- canzone per un apprendista poeta -
Non chiedere al poeta.
Egli non saprà rispondere che dei propri versi.
Non chiedere alla luna, che ne sa una luna
delle stelle?
Chiedi a un prete o alla scopa, chiedi
ai sassi o alle sedie. Chiedi alle bottiglie
frantumate
come inutili clessidre,
chiedi pure
ai fuochi danzanti della catarsi,
alle formiche essenziali,
alle campane celesti
dei sognatori.
Non otterrai risposte, no.
Forse
avrai altre cento
domande.
E' dura ma
è questa la strada
che conduce ai getsemani
della poesia.
Il tuo sguardo di ragazzo era uno specchio azzurro
lucente,
in esso non mi persi mai un istante né
vidi riflesso alcunché mi riguardasse.
Quello sguardo di disincanto era una tacita parola che
mi invitava a penetrarne l'assenza, lì dove d'improvviso
mi fermai temendo che guardando troppo mi sarei accecato.
- disincanto -
Quando sei partito
ho seminato lenticchie nel mio giardino
a Surat.
Per cent'anni da allora
ho mangiato lenticchie ogni giorno.
Quando sei partito
hai lasciato sulla bocca il bacio immacolato
di un fiore di loto.
Parve al mio cuore una promessa
mentre era un sogno di amore perduto.
Apri in metà asimmetriche
il mio canto
come un piccolo limone.
Spezza i miei versi, i miei deliri
come uno spago d'erba
o un ramo.
Passerà per le tue mani, allora,
come filatura di bianco smerlo
un sussurro denso,
intollerabile della parola amore.
- ballata popolare -
Si udì in tutti i cortili
come un suono d'osso che si spezza,
da dove non so,
ma passò
nelle gole e nelle mani
come quella volta
un fremito d'amore
per le gambe di Annalena
bagnata di luna.
Fu interrogato ad ogni porta
e ad ogni porta rispose,
chi fosse non so,
ma la sua voce era un canto assente
come venisse
di là dai monti, dove si dice
dimori il vento
con sette fratelli.
C'è chi lo vide passare
tirando a fatica
l'ombra inquieta
alla danza delle lanterne
e a tutti parve
sapere chi fosse.
Il fabbricante di orologi
lo disse
spettro del tempo,
la moglie del droghiere
mendicante,
una donna distinse
nel suo cammino
il passo del figlio disperso
come un'eco di tamburi
nel vento;
per alcuni
pazzo, per altri un santo,
un poeta.
Ma egli era e non era
tutto ciò che fu detto
e
passò al mattino come al mattino si smorza
il guaire dei cani
e delle lanterne.
- dannazione -
Donami il delirio del tuo fiume come un lento cantico
perché vorrò cantarti quando un silenzio
avrà steso
sulle mie dispercezioni
un sudario di follia.
Per il tuo sangue di giovane cervo,
per il tuo cuore involto
dentro un fazzoletto d'organza,
affinché possa placarti
con la mia sete
e la mia fame.
- Hotel Akropolis -
I
Matura a breve lume un volto
che in opaco specchio cade e s'infrange.
Voci disfatte in me cantano.
Quale la mia?
Quali i giorni?
II
Dietro il vetro poco dura
il mulinello lieve dei suoni
e questo pigro sole di fine estate
che mi sta tra l'indice e il pollice
come una moneta di rame.
- il suonatore -
Seguono i miei passi lenti sentieri di pioggia
allorché, breve il focolare,
movendo in giro io rinvengo
l'odore del bucato di poco sopito
sotto graticci ignudi.
Per strada poi
tra cento canti di taverna
discernere altri canti in tanta tregua
e il suono di una cagna di lontano o
sopra ogni cosa un silenzio e
zefiri traboccanti alle grondaie
come zufoli obliati.
Saprai, musa, in questa notte
incalzarne il moto?
E urlo e
lamento
per queste mani
farai concerto?
- la stanza degli oracoli -
Passarono quest'ora indolente
poeti e
soldati prima di noi,
risalendo dal suono del mare
al sussurro
degli albereti riarsi.
E
vi furon donne e fanciulli
distratti
o
intenti ad ascoltare
ciò che la pietra ancora riversa
in un mormorare delirante di nidi
come un coro che maturi
un canto oscuro
e questa rosa di silenzio che s'apre
nel diradare lento di nuvole e viandanti.
- il sonno di Endimione -
Quando morirò
non coprite i miei occhi con garze di fiordaliso,
possa io in eterno contemplare
il suo volto d'angelo
e di demonio.
Quando morirò
posate al mio fianco un flauto d'omeri di uccelli,
possa io in eterno
vibrare un canto
per la dolcezza di un suo semplice sogno.
Gettate il mio cuore nel fiume danzante e
cuore di fiume, allora,
possa io danzare e danzare
la danza
del perduto amore!
- lo specchio -
Lo vedo, talvolta di sfuggita,
fumare una sigaretta.
Mi guarda, sorride,
si avvicina circospetto come volesse attraversarmi.
Chi è?
Da quale abisso i suoi occhi giunsero
a riflettere la mia immobilità?
Caddero in me luci, ombre che
sempre riconsegnai
nitide,
esatte
benché rinchiuse
nella loro incerta perfezione.
Conobbi il suono delle cose, sfiorai
labbra di ragazzi,
ospitai voci, silenzi
senza che nulla potesse incrinarmi.
Ma costui mi spaventa. Chi è?
Cos'ha da domandare?
- evanescenze -
Sarà possibile domani trattener tanto rumore?
E l'ombra mia che sfugge
lo spettro del desio,
sarà possibile
sia io domani a fuggir lei?
Quel che di me resta,
timoroso persino d'apparire
a me sembiante,
come lieve arena
un vento ingoia e sperde
per deserti di un cuore che non so
e di cui pure intonai i canti
come a divorarne
le segrete partiture.
- 18 marzo -
Già la strada s'accende
di chiacchiere svelte e,
senza peso, mille e poi mille scintille
salgono.
Respirare, come luce viva, genesi
d'erba nuova
mentre s'addormentano
fantasmi
sui balconi.
Adesso
i guardiani spezzano
il silenzio azzurro della parola,
la sera di marzo brucia
e ne disperde il canto.
Amai
queste mani di terra e desiderio
e le unghie
mangiate dalla noia, la vita,
compagna adultera, e fu rapido
il distacco dalle cose.
Ora che il tormento s'alza in volo
come corvo bianco dalla memoria
e m'avvince la traiettoria
uniforme del suo andare da
un'esistenza all'altra. Dal male
che produco al male da cui cresco.
Ora che l'avvenire
si annuncia ampia voliera
verso la quale correre
per chiudersi fuori dal tempo
e dalla sorte.
Ora
che le mie labbra stringono e
smascherano
la pace fasulla della parola,
più di prima
amo queste mani e la punta dell'unghia
che scortica la pietra nulla del sepolcro.
Passando sopra i campi di miglio
il mio proiettile ti divora il cuore.
Più in alto dei palazzi di creta
volo il mio volo di fuoco.
Sono Jaffar Majid e maledico
queste strade polverose.
Sono Jaffar Majid e maledico
questo piccolo torrente immenso
dove nuotavo con Sadir nei giorni di sole.
Terra, terra impareggiabile!
Ho barattato le mie bestemmie,
le mani, il mio semplice canto.
Terra, terra di fuoco!
Ogni giorno
nella mia città
qualcuno
mi uccide.
Ma leggero, più leggero di un cappello di piume,
Sadir ti dice: - Vieni! Si va
oltre i campi del miglio.
Alla tana della volpe bianca! -
E gli vai dietro, in questa luce che scolora
la stoffa della giacca
e il minareto.
Lasciate che marciscano
i fiori sulle nostre tombe.
Tagliate le nostre lingue
affinché non si possa
più sciogliere
il canto del Corano
con i nostri fratelli.
Fateci fuoco vivo
ché fummo alchimisti,
il dolore, la vita,
nostra alchimia.
Teneteci per svago
ché non sapemmo amare e
facemmo bandiera
della nostra imperfezione.
Non scenderemo in strada
con un girasole all'occhiello
né mai dipingeremo
il nostro volto di nero.
Ma temete, temete
il nostro silenzio!
Esso
è l'autentica rivoluzione.
Non ho da dare alla gente
che questo me stesso inaccessibile.
Puoi chiedermi libertà
da mettere come peso d'argento
sulla bilancia della vita,
puoi chiedermi il disordine dei sensi,
l'amore, la noia, la serenità o l'abbandono,
altro non avrai di me
che l'astro sonico eternamente danzante,
la parola impossibile taciuta o rivelata
nel silenzio della pietra urlante.
Ho abbattuto il mio muro,
sradicato i miei castagni d'uccelli in fiamme
e per anni ed anni
ed anni
ho mangiato disprezzo
al tavolo della fratellanza.
Ma oggi, deserto e dischiuso a me stesso,
respiro l'universo stretto nell'urna d'osso
e come colomba cieca
vado per voli immensi
senza temere
la belva ringhiante che mi incalza.
Ridemmo del tempo
ed ora che
non abbiamo più
tempo
impareremo a ridere
della nostra età.
Oh, sconosciuto
uccello notturno,
da dove
arrivasti
a vibrare
il tuo canto?
Fu in me armonico
dischiudersi guscio
di infinita tristezza.
Canta adesso! Dolcemente canta
il tuo fragile vetro di narcisi ondulanti
ed ascolta
questo passo vuoto,
questo mio canto perduto!
Son forse
un poeta?
Son forse solo
un pettirosso strozzato.
Ma porta, adesso, alle mie mani stanche
il silenzio abbagliante delle case antiche,
questo suono lieve di lenzuola e vento,
un tuo unico,
tremante istante di creatura infinita
alla mia eternità di uomo.
Oh, spirito sovrano delle notti aeree,
insegnami,
insegnami a cantare!
Ho nascosto i talenti sotto l'albicocco più vecchio.
Ora seppellite il mio cuore in cima alla collina
dove venti s'incrociano lieti
e nuvole arancio proiettano la loro ombra serena.
Non date il mio cuore in pasto ai corvi!
Frustate il mio petto con spighe negre d'autunno
e per la gloria dei cieli pregate che non torni
il vuoto di giorni d'insensata rabbia.
Che ogni cosa abbia il suo peso, oggi,
che ogni libra abbia un prezzo,
che ogni prezzo abbia un folle da incantare
e folle di miseria da schiacciare!
Ho nascosto i talenti sotto l'albicocco più vecchio.
Correte adesso a cercarli, adesso che la notte
è fresca e silenziosa,
adesso che i corvi
le hanno cavato gli occhi.
- alleluia -
a
Pasqualina Tommasiello
in memoria del padre
Sentirai il suo respiro,
ti sembrerà partecipe al mutare dei giorni.
Mentre cerchi qualcosa
che mostri in breve riflesso
sguardo di pari amara dolcezza,
la forma della mano nella mano di un altro.
E una canzone che salga, preghiera viva e
disincanto, assieme a mille suoni di uccelli.
Stretti ai loro cuscini
dormono
alla maniera dei gatti.
Stretti alla terra e ai loro fucili,
il silenzio consuma le ultime voci.
Nel vento che scuote la bandiera,
nella luna
che la fa ardere
di luce nuova, dormono.
Yama Sakura, soldato,
come un soffio.
Sul sentiero della montagna
fioriranno i ciliegi.
Da chissà dove adesso risuona
la tua preghiera, Jack, vecchio cane errante.
In questa mezzanotte d'angeli danzanti
è canto, non-canto
che
si disperde.
Chiuso nel blues di Jack,
oh Jack! vecchio,
smisurato
figlio d'un cane,
vivo
il non-sogno
autogeno
di me.
Un'ora
dopo
un'ora
ancora,
la strada,
la casa
addormentata,
respirando
densi narcisi
di cobret, nuvole e
nuvole di colombe alchermes,
lavorando i miei sassi,
i miei corvi
in silenzio,
vagabondando
i sogni immensi,
tutte
le immense non-vite non vissute,
oh, spirito dal canto ardente!
ringhiare blues dolenti
dai colli taglienti di bottiglia,
mentre la pioggia suona e risuona
cento tamburelli di lamiera.
Ancora
sogno.
Eppur sembrava
che la noia avesse
ingoiato tutto:
mutevole
movenza
nel disarmonico
respiro delle forme.
- celebrazione -
Senti,
un'arpa le mani, un fiume
immobile per pochi istanti,
adesso
fiere indomite su te,
fulgore di carni e droghe
e sogni e
memorie indistinte
d'altre primitive brame.
Non so
che strade ti fecero
splendido il cammino né
quale abbandono
traboccò d'abisso le tue labbra.
So di te
l'arena disfatta dei deserti,
la geografia
dei muscoli tesi al delirio,
la rosa dei venti in un sussurro,
la dovizia del cuore che
muove vita nelle vene come
mille impetuosi ruscelli.
Di te che maturi
nel volo di un pensiero
al tardo lume del crepuscolo
acceso
nello sguardo d'animale.
- aforisma n°61 -
La solitudine
è una campana che annuncia
il sacramento di sé stessi.
- il ranocchio innamorato -
Non sorriderai quando vedrai il mio piccolo cuore
desiderare sole contro ninfee dischiuse.
Non sorriderai quando ti dirò che
non cercai in te canto di terra ma meridiani ronzii di pantano.
Non volli senso del tuo respiro immobile,
chiesi a Dio la danza del vento e del giunco infrangibile.
Eppure ti strapperò un cenno divertito
quando mi ascolterai
gracchiare e crepitare parole che sembrano versi d'amore.
- l'ape miracolosa -
Quest'attimo pari a mille attimi dissimili,
delizioso disincanto della mente.
Non come conversazioni dentro la tua finestra
ma come un'ape chiusa in una scatola di fiammiferi
mi ronza nel petto qualcosa
che pare esistenza.
- poesia per A. -
Le tue mani di amante e di mendico
presero la rosa viva del mio mistero.
Mi rendesti in cambio un prodigioso unguento
con cui lavo le mie ferite d'amore
che sono le
ferite di Cristo.
- aforisma n°71 -
Il poeta non ha casa, non altra bandiera
che il canto.
Non ti conosco eppure
porterò sul cuore
l'impronta del tuo divenire
come fosse
una medaglia al valore.
- haiku del cane solitario -
Trecento passi si pioggia sottile.
Un silenzio incantevole sale
assieme al mio latrare esitante.
- ritornello senza canzone -
Posso levare il coltello contro la tua gola,
alzare cento bandiere e
chiedere niente.
Soffiarti nel cuore come
dentro un piccolo flauto,
desiderarti
dentro melanconici infiniti e
chiedere niente
più di questo amore fatto di carne e di canto.
Quanto profondamente stupido
starsene chiusi nell'auto in corsa
a scrivere delle ninfe oscure generate dalla perfetta proiezione di me,
di me
nell'ora smisurata della visione catartica.
Qualcosa là fuori passa
in un'iridescenza falsamente disordinata: alberi
fabbriche puttane e
case cani
cartelli stradali.
Oh, quanto! Quanto profondamente stupido
scrivere
scrivere
scrivere
nel tentativo d'afferrare il mio attimo immortale,
trattenendo solo
un qualcosa di infinitamente piccolo,
perdendo inevitabilmente
buona parte del resto.
La bottiglia se ne sta dimenticata,
audace musa di immobilità.
Distrattamente la scorgo
e la sorprendo, talvolta,
essenziale e tenace nella sua continuità d'esistere.
Ben più degno d'attenzione
il suo vitreo corpo di trasparenza
del mio sconsolato cuor di mendicante!
Ma lei se ne sta, come pensasse a chissà che,
sull'orlo polveroso
di una vecchia finestrella.
Non chiede
d'essere guardata!
Dura
nel suo chiaro ventre
l'indolente ronzio meridiano.
Ferma nella pioggia,
profondamente silenziosa o vibrante
e sfrontata nel vento sferzante,
sii fragile e arrogante
come la bottiglia!
- desiderio -
Il tuo sguardo era un coltello di vergine canto,
il tuo sguardo che non svendi per mille denari.
Il tuo sguardo che nacque tremando, fatto di
cento altri occhi, lo vado a cercare dove nelle
mie parole matura in delirio d'amore.
Nel mio silenzio che ti tesse addosso
un cantico incantevole.
Un silenzio che non svendo per mille denari.
- canzone di Nazrat -
Libertà è parola dura come sasso.
Un sasso che lanciamo nel Giordano
infinito.
Libertà è suono dal cuore in cui posa
il canto dei giorni e delle rivoluzioni.
Libertà è parola difficile
ma va nel sangue d'ogni uomo e
per le mani e le canzoni e si fa musa
e mitraglia e osanna e coltello.
Ma dimmi compagna, quale legaccio
può la breve voce mia spezzare?
Con quale finità oserei spalancare
le galere dell'anima?
Libertà è questo pane di terra e fatica
che sfama i nostri soldati e
li fa cantare
e scuote le trombe e le gavette e
culla nel silenzio innanzi al nuovo giorno
teso nel vento come una bandiera.
Portami in un giorno di sole
dove fiori maturano iperboli di canto.
Portami nelle mani come un arpeggio
strappato alla chitarra dei venti.
Portarmi come una
bestemmia nel mormorio del popolo o
canzone che sciolga
dalla calunnia d'ogni mortale foggia.
E Lascia che raccolga d'ogni strada
i colori più vivi e d'ogni viaggio
l'incessante andare e di cento miglia
e cento l'indugio e la fatica.
E ancora, ancora camminare senza
mete né partenze, giorni infiniti nel
petto e nelle bandiere.
in memoria di Anna Vellone
- Nanninella -
Risplendete stelle innumerevoli!
Salga l'indefinito, breve nostro canto.
E voi, angeli di carne e delirio, voi,
chiamatela per intimo nome, affinché
dolce le sia il sonno laborioso.
Chiamate a gran voce la bambina
dei fiori! Chiamatela
a risplendere fra cento astri frementi!
Potessi la voce mia mutare in vino!
Di parola viva disseterei la gente.
Potessi io cambiar di sguardo e di
blasone, sì che a stento
mi si domandi. Potessero le mani
essermi chitarre, tamburi i piedi,
che si figuri fanfara ogni mio passo.
Ahi, potessi il canto mio mutare!
Senza tempo parrebbe finanche un
volo di farfalla, ahimé, breve in vero
come fiore di melo al primo vento.
Dolce il giorno di indomito disio,
teso ormai a finità ineguali, immemore
m'andrei,
demandando ad astri incerti:- Chi
fui, chi sono, cosa mai, in che tempo -.
Ma lieve il cerchio breve in cui è
schiaffo e bacio misura che
suon di te strinse in sillabe d'amore.
Et sì amara deven novella istanza:- Chi
fui, chi sono, cosa mai, domani -.
- osteria n°9 -
Non è preghiera voce che acuta ascende all'are
segrete del canto.
Non è bestemmia e pur passa ululando, cupida
cagna a una cavezza spezzata.
E' suono di festa e cieco murmure di santaterra
passata di gitto dentro duro schermo di lenti
un meriggio di sole.
E' quel che scorre per fiumi finiti dell'anima
e morde lenzuola dentro suoi sanatori.
E' il fremito cangiante nelle ossa di Vincent
e ciò che rende, in fine, il cuore breve
alla girandola matta dei giorni. Giorni da bere e
maledire e giorni celesti da intonare come salmi
a un pancone sgangherato d'osteria numero 9.
- e tu, poeta -
Torni l'agile cantare. Torni il segreto che
famelici ci tenne in seno a giorni di innumerevole prodigio.
Salga in misure d'orzo la canzone del cuore nero!
Salga in misura di chitarra la canzone imminente!
E tu, poeta, angelo senza sguardo, scagliala lontano!
La parola è dentro il tuo fiero moschetto.
Tu, brigante di fuggevole disarmonia, dalle per cuore
un tamburo, dalle per cuore una campana!
Perdona lo sguardo che fallace tese a visioni d'altro
difforme immenso.
Perdona figurarsi in tua misura. Perdona nostro delirio quando dentro
fuggevoli mani freme il sutra delle ossa esemplari.
Perdona lo sguardo in cui indugia il giorno santo. Perdona nostra forma
in cui il giorno santo geme e s'apre, s'apre senza fine. Perdona le mani,
le mani miserabili, fatte in misure impari di segale e di canto.
Perdona il musico che del suono porta lo stigma incorrotto. Perdona
il viandante che del cammino porta due soldi d'arena e scarpe di cent'anni.
Perdona, Cristo di luce, il cieco amore in cui stretto è il segreto
di sottaciuto desiderio. Perdona, Siddharta di foglie complesse, noi che
sospettammo eterna intensa, mortale meraviglia. Perdona, Padre d'Israele.
Perdona, Nume della mezzaluna ardente. Perdona, tu d'ogni Asia e
di ogni occidente. Perdona e sia fonte d'ogni delizia l'ultimo cuore
d'esilio.
- aforisma n°77 -
Le poesie sono le stigmate del poeta.
- poesia del buonumore -
Scarpe di vento per trenta denari!
Mercante sei di breve prodigio! Guardi, signora:
d'aria son fatte finanche le rose!
Compra i miei occhi in cambio di un giorno!
Un giorno di chi? Di cosa? Che farne degli occhi?
Un giorno mio che sia pure di un altro, un giorno
che passi al breviario del canto.
Occhi di zefiro, occhi da mercante, per leggere
anche il giorno mancante!
- 11 febbraio 2006 -
Alle tue mani appartengo,
rapace amore,
salgo alla luce, disperso,
e bevo
alla coppa delle labbra
una bava dolce di fiume,
mi svago
di un tuo passo
per la strada di febbraio.
Se fossi musico adesso
ti canterei,
oh, con quale ardore
ti canterei!
Fossi diverso, me stesso
sarei, ma son questo,
nient'altro e son nessuno.
Ti son lontano,
da lontano ti domo
di baci e di tormento.
- tu che sai -
E' un dono del cielo questo strumento dell'anima
che accorda in sillabe di canto il prodigio uniforme dei sensi.
E' un dono di Dio questa tavola rotonda
che mette di fianco, l'uno all'altro, passeggeri difformi del
ferry di Brooklyn.
C'è chi il tuo dono lo dice vita, chi, per beffa, lo dichiara
cappello del mago. Vita non è e non è cesto dell'incantatore
né amore di facile chitarra. Tu che sai
bada a non tradirti! Il segreto reso alle banderuole miserabili
toglierà te, cantore, a ogni prestigio e, più importante,
zittirà il tuo canto.
- voli -
Ci son voli
di taciti uccelli,
voli stridenti d'aeroplani
scagliati
in lontananze tenaci.
Ci son voli brevi
di farfalle,
altri
di astronavi perse
in seducenti distanze astrali.
E ci son voli disabitati,
i voli
più ambiti,
quelli sublimi
della poesia.
- musa -
S'apre la sera nel tremore di campana e
nello sguardo ho una lucerna come un fiore interminabile.
- l'altro me stesso -
Il mio sguardo tende oltre il bosco dei sorbi
dove m'aspetti e non sai
che non verrò e resterò a guardarti.
E forse sono io che aspetto te
innanzi al giorno che sopra ogni foglia posa
un canto a due voci.
- grida senza voce -
Se fra cent'anni non avrò detto una parola, potrai
dire la mia voce meno azzurra o fremente?
Fossi anche il più mite falegname della terra,
non sarà il mio ulivo ugualmente esatto e mortale?
- la sera della Volpara -
Da dove non so, oltre i fiori dell'ovest,
giunse in volo a domandare gli occhi alla luna
- dissolveva in quel tempo la strada,
il vigneto il morso ferroso di una bicicletta -
e tu, fanciullo che tenti l'agile burla, non
al corvo sgravi la frombola lieve, intanto
che il fiume s'arrossa e tende alla luna il becco
l'ultima preghiera.
- aforisma n°12 -
Ci sono due modi per mutilare l'anima.
Uno è zittirla, l'altro è tacerla.
- lontano -
Taccia Israfel il liuto illimitato! E tu,
anima itinerante, disfatti! all'ombra dell'ultima rosa.
- a mia madre -
Avresti detto - sarà un poeta - tu
che lo volevi dottore o pianista?
Tu che vent'anni dopo gli guardasti le mani
recriminando che avesse scelto Barabba,
negandoti di colpo il placebo del dubbio.
- medicamento -
Cede un sonno senz'anima la mandorla rosa,
una veglia senza reminiscenza che gli alchimisti
dell'intelletto chiamano prassi - e se la sua
lingua dovesse attorcigliarsi in agili abracadabra
o caso mai vedesse asini volare,
non si allarmi, è il farmaco che agisce
nell'intento di mutare in piombo il suo cuore. 0,5
mg, dose consigliata -
- notte di luna -
Parlami di te, lasciati cantare
mentre arrossano i fiori le finestre
della sera e passi con due lucerne
al posto degli occhi.
Parlami di te o taci il martirio dei baci
nella luna alta di settembre a cui
torna il cuore a maturare un dolore.
- fenomeni da baraccone -
E' sufficiente una vecchia sedia a fare un poeta,
un piccolo uccello intento ai cardi misurati è quanto basta
a fare del poeta agile funambolo.
Ma il verso mendace, il dissesto che lo fa tentennare,
rivela l'infame giocoliere essere il più illustre dei buffoni.
- preghiera -
I
Canta.
In un flauto di venti
foglie di mirto danzano.
Ahi, musa d'assenza!
La mia cetra
non vibra.
Il tamburo
non batte.
II
Canta
con suono che muti
in pietra ogni voce.
Ahi, rosa indolente!
Del mio carme non resta
che un sibilo.
Del cuore
un abisso.
- serenata -
S'aprano i tamburi! ora che il giorno tace
e la luce non è più che il rapido bagliore dei lumini.
- l'operaio edile -
Nel mezzogiorno delle foglie, il viottolo
sventrato dai cat non ha reminiscenza se
non nel mio sguardo.
E l'uomo con la carriola passa
in un lamento metallico oltre i fuochi fatui
dell'estate
mormorando che la vita è una bestemmia,
sin dal primo gemito.
Tu che passi dietro alle lenti scure
ricordi che bel sole il meriggio che m'hai spinto
dal bordo della gora? E tu dallo sguardo
di metallo pensi mai a quando
le mie ossa presero a danzare nella disarmonia
delle chitarre insincere
e la mia coscia stretta al cilicio della demenza
maturava fiori di dimenticanza? Voi che mi
rendeste alla clessidra versa della sorte perché
fossero i vostri giorni la mia condanna. A voi
non altro male oso che il perdono.
- Giovanna -
Quanti mal di testa curati con la croce dei gesti,
quante favole di stella per farti ossa di farina d'orzo
in cui il tempo deponesse il fiore giallo del delirio.
Ma t'affidi a Sant'Antonio e i giorni tuoi e le mani
non son già che i piccoli miracoli del cuore.
- l'incantesimo di Emily -
Un tempo incontrai il corvo, mi fu devoto compagno. In
cambio di sillabe sincere rese pagliuzze d'oro e di canto.
Celebrai la volpe, l'ape intelligente e intesi il fiore, le uve
piene del giorno. Formiche, minime foglie di menta
saziarono il mio infinito, fornai incantatori di Betel, pruni
dolci del sud le mie budella. Ma i versi son prolungata,
indocile malia. Cantassi te, ragazzo, son certo porteresti
alla mia bocca nient'altro che l'aceto crudo del martirio.
- il canto dei giorni -
Chiudi il libro, disse al ragazzo, la poesia
è questo giorno di sole. Domanda forse parole il
castagno che tende rami al meriggio?
- le grida dei fanciulli si fanno
già canto, li aduna una voce, li affretta a partire
a mezzo il girotondo - Guarda, i limoni
son piccole lune mature! Non vedi? Chiede forse
misura il castagno?
In memoria di Roberto Napolitano
- la mano del gigante -
Torna al giorno e lo disfa la mano del gigante.
Torna e pare possa sgretolare il David come
pugno breve di farina. Ma non scampa il cuore
a brama di infami lusinghe e vai dove distante
non so voce in rumorio perduto di cortile.
E l'una all'altra concorde, levare le mani al fine
una preghiera mentre s'apre tremando l'ultima
rosa dello sguardo.
- incontro -
S'alza il canto della sera nelle gole arse da un vino dolce di
basilico.
S'alza il canto e tornano alla terra le ossa brevi di Fernando.
S'alza il canto e pare di Kahin un prodigio che scuota il silenzio
come rossa banderuola.
E tu che m'aspetti oltre il balenio delle lanterne tingi di notte
gli occhi belli e indugia un poco prima di salire la scaletta del
granile.
- 7 marzo 2006 -
Quando mi penetri col metallo delle parole,
quando bevi l'assenzio del mio dolore
tutto si apre e si richiude
in un identico sentire.
Quando la pelle è una tela da imbrattare
la belva ti divora
nel suo segreto.
Quando ti desidero e
ti prendo
improvvisamente e ti strappo a morsi
quella scorza asciutta
ti porto alla bocca e bevo
l'assenzio del tuo dolore.
Quando mi cerchi in un bacio
in un bacio sai distruggerti
e darmi vita.
Quando con le labbra sfiori il palmo
della mia mano ed aspiri in silenzio
questa malinconia balenante
come da una sigaretta un fumo strano,
con la mano
cerco me stesso per stringerti
e stringere questo vuoto immenso
e la tua tristezza.
Ho comprato cento distanze di terra,
tagliato alberi
che prima di me cantarono e vibrarono
di solitudine e silenzio.
Ho camminato, corso, misurato
le mie cento lunghezze di terra
ed ho estratto a mani nude
i sassi assorti e pensosi,
calpestato i prati di vento e di ortica
affinché mai più vi cantassero
vento ed ortica,
ho bruciato intere fattorie,
chiese dove Dio non visse,
orti di miglio sonante,
campi danzanti di segale dorata
e scavato,
infine,
un canale.
Adesso fratelli, dannati angeli sognanti,
poeti e
bluesman
dal canto di metallo,
portiamo acqua,
facciamo il fiume!
- universo -
Dilata l'ora bianca l'infame morso della luna latrante.
C'è una voce chiusa nel fischio della porta, nenia
sospesa al riverbero indocile di campana. Tace l'attimo
un mulinare d'aspri fremiti di foglia mentre oscilla
appena la basculla difforme del pensiero. E
ascolto, mani strette al lino grezzo del silenzio, in posa
immota embrionale: delirio e genesi di ogni parola.
- L'orecchio di Dionisio -
Si racconta che il vecchio tiranno
vi si recasse ad ascoltare
le voci dei prigionieri:
dissonante lamento di giorni
trascinati in eco difforme,
senza alcuna carità di luce.
Oggi è la pietra che ingoia i suoni,
cullando adagio ogni preghiera,
ogni canto.
Risa liete di fanciulli,
rapidi scatti di polaroid,
latrati spersi e
scricchiolii lungo vespri solitari e
versi aguzzi di uccelli e silenzi
come un dedalo immenso.
Circondato da opere d'arte,
opera d'arte
anch'io -
Riempimi di notte senza voce di lucerne.
Una coppa che a lieve tocco di bocca s'indori
di puro mattino. Ma portami alle labbra
prima che mi franga il meriggio in cento vetri
lucenti al breve ronzio di more silvestri e
ancora riempimi di notte e bevimi e riempimi
e, di oscurità ebbri, di nuovo assetarci
fino a domani.
- l'ultimo amore -
La prima volta fu un compagno con schermo accorto di cenni
a cercarmi in baci e delizie, fanciullo io di poche irsute membra
cui Eros docile mosse brillio di lume. La seconda volta fu
ad amarti, in vero, il vino della festa. La terza l'assenzio
dell'abbandono - ricordi la luna sopra il campo, le stelle? -
Ma la quarta, oh miserabile, perché mutarmi in vetro il cuore e
dire magro scorno il nostro amore?
- orientamenti -
Rendersi libero dai tormenti, dal denso impulso della
gioia. Meditare o tendere a stelle nascenti. Farsi
ad alberi, libellule sorretti al meriggio come a un lento
chiodo di rame. Domandare di sé alla voce indocile,
ridesta al cuore tenero di cicale come vuoto sonoro
di vaso spezzato. Ascoltare la fionda acuta dei fischi di
cantiere a radunare ferri del celeste operare
all'avvisaglia aguzza dei vespri. Pregare, trascorso
vento e fremito improvviso, odi? Di già pensano
salire germogli teneri con vocio di festa! Indugia allora
fino al tocco di fonda campana come fontanile sterrato
nelle larghe farine terrestri. Per nove giorni ancora
fino all'ultimo tocco al di là delle nubi a guisa di draghi.
- segreto -
Il suono che s'aguzza alla spira dell'orecchio, il suono
di foglia prosciugata. Ma suono di chi, in vero, di cosa?
- domando - Di che sarà che odo e non odo?
Di te forse che maturi dentro più di quanto sia di me a
maturare fuori - o altra voce avesti o impercettibile -
Di te che d'anima non sei e non sei oggetto, eppure hai
fremito alto di rapace e di oggetto acuta persistenza.
- canzoncina -
Che può una piccola chitarra innanzi a tanto canto?
Il limone apre armonie a tenue chiarore di luna.
Che te ne fai di una foglia nera arrochita dalla luce?
Lume insonne, limone liquido di brevi voci.
Che possono le tue scarpe presso mille voli di uccelli?
Giorno bianco, il limone flesso nell'ombra, dietro
il vetro della cucina un pettirosso saltella. Meriggio
indolente, guizza la notte come trota fulminea. Che
te ne fai di una freccia contro un bufalo di vento?
Il limone tende i rami alla luna e pare una stella un
frutto maturo.
- Nicola -
Un sasso teso a frontiera di liquide estensioni l'infinito.
O divinatrice indolenza di meriggi disfatti in forma
circolare di canto! - a toglierci la fame una farina nera
di stella millenaria - E passa il contadino
con lento spago di mandola tra vitigni color dell'ambra
a rendere in bisbiglio fili di confessioni alla terra.
- guitarra -
Sueños soltados en el olvido,
todavìa buscando palabras de amor.
- il senso di una rosa -
Dove - memoria? - non so se mai fu sogno il martirio
o canto il bacio - dove, altrove, una chitarra -
amnesia che scansa il morso dell'ultima preghiera.
Ahi, quanto duro il miracolo allorché all'anima d'amore
tu metta a rattoppo una galassia di silenzio!
Quanto alto il giorno mentre ogni bagliore è meraviglia
che cela e freme il suono di una rosa, come fosse
ancora l'abisso del tuo sguardo.
Andate, parole mie, andate
tra i suoni di mille martelli sferzanti.
Via! Ci sono venti ancora, distanze.
E tu, piccola poesia, passa oltre
l'arsura delle cicale come un lento
cigolio di carriaggi. Piano stilli
il sidro del tuo canto o come quasi
fossi un mirifico caleidoscopio! Ahi,
musa, a quale bocca il cereale del
canto? A quali occhi un grido acceso,
un verso arrischiato? Si disfa il
giorno nel riccio aguzzo dei castagni
e m'accorgo che forse più non sei
né m'appartieni.
Torna ai miei occhi per un istante
un lume aderto al tuo sguardo come fossi ancora,
ancora niente più che il morso delle labbra alle
mia carne ingorda - il rio una lenta bava di lumaca -
tu piccola musa di silenzio, tu ardente fratello di
Anteros, tu, cantico di immense disarmonie astrali.
E muore il delirio dei giorni e s'arrochisce il cuore
dentro il tuo petto fatto di lune e coltelli.
- la noia (monologo in 8 versi) -
Reso al lino del silenzio ho nello sguardo cento
sguardi di uccelli in voli di lune alla sera.
- tentenno pensieri mentre matura il giorno,
vertebra di canto minerale,
contrappeso al piatto basculante della sorte -
e caccio via con la mano indelicata, mosca
miserabile, ciò che dura disincanto della misura
uniforme di creatura.
Le tue ossa dure come bestemmie,
lance confitte nel muscolo del tempo. Puoi
tacerle, per quanto ancora? Eppure sai
che sotto, più dell'anima e del volo, già
s'indovina il ghigno famelico di un teschio.
Puoi tacerle, certo, o rizzarle come aste
per i nostri labari, quando l'incanto era
un sole bianco tra le mani.
Fa' che mi ravvisi il cuore semmai il corvo
avrà scavato il molle bulbo oculare,
laddove nell'aria arrochita dei ciliegi
continuerò a morire e ti ascolterò cantare
o parrà forse preghiera anche il silenzio.
Sul tuo petto, poeta, si edificano strade.
Ponti di corda tesi nel tuo sguardo dilaniato
da cento coltelli latranti. Dispersi i giorni,
i morsi, ogni parola, chi più sa? Chi più ritiene
il canto altissimo, il distacco?
Misure di sale per le tue braccia di operaio!
Vino cantore di dattero alle gole delle tue
madri innumerevoli! Vino di terra ai fratelli
che prima di te sbranò il nulla accecante del
sogno, mentre fanciullo ascoltavi i lucci alla
sera mormorare parole d'amore al fiume che ti
rese alle mani il novilunio in breve luce,
il fremito mutevole degli occhi, facendo alla
tua anima bandiera ogni distanza.
Saprei forse fare come gli alberi io,
miserevole creatura. Io, aduso a berne
il respiro forte di arpa millenaria.
Cantare magari una canzone, solenne al
pari di una vecchia quercia presso
un desolato mulino di contado - Credo
gli alberi abbiano altre occupazioni;
come i poeti hanno sguardi, udito d'altre
stature. Non si curano del
fuggevole tentarne simigliante armonia
né della mano insinuante dell'uomo.
Se la mia voce è un calice in cui prende
forma la vita, io l'ho bevuta. Nient'altro
mi spetti domani.
Verrà il giorno in cui metteranno fiori
al posto delle nostre bandiere. Verrà il giorno in
cui ogni cantilena infantile l'alchimia del cuore
avrà fatto diafana amnesia. Ma
non dimenticheremo gli sguardi scagliati
come sassi contro le sbarre della nostra galera.
Non dimenticheremo
il profumo della rosa involontaria, il cuore bruno
della terra. Non dimenticheremo
il meriggiare delle chitarre né l'accecante
barbaglio della parola sputata sugli altari.
Quando prenderemo i nostri cappelli e
ce ne andremo dondolando sopra i nostri femori
di legno verso il giglio di un molteplice sogno.
Verrà il giorno e che le nostre labbra più
non sappiano indugiare la preghiera doverosa
che stremi l'iride in un fremito.
Così sia.
- solo un pensiero -
Quanto più di rado m'accade
pensarti al mattino mentre
ho cento lenzuola da riporre - Più spesso
ti penso alla sera, quando son solo uno straniero
e scrivo in esperanto
cento poesie d'amore.
per una poetessa
Se non confidassi in te, Signore, e
nel desiderio che tu sia al di sopra di
ogni poeta, il mio canto sarebbe
una nota immutabile. Ma versatile è
la carne della tua voce che
fa più agile il suono dell'uomo. Ahi,
dolce creatura, quale musa domani
ci tremerà nel seno! Ma un
canto fatto di solo delirio ti inaridisce
presto negli occhi. Se il verso è
un campo da arare, se
ogni sillaba è semenza faticosa, credi,
vedrai spuntare in ogni sguardo
il cereale incantevole della tua parola.
Cresce nel petto come un cancro malinconia di te.
Malinconia infinita
che morde un blues tra i denti
e dalla gola impreca
e nelle mani,
nella pelle
porta il fuoco vivo della memoria.
Malinconia, malinconia
ardente,
malinconia di te e di te
non aver che l'eco sfuggente,
disarmonia di un sentire,
lontananza da portarsi addosso
come una maglia di ferro.
Così
tra le mie cose,
distante
da tutte le cose,
scrivo per te
le mie canzoni.
Puoi sentirla arrivare
in punta di piedi o in corsa. Ciò che
conta è che tu sia pronto a
custodirla. Niente vale la pena
quanto ravvisarla dentro, spontanea
come un urlo o una canzone.
Può ronzarti intorno per ore ed ore,
incantevole sogno cullato adagio.
Ciò che conta è che tu sappia
ridestarla. Talvolta è semplice come
una bestemmia e facile e cruda
menzogna, più di rado è un falco di
altissimo sguardo. Ahi, quanto
di rado un albatro lucente! Catturala
o non potrai più averla.
Ma un giorno, in fine, le lasci aperta
la voliera delle mani.
Nell'ora in cui il giorno s'arrossa
in delirio di vitrei narcisi, sono anima
e muscolo di fiume. Io, miserabile
pescatore, nelle mani catturo refi di
luce dormiente, una voce di albereti
radi, disfatti al mio lento passare.
La lenza è spago di seta. Il luccio un
filo di vento. Sono un pescatore.
Libellule nella rete del mio sguardo
e nuvole e canzoni, cento e mille
chitarre e fischi e scoppi nel fitto del
verde canneto. Di quanto ti feci
offerta, Signore! Di quanto mi dilettai!
Ma oggi, dall'ultima mia riva,
solo chiedo in prestito una barca di
vivo silenzio come un sogno di mari
trasparenti. Oggi che per poco
mi si spezza la maglia del canto. Una
barca domando. Nient'altro.
Come un pettirosso
ho mangiato la vita dalla mano dell'uomo.
Era seme generoso e foglia e fiore aperto.
Come un mendicante l'ho bevuta
in vetri di luce dura. Era la selce disciolta
del canto, il fremito che acceca il volo
superbo degli occhi. Come una chitarra
l'ho vibrata alle orecchie della gente che
intese farne idolo di suono. Ahi, quanto
misera la mano che a un tempo dona e
prende e guasta il pane semplice, il seme!
Ho comprato la vita. Era una bandiera, un
lino asciutto, vela di sogno aperta a tutti i
venti. L'ho rubata in cento baci e cento. E
la vita è il segreto della tua bocca matura
come un'albicocca.
a Rosa Di Cresce
Metti di ritrovare
un giorno la vecchia clessidra. La
lasceresti lì, tra tutte le
cianfrusaglie o invece la faresti
andare? Metti che la polvere
scorra adesso molto piano.
Ti sembrerebbe che il tempo stia
andando avanti
oppure indietro? Solo tu
potresti dirlo e in questo caso lo
avresti fra le mani il tempo
e così via, indietro ai giorni
dell'uovo di Pasqua e poi avanti
fino al giorno in cui
ti sei scoperta donna. Ma ti
sembra giusto dire, tra un giro e
l'altro della clessidra,
ieri ero una bambina, oggi non
lo sono più? E così darai il
vecchio giocattolo ai mocciosi del
vicinato che se ne fregano del
tempo, il tempo e le mille libellule
del pensiero.
a Carlo Tella
Quando sentirai l'urlo del corvo fremere
sopra i campi desolati, saprai nella voce
dell'uomo aver fede ancora? Tu, creatura di
carne e di sogno che corresti
dietro code di nuvole come volpi sfuggenti.
Sai di galassie e foglie di tabacco fumate
in segreto nei granai tesi come campanili
alla finità dei cieli. Oltre il muro il castagno
curva il ramo al vento grande.
Di', quanto vale, di contro, la miseria della
nostra numera fibra? Ossa, metalli e giorni e
canzoni. Ahimè, triste l'uguale affaccendarsi
in forme speculari! Folle, folle, nient'altro e
niente oltre il delirio ci eterni, infine, e
ci dissolva, e questa fune di silenzio alla gola
che brucia l'anima come una lucerna.
Sapessi con due rose e
un filo d'erba farti una canzone
come fa l'ape o la formica,
senza conoscere i tappeti rossi
della galleria dell'Opèra.
Così semplice
e superba la mia voce. Diresti -
che bravo! Quanto
indolente mettere la pancia
alla chitarra, mentre
matura sopra i mandarini il
sole, oltre il greto, in un fremito
di cembalo celeste.
Fosse anche, più in là, l'infinito
silenzio di un cimitero
di campagna, varrebbe, di certo,
la pena affrettarsi.
Se avessi ottant'anni me ne starei
alla maniera del castagno,
dritto contro il muro del monastero,
così, senza aver cura che del
passero che mi fa un nido di canto
nel cuore. Forse una barca sarei,
arenata, dove un ragazzino
tende al cielo una calza per fare ai
pirati o magari il gabbiano
che porta nel becco l'anima grande
del volo. Ma più di ogni altra cosa,
un albero. Fa' che abbia rami,
Signore, e fronde e suoni di uccelli!
Così, un giorno d'inverno, il vento
mi strappi l'ultima foglia, come un
dente cariato.
- bistrot -
Sei seduto
al tavolino di un caffè.
Lo vedi passare
dietro la piccola rosa
di una finestra.
Le tue labbra
tremano, si stringono
sul bordo della tazza.
Le tue labbra
si spezzano come una
brocca di vetro.
Finisci il tuo cappuccino.
Esci. Fuori ti afferra
l'artiglio audace
del vento. Compri le
sigarette. E
mentre torni a casa
pensi che
sia proprio una bella
rogna che a Parigi
ci siano così tanti topi.
Sì, una bella rogna,
davvero.
per un amico
Chiamo il tuo nome, fratello, e
gli uccelli azzurri muoiono nella candela.
Chiamo te, Alessandro, Francesco.
Ti chiamo, Pietro, con le mani
e lo sguardo sepolti nel ventre del vento.
Ahi, quanto canto, poco a poco, maturò
nel mio petto! Disimparai il volto, persi
il tono fiero del tuo silenzio. Ora, lascia
che la vita penetri come un coltello.
Lascia cadere il bacio del tempo sulle
labbra esitanti! Sono nel sogno della tua
finestra. Chiamo il tuo nome e non ho
in cambio che l'eco irriverente di questa
bocca aspra di tabacco, adesso
che il lento apprendistato della follia mi
lascia nelle vertebre l'insostenibile
evanescenza di un rimpianto. Avessi te,
Alfredo, Luca, per salire in sella alla sorte.
O con te, compagno, in questa notte,
mettere ai portoni fazzoletti bianchi come
fossero bandiere su un fronte di guerra.
Chiamo te, straniero, chiamo te e indugia
negli occhi ancora il delirio della candela.
Per tutta la vita ti
porterò nel seno come il
cardellino che
bandisce il
proprio nome il
giorno intero - inutile
nasconderlo sotto il
maglione!
Per tutta la vita, come
fiore di melo
al polso,
ti riporrò alla sera nella
scatola di pelle tra
poche lettere
d'amore. Mentre
il cardellino
si addormenta nel palmo
della mia mano.
Portami la notte negli
orecchini di perla o qui, tra le
mani, affinché possa darle
slancio di colomba. Portami
la notte superba, distesa
come seta sopra i tetti - sia
essa la mia dote o il sogno
che incendia il silenzio del
fico. Quale indolenza
stare alla finestra a disperare
che il mattino non metta ai
gerani cento bottoni rilucenti!
Quanto ordinaria l'ora del
lattaio! Ma porti nel petto il
fremito dell'Orsa Maggiore e
non temi l'ombra che trema
sopra il cuscino.
Può accadere che
tu la veda come un vecchio
vestito da smettere o che tu
non abbia pezze a
sufficienza per ricucirne gli
strappi. Può accadere che il
lino dei lenzuoli sia
troppo rovinato o che siano
irriconoscibili i fiori delle
tende in cucina. E' a questo
punto che metti tutto in
una scatola e scrivi in rosso -
fragile - su di un
lato, come una ferita. Forse
porterai oggi stesso al
sarto la tela per rifoderare il
canapè del tinello. Intanto
sistemi la scatola in soffitta,
tra le altre, di un'altra vita.
Era la luna
alta sulla città
vecchia -
raggiera
tremante sul
cavo
dei noccioli
bianchi - In
qualche modo,
minima e
tonda, parve
una
nespola agli
occhi
rilucenti del
fanciullo.
Ma svetta
il falco
improvviso,
innalza il
becco duro.
Stacca
l'urlo appena
dal muro
di San Tysilio.
Si sperde.
E il fanciullo
non sa
a chi puntare
la fionda.
Così il tuo corpo, a
fiore d'ombra, discioglie
tra le mani, come
un'arma, una camelia.
Com'è triste la luna
d'inverno! Di tanto alta,
mirabile al pari di una
dea, ma triste,
triste infinitamente che
potrei morirne.
Fa' per me, con le dita,
cigni neri sul muro.
In silenzio, come fossi
un artigiano. Che importa
la carrozza! Pagherò
al cocchiere due monete,
ché aspetti. E prima di
andare prenderai
alla maglia di spago il
volo di un sogno, come il
giorno antico delle api.
Così, lasci sul petto un
fiore rosso e non ti
chiedo chi sarai, chi sei.
Intanto che, adagio,
smorzi l'ultimo stoppino.
Qualora di te carne mortale
mi prenda, tu non saprai chi sono.
Qualora di te il gesto antico
di un bracciale inebri
come suono di violino dentro un
vento di cristalli, non avrò
udito né canto, ma un vecchio
cappello lasciato tra i piedi dei
passanti. Mai occhi, mai, o
voce ad altra brama. Avrò
monete per un delirio terso di
asfodeli. Qualora il mio petto di
te ardesse magma indelebile,
senza dire, lascerei che bruci e
bruci infinito. S'avveda quanto
fiera è l'anima di tale dolente
morsa! Ahi, quale dispetto il
cembalo che inanella le tue dita!
…Il passero che si leva
alle tue labbra come un bacio. Di
te carne mortale, di te, mi fa sì
fugace, ahimè, che non vedi il
fermaglio di asfodeli stretto nella
mano di fanciullo.
Non è un dono. E' un sasso da
levigare a mani nude. Non darla per
scontata! Metti di perderla.
Ti sentiresti meno nobile davanti agli
altri uomini? Forse, ma per quanto
dura sia, vai avanti. Tornerà, se credi.
Sarà magari incastellatura di sogni
o la chitarra dimenticata in soffitta.
Sarà il maglio che batte la palla in
un vecchio cortile o magari
il delirio della carne altissimo. Ci
sono tante, tante cose da fare.
Dimentica i voli. Sii fiume! Leviga il
sasso e non avrai sprecato un'ora
della tua vita. Quasi stenti
a riconoscerla, adesso. Tuttavia lasci
che ti passi per le dita
come l'urlo della rosa nella boccia
di vetro. E' a questo punto,
poeta, che davvero la perdi. Ora che,
timoroso di frangerla, la tieni tra le
mani e si fa polvere. Ma la ami, e la
desideri. Così lancerai sul pelo del
fiume un sasso e un altro e un altro
ancora, fino a stancarti gli occhi, come
i giorni di pesca passati ad annusare le
nuvole ferme nell'ansa renosa.
Per Kelvin
Mai nessuno più della tua
cecità disse di quale altezza è il
ventre del martirio, Lucia.
Ma la tua visione è il faro di
Alessandria. Guarda mio
fratello - fa' che abbia occhi
per imparare! Mai nessuno
più del tuo corpo seppe
l'uomo fibra per fibra. Ma
non bastò la brama fiera a
spezzare le rose del tuo seno.
Non ti vinse il fuoco, tu
che ardevi di amore incarnale.
Guarda. Mio fratello
dorme nel fercolo della notte
africana. Ahi, come possibile
privarti, in vero, della vista!
Ma ti presero gli occhi e il tuo
sangue deterse le nebulose
dell'anima. Così, il tuo nome è
carità di luce. Mi cavino gli
occhi, pertanto! Io vedrò il sole
levarsi sopra Asiakwa.
Folle tu che aspetti siano altri
a tagliare l'erba cattiva che molto
cresce nel tuo orto. Fai
come il capraio che non disdegna
il pungolo malgrado sia il
grillo carico difficile. Egli non sa
più del suo piede e va sicuro.
Non lasciare l'acredine dell'ozio
rovinare gli utensili divini!
Ammira l'aratro fiero. Non vedi?
Esso è vivo, nel toccarlo, come
una delle tue mani. Questo ti
dico: il tempo è poco per cantare,
già trema il mandorlo di bianco
alle porte del mercato. Ci saranno
giorni per empire le lucide
coppe! Prendi la falce, pertanto, e
ciò che occorre. La vita è prodigio
dato una volta. Affrettati! E prima
che marcisca il frutto fa' un fascio
dell'erba cattiva. Bada a non
bruciarne un filo, sai tu forse
misurare il fuoco, il vento? Portala
al vecchio cestaio. Egli ne farà
cento canestri per i pani dell'altare.
Per Annibala Di Cresce
Seguo di tanto in tanto una via che
dal piccolo ulivo porta, nei tuoi
occhi sordi di cassandra, al poggio
vecchio di Sant'Anna. Lì, dove mi
nutrii del fico duro del vento chiuso
nel tuo fazzoletto. L'aria non
disloca adesso un sibilo. Vado solo -
oltre la bruma una scorza di mare.
Con che colore dire? Un
peschereccio di là; l'onda, tela da
ferro. Non ho voce. Con che dita
toccare il fuso teso del campanile?
Quale senno eminente in
siffatti rituali e paesaggi! Forse che
tempo non passi imprecando sopra i
tetti con volo di allodola? E tu,
giovane colomba, in che tempesta
hai nido! Certo, il
verosimile teatro della vita ancora
godere dal fondo alto del delirio. Ma
io, miserabile o santo, taccio. Ché
il tuo orecchio non oda il gemito del
mandorlo divelto.
A Lino Canta
Non hai altro da fare che
prendere la vecchia chitarra e
levare in alto un fremito che
sia di te più del vento sublime
tra i rami del melo. Fallo
con il nervo del tuo desiderio
e lascia andare. Non
conta tu sia musico o cantore.
Se le mani tocchino la
cetra e con gli occhi dedali
di versi. E' la carne ciò
che innumera il tuo operare.
Fa' di carne la tua voce, ogni
delirio. Poco vale una
canzone se non ti bruciano
le dita. Poco, se non sei tu
che fai il flauto pezzo
per pezzo. A che pensi ora, lì
sulla riva, mentre l'occhio
ti brilla sul dorso della trota?
Sarai tu, sognatore, a dividere
il certo dall'incerto. Lancia
la lenza fosse in vero un canto
grande! Ci fermeremo ad
ascoltare, mentre il vento posa
alla tua bocca e si dissolve.
Di quest'anno e cent'anni,
voci al telefono, poche lettere.
Volti apparsi e subito
dopo nascosti. Le pagine di
un libro. Leggere e scrivere,
scrivere e leggere.
Le solite disattenzioni, le
dimenticanze dei giorni.
I giochi vuoti dell'abitudine.
E poi? Di quest'anno
e cento, un cranio nudo di
marimba, fiori aperti sul
gomito della chitarra. Una
tana di speranza da
difendere con denti di lupa.
Ed è già molto. Le corse
dei mocciosi dentro
la finestra. Sapessi dir loro
che fatica lo scricciolo di un
sogno! Con che timore
ne annuncerei l'argento. Ma
forse una strada ancora,
un vento. E il venditore di
almanacchi - oh illustrissimo
sì, certo.
Si edifica nell'ora azzurra,
e pare un canto talvolta, il fico
arroccato alla vecchia finestra
per la strada dell'ultima
pietra di mulino. Non so
dove abbia piede, ma i rami
squarciano il solaio del cielo
e basta tanto al
mio orecchio per amare. La
gente passa e non vede;
forse ché non dà frutti buoni
e si conviene sia di poco
valore. Non puoi toccarlo con
la mano ma può rubarti gli
occhi dell'anima. In qualche
modo, non so, è come il
flauto sublime del musicante
che batte ai portoni e
domanda silenzio. In tal modo
solenne - sarebbe insulto
udirne distratti la voce. Così
poco basta per amare! E
il fico sta saldo. Il giorno gli fa
nido, mentre svola una foglia e
mi brucia la guancia.
Erano i giorni di pioggia o il
tempo antico in cui il vetro
dei sogni feriva il fiato come
rosa gli occhi di sole spine.
Non bastava la vita a
fare da contrappeso. Eppure
vita, ancora. Sopra ogni
cosa - dicevi. Quali
foglie il vento! E te ne andavi
per strade e strade,
passeggero di visioni. Tu,
di che celeste alchimia! Di te
niente ora che l'argento
nero. Né mi intendi ché nel
petto hai altra venatura di
delizia. Oh, se solo
chiedessi, saremmo noi
colombe gemelle, a una
balza del mattino. Due di uno,
fieri. Ignari, quel tanto per
un po'd'amore, del dardo agli
occhi audaci dell'arciere.
Saranno i giorni della rosa ardente,
oltre il cortile antico dei limoni.
Saranno i giorni che alzeremo il
nostro vessillo; diremo a tutti -
siamo poeti e funamboli e briganti.
Certo, potrebbero bandirci,
ma se vita, infine,
iperbole sublime, ne sarà
valsa la pena. Ce ne
staremo, così, a farci meraviglia
di un fiore di melo, come
fosse uguale a Dio.
Ogni affare più valente sul piatto
della sorte. Saranno i giorni
delle bambole e un giro di sogno
nei quadri della campana. Ci
vorrà pane per essere
uomini! Ma parte il viaggio
oltre la finestra. Senti il pugno del
tamburo? Fugge sopra i tetti
come un canto la rondine impaurita
e ritorna aria. Lì segue la strada.
Con abile mano guardate, maestri.
Facile è la forma della vita: di
celesti altezze poco
mi interesso. Ammirate! Per ogni
strada la mia firma. Inferriate
battute con il muscolo della fame.
Quel balcone, lì, la fontana
muta, grate alle finestre.
Colombaie ardite, cancelli; alla
maniera di mio padre e da buon
cristiano, lavorati con occhio
raro e fuoco buono di forgia. Ahi,
vita, scienza mia! Sono il
mastro ferraio e dico - niente c'è
di meglio sotto il sole
che un filo di limatura rilucente. E
quando, infine, banderuola al
fumaiolo, dall'alto, vivo
e nudo innanzi al Signore! Così
lasciatemi. Non son degno di
blasone né porterà il mio nome il
viale aperto fra i tigli. Non so
che il metallo audace
del crogiolo, eppure che
ridere per bocche di
taverna! Venite, artisti. Toccate la
mia barba, essa è la lunghezza
intera dell'anima mia. Non
mi unisco al canto unanime, no.
Sono il mastro ferraio. Di me
pagherà il tempo il sogno antico in
grani di ruggine e silenzio. Basti
alle mie mani per l'ultima canzone.
Tra le mani ho preso due pezzi
di mare - fossero cristalli insigni
di carbone o quanto di più
caro per i mercati del mondo,
non li metterei nel vecchio
barattolo di vetro come dentro
un otre di Eolo. Ma essi
misurano la nudità indivisa del
mio silenzio. Vanno custoditi.
Fare della pietra verde
anello forse, al posto di questa
fede gialla di adulterio
che mi spezza il fiato. Darti in
pegno alto d'amore
frantume di granito a gettare
fondamenta di spazi veri. Facile
dici la mia promessa, che
ben altro necessita l'eucaristia
dell'anima. Dirti non posso
che su un granello di sabbia ho
eretto il magnificat delle mie
dita. Ma sono un fanciullo e
tu l'occhio buono di un patriarca
che indica la via degli abissi per
l'orecchio antico della conchiglia.
E io sono sordo, padre mio.
A Carmen Lama
Più alto dell'Oreb ho udito
il gemito celeste come foglia
sincera discendere
sopra la nudità dell'anima mia.
Ed era acqua. Io, ultima
creatura, filo d'erba, ho visto:
il Giordano è viaggio senza
fine.
Più alto dell'Oreb
ho camminato.
E tu, fratello che
levi l'opera eccelsa,
chiedi meriti, talenti: vana, ahimé
la tua fatica! Più grave è portare
negli occhi il silenzio
di Zaccaria. Più degno alle mani il
dono dell'incenso;
migliore il compenso dei giorni.
Così lascia gli arnesi diletti!
Tu, filo d'erba sublime, avrai nome
altissimo innanzi al Signore.
La vita ai femori duri
come pelle.
Segnati, noi.
Bestie
senza carne.
Stella di David -
medaglia al valore.
Senza prezzo
né peso.
Un filo d'edera
più feroce del labbro
della mitraglia.
Quante le distanze,
gli spazi!
Una la voce.
Un grido?
No. Un nome: uomini.
Uomini? Ebrei. Un popolo.
Un grido? Il sibilo
dello Zyklon-B e silenzio,
cenere, silenzio. Senza fiato di
mani. Quanti cancelli
di Auschwitz ancora? Spazi,
distanze. La terra
promessa è il Gennesaret
immenso dei pesci di
cristallo. Così ogni tempo
attestare, contare, dire.
Un tempo solo
dimenticare, rimettere,
chiedere
silenzio e
cenere
e
silenzio.
I
Quale il tuo numero? Terra
nella gola - una strada
alta come luna, più in là del
filo spinato. Di terra
e sorci la mensa dei giorni.
II
Da questa parte resistiamo,
ché sia campana una parola:
fratello; ché maturi -
melagrana che le mani non
pronunciano.
III
Ci sfama gli occhi il cielo -
il cielo dei nostri
padri. Là, oltre il cancello,
segue l'esodo
senza fine.
A Don Franco Iodice
Parlami d'Africa, padre. Non
posso seguirti. Devo
voce a mura di filo spinato,
devo loro mani e
a terre di olivi eterne - mie per
genesi di misura.
Parlami
d'Africa. Non ti sarò di
scorta. E' qui che devo
lanciare il seme ed ogni
tempo temere sia stato invano.
Ahi, con le tue orecchie
udire visioni! Io,
arene di infinita delizia
mettere fra gli
imbuti della clessidra.
Parlami
d'Africa - lì ti chiamano
per nome. Io non ne
ho l'audacia. Come Zaccaria nel
silenzio stare in attesa
che il tuo nome si compia. La
mia voce, ahimé, usura di
poche rose. Di mille semi sparsi,
albero, uno, uno solo -
galassia. E mi pare uguale a Dio.
Di carne e silenzio il muro dei giorni.
Un decalogo iscritto con le
unghie dell'anima, affinché
il numero infame del delirio
fosse voce di costellazioni. I
nomi della genesi nel palmo
delle mani - chi li dirà?
Un gelo di fili d'erba piantato
nelle ossa
come il più sublime dei dolori -
vivi, ancora;
di sete e desiderio
di canto vivi,
senza forma di
preghiera: finanche
di Dio ci fu tolto il nome. Un
cielo ci lasciarono di perenne cecità.
Io sono un uomo,
lo dicono i miei piedi. Uomo,
quando questa parola strapparono alle
tue vertebre? Eppure fra
spine di metallo, rose di
sguardi a rifiorire: gli occhi dei nostri
figli - di luce ancora.
E ancora sia.
I
Viene il tempo del torrente
rosso. L'aspettavi
da dietro le finestre di casa.
Come una formula
magica pronunci - amygdalus
communis - passi lo spago
nell'occhio del cimino.
Franco è in strada. Lui conosce
la lingua delle
rane, ha promesso
di insegnarti.
II
Viene il tempo del torrente.
Franco deve andare.
E' un figlio di David - ti hanno
detto -
uno sporco ebreo.
Franco sa parlare con
le rane, hai risposto, mi
deve insegnare. Così,
amygdalus communis, formula
magica - che il treno
si fermi!
Per Alda Merini
Le tue parole alle mie mani
aprono strade di canzoni. Le
tue parole compongono sandali
di legno da
calzare per il dedalo
dei giorni verso un passo di rotta
e la dignità d’essere
polvere nel vento. E’
lì che ti vedo, a un varco,
come aspettassi un
figlio pronunciare il primo
bacio perché neghi
cento volte il nome
dei tuoi seni. Le tue parole, olio di
visioni contro il morso di
corda vile alla mia coscia; un
silenzio che è delirio
di ogni poeta.
Ahi, anima, sublime partitura: musica
sorgiva alle tue dita. Anch’io, maestra,
ho comprato una cetra di crine ribelle
ché la mia voce spezzi
di un sol tocco la giara
ebbra delle notti.
Il mio quaderno di correnti
porta in segno di mano
esitante il conto
di cento stelle: tante ne
occorrono per fare un sogno
di inverno. Altrimenti
eri certo? Non
badi al fiore d’alta essenza
tra i fogli – così cieco?
A me pare
immenso come un giorno di
sole
e papaveri persi in flussi
roventi di grani.
Eppure non mia
la firma. Non ricordo.
Sono stato
tante cose,
ho avuto
molti nomi.
Per un poeta
Ritrovo la mia macchina per
scrivere – sul rullo, come
un disco di Festo, segni antichi,
intraducibili di altre mani.
Ritrovo la mia macchina per
scrivere e pare immensa
tastiera di pianoforte – è qui, mi
dico, che darò forma
di suono ai giorni. Passerà
lo spartito duro ad orecchie che
non so, magari perso, fatto a
pezzi – fuoco vivo di
focolare. Ma nelle dita suoni
di uccelli levati ai vespri
aviti della terra. Nelle dita fiori
di arancio e l’orto dietro il
cancello come rosa
di silenzio – lucerna pura. In tal
modo la mia voce, la tua,
saranno udite, in tal modo
il canto intona la segale solenne.
Nessuno ascolta. Nessuno
che accorra a valutarne il sogno.
Di un mulino ad acqua disfatto
parole, lenti grani di rosario. Di un volo
pesanti parole - occhi di uccelli:
lucente insignificanza. Farne misura di
canzone. Siamo seri,
non mettiamo ipoteche.
Dici scarpa alla
scarpa / la scarpa se ne frega.
In tal modo il fiore,
il cane.
La vecchia antares - 49 tasti,
non starò a ricontarli, e l'infinito è punto di
partenza.
Ci sentiamo uguali a Dio
nella barba di poeta. Se
ci avessero detto,
ci saremmo messi da parte, che la poesia non
ha necessità di carne.
Di piccoli spazi
ci è concesso - basti o meno. La poesia non
ha bisogno di parole. Non sa che farsene dei
poeti. Datele, piuttosto,
labari di fuoco. Sulla mia pelle trema la finità
dei cieli di Dio - scriverei
parole per un cantico. Ah, se
solo sapessi; con la mia falce
di poeta mietere i grani vivi
del giorno. Ma nelle mani e
le gambe e il petto l'inutile
sabbia degli istanti mette ali di
meraviglia alla vita. Prima
del tempo ero un gabbiano, il
mio collo fiero e sottile. I miei
occhi - cristalli di Boemia.
Prima del tempo ero il sasso
che lanci, di innumerevoli
geologie; per un baleno di luce
soltanto, lieve sogno sopra la
forma pura dell'acqua. Ahi,
geme e taglia e freme il numero
di Dio che l'anima intona e le fa
innesto di canti sublime. Trema,
lo incarna il volto, il volo,
ne fa cenere di genesi ancestrale.
Non comprate una pietra, non
fate parola - silenzio esigo.
Esigo terra di narcisi ardente
il mio petto di colomba nudo.
Ebbi in sorte voci di fame alle
dita, suoni duri di arenili.
Di ogni volo, attesto, mi toccò
l'ala ferita; di ogni flusso
vissi come il luccio maestoso.
Perciò datemi il lento salice
delle piume d'argento onde io
possa compiere il mio
mistero di creatura. Datemi un
giorno di frumenti che
maturino iperboli di
spazio - spazio esigo che il
gemito del cielo gentile dilati
radici e zolle per la talpa
esemplare. Saprai di me ogni
cosa a disfare l'attesa delle
mani. Esigo tu mi perda - terra
di narcisi ardente il mio petto
di colomba.
Di me sia la semenza di canto. Nient'altro
o poche cose ancora - delirio sublime
di notti vaste: non ne
avanzi che tanto. La
vita è affare di poeti. Lasciatemi
così. E' tanto piano e fiero il suono dei
vespri - c'è forse pari
meraviglia? Anche
di questo mi toccherà il conto. Di me
non il rasoio lasciato sul lavabo né
l'acredine di un'ultima paglia;
di me sia sillaba di vertebre che ali
abbia di falco. Sia pure
il vino marcito nella botte. Ho rubato, Dio,
ho mentito. Sono morto, mille volte morto.
Ho pagato talenti
di sogno - ma i morti non hanno udito.
Così lasciatemi - non ho, infine,
di che pentirmi
agli occhi,
ai piedi degli uomini.
Non sono un poeta. Sono uno che vive.
Non musico di strade eppure dei giorni so
la chitarra sublime. Mendicante, sì,
ladro, canaglia; prendo alle notti baleni
di stella - lucenti monete, tanto per
il pane e le mani di Claudina dagli occhi di
foglia. Non sono un poeta, io;
uomo soltanto. Nell'ora in cui
il cielo è campo di grani di rame mi vedi
col naso misero seguire la
verticale di un fumaiolo - ti pare roba da
poeti? Furfanti come me ne trovi a
semi e semi di fico - poeti
di melanconia antica come il fiume
che irriga la risaia, come il fiume
che scorre e solo al fluire
bada. Dio ce ne scampi! - No. Io sono
Elina la Volpe. Nel quarantaquattro gli
americani mi portavano a casa farina di
piselli ché lasciassi
loro vedermi le cosce. Sono il
salice, il vento, un soldato senza medaglia
al valore. Sono il
guardiano del fuoco del tempo nuovo,
un matto che dice di barbe infinite, un
teatrante. Uomo, io. Uomo soltanto. Poeta,
no. Non ne ho il naso, certo. Il volo
di colombo accecato.
C'è una città nel mio petto, una contrada
antica di maestri liutai - sanno
la nuda alchimia di riparare
i legni solenni. Mio padre era uno di loro;
non volli saperne di imparare il mestiere -
così sono partito,
un tempo chiaro d'inverno. Lì
non ricordano
il mio nome.
C'è nel mio petto una
città di fuoco, una strada di
poeti dal soffio gentile - non hanno da fare
che vivere; di vivere gli
si domanda. Ah, farvi ritorno! Aprire
le finestre della vecchia casa,
lasciare mi accechi di canto puro il
sole bianco degli aranceti,
così, nei meriggi ronzanti
fare miglia e miglia di
parole come lenti passi.
Dire alla luna - son tornato, vecchia amica! -
Ma è una terra straniera il mio petto. Non
mi è permesso sognarvi voli arditi di libellula.
Talvolta, le notti, non più distante pare la
porta di casa e gemo, gemo d'amore folle fra
le dita le mie canzoni.
Puoi non credere che nel nicchio
duro che la corrente impiglia alla rete di
rafia stia il suono possente
delle maree. Puoi non credere, ne
hai il diritto - io l'ho udito.
Puoi non credere nel sogno antico
dei cormorani, che io abbia
slancio di simile amore. E' così. E
non posso provarlo eppure
durante la tempesta hai dormito
nel nido del mio silenzio.
Dubitare, certo, l'occhio del
pesce volante sia lucente lacrima di Dio.
Puoi diffidare; negare l'impronta dei
tuoi piedi sulla rena,
affrettarti ai baleni grandiosi dei vasti
mari per tracciare il
numero dell'infinito infame. Così lascia io
torni allo spago semplice, ai
minimi affari, ma prima di andare guarda
il granello di sabbia - lì sta la
mia mano, l'anima mia intera, l'onda
che cancella persino
lo spazio
di un tuo passo.
Torno con le dita alla tua lettera. Per anni
lasciata nella scatola di pelle fra poche
altre cose. Torno, Alexandr - l'inchiostro
incerto è ora dolce esperanto.
Torno con le vecchie lenti e le ciglia a
mille lunazioni di strada. Come
capovolgere la sabbia capace,
rivedersi i tagli, le ossa, i giorni dei gelsi
ardenti fra le mura calcinate di un cortile, i
suoni indocili. Torno e non ho che
la canzone dell'ultimo temporale - non
so intonarla. Scriverei sui tuoi capelli
un cantico di venti che sia volo
di libellula verso spazio di silenzio. Che
sia lieve come il pennello di Po Chu-i
sul rotolo di carta sottile. Ah, se solo
ardissi! Con un nome qualunque mi direi
per saperti distante. Mi
riconosceresti, tu, a concepire
l'alchimia delle mani. Torno alla parola
antica, alla carne mia che era campo
di frumenti sinceri, alla tua lettera -
aratro gentile che ne rompe le zolle dure,
ché possa farvi innesti di mandorli
intensi. Per carità, infine, di genesi
d'amore, per misura di purezza viva.
Le mie ossa sono flauti superbi.
In esse l'alito di Dio - ne canto l'umile
possanza io, musico dei fiori bianchi.
Le mie viscere pronunciano l'amore. Le
mani spezzano le uve del giorno.
Vieni, Eman, inneggiamo alla sorte! E
per il tempo che nutre il suono del tuo
cuore io benedico la forza del
cielo che riempie di voli i nostri
polmoni. Odono le mie orecchie! I piedi
mi fanno viandante. Notte e
luce e spazio i miei occhi han veduto -
di tutto ci è dato bearci. Resta, Eman,
a perdere il conto dei fili d'erba, pregherò
che siano infiniti o, se occorre,
li bruci il sole. Per le labbra su
cui scivola la luna come un bacio lento io
canto e per la luna benedico la terra!
Per la mia carne canto e il tuo respiro. Io
per la pioggia
che geme il fremito dei tuoi reni benedico
la carne; per il tuo petto, Eman,
io canto e benedico la vita!
A Cristina Bove
La mia casa è una chitarra andalusa -
magari un po' piccola perché vi crescano
alberi possenti, ma per me è il nido
certo. Le finestre aperte fanno di
vento le pareti; tanto bella che temo un
giorno doverla lasciare. Non adatta
a bandire grandi feste - cedevoli le assi
del pavimento, lo ammetto, ma per me
è un campo di orzi lucenti.
Sapeste che rose antiche sublimano
le balaustre! Sale la scala faticosa verso il
vasto sole della sierra. A vederla non
si direbbe, eppure talvolta mi pare
di stare in cima a un campanile e di lì
vedere come mutano le strade
in altre direzioni, cedere le mura dei
nobili palazzi, e la mia casa rimane. Per
nulla la darei, per nulla il cielo
steso sui fili ad asciugare come un lino
vergine, per nulla la vecchia sedia
di paglia. Prendi il mio cuore, Signore, le
mani. Non so che farne. Lasciami
però le finestre azzurre della piccola casa.
- l'oboe di vetro -
Apro la vecchia scatola di latta
teso al sole vivo di Santiago
sopra lamiere nude di tabacchi.
Porto alla bocca il fumo duro / pronuncio il
mio nome, formula quasi
di antico spazio
rituale.
Nell'oboe di vetro
di voci difficili,
senza misura di canto alcuna, io rivedo
il tempo delle
edere superbe,
per disfare le mani
in lontani riverberi di forma.
E
foglie e passi - croci piantate /
gambi di rosa nella terra / spine nel cuore di corpi
simili al mio.
Il freddo perenne dei pochi
crisantemi - quale l'odore? Anche la tua fossa è
stata scavata, di fianco alla pietra senza nome,
al ciliegio -
tu come il ciliegio
ed io.
Nel tempo che lento freme
l'aridità dell'ultima
pietra, fa' che io riveda, Signore, le mura
di Gerico oltre le alture antiche. Io con le mani,
nel tuo nome tacendo, innalzerò
una cupola di venti. Ma temo nel silenzio della
terra udire il piede del mulo battere solo. Che sia
sordo, Signore! E, pur senza suono e fiato, io
torni all'albero dei padri per pronunciare il
numero delle galassie. Stanco nei sandali lisi
di legno di fico, edificherò
cerchi di canto nei grani con la sola
forza del ritorno, per tergere
alla fonte di linfa battesimale il mio cuore di
olivo. Verrò al pane tondo, alla mensa
fraterna, per riconoscere in altre mani le mie -
ma chi ravviserà il mio volto coperto di
sputi… Qualora di visioni ancestrali, dell'alito
superbo che mi fa frammento, pazzo
mi diranno e cieco e sordo. Ma sono solo un
vecchio, faticoso di innumeri
innesti falliti. Sarò bandito. Così mi rimetterò in
cammino - senza voltarmi,
nel tempo che geme il viaggio
senza fine.
Erano giorni di desiderio erranti. Facile
bandire il nome Dio nel cerchio pieno
di un sole di calci al muro - l'ora dei palloni rossi
sale come un delirio. Il mio nome è
Marcel / nato nel cavo dei noccioli bianchi un 15 di
inverno senza vento. Nelle orecchie
rimbalza lo sputo di Morrison francese. Ha la voce
del vento / il vento la mia voce. Sulla
mano alito vivo di cenere, mentre la pioggia geme
d'ombra fluida tra le erbe del viale. Vedo le
mie dita che erano tasti d'avorio, le mie dita
tagliate dai nylon sottili - sono lettere d'amore e
sillabe di albatros luciferi. Sono
le tue parole che recitano dogmi di silenzio e il
mio nome è il tuo nome innato
che compie il vuoto numero della carne. E torno ai
giorni di vino aspro sotto i grossi portoni silenti;
dolce alle labbra finanche la bestemmia, e le mie
dita che erano candide piume
e lingue di sete, sono il taglio ferino dell'anima
mia, strumento di riverberi di dolore altissimo, le
mie dita che pronunciano il volo muto del salice,
sono ora voci fuggenti di poesia.
Per un amico
Affermo che vivo - non posso provare
che vivo. Ma la vita è la scienza mia e che ho vita
attesto. Credimi, se puoi, sulla parola.
Scordarlo non posso; né le vertebre ferite o il
vuoto in cui traccio il cerchio nudo del
mio asserto lo consentono, tantomeno la carne
mia di antica materia plurale. E nella
mano affilo la lama dell'anima per non credere
vero il puro spazio dell'assenza / ma,
lì seduto a scontare gli istanti, grido e di ogni vento
compio vaste iperboli, eppure non senti e valico sei
di feroce distanza. Ma affermo che vivo -
ahimè, provarlo non posso. E che vivi
dichiaro, a spregio di tutto. Certa solo è la
mia voce. Credimi, se puoi, sulla parola, tu, murato
nella possanza del silenzio / per te il misero
mio grido. E non senti e mura innalzi cenere su
cenere, per cara esigenza di distacco. Ma
verso il tuo seno io urlo in ogni vento, là dove taci
persino il mistero delle tue dita gentili: lì sta la
vita e attende tu la pronunci - pur cenno di labbra
soltanto, il tempo vergine di un sussurro.
Né granello di sabbia dentro una fervida aria
di fuoco né vento o gemma di melo antico tornerà
a intimidire il tepore di lenzuoli sul filo teso
del granaio trafitto di luce. Forma magari di ombra
sul muro, lo ravviserai dalle ali mancanti. Le
ali che diede perché altri volassero. Intona
l'addio, dolce luna di notti innamorate! Muore un
poeta. Passo non avrà da fare - lasciatelo
morire, poeta infine e per l'ultima volta. Senza
facile simmetria di rugiade lo trattieni o voce
alcuna - tantomeno lo potresti. Quanto il mattino
dell'albero di Chin alito ebbe per dire e tacere
e lingua di carta per affermare e negare il vuoto
che umano non dici. Io l'ho visto: una scultura
di carbone; non flusso di astro marino né
cuoio di nube / ape lieta, ape neppure o fiore di
ghiaccio. Lui che come te ha fame. Lui che come
te trattenne il pianto sino a lacrime sciogliere di
vini maturi. Lui che come te ha braccia di Venere
di Milo e come te muore, con l'unico ritorno di
sillabe dure come foglie di granturco. Seppellitelo
in una macchina per scrivere. Seppellitelo, se
volete, in un flauto terso di parole; non pura
colomba né filo acuto di coltello. Io l'ho visto -
una statua di brace nel vento.
Vado con quelli che li sbrana il vuoto / forma
di gelo soltanto - le dita garofani
feriti di vergini rugiade. Ah, canzoni dovrei di
ogni vento ramo nuovo gemmare
e taccio invece e moto ho di foglia gentile
per vaste geometrie di sole. Anche
finisce in me il tumulto del sogno e albero
arido sono di resine cui non bada
che soave il fanciullo a confutare
morte e vita. Mi divora l'ultimo respiro il
minimo scarabeo, guerriero puro; dimora alla
mia musica antica. E vado con quelli che
il vuoto sbrana - urna di cieli superbi, audaci
voli. Saziati, dilania la mia scorza -
lieve seta. Non altro avrai e la fame mia
infinita / prima dell'agile scure.
Itaca sogna distante. Itaca parti, fanciullo.
Itaca solo distacco.
Non di naviganti superno canto né di voli
fendente strillo; umana
appena, appena udita, dal vuoto
irrompe
e nelle viscere macina - voce che fertile il
cuore annida a ignoti scali.
Non di Nereidi lingua odi sublime o venti
fremere sopra tolde lucenti:
è Itaca che
chiama e delirio accresce di sete
antica / ti versa a incerta proda - leva l'ancora,
va'. Ci sono porti, mari altri ancora.
A Bruno, mio padre
Li ascolti e solo udirli è concesso. Vedere
mai gli uccelli del fiume, quasi d'ombra / elegie
di suono soltanto, tracciano pentagrammi
di mistero. Senti, ma in nuova maniera.
E alla sponda altra il vecchio pescatore cala
la media rete / vuota ad ogni risalita;
la reimmerge, la ripesca. Sente il guizzo stanco
della trota, di più, ne partecipa il rito / ed io
il suo. Per il moto inesausto dei suoi muscoli,
valico minerali spazi. Di lontano, intento al
silenzio quasi, torno all'attimo
retrovisore: dormi tu di fianco, mi dai sete per
fondare la mia sete. Un fiato di ramaglia
fa sordo il calamo - inalo il tepore della rana /
la pietra su cui non tracci l'orma c'era, ci
sopravvivrà. Non pensarci, diresti, ascolta gli
uccelli di fiume. E l'anima tendo a lenza, forse
per l'ultima volta - di rado escono, hai detto,
di rado, quasi inconsistenti, li vedi e allora, solo
allora, cominciano a non esistere.
A Rosa, mia madre
Anche da qui si vede / albero mzimu / sopra
i capi dei candidi che scalciano cuoio di grida.
Anche da qui si vede, dalla vecchia panca
di pietra. L'albero che mio padre e il tuo resero
alla poca terra dell'orto di mezzo.
L'ho udito pronunciarsi padre per il tempo
intero del mio innesto
e non capivo. Era te che chiamava al
sogno fervido di un Kenia assediato. L'albero
baba di ruvida scorza.
Tace ora o sono io che non odo; l'Africa è
miraggio alla mia urgenza. E l'albero possente
insiste, mentre passa pure e s'annulla
il sorriso senza labbra e il giorno non è che un
versarsi d'anima dai bordi di un bicchiere.
Nella notte che ti aprono il petto non
c'è luna. Tento di muro
in muro l'immram del vuoto - nessun confine /
e ti si ferma il sangue.
Nella camera di acciaio che ti frugano l'anima
per il limite divorante /
chi sei, uomo?
Hai mai amato? Catene di sillabe
farei dei pochi istanti sino a ferirmi le dita, ma
la vastità mi divora del tempo tuo
fuggente e non ho formula:
il baleno appena di un urlo frenato. Hai sete,
uomo? / gli olivi sacri hanno
getti feroci…
Oggetto quasi,
solo ora ti intendo la forma pura della mano.
Il Rio Lanzi dei faggi riflessi leggeri / ci si
bagnava i piedi e il fiato. Bastava il mondo tutto
credere il cortile delle oche, allora…
Nelle lenti scure mi passa di getto il
cubo quasi di una vecchia casa, gli anni di strada
disertanti. Ora il tempo è solo
baratro; come l'agonia dell'albatro / arco di
silenzio impuro.
Sotto il loggiato d'edera
scalcinato di rapidi piovaschi,
qualcuno prima di me stette a lamentarsi delle
mosche; lontano miglia e miglia
da queste stanze inermi / odore di rosai in
tempesta. Anch'io, dico, anch'io, forse un
giorno, preso da un guizzo
improvviso, perdermi l'occhio all'orizzonte di cui
tento il limite a macchia. Lo so, ci sono
sogni altri più degni di essere sognati - possedere
un cane magari, una piccola
auto, quattro mura per certo cui fare
ritorno la sera. E rivendersi la vita per avere tra le
mani qualcosa almeno,
per un istante.
Questa non è una poesia / nessun facile slancio
di sillabe. E' l'emorragia dei giorni, la
lente che deforma di un largo flashback. Non è
una poesia. E' la lista della spesa.
Necessaria o del tutto inutile - tonno, insalata,
sale, latte, arance; le pinze per il
bucato, lo spago per legare l'ultimo aquilone,
così, scritta in fretta sull'incarto
di un panino. Un foglio giallo per
lo più, come questa calda sera di maggio. Non
scrivo una poesia - perdio, no - ma una
valigia, una vecchia valigia per metterci
dentro le scarpe, la camicia di lino presa
per due soldi, diverse
asciugamani, l'agenda in finta pelle rossa in
cui fermo rapide parole
e perché no, una bottiglia di vino possente;
sciampo antiforfora, pochi libri, una spazzola,
una penna, un non definito numero
di calze e miraggi e mutande. E ci infilo le due
tegole sotto il piede dell'antennista,
il frantume del cielo adesso. Prendo la fontana
muta sotto il grande albero
della piazza, la dama e la coperta di lana fatta
a mano dalle suore. Le lettere strappate,
gli amori sognati, gli amori adolescenti. E
le cose che scriverò alla luce di un'altra
lampadina / germi nelle mie dita. Ecco, si
va. Sono pronto. Ma prima che parta lasciate
che vuoti la vecchia valigia.
Ora che il giorno crolla, mi afferra /
absinth
domen uliss / voce che sorge dal vuoto. Il sole
buca la rete dei rami, si frange sulla fontana
di pietra, quasi da far male. Ma l'albero di limoni
è qui, dal sempre irrisorio dell'uomo, fin
dentro questo mercoledì da spezzarti le forbici -
una certezza, almeno, per ritrovarsi il
tempo, il nulla di un palpito silente - non avere
che il repentino riparo di
un nuvolo scorrente. Fra le labbra l'ultima
sigaretta, le mani devono altri gesti, ancestrali
come l'amore: strappare malerbe, rivoltare
zolle, aprire l'acqua nervosa, trasportare i vasi,
asciugarsi la fronte con il
panno lasciato nel filare delle madreviti. Questa
la poesia che firmo, non l'esile cifra di sillabe che
lo sforzo di un istante non dura. La intesto -
vita. Una delle parole che temi / fuga e rompere,
persino udirne. Ma ti braccano, ci fiutano
le 4 mura dell'anima / e come su un podio, saldo
sopra la piccola sedia di latta, le pronuncio.
Ne ha slancio il sangue / primo bacio. Tu ascolti,
ti passo un limone, lo riponi nel cesto, mi segui -
siamo foglie nel cerchio del vento.
Il vento mi porta lo splendore delle api - antico /
faccio vuoti intorno / dissolve il sole, lento di tenere
florescenze. Dissolve - etèra musa che non dura
il tempo. Quale espiazione può l'uomo se non la
vita? E le foglie girano - mulinelli,
galassie. Non vedo. Tacciono il proprio mistero /
minuti spazi di vastità. Stanno in una
mano senza che li si possa afferrare,
dirli propri. Basta a volte il loro girare invano
per intuire il dio-verità, perdiana,
ma fino a prova contraria. Non ho visto il cielo
d'Irlanda; ho conosciuto Donald, un
vagabondo. Donald artigiano del fil di ferro,
ne faceva esili figure di nuda possanza.
A volte basta… Per le restanti urge alla nostra
piccola testa di trota testimoniare il
dogma con la bestemmia, almeno; per dire di averci
provato in qualche modo, perché no,
creduto. E girano le foglie, foglie di menta: non
ho pensieri infiniti - anche questo può
accadere, per fortuna. L'ultimo sole mi cade
nel ciondolo della catenina, rimanda sul muro
la forma di una lacrima / spero che Donald non se la
passi tanto male, lui, irlandese o di chissà dove.
Cavalcato nuvole mai. Né silenzi bevuto a piene mani o
trascritto la partitura dei temporali / eppure sogno,
musica dentro - invidia - a me tocca per volare l'abusata
enfasi del falco alto levato, a me scriba, nient'altro.
Ma le tue ali - ali davvero. Portami via da quest'ansia di
ricerca, voci toglimi e numeri e taglie, ché più non abbia
urgenza di essere poeta per esserlo davvero, quando
presto è negata anche la nobiltà del dolore - mani chiuse
a picchiare contro la parete che separa
il niente dal niente: di' che non serve, che è più forte; che
è meglio, in fin dei conti, starsene mani
in mano, l'istante di due parole a fior di pelle - parlare
del tempo, dell'ultimo film visto, fumare mezza sigaretta
sotto la volta della sera superba / hey Mr. Tambourine
Man play a song for me / piscio di cobret
per marcare la disumana distanza tra sé e le cose e gli
altri / inciampare, cadere, rialzarsi a fatica - dimmi che
è meglio. Piove / nessun concetto da schedare sotto il
nome - poesia / miriadi di cerchi nei cerchi /
pensieri, forse / spiritual ringhiato - frequenza non
scelta, come la vita in genere - non chiedere
di più. Ora mettere insieme i pezzi, frantumi di una
illusione; fare il resoconto, calcolare entrate,
uscite - mille passi fatti per ritrovarsi nelle stesse scarpe,
due pacchetti vuoti, vestiti bagnati, la radio che passa
una nuova canzone, 26 righi spezzati e a capo, un paio di
pagine buone al massimo per rivestire il posto del gatto;
una cosa da mettersi bene nella zucca - portare l'ombrello
per arrivare dal tabaccaio, la prossima volta.
Non mi fermerò a parlare con te,/ scritto a mano su un foglio
a quadretti 7, 8 anni fa /nuove brezze nella sera,/l'ultima pioggia
ferma sulle mani./Gioco con il mondo riflesso nei tuoi occhi./
Parole morte, le credevo eterne. E le ho perdute, per intuire un
vuoto più alto maturare la cecità di una distanza. Chi sei…
Dolce l'illusione. Credere nella possanza dei nostri nomi nudi; e
baci soffocati, cieli che non consentivano la
definizione di un limite. Presto avremmo imparato a temerci,
umani in tutto. Repentino scarna feroce in volto il tempo
la fine di un'estasi, non ci durano gli istanti.
Questa la vita, li ho sentiti dire, una volta provato il fango ci
ritorni - per essere identici occorre superarli:
diversi quindi. Tienilo a mente. L'insegna nel buio disfatto, bar
centrale / pochi alberi paralizzati / ricalcarsi i
passi, per dire infine di averci provato, se non altro. Ridere
di sé, ridere di tutto e in faccia al dolore - risposta all'unica
domanda vera. Sveglia! Non saremo qui per sempre, se Dio
vuole - dissolti in fili di percezioni appena. Cosa
essere, chi? / disordine di voci / silenzio - anche quello ti
può consumare / fratture nel tessuto materico.
Attesa di un riscontro dagli uomini. No, non resterò un minuto
di più, non ti donerò un pensiero stupendo. Ci sono città là fuori,
barricate, guerre. Ma i raggi stringono ocra ai monti -
perché lamentarsi? Su, ancora un po' di fango. Non è poi
tanto male. Una volta provato ci ritorni. Ascolta. Un'eco
magafonica distende il muscolo degli spazi - possiamo essere
ovunque, qualunque cosa. Io, la tinozza assonnata sopra il
tavolo tondo di pietra in quella vecchia foto. Tu, un segno
lacero sul foglio, un dio o solo una musa; in ogni caso, senza
peso, suono né forma presente / non morti, vivi mai davvero.
Sciolse una tenera estate l'aria acre dei
tini/fiori che in silenzio
si lasciavano morire - forme brevi, alito di minime sillabe.
Avevo vent'anni. Scrivevo poesie. Ma passano i giorni - non li
puoi fermare. La strada dirama in altre direzioni. E tu conti
sulla tua penna,versi sul foglio formule magiche. Ma
se c'è una guerra chiamano chi sa sparare, ragazzo. Ascolta:
avevo venti anni, ne è passato di tempo. Vado per i cinquanta.
Ho un impiego alle poste. Se c'è da scrivere un telegramma
si rivolgono a me. La paga non è male. Tempo per andare in
giro e se voglio qualcosa me la compro.
Ci si abitua col tempo
a questa felicità. E' quando credi di avere il mondo in pugno
che apri la mano e ti ritrovi polvere; allora pensi di piantare in
asso le fate, gli ossimori. Ma non ti viene in mente niente di
meglio che mettere anche questo nero su bianco. Ti senti un
grande. Nessuno l'ha mai fatto prima. Forse è vero e se non lo
è - chi se ne frega. Ma se si spacca una finestra cercano il
vetraio. Non te, no di certo. Che può saperne lui? Con la sua
paura di essere felice - la parte migliore del viaggio oltre
le cattedrali d'edera del pensiero, dici, le
spirali del tempo… C'è da pitturare. Ci pensa l'imbianchino.
Anch'io scrivevo versi. Ora un'ode, di tanto in tanto, un
sonetto, senza pretese. Se voglio amore lo pago. Ci si abitua -
anche a rinnegare il nome della propria anima. Eppure a
volte penso di mollare tutto, mandare tutto al diavolo. Poi
torno al mio lavoro, torno a com'è stata dura
non impazzire. Capire che ci sono due tipi di persone. Quelle
che vengono a patti con il mondo e chi il mondo
lo fa. Cosa significa? Non importa. Scegli da che parte stare.
Una, l'altra, entrambe - alla svelta.
Quando la mensa comune bruciano in nome di una paura
più forte di quella di sé stessi. Quando per la stessa paura ti
vogliono muto, innocuo come un filo d'erba, ma vuoi
svoltare l'angolo e prendere un'altra strada, ci sono mille
cose che puoi fare, senza riuscire a muovere un passo.
Quando ti voltano le spalle e lo sai che dietro macinano e
ghignano e si dicono l'un l'altro - ma come siamo bravi! -
Cerca una parola che sia per te soltanto, che nessuno possa
udire; e quando con le mani
divorano, arraffano, sanciscono, cercala più forte. Non la
scrivi, non la mimi. La lasci nella testa. Fiera, capace di
negarsi nel giro di un istante; affine al silenzio, ma che sia
aria, altezza; uno schermo per resistere al fango di questo
sontuoso porcaio e che disperda il miraggio delle urgenze,
l'affanno ai consueti abusi. Una parola per bere e assetarsi,
umile e regale - pietra di cristallo. Che pure a dirla nessuno
la comprenda, ma non la pronunci, mai - pena la resa,
la caduta. Ci vuole rabbia, disincanto, perdere fede negli
uomini, nelle cose. Se non la trovi tra le tante che esistono,
inventala: furente maestrale o lento spago. Un mantra
a gola cucita. Non importa se significa o meno qualcosa,
ma il fatto che annulli ogni equazione. Se vuoi, chiamala
pazzia o come chi, prima, migliore di noi - fiore in bocca,
per iperbole; vada pure - cagnetta.
E' il tuo spazio, il casello daziario dove sei tu a scegliere chi
passa, a quale prezzo. Una parola, una soltanto - somma di
lemmi di cui non si sa che fare: amore tempo dignità,
termini perduti o usati male. Una parola che copra
come il velo del Cristo ogni mostruosità, l'orrore in vetrina
che passa per ordinario, inevitabile, quasi prescelto - e
se Dio vuole / Veneres Cupidisque / tutto si aggiusta. Basta
seguire gli ordini, credere alla favola della luna tra i rami:
l'assurdità di un alt che da solo ti imponi. Il sacrosanto
diritto al delirio - anch'esso negato.
La cosa peggiore che ti può capitare
quando risali la corrente
è finire come il salmone; o la cosa migliore, se ti interessa l'idea
di galleggiare pancia all'aria: il modo in cui termina il viaggio
per la maggior parte della gente; per quelli che non partono
nemmeno e quelli messi già all'arrivo, per chi sa che il senso
della risalita è la risalita e la morte. Una vita intera spesa per
un ritorno. Che pesce sei? Ad essere sincero, un salmone non
l'ho mai visto dal vivo, quello che ne so è la carne confezionata
sotto vuoto, affumicata e pronta all'uso. Un po'come l'anima,
quando arriva a pesare il giusto. A un certo punto non è che ci
sia tanto da scegliere, ce l'hai nel sangue il pallino della
sopravvivenza. E' mattino. Non so cosa ne verrà fuori. Tutto
inizia quando ti insegnano a scrivere e non ti dicono che è una
bomba a tempo, non ti danno istruzioni per disinnescarla.
Oggi tocca ai salmoni. Loro non leggeranno mai questa poesia
ma sono certo andranno avanti lo stesso. E le mie mani sono
stanche e stanchi gli occhi, le ossa di questa trincea di parole,
del filo spinato delle parole, della montatura. Al diavolo le
rane, il vento, le iperboli del canto, i pesci. Divergo, dopo un
silenzio, tagliato fuori contatto temporale. Metto in ordine le
cifre come posso, raccolgo nelle mani ore, minuti - perché mi
serve e non serve a nulla. E' una strada senza uscita / dov'è la
scelta tra il rosso e il rosso? / è un foro in petto. L'amore, la
libertà - non ci sono mai accaduti. Ora potrei pensare guizzi di
piccoli albarelli e la biscia che scivola senza rumore, le felci
riflesse, uccelli senza nome che non temono i miei pensieri.
Pensarli come una quieta canzone, sognata, che al risveglio
non ricordi le parole e poi dimentichi del tutto. Ma tornano
i salmoni a galleggiare nella mente e non so come ne usciranno,
anche le nuvole ne hanno la forma, i sassi di questo
cammino. C'è un intero sistema per la lavorazione, tutto fatto
alla vecchia maniera. Carne pregiata, come l'anima.
Puoi trovarla facilmente sugli scaffali di un negozio, ma chi se
ne intende dice che va mangiata fresca, appena
pescata - tutta un'altra cosa.
…ma la poesia è un'altra cosa.
Orsola Hockhofler
Scrivi 4, cinque parole. Vai a capo, ne scrivi altre tre, vai a
capo eccetera. Dai un titolo. Tutto questo lo chiami
poesia, ma la poesia è un'altra cosa. E lo sai. E' quella nei
libri con codice isbn. E' quella di Carver, di Neruda
e pochi altri ancora. Non è dappertutto come vogliono farti
credere, non adesso. Non è qualsiasi cosa. Io non ne ho mai
scritte. Tu lo stesso. Fin quando non vedi il tuo nome
nei cataloghi, fin quando non ci sfama non siamo poeti, ma
saltimbanchi in bilico su un filo di sogno. E il sogno asseta,
il sogno divora. Ho conosciuto un paroliere. Chiuso l'ultimo
verso, strappava il foglio, lo gettava nella spazzatura e si
rimetteva a scrivere. Così per anni prima di rendersi conto
di essere bravo davvero. Anni per diventare uomo
prima, aquila poi, poeta. Bella storia, per un romanzo. Ma
il punto è altro: c'è un passo da fare che precede l'istante
in cui scegli che tipo di poeta essere. È l'istante in cui
decidi che uomo sei. Lui aveva scelto. L'uomo che sei tu,
l'uomo che sono io fra qualche tempo, se avremo
fortuna e coraggio e l'umiltà di farci da parte, di attendere,
attendere fino a non poterne più e l'arroganza necessaria di
affermare che le cose che scriviamo sono migliori delle
altre, e magari è proprio così - e mostrare i denti
e la cavezza strappata a morsi. Solo allora potremo dire che
la poesia è ovunque, che la poesia è ogni cosa, ma
soprattutto che la poesia siamo noi, perché siamo uomini,
perché abbiamo scelto. Mettiamoci a lavoro. Altre
parole,virgola, ancora tre, punto, a capo; sfuggendo inutili
esitazioni. Non serve affaticare le tempie, né cercare troppo
lontano. Disimparare, lasciarsi cadere, toccare il fondo e
starci da dio; quando non vale la pena credere a niente, a
nessuno e il cielo è solo il cielo, un sasso, per quanto
lontano si possa lanciare, un sasso e basta - ma vivo, come
le nostre mani; pietra miliare del ritorno.
Ora li vedi camminare mano nella mano. Tra qualche giorno si
sposeranno, faranno il grande passo, senza pensarci troppo. Non amo
le storie d'amore; di rado ne scrivo poesie. Per lei è la prima
volta, per lui la seconda. Lei di cui so il nome a mala pena. Lui che fino
a pochi mesi fa sognava boschi solitari.
Avevo 13, 14 anni quando l'ho conosciuto / caffè, sigaretta; il tempo
di un errore / occhi chiusi, trincee di pentatoniche. Ornella sapeva
cantare, l'ho ascoltata una volta. Tu, alla chitarra; due toni sopra
Tracy Chapman, talkin'bout a revolution, e non bastava ad asserire il
sempre in quella casa - cucina, letto, bagno / le tue dita in cui
dirompe l'urlo del Mississippi. Era già allora come le foglie in
autunno / e le tue mani, come stanno le mani? Sono passati giorni di
riverberi come nuvole clandestine / incassare il colpo / amori,
amori, amori per lo spazio di una fuga. Siete arrivati l'altro giorno tu,
Antonella, le fotografie / fiori volti portoni paesaggi / ma è la tua
vita che vedevo impressa, i castagni, il dolore trafitto fin dentro i
tendini di operaio. Non ti conosco. Chi potrà mai? Sogno felice questa
strada, lunga, lunga strada serpeggiante. E vedo Emma, mentre
compra la frutta; Salvatore che sceglie gli sgabelli per la cucina. Vedo
mia madre che lucida i fornelli, il vicolo cieco della resa in fondo
allo specchio di ogni mattino - tu non le abbassi le
armi. Vedo mio padre innamorato che impreca lo stesso Dio di 26
anni fa. Non arriveremo mai a sapere niente di vero sull'amore, ci
ubriachiamo di illusione, perché pare
l'unica scelta sensata, la scelta di tutti. No, non ne sappiamo niente
finché non è perduto. Il desiderio cede
il passo alle direttive, la parola data alle parole soltanto - formalità,
convenzione, facciata - questo dicono in giro dell'amore. Amico,
spero di sbagliarmi, spero si sbaglino tutti: questo è il mio
augurio migliore. E che la notte svegliandoti di soprassalto, dove
chiunque vede un letto e una donna che dorme, tu veda il
rifugio. Un nido nella tempesta.
…e i vermi risero per tutta la strada.
Charles
Bukowski
Leggevo Bukowski - un piccolo libro a brandelli che mi diede il
miglior chitarrista blues che abbia mai conosciuto. Pagina 7:
macchia ad arco lasciata dalla tazza di caffè. Pagina 70:
Vermi -
e fu come guardarsi allo specchio. Volevo fare il poeta, ma i
miei tentativi finivano per essere solo aborti di parola, vergini di
ultime letture. Vergini, ma di battute strade. E lasciai il tempo
abusare di me affinché trovassi la mia voce, ma fu la voce a
braccarmi per anni - farmaci, parole, sangue che non cadrà in
questo buco nel vento. E volevo fare il poeta. Non è che ci
pensassi tanto. Era semplice. Bastava un foglio, una biro. Ora è
imbracciare un'arma, lasciare cadere l'altro capo
del filo, scrivere o i giorni soltanto. Lessi le notti bianche in due
pacchetti di Diana; Neruda dalle variabili copertine, Kerouac-
America-a-piedi-nudi; i corvi, i sassi, Whitman, Hikmet. Poi il
resto, sigillato in un barattolo di zuppa pronta, come imparare
da capo a pronunciare il proprio nome. Gli States
di vastità, l'Europa lontana dietro i vetri dell'insonnia. Agadir,
i minareti, i versi spediti per cartolina - poter dire
anch' io: questi sono i miei fiumi, violando diritti d'autore. Ma
quel libretto spaginato lo portavo ovunque. Quel taccuino sudicio
di impronte digitali diceva: ce la farai, ce l'hai fatta; ritenta, avrai
più fortuna la prossima volta. Perdiana, è davvero malridotto!
Come va? Ci sbagliavamo, eh? Ci sbagliavamo entrambi. Tu, ISBN
88 - 04 - 38947 - 8; io, di differenti cifre. At Terror Street,
come un amuleto; in chiesa, in autobus, nella sala d'attesa dello
psichiatra, all'ospedale - quanto tempo. Sembra assurdo
adesso, ma quanto tempo e che tempo! Il capogiro dell'istante,
l'insignificanza del dopo. Quante cose cambiate, quante
rimaste le stesse. Al posto del negozio dove andavo a vendermi
l'oro per la birra, ad esempio, e il fumo e la roba, aprono
una boutique di abiti da sposa. Al posto del tipo che mi fregava
sui grammi, lui, maledetto e la sua bilancia e la vita, la vita
che deraglia, ci sarà qualcun altro con la sua storia da raccontare,
le sue mura di cortesia per forza, e mura, mura, ancora mura. A
quei tempi me ne stavo zitto. I soldi erano soldi, ne avevo bisogno
e la pagavo cara, allora come ora.
Ovunque tu vada è la strada che conta - dice Fares, in un basso
francese alle mie orecchie. Non ho compreso la faccenda del
deserto - come avrei potuto? Ma so dove il deserto inizia: in
mani tese di bambini; so dove finisce: nei loro occhi. L'enfasi di
questo silenzio respiro. Non una sola parola devo. Basta
per impegnare la bocca un tiro di cristal légères. Mille notti di
poesia; in alto la data, il posto, e non un solo verso sulla
pelle, eppure poesia; poesia come la prima mai cantata, seduti
attorno ad una macina di pietra a smemorarsi, vibratile di accenti
e suoni altri mai uditi; nuova, più nuova ora che il giorno si fa
polvere di segreti cortili. Perduto in un lento caffè sopra rue du 2
mars 1934, non morto, non ancora. Quale il mio nome? Le
gambe, le braccia non mi spettano. Non c'è ora per i
comuni affanni. Che sono gambe, braccia? Cosa un nome? Nei
piedi la strada, e lievitano incantesimi, alchimie di antica misura.
E' solo la strada a valere la pena. Non aspettare che torni alla
palude del tempo ove ogni moto è vano gesto ad arraffare la
miseria del domani. Non aspettarmi, non farlo.
Oltre gli orti dell'orzo dorme il dio delle tende. E' lì che vado e
non mi fermo. Con queste mani a bere l'acqua delle rocce,
viva - quali parole dovrei, quale tacita intesa, segretamente! E
sarai sogno, terra di delizia. Balconi azzurri a
Sidi Bou-Saïd , sulla calce di case sculture d'ombra e fiori.
Mezzo dinar per un miraggio caldo di essenze e già i miei occhi
non mi ravvisano il volto, non più. Chi sono, non importa o dove
porti questa altezza di sale e pietra e madreperle. Sì, parole
dovrei possenti, ma come, come? Questa voce un sibilo appena.
Aiutami a dire la meraviglia: un'ora anche del tuo
canto, dileguandosi l'ombra, oh Africa, di una palma ritta contro
l'altorilievo dell'ultimo sole. Non è certa ma vera la
distanza - parola che matura, grappolo di datteri, adesso e si fa
piena e dolce a morderla e antica, più giusta, ora che
per la prima volta davvero la pronuncio.
Per una strada del molo di Port
El Kantaoui ho comprato un
anello: ne farò anello di poeta. Ma in questo giorno, distante
un'ora da Monastir di fiamme, lo sfilo. Lungamente osservo
il cerchio bianco intorno alla falange del medio. C'è pudore
in quel cerchio, rifugi duri di ombra. Così l'ho tolto - mi pare
adesso stella discosta, memoria che in sogno soltanto ritorni. /
In quei pochi metri silenzi a bucarci - aghi di eroina, varco di
rapide evasioni. Dietro i vetri, a due passi dal mondo, dita
slegate in superbe morgane d'amore. Scrivere è mettere una
lente su quel mondo; una lente,
affinché la gente veda. Ho le mani legate - credi la gente lo
richieda? Si sta meglio lì, bendati contro un muro… Affondi
un dissenso nel cuscino. Parla di questa terra, hai detto,
questa terra non ha più voce. Mi riesce difficile crederlo. E
mi racconti di Shams al Din Mohammad Shir?zi, poeta di
Shiraz. Vissuto700 anni fa. Si dice che due libri non possano
mancare in ogni casa: il Corano e il suo
Canzoniere. In Iran le sue canzoni le conoscono a menadito.
Chi fra due secoli, chi fra mille anni anche i miei esili versi
reciterà a memoria? E guardo il mio anello - sono un baro.
Oggi non ardisco essere poeta. Mani legate,
mani che quasi non mi appartengono, e taccio il fiore ardente
della ricerca. Fra poco partirai per Mashhad, varcata la soglia
né io né tu ci saremo mai stati.
Quando sarò lontano le parole saranno forbici a cadere
da lunari perduti, per tagliare i lacci degli aquiloni attaccati
ai miei polsi. Solo allora ti scriverò versi mai letti: sarà
respirarsi, ribere il miele antico, pronunciare i nostri
nomi di fila come musica fuggente di segreti interrotti.
In quel tempo che dire lontano sarà appena vago riverbero, ti
parlerò di me: fioriranno labbra, gli sguardi; per la prima
volta e ultima a dirsi - addio.
Non chiamatemi Elia. Il mio nome è - Gess o quello che
ti pare. 1460 giorni per cancellarlo dall'anagrafe
dell'anima; notti di bunker e rasoi. Non chiamatemi Elia;
ha fatto i bagagli. Di lui non resta che l'agile gesto
di una penna a sfera sotto una vecchia poesia, riverberi di
facile rima sbalzati in un'aria di vetro. Forse non c'è mai
stato o, se c'è stato, è polvere adesso, cenere di foglia
riarsa. Noi tutti, non chiamateci per nome. Noi, Luca,
Virgilio e Laura e Veronica. / Ore 16 e 30, la finestra
accostata, 3 ultime Stuyvesant lunghe, il foglio - palmo di
mano aperto a rendere, a caritare un morso di parole. /
Non sono Elia. Il mio nome cifra di voci intruse,
equazione di cerebrali naufragi. Il mio nome è - assenza,
defezione; parole che prendo in prestito da pareti di una
stanza in ospedale, lemmi dai diari della graforrea. Il mio
nome - labirinto, nessuno, uno qualunque. Ma dire Elia
è tornare a invocare le muse del suicidio - è pure strana
dolcezza, anamnesi di un male di vivere e, di aver vissuto,
l'estasi e la fame. Dire Elia, Alessio - è ginepraio di
miraggi, pronunciare il passato, cercare i passi indelebili,
ahimè, vivaddio, impressi sull'acqua antica di un
battesimo. Tu non sei Pietro né Angelo o Salvatore, Luisa.
Cos'è Paola? Cosa Lino? E i compagni mi chiamano
Olli. Ehi Olli! Come va, Olli? Quanto girare a vuoto nella
foresta di cristallo del pensiero, in cerca di uno spazio
dove dire è finita, è finita la fuga, ma il tempo appena di
ingoiare il miele di una illusione. Soli, nati soli, ma
catturati insieme. Come va, Box? I nostri nomi, tutti i tal
dei tali, rubati e dispersi, ma talvolta vibranti come pause
di uno spartito, ancora; mezzi termini per la premura di
una menzogna. Dimenticateli. Io non sono Elia, tu non sei
Elia. Il mio nome è x . y. Tu, non sei Francesco. Non sei
Rosanna - una rosa bruciata.
- uomini -
Gli ultimi dieci contro il muro, signore.
Ecco come è andata: fuoco - e correre, avanzare
oltre.
Il tempo nemmeno per pregare il loro
porco dio. E le case, le case le abbiamo
bruciate.
Ho perso tre dei miei
uomini migliori, ma è il giusto
prezzo, il giusto prezzo. / Uno di loro,
un tipo smilzo, se l'è fatta sotto, prima che
gli tagliassimo la gola da parte a parte. Certo un
poeta, un predicatore, insomma…
da parte a parte con le mie
mani. / Abbiamo portato le donne in un
capanno lungo il fiume. Alcuni scovati nelle grotte sulla
collina. Pure loro abbiamo ammazzato,
sciolta la lingua della mitraglia, come
sparare ai pesci in un barile, signore. Altri acquattati
nei campi, un gioco da ragazzi. Un tiro al bersaglio
e giù in un fosso di rogna.
E i bambini, i loro bambini
/ gli ultimi dieci
contro il muro, poi in marcia verso un altro villaggio. /
E' tutto, signore.
Bene soldato. Bene, davvero. Ora con gli altri -
in fila per la medaglia.
Per Anna Di Cresce
Dietro il velame ai vetri un delirio di morfina faceva il
tuo corpo esile Alice dentro lo specchio dei giorni - gli
ultimi, avremmo detto poi: impercettibile voce a fare da
schermo a noi ragazzi. - Ditele che l'amo! Dite ad Anna
che l'amo - formula magica, amara fra le dita. Un
silenzio almeno, ora che il tempo mette lenti a divergere
il resoconto di una genesi, di una fuga. È silenzio che
devo. Ahi, la galera degli istanti, anch'io cercando
infinito un varco non vedo, ma l'ultimo letto di saliva e
grida. Nuove notti e venti e piogge - la vita va,
nonostante tutto. Chissà dove altra festa, fuochi perduti,
strade e brusio di passanti, lo scoppio di colori
in cielo, arcuati. Era marzo, di lì a poco avremmo
spento i focolari, e salivano da mani antiche
babeli di fiamma e sogno. Quante volte ho ascoltato la
storia, la tua Gerico di dolore - non domanda
verbo ma labbra serrate, il silenzio servo della poesia
soltanto …Testardi i giorni. Un vagabondo uomo di
polvere, gioco sognante di ragazzi e poi nulla / nulla? -
due sillabe che mi tremano nel petto, tanto articolate da
farsi vive intorno. Io non le consento, le cancello con
gesto incerto di cigli, e seguito a dire e non dire, mentre
una mars dura ridesta nella stanza il tuo odore di
persona, il tuo odore maledetto che dura anche in queste
mie mani inermi, innanzi all'aridità della pietra.
Solo 4 anni fa tentai, come potessi con grafia novizia
ingabbiare l'avidità che tiene stretti al patto della
vita a tutti i costi, avrei imparato altrimenti, più in là. E
tra noi resta il segreto: quella poesia tentennante che
intitolai - "il principe delle scimmie". Non cambio il
titolo: segno della tua nobiltà - il dolore che ti è valso il
don reverente non sbiadisce sulle pagine di seta
lacere dell'anima.
- frammento di lettera -
Vorrei poterci non credere, Carlo, a quella frase sputata
come una sentenza - la vita è una merda. E noi siamo pieni
di vita - verosimile e ultimativa nel vetro di una sera di
estate. / Afa. Le reticelle calate. Il telefono squilla tenace,
poi muto. / Chi fu il primo a dirla non importa. Il
punto è che non vorrei davvero crederci. Ma sono vivo,
non posso negarlo. Sono vivo, lo confesso. Anch'io come te
fatto di misere cose deperibili. Sono colpevole. Colpevole
di gambe avere e braccia, di portare mal cucite addosso
enormi ali di cera. Uscire da questa voliera implica
pentirsi del proprio intestino, del naso e la bocca e gli
occhi sorpresi a rubare - a rubare un tramonto, una fibra di
cielo. Non ne ho il coraggio. Sono una persona. Lo
ammetto. Non me ne pento. Anch'io come te le mani mie
già tese ai diesis dello strano pianoforte della vita. E non so
dove né in che modo incominci il crimine di vivere.
Giorni di risalite a convergenze di venti contro, forse; lì o
nella strada che sta nei nostri piedi soltanto, verso un varco
e ripartire. Ma a quegli spazi, gli altri, lo sai, non ci si arriva
in auto o in aeroplano, né passo dopo passo o in treno, con
il mondo che pare lontano e invece ci sei dentro, lo
attraversi… vale stare fermi a volte e riempirsi i polmoni di
polvere, scrollarsi dalla giacca il tempo che l'orologio non
controlla; da uomini - umanamente. Anche io come te,
senza discriminanti. E sono felice, ostinatamente felice. Sì,
pure di questo mi si accusi. Sono un uomo. Sono felice
e non mi ravvedo della dovizia del mio sangue né della
nicotina che mi ingiallisce le dita, del molare marcio, della
lingua che ride, dell'orecchio che ode, delle labbra che
imprecano e sciolgono lente viole di preghiera. Io piegato al
sacramento dell'ira, dell'amore - come te anch'io. Pieno
di vita, ora che incerta è pure la carità della morte.
Mirka passava lo straccio sui tavoli di fuori. Ferenk ed io
a soffiare con la sigaretta cerchi leggeri. Non era facile
intendere il suono delle nostre voci in quel frastuono di
cicale / tonalità di tressette. Inventammo gesti anche per
mandarci al diavolo. Mirka rientrava, mulinando lo
straccio contro le mosche, scagliava familiari - perdio! /.
Ora che erano via i vecchi compagni di buco poteva dirlo:
io non appartengo - persino gridarlo. Lui, Ferenk. E
tornare al suo dio di pietre e ruscelli, al rito purissimo di
barbe di vitigni da scalzare. Le dita, le tasche libere infine
da tutti gli alfabeti /. Io li temevo i sodali della notte, a
mordersi il culo a vicenda per anni, ad annusare le pareti
di una oscurità ferita; l'anima una rogna. / Ora Ferenk
poteva cavarsi di gola la cifra nulla dei loro nomi, anche
per me che me ne stavo zitto. Quale incanto il sole calato
in una tazza da tè! Si aveva tutti un cilindro di ruggine
tirato su per il naso, allora. E salivano i vespri e il ringhio
nudo di una ruspa dalla galleria; il mondo un filo di
vento nei bagni sudici di una stazione desolata. Era tempo
adesso di lasciare il verme della vita deporre uova, diceva.
Ma l'odore vivo di quei giorni sussurrati, senza fretta,
senza meta, no, non perderemo; gin al banco ed aspettare
qualcosa che non arrivava, mai - era spazio per sogni di
fughe inarrestabili, oltre il filo spinato. Quei giorni - non
li dimenticheremo. Ci compriamo una barca, dicevi, ce ne
staremo così, con l'acqua che ci porta lontano. Pensavo -
sì, sarà bello. Gettavo a terra il mozzicone. Ma Ferenk se
n'è andato un mattino, senz'avviso /rame di uccelli rapidi
in volo/. Non ce l'ho con te - vorrei dirgli. Ho capito,
amico. Sono un uomo ormai, ho vent'anni. Si dice in giro
che sei diventato un poeta. Alla fine gliel'hai fatta vedere
a tutti. / Sii uomo, disse tuo padre. E un baleno ti passò
puro per la mente - sarò uomo, anzi, farò di più /. Te ne
andasti. E sei poeta adesso. Corri tempo, corri a piazzare
la tua tagliola. Non lo raggiungi Ferenk sulla sua barca.
Corri, tempo, corri . Ferenk non ti appartiene; a nulla
appartiene. Ha disertato. Oltre il filo spinato i giorni, il
fiume / nuvoli sereni scorrono nei miei occhi, lentamente.
The Wild Swans at Coole
W. B. Yeats
Ritornano alle ombre cinesi le mie dita sul muro ferito
della stanza. Come in quella poesia ringhiata su un rotolo
di carta di bottega. Tornano. Sono i cigni selvatici di
Coole adesso, nella mia notte di tabacco bruciato. Notte
cenere e vento d'estate che fiori stracci sciolgono il sigillo
del tempo, come lettera cui togliere la ceralacca e
trovarne cieco il foglio, infine, a dire più di quanto si osi
cercare. Distinta dietro i vetri la pioggia soltanto; niente
che pronunci, seppur vago, sognante il tuo nome, il mio di
fila. Non ho amato mai. Mai. Lasciatemi così, con le mani
a fare e disfare. Ho il bacio di polvere dell'assenzio
appena colto che non mi lascia ammettere di essere finito.
Ho l'ambrosia mortale, il fiore di loto per l'equilibrio
dei lampi, dei mari. E i cigni di Coole slanciano i colli di
vetro di Murano nel silenzio che si fa urlo animale, si
riversa nell'occhio della pipa d'argento. Valeva la pena
conversare con la luna di San Lorenzo, fingersi un altro
battesimo. E tu che sei? Pure tu ombra delle mie
dita, carne della mia anima sorda. Sì, questo e mai più e
un flauto di parole spezzato nel ventre a forza di soffiarci
musiche proibite. E fu presagito il crimine di amarsi…
ci tagliarono le linee che passano nel palmo delle mani,
incognite geometrie di sentieri. Fu allora che
proferirono menzogna il nostro mistero in bocca ai cerberi
sitibondi di sgomento. Tacete, anelanti ribeche di infamia.
O fu gioco e tu giocatore puntasti su un cavallo
troppo antico per essere sellato. Perdesti una corsa ed ora
correre tocca a entrambi. Correre due lontane strade. Ma
io mi fermo, forte adesso del distacco, e ti vedo,
sono io a darti forma. Il sessantesimo cigno ignorato in
quel distante autunno d'Irlanda. E incurvi il tenue
collo a bere l'acqua dolceamara di un addio - delizia di
un risveglio. Per vedere, poi, che sei volato. Via…
Ho visto un uomo masticare radice secca di robbia,
passando sulla variante dei centri commerciali.
Tornavo di tanto in tanto alla pagina del libro aperto
sulle gambe / Canti Orfici e altre poesie /. I gabbiani
sopra i prefabbricati sembravano aerei da guerra.
Ho visto un uomo, dietro gli occhiali presi alla pesca
missionaria. Era Dio, un folle, un vecchio mago
sapiente; masticava e sputava a terra. Dalla saliva
spuntavano libellule. È così che nascono, allora. È
così che i sogni nascono, i pensieri, si fanno
presagio, altare di vasta preghiera. Il sole è una palla
scalciata di fuoco al di sopra dei tralicci - possenti,
nude farnie di metallo. L'auto davanti riparte.
L'uomo resta dietro. Un tossico, un santo forse,
o mercenario di poco amore. Io più solo a ripensarmi
adesso. Se mi voltassi, lo so, ci sarebbe al suo
posto il vento soltanto, il mozzicone ancora acceso
sopra l'asfalto unto di incerti riflessi cangianti.
Passiamo l'ultimo motel. Tempo non c'è di fermarsi,
tempo per tendere la mano. Filari di mele
mature, campi bianchi si staccano dai vetri chiusi,
dagli occhi, lentamente./ Radiogiornale: è l'ora
dell'atto di fede, mettere in bocca un'ostia gialla di
olanzapina, per la piccola morte e la vita/. Si torna
dove il nome di dio lo si impara nelle bestemmie dei
giocatori di taverna. Ma i miei versi, come le parole
di Dino Campana - in fuga, urgenti di sconfinati
naufragi. Di lui non ho l'unghia, le stanze del giorno
più lungo, la più lunga notte; l'odore nelle mani
degli infermieri. La mia voce rompe vibrando nella
mia boccia di vetro, muore a volte. Perché viva -
libellula di sputo nella vena degli occhi, ancora. Non
la catturi nella rete delle mani.
Spilli d'argento dagli
occhi, senza rumore - come stelle
che graffino una notte confusa di nuvole e fontane.
Non si vede più. E' l'amore - cenere di maestrale,
furia di respiri: l'amore che finisce. Tu, corpo di
innesti androgini, scorza di volatili graniti, da che
terre, da che naufragi portasti, con eco di fuoco
e lame, alla mia carne? La tua bocca stringe silenzi,
ma il bacio del rum brucia le labbra; il tuo bacio,
il tuo pure. E mordo il cerchio feroce del vetro.
Bevo, lentamente. Ti fai distante; distante il giorno.
No, non è scienza di numeri l'istante di un incontro.
Scrivi altrimenti sul mio palmo la formula,
strapperò fogli, i sogni. Oggi mi pesa la sillaba più
lieve. Eppure insisto in genesi di voci,
mentre domando l'equazione che fa gemere i
ciliegi. Rendimi almeno il gesto della mano: la mia
che cerca vita, per il tempo di un errore. Ora che
siedi al riverbero dello specchio a farti antica
l'anima, chi sei? Chi sono. Amore che fu fischio di
treno. Amore, amore saresti se io fossi. Ma torno
vergine a mietere grani di fango. Portami in un
giorno di sole, dove fiori maturino iperboli di canto;
via dall'urgenza di aversi. Levati al vento
alto, canta tu pure, piccola donna. E per un baleno
ancora tenersi, iride a bucare il nero dell'iride. E mi
perdo in un bacio non dato, nella parola
che trema appena e muore piano nel bicchiere
vuoto che gemma improvviso, sublime
l'ultimo fiore di loto.
- l'autunno di Ikuy -
Da che segreti cantoni della notte risuoni
anima mia? Mi vesto di richiami ardenti, foglie.
E sono nudo e sono muto di spazi smisurati.
Sveglia, dolce Ikuy. L'autunno ti accende di
rossi di attese. Stanotte i sassi dei nevai bruciano
antichi di muschi inestimabili; vieni a vedere.
Non c'è furore di venti; immobili i castagni
contro il cielo. Da dove, anima mia, goccia a
goccia? Ho un seme di polvere piantato nel
petto, ho una lacrima nelle mani, per lasciarla
cadere. Dopo la pioggia la gente varcherà i
cancelli, dopo la pioggia mangeremo funghi
nelle nostre cucine. In tal misura semplice dire -
io vivo - adesso. Prendi la mia mano, respira,
seguimi; si può gridare, si può credere ancora, si
può… amare. Parole ti scopro, nate dietro un
vetro. Mi fa male il vetro, si va oltre solo con lo
sguardo. Non basta, lo so. Ma il vetro non
arrugginisce mai, come una poesia che presto
dimentichi, il vetro è sempre lì, lo puoi
toccare ogni volta che senti, puoi spezzarlo.
Trafitture, aculei i versi scritti sopra un filo
d'erba e simulacri di vita, mezze bugie, verità
per una metà, almeno. Anima mia vibra
per lei. Anima mia, per lei soltanto. Ikuy, un
gelo ti sbrana. Ma tocca il vetro elementare:
freddo, eppure fiamma. È viva la vita, io ci
sono stato. E svendi la distanza del tuo volo.
Siedi con me; sotto la cenere piccole castagne.
Questi i vasti odori, queste le botti dietro i
portoni - ricordi? Il tuo autunno, Ikuy. La foglia
cade nell'acqua, il filo d'erba si piega; non lo
calpesti -
Fra le labbra
il crisma dei tuoi sensi: parola antica,
mai detta. Avrei cercato il vecchio libro di Jiménez,
ti avrei letto versi d'amore. Non l'ho fatto, non sono
quel genere di furfante: arma il bacio, per non
ferirti. Ora potrei con le dita innalzare un sogno ché
sia concesso a noi un lento sfinirsi. Baciami. Non ho
medaglie al valore; guarda le mie mani - non sono
ormai poeta neppure. Questi i miei giorni: mezzi
rum, passi e passi. Nient'altro possiedo; le fibre di
poche voci legate a corda sui miei polsi dalle chiare
vene sottili, a stringere, a tagliare; voci: non ne odi
riverberi. Baciami. Non posso dirti di me il vento,
ma il furore della malattia, la traccia dei naufragi.
Non chiedermi chi sono. E ribevo l'assenzio del tuo
dolore, del mio che chiamo vita e sento il treno
passare come sogghigno che laceri la seta della
notte. Repentino il silenzio, la tua bocca ne rilascia il
gesto. Ti ho chiamata musa - sbagliavo - né dea.
Sei di più: sei donna. Evidenza di sogni, timori - ne
ho anch' io. Le mani tremano; la mia sete disciolta
nel tuo corpo, l'orgasmo della mia lingua penetrato
nel tuo risveglio. Non una sola parola d'amore. Ci si
lascia andare, se non proprio a vivere, a qualcosa
che somiglia alla vita. E tu lì, nella tua stanza -
facile distanza dalle stelle. Pura come una puttana,
come una madonna antica. Mi divori il respiro. Ma
pur privo di fiato e voce io ho vento, e grido che
t'amo e muoio e muoio e t'amo. E tu mi sfuggi e ti
allontani un bacio appena. E allora baciami.
Baciami. Baciami.
Ancora.
Tempo, forse, per una poesia - nubi e sassi, voli
sospesi ai campi della sera scagliano vividi richiami.
I comignoli fermi contro il nylon dei cieli. Tempo
per una poesia o silenzio di fuochi di foglie, e il fiato
riunire a sogni di fantasmi, quelli della mia terra
antica di orti di ulivi, tufi scavati dalla pioggia a
cifra di nidi rarefatti, terra di crode di fichi d'india -
cattedrali di colore lungo i recinti. Tempo viene per
rubare una voce. Come i poeti che di scrivere non
c'è verso, vado fino al vecchio muro delle lucertole.
Il naso all'insù a vedere, a raccogliere le messi
superbe. Ha pensieri di nuvola il poeta. Ma siede a
scrivere nelle tue mani presagi di altezza. Ci
vuole anima, ci vuole carne per essere poeta e un
pugno di polveri che spezzi il vetro di ogni cautela
- non temere la caduta mai. Ho legato i miei occhi
agli occhi degli altri - perché imparassi a vedere;
occhi per prendersi il volo acerbo. Fughe tentai nel
fondere di una lacrima di cera dura al
pari dell'indifferenza. Fughe tentai in arpeggi di
poca luce alla mia schiena. Ma io posseggo il sogno,
il terrore acuto, io posseggo il mio cammino. Ho
perso ormai il conto delle muse, le lune…
Sono uscito a respirare con i castagni, fino al ronzio
dei corbezzoli, oltre il camposanto. C'eri tu pure,
compagna, hai fatto un fascio di fiori di campo per
la tomba di mio nonno. No, non è malattia questa
gioia improvvisa da far male. È la vita che rompe
in ogni fibra. E' la mano che stringi a spaccare il
vetro. Forza, poeti! Lasciate il foglio. Non vedete in
questi cieli le odi, i sonetti? Ecco la poesia. Non la
scrivete. Mai. Ma la tramandate di fuoco in fuoco,
di sangue in sangue, sottovoce. Vasta e la contiene
una scarpa che calcia una palla in alto, in alto che
quasi sparisce - è la vita. E tu uomo, uomo di ogni
tempo - sotto questo cielo più nobile, a guardarlo
adesso.
- il vaso di ferro -
Che ci sia o meno una porta dietro la terra
messa a chiudere quel buco - intravista a fiato di lanterna
una notte, da una feritoia. Lì, verso i campi lasciati alle ortiche,
dove la mia gente trovava rifugio. Era
il '42 o giù di lì - passavano in alto piccoli albatros
di metallo. Pioveva fuoco ma si moriva
per il freddo. Che la porta esista o meno, poco,
poco davvero conta. Ma vale il seme che
ogni favola ti lascia nel pensiero. Voi
che cercate e non sapete di avere. Che cercate voi?
I giardini segreti perduti, i castelli,
tesori di pirati - avevamo 8, 10 anni; tu davi
il primo bacio. Erano mondi, universi i
vecchi cortili. No, se c'è una porta io non voglio varcarla.
Andate, voi, con croci e vanghe. Io resto
qui. E chissà che qualcosa di
prezioso io non l'abbia già mio. Ora voglio riempirmi le
lenti di sole. / Siamo andati fino
alla Madonna della Cava, più in là le ultime
terre di noccioli. Luce. Foglie. Le nostre parole. I
nostri occhi. Il vaso di ferro trovato tra i rifiuti
da tenere come il più antico dei tesori - non è forse fiaba
e vita, non è forse ciò che sta dietro ogni porta
chiusa? La vita ci prende d'improvviso.
A volte ha la forma di un vecchio vaso di ferro. Io
lo credo. Tu? Tu e le tue piccole mele nei cesti sopra i tavolacci...
C'è più poesia in una zolla di terra che
in tutti i versi scritti nei nostri quaderni. E l'amore che ci
fiorisce sulle bocche come una canzone. E la canti,
e sai cantarla e ci vivi dentro per anni. / La mano di smalto
asciugherà durante la notte. Ho comprato un pennello a punta
per i ritocchi. Tu chiamerai. Ti dirò che è stato bello fare l'amore
senza esserci nemmeno sfiorati.
Sono le ultime parole, le ultime parole, amore -
i miei soliti passi nella cenere, le cose che vedevo. Ma te non vidi sbucare
dall'ombra, farti pura come sillaba e colomba: non ci fu modo
peggiore di ferirsi. Vedevo alberi/tetti/case/volti, la musica
nelle mani. Sono le ultime parole, le ultime,
infine, amore. / Dove porta questa notte c'è una città barricata dietro
una luna iridescente d'inverno, dove porta quest'onda di buio
rutilante; era il grido di dio sui tuoi seni, quel
giorno che gli autobus non partivano… /
Torna a casa adesso, non ho più niente da dare. Torna a casa,
non telefonare. Resto, nemmeno certo
di essere solo, di appartenere a me soltanto. Ma ho
la tua coperta colorata sul letto, mi
basta per tenerti per mano. Sono le ultime parole.
E sei pietra ora e sei silenzio
fin dentro la mia voce. Più di prima non ti sento e mi
attraversi come questa poca luce e la
tenda. Carica la Moka, metti su i Verve, perché è vero -
è un'amara dolce sinfonia la vita. Ho voglia di bere, rivedo le fotografie,
ho voglia di bere, sfioro la coperta made in India,
ho voglia di bere. E non ci sono e non ci sei e non sai: è difficile
imparare a cadere. Non capisci come amano i poeti. Non
parlarmi di nomadi lune, non parlarmi di nubi e cattedrali, no.
Taci, tu, possente riverbero del mio respiro. Taci:
non c'è urgenza di parola. Questo silenzio per noi soli sottenda,
irto di spini, seppure, il getto vergine dei rosai. Sono le ultime
parole lanciate all'anima mia, un gancio - e verso la tua
pace per un lavacro puro di questa distanza che ci mette vesti e cerone
di mimi, questo amore che ci adorna di orpelli obbrobriosi;
parole versate nei bicchieri. Ma io ricordo che eravamo nudi. Io ricordo
che avevamo sete. Che siamo stati - vivi.
Amore, amore… Anni avevo e voci e istanti quanti puoi
contarne per essere felice. Amore, amore. Ho un orologio fermo sul
polso, adesso, fermo sulla fine del mondo. Ho il peso
dell'inverno nelle vertebre. Ma questo tempo chiede che tu, che tu
almeno, non dimentichi. Ahi, un bunker di incanti avevo:
spazio per la mia devozione al silenzio; per inventarti
stelle di vetro gemelle. Ora la ferita del vino sul labbro, ombra
che mi ingoia il sogno./ Di' che mi odi e ti dirò che t'amo. Di' che
si può forse anche morirne./ Ma un sole inatteso
si accosta alle finestre, l'ombra mi sputa, mi raccoglie,
mi bacia. Chi non vive non muore mai, dice
Fernando, mulinando il suo bastone su cui poggia il cielo...
E' un bel giorno d'inverno, ci è concesso
l'urlo, sì. I ragazzi corrono in strada, quasi
a strapparsi da dosso i
grembiuli. Le serrande degli alimentari fra
poco saranno chiuse. Mangerai pane e frittata.
Tornerai al lavoro, per fuggire il pensiero. Per fare di una retta
un cerchio. E scaraventi sorgenti dagli occhi: è così che
asseti l'anima mia. Ma in te ritrovo porto e naufragio, io,
malaccorto sciabecco, intravedo l'isola delle
tue iridi. Che ne è del tempo? Dov'è che va a finire?
Però conservi la bottiglia di rum vuota, come una clessidra - è
forse lì l'istante, l'ora? Chiusi a prendere forma come
acqua preziosa che non abbeveri, un portentoso oriolo che volti e
rivolti per cercare il mattino. Verserai pure queste mie mani nella
tua lingua antica, il gesto che è nel bicchiere, mai
nella bocca. O lascia la mia forma silente e un amore, hai detto, in
cui credi; forza di vita. Insegnami come si fa. A credere,
a morire, perché non muoia l'amore. Mai.
Per noi, Cristina.
Anche le mie mani possono cantare. / Sotto la polvere
da sparo, scrivo - fuoco, e non c'è tempo nemmeno di metterci al
riparo. Le mie mani possono stonare, stonare
meravigliosamente. Hanno lingue di fuoco, corde di
neve e silenzio. Le mie mani sanno contare stelle, ma di rado i
numeri servono a qualcosa. Polimnia, Erato -
ombre perdute: è sufficiente un buco
per inventarsi una nave
spaziale, lune riflesse di maggio cangianti, una danza
di maghi ermafroditi, un mulinare
di foglie nebulose polveri.
Basta dire - io sono - per appendere uno
specchio alla parete del mondo. Scrivo mare e mare è
nostalgia, è un nome; plasmo uno sguardo
stanco di luce, implorante una musa
che a noi fa tremare il fiato.
E una cifra che vale, una data - 29 gennaio
1909. Annega con me in questo mare, per dirigere
l'orchestra dei venti. Ho
imparato a pronunciare: syn phoné / formula
magica / a sognare più forte di
questi alberi antichi. Le mie mani trovano le tue.
Torna a chiamarci la via dei gabbiani in sillabe sparse qui e là che,
se le mischi, danno parola nuova. Ma l'onda resta
frantume di cielo sulla via che
ci offre nel pugno fiori di stelle. Si vive, amica,
si vive, davvero! Pensa, si può
persino morire… E tu vivi, e tu muori. E io,
istante per istante. Giorno per giorno. C'è una porta in
quel muro; e un uomo può essere entrambe le cose. E' una corsa.
Ma non resti indietro. E' una follia. Ma quando verranno
a chiederci il conto, che bello sarà dire - questo è il mio sangue -
I miei transiti ancora / l'istante fermo sopra
la vecchia singer. Scaglio un pugno di graniti nel cerchio
delle ceneri; ahi, i nostri cavalli imploranti -
erano venti. Ora finestre chiuse. Ma il
Getzemani ha olivi di pianto. / Il tramonto nel carro di
Lucia - hai udito passare? O forse colomba -
hai udito? E i Navigli gelare in
cristallo neutrale, con spasimo di preghiera e
nafta. / Milano ha sogni, ritardi
difficili alle disarmonie
dell'anima. / Non canto Milano.
Non canto la morte. / Non
è albero, Dio. Né mirra e taglio.
Ma respiro e pascolo di erba chiara e
luminosi nembi e tuoni come
grido possente di marea. Non è pietra: sono
mani e un rosario spezzato fino
a versarsi di luce. / La
macchina per cucire ha tarli
recenti, lividi di ruggine, malgrado il restauro -
la lancetta riparte, alla fine;
illusione o meno, il tempo ci assegna
il numero. Si va, come bestie
al giogo, a testimoniare
la fatica di vivere. Mille bocche adesso muovono
insieme a mille bocche; occhi come d'autunno il
castagno le foglie. Qualche mano
forse carezzò il capo a entrambi.
Mani bianche di madri, nonne, zie, fratelli. Mani unite nel
gesto della rosa bianca. / Nel torrente guizza l'ombra
del fiore di mandorlo. / E i miei sguardi passano dall'amore
al delirio, tra le vertebre dello sconforto, all'infinito che
scorre con me. / Li Po intese che non c'era nulla,
infine, da raggiungere nella vita. /
Per fare una finestra servono i tuoi capelli, Orsola. E
un ragazzo abbastanza vivo per montare i sogni
o, come talvolta ho udito chiamarli - i vetri. Ma per farti
la voce occorrono fiumi, giorni, lampada e rosa.
Disincanti, gli amori, le solitudini. Lo sgomento dei
cieli chiusi a nido sicuro di colomba.
Il tormento che culmina in delirio e canto. Fuga
che pervade. E che evade. / Non c'è
whiskey stasera, ma pioggia; telefoni
nudi dentro l'argilla di un evadente silenzio,
quasi sparo, e crescono
rose selvatiche sui tuoi seni /.
Ho le mie ombre da portare adesso. E altre
ombre da scontare; per amore, solo
per amore. Fino a non capire il gesto della
cenere. E proseguire fra i labirinti di
straniere forme e altissima
preghiera. Ma una visione sul tuo collo, i
titani intorno, per intendere infine il mistero del
granello di sabbia. E vorrei
fiato ora, la tua illusione viva fra le mani
inermi nei guanti mozzi, innanzi al magnificat
della tua bocca - da costruirci sopra un
faro. / Per fare una strada servono i tuoi piedi
fermi nei sandali di poeta; campi di tabacco assolati e
tempo, tempo per una voce che tremi di paura
mai, ma di vasto fermento. Ecco il mio sangue, semina
i treni, le fenici con il naufragio della parola
pura, perché trovi fiori da respirare. /
Taglio il tuo canto antico in metà asimmetriche
come limone perduto, e ha riverbero in me e sussurro
il presagio della vita. Come presentire
una difficile innocenza. /
- a Beatrice Zannini -
- la rosa involontaria -
Non è facile fuggire. Ti ricopre di sputo, talvolta,
l'amore, il non-amore… la vita. Tantomeno restare, se una
mano che accenni ti spezza a terra come un vaso
di creta. O non è amore, no! E' la mia scarpa che spaccava
il coppo pensoso - salivo sul tetto
per fumare di nascosto. Salivo a raccogliere il
metallo cobalto di una rondine intenta. C'erano
un tempo nidi,
alveari sospesi ovunque come desideri. / In
quale nube o naufragio di materia,
Mnemosine, contro quale muro caccerò l'urlo
dei miei pochi giorni? - e dei miei
tanti amori - Quali
diapason vibreranno del mio sangue
con il mio sangue? Del mio vento con il mio vento?
E degli inverni e le
piogge, degli albereti alteri,
e le bottiglie frantumate e i vetri da
raccogliere come cereali a
mani nude, e rasoi? Io dico: alcuni.
E altri verranno per chiedere
un mestolo di questa minestra di vetro e di terra. /
E lì, in alto, dove non poteva
braccarmi
il terrore, pensai la mia prima
lettera d'amore. Ahi, proibito amore, come
ogni sicuro amore;
per anni e anni delirio e lode - mi
pare adesso che non sarò capace in avanti di
amare così. Ma per un'ora,
infine, per un'ora almeno, io ho amato. Pertanto
via tristezza! Scolora, malinconia! E tu dolore,
fatti piccolo e sta' buono. / La luce si
stende sopra ogni cosa - lino ruvido alle
mani - O… non è lino. No! Ma gemma
di melo / il vecchio albero segato un mattino -
memoria cullata nei dormiveglia; le rose allora non
erano di plastica. Ora? Ora neppure; involontarie quel tanto
per credere in qualche iddio di purezza. / E la vigna
di mio nonno? Anche Annibala
se n'è andata. / Vedi? Nel giro di un attimo
si è già spenta la candela. E dico: amica, fratello, restiamo
al buio un secondo. Nel buio ci si accoglie completamente /
o a flebile fiato di carbone / come il cieco ci
insegna a decifrare il silenzio. /
Sento adesso crescere in me non il tuo nome,
ma albero spoglio che si freme di flauti antichi. E mi confesso,
infine, che mi lasciasti il seme in quegli anni di
faticoso abbandono. Risolvi il mio dolore, la paura
che mi stanca le mani, intanto che ridò
nome alle cose, fervente di una vita che mi
riduce a sete accorta, per
esaltare di un silenzio insistente
le più poche ore. Rendimi sogni, presagi di attesa.
Dammi parole per questo sangue infinito,
per questo cielo indistinto; tu, che
hai fra le braccia il moto sferoidale dei pensieri dei
poeti, dammi parole per
un presente vivo, benché distante
come ogni capace errore.
Mi confesso/ il contadino e la terra,
al mattino/. Ho rivissuto dolci follie, incuranti
amori nel respiro di un istante. Ho
abitato vecchie fotografie,
pianoforti di lunga preghiera. E
mani di tipografi, sgabelli
di musicisti. Ma non è comprensibile
definire casa la cifra di una partenza; non ho
più certezza di uomini, ormai. E portami
allora una sillaba chiara che mi trabocchi di pace gli
orecchi! E fermento di vaste uve dietro
porte di scalcinate dispense, la seduzione
delle polveri arresa alle labbra. Ho
costruito nidi di pioggia e di acquavite. Non mi
rammarico di non avere ancora fatto, con queste mani, una
candela./ Ricardo Neftalí e una scopa più dura della
notte di Eleusi mi spiegavano che la vita è
spesso sterile chiaroveggenza./
Lo sgomento di averti fuggito un solo istante
decreterebbe in me fede di ricerca, ma il rimando di ogni
dissenso mi conta addosso nuvole e ferite.| Dio! |
l'amore che mi confonde i limiti
è un grano senza intento. | Diventi ferro
battuto il mio respiro. |
Ritrovo fermi nei cassetti, pesanti e inutili, i vecchi
orologi.| Lascia che notte sia, abbiamo
adesso ogni fiore del tempo. | Così
prendetemi le impronte,
mentre che cammino sopra i pezzi di vetro
di un mare d'inverno | lascio cadere
un capo del filo - fonte di
diletto l'omero della deportazione -
Dichiarate voi cos'è
questo cristallo inarrivabile che sta
tra una sillaba e un
silenzio del poeta. È forse il sonno
dell'allodola stanca |
di cantare | e chiede solo che gli si tagli la gola. | È forse
preghiera. | Avessi il sogno almeno per
ubriacarmi! E invece ho una bottiglia da 50
centesimi piantata nel sangue come un
errore. | La vita non è facile evidenza, la vita
non marcisce sopra un foglio
a quadretti… | Uscite dalla caverna! |
Sui balconi di Petrarca cresce un'edera di
follia. | Ricordo celebrazioni di luna,
ricordo pioggia sulle labbra e olio di pietra e treni.
Ricordo il vento respiro d'iddio. E non
c'erano specchi, ma fuochi e radici a tradurci
l'universo e le distanze. | Mi hanno già chiesto il conto. |
Ho detto: fratello, anche un narciso può essere
una croce. | Così prendetemi le impronte |
del canto. |
Tu non sai che scontento mi aggrovigli | ancora
che parlo con il vento, e da qui si può portare nel coltello
all'orecchio di Van Gogh | e alla sedia
resta e al pane un disagio delle mani. | Dovrei
sedere. | E poi? | Che importa. | Sono
così stanca che potrei |
innamorarmi. | Bashō intreccia
spine al filo dei giorni, nel vigore pletorico
delle figure, per il tempo in cui,
vetro spezzato, riverberi la misura delle mie
scarse germinazioni | o lento il
pensiero della lampada e
la rosa. | Ardono i versi: so che
sei fuggito. Ardono | che sono ancora
un odore di nubi a rubarci la
fame. | Ah, mordere
l'ardire del nuovo… | Lo fa Iddio,
ho udito, da scarse terraglie. | Lasciami andare:
ogni uomo ad ogni pietra | ogni
uomo ad ogni uomo. | Tu non sai
che amore mi disperde, ma non lo metto da
parte. Non sai che amarezza mi
porto alle labbra. | Non sai. Non sai | che ogni cosa
può essere abbattuta, ma per questo smetti di
costruire? Come far trascorrere
gli istanti… | Nondimeno remoto il delirio
delle finestre. | Ragazzo che mesci respiri di fumo,
fa' più lieve il bicchiere di questo presagio
feroce. | Così accecato, come proferirti fiori di Yoshino in
una bisaccia? | In che misura, d'altronde, valutiamo
l'innocenza noi! |
Ci sono giorni, Sal, che i fiori sono stupidi.
Dico sul serio | l'impurità è di rado
inafferrabile distanza. |
Sono i giorni che tremano
nelle dita dei santi. I giorni dei vecchi; che
la poesia ti ronza intorno e
chiedi solo silenzio. Anche
la mano, anche il grillo ti pesa sassi
nello stomaco, nei giorni
che ti rifiuti di credere nel dio
delle formiche. Ci sono giorni
fatti di rasoi, amico - ma anche il cielo può
esserti limite di fuga.
E chiami esilio un amore. Adesso
non si odono neppure le campane. Lasci
la finestra chiusa, Sal. | Cambi l'acqua ai fiori.
- antares 130 -
Scarso grido il vento, e si contorce a intestini di
strade. Il mio respiro non può esserti trasparente: è sabbia
fra due imbuti di vetro.
Contro il tramonto, sui
pochi frutteti uccelli = silenziose radiazioni, e
sopra le facili baracche.
Che farebbe Socrate?
E gli alberi della corrente alti quasi trenta metri - li ho visti
rabbrividire, un istante prima della morte. |
Dov'è il mercato del pesce? |
È qui che infine
rompono i
naufragi. Dio
non c'è a cui
stingere una voce. C'è
tonno in scatola,
sigarette.
Per passare l'ora si spingerà
sull'acceleratore, poi il caffè, controvento;
sogno proibito di somigliare
alla vita. Ma un vetro è barriera per le
mani soltanto -
il pensiero | animale senza carne -
La gabbia è uno scheletro di metallo, rivestita in pelle finta.
Che ci faccio qui, con due gradi di carta
appuntati sul petto?
Non aspettiamo i fari.
Fermiamoci adesso: non abbiamo ombra.
Mi hanno messo davanti agli occhi uno
strano paio di lenti. | Io abitavo con lo sguardo
telefoni di antichi poeti, portavamo
difficili conversazioni d'amore oltre il limite
del sangue. | Adesso oltre quel
limite mi trema un presagio
involontario di delirio | e quasi non vedo
l'ombra che mi morde i capelli. | Vedo
pezzi di vetro in cima alla
muraglia - anche io | cenere, giorni
inversi fuggenti di lamiere su cui la pioggia
mette in conto all'anima un blues in
scarse battute. | Ma tu puoi dire,
infine, che vedo meglio o peggio?
E | se non vedo affatto? | Così mi misero gli
occhiali: la sera che dissi - la
morte è pensiero vasto più di Dio. |
Risero di me | ebbero paura
perché non sapevano dare nome a
quella paura. E mi misero due lenti
onde io tacessi il loro accadimento. | Ogni
tanto però viene a
trovarmi l'apprendista dell'ottico.
Mi bacia le labbra con dolci canzoni, e baci
veri. Mi porta il sole nella curva laboriosa
della visione. | Ogni tanto
viene a trovarmi il mio amico
apprendista, mi toglie gli occhiali e allora io
scrivo poesie, versi infiniti di
una vita. | Ma il giorno, quando se ne torna in
ambulatorio, io non posso più rileggerli. |
- effetti personali -
I
Ci sono vecchie fotografie di
ragazze africane dai grandi seni & schiene di gazzella |
la radio e il lento blues del fumo di tabacco |
odore di dio | i tasti inciampano,
l'anello di Concetta
tiene il medio al suo
posto. |
Ho una stella sulla scrivania,
e non è poco | antares uno tre e zero |
che pare il nome di
un'automobile, invece è un
aeroplano chiuso in
hangar di mani che cercano
mani. Qui rendo e ricevo un meraviglioso
mal di schiena, e non è poco. Mescolo i sogni con
nicotina & 5mg di
olanzapina | li
mescolo ai passi che non mi
lasciano dietro l'orma, li
mescolo alle nuvole mentre che aspetto
la pioggia, per desiderarla con gesti di
giocoliere | poggio le torce
del diavolo in verticale di fianco
al vassoio in plastica
" Tris
caffè
NAPOLI " | dove tengo in caldo
le mie promesse. |
II
La radice si profonda nel cranio
della ragazza con la lunga collana di
preghiera nuda sopra
le mammelle |
radici di una pianta
di qualche tipo | dietro
il vetro sottile | &
la fiamma della
candela è un fuso di arcolaio,
adesso che il sughero Cavour tappa
la bottiglia della primavera di
Peppino. |
III
Calendario | primo lunedì,
febbraio, ma il tempo sta nel bastone di Fernando: è
un pomeriggio di cenere! | Puoi non credere a un tipo così,
con quel vento antico nel
bicchiere? |
IV
Nel mio piede si induriscono le
ore | miraggio: stazione
lungimirante,
silenziosa Llainfair PG |
capita, sai, di camminare in
posti dove non si è
mai stati. |
V
Ho un carrozzone sulla scrivania | Chesterfield rosse,
piedi buoni | per stargli dietro. |
- la tinozza azzurra -
I
Anche qui ha fremito nel sangue
la parola pronunciata nella sinagoga di Cafàrnao |
parola che è voce e gesto. | Anche
qui nella poca luce che
accende in aria
la polvere di due giorni. |
Non ci sono tende
alle finestre, ma fazzoletti
incollati ai vetri. |
Carezzo
il tavolo di formica,
carezzo il lavello di acciaio. | Mi hanno
detto: di molti addii è fatta la
vita, uomo. | Carezzo
il tavolo zoppo, carezzo il
lavello. | E tu,
oscurità, non passare la cartavetro del silenzio
sopra ai miei zigomi. |
Nel cortile sta il tavolo tondo
di pietra di mulino.
II
Sopra al tavolo c'è un moccioso in una tinozza
azzurra per il bucato | &
un pacchetto di sigarette
nazionali. |
Piccola scarpa che è il mio piede |
piccole mani sono il
pianoforte
di mia madre. | Nella baracca di
lamiera a ridosso del
vecchio prugno, mio nonno fa
giocattoli di acciaio | aeroplani, conigli in parte,
in parte un sogno. | Accarezzo
il lavello | & il fumo
di una sigaretta.
III
La stufa a gas è accesa |
quell'inverno avrebbe nevicato | mi comprarono
un paio di stivaletti azzurri -
rimasero chiusi in un armadio
per anni, ma i tralci
dell'uva in cortile intanto
si coprivano di lievi cristalli. | Mi hanno
detto: non ce n'è uno
che somigli
a un altro. | Mio nonno tossiva | il
medico della mutua
per 50mila lire gli cacciava dai
polmoni gli spiriti impuri. |
Risuona la parola . |
E nelle ossa di Silvio trabocca
il Giordano. | In qualche modo, non so,
sono diventato uomo in parte,
in parte ombra. | Sul fornello sibila la caffettiera |
la tovaglia a quadri è distesa ad invecchiare |
& le mie mani. |
- impressioni di Jegenstorf -
Il filo del vento. | Cerchio di note stonate nel fumo
azzurro del soggiorno | trent'anni fa | &
un divano verde, la sedia di paglia. |
Impressioni di Jegenstorf | sabbia versata
negli ultimi bicchieri. |
Hai scovato il sentiero dei
nidi dei ragni? | Io neppure. Ma so
dove crescono le rose selvatiche: dentro
un verso di Leonard Cohen,
nelle mani di Lazzaro, in quelle di
Mattia & nelle saldature di
Silvio intanto che si guarda le mani |
sono mie, dice, e della terra |
raccoglie il giorno, la strada.
1979 - lo scalone
di legno saliva fino al granaio; ci si
stendevano i panni; la notte ci
si andava a fumare & vedere il vigneto
dei Saraceni che marciva | le
noci cadevano sul tetto della Dyane
blu. | Rinvengo infine l'orma che al
misero confine la compassione
dei nodi annulla. | Ci si
innamorava | un sogno | un istante | una vita. |
Così la notte la luna di marzo, il sangue,
la cenere. | Ora valuto, attesto. E metto dentro
agli scrigni l'altro tempo | & 2 vecchi rasoi di metallo. |
E se magari le voci finiscono | e tu smetti di
sputare fuoco dalla bocca | viene forse tempo per
farsi dietro casa un orto di cipolle.
Ma puoi dire che quello che viene
è un tempo cattivo? | Infine ha numero asserire -
vale o non vale? | Io non ho
la risposta. | Ma una ventina di ragazzi
giocano al pallone | e se ne fregano. | Guardali
intanto che diventano uomini e corrono
dietro al giorno, adesso. E
non lo prendono. | Poi
guarda la tua mano | il resto lo sai,
viene da sé. E se magari il
silenzio resta chiuso in un astuccio |
per anni | e anni e | anni;
se anche il silenzio non lo
afferri: non disperi. Guarda il muto
che siede a raccontare il
viaggio. Soltanto a chi non ha voce è
concesso parlare di antiche
alchimie di strada | & anima. |
Ridatemi le mani. | Ridate le mani alla ragazza di
San Martino & le ore | gli istanti. || Un sole
di calce nella pozzanghera |
da lontano ci finisce una palla | rossa. | Pallaaaa! |
Ragazzino scavalca vecchia ringhiera, chiede
scusa, se ne va | inaccessibile ai rilievi del
pensiero. Lo rimproveri. Gli lasci aperto però il
vecchio cancello. ||
Senti che bella | la parola tristezza | quando
mancano lettere per spiegare le nuvole. Lo sa il pianista
di pianobar, mentre chiude il pentagramma di
una nuova sonata e lo sa il venditore di pezze […]
E tu? Che è una parola antica come la luna
d'estate? Se la provi | e ne sei benedetto | la gioia,
il tripudio, il delirio al confronto sono
pioggia, solo pioggia & la tristezza è terra
di ossa di soldati americani, per lo
sterrato della cava di tufo | un mattino
camminando, che incontri un uomo | & si
porta dentro agli occhi un grido. | Lo
sa forse l'avventore della piccola taverna
in fondo alla strada - sognatore, lui,
ma nel bicchiere soltanto
un vino di scarsa botte, perché la
vita l'ha fregato, un giorno
di gennaio | e per anni | & se
ne sbatte della luna & simili menate |
e non saluta. Entra, siede, chiede |
non parla per ore. Se lo fa è alla
bottiglia che confessa di stare bene |
bene sul serio | solo un po'stanco |
ma è un sussurro appena,
come fosse un errore. Se ti pare di
aver sentito qualcosa sei
tu che ti sbagli. | E chissà fra un
istante magari, guardandomi allo
specchio, mi sembrerà di
vederlo che strizza l'occhio, lui,
il vecchio angelo, inarcare il sopracciglio |
& non ho ancora bevuto né pulito
la pipa d'argento | presa nella polvere a 50Km
da Agadir, che mi hanno detto: è la polvere che
ti salva il collo. | Se lo vedessi allora
sarebbe lui davvero | uomo caduto nello
specchio, e non riesce a uscire. | E il
tavolino di formica lo sa cosa è vero e cosa no,
fra una passata di ammoniaca e i nomi
degli studenti incisi con la punta delle chiavi.
E se sul tavolo la leggi, poi, la parola
tristezza | a scriverla è stato un altro | o ti
confondi: d'altronde non si legge chiaramente, e la
parola è diversa - sarà carezza, ragazza | o forse il tuo
nome scritto 5 anni prima | di quel giovedì
di porco sole d'inverno […]
Ho visto Concetta che toccava il sole | era
d'inverno e la sua mano distesa come un foglio l'ho
presa per scriverci sopra un verso, perché
mancava il fiato | e le ho rubato la mano. |
Non avevo scelta. | Un solo verso, lo giuro. Non dice
d'amore | ma di spazio | e un sogno
antico di pioggia. | Ho visto Concetta |
toccava il sole con la carezza
incerta del dorso | quasi a lasciarsi
ferire | filo spinato | un istante. | Era
d'inverno | e da quel giorno,
per giorni ancora, le ho tenuto la
mano sul mio tavolo | che è
il mio mestiere | e sulla schiena |
che è il suicidio di Erato & della pietra:
divergenti strutture dell'anima | un'orma sulla
cenere. | Domani me ne vado con il
circo, farò disegni con il ferro
e il violino. | Domani,
prima che parta, ti riporto la tua
piccola mano & il sole che ti devo |
parola viva | che da mille anni
ti devo. | E non dire che basta | e non
dire che mi ami. Io ti ridò la tua
arma, tu portami sassolini, li lascerò cadere
lungo il viaggio | e la vita. Tu sognami
forte, più forte dei muscoli & la strada. Più forte
di questo vetro che straccia | i pensieri. | Tu sognami
mentre piove | & piove | e la cera scivola | forse
preghiera | in questa notte che un satellite balena nel
foro di una nuvola | & io fumo la mia ultima
sigaretta. Fintanto che tempo | e senza voci a copiarci
il silenzio. | Fintanto che gli occhi, le dita | senza
ombre a chiamarci per nome. |
Scendo a Llanfair PG | con il sibilo che
procede. | Telegramma | addio | stop | Nella valigia
porto tre giorni di sole, due bluejeans & quanto basta
per essere | strada: il tempo, poco, a dire il
vero, che mi sanguina in bocca |
fogli bianchi. | Cerco covi antichi di
noccioli & la punta di spillo di San Tysilio,
sotto la luna delle aziende
agricole. || L'insegna | Lars'| è spenta,
vecchia di mani di vernice
date male | si vede a luce incerta di
lampione | a intervalli | mentre il grido si
stacca dalla pietra | dall'anima |
nastro adesivo che teneva il tuo sorriso e
la mia bocca | ora riflesso a stento
che il viaggio ingoia. | La notte è vasta nelle
mie mani di forbice | e vedo fiori,
cumuli di letame con il naso. | Non mi
appartengono. | Voci dietro i vetri
delle finestre. Non mie.
E se dio vuole domani mi cerco un
mestiere. || Così: la mia vita fin qui è un
colabrodo | la mia età -
disse - va' via, voglio che tu
sia felice. | Ci scaldavamo le mani
al ronzio della stufa a gas | la
tv accesa su una partita di calcio; in
cortile mio padre accatastava legna. | Ho
una stanza al secondo piano adesso | la macchina
per scrivere | & il fatto che non smetto di
sognare; | una stanza sicura sopra la
ferramenta | & la mia faccia da
scordare. || Non arriva gente. Mai. Qui
si viene per non tornare indietro. | Ho i miei
passi da scordare. | Ma gli errori, mi hanno detto -
tienili stretti | il carbone ci mette tanto | e qualche
volta diventa diamante. | Questo sasso ingrato
da levigare a mani nude: la vita, ragazzo,
la vita. Nient'altro. |
- lucertole -
- a Manuela, Edvige Garraffa -
G-S Riddhi Siddhi apt.
Mithagar X Road, MULUND (E), MUMBAI -
400081| termine del sogno incoercibile di essere puro. | Fui,
eram: numero di una falsa sola saggezza. | Imbuto di
voce plurale | ma, se
chiedessero, di' che è silenzio | delirio |
e | ti lasceranno stare. || Non facevano tappeti
volanti in quel posto. | I tappeti
finivano in un salotto in Europa, sotto i piedi;
ma gli ospiti smisero di telefonare | la
stanza la chiusero. | Se guardi nel buco
della serratura può
sembrarti
un piccolo museo |
neanche la polvere, i giorni. | Guardi una
volta, ti basta per capire - è tempo sprecato. |
Perdonatemi. Non mi interessa cosa c'è oltre l'altra
porta, vicino al bagno | o magari dietro il
vecchio cancello prima del
sentiero | taglia fino
al
laboratorio; | ci si andava a fumare. || Ma
il sole invecchia sopra una lucertola. | Perdonatemi:
sono fatto così. Ci sono cose | e non
voglio sapere. | Ne ho le tasche
piene. || E le catturo, gli stacco
la coda, a volte la perdono da sé. E
rimangono lì a rigirarsi. | Le lucertole si
rintanano in qualche fessura. | E
mi sembrano davvero un sacco di persone che ho conosciuto |
ma la loro coda, poi, non ricresce. Anzi, a pensarci bene,
la coda non ce l'hanno affatto. Ad
ogni modo, potrei sbagliarmi.
[…]
<<Ho pietre antiche…>>
- a Beatrice Zanini -
Ho pietre antiche nella valigia dell'anima.
Alcune sono stato io a metterle. Altre, certa gente | e sono
pietre di poco valore. Hanno il peso di sguardi storti,
hanno il suono di falsi iddii e amori. | Non sai
che armonico dolore, che gioia scordata
portarle fino alla prossima croce
di strade. Ogni giorno per il giorno intero,
ogni respiro. || Io come molti poeti mi innamoro di
vecchi poeti e questi desideri spezzati e,
certe volte presentimento di delirio, sono i
graniti millenari su cui il primo
sapiente imprime la forma
della mano | perché lettere per
scrivere - io sono - non ce n'è. E rileggo
parole di dieci anni, così per caso bugiarde e dure
che mi pare di non capirle più. E dire: io sono -
diventa gesto di pessimo charlot. || Oggi
ho messo fra misure e stanchezza una
nuova pietra vivace, per stare in
equilibrio su questo filo di ragna
sospeso sopra il giorno. Oggi capovolgo
anche la tua sicura clessidra. Tu
forse mi segui incantevole dalla voce
indocile del mio vivo strumento, come fossi
il pifferaio di Hamlin o più facile
alchimista di polveri: ti rendo infine
alla tua giusta adolescenza, per
un verso ancora, al lutto che ogni cosa
creata si porta dentro assieme
all'angolo arbitrario della vita. Ti ridò ai tuoi
amori purissimi | alla genesi che meriti. |
Quante pietre conservi nella cesta accorta? ||
Ad essere cenere, dicono, ci vuole chimica decisa di
elementi. Vero in parte. Io dico invece che occorre solo
aspettare | e uno spazio più feroce della morte. |
Io so che ora la avverti nel naso, il vento la getta qua e
là; con uno starnuto la senti | e lo nascondi nel fazzoletto,
quasi provassi vergogna di interrompere l'istante di una
ricerca che dura da anni. Ma poco a poco impariamo,
fra una parola e l'altra, a penetrare il
fruscio dei nostri telefoni. |
- la bicicletta del santo -
Al rituale di mani e di tasti le voci conducono
fuochi di strade | e alle dita, ai polsi riscatti di follia.
Come leggerti al telefono pochi versi, ora mi ascolterai.
Il fatto è che sono vecchio ormai, tanto vecchio.
Ho il dovere di parlare. Talvolta,
per strano rovescio di pensieri, credi davvero
che sei tu l'unico ad aver visto il
lieve tranello di luce sopra i balconi
decretarsi in riflesso di canzone |
mulinare nella polvere un foglio di giornale |
il pallone sfiorare il sole appena.
E' forse proprio così. Ma
non dirlo in giro. || Seduto con le mani
in mano a trovarti il fiato, metti
in versi invece il muro, l'edera, il vento
che fa regali gli istanti del poco inverno. Taci
altrimenti. Taci ad ogni modo. Pensa alla primavera a
Firenze, conquistata in anticipo dentro le lenti
scure; le parole verranno. Anzi, verrà,
perché ne basta una, in fondo. Sia pure
l'ultima! E intanto avrai
scritto versi meravigliosi. | Ma il
giorno ti sembra talora la striscia senza
più inchiostro di una vecchia macchina per
scrivere | perché non sai che la poesia non |
sta. | E la vita non | sta. | Ora pensi
al santo, alla sua bicicletta incatenata a
un palo, per la strada delle librerie. |
Gli ultimi anni li hai vissuti in fuga. | Ma il santo
dice: c'è una parte di spazio | una parte
di tempo | un foglio bianco su cui non scriverai,
malgrado tutto | e ci sono i ragni, dice, c'è la mosca, |
ci sei tu. | Il santo non monta in sella. Se ne
va a piedi. E tu nell'ultimo sole accendi una sigaretta,
scatti una fotografia. | Scrivi dietro lo scontrino del caffè:
la bicicletta del santo, in rapido corsivo. | Ti accorgi di
aver perso il tuo orecchino. | Guardi a terra, c'è solo un
foglietto piegato, e in stampatello: LA BICICLETTA DEL
SANTO | amletica urgenza | di pioggia. | Forse
l'orecchino non lo avevi messo […]
- le mani non sanno -
Il cerchio incerto in fondo alla pagina |
ci hai lasciato dentro un bacio, e io mi innamorai |
perdutamente mi innamorai. Ciò accadeva 10 anni fa, a
dirla con abile imprecisione. Se credo ancora
all'amore? | Se penso che infine tutto il tempo non
sia stato sprecato? | Io credo -
rispondo - e ti dico: è il mio difficile
tallone. | Da allora ho vissuto |
per un po'. | La parte che avanza di
strani spazi | dimensioni, nubi | l'ho passata
sognando, morendo | in lenti riflessi,
ampi archi di silenzio. || Sono forse più
vecchio. || Ho dovuto correre a non
aver più fiato, per il diritto
a possedermi il grido; fuggire in geometrie di
pensieri a presentire il cielo | dio
appena. | Mi sono fermato un giorno: era un
mare di cavallini iridati. Su tutti i colori prevaleva
l'argento. Mi parve bello il mondo. E
divenni poeta. | Passerà in un
istante, sai, ci cercheremo rughe sul
viso. | L'argento spesso annerisce -
il futuro, amico. - E, per quanto
carico sia di attesa, noi come tutti
romperemo gli specchi con scarsi pugni
di memoria. | E tu | mi hai dimenticato? | Ho
avuto tanti amori e pochi amori, ma non ho smesso
mai di desiderare a pieno sguardo il giorno,
la notte, l'istante che viene e | non li trattengo. |
Mi hai dimenticato? | Certe sere apro
la vecchia scatola e come fossi sicuro illusionista tiro
fuori, sì, le più stupende, antiche illusioni. | Trovo la tua
lettera e in quel cerchio poggio anch'io le labbra. | Ahi,
le mani non sanno. | E ti bacio, Alessandro.
Ti bacio e tu non sai che a baciarti
sono io | e un altro […]
- ho disegnato una nuvola -
[...] "Alla fine il vecchio che fabbricava
marionette si stancò di aspettare una risposta dagli
uomini. Si mise a conversare con le sue creature.
Felice di sé, dei suoi anni, dei suoi capelli bianchi |
e l'immobile calore | dei pezzi di legno. ||
Viva Pierrot. Viva Orlando, viva Rosmunda
e tutti i paladini di Francia! " […] ||
Nuovi raggi da un sole antico | la rosa narra
anche la nostra storia. | […] il vecchio fece la sua
scelta [..] | Intanto, in un modo, nell'altro,
Nina moriva - così è la vita. | Così? | Intanto, nel
bagno di una stazione, Luca si infilava un
ago nel braccio. E tu, vecchio, eri felice. Mentre,
tu, vecchio, sceglievi. | E eri felice. || Anche
per me un sorso di sabbia transiente,
anche per me la pioggia delle voci. || Ho
disegnato una nuvola | stamattina || ecco
perché sono piccolo, adesso.
Tanto piccolo, quasi un niente. Ma così io
ancora | io, | con fragile segno di mano,
tocco la pelle delle ombre | antichissime. | E
non temo | e non mi fai paura. | Dimmi,
vecchio: sei forse Giove? Forse ladro accorto
di ciliegie? E a me non resta che |
credere. | Chiudere il cerchio e | credere? |
Dimmi, vecchio, dove appendi a sera | il tuo
cappello. | Ahi, in quale bocca ti cerco
la sete! || Ma stamattina ho fatto una nuvola,
non l'ho colorata. Una nuvola grande, così
che ci sta il tuo naso pensoso, e avanza spazio per
un sole che filtra, con un sorriso da seconda
elementare e occhi di inchiostro. Ma la maestra
passa, dice: hai sbagliato, manca la benda | e il bambino
corregge | e il bambino impara | il difficile
decreto. || Ti piace la mia nuvola? | Mi fa sentire
piccolo. Piccolo che potrei stare a comando di un plotone.
C'è guerra sai? | Una guerra c'è sempre. | Piccolo,
così piccolo che potrei persino somigliarti un po'. Io.
Poco più in alto a tirare i fili […] |
farti marciare […] ||
- filo di Moire -
Tu mi chiedi se è un fagiano. | Deve esserlo -
dico. Ad ogni modo, non importa. E allora | affermo |
che è un fagiano. | Ho visto un fagiano | staccarsi dal
fantasma di un pioppo, senza verso né capace
geometria di sillabe. | Era d'inverno e ci
riscoprivamo a respirare - così facile, e amarci.
Tacere. Ricordi? | Un sasso bianco
cadeva da un muro. Mi venne in mente
Basho e la strada | la strada e | una
strana voglia di tè. | Aveva sulle ali la terra
intera, il fagiano intendo. E aveva
i miei occhi e i miei occhiali in cui il sole ride |
e quasi mi pare preghiera. | I miei
occhiali vecchi di trent'anni, rimasti in
un fodero di pelle a farsi
passaggi d'anima. | Che importa,
poi, barare sul tempo | di troppe ferite. |
Un'estate fa, mille estati fa o solo
l'istante | il silenzio che lega due suoni e li
divide sullo spartito dei giorni. | E un raggio
l'afferro, velo di musa fuggente; si
chiude nelle mani come una vanessa. ||
Due ore, due giorni dopo, due anni - e
parvero pugno di sabbia che infine si lasci
cadere. | Un vecchio, in più vera
larghezza di voce - hai lo stemma del
carcerato sul petto - | Teneva la sua mezza
birra come uno scettro. | Gli fanno cenno
di silenzio. | Non ci fa caso | continua
a parlare | ho dimenticato di cosa. | Gli altri,
nel frattempo, battono i bicchieri sul bancone di
acciaio, con febbrile urgenza di suono; coprono con
la mano il loro marchio. | Ora ti dico: ce l'ha ogni
uomo | impresso a ferro rovente come su una
vacca, magari cucito sopra i vestiti con filo di Moire.
Lo nascondevano con il palmo aperto o voltandosi di
spalle, perché fuori passava il gabbiere. E l'ora d'aria
è corta, corta quasi | una vita. | Lo sottraevano
alla vista. Io no. | Io da poco avevo
visto un fagiano […]
- la sera dei fuochi -
Verrà come viene il vento. Lo sentirai | e il
carnaio delle ombre e le voci | le voci | e le forme. |
Lo sentirai scricchiolare | incerta articolazione di spazio.
Difenderai l'alloro in cima alla torre di radiche
enormi, gettare qua e là primavera in
lieve giro di scintille. Non avrai tempo per
un ritorno. | Toglierai lo specchio dei
trucchi, la strana maschera che fa donne
le ragazze appena. | Uno di loro è morto:
faranno più corta la fiamma. Tu aspetterai nel
fuoco antico, i chilometri sono istanti. |
Ti brucerà in gola un colpo di tosse. || È un
passaggio di ceneri e fumo. Io con le mie
sigarette e gli amori | il traliccio
dell'enel dietro il vetro che vuol dire |
desiderio | di una trincea di stelle. Ma con
le mani lo toccherò, anche per te, il
tempo che viene | e l'erba buona fra i sassi |
la pioggia del sangue e le farfalle del
cardo, così simili agli uomini e il
futuro | il lavoro e i giorni e gli istanti,
il sudore. || Non sono preghiera | ma
salgono a sprazzi di profumo e
lente note di campanile. Salgono e non si
scorge l'arco della notte. Ci si siede
a smemorarsi. | Non vedremo l'uomo che
muore da trent'anni, trent'anni e un viaggio. |
No. Non vedremo il feto che la
ragazzina conserva come uno sgomento
dell'anima. | Indigestioni di sperma. | Qui c'è
il vino insolito, pane tondo, crociato con mano o
filo di coltello | né l'una né l'altro - risponde il
guardiano. | Ha le mani sporche di nafta | ma non
c'è fretta e non ci sono | nuvole. | Incontri per caso un
amore. | Un amore | e dura il tempo di un fuoco. Non ti
accorgi, stai camminando | giorni e ore e giorni, in un
sogno | fango inestimabile | un sogno | ma il vento
passa, come un cane | un morso di affanno
fra i denti, e di fame […]
- il tempo, la pioggia e chi ha costruito il tetto -
Vedi cosa ha fatto il tempo […] ho respirato
notti di blues e di bottiglie per diventare il mio riflesso, la
mia mano. | Non so se il mio orecchio mi somiglia |
ma sente. | Se il mio piede, almeno un po' | e
cammina […] Vedi che ha fatto il
tempo | la pioggia | e chi ha costruito il tetto:
questo buco, nella pietra davanti
alla porta del caffè. E così la vita diventa materia piccola |
le estati nel quartiere… | E' quindi vero? Il giorno è
merce di sognatori soltanto? || Ho nostalgia
di fuochi. | Io, calante Odisseo, per
la semina del sale, indossi il
mio nudo migliore. || Se il tuo silenzio
è fuso di arcolaio, io non mi pungo. Siedo
stanco, sciolgo i tuoi faticosi
capelli scuri fino a farne un filo |
per misurare la strada & il
pensiero. | Se il tuo silenzio è albero attento
io mi fermo | prendo una
susina. La mangio, pianto nella
roccia il nocciolo lucente e,
lo so, vedrò crescere nei tuoi occhi un
bosco di cristallo. | Non ti chiedo
perché taci, anima mia | ma ti nutrirò
finché il sangue e le nuvole | e le notti
bianche, le parole. | Io ti cercherò, in breve
estensione di sostanza. || Forse
nemmeno esiste il tempo e la struttura
della campana che lancia grida per le ore.
Forse non esiste, ma lo controlli. |
Tantomeno il tempo | infinito | eppure | desideri, gli
dai linea estrema di scienza. Passerà, in
ogni caso, passerà, con riscontro incerto dei
polsi, anche questo giorno d'inverno |
dura, sai, da baleni, rinvii che danno alle dita
sgomento di scoperta. | E mi innamoro. Ogni giorno |
io | mi innamoro. || Non sento passi e le voci, ma un sogno,
emorragia di spazio e diametri sopra la mia ferita: il mio
nome. || Il giorno mi appartiene | è di chi attende. |
Una goccia batte sulla pietra, ne segue un'altra e | ancora
una; | segna il passaggio di mete a venire. | Mentre
che intorno prende traccia di istante
la musica più proibita […]
- la rosa e il cielo di marzo -
- a Silvia, mia sorella -
Nei tuoi occhi orizzonti gemelli. Sopra il ponte
di corda lascia che io compia la mia strada. | Un istante che
mi accade il gesto della malinconia | e per questo
mi legheranno al collo trenta miglia di sassi. | Ho poco
grano per pagarti il passaggio, ahimè, ma
ho semi e li spargerò sui tuoi giorni
che tu diventi rimedio di pollini pieni. | Io
vengo dall'inverno | e mi domandi
altezza - lascia che io passi. Procedo dall'inverno |
porto ceneri di una più umile fenice: il mio
braccio di fabbro. | Di foglie nuove, di spine ti
inebrierai estensione di universi,
piccola rosa. Pungi chi cerca di reciderti. | Si
muore, si vive nella stessa misura. ||
Un cielo di marzo al grado dei
vespri, quando la mano è stanca di
intrecciare canestri di ortica. | Un
cielo di marzo rendeva facile il mio sguardo |
caleidoscopico il pensiero - così,
anche questo ti dono, madre, sorella -
tu lasciami passare. || Chiedimi i miei
anni. Avrai un orologio
fermo sul polso di Dio - che te ne fai,
se in altro verso tieni per le briglie il tempo?
Chiedimi parole che ardiscano
labirinti di lirica antica. Avrai la parte del foglio
che è da scrivere - che te ne fai, se in te
si scioglie in fuoco l'inchiostro che scorre nelle
vene dei cantori? Chiedimi pure il mio
strano riflesso, ma non si può |
amare un presagio di ombra su un muro. ||
Eppure so. Ho fede che, infine,
passerò. | E mi matura dentro al petto un sole |
arde d'amore. | Ti guarderò il volto, tremerà d'attesa
l'anima e la tempia | e di chiaro sgomento. | Non
torno al vento che mi fece ricerca il viaggio. | Non torno al
fiume che mi disse forma di vita. | Sono vecchio, adesso,
quanto il giorno | e non sono che un fabbro. | Ma lasci che
io passi il ponte | io l' ho costruito | e spargere i
semi, insolita Proserpina | e i naufragi
si districano | e i giorni […]
"la désintégration progressive de la matière vivante"
Appena smetterà di respirare | le mangerò
il silenzio alla musa. | Il silenzio è la parte migliore.
Ecco. Ha smesso. Toh, prendine un pezzo!
- Sai dipingere le nuvole? |
chiese il ragazzo al vecchio pittore.
Posso dipingere
qualunque cosa | sogni
inespressi, p. es. |
Tu che sogni hai? - chiese, dopo aver mandato
giù un boccone - io non ho sogni - disse il ragazzo.
Il vecchio - tutti hanno
un sogno -
Io no.
Io scrivo. Questo
forse…
…Con quei pennelli
ci dipingo le pareti delle stanze -
troncò il vecchio pittore. Quei pennelli
sono pugnali. Ci faccio gli occhi a
dio: un taglio a destra, uno
a sinistra. E tanto, tanto nero. Il nero non
è un colore - i colori se li ingoia e
li spezza. Tienilo a
mente.
- Buono, no? -
- Buono davvero. Sa un po' di cenere,
ma una volta ho mangiato il cuore di un drago.
E' per questo che non posso morire |
che il mio respiro ha i
vertici del fuoco. | Ma davvero puoi
dipingere le nuvole? | così bianche | o gonfie di
bestemmie, sfuggenti e
immobili | pensieri |
inafferrabili… |
- Certo che posso! Posso dipingere |
qualunque cosa. Vedi quel cancello? Sono
stato io a passare l'antiruggine. Non
è un lavoro per tutti. Ma |
marcirà lo stesso,
pergiove, e come marcirà! E i boschi e le fontane
e la carne. Hai sete? | Bevi.
Hai sonno? | Fra poco
dormiremo -
|| Venti lune oltre, mille cieli più distante,
le solite forme antiche | e spazi | transiti di voce… ||
- Sono stanco adesso. Tanto stanco. Non
ho più voglia di parlare. | Tu
finisci di mangiare,
lavati le mani. | Per le parole ci avanzano
i giorni di pioggia | le sigarette.
Per la vita | le mani. | Le mani
soltanto -
- Ho trovato un filo… -
Ho trovato un filo | mi rende facile gli spazi. Ora ti leggo
in tendini di lettere, a mani tese. Ora ti ascolto, slancio di fiati
per strada. Posso tagliarlo se voglio, ma la tua voce è una
tastiera antica: ti starò ad ascoltare, in continua
traccia di offerta. | A te lego il mio silenzio | e amore
mi tormenta che pare avverso il sogno di fuggire. | Stanco
della mia pelle, per il Giordano di un momento,
colto fra due schiaffi della scienza. | Così lontano
vivere nel modo in cui ieri vivevo -
dov'è che va a finire | il tempo? E le parole |
sussurrate nei telefoni, le ore che ci
riferiamo poesie e lontananze | dov'è che
covano le loro tempeste? E dei giorni mi
restano i versi, i versi soltanto. Mentre che continuo
a scordare il gesto del viaggio. | Nella mia
stanza la ragazza di settembre
accomoda un paio di calzoni. | Ma il
sangue non si asciuga, infine […] il sangue
di ogni istante. Il mio, il tuo | e
scava sentieri nell'anima -
terra promessa. Ci arriveremo mai?
A possederla, a contenerla, a negarla persino,
e amarla e trascurarla, perché nostra |
e dare nome alle cose - stati, noi, di
sete e ricerca. | La ragazza
conosce il sortilegio dei fili: imbastisce e
misura e taglia. Sei Atropo, Cloto | o forse
altro cammino di nuvole e fieni. Che ne
farai della mia notte? A chi passerai la scopa? |
Intuivo appena che ogni cosa è rovesciamento […]
tu ballavi pezzi lenti, ti innamoravi, pensavi veli
di fiori su una terrazza sul mare. | Dissonante
schiudersi scorza di sgomento | e la
mia pelle cambia riflessi. | Si fanno
granelli di sabbia a pugni di vento le vite
pendenti, palpitanti nell'attesa. Il filo si spezza,
ma si può riannodarlo, se occorre. | Torna
un ferro battuto di suono come carta che bruci. E'
tristezza, ma dolce che è quasi una strana gioia; non
ti vergogni a sentirla matura in te - luna d'inverno. La senti,
mi dici - ascolta. Posi gli spilli. Senza stanchezza, ti alzi. Getti
via la scopa come ogni giorno da anni, sopraggiungi alla vita,
vestita di futuro, mentre segui in cenni di labbra un
motivo in 6/8. Getti la scopa. | Metti da parte
però | il filo avanzato.
- ultima pioggia & i fuochi -
Un agguato di piogge man mano si allenta | la
terra diventa la tavolozza di un mastro pittore, pochi
venti ancora - dormiranno nelle finestre | fintanto che il
tempo dilegua le piccole cose. Resta un silenzio
al dio dei fuochi, in ritardo di preghiera. || Di molte
mani, ragazzo, è fatto questo pane; di voci
lente il sangue delle botti. E' un
marzo di attese. E' il tuo viaggio che
fa croce con il viaggio degli altri.
Andrai a passo di cenere. A
traccia di fumo segnerai la misura di un
passaggio. | Questo hai ereditato; e nuvole hai -
impronte delle dita. | La dolce Rosaura,
un vecchio poeta, la bambina dei fiori, il
costruttore di fiamme, il
merciaio di stoffe, Annibala e un
cesto di stelle | al dio dei vivi,
in forza di cieli, alberete di prime
corolle. | Cessa l'attacco dei temporali,
ma uno sgomento afferma:
l'amore non è altrove.
E' nel tuo stomaco e nei piedi,
nella festa delle mani
che leghi al tuo istante. | Bevi questo
vino, dividi il grano tondo. Per amore, solo
per amore. Ho, per ogni istante dello
sguardo, una primavera
sopra il vetro delle ore, si allunga in
tecnica di blues nero dentro la presa di poche
note. Qui non trovi il cantastorie,
ma solo un vecchio in calzoni blu che
grida al vento, implorante, le sue
bestemmie migliori. Non trovi il
violinista di strada, ma un ragazzo dalla
pelle scura che lavora il fil di ferro per resistenze
di fumatore di hashish. Venga la pioggia pertanto, a
confondere i passi, le grida dei santi di
comune delirio. Chi più sa a che forca Emilio
mise limite al tempo? Forse tu,
passante? Tu che cerchi vino e non sai che di
stanchezza è fatto questo vino. Bevi e non ti accorgi
di rubare risorsa di giorni da tagliare i muscoli. Venga la
pioggia con sequenza di sparo | vi riparate voi, ma il
fuoco non si spegne. Mai. E' la pioggia di marzo, dicono
le donne piegate sui camini - la pioggia di marzo
che, infine, consegna il sole ai
terrazzi di aprile. |
- il canto del gallo -
Forse l'amore alla fine si risveglia | com'è difficile
certe volte aprire la mano… Dal punto di vista del granello
di sabbia anche io | ho visto i tuoi occhi - abbatti i
presagi, perché io abbia sete, le foglie hanno cerchio
antico di pensiero. Posso sentirlo nelle
ossa della fiamma. Crederlo mi costa il tempo; il tempo
soltanto l'istante di un errore. | Magari
la vita resta vigile | né l'amore si è mai
addormentato, ma la mia
anima chiedeva | di partire. ||
Avevo un sogno. Ora ho la strada. | Ma
la mia carne è resa all'artigiano
delle piogge di marzo. | In
questa terra bruciano catene di
lauri grandi. | Un vento di cenere mette alle labbra
sillabe di Sant'Ambrogio | aeterne rerum conditor, noctem
diemque qui regis et temporum das tempora ut
alleves fastidium ¹| disperde la
caligine, intanto che riveste un corpo fragile la
pena ingoiata per anni. | Ecco una
voce farsi limpida | il cielo |
lampada continua |
O vero sole, irradiaci! Albero fregiato e
fulgido, matura il frutto corretto! | È una bicicletta
rubata il diametro del tempo.
Ci sta sopra un vecchio con un grumo di
scintille nelle dita. Lascia che
sia. | Lascia il vento sciogliere il coagulo di ogni
ruota dentata, di ogni molla. | Anche del fuoco non resta che
un segno di luce dentro una goccia, un riflesso,
un ombra che riarde. | L'amore ci accade
di rado. Ma qualche volta
ti cerco in una canzone, la inventi mentre fai un
rappezzo al flusso di pochi istanti |
me li porto addosso | sono camicia di ferro. | Ma
non si può ricucire la vela di tanti naufragi. Già canta il gallo,
accorto messo, nella notte; strada ai viandanti. | Anche io vedo,
con l'occhio del granulo che intasa il collo degli imbuti,
anelli di fumo fra gli alberi segati, tutto tramutarsi in pietra |
le voci di chi attende. | Avevo un sogno | adesso ho una
bicicletta | nessuno farà caso alla mia gamba di
vetro. | Sono io e il vento. | & le foreste
echeggeranno di risate ² |
¹ - "Del mondo eterno artefice, che notte e giorno regoli e i tempi alterni e moderi per alleviare il tedio…" Sant'Ambrogio - Aeterne Rerum Conditor -
² - "…and the forests will echoe with laughter…" Led Zeppelin - Stairway to Heaven
-
- il ragazzo, il pescatore,
il mare che | non sapevano di essere Monet -
Dammi spazio, la spilla di una fuga | incessante
sia la vita soltanto ad avanzare in queste mani sporche
a furia di intrecciarsi in nodi di preghiera e menzogna. Non
credo più, non vedo, al contrappeso delle voci, la
mia distanza affermarsi | strada. |
E' un giorno che la poesia ti
resta dentro e ti brucia di visioni l'ultimo
mistero dello sguardo - Eleusi lontana, ho mai
sognato di te? | Così cammino,
sotto il treno a vapore del cielo, mentre
una lenta campana mi riporta |
un orgasmo di pioggia. | E sono io. |
E sono | nessuno. Tra le mani
non ho mai avuto il cielo.
Mi fu chiesto di tenerlo. Dissi
che non potevo, l'avrei rotto di certo | senza cielo non
vanno neppure gli aeroplani […] poi
venne la sera, le case crollarono
nel fango del tramonto -
statue di fiammiferi, dimenticavamo il nome
di Dio per tendere le lingue ai
sogni di etère muse di granaio &
alchemiche cale di fiume. || Ci prenderemo la
Russia, dicevamo. La Russia e poi la sega arrugginita
della luna di marzo. | La Russia e la terra santa.
A Israele ci costruiremo i nostri giorni -
eravamo io e il ragazzo delle ortiche. Si parlava,
si fumava erba | ma la vita dura
quanto un battito di ciglia. || Il tempo
ha accelerato. Ogni cosa prese a
interessarci meno. | Vuoi sapere come si sta
con il sole infilato in un occhio - un pugnale di luce,
una vita? | Ho vissuto così. E la trave
nell'occhio degli altri è sempre stata più piccola della
mia paura. | Ora lascia che continui a riempirmi di sabbia le
orecchie. Sono stanco di trascinare le reti. Mi manca il mare
di giorni senza ricerca. Non chiedermi spazio. Ho cicale
soltanto | cantano lontane nei campi. | Non chiedermi
fughe: sei fuggito. Resta. Coltiveremo rose. Ti chiamerò
fratello. Mi chiamerai fratello. | Sono stanco di
tirarmi dietro i tramagli; tremano le mani.
Ma in ogni vena | il grido
di ogni uomo […]
- le maree sono fatte di Kirya -
Giorni che non scrivo | non mi pare diverso | il mondo.
Carta da dovere una foresta alla terra | e il mondo | è per caso
mutato? Ma le maree sono fatte di Kirya, l'ho imparato
alla fine | e che non è facile inseguire il respiro
della luna. | Mi metterò a rubare spighe di
rame in ultima preghiera | ora che è
sera e il piede dell'antennista calcia una
piccola nuvola | solo per sapersi felice. | Sono
anni che non incontro Dio. | Anni che
non salgo sul tetto. | E' fermo qui
anche il tempo. Cosa ho
costruito? Nel frattempo che la vita
accadeva, cosa ho fatto io?
Oltre a perdere | ingoiare il sangue.
Non ho piantato ulivi né
buttato a terra i muri, eppure | sono tanto
stanco lo stesso. | Trascini. Bevo. | Il
mio amore crolla come il silenzio | sculture di
chiodi, le parole si riflettono
l'una nell'altra: non mi
rassomigliano, i giorni | neppure […]
Dici di amarmi. Dico che è
piovuto fin dal principio e io non potevo
bagnarmi la lingua. | Fra i velami
della notte canti filastrocche da brigante
di sogni. Io non ho più labbra
e il bottino mi costa fogli
di poesia. | Ma ho bruciato i fiori morti […]
| Perché mi rubano il paiolo senza
avvertirmi? O siete solo voi che l'avete preso?
¹|
La mia bocca è un vaso di latta, raccoglie molte
bocche - ti sembra troppo grande per
un uomo solo? -Te la do | in prestito.
Mettici dentro il vento, per fare una finestra aperta. |
E allora noi vedremo, sporgendoci un poco, che il
mondo cambia, cambia momento, e alla stessa misura
rimane fermo, ma non ci importerà poi tanto. Per eccedenza
di suono ti legherò stringhe di scarse sillabe. Fintanto che il
tuo istante mi sta fra le mani - rosario di pioggia. | Lo
riempirò di sabbia e orme | per un verso che riarda
di strade | & un porto certo, un giorno
di febbraio il mare […]
¹- Renard - "Il Paiolo" - da Pel di Carota -
- lettera a un'amica in forma di poesia -
Mi piantava morgane nel sangue. Scelsi di morire.
Dove sono spariti i giorni? Eccoli. Nella mia mano. Non è
stato facile raccoglierli tutti. Ma eccoli. Non risposi
mai e la voce smise di unire visioni al mio
respiro. | Non ero destinato a fare il
prete. | Poco male. | Ora do simmetria a un'altra
chiamata. La mia compagna di strada al telefono mi
racconta di decostruzioni e trasporti. | Ho un
riflesso di donna nello specchio. Chi è? - mi chiede.
Guardati le mani - dico - ho i muratori
in casa. Il tetto è da rifare […] Riuscirò mai a
riferire com'è lunga la genesi di
un errore? Mi lascio sfuggire nella tua
rivelazione frantumata per delitto di ricerca. | Il
sole è una macchia di grano sui calzoni
azzurri di Van Gogh. | Ho i miei corvi
da lavorare in silenzio | tutto ho esaurito | anche il tempo. |
Ho i miei sassi rubati al getzemani dell'ultimo grido, il blues
con un narciso di vetro nel cappello di cinque note | ho le
sigarette | se le mani in disagio di stasi. Mi
stanco spesso. Devo essere malato.
O incredibilmente vivo. |
Faccio 120 flessioni al giorno. Dilato lo spazio del mio lauto
karma/4 pareti. | La gente ormai mi scoccia di rado. Ho una
piccola musa. Viene a trovarmi nei week-end. |
Ma ho smesso di leccare il gesto
del fuoco. || Credete voi la morte possa
davvero risolvere? | Sbagliate. |
Qualunque sia la risposta. | E l'operaio lo sa
che se alza la mano può toccare il futuro. | Dimentica
l'erba bruciata dal vento, direbbe, se solo
come tutti noi non fosse muto. || Il tetto non
vuole essere riparato. Lo crederesti
tu che in questo mondo i tetti hanno diritto di
vaglio? Da questa parte del vetro le cose vanno
così, e i vecchi solai scrivono le più belle poesie d'amore. ||
Se non sai essere operaio sii calce. Non puoi essere calce?
Sii parola. | Ciò che sai ti serve forse a cambiare le travi marce
con le travi nuove? || Dimentica :ultima voce in rifrazione
di pioggia. E il capomastro alza il braccio, per sé | per noi | che
guardiamo dal basso, rialzando di pochi gradi
il mento, solo per difetto | di traccia. |
- ombre di letti disfatti -
Tratterrò nelle finestre il più sicuro
respiro. Sarò una scultura di gesso che la pioggia
piano cancelli. Fermerò il gesto
della parola fino a
non avere forma che tu dichiari umana.
Ma in gemma continua l'occhio del santo piegherà
gli ultimi fili dei pensieri per affermare
la cifra di una diversa innocenza.
Come il pensatore di Rodin cambierò
espressione ad ogni sguardo e al tempo stesso
non scorgerai metamorfosi di
materia. Aspetterò che
ogni impronta digitale, che
ogni capello lasciato cadere sia sparito a furia di
disfarmi in riflessi. Anche i fantasmi infine
si tirano alla scorza delle querce |
in disagio di spazio. |
Io come loro | ma avrò in capacità di silenzio
scarsi fusi di te che vieni.
Toglierò alle mani la polvere delle voci, le
cose cominceranno a parlarmi. | Sono due giorni
che ho smesso di amarti. | Fra pochi minuti
potresti non riconoscermi. |
Sabbia di ogni istante, risolvi la nostra urgenza. |
Non dio o moto di musa in veli
sfioranti lividi incarnati. |
Spezzerai ciò che resta delle ombre […]
Così la vita è meno vergine, rallentando la carezza,
per non esserci uditi | mai.
- senza titolo #28 -
Ci sono solo battaglie e ragni
che fanno tele nell'ombra. Dal margine
di un fosso di pensieri io non
ti riconosco, anima d'amore.
E scendo in strada disarmato persino
della più facile parola.
Potrei gridare. Invece sto zitto.
Che misura mi è costata
la voce! E scendo nel fosso. Tra di
voi che nemmeno vedete le cicatrici sopra
la mia schiena: un tempo erano ali,
proprio come le vostre. Forse
anche io tra pochi istanti non le ricorderò.
O sono solo tracce di sentieri come
linee nel palmo di una mano.
Staremo così,
nudi, a spartirci un morso di
carne, un osso crudo di bestemmia che
il macellaio lancia. Uno solo
per la fame di tutti. Chi vince? Non si vince.
Mai. Ci sono solo battaglie, uomini che
Schiacciano ragni in un angolo
con una vecchia scopa. In facci hanno
Un ghigno | quasi il volto di dio.
- le mie impronte -
Mi tocca dirlo | non puoi passare detrito
di noce senza sporcarti le mani. Le mani macchiate
servono a colorare il mondo. | Ora lo sai
perché i bambini […]
dalle loro dita si sciolgono sartie di nuvole |
punte di uccelli dalle ali di cenere | prendono
parabola | bensì pesante il polverio,
sfidano il grido del vento, non li ferma un
vetro interrotto. | Slacciati
in abbracci di madri | pioggia fra
labbra che si sfiorano, senza sogno di sgomento |
vanno i bambini a calciare la sfera. | Io a mani gialle
aggiusto l'ora al polso. E lascio sulle tue
chimere le mie impronte di uomo e
di bestia. | Tu mi dirai che il
tempo è altrove | che comunque | non
potremmo raggiungerlo. | Non avessimo
queste vecchie scarpe | respiri di nuda
selce, si farebbe acchiappare
come una libellula in una rete di
rafia. Appena quel giorno il mare | e lo conteneva
tutto | eravamo più vivi? | So che adesso |
siamo meno morti […]
il mio respiro mi appartiene |
ogni fibra | e con le mani sozze | scrivi
le canzoni migliori. | Ho passato una vita al bordo
di un lavello. La prossima curva di istanti
sarà di mani ruvide, capienti | adatte a
suonare una quinta corda, per
anni, e non produrre un solo
segnale. Mani | per la cartavetro del
silenzio passata | sulla pelle | neolitica | dell'anima,
quasi | a farla sanguinare ||
- un cuore inerme, una rosa, un petalo strappato -
Cerco una prova di fiamma da intuire | anima |
selce di Saint-Acheul da levigarmi presagi di istanti |
come una pietra anche la parola, fino a diventare
strumentaria di frequenza. | Saprai | quando
avrò trovato - il melo si
fletterà a benedire. E il vento che portiamo nel
sangue | sarà lui a scrivere le nostre poesie | ma non so
nulla della notte: che i deliri sono strada
e l'ombra è l'unica che puoi chiamare amica -
questo. Il resto non conta. | E stai così, a
trovarti tu pure un fiore
di pensieri
che non marcisca | mai. |
| "Il sogno è davvero possibile, sono possibili | le mani.
E crescere o rimpicciolire fino |
a diventarsi dio. | Non credere a
voce di gente in diniego di sputo. Vai. La strada è bella
se in agosto le lucciole, un vecchio quaderno
per disegnare o comporre
codici di sillabe | …per abuso di suono ti accuseranno
di essere poeta.¹ | Ancorati a un respiro. | E
dimentichi le simmetrie" |
Anche per me questo peso. In due sarà facile
portarlo, dove in un attimo il sole ci bruci gli occhi di
indocile amore | in misura di preghiera io bacerò
il verso del tuo silenzio, mentre che diventi
limpido falco in sincopi
di grida antiche, come il tuo nome che dicono,
e non rispondi | perché niente adesso vale più della vita |
com'è? ² | Sono la vita | e sono il viaggio -
diremo. | Se tagliano il vecchio melo | ne pianteremo
un bosco, in continua improvvisazione di fauno³ ||
Un cuore inerme, una rosa, un
petalo strappato4 […]
¹- Pensiero di Cristina Bove.
²- Voce dialettale di Verona e dintorni per dire - come va? -.
³- Vedi
Stéphan Mallarmé "Il Pomeriggio D'Un Fauno".
4- da una poesia di
Carlo Tella, scritta di getto un pomeriggio nel suo giardino: "Accanto a un cuore inerme | giace una rosa | con un petalo strappato".
- Fernando e gli ulivi di pietra -
Strappi con una bestemmia | la mala vita.
Lasci il vino sanguinarti in bocca | adesso.
|| Uccello di fuoco | altre rivelazioni -
non potevamo sapere allora, c'era da tagliare un
ramo, rifare un muretto.
Ma la vita si lavora negli
orti di ulivi, al mattino ogni tappo torna a turare
la bottiglia. | Si sta senza pensieri
solo in osteria. Che anno
è? E' molto tempo fa. Gli
istanti di una foglia pesano assai
più del tuo contrarsi | di tagli di carne. | Il
mio nome era Fernando. | Tendevo le reti per uno scarso
raccolto; con un bastone tra i rami facevo
cadere le più mature. | Un pazzo, cristo lo
chiamavamo | sudava gocce di
giordano | o ero io? Ferito,
che asciugavo umori di nuvola sui sassi,
carezzando. Leccavo sopra scorze salive
di fantasmi, gli parlavo. E
non una voce, non un vento;
neppure il più dimenticato gesto per dire o tacere -
semplicemente il nulla: la delizia di coglierlo nello sguardo
curvo su una pozzanghera, quasi un
narciso. | Poi si torna | a farsi
ossa più antiche.
Chi sei | chi io? | Ho dimenticato. |
Chi sono? Chi ti ha dimenticato e | niente resta
nella cesta dei raccolti che ripongo
fra le altre, ora che è sera. ||
Con l'olio ci faremo una torre di avorio.
con l'olio ci faremo la rivoluzione - dicevamo, e te
ne stavi zitto, ti accasciavi. |
Io al tuo fianco | componevo il sangue
dei grani in confessioni | alla terra. ||
Dormivi, perché niente ci fosse incompiuto: il giorno, il
tormento di cristo Fernando che in
grida di preghiera | incrociava | lingua di cenere; | il
suo bastone per interrogare | oracoli di pioggia | […]
- la ragazza con gli occhi di bottone -
Accade in uno schiaffo di scarsi istanti |
la tua ombra sulla parete della stanza che dici -
è tutto che mi resta del futuro: frantumi.
La creta antica delle voci ha
dimenticato i miei gesti - affermi. | Capita perché
a 6 anni da un fascio aperto di porta vedi Paolo nudo sul
letto, nella mezza luce | si passa sulla pelle un
pennello dalla presa azzurra.
Ferma | con gli occhi bucati, ti
chiedi che fa, ma non domandi.
Laura spazza il vecchio pavimento. Che
guardi - dice. Niente - rispondi, e la raggiungi,
attraversando un corridoio lunghissimo |
un passaggio
che dura 20 anni | poi 30 | e poi? - molte
ossa per sentirsi viva, certo. | E se la notte cerchi una
luce e ti sgomenta il più nullo cerchio di
buio, in spasmo di gelo,
è perché
Laura se ne andava | in sartoria,
tornava tardi la sera - anche la rabbia si spiega con le
parole sbagliate, adesso. | Allora?
Allora te ne stavi zitta.
Con un gioco di ingranaggi | da muovere al
contrario, prendi le tue bambole dagli occhi di bottone.
Afferra un tempo più vero. Ovali di cioccolato
che se li spacchi prima vengono
fuori i serpenti […]
Così accarezzi ombre dai lunghi capelli di
fil di ferro, veli imploranti orgasmi di delirio. | Siedi al
cavalletto a riempirti di colore | le mani. | Il resto è premere
il pulsante: accendere la lampadina. || E
dichiari il tuo spazio dalle cose ||
- il cielo non ha tetto -
I giorni tornano | cattedrale di suono. | Madre,
padre, sia risolta la fame delle ceneri. || Che ne sai tu della
notte che i morti trascinano | nelle nostre ossa,
che ne sai | della polvere che diverremo,
mentre | polvere ci resta per bere. |
Ricompaiono | le api,
intanto che il vaso di ceramica cuoce
al sole. | I nostri pochi
momenti li ingoia la rena. || Il sole ha la consistenza
antica del fico d'india marcio. | L'ape, direttrice d'orchestra,
sparisce | e metto sul naso i vecchi occhiali | la
luce può ferire chi è fatto
di troppe ombre […] Io
sono poeta. | Tu che farai per tendere
una mano e | incrociare lo sguardo allo sguardo di chi
perde, di chi si ingozza | di parole che
non hanno | pronuncia?
Saremo
orme che nessuno ardisce?
Saremo | forse l'orma che infine | si
cancelli:
è legge | di strada |
si può imparare solo camminando. ||
Adesso ogni diverso avviso, lingue pronte
a battere il tamburo includono l'impressione della trave
che crolla | dell'uomo che scava, e non cerca che
una voce | la furia del ladro che ruba | istanti
di chi a piedi nudi si conta in mano
molecole di spazio.
[…]
e ti convinci
basti | a ricostruire
un muro | un triplo
bacio mortale
[…]
Niente | sono | di inaccessibile |
distanza. | Osiamo parole | soltanto parole, intanto che le api |
riassestano un vecchio bugno. | Cosa credi
pesi di più | sulla bilancia? | E il giorno
si disfà | sopra le ultime fontane |
[…]
|
- motivo per Emma che salta - Emma
ha un sogno, come tutti,
magari due. | Emma ha una vita, una soltanto
ma un corpo di cedro per contenere
l'anima del mondo.
Emma vive
e non chiede
perché. E crede certo: il mare è dio. Ma
non importa. Che pure ripetevo dio frammento
concreto. || Emma, sai,
i sogni bruciano
come foglie.
I sogni | bruciano
la vita. Ora, lascia che sia senza voli, ma
sia | anche l'inverno che passa fra le mura del
cortile, con un suono di ossa | battute sui
tamburi del cielo. Pioggia, infine, a
tenerti il respiro. ||
E se la vedi danzare, farsi aria
in una ferita di altalena, Emma lo sa che
potrebbe cadere.
Ma guarda
che spinte | che
pare una bimba, così innocente per vero |
i suoi vent'anni valgono il tempo
di scrivere una canzone.
O a sera mostrarle un cavo
di rane e di luna. Non si lascia | prendere per
mano. Va da sé, invece.
Sicura del suo
spazio; tanto ne
ha per abitare anche te, te che più non
sai: sei tu che vai avanti o lei ti accompagna |
dove i fiori si portano alla bocca.
Emma, ho
sognato, che quasi il resto
dispare di contro. Il mio sangue si solleva.
Ma | il muscolo | poco | a trattenermi nuvole.
E | ridiscendo alla materia immobile,
per morire più piano di un
albero severo.
Ragazza, l'amore è una
finestra sul sole dell'est; quante spezzate |
quali venti faticosi | giorni e ore e
i giorni | per vedere che il
tempo non conta
la misura dei riflessi. Emma non corri. Né
ti fermi. Vai. Chiusa la scatola dei giochi | e un
tempo pensai fosse dio e tutti i vecchi fogli
dentro | i pesciolini d'argento.
Ho saltato | anche io […]
Elia Belculfinè
- Cascano, Dom.
21 Giu. '09, ore 21:11
- un ragazzo, l'estate, un violino -
Quale spazio [...] Anima o
altrove, vi abiterei. | Adesso, in queste
mani, aspetto di divenire un piccolo
aeroplano di carta
che si lasci
inumidire in punta | avevo 7
anni. Ora non so più giocare con la
carta a costruire ali. Di barche
so farne però.
Hanno rotta certa | nei
torrenti rossi infuocati del pensiero -
menti di amore e paure
e strada […]
Stretta | nei denti
la terra, e risiedo | anche un po' più
sotto della pelle, su cui matura il sole in
frantumi di mare.
Torno al corsivo dell'anima,
per una forma di impressionismo più
grande, per un richiamo di musica
severa. E ti accade
il viaggio:
visione: un vetro
colorato: il muscolo dei cieli, un campo
di ortiche per tramutare il cigno in
uomo, come nella favola […]
Poi basta un
bicchiere e rincorri un
riflesso di trovarsi. Poi basta il vagone
di un treno che ti passa
una frusta di aria
calda - ma infinito, vento del sud contro.
E uno stridere di cicale - un ragazzo
l'estate, un violino.
Le finestre aperte ridanno
i decreti degli angeli del fango. La pioggia
buona cura l'indolenza di giugno
sul finire dei
numeri periodici. Ci si ascolta
a vicenda il respiro, la notte. Anche
i sogni sono condivisi. Che il silenzio è una
malattia faticosa. Perché chiudere
le porte, di conseguenza?
- Cascano, domenica
28 giugno '09, ore 19 e 08
- Venere di Milo -
Tremano sulle gentili dita miriadi di stelle,
voci di nuvole che sputano pezzi di vetro
senza tempra di ferita.
Raccogli il miele
perduto nelle
mie mani. Non | mute,
taglienti invece
come due note | inseguite. Le mie mani
suoni dispersi, appena che li inventi: hanno
la larghezza | dei baci quando | d'estate
piove. ||
Lo sbocco dei venti migliori
in noi: ci segue la vita; le galassie vi si
adagiano, bruciando pianissimo | vecchie
arie d'amore. Fiori d'acqua |
rubati - i giorni.
Condannami perché voglio vivere.
Condannami: io amo. Condannami: è sporca la
mia voce. | Legami i polsi ai polsi | alle caviglie
di chi ama come me. Condannami:
sono | felice |
Così nudo, tu dio, tu uomo: offro il
candore della più piccola genesi, la trazione
degli spazi, che ho moto di bestia accecata: uno
scricciolo o egretta alba, maggiore
dei fiumi, e non vede. | Più
grande dei campi dei cilindri del
fieno, e non vede. E si ferma, non teme
che gli strappi
le piume. - Io non volo più: io
non ho paura |
ma possiedo lo sgomento infinito del
sole che matura lungo il mio
riposo. E | non vedo […] -
Mi torna un tempo | di fumi di jazz -
era forse d'inverno, ma, sai, l'inverno può essere
solo una frase, che fili d'erba nuovi e il grano e
l'umore del vino, fusi in ebbrezza di
noi, sono | una stagione
ininterrotta | istante. Ma | non ci completa
la notte, mentre che ombra, mi bevi il respiro.
Ribevo il tuo, dolce; gocce dalle conchiglie
che mi schiudi a morsi | l'universo grida nella
mia gola di perle di sete
spirali di delta selvaggi. | Deridimi:
sono una maschera di satiro. Ti prendo nastri
d'argento annerito, tagliali pure. Nudo il polso |
distanza nulla di ultimo | mare […]
Piove […]
Odi il diaframma del pianoforte, fondersi
ore e luoghi. | Io che precipitai sulla bugia del
tuo sorriso, nella malinconia tersa
degli occhi. Io che […]
scrivevo amore e non
sapevo che amore non ha sillabe che resistono.
Non si può scriverla mai davvero, repentina si
cancella. Resta pertanto una canzone |
mutilata: capace eppure - una
Venere di Milo.
- Cascano, Gio. 25
Giu. '09, ore 15 e 19
- il contrario del cerchio -
Non dio di strade, infiniti inversi | ti
caverei sogni, spasmi di terminali finestre | una sete di
oggetto vivo. | Uomo io, la mia sete: antimateria
e pietra della tua stessa sete.
[…] uomo | neppure,
ché via via ne
perdo varchi, spazi |
tantomeno potrei | misurare volumi,
questi molti volumi
che ci spartono.
Ahi, che adesso gli ultimi istanti
di una musica appena frangibile innestano resistenze di
nulli gesti di labbra. | Ma per pochi giorni, tempo
di fiore di melo in una bolla
incandescente,
ho avuto un'anima. Accade | quando
tormento, gioia sono fattezze di una sola scultura;
così, mutato nel Pensatore di Rodin
[…] resto
incompiuto del respiro.
Il cerchio intero del mio
sangue: finità di facile
scienza.
Ma ho avuto anima sicura |
anche se per poco | mordi, dunque, una
polvere minuta | di parole,
le mie: un niente continuo di innocenza
[…] e non le ravvisi aperte in te, quasi
già sparite; che sei tu […]
| Non sono la quercia
poderosa che
resista al divampare dei fuochi; morrei - e di troppo
vento morrei ma | lento, intanto che aspetto in questo
bacio di aria e di sguardo. Io soltanto,
che amo alla
maniera fallace dei poeti;
nel silenzio, accarezzando ombre sul muro, voci intruse;
bevendo unicamente un odore di mandorle amare.
Cercarmi dentro parole, poi. || E, infine, tu
che mai scegli fra libertà
e la vita […] ||
- Baia Domizia, Venerdì 12
giugno '09, ore 12 e 48.
- patchwork in tela di nuvolo -
Infinito, sai, contiene la parola finito.
Contalo così | urgente, per credere nell'albero,
e pensare incerta
la morte,
per un risveglio di
acque, di fili di luce | quasi la seta di certe notti
i capelli | fessure di pochi vetri,
mentre il vento […] la luna.
E me ne andavo a
soffocarla la luna | mutavo la tua
ombra contro la rovina degli occhi. | Ma che
amore potrei: uomo […] che silenzio. E mi
sgomenta il mare.
Così le tue mani: vertice
di suono, che era meraviglia la mia
carne nuda; le gridavo, sollevando il respiro
del mondo, le tue mani. Vi scrivevo versi di
pioggia e di bestemmia, per visioni
di musica asimmetrica.
E lavoravo
i miei sassi, i miei
corvi in silenzio […] || Non mi aspetto nulla
dai giorni, adesso.
Sono stanco.
Rivedo il non-sogno
autogeno
di me. Le nuvole - colombe alchermes - non
fremono canzoni lievi alle mie dita. […]
Né potrei ringhiare blues
dolenti […]
Stanco. E farò invece
cerchi di spazio nei raspi del mattino
con la sola forza del sollievo. E dei giorni il grano
più intenso serberò, finché non torni a questa
genesi di sangue, per essere
una | piuma di fuoco,
di purezza antica,
e allacciarti il mio delirio di fiori
bianchi verso l'alto, che non ravviso | e il viaggio mi
affermerà Icaro, chissà […] cadendo nel crollo
dei tuoi reni nervosi,
come in un' aria ardente di pesci volanti.
Fidare davvero che | sarà per sempre il vetro
a camminarci sopra.
E stare |in-finito|
in un libro di mitologia:
il Minotauro, o che un vecchio mi racconti
ai viaggiatori in un porto lungimirante. Acefalo,
bifronte; Sigfrido e Venere e Medusa.
- Cascano, mercoledì 24
giugno '09, ore 13 e 53
- ruggine -
Scrivere | non mi prova la mano a sfiorare la tua.
Ho vomitato mezzo inferno | e parlo da solo |
da anni. | Scrivere? Di' | che è cifra di
nota, che è lunga
meraviglia di baci. Ma non
ti ho baciato | mai
né, sognando, incontrato una malinconia di sguardo;
era un meriggio di antica | stanchezza: cos'è
che attrista le tue ore più lievi
di pioggia, di luna?
Ascolta: non cercare la felicità. Non vivere la
felicità. Afferrala subito, pertanto, intera. La vita ci
accade una volta soltanto. Ed è così poco […]
Quindi, Alceo, che aspettare
di pensose lucerne?
Magari in un pugno
di istanti, lascerò | cadere ogni struttura | ti avrò
scordato […] Sì, mancato. |
Come | credibile |
possedere
il pensiero
del mare? Ma lo contengo in un silenzio,
mi innesta infezioni quali pollini aerei, spore:
tutto lo spazio incomincia l'amore.
[…] che un morto non può amare
nessuno, non questi suoni. | Lo specchio mi
attraversa notti senza confine, non
mi ravviso. E
avevo occhi,
non chiedevano fiori; avevo
labbra gonfie di tormento. E non chiedevano niente:
ridessi tu, nient'altro. Che
soltanto ridessi.
Scrivere | che desidero |
i giorni bruciano nell'incavo del tuo respiro.
Scrivere ti mette vivo. | Qualcuno mangerà i miei
versi. | Non è amore, no. E' follia. Infine
qualcuno beve le mie sillabe.
Non è amore… | e amore.
|| Fibre curvilinee, derisorie: lo
chiamano inverno, passato da fratture,
ha il colore del blues. | Il vizio del polso mi affama.
E seguo privato di ogni cosa. Raggelato
nel fuoco,
quasi il filo che
tiene insieme e scinde asimmetriche le strade di molti
baleni del cuore. | Lenta si raccoglie nelle mani la
rugiada, il sale | e nel nido dell'ombra.||
- Cascano, Domenica 8
giugno '09, ore 12 e 50
- componimento in versi & uno specchio -
I
Parabole di suoni, scorie di pensiero -
le notti disabitate; un vino cattivo sulle scale di
una vecchia chiesa ma, suoni | spezzati
per sempre. | Che volume
mi trattenne dal
vivere […] e |
non mi possiede […]
Che vento
ho cercato per avere
spazio […] era invece scagliare
infinito | preghiera |
accecata
i giorni, qualche parola -
arido conforto - in un
filo di inchiostro: solo il mio sangue
a sollevarmi dagli inferi
increati: queste ore e
specchi prima
di essere e di essere altro riflesso:
non in dio. Né l'uomo
potrebbe scolpirmi l'anima e la
materia leggera | delle mani. Il mio
sangue | soltanto […] | dolciastro, nero | di blues
interrotti a contenermi - zolla di terra.
Il mio nome è questo sangue. ||
Ho rivisto spezzare
II
il riposo molle | dei bicchieri:
piano nelle dita innesti di | rilievi | disincanti
di ultime rose - sigilli al seno,
alla pietra tonda
degli intelletti. Il mio nudo:
impressione di pioggia, delirio. | Ho | preso |
mi | hanno | dato | ho dato |
III
ho | avuto […] e intanto
pezzi di ferro | di legno: | e | imparare
la pazienza | delle sedie in una | cartavetro di |
istanti che | vi nascono gli ulivi migliori;
un sudore antico in ombra di arnie
e calce ai limoni.
| Canzoni ho bruciato
| incompiute -
tanti baci [...] versi
che sono un sale
grosso; vestito da Ulisse, in riva
al mare, spargerli io
- semi di voce -
per sciogliere il mio lutto
dalle cose. | Frasi | sopra una tastiera
d'osso | difficile | e pronunciare il profumo
della vita: difficile o davvero poterlo
sentire - pentagramma:
leggervi il presente. ||
Ho amato fantasmi dai polsi senza
misura: nessuno | in questa | torre | di aria.
Così ho coperto il mio ritratto. || Involontario di
me e le realtà oggettive, fermo nel pugno il
fuoco | e di questo Giordano grande |
e di un amore | un disamore
[…]
- Cascano, martedì
14 luglio '09, ore 2 e 29
- il verso dei salmoni -
Così anche io
inauguro il mio yatate - i ciliegi di
Bash? non sono miei
maestri -
Potrei scrivere versi d'amore.
Invece costruirò una strada: è lo stesso -
dici - e revochi la differenza fra
la pietra | e il bacio.
Il vecchio: << non c'è
un posto
sbagliato per la poesia; l'unico posto
sbagliato per la poesia
è la poesia
- §la voce separata §- C'è
un solo modo per raccogliere
le ortiche; e
aggiunge: l'orologio non misura il
cerchio: lo percorre. >> Io:
<< è di questo
che dovrei scrivere? >>
Prendo il sentiero dell'Oku. Imparo
a dipingere il respiro
dei salmoni. |
- 7 ago. 09 | 21:09
- lettera -
Un pettine d'osso: non ci stanno
tutti gli amori, e i mancati amori. Ti penso |
dal nylon di un'innocenza ferita
che mi porto addosso |
da anni;
ahimè, sanguinante | come un bacio. Ma
terminale: una rosa interdetta.
Ho conosciuto | la menzogna
delle stelle, l'antichità della luce che
precede il movimento.
A San Lorenzo
la notte adolescente è una lunga alchimia.
E mi stringevi la mano,
mentre componevo pensieri
che non finivano
mai sulla carta, in quei giorni così spaziosi
da contenermi gli errori.
Adesso cerco una stella
viva. E torno sul treno | Galaxy | che
ci siamo stati in tanti […]
E tu che temevi potessero | scoprirci.
Separasti il sogno
calibrando | gli sguardi
su un riscontro fuggente. | Un sogno e |
era mio soltanto. || Hai
un figlio adesso, ho sentito dire. ||
Non mi hai amato.
Lo so. E ti rivedo senza screzio di
presagio, né ruggine a stimare gli istanti.
Io amo: non ho risoluzione di persistenza.
Non me ne vergogno e, insieme,
questo temo;
la mia capacità | di filo d'erba,
la mia nulla tempra di
specchio | che nei miei occhi io non vi
scorga più i miei occhi,
ma gli occhi dei molti
fantasmi che abitano | le mie finestre. |
- 30 lug. 09 | 17:28
- seduta di psicoanalisi -
<<A cosa | le fa pensare | il colore viola?>>
Shug Avery. Il sogno di ogni uomo:
una baracca lungo il fiume.
Rivoluzione. La pornografia
che sposa | la scienza dei simboli. |
<<Continui.>>
Gli occhi di Olivia. Whoopi Goldberg
bella come un dio maschio,
i suoi denti -
tasti di un pianoforte
purissimo |
Non saprei suonarlo, eccetto
che | nel mio sogno, il | mio | fiume.
<<Che genere | di fiume?>>
Il Mississippi | di Alice
Walker, di Spielberg, del blues - ha sempre
avuto la pelle scura, sa?
Il blues intendo, e screziata
di suoni: scoli di vecchi
lavandini, p.es. | Suoni di acqua, di
ferro |
battuto e | vetro e
sudore.
Mi tornano in mente le parole
di un'amica. | Mi disse - se l'anima
avesse ali sarebbero
viola - insomma […] per chi ci crede.
<<Lei | ci crede?>> Nella
mia anima, si.
L'intersezione asimmetrica
delle voci | per definire | in breve. |
- luna calante biconvessa -
<<Perché indossa una maglia viola?>>
Perché detesto i paradigmi. <<Si spieghi.>>
- 30 lug. 09 | 17:28
- spartito -
Ho raccolto i pensieri: un fiore
perduto - le nostre ferite: sigillo | immenso -
bacio d'agosto: non può
invecchiare | e sei simile ai versi, intanto
che guardo la luna
e so che, lontano, nello stesso
istante, tu la guardi.
Ripercorro la verticale di pochi anni; non
trovo spazio né fibra di tempo che si
incurvi | e la tua mente rivedo
gemella dei
miei polsi. |
Porto le ustioni di tante carezze: non
risolvono la mia sete. || Lascia
che ancora |
tu sia simile
ai versi, ineguagliabile | disarmonia,
perché possa | fregiarti
di sorsi i bracci, nel discernimento di
una disattenzione severa.
Ti ho inteso
crescere a dismisura nelle mie
preghiere | farti sembianza di pluralità e
amore.| Lascia che
ti pronunci intero, anima mia | le tue
uve turgide di luce
inebriavano di sogno la privazione e
la fotografia.
Ti osservavo in lunghe canzoni
senza disagio di voce; non ti ho mai detto
- t'amo - […]
Lascia che questo barbaglio di suoni,
meditati appena,
sia albero e cornucopia; partitura per
cetra, infine, e la notte.
Che io tenga
fra le mani le tue! | Ricadono le note -
cerchi nei cerchi in | un rovescio di balsami;
sono stigmate grande | le nostre
pietre più pure.
- 2 ago. '09 | 20:12
- stanze per un'anima -
I
Suoni, forme oltraggiate
slegherei in te; una felicità | che innervi
le immagini più antiche. | (Si compie ogni attimo
l'evento
degli ulivi, il fiore della voce che riporta
presagi |
di musica ultraterrena.) | Troppo lontana, subito,
è pensarti frangibile | brandelli dentro
| aridi affanni […]
II
Ci hanno visti,
in | rue de Mouffetard, | sognare sul vetro
delle sdrucite parole - senza ferirci -
andare in fuga di grado nelle satire dell'uso,
contenere | una piccola preghiera |
per il mondo […]
III
Anima mia, | non ho
voci d'amore, ma lasciami
sanguinare. Anima mia, possiedo soltanto
il grano raccolto da tante mani, nella notte.
Lasciami sanguinare. Anima mia,
e | cerco una canzone.
IV
Restituirò ogni parola
ne farò riposo di albatro dopo la sete,
visione capace, per una sera fertile di tragitti, un
pensiero
che sia | aprire il disavvezzo
stradario.
E sei figurazione del mio fiato, di ogni fiato. | Sul
tuo sollievo, adesso, il cerchio dei musanti,
| gli spazi […]
- ven. 4 set. 09 | 14:14
<< Il modo in cui canti il mio nome… >>
I
<< Il modo in cui canti il mio nome prolunga la mia
attesa, distende | complessione di sollievo; sogni, spazi
scompongo, intanto che taccio il soffio
della notte | quando è
voce | di pioggia e | di
uomini. Di giorno raccolgo
il giorno, ogni istante e | tu canti la mia ricerca in
fiato di vecchio armonium.
Conosco il
vincolo mirabile di ineguaglianza
e | amore.
Sono, infine, tanto ricco,
sebbene manchi di suono autentico: questa
la mia scarsa povertà […] ma ho
prosperità | di sguardo.
Così, viste
grandissime raccolgo | nel fuoco
dell'occhio. E | mi
rivelo umiltà inferiore
che sia | sistema di stelle del pensiero, carezza alle
cose e | alla pelle | che lentamente
vi nasco, mille
volte vi nasco: erba gentile,
parola che rabbrividisce sulle labbra,
nelle dita. | Il meriggio che | faccio | sacramento | le ore,
edificio di luce il filo della mente. Sono più uomo
forse e | meno | intendo […]
II
dio, ma | dicono:
- non si è mai | separato da te,
lungo tutto il viaggio - chiuso in un
fiore di innocenza, di infedeltà sapiente - lungo
il tragitto fino a questo taglio
di vento adesso.
Sparti il rituale antico
| il bacio perpetuo. Il monte | si plasma e si
fa | ingegno del passo
[…] molto di più: |
delirio | spasmo e, ancora: | fonte
cui attingi il corso del fiume. Il mare, poi, che vi
si scorge sul fondo il basamento del cosmo.
E | sul tuo | petto, poeta | passano
ponti di corda - >>
III
<< Impara la meraviglia di questi vasti
cieli viandanti: nelle nuvole sta il canto del tuo nome,
di tutte le creature ardenti di genesi.|
Poni in una sporta il pane
delle intonazioni, dividilo con chi ti è
accanto e con chi
ti disprezza;
fanne partitura dell'animo >>
<< Come potrei con queste piccole mani
dedite all'agio
della penna, tanto
superbe […]
le mie mani che hanno rubato.
Le mie mani che hanno
battuto e mentito e,
cento volte cento, demolito | l'arnia difficile del giorno.
Sono sporche le mie mani […] >>
<< Riponi il gesto delle sillabe, ogni
segno lascia. Resta
ad osservare
le tue mani | in silenzio, a lungo.
Abbi consapevolezza di esse, di ciò che hanno, di
ciò che possono. Allora le sentirai crescere - cattedrali
e fatica di pietre, quindi, scriverai. >> | << Per
gli altri >> | << Per gli altri. E
sarà albero di musica
inaudita >>
- ven. 4 set. 09 | 14:14
- canzone -
Le mie sillabe | sono | madreviti.
Abito i miei versi più spesso che | le notti | difficili
come | la pronuncia dei
baci, per imprecisioni subliminali.
Divergono gli errori
in posizione di preghiera. Non sono nutrimento,
ma canzone: estate di pescatori
dentro acquarelli
lungo i banchi di | una
fiera | mocciosi sopra biciclette roventi […]
| In tutti questi anni di
che ho sfamato | il mio riflesso […] Fantasmi. |
Occhi | dentro | occhi;
sogni irrisolti: pezzi di risacca. |
Traiettorie e
una miseria di sedie, per un
disuso delle vertebre, un riscatto di musica.
La fine, poi, ogni volta la fine,
continuamente la fine. | Credi
infermità | la mia
morte vera ( i morti, sai, si amano |
fra di loro, tenendosi
per mano, | fino alla
polvere, per un istante che riporti
malinconia di fiori vivi ) || Ho
conosciuto una ragazza; voleva innamorarsi. Io
scrivevo lettere ai miei amanti
più antichi -
ogni amore | principio
degli astri - Non so più i nomi sui muri,
gli alberi, e ci accadeva
il gesto del mai. | Ho meditato
eresie contro l'emorragia degli attimi. ||
Adesso, più in alto
dei presagi del cielo puoi sentirli
cantare | gli angeli
ermafroditi; si tramutano in papaveri,
talvolta, per intonare una tela di Van Gogh, imitare
il sangue. Puoi vederli volarti intorno,
muoversi dentro avanzi di
cifre. || Non ho mai avuto il mare: il diesis
dell'ultimo | treno | un delirio di luna | le mani […]
- ven. 4 set. 09 | 14:14
- sangue fritto -
L'uomo che non desidera - l'ho conosciuto
anche io. Era mio fratello quel giorno che eressero
cento patiboli. L'ho udito
passare - suono
di ossa sopra i tamburi del
giorno - un grido
scritto con le unghie dell'anima, affinché
il numero del delirio fosse
voce di costellazioni.
(Nei cortili le donne sgozzavano
i polli, mentre portavo i miei vecchi libri alla
pesca della missione.
Da quel giorno | ho mangiato | sangue fritto
per anni) | Così
ricadono | tutti i
presagi, | i pesi.| La fine è
naufragio immenso | molto più che le tue porte.
L'ho incontrato: compagno
di strade. La mia
gola | arida. Era
incendio | la mia terra - l'anima - bruciava | nei
suoi sogni. L'ho visto muoversi dentro
estasi di fiori superbi, un
mattino che i canti ritornavano aria. E
quella volta che | un fremito
attraversava
le gambe di Annalena bagnata
di ultima luna;
e nascevamo. | Ho visitato il viaggio
dell'uomo che non desidera | sai quanto grande
il volume del suo amore […] Accade in un attimo:
ti guardi allo specchio e ti riconosci, e |
non ti rassomigli. |
<<Io sono un uomo,
lo dicono i miei piedi>>. Uomo:
quando questa parola strapparono alle
tue viscere?
- crescono rose
nella fatica
degli occhi -
- ven. 4 set. 09 | 14:14
- con una preghiera -
I
Il bagliore dei vuoti asserisce la mia strada
per il tempio | delle ore. Sono stato | il breve attimo degli
spazi ad osservare la luce crescere, diventarsi
il mio passato, al limite dei vespri e
le ultime | innocenze
della storia. Tu | imparavi a pronunciare | la
larghezza di un addio;
ai tuoi vetri riflessi di uccelli, il suono che cola e riempie
gli orecchi di parole | prima del loro significato.
II
Scendere | poi | le scale di | pietra viva, | scalfita
da tuo nonno | gradino | per gradino,
avanti che venisse inverno, ancora, e
le | sue piogge |
veloci e | piane, sottili […] uguali a
certi pianti o risa che più non contengono le nostre
lontananze. Appena ieri | e caricavo
la | poesia di |
piombo, polvere da sparo ché solamente
potessi sentirti viva, nell'odore che copre i colpi
alla scultura del seno, le braccia; una | maternità
ancestrale - arterie di | mercurocromo. |
III
( Un compagno | mi
diceva | dell'autodolore: | conduce
alla gioia | del corpo | il pensiero [… ] aveva già dato
il suo sangue ché ne fiorisse latte e
sfamare come un figlio l'orrore di quegli anni, sino a
farne | il gigante di ombre che asseta
la sua anima, la mia. )
IV
Adesso | da questa soglia e lo slancio di
aria smisurato, Padre, io | ti domando | la lenta risacca dei
giorni a meditare di infiniti,
navigazioni |
- il silenzio in linea di labbra, lungo la
via che passa
oltre | il camposanto - per l'ordine | soltanto naturale delle
cifre: la rovina irrisolvibile | degli occhi.
Lun. 21 set. 09 | 18:00
- fotografie -
I
Cadono i tempi dei presagi, come mordere
un pane vecchio di cent'anni. | La bottega del calzolaio
ha suoni di risate di aria:
non mi posseggono; ombre che il sangue
non potrebbe contenere. La luce eterna, fuggente,
più lunga di una fotografia, diventa verticale, filo
a piombo per la struttura degli istanti;
II
li sconteremo | sopra le scarse |
rovine | della | notte. | Li sentiremo | crescere |
morirne, | crollare: |
l'albero quando è stanco | di essere
nido per il vento. | Torno alla convergenza | dei silenzi, per
asciugare | i miei fogli | imbevuti di
inverno, di mare che
il verso del cielo vi si prolunga oltre le ore. Era
bello gennaio nelle nostre attese.
III
/ non so chi sono, adesso;
chi sono stato, eppure
conosco bene chi sono,
chi sono stato /
IV
Abbiamo | imparato l'amore, | la sua assenza | ne
è il | negativo […] Non è | facile
scriverne l'alfabeto, unire in musica, in danza i segni, le
lontananze tra i vertici ineguali degli slanci. Ma
ritrovo il mio pianoforte: la gioia amara di cadere,
la mia polvere giusta. | Un attimo.
- Sab. 19 set. 09 | 14:05
- un sogno -
I
Suoni francesi irradiano la mia notte all'ultima
superficie di madreperla di luna. Avevo aratri buoni per la
terra: le ore: barbagli di presente, appena.
- sonata per flauto, viola e arpa -
E tu che allontani il pensiero dalla figura
della musica, diventi | un'isola; io | chiedevo | di essere una
| foresta | di stelle: | l'organismo | difficile
II
di un pioppeto, un imbrunire | a San Lorenzo […]
Mai avrei creduto così distante l'anima
delle cose, a non avere
udito che basti a scoprire l'antichità degli
specchi, le scale maggiori
delle incrinature. Ma abbiamo inventato una parola per
significare la vita. E oceano: così magica -
III
<<Dio di Neanderthal dissolvi
l'ombra in sprazzi di gesso |
bianchissimo, per fare un
calco | delle nostre mani.>>
I fremiti di un
bacio di fuoco, vivido,
nel lento settembre
che pensavamo verosimile la
continuità delle cadenze […]
IV
Ora un castello d'aria resta di certe attese e strade,
ora uno spazio: cerchio in cui si accosta
un umile | infinito. || I nostri
vecchi vestiti | diventavano | rito nuziale per
il mare, quando l'amore deve
morire: sognavo | e le | parole
di Lowell in un francese logico che intendevo
italiano, incise sulle tue spalle mentre la materia del
V
riverbero si disfaceva: sabbia
e oro: la mort n'a rien à voire avec | la vie car la mort n'est
pas vécue. | Lo avevi imparato | in fantasie | rovine.
Io? Stavo per svegliarmi […]
Lun. 28 sett. 09 | 13:57
- microtoni -
I
Scopro nell'attimo frammenti d'amore;
la pace | che | trattengo | è scricciolo appena, | sfarzo | di
inconoscibile, | oltre | le forme del rito, |
i tramonti.
Scopro un'anima tanto grande da essere
preghiera e frumento. | Si era nascosta nei tasti più bassi
del pianoforte, quelli che usi di rado, e |
II
dici essere discordanti
per le ore, ma eccellenti per i giorni di vento.
Suona, ragazzo. Per il volo dello scricciolo, uno spazio
più certo, | e somigliare |
alla musica | delle mani: | le mani | di tutti. | Rendici | il
| respiro | del firmamento; | non è | tempo | di
tirare calci | ai muri. […]
III
<<Conosci voli di uccelli silenziosi alla sera,
lo scricciolo può soffocare se la libertà non si lascia
libera di disertare.
E viaggi stridenti di aeroplani distesi, percorsi
tenaci; astronavi chiuse in seducenti distanze astrali. |
Così riempi le dita.>>
IV
Tu, fratello. Amore, amore, famelico bene,
che mi aggrovigli gli orecchi alla verticale dei rumori | le
lontananze | ti ho udito crescere in eccesso di sete,
senza sollievo di aceto, giacere nella
calura del desiderio, non
negando mai di | desiderare. La vita | ci appartiene |
interamente. Guarda | gli ulivi antichissimi del podere del
frantoio | disciogliere | il loro argento.
Ven. 25 set. '09 | 18: 39
- 30 settembre -
I
Le minime cose incidono come chirurghi o scultori
la pietra molle dell'anima che rende | fiore
di scintilla vivida.
Torni con me in epoche passate; radio: stati di gioia,
di immaginazione; correre dietro al sole:
II
un opale; Carmine potrebbe montarlo
su un anello […]Altrove le strade fremono nei vespri,
altro tempo.
[…]Dietro al sole, avanti che sfiori la pelle del mare,
nel trucco consueto degli sguardi.
E scrivi in riva: la vita, | una stella
che l'onda ingoia.
III
Non c'era
urgenza di indagine, il poco
vento invece; non ci pareva carezza. Accade
nell'interregno di estate e
autunno di rubarci a morsi la gioia di vivere | di viversi | in
misura più umana, per la sete ancestrale
che muta in amore la scienza
delle mani;
IV
puoi tenere la mia.
<< Silvia ha trovato l'ansetta di un'anfora,
ripulendo con una scopa senza bastone le rovine di
una abitazione>> dici. Io accendo un'altra
sigaretta.
V
Me lo avevi insegnato, ero un medio
sbarbatello <<la felicità non è un dono ma una conquista>>
e la vita, cara, la vita. Che è più forte
di qualunque altra cosa.
VI
Non so se cercassimo la felicità; ti toglievi
la sabbia dalle scarpe.
Poi trovare qualcuno che ci vendesse del cioccolato, un caffè
per confondere in bocca il sentore di medicinale.
Ma | siamo stati bene.
- Ven. 25 set. '09 | 18: 39
<< Il cielo ha un suono di lucciole prese per gioco… >>
I
Il cielo ha un suono di lucciole prese per gioco
in un barattolo | di vetro trasparente; labirinto | di percorsi
di nuvoli immaginifici - vedi -
pare un dragone
quel cespo rossiccio nel
tramonto - in questo decennio di mare e
di vento -
I bambini imparano i nomi delle cose e le stelle. Noi
dimentichiamo i nostri, di conseguenza.
- fuga di purosangue -
II
Il cielo ha suono di conchiglia
accecata; prova a passarvi un filo, tra le volute,
e ti dirò dove danza la maggiore capacità del cuore.
Ti dirò dove essa si incendia di sangue
verginale di
telai traversi
come fiati, | di fieno immenso che
si fa alimento |
dalle lamiere di sole sino al torrente
delle pietre rosse;
e sarai uomo. || Ama, ma dimentica l'elemento dell'amore.
Gioisci, ma non cercare della felicità. Invece
III
come un rabdomante
trovi la falda capace della vita:
la porti
a tutti perché è bene comune. Ne bevi tu pure | e
la tua gola si incendia di pace
larghissima. || Ha un suono anche il castagno | di
certi ritiri di uccelli dalle piccole ali
infinite e il roseto freme di
ronzii inimitabili.
IV
Ma il suono del cielo rimanda le attese
di Dio, molto prima ancora dell'aggettivo "ancestrale".
|| Ecco io vengo, dicevi, alla
comunione dei volumi
inafferrabili; ecco io vengo alla
polvere di fuoco
- per una ponderazione di presagio - femori
e visceri che vi giace lo sgomento
di tornare aria -
V
Ha un suono di limature di ferro l'aria | di novembre,
adesso, intrisa di fumo azzurro di sigaretta,
vibratile di schiribille
verdastre
nei calendari delle erboristerie, forchette
contro | vecchi piatti | dalle
finestre roventi nell'ora di cena - è musica, pigmentazione,
per un sospiro assai più lieve che
un tamburo basco.
- Mer. 21 ott. 09 | 11:56
<< Portami in un giorno di pioggia… >>
I
Portami in un giorno di pioggia che le
mani mi mettano gemme di livelli di musica, che le dita
si | intessano - coperta di profumi -
un richiamo di lievito
fertile.
Sono stata tanto
arida, | nel tempo che | mi chiudeva
in spazi. Ma divenni spazio io stessa, un piccolo
spazio e conteneva anche la tua sete,
la tua sete prematura
di incertezza.
II
Dammi acqua di fiducia ora
che gli occhi domandano di Dio e non è preghiera
bensì
anelito smisurato. | Ