellamento e va bene così? Se va bene così per la maggior pare de cittadini diamoci pure del " tu". Io ci sto, forse perché ci avvicina di più ai giovani e ci fa ritornare indietro nel tempo. La ricorrenza religiosa. Dopo questi nostri ricordi del passato e del presente, ritorniamo all'oggetto principale del nostri discorso, alla sagra di Campitello, con la celebrazione religiosa e solenne di questa ricorrenza. Per l'occasione é stata invitata sua Eminenza il Vescovo, padre Ludovico Tubini, ex priore di Noce ( Bari) proveniente dall'Abbazia Benedettina di Parma, che ha concelebrato la Santa Messa, con il nostro parroco Don Enrico Castiglioni. Il Presule, nell'Omelia, nell'illustrare la personalità del Santo Patrono, ha così continuato dicendo: " San Celestino, patrono di Campitello, oltre ad essere un grande Papa, fu un uomo di grande energia e al tempo stesso di grande umanità. Gli anni del suo pontificato (422 -432) segnano un periodo di importanti realizzazioni. Mentre badava alla ricostruzione di Roma, ancora disastrata per il terribile sacco subito nel 410 da Alarico, re dei Goti, non perdeva di vista gli interessi spirituali dell'intera cristianità. Difese vigorosamente il diritto d'appello alla Sede di Roma da parte di ogni fedele laico o chierico, ed era sollecito nel rispondere. Al Papa veniva chiesto soprattutto di fissare norme alle quali ogni fedele dovesse conformare la propria condotta. Da quelle risposte, conosciute con il nome di Decretali, deriverà in seguito il Codice di Diritto Canonico. Scrisse lettere ai Vescovi dell'Illiria, della Gallia, delle Puglia, della Calabria e dell'Africa per correggere abusi, dissipare dubbi dottrinali, combattere eresie. Tenne cordiale corrispondenza con S. Agostino, Vescovo di Ippona ( Africa), del quale esaltò la dottrina con parole che ne consacrarono l'autorità e la santità. Il Santo Pontefice aveva una chiara visione dei problemi della Chiesa, in cui Egli svolgeva con spirito evangelico, la parte del buon pastore. Era sollecito delle sorti di ognuno, fosse anche l'eretico Nestorio, patriarca di Costantinopoli, che il concilio di Efeso, nel 431, aveva destituito e condannato. In una lettera, infatti, indirizzata ai Padri conciliari esprimeva la sua esultanza per il trionfo della verità, invitava, però, tutti alla magnanimità verso lo sconfitto. Diede delle norme riguardanti la recita della liturgia delle ore e la liturgia della parola nella celebrazione della Messa. Oltre a salvaguardare il deposito della fede dagli errori, il Santo si adoperò per dilatarla inviando missionari in Germania, in Irlanda e in Scozia. Il prelato della Chiesa, ci ha ricordato inoltre che il Santo morì nel 432 a Roma e venne sepolto nel cimitero di Priscilla, in una cappella affrescata con immagini relative al concilio di Efeso, che aveva proclamato solennemente la divina Maternità di Maria. Nel 1817 le reliquie del S. Pontefice furono collocate nella Basilica di santa Pressede e parte di esse furono portate nella Cattedrale di Mantova, edificata in quell'anno. Anche qui, nella nostra parrocchia vi sono frammenti di reliquie che sono custodite in una teca ai piedi dell'Altare Maggiore. Alla fine della predica ai fedeli, per spiegare la vita spirituale del Santo, Egli si é soffermato sui valori umani e soprattutto su quelli della famiglia, affermando che la famiglia un tempo si manteneva costante nel tempo e nello spazio, non soggetta ad alcun cambiamento, mentre oggi, in questo nostro tempo consumistico e in trasformazione, con l'avvento del divorzio, avvenne lo scioglimento del matrimonio ed é ritornato alla libertà di stato. In poche parole con questa legge, si é verificata la rottura di un legame tra i due coniugi. Spesso le famiglie appena formate si disgregano, si frantumano, si dividono, venendo calpestati e distrutti quei valori fondamentali di un popolo religioso come il nostro. In questa grave situazione, sono stati penalizzati soprattutto i bambini in tenera età, che vengono sballottati da un genitore all'altro. Oggi, é diventato molto di moda non sposarsi, i giovani preferiscono convivere e mettere al mondo dei figli senza la benedizione del matrimonio. " Ci sono dei momenti decisivi nella vita in cui, scegliendo in un modo o nell'altro, determiniamo, in modo irreparabile, il corso della nostra esistenza. E quasi sempre non sappiamo di farlo, perché non conosciamo noi stessi, non conosciamo il vasto mondo, le tendenze storiche e religiose, le forze che lo governano. Il sociologo Francesco Alberoni,che é uno scrittore molto attento dei problemi e della vita del nostro tempo, parlando dei giovani, così scrive in un suo articolo : "E ' il caso della ragazza che, in rotta con la famiglia, cercando se stessa, la sua indipendenza e la sua maturità, si innamora a diciotto anni, non ha paura di avere un figlio da sola, anzi né é orgogliosa, lo vive come una sfida al mondo adulto e conformista. Poi si trova senza lavoro a lottare giorno per giorno contro la miseria. O il giovane bullo che sfoga la sua volontà di potenza come sopraffazione, e che finisce nella camorra. Noi siamo il prodotto del nostro ambiente. E' incredibilmente difficile sollevarsi da soli, da una famiglia povera, da un ambiente isolato. Ricordo la gente del ghetto nero di Watts, che non aveva i soldi per prendere il pullman con cui uscire e andare a cercare il lavoro. In alcuni campi solo un insegnamento precoce consente di arrivare al successo, per esempio nella musica. Giuseppe Verdi, se non avesse incontrato un benefattore che, vincendo la resistenza di suo padre, lo mandasse a studiare a Milano, non ci avrebbe lasciato una riga della sua meravigliosa musica. E' immenso il peso della famiglia, del suo sapere, delle sue relazioni sociali. E' la famiglia che ti manda nella scuola giusta, dove farai le amicizie utili, che ti inserisce nella rete di relazioni sociali in cui si fa carriera. Tutti i politici e i grandi funzionari inglesi venivano dalla scuola di Eton. In tutti i campi ci sono poi i "figli d'arte" che si avvantaggiano delle posizioni raggiunte dal padre o della madre: nello spettacolo, nella scienza, nella finanza. La nostra società é fatta di clan, consorterie, tribù. Se sei dentro la tua vita é in discesa, se sei fuori trovi strade sbarrate. Però c'è anche gente che riesce da sola e che, partendo dal basso, raggiunge i traguardi più elevati. Sono sempre persone dotate di una straordinaria fantasia e di una volontà inflessibile. Gente che sa resistere allo scoramento e rialzarsi dopo essere caduta dieci volte. Ma deve avere anche una qualità in più: saper intuire quale é il tipo di attività più promettente in quell'epoca e quale é il suo centro propulsivo, il luogo in cui si deve andare. Napoleone, per realizzare le sue potenzialità, non doveva restare in Corsica ma recarsi a Parigi dove si plasmava la storia del mondo. Bisognava andare ad Atene nel V secolo, a Firenze nel '400 per imparare la pittura e la scultura, in Germania nel XIX secolo per imparare la filosofia, negli Usa nel XX secolo per fare la grande scienza. O, per il cinema, a Roma all'epoca di Antonioni, Visconti, Fellini. E, alla fine degli anni Settanta, a Milano quando con Annoni, Versace e pochi altri potevi contribuire a creare la moda italiana. Noi proveniamo da un piccolo paese della Old Calabria, una località senza alcuna prospettiva di vita presente e futura. La nostra era una famiglia unita e dai sani principi morali e religiosi, una famiglia di piccoli agricoltori che producevano lo stretto necessario per sopravvivere. Fin dalla verde età, abbiamo intuito quale fosse il tipo di attività più promettente a quell'epoca, ( parlo della fine della Seconda Guerra mondiale, quando il nostro Paese era completamente distrutto) e quale é il suo centro propulsivo, il luogo in cui si deve andare. Fu allora che abbiamo deciso di arruolarci nell'Arma dei Carabinieri, da dove iniziare una vita nuova e conquistarsi un posto nella società. Joseph Conrad, così scrive:" Uno chiude dietro di sé il piccolo cancello della mera fanciullezza ed entra in un giardino incantato. Là persino le ombre splendono di promesse. Ogni svolta del sentiero ha una sua seduzione. E non perché sia una terra ignota. Si sa bene che tutta l'umanità ha percorso quella strada. Ma si é attratti dall'incanto dell'esperienza universale da cui si attende di trovare una sensazione singolare o personale: un po' di se stessi. Noi nell'Arma Benemerita, oltre ad aver trovato un po' di noi stessi, abbiamo trovato una grande famiglia che ci ha accolti sotto le sue grandi ali. Nella nostra permanenza nell'Arma, abbiamo compreso che solo con lo studio e i grandi sacrifici, si possono realizzare i sogni che erano chiusi nel cassetto. Non siamo stati con le mani in mano, come si dice, ma abbiamo acquisito i titoli di studio necessari per accedere alla Scuola Sottufficiali, e nel tempo raggiungere il massimo vertice nella carriera militare dei sottufficiali Comandanti di Stazione. Abbiamo fatto come fece il grande Napoleone Bonaparte, che per realizzare le sue potenzialità, non doveva restare in Corsica ma recarsi a Parigi dove si plasmava la storia. Lo so che il paragone non regge, ma i fini sono gli stessi. Se noi fossimo rimasti nel piccolo borgo aspro montano di Cosoleto, al massimo saremmo diventati modesti coltivatori diretti, senza alcuna prospettiva di vita per il futuro. La capacità di capire dove si crea il nuovo, dove passa la storia o, come dice Hegel, lo " spirito del mondo", e di corrervi subito e coraggiosamente, é forse il più importante fattore di successo individuale. Noi, riteniamo, di aver imboccato la strada giusta. Ritornando alla sagra del nostro villaggio padano, con la quale abbiamo iniziato questo nostro excursus storico letterario e tradizionalista, che ci ha fatto palpitare il cuore, ci ha fatto tornare indietro nel tempo a ricordi di un'epoca, che purtroppo non ritornerà più come la fanciullezza e la verde età.
Sausolito
Il mattino del 15 agosto, di fronte all'Hotel Hilton vi erano parcheggiati
due piccoli bus, che erano riservati alla squadra dei "Caini" mantovani,
per l'ultima escursione in programma al parco di Muirwoods, famoso per le
sue sequoie secolari, e alla visita della cittadina di Sausolito, situata
sulla baia di fronte a San Francisco.
Sul piccolo bus vi era la nostra guida americana, la signora Luisa, una
partenopea trapiantata a San Francisco, perché coniugata con un americano,
molto simpatica e preparatissima, mentre alla guida dell'automezzo vi era
John, un simpatico giovane di colore.
Dopo un lungo giro a largo raggio per la città, con piccole soste nei punti
più caratteristici, abbiamo raggiunto il quartiere italiano, una piccola
sosta per il caffé nel Bar Italia e poi dritti verso Golden Gate Park, dove
si trovano alcuni dei musei più importanti di San Francisco: l'Accademia
delle Scienze della California che raggruppa il planetario Morrison,
l'Acquario Steihart e il Museo di Scienze Naturali; sul lato nord della
piazza il Museo De Young e il Museo d'Arte Asiatica. A fianco del Museo
d'Arte Asiatica, c'è l'ingresso ai giardini giapponesi del tè che
contengono una varietà di alberi Bonsai. Proseguendo in direzione ovest, si
trova l'entrata agli orti botanici Strybing, che espongono numerosi
esemplari di piante californiane.
All'uscita ovest del Parco, siamo ritornati sulla Kennedy Drive alle spalle
della piazza principale e, percorrendola fino alla Great Highway.
All'uscita del Parco, sulla destra, abbiamo notato un mulino a vento.
Davanti a noi c'era una vista bellissima: l'Oceano Pacifico e la spiaggia
più grande della città dove si possono ammirare gli intrepidi surfers.
Sulla destra, davanti agli scogli e sulla punta più a ovest della città,
sorge la Cliff House, con una terrazza panoramica sul Pacifico.
Più avanti e al di là del Golden Gate, affacciata sulla baia si trova la
graziosa cittadina di Sausolito.
Fondata allo stesso tempo di San Francisco, questa località prende il nome
dalla parola spagnola che significa "salice piangente". Parlando di
Sausolito, la nostra simpatica signora Luisa ci ha raccontato che durante
la seconda guerra mondiale i cantieri navali di Sausolito costruivano le
famose navi Liberty adibite al trasporto di soldati ed approviggionamenti.
All'inizio degli anni settanta una piccola comunità di artisti costruì a
nord di Sausolito un villaggio di case su palafitte. Oggi le pittoresche "houseboats"
sono diventate molto di moda. Riparata dai venti freddi del Pacifico,
Sausolito gode di un clima più favorevole di San Francisco e, con il suo
aspetto mediterraneo, è definita la "Portofino dell'Ovest".
In questo villaggio mediterraneo, subito dopo il grande conflitto mondiale,
sono approdati dal nostro Paese, una piccola comunità di pescatori che
svolgono la loro attività marinaresca.
Lungo la Bridgeway ci sono numerosi negozi di souvenir's, boutiques,
gallerie d'arte, ristoranti ed un insolito centro commerciale su vari
livelli chiamato Village Fair. Collegata alla città di San Francisco dal
Golden Gate Bridge, la cittadina è anche raggiungibile con i traghetti che
partono dal molo dei pescatori italiani (Molo nr. 43) o dal palazzo dei
traghetti situato ai piedi della Market Street.
A pochi chilometri da Sausolito, ai piedi della montagna Tomalpais e
adiacente alla costa del Pacifico, si estende la foresta di sequoie
chiamata Muir Woods, il clima mite e l'alternarsi di piogge invernali e
nebbie estive hanno permesso la sopravvivenza di questi alberi millenari
chiamati "Castal Redwoods", i quali raggiungono un'altezza di 110 metri e i
200 anni di vita.
Abbiamo potuto constatare che sono caratterizzati da un tronco color
cannella dovuto, come ci spiega la nostra guida, all'alta percentuale di
tannino presente nel legno, al contrario di altre conifere, l'albero non ha
resina e brucia con molta difficoltà.
Questa particolarità lo rende molto pregiato per uso commerciale ed
infatti, durante l'epoca vittoriana, furono abbattuti milioni di ettari di
foreste per la costruzione di case a San Francisco e nelle zone circostanti
. La foresta di Muir Woods, dedicata al famoso naturalista John Muir, copre
200 ettari e all'inizio del secolo venne regalata da un ricco abitante del
luogo, William Kent, al governo federale. Il Presidente Roosevelt, nel
1908, la dichiarò parco e monumento nazionale.
All'interno del parco abbiamo percorso un sentiero asfaltato che costeggia
un torrente e, percorrendolo, abbiamo potuto osservare alberi in vari fasi
di crescita e magnifici esemplari millenari. All'entrata del parco, sulla
destra, c'è il Visitor Center con un chiosco di informazioni dove abbiamo
ottenuto un piccolo depliant sulla foresta con le spiegazioni in italiano,
e da esso abbiamo attinto per scrivere questo brano.
Percorrendo le stradine acciottolate e i viali del borgo marinaro di
Sausolito, in questo stupendo e meraviglioso villaggio, mi sembrava di
passeggiare in una località della costa Amalfitana e della bella Liguria.
Di fronte a questo borgo marinaro vi è l'irresistibile fascino della baia
di San Francisco, se fascino non deriva dall'armonia delle cose, parole
senza senso qui dove è anzi violentissimo il contrasto che pone accanto
alla spiaggia, le piccole insenature ammaliatrici, gli scogli trachitici
della scogliera e l'antro stupendo delle piccole fate.
E la malia e l'incantesimo di questo villaggio, che hanno definito
mediterraneo, continuano, apparentemente disordinati, nel popolo espansivo,
loquace, canoro, profondamente buono. Qui vi è un senso di euforia dato
dalla mitezza del clima, dalla vivida luce della vivacità dei colori della
meravigliosa California.
Percorrendo le stradine e i viali del borgo marinaro, siamo giunti nella
bella piazza, o meglio dire sulla rotonda sul mare, uno dei migliori che
più tardi, a nostre spese, abbiamo appreso essere la sede della più
numerosa colonia italiana. In quella cittadina abitano pescatori e
lavoratori italiani apprezzatissimi per la loro serietà in vari settori
dell'economia americana; li abbiamo trovati in allegria: ricorreva infatti
la festa di San Rocco e dell'Assunta.
Le strade del quartiere, come quelle di San Francisco, potevano proprio
scambiarsi per uno dei quartieri di Napoli, di Messina oppure di Reggio
Calabria o di Bari; da una finestra all'altra, attraverso la via, era il
gran pavese fatto di bandiere di carta multicolori; nel centro l'immagine
dei Santi che si festeggiavano e il tricolore; sui davanzali, fiori finti e
candele. Ai lati della strada, come sempre, le caratteristiche "bancarelle"
della frutta e degli ortaggi, dei giocattoli e dei dolci siciliani,
napoletani e calabresi, delle olive e del prosciutto di Parma, del
parmigiano e dei variopinti fiaschi panciuti e ripieni del buon vino
Chianti, e ovunque nidiate di marmocchi che si rincorrevano e giocavano,
come del resto succede tutti i giorni nella vecchia Palermo, e nel Sud
d'Italia.
Quella è la piccola "Italy" dell'oltre Oceano.
Dopo aver visitato la comunità dei nostri connazionali di Sausolito e di
San Francisco, spesso ci domandiamo: "Ma gli americani a Sausolito dove
sono?".
Mentre cerco di descrivere questo borgo marinaro della baia di San
Francisco, mi viene in mente un brano che ho letto nel libro di Indro
Montanelli "Eppur si muove". "Un altro giorno rivelatore nella Storia
d'Italia è il 10 luglio del 1943. Gli angloamericani sbarcati in Sicilia.
Siamo nella seconnda guerra mondiale, stiamo cominciando a perderla. Dopo
quindici giorni cadrà il Fascismo (la notte del Gran Consiglio) . E il
giorno dopo non si troverà nemmeno un fascista in Italia.".
Lo scrittore Domenico Rea ha raccontato ("Corriere della Sera", 5 gennaio
1994) : "Ma sì, cambia padrone, cambia servitù. Voglio raccontare un
episodio che riassume il vizio (o la virtù) di un Paese sempre alla fame.
Ebbene: siamo nel '43, sbarca a Napoli l'esercito alleato, divento amico di
un tenente inglese, si chiamava Luthmann, che dopo qualche settimana mi
prende in disparte e mi chiede sottovoce: Mimmo, Mimmo, per favore mi fai
vedere un fascista? Non ce n'era più nessuno. Eravamo stati quarantadue
milioni di camicie nere. Tutte dileguate. Siamo allievi di Guicciardini,
tutti volponi che scappano quando sentono puzza di bruciato".
A noi non è che interessa più di tanto la sparizione dei fascisti. In
questo contesto cercheremo di mettere in evidenza quella verità che non
abbisogna di dimostrazione, perché è nota la posizione economica-politico
dell'epoca del trasformismo, di quel trasformismo inteso come vizio
(diciamolo di noi stessi) di cambiare secondo il mutar del vento.
In quei momenti tristi e bui per l'incertezza delle sorti del nostro Paese
dopo un conflitto mondiale di quella portata, era difficile risalire alla
sorgente del sogno, dell'ideale, della speranza, comunque lo si voglia
chiamare, per ritrovare tra le inquietudini del momento la fiducia del
cammino intrapreso, magari disegnando le linee per il domani.
Per molti di noi le immagini dell'oggi in questa terra americana ne
risvegliano altre, ugualmente tragiche, di cinquant'anni fa quando il
Vecchio Continente dovette affrontare il problema delle sue rovine e della
sua rinascita. E' anche il nostro passato. Non abbiamo dimenticato com'era
il nostro Paese, uscito da una guerra perduta e da una rovinosa dittatura,
con le città devastate da un'economia sbriciolata. Eppure abbiamo dato vita
al "miracolo" della ricostruzione su tante ceneri ancora calde. Base di
partenza fu la rinascita della Repubblica nella primavera del 1946 e
l'approvazione della nuova Costituzione nel dicembre dell'anno successivo.
Così un popolo stremato, umiliato e alla fame ritrovò il coraggio del
domani attraverso regole democratiche. Il resto è una storia che intreccia
sviluppo, benesserre con incidenti di percorso, spesso gravi e dolorosi.
Qualcuno ha detto: Si va avanti … si arriva all'oggi. Non siamo più ai
tempi in cui l'uomo sperava nel ritorno del sole dopo la notte. Forse come
lui subiamo lo stupore dello spazio infinito, anche se oggi il telescopio
della Nasa ha potuto contare quaranta milioni di galassie, gremite di
stelle.
Questo senza dubbio, è stato un periodo buio e triste del nostro Paese,
senza prospettive per il futuro della nostra gente, per quella gente
laboriosa, onesta che ha preferito emigrare lontano in quella terra
democratica che riconosce ad ogni uomo il diritto alla vita, alla libertà
ed al proseguimento della felicità.
Quegli uomini che abbiamo conosciuto a Sausolito, nella baia di San
Francisco, sono uomini del Sud d'Italia. La maggior parte di essi sono
pescatori giunti dalla Sicilia, la più grande isola del Mediterraneo, che
ha una storia lunga e infelice … Invasori e dominatori che si sono
succeduti in tutte le epoche, hanno oppresso la popolazione. Greci, romani,
cartaginesi, vandali, goti , bizantini, eruli, normanni, tedeschi,
francesi, napoletani e infine i siciliani stessi, quelli della mafia che
hanno dominato e dominano tutt'oggi con la loro prepotenza e spavalderia.
Ma questa volta, una volta sola nella storia, i siciliani, i calabresi e i
napoletani hanno invaso, nel senso pacifico e democratico il piccolo
villaggio di pescatori di Sausolito. In questo lembo dell'Oceano Pacifico,
in questa terra promessa, hanno portato con loro le abitudini, le usanze,
le consuetudine e le tradizioni della nostra terra. In quel giorno di festa
abbiamo goduto del folclore, delle tradizioni popolari del nostro Paese.
Il Signor Luigi, il barista del "Bar del pescatore", con il quale abbiamo
conversato a lungo, si esprimeva in quel linguaggio idiomatico siciliano
dicendo: "Gli italiani di seconda, terza generazione e tutti quelli che con
passione hanno studiato la lingua e la cultura italiana, anche qui a
Sausolito, si stanno organizzando e stanno preparando dei progetti per
riuscire ad ottenere dalle autorità il giusto riconoscimento al prestigio
dell'Italia, alla sua civiltà, ai suoi uomini, all'enorme influenza che ha
avuto nella formazione dell'identità americana attraverso i milioni di
discendenti di sangue peninsulare che abitano questa meravigliosa terra".
La nostra vacanza in questo paese di sogno, si è svolta nel periodo più
bello dell'anno. In questo periodo l'estate non è particolarmente calda in
California: le cosiddette nebbie alte, che durante la stagione calda velano
il cielo ogni mattina e si dissolvono prima del meriggio, tolgono molta
forza ai raggi del sole e le brezze regolari, che vengono dalla marina nei
pomeriggi estivi, danno all'aria una dolce frescura.
Con un clima simile, non c'è da meravigliarsi se questo paese è un paradiso
di fiori. Ne crescono dappertutto e in ogni stagione con una facilità
portentosa. Perfino il retrostante "Deserto del Colorado" e la "Valle della
Morte", dopo le scarse piogge invernali, si coprono di vivissimi fiori
selvatici, lo abbiamo notato dalle piantine secche che coprono le lande
infuocate dal sole.
Abbiamo appreso che nel mese di gennaio, nella zona costiera della
California, sembra d'essere a Capri, ad Amalfi, a Taormina o a San Remo.
Più di trecento giornate meravigliose offre ogni anno la California.
Cicloni, bufere, grandinate, temporali, si può dire che non esistano. Le
vaniglie, i gerani, le rose fioriscono in ogni tempo, anche in gennaio.
Quando poi in primavera fioriscono gli aranci ed i limoni nelle sterminate
piantagioni agrumarie, la fragranza è così acuta da dare il senso della
vertigine.
Nel corso del nostro lunghissimo itinerario, da New York a Santa Fe', dal
Nuovo Messico al Colorado, dall'Utah al Nevada e alla California, abbiamo
notato ovunque i segni che ha lasciato la lunga stagione invernale, con le
sue abbondanti nevicate e gelate, che ha messo in ginocchio non solo gli
Stati Uniti, ma anche la vecchia Europa.
Nella California, le gelate hanno prodotto moltissimi danni
all'agricoltura, hanno compromesso notevolmente i raccolti, specie di
vigneti ed agrumeti. Infatti, le coltivazioni più diffuse della California
sono la vite e gli agrumi: aranci, limoni, mandarini, pompelmi e cedri.
Nella costa, subito dopo la baia di San Francisco, nei pressi di Sausolito,
abbiamo potuto ammirare una meravigliosa piantagione di ulivi e grandi
distese di opulenti vigneti, ortaggi, cereali e tanta frutta. Tutto ciò è
dovuto alle correnti marine calde che mitigano la temperatura lungo le
coste .
Mi sembrava di percorrere le coste della mia bella Calabria e quella della
meravigliosa Sicilia, ma invece stavo percorrendo le coste del nuovo
continente.
Ci siamo trovati in un paese di fiori e di frutti che hanno in comune la
fragranza acuta dei fiori d'arancio e dei limoni che danno il senso della
vertigini.
L'Isola di Palmaria
L'Isola della Palmaria, appartiene a Portovenere,che è un grande blocco
calcareo triangolare situato nel lato occidentale del Golfo di La Spezia,
di fronte al centro turistico di Porto Venere e al promontorio omonimo, da
cui dista, nel punto più stretto, circa 100 metri. Un itinerario
naturalistico e storico sulla più grande isola della Liguria attraverso una
bellissima macchia mediterranea, in vista di pittoresche cale, calette,
insenature e alte falesie a picco sul mare
Dalla tolda della bianca nave,che costeggiava il periplo delle tre isole
della Palmaria, del Tino e del Tinetto, ammiravamo estasiati le bellezze
naturali che vi si trovano sulla scogliera tra cui alcune grotte ( la
Grotta Azzurra e quella dei Colombi). Per un momento ci sembrava di
ammirare le falesie della stupenda costa del Golfo di Orosei, che abbraccia
quel tratto di costa di Santa Maria Navarrese, ma questi ricordi non erano
altro che flash di memoria.
Dopo il periplo di quelle stupende isole,poco dopo le ore 11, siamo
sbarcati sull'isola Palmaria in località Terrizzo, per effettuare
un'escursione nei sentieri della più grande isola della Liguria.
L'escursione prevedeva la salita al Semaforo, straordinario punto
panoramico di osservazione, attraverso sentieri spettacolari. Adriana ed
io, non abbiamo preso parte all'escursione completa dell'isola ed in attesa
del vaporetto delle ore 12,30,che ci ha traghettato a Portovenere, abbiamo
proseguito su di un comodo sentiero forestale e soprattutto panoramico, da
dove si può ammirare un paesaggio senza pari, la cui vista abbracciava
tutto il Golfo dei Poeti. Seguendo i tornanti di quel sentiero,immerso nel
verde dei pini,abbiamo visto che nei piccoli orti a fianco alle case,oltre
all'ulivo germogliano rigogliose alcune piante di limoni carichi di succosi
frutti, che impreziosivano quel luogo soleggiato di grande bellezza
paesaggistico.
Il borgo marinaro di Portovenere, che fu definito il luogo dell'amore, non
ha bisogno di essere ulteriormente illustrato, perché le sue bellezze
parlano da sole. Comunque, cerchiamo di soffermarci brevemente e di parlare
delle nostre impressioni. Diremo che lo storico e bellissimo borgo marinaro
di Portovenere, che sorge proprio di fronte all'isole della Palmaria, non è
altro che l'antica "Portus Veneris" che fu fondata dai romani come stazione
navale tra Luni e Sestri. Tra i resti che risalgono a quest'epoca,
segnaliamo le vestigia di una grande villa romana visibili nella zona del
Varignano, che fu meta di un'altra escursioni nel passato. Il fascino di
questi borghi non è solo suscitato da un paesaggio di singolare bellezza,
ma anche dalla ricchezza di storia e di resti archeologici La Villa del
Verignano, di cui ne abbiamo fatto cenno, è situata alle pendici del Colle
Muzzerone, immersa tra ulivi e aperta sul mare. Essa è databile tra la
(fine del II secolo a . C. e il. VI d. C). Gli scavi hanno rilevato
numerosi ambienti tra cui l'impianto termale e la parte rustica. I reperti
sono esposti nell'Antiquarium ed è visibile su richiesta..
La storia di questo borgo, ci racconta che nel 1113 Portovenere fu occupata
dai Genovesi. Oggi presenta l'aspetto tipico delle città fortificate, con
le case dominante dalla mole del castello ( originario del XII secolo, ma
ricostruito nel XVI). La chiesa parrocchiale di San Lorenzo, edificata nel
1116 e ripresa in epoca successive, si presenta con una facciata nella
quale elementi romanici ( il portale) si uniscono ad altri gotici e
rinascimentale. Sul sottile promontorio roccioso dell'Arpaia, proteso sul
mare, sorge la chiesa di San Pietro, con la facciata a strisce bianche e
nere, tipica costruzione romanica
Da qui o dal castello del '500, in cima alla scogliera, a nord-ovest del
paese, si può godere uno stupendo panorama delle Cinque Terre. Questo è un
superbo edificio eretto nel 1277 e costituito da due corpi diversi, il
maggiore dei quali sovrastato da un campanile. Nell'interno, in stile
gotico,che visitiamo per l'ennesima volta una piccola navata che ci conduce
a una chiesa paleocristiana del V-VI secolo. E' consuetudine fra i novelli
sposi, di celebrare le proprie nozze in questa bellissima chiesa romanica,
che come la prua di una nave si protende verso il mare.
Portovenere pittoresco paese del golfo di Palmaria, frequentato centro
turistico e balneare. Interessante la vista di questo caratteristico borgo,
una passeggiata sul promontorio roccioso all'estremità dell'abitato per
visitare, fra vecchie fortificazioni, la chiesa di S, Pietro di cui ne
abbiamo raccontato la sua storia, che risale appunto al VI secolo.
Di fronte alla costa di Portovenere, oltre alla Palmaria si trovano altre
due isole, il Tino e il Tinetto, che sono state incluse nel Patrimonio
Mondiale dell'UNESCO, non solo per la loro bellezza, ma anche perché
vantano numerosi resti di monasteri eretti nei primi secoli del
cristianesimo. Palmaria e Tino sono soggetti a servitù militare, in quanto
vicine alla base navale di La Spezia, sul l'altro lato del golfo, e per
questo hanno conservato una ricca vegetazione, con leccete, pini d'Aleppo e
macchia mediterranea.
Come abbiamo avuto modo di scrivere in questo contesto escursionistico ,
non è la prima volta che visitiamo questo borgo marinaro, con le sue
caratteristiche viuzze e piccoli carruggi fiancheggiate da case color
pastello, che è considerata una delle località più romantiche della costa
ligure. Non a caso gli è stato attribuito ( il nome Venere, che è quello
della dea dell'amore). Le case colorate, con piccoli portici e tanti
piccoli negozi, ristoranti e bancarelle di souvenir che sorgono di fronte
al mare e si elevano verso l'alto. Quel frontale di case colorate,vengono
comunemente chiamate i "grattaceli di Portovenere". Un nome improprio,
perché non rispecchia alla realtà costruttiva degli edifici. Quel frontale
di case antiche, la cui elevazione in effetti è dovuta alla poca
disponibile di spazio disponibile per costruire un vero paese, così gli
antichi costruttori, hanno sfruttato quella piccola striscia di terreno fra
gli scogli e la montagna rocciosa retrostante.
Appena sbarcati alle ore 12,30 circa, Adriana ed io,dopo un frugale pranzo
turistico, una passeggiata distensiva sulla scogliera da dove si gode una
vista stupenda del borgo marinaro e della bellissima chiesa di San Pietro e
dulcis in fundus, un paesaggio bellissimo delle Cinque Terre. Prima
d'iniziare la lunga scalinata che porta alla chiesa romanica di San Pietro,
sulla destra, dietro la muraglia difensiva, si trova la baia dei Colombi,
dove il poeta romantico Lord Byiro, era solito farsi il bagno in quelle
acque fresche,lipide e profonde. Sopra una di queste finestre panoramiche
attraverso la quale si ammira la famosa baia,è stata posta una lapide
commemorativa dedicata appunto al poeta Byiro, dove si legge:
"Grotta di Byron"-Questa grotta ispiratrice di Lord Byron, ricorda
l'immortale poeta che ardito notatore sfidò le onde del mare da Portovenere
a Lerici".
Da quella posizione, alcuni anni fa, in occasione d'una ennesima visita al
borgo antico di Porto Venere, armati di cavalletto, colori e pennelli,
abbiamo dipinto un bellissimo scorcio panoramico della baia con lo sfondo
delle Cinque Terre, che conserviamo nel nostro modesto studio.
Il caratteristico ed unico paesaggio della Liguria lungo la Riviera di
Levante, tra le Cinque Terre e Portovenere, ha sempre attratto artisti,
musicisti, scrittori e pittori. Alcuni dei visitatori più fedeli, come i
poeti romantici Eugenio Montale, Lord Byron e Percy Bysshe Shelley, la
scrittrice francese Gorge Sand e il compositore tedesco Richard Wagner, non
hanno esitato a decantare nelle loro opere la singolare bellezza di questi
luoghi, rendendoli così immortali.
Il territorio delle Cinque Terre,che si estende per circa 15 chilometri da
Monterosso al Mare a Porto Venere, è caratterizzato da un profilo costiero
aspro e irregolare, che è stato modellato dall'uomo nel corso dei secoli
fino a ottenere un paesaggio unico. La successione di pendici montuose a
picco sul mare, scandite da una serie di terrazzamenti coltivati, evocano
panorami simili a quelli delle minuscole isole dell'Egeo.
Oggi, in questa giornata luminosa, riscaldata da un sole primaverile,con
gli amici del Cai, abbiamo ammirato tutto questo, ma soprattutto
l'immensità del mare e le bellezze naturali dell'isola della Palmaria. A
procedere la lunga fila rutilante degli escursionisti sui ripidi sentieri
dell'isola,abbiamo visto una giovane promessa del CAI, il bravo e
baldanzoso Maurizio Turazza,che ha esordito per la prima volta in un
incarico così importante, portando a termine con tanto impegno il suo
difficile compito di aspirante guida del CAI. Bravo Maurizio!,
doverosamente ti meritavi questa piccola citazione
In attesa degli amici escursionisti,ci siamo concessi una pausa sugli
scogli della Baia di Lord Byron,per ammirare quel paesaggio infinito,
mentre le onde del mare s'infrangevano fra gli scogli dove eravamo seduti.
Mentre ammiravamo le piccole onde spumeggianti che si infrangevano contro
la scogliera, sentivamo il rumore cupo e prolungato del mare, con il suo
caratteristico muggito e il sibilo del vento della sera.
Oh mio dolcissimo mare!Vorrei essere una barca per seguirti oltre
l'orizzonte e sentire ancora la tua voce e il tuo rumore cupo e prolungato.
Mi mancheranno le tue parole, il tuo respiro, il tuo cupo ruggito, il
rumore fresco e spumeggiante delle tue onde, esse sono come le acque del
fiume della vita, sono chiare come all'origine Il principio e la fine hanno
la stessa luce.
Parlando del fiume della vita,cosi faceva a scrive Romano Battaglia:
"Ricordo quello che mi dicesti all'inizio:" Nacqui in un giorno di
primavera fra le montagne bianche di neve e il silenzio assoluto delle
grandi altezze. Nella pace della montagna percepivo il respiro del
Creatore"
Il poeta Eugenio Montale, un figlio prediletto della vecchia e meravigliosa
Liguria,che conduce i lettori, con i suoi versi che non fanno concessioni
al canto, in un labirinto di sillabe dai suoni aspri e duri, alla ricerca
di un varco nel muro invalicabile di mistero che circonda la nostra
esistenza, così faceva a scrivere a Portovenere questi versi:
Là fuoriesce il Tritone
Dai flutti che lambiscono
Le soglie d'un cristiano
Tempio, ed ogni ora prossima
È antica. Ogni dubbiezza
Si conduce per mano
Portovenere
Questa mattina, quando abbiamo parcheggiato la nostra utilitaria nel grande
piazzale Mondadori di Mantova, incominciava ad albeggiare e cerano tutti i
presupposti di una bella giornata. Dopo di noi, come si vuol dire, alla
chetichella, sono giunte le altre autovetture con gli amici escursionisti,
alcuni dei quali facevano ancora fatica ad aprire gli occhi, per via
dell'ora legale. Insomma,come spesso si dice in modo allusivo ed
enigmatico,non si capisce se erano addormentate o facevano finta di
esserlo. Subito dopo, alle 5,45 circa,sono giunti i due grossi torpedoni.
Appena aperte le porte, come spesso succede nelle nostre gite turistiche,
gli escursionisti si sono lanciati come uno sciame di ape senza ordine, per
conquistare i primi posti degli automezzi.
Di tanto in tanto,si vedono delle facce nuove, come è successo in queste
ultime gite, ma ti accorgi subito del loro comportamento taciturno,
introverso, riservato e persino distaccato,senza una briciola di calore
umano, di quel comportamento amichevole che regna da sempre fra noi vecchi
veterani del CAI. Noi vecchi "caini",siamo gente estroversa e di diversa
estrazione sociale:gente che amiamo la montagna,la vita e soprattutto
l'allegria e l'amicizia, per cui, certi atteggiamenti, in un certo senso,
ci lasciano quasi indifferenti, ma quello che ci ha fatto tanto piacere,è
stato di rivedere alcuni nostri cari amici che non vedevamo dell'anno
precedente, come il nostro amico cinematografaro Carlo Borghi, che ci
delizia ogni anno con i suoi filmati naturalistici ed escursionistici. A
Casalmaggiore, il torpedone si è fermato e sono saliti altri escursionisti,
fra quelle persone abbiamo rivisto con molto piacere, l'amico Franco dott
Guizzardi e gentile signora, che reduci da Cuba, ritornavano a ritemprare
lo spirito e le membra sui sentieri di Porto Venere, che per antonomasia è
stato definito il luogo dell'amore.
Lasciamo quest'argomento e veniamo alla nostra escursione in questo luogo
incantato di Portovenere. L'escursione odierna, non è la solita gita in
montagna, che a volte non si riesce ad occupare tutti i posti a sedere.
Quella di oggi, è la classica gita primaverile al mare, che il CAI di
Mantova, organizza ogni anno di questa stagione nella vecchia e sempre
bella Liguria: Vedendo quella massa di persone eterogenea,composta di
elementi diversi degli amici di sempre, che prendevano d'assalto i due
grossi torpedoni, si vedeva proprio che avevano voglia di evadere, di
uscire fuori dal guscio di casa,di dimenticare almeno per un giorno le
lunghe giornate brumose, quelle giornate tediose che non finiscono mai ,per
trascorrere una giornata serena ed in armonia sulla riva del mare, per
ammirare le bellezze paesaggistiche di questi luoghi incantati, per vivere
in sintonia con la natura una giornata serena e piena di sole e soprattutto
di essere accarezzate dall'ebbrezza marina.
Della Liguria, conserviamo un bellissimo ricordo, perché dopo la
meravigliosa Old Calabria,che ci ha dato i natali,è diventata la nostra
seconda patria Questa bellissima regione è una sottile striscia di costa,
ai piedi di montagne coperte di boschi, di uliveti e di vigneti. Qui si
osservano case colorate di pastello che si crogiolano al sole del
Mediterraneo, mentre i loro giardini, fiorenti nel dolce clima, risplendono
di piante colorate. In contrasto con località come Portofino, San Remo e
Bordighiera, la laboriosa città di Genova, per secoli uno snodo marittimo
di immenso potere, è la sola grande città.
Nel lontano 1946, dalla natia Calabria,siamo approdati nella bella
Bordighera, che ci ha accolti amorevolmente nel suo seno. Dieci anni più
tardi, nel 1957, dalla bella città di Alessandria, ci siamo trasferiti nel
piccolo borgo marinaro di Andora, dove tra l'altro, é nata la nostra
piccola principessa Tiziana.
Dalla Liguria di Ponente, nel 1963, sempre a causa della nostra lunga
permanenza nell'Arma Benemerita,fummo trasferiti nella stupenda città di
Genova. Percorrendo in lungo e in largo tutte queste località, protetti
dalle scoscese scogliere che s'innalzano sul mare, case di sbiadita
eleganza si stendono lungo la costa, specie a San Remo, Bordighera ed
Alassio, dove gli aristocratici erano soliti trascorrere i loro inverni
alla fine del secolo scorso. Oggi, che gli aristocratici non esistono più,
in questi ultimi decenni,ovunque c'è stata l'invasione turistica di massa,
che hanno invaso ogni angolo del litorale.
Death Valley
Nel contesto di questo nostro itinerario escursionistico , parlando della
Valle della Morte o la Death Valley, che si trova in California, dove
abbiamo visitato nel mese d'agosto del 1996, l'habitat del pupfish, un
pesciolino che vive nella profondità di una caverna, dove l'acqua raggiunge
una temperatura di oltre 35'C. che è ubicata sulle montagne di fronte a
Death Valley, dove sorgevano le miniere di Borace.
Quando siamo uscito dall'albergo Luxor di Las Svegas, il giorno era sorto
da poco, non possiamo dire che fosse fresco come generalmente dovrebbe
essere, ma la temperatura esterna si aggirava sui 38 gradi,mentre il cielo
era limpido nella cerchia delle colline che circondano il grande deserto
dove sorge la città del divertimento: Las Vegas. Subito fuori dell'albergo
vi era Giannine, con il suo nuovo torpedone, perché a quello del giorno
precedente si era rotto l'impianto dell'aria condizionata.
I facchini dell'hotel avevano allineato tutti i bagagli sul marciapiede e
quando tutti i bagagli sono stati caricati sul pullman ci siamo apprestati
ad iniziare la lunga tappa di 601 chilometri che ci ha portati a Mammoth
Lakes, attraverso la Death Valley (California), percorrendo un totale di
circa 13 ore comprese le soste. Il sole aveva già preso forza e si stava
innalzando oltre le creste che cingono l'orizzonte di questo deserto
bruciato dal sole. Dopo alcune ore di viaggio, appare un villaggio
raggruppato in maniera pittoresca ai piedi di una collina brulla e colorata
di rosso-rosa al centro della vallata, formata da colline mammellonati
sovrapposti di granito e sabbia rosa. Giacomo, la nostra guida, lo
riconosce subito: è il villaggio di Calveda, sorto da pochi anni in centro
della vallata desertica. Fuori del villaggio notiamo una modesta
vegetazione, sembra una piccola oasi, grazie ad un pozzo artesiano che
solleva l'acqua sotterranea che permette la vegetazione e la vita di quel
luogo arido. Per novanta chilometri non incontreremo più nessun altro
villaggio.
L'ambiente è selvaggio; ovunque rocce rossigne, tra cui spicca il verde
scuro di qualche (Argania sideroxylon) genere di piante spinose dell'Africa
settentrionale un'unica specie, a portamento arboreo o arbustaceo, più in
alto, solo rocce e colline bruciate dal sole. Per raggiungere la Death
Valley, la prima località storica e di qualche rilievo sul nostro percorso,
dobbiamo girare attorno ad un gruppo di colline le cui creste scoscese si
alzano al nostro fianco. Dal colle sbuchiamo sui pendii della depressione,
aperti e molto soleggiati e scendiamo fino ad una biforcazione; una strada
prosegue verso il grande deserto, mentre l'altra ci porta al villaggio
della Valley. La Death Valley è piena di luce, con colline colorate come
gelati, è adorata dagli appassionati di cinema per Zabriskie Point, la zona
dove Michelangelo Antonioni girò il film nel 1969. In questo deserto si
lasciano le luci e i confort di Las Vegas, per entrare in contatto diretto
con il volto più aspro e impervio, ma anche più stupefacente della natura.
Attraversare i roventi deserti del Great Basin in Nevada e della Death
Valley in California, è una esperienza intensa, che richiede alcune
precauzioni specialmente in questo mese di agosto.
Durante il viaggio abbiamo visto delle indimenticabili immagini di aridi
deserti e scene montuose, bizzarre formazioni geologiche, piante del
deserto sorprendentemente robuste e resistenti, animali che si sono
adattati al difficile ambiente, e qua e là, piccoli centri, luoghi di
villeggiatura, cittadine fantasma e rovine. Il nome Death Valley, valle
della morte, non si addice alla flora e alla fauna locale. Molte piante e
animali, infatti, sono riuscite ad adattarsi alle difficili condizioni
ambientali. Gli animali tendono ad uscire di notte o comunque a camuffarsi
per evitare di essere scoperti. E' raro riuscire a scorgere durante il
giorno antilopi, ratti canguro, volpi, linci rosse e lucertole; è più
facile vederli all'alba ed al tramonto.
La Valle della Morte, è un nome pieno di presentimenti. Ma qui in questa
valle, gran parte della quale è sotto il livello del mare, o nelle montagne
che la circondano si possono vedere spettacolari campi di fiori nativi nel
periodo primaverile, picchi coperti di neve nel periodo invernale, belle
dune di sabbia, miniere abbandonate e strutture industriali; ed è il posto
più caldo del Nord America. La Death Valley è un immenso museo geologico.
Un'enorme periodo di tempo geologico è visibile nelle rocce esposte. Ma gli
strati sono così distorti, spezzati e confusi che è difficile leggere la
storia. In questo periodo di tempo quasi tanto lungo quanto la stessa
terra, i materiali rocciosi sono stati deposti dal vento, dall'acqua e dai
vulcani. I terremoti ed i corrugamenti della crosta terrestre hanno formato
la Valle, quale attualmente noi possiamo osservare e vedere dal finestrino
del nostro torpedone, perché camminare nella valle per un periodo
prolungato è impossibile, data la elevata temperatura che oggi si aggira
sui 54 gradi. Nella sua forma attuale, la Death Valley è relativamente
"giovane", come ci spiega la geologia che studia questa località, ha da 3 a
5 milioni di anni e si evolve continuamente. In questa giornata caldissima
il sole brilla sul fondo della Valle silenziosamente. L'aria è così tersa
che le distanze sembrano più brevi e a parte un filo di nubi, il cielo è
profondamente blu. La Death Valley è solitamente il luogo più caldo e più
secco, dell'America del nord. Ovest. Come leggiamo su di un depliant, la
Death Valley ha raggiunto una temperatura nel 1913 di 59° C e le
precipitazioni medie annue sono di 5 cm. Malgrado il rigore e l'asprezza
dell'ambiente, nel parco allignano più di 900 specie di piante, quelle che
vivono nel fondo della Valle si sono adattate in vari modi alle condizioni
ambientali aride. Sembra che alcune specie abbiano radici che penetrano nel
sottosuolo per oltre 15 metri. Abbiamo appreso che altre piante hanno un
sistema di radici che si estendono appena sotto la superficie in tutte le
direzioni. Altre hanno una cute che consente un'evaporazione molto
limitata. Le diverse specie di animali e piante selvatiche si sono adattate
a quest'ambiente. Come abbiamo detto in precedenza, gli animali che abitano
nel deserto sono prevalentemente notturni. Taluni possono ottenere dal loro
cibo tutta l'acqua di cui necessitano. Gli animali più grandi dimorano
nelle zone più elevate, dove il clima è più fresco e dove c'è più umidità.
Sui picchi elevati vi sono boschi di ginepro, mogano, pinon e di altre
varietà di pino. I picchi che circondano la valle sono frequentemente
coperti di neve. In primavera, come ci riferiscono gli abitanti locali, i
fiori nativi trasformano il deserto in un immenso giardino. Questo è un
mondo particolare, un mondo fatto di contrasti e meraviglie. A dispetto del
suo nome.
Ci siamo fermati al Centro Visitatori Fornace Creek. Una strada di 38
chilometri che attraversa la regione pittoresca della Fornace Creek, per
terminare al Dante's View (veduta di Dante). Da Dante's View si gode una
vista panoramica di meravigliosa bellezza del punto più basso dell'emisfero
Occidentale. Fra gli altri punti che hanno interessato maggiormente la
nostra curiosità, vi è la famosa "Zabriskie Point", dal quale si gode una
magnifica vista. Una strada anulare assai interessante percorre il Twenty
Mule Team Canyon (il canyon dei Venti Muli). Nella parte settentrionale del
parco si trova Ubehebe Crater, nonché Scotty's Castle. Ubehebe Cratere ha
un diametro di 722 metri è stato creato 1000 anni fa da una tremenda
eruzione vulcanica. Il "castello" (Scotty's Castle) è stato progettato come
una residenza di vacanza per un ricco americano.
Abbiamo notato una cosa curiosa; le guide sono vestite nello stile degli
anni '30 (che accompagnano nella visita al castello). Nella parte Ovest del
parco, dal Father Crowley Point si ammirano panorami meravigliosi. Poco più
oltre, una strada di 13 chilometri conduce a Lee Flat, dove crescono molti
alberi Joshua. Dopo un pasto molto veloce al Furnace Creek Ranch, dove ci
siamo riforniti di acqua fresca, molto utile ed indispensabile per la
sopravvivenza, il nostro torpedone condotto dalla brava Giannine, si è
diretto verso il Sud del Parco, dove la strada segue la sponda del lago
salato. La strada scende sotto il livello del mare appena dopo Ashford Mill
e non risale fino a Furnace Crek. Al punto più basso (a Badwater - il
bacino delle male acque) la strada è a 86 metri sotto il livello del mare.
In questa località c'è una tabella metallica murata nella roccia calcarea,
che ci indica tale variazione. A nord di Badwater, una breve strada
sterrata conduce al Devil's Golf Caurs (il campo del golfo del diavolo) che
percorre un terreno selvaggio colorato di blocchi dentellati di sale. Poco
oltre é Artist's Drive (il camino degli artisti) oppure la tavolozza dei
pittori, che percorre una zona di formazioni rocciose coloratissime, da cui
deriva il nome di tavolozza.
Diego Martinez, è un anziano messicano che da 30 anni fa il custode del
boschetto di datteri e dell'ex museum, una struttura in legno ad un piano
che sorge in fregio alla strada dove si era fermato il nostro torpedone,
che ospita vecchie diligenze segnate dal tempo e apparecchiature per
l'estrazione dei minerali di "borace" ed altri minerali locali e che
ricostruisce la storia dei giorni della scoperta del borato di sodio
cristallino che veniva estratto nelle miniere di Death Valley. Il vecchio
messicano ci ha raccontato una storia molto bella, la storia del pesciolino
pupfish: "Nei nostri spostamenti per le varie miniere della Death Valley
siamo riusciti a vedere il pupfish, un pesciolino che è un vero e proprio
relitto del Pleistocene, oggi minacciato di estinzione. Per vederlo abbiamo
raggiunto la località di Devil's Hole, percorrendo in auto le strade
polverose che conducono a Death Meadows e da qui, in compagnia dell'amico
Luis, che svolgeva l'attività di ranger, abbiamo proseguito a piedi per una
collina costellata di massi. Arrivati a Devil's Hole, siamo scesi per una
scale di legno e ci siamo arrampicati su blocchi di pietra calcarea, per
poi infilarci in una grotta profonda, in fondo alla quale si trova una
grande pozza d'acqua color verde cupo. Vicino al masso di roccia che si
eleva dalla polla d'acqua, scorgiamo, lungo non più di tre centimetri, un
pupfish, intento a cibarsi di alghe e piccoli insetti. Il pupfish vive
nell'acqua a temperatura costante di 33 gradi, mentre il livello della
pozza varia secondo le precipitazioni. Le acque scure della polla non sono
mai state completamente esplorate, anche se molti sommozzatori vi si sono
avventurati. "Nel 1964", racconta Martinez, "tre sommozzatori si sono
tuffati qui sotto, con l'intenzione di scoprire tutte le profondità di
questo laghetto sotterraneo: uno solo di loro è risalito". L'area in cui
sorge Devil's Hole è stata incorporata nel Parco Nazionale della Death
Valley nel 1952, quando l'Ente per la Conservazione dell'Ambiente decise di
acquistare con fondi statali le tenute e le aziende agricole confinanti, i
cui pozzi stavano distruggendo l'habitat del pupfish e lo minacciavano di
estinzione. Oggi, apprendiamo dal ranger Wayne Westphal, anch'egli veterano
del parco, che il numero dei pupfish oscilla, raggiungendo la punta massima
di 600 esemplari in estate. Sarebbe meraviglioso poter guardare questi
resti minuscoli di un'epoca lontanissima, senza dubbio, si proverebbe
insieme soddisfazione e apprensione, ma per noi è impossibile realizzare
questo sogno.
Qui, nel mezzo di quest'inferno riarso che è la Death Valley, in un
ambiente totalmente ostile alla vita, una specie animale non più grande di
una piuma è riuscita a resistere per migliaia di anni, finché la sua
sopravvivenza non è stata minacciata dagli insediamenti umani."Che l'uomo
possa essere più pericoloso della Valle della Morte fa davvero pensare",
così scriveva Robert Laxalt, giornalista e autore di romanzi, collaboratore
spesso alle pubblicazioni della "National Geographic Society".
Dopo la grande depressione con il lago salato piena di luce e con le
colline colorate come gelati, adorata non solo dagli appassionati di cinema
per Zabriskie Point, la zona dove i cineasti come Michelangelo Antonioni
girano i loro film, si segue la Valle della Morte diretti verso Mammoth
Mountain. La strada gira attorno al villaggio di Fornace Creek per poi
puntare verso Olancha, dove l'arrivo è previsto verso le ore 17 circa.
Fuori della Death Valley, incomincia una serie di serpeggiamenti in uno
sconfinato paesaggio di colline maculate come pelle di leopardo dalla rada
vegetazione. Spesso alla sommità dei sassi rosso-rosa, ritta sul bordo
della strada come paracarri, si scorge una lucertola dall'aspetto di
piccolo drago, dalla testa viola o gialla o azzurra e il corpo di colore
diverso, che scompare velocissima quando giungiamo a pochi metri. Questo è
il primo segno di vita animale che incontriamo dopo la Death Valley. Prima
di giungere al termine della vallata pietrosa e selvaggia si scorge una
piccola forra ombreggiata da un ciuffo di piccoli pini, poi buchiamo in un
circo chiuso tra gli speroni violacei della montagna, dove sorge tra queste
piccole piante simili ai nostri mughi un minuscolo villaggio di indiani.
Alcune casette sono costruite sullo stile dei vecchi "Hogan" abbandonati,
mentre le altre casette rispecchiano l'architettura degli Anazasi del Nuovo
Messico, ma dipinte in un rosa tenero o bianche e portano nel paesaggio una
nota di colore leggero e impertinente. Seguiamo la strada carrozzabile che
attraversa una zona collinare di origine vulcanica. Di fronte a noi si
estende una grande vallata pianeggiante, che ci accingiamo ad attraversare
diagonalmente nella sua interezza e supponiamo che si tratta di un altro
lago salato, ma è stata una illusione ottica che ci ha indotti a credere
tutto questo. In realtà è una grandissima vallata ed in fondo, dove
credevamo vi fosse un lago, altro non vi era che il letto di un fiume secco
illuminato dal sole. Il torpedone si è fermato sul lato destro della
strada, proprio al centro della grande radura, non conoscevamo il motivo,
fuori la temperatura si aggira sui 38 gradi, ma subito dopo è ripartito. Si
vede che non era un problema grave. Nulla di nuovo si manifesta per
chilometri e chilometri; si continua a seguire la grande vallata arida e
stepposa, serpeggiando a mezza costa nella collina di fronte la strada sale
sul costone, il che permette di sorvolare con lo sguardo sopra una vasta
regione desolata: Adriana mia moglie, che è seduta al mio fianco,
incomincia a trovare monotona questa parte del percorso; io non mi lamento
invece di questa uniformità, che permette di accumulare una quantità di
terreni selvaggi sufficienti a creare di per sé una sensazione. Mi piace
arrivare a Mammuth Mountain quando questa segna una sosta tra due
solitudini e detesto le catene di paesi che si toccano lungo le strade.
La camionale s'inerpica su per una montagna e si fa sempre più tortuosa. Il
cielo continua ad essere coperto da nuvole cirriformi, ma verso l'orizzonte
possiamo ammirare un cielo azzurrissimo, un azzurro meraviglioso, un cielo
da sogno, uno di quei cieli che ha dipinto più volte il grande Tiziano nei
suoi quadri universali. Il paesaggio è cambiato radicalmente, come pure la
temperatura si è notevolmente rinfrescata. Di fronte a noi possiamo
ammirare delle montagne bellissime, le cui cime si elevano oltre le tremila
metri di altezza, oltre le quali si trovano le montagne della Sierra
Nevada. Le pareti erano a picco sul piccolo canyon ed erano tagliate da una
cengia lunga un centinaio di metri, piana, come incisa nella pietra. Vedevo
un terrazzino e più oltre il sentiero entrava in un paesaggio fantastico,
lunare, di rocce vulcaniche, cucuzzoli, buchi, cunicoli tutti rossastri
fino ad un bastione di pietra scura come il carbone lungo un miglio in un
crinale erboso, che indicava l'esistenza dall'altra parte di un altopiano,
di un pascolo con dei bovini e disegnava uno strano profilo, un mento, un
naso aquilino, una fronte, e più indietro uno sperone che ricordava l'ala
di un cappello a larghe falde. E' il profilo sdraiato di George Washington.
L'aria fina apriva la testa, dopo il clima torrido del deserto dell'Utah e
dell'Arizona, nonché la Valle della Morte, che sono un piccolo mondo di
sabbia e di rocce infuocate, dove sono stati cancellati gli alberi e
l'erba. Abbiamo tentato di raccontare la geografia di questi luoghi,
l'infinita meraviglia prodotta dalla natura in milioni di anni è abbiamo
provato un senso di stupore nell'osservare questi paesaggi brulli e
selvaggi. Il deserto è come un uragano, dove il vento solleva nubi di
sabbia. Esso è come l'immenso Oceano liquido, che scorreva sotto di noi
velocemente, ma sembrava non avesse mai fine. La vallata che stiamo
percorrendo è verdeggiante, tanto che potremmo definirla un'oasi di pace e
di serenità. Piccole cittadine linde e graziose si susseguono immerse nel
verde della grande abetaia. Poco più oltre lasciamo questa meravigliosa
valle verdeggiante della California e la strada tortuosa incomincia a
salire verso la montagna, poi iniziano una serie di serpeggiamenti in uno
sconfinato paesaggio di colline boscose. Il paesaggio è simile al nostro e
anche le montagne, che pure superano i 3000 metri, non sembrano così
elevate perché le loro radici affondano nello smeraldo dei pascoli e nel
cupo degli alberi. Ci sembra di percorrere la Val di Fassa, dove vi sono
estesi pascoli terrazzati, vasti prati e un patrimonio forestale
d'eccezione a costituire gli elementi fondamentali del paesaggio, dominato
delle più solitarie catene della Sierra Nevada. Alle ore 21 circa, siamo
giunti nel villaggio di Mammoth Mountain: il nucleo abitato è costituito da
villette linde, dipinte a colori vivaci e luminosi, delineate da strutture
in legno, con vasti tetti spioventi, raccolte intorno alla piazzetta con il
monumento al Mammoth, gli impianti di risalita per lo sci e i grandi
alberghi. Ci sembra un angolo della meravigliosa Val Pusteria, ma siamo a
migliaia di chilometri di distanza, siamo in terra californiana. Quando
siamo giunti all'albergo Mammoth Mountain il sole stava tramontando dietro
la sagoma dentata della montagna; le sale dell'albergo erano animate per
l'arrivo di un'altra comitiva di turisti italiani sbarcati da un altro
pullman. A tavola siamo stati interpellati da una signora veronese che ci
crede del gruppo. Quando sente che siamo del gruppo "CAI" di Mantova ci
esprime la sua sincera invidia . Il loro, dice, non è che un macinare
chilometri sballottati da un posto all'altro, senza mai prendere. La
signora Valeria non lo sa, ma anche nel nostro gruppo ci sono delle
preferenze, dei circoli chiusi, delle antipatie che si creano all'interno
del gruppo. Esistono i soliti clan, ma noi siamo superiori a queste cose e
sorvoliamo, ma quello che ci ha lasciati stipiti, non è stata la
conversazione della signora Valeria, ma l'habitat del pupfish, che più
grande di una piuma è riuscito a resistere per migliaia di anni, finché la
sua sopravvivenza non é stata minacciata dagli insediamenti umani.
Sebastiano Vassalli, facendo un tuffo nell'abisso, così faceva a scrive
questa bellissima e significativa lirica sulla vita:
Riflettere sulla vita è come affacciarsi sul Challenger Deep./
Laggiù, in condizioni inimmaginabili, esistono organismi capaci di
muoversi, di/ alimentarsi, di riprodursi. Esiste la vita./
Cos'è la vita? Ecco una domanda apparentemente semplice per cui, in
pratica, non esiste risposta: noi viviamo, ma non sappiamo cos'è la vita./
La nostra capacità di riflettere su noi stessi ci porta di fronte a un
bivio e lì ci abbandona/
Da un punto di vista biologico, infatti, la vita è riconducibile a una
serie di fenomeni meccanici, chimici, termici, elettrici, eccetera, ognuno
dei quali può essere studiato separatamente dagli altri e che sommati tra
di loro dovrebbero restituirci l'insieme: ma così non é./
C'è qualcos'altro, nella vita, a cui si possono dare molti nomi e che però
non si sa bene cosa sia. E' un principio vitale, è una forza cosmica. E'
l'anima. Qui si ferma la scienza e incomincia l'etica: ma dove finiscono,
esattamente, i fenomeni meccanici e dove incomincia l'anima?/ Gli esseri
unicellulari del Challenger Deep ci aiutano a riflettere anche su questo/
Sulla forza della vita e sulla sua fragilità. Sulle cose semplici che non
sono semplici. Su noi stessi ( perché poi tutto, alla fine, ci riporta lì).
Concludiamo con questi pochi versi sulla vita:
Che cos'è la vita?
La vita è come la penna
D'uccello ferito,
Di valle in valle portata
Dal vento che tutto trascina.
È come una nube piccina,
Che si disperde nell'azzurro cielo,
La vita è veramente un mistero.
L'habitat del Pupfish
Stiamo vivendo una nuova geologia che si chiama Antropocene e al contrario
delle precedenti, come Pleistocene e Olocene, che vede protagonista l'uomo.
Lo sostiene il Nobel per la prima volta Paukl J. Crutzen nel suo libro
puntando il dito d'accusa contro gli esseri intelligenti che abitano la
Terra, Crutzen ha numerose frecce nel suo arco per avvalorare una tese
facilmente verificabile da tutti: egli è uno degli scopritore del buco
dell'ozono sopra l'Antartide. L'uomo - dice - sta cambiando il volto del
pianeta tagliando foreste, inquinando acque e alterando l'atmosfera. E
spiega i fenomeni che abbiamo generato e che ci aggrediscono. Ma dopo le
accuse offre una speranza, confidando, nonostante tutto, ancora
nell'intelligenza umana e dimenticando come la salute del nostro ambiente
può essere recuperato. Possiamo credergli. Come un sottinteso ovvio ma
importante; e cioè che si voglia costruire un futuro. Poi bisogna entrare
in azione, cambiando atteggiamento. E qui nascono le difficoltà, nonostante
i buoni suggerimenti. ( G. Cap.).
Il giornalista Danilo Mainardi, così scrive in un suo articolo sulla pagina
di Scienza, sul "Corriere della sera": "C'è ancora tanto mondo da conoscere
e tanta vita. Le maggiori sorprese, comunque, dobbiamo attenderle
dall'esplorazione delle profondità oceaniche. Esattamente dieci anni fa il
batiscafo Kaiko della Japon Agency for Marine - Eart Science and Technology
di Yokosuka, Giappone, raggiunge il fondo del Challenger Deep, la parte più
profonda della Fossa delle Marianne, e vi trovò la vita.
Fate conto un Everest rovesciato: 11.000 metri sotto il livello del mare,
con una pressione più di mille volte superiore a quella cui siamo
sottoposti noi, esseri di superficie. Laggiù il batiscafo raccolse dei
campioni di fango e in esso vennero rinvenuti numerosi batteri e 432
foraminiferi vivi. A 10 anni di distanza, l'oceanologo Tobo Y. Kitanzatio e
i suoi collaboratori ne rendono conto con una pubblicazione su Science.
E non deve meravigliare un così lungo periodo di studi, perché tanti erano
i quesiti a cui tentare di rispondere, a cominciare dalla posizione
sistematica di quegli esseri solo apparentemente semplici per giungere fino
alla comprensione di come abbiano potuto fabbricarsi adattamenti utili per
sopravvivere in condizioni tanto estreme. Apparentemente semplici, ho
scritto, perché i foraminiferi sono essere uno cellulare.
Quell'unica cellula è, però, assai complessa. Non sarebbe, altrimenti,
capace di svolgere tutte le funzioni vitali. Tanto per spiegare: movimento,
sensibilità, predazione, digestione, riproduzione spesso sessuata. Certi
protozoi manifestano persino capacità di apprendimento. E c'è di più: la
stragrande maggioranza dei foraminiferi é prevista di uno scheletro
calcareo composto di camere e spicole. E' proprio questo che produce quella
"sabbia a foraminiferi" così studiata da chi cerca il petrolio. Ma veniamo
ora a quelli del Challenger Deep. Sono della famiglia degli Allogromidi e,
contrariamente alla maggior parte (1,85%), sono tutti privi dello scheletro
calcareo. Sono così per l'impossibilità di costruirlo o quest'assenza è un
adattamento per una vita così estrema? Quanto alla posizione filogenetica,
questi foraminiferi " nudi" sarebbero derivati dalle forme più antiche e
primitive, di cui rappresenterebbero una variante moderna ed estrema. Il
punto di maggiore interesse generale è comunque l'esistenza stessa di
queste specie dette estremofile. Non esistono, infatti, zone totalmente
inabitabili. Citerò alcuni casi. La salamandra siberiana sopporta
temperature fino a - 35'C. Sa congelarsi completamente e, quando la tundra
si gela, riacquisire la sua vita vera, ricca d'attività. Il segreto sta nel
fatto che i suoi cristalli di ghiaccio hanno dimensioni minime, così da non
perforare le membrane cellulari. Ciò viene ottenuto grazie a proteine
particolari che l'anfibio sa sintetizzare. Passando dal freddo al caldo,
una storia affascinante è quella delle " fumarole nere", geyser sottomarini
scoperti al largo dell'Equador alla profondità di 2500 metri. L'acqua viene
emessa a 350'Ce, in contatto con quella oceanea, forma volute nere
contenenti una miscela di composti di zolfo e di altri minerali. Ebbene,
quest'ambiente è riccamente popolato. Vi prosperano meduse, anemoni marini,
anellini, molluschi bivalvi, granchi e pesci.
Questo si può affermare: datele tempo e la vita s'adatterà. C'è a questo
proposito, da fare un'importante osservazione. Sia chimico che fisico,
l'inquinamento mette in crisi la vita. Ciò è talmente ovvio che raramente
ci si sofferma su un concetto che ne consentirebbe una più corretta
lettura. Esiste infatti un fattore quasi sempre ignorato: quello temporale.
A mettere in crisi la vita non è tanto la qualità del cambiamento indotto
quanto la differente velocità tra l'evoluzione culturale umana, che il
cambiamento normalmente induce di colpo, e la lentezza di quella biologica,
che il cambiamento è costretta repentinamente a subire. Senza avere, cioè
la possibilità di esprimere le sue straordinarie capacità di fabbricare
anche i più estremi adattamenti". E', proprio così, non esistono zone del
nostro pianeta totalmente inabitabili, ma vi sono località, come abbiamo
visto sopra, dove la vita continua a fare il suo corso.
Cefalonia
Dopo alcune divagazioni o digressioni rispetto al titolo di questo nostro
contesto letterario, ritorniamo ai ricordi del nostro passato prossimo e
veniamo a raccontare una pagina della storia del nostro Paese.
In quel tempo, avevo solo 17 anni e per questo motivo non sono stato
chiamato alle armi. I miei amici, appena compiuti 20 anni, dopo alcuni mesi
di addestramento, sono stati inviati al fronte. Alcuni sono stati aggregati
all'Armir , sigla dell'ARMATA ITALIANA IN RUSSIA ( corpo di spedizione
italiano in Russia) e operò, al comando del generale Gariboldi, nella zona
del Don. Nel momento del massiccio sviluppo era costituita da dieci
divisioni: " Julia",, "Tridentina", " Cosseria", " Celere","Torino", "Cunnese",
"Ravenna", " Sforzesca", " Pasubio" e "Vicenza", Travolta dall'offensiva
sovietica del dicembre 1942, nella ritirata perdette gran parte dei suoi
uomini. Altri, furono aggregati alla divisione Acqui, che sbarcata in
Albania, partecipò alla campagna di Grecia e successivamente si attestò
nell'isola di Cefalonia, in greco Kefallenia, nel mar Ionio, all'entrata
del golfo di Patrasso. L'isola è formata da tre catene montuose,
intervallate da fertili pianure ( produzione di uva passa, olive e
agrumeti). Insomma, quest'isola greca, ha tutte le caratteristiche
morfologiche del Sud del nostro Paese, ma soprattutto, fin dai lontani
tempi della storia,si parlava il siciliano, il calabrese ed il veneto.
Oltre alle caratteristiche climatiche, l'isola, fin dall'antichità,come ci
racconta la storia, prima con i Romani nel 189, a. C, poi con i Normanni di
Sicilia, che l'infeudarono agli Orsini. Sotto gli Orsini (1194 -1358),
l'isola servì di base alla politica di espansione di questa famiglia sulla
terra ferma e particolarmente in Epiro. Conquistata dagli Angioini di
Napoli e incorporata nel principato di Morea, Cefalonia fu di nuovo
autonoma sotto i conti di Tocco, che ripresero la politica degli Orsini, Ma
l'avanzata dei Turchi indusse i Tocco a porre l'isola sotto il protettorato
di Venezia, che l'annesse nel 1485. Le truppe italiane vi sbarcarono nel
maggio 1941,dove costituirono una testa di ponte, per dominare dalle alture
e dal litorale le coste del mar Ionio.
L'amico carissimo, Domenico Pindilli, appartenente alla prima sezione
carabinieri,che con il suo reparto fu aggregato alla divisione Acqui. Dopo
lo sbarco in Albania, segui le sorti della divisione . Dopo un periodo di
tempo, ottenne una breve licenza, per motivi di salute. Al termine della
convalescenza, non ritornò più a Cefalonia, ma fu inviato al comando Tappa
di Tirana. Dopo l'otto settembre 1943, fece ritorno in Italia, mentre altri
nostri fratelli , compaesani e amici carissimi non fecero più ritorno.
Nel settembre del 1943 la divisione italiana "Acqui", forte di circa 11000
uomini, al comando del generale A. Gandin, rifiutò di lasciarsi disarmare
dai Tedeschi, arrendendosi dopo aspra lotta e strema resistenza (durata dal
15 al 22 settembre) solo in seguito al massiccio intervento dell'aviazione
germanica. Oltre ai numerosi caduti in combattimento, 341 ufficiali e 4.750
soldati superstiti fatti prigionieri furono passati per le armi dai
Tedeschi, contro ogni norma di guerra. ( La maggior parte degli ufficiali
venne fucilata presso capo San Teodoro il 24 settembre). Successivamente
perivano altri 3.000 uomini che stavano per essere trasferiti nei campi di
concentramento , per urto elle navi - trasporto contro mine. In complesso a
Cefalonia la divisione " Acqui" ebbe 9.000 morti fra gli uomini di truppa e
406 ufficiali uccisi, ossia quasi il totale dei suoi effettivi: fra questi
vennero fucilati il generale Gandin e Grezzi, comandante la fanteria
divisionale. Alle bandiere dei tre reggimenti (17', 18', 317') costituenti
la divisione fu assegnata la medaglie d'oro, insieme con tredici medaglie
d'oro individuali.
Quella di Cefalonia, fu una grande tragedia, che la storia militare
ricordi.
Alcuni anni fa, il nostro presidente della Repubblica, Arzelio Ciampi, con
le Associazioni d'Arma,reduci ed ex combattenti, si recò a Cefalonia,sul
luogo dell'eccidio, per commemorare i nostri valorosi caduti, passati
barbaramente per le armi dai Tedeschi
In questa antica terra, secondo la Mitologia greca, ebbe i natali il
leggendario Ulisse, Re di Itaca ed eroe del ciclo troiano,é la terra dove è
nata la scienza, l'arte e la democrazia. Le gesta di questo grande
guerriero e navigatore del Mediterraneo, ci sono state tramandate da Omero,
il primo e il più grande dei poeti epici dell'antica Grecia. Tutto è
incerto su di lui: l'origine del nome, la patria, il tempo e l'autenticità
delle opere. Per alcuni il suo nome, di etimologia non greca,
significherebbero " ostaggio", per altri "cieco" e per altri ancora "
raccoglitore", ovviamente di canti.
L'Odissea, il secondo dei due grandi poemi epici attribuiti ad Omero, che
per noi, con le innegabili pecche, lo splendido poema del mare, che assomma
realtà e fantasia nella rappresentazione di un mondo naturale pieno di
misteriosi incanti in cui gli uomini hanno come faticosa legge di vita
l'ordinamento e il pericolo.
In questa terra epica ebbero inizio le avventure di Ulisse,che partendo da
Itaca per la distruzione di Troia, al successivo ritorno alla sua patria
natia , dove si concludeva l'ultimo atto della sua grande avventura, con
l'uccisione dei Proci, e ristabilendo la pace e la concordia familiare. Con
il monito di Zeus e l'intervento di Atena, pace e concordia si stabiliscono
in Itaca. Non fu così per il contingente della divisione "Acqui", che
furono barbaramente trucidati dal vile e carnefice tedesco. I nostri eroi,
perché di eroi si tratta, in quei luoghi pieni di misteriosi incanti, hanno
avuto come faticosa legge di vita l'ordinamento e il pericolo. E' mancato
il monito di Zeus e l'intervento di Atena, per stabilire pace e concordia,
quello che fino all'ultimo respiro hanno invocato i nostri militari. Sono
morti da eroi, con il sorriso sulle labbra, urlando ad alta voce ,prima di
morire il nome dell'Italia
Per non dimenticare, la Raiuno, ha prodotto e mandato in onda in questi
giorni la fiction,"Cefalonia", interpretata dall'attore romano Luca
Zingaretti nel ruolo del sergente Saverio Blasco, sergente dell'esercito
italiano. La fiction, interpretato magistralmente da un cast
d'eccezione,che ha fatto rivivere la storia di quel caotico e triste
momento dei nostri soldati di stanza a Cefalonia, che ha commosso l'intero
Paese.
L'arte del regista e dello sceneggiatore, è stata grande per l'abilità
narrativa che introduce subito nel vivo dell'azione, per spiegarne poi gli
antifatti e giungere alla conclusione con una dosata sequenza di vividi
episodi portati a termine dai militari che si sono dati alla macchia e in
collaborazione dei partigiani della resistenza greca, hanno inflitto
gravissime perdite al nemico
Gli uomini della divisione " Acqui",con il loro sacrificio e il loro
coraggio,hanno dato esempio, di grande virtù militare.
Lassù su quelle brulle e rocciose montagne, dove soffia il vento tiepido
del Mediterraneo, gli artiglieri e i fanti della divisione Acqui,
sopravvissuti all'immane eccidio, coadiuvati dagli uomini della resistenza
greca, stettero saldi come rupi quando, in quell'ora terribile, la Patria
poteva essere completamente travolta e di la si lanciarono,con ardimento e
coraggio nella battaglia finale
Chi tornò dopo la liberazione nei quieti borghi dell'isola di Cefalonia,
ripensa a quegli anni con fiero orgoglio, forse nostalgico, come erano
nostalgiche le canzoni di guerra
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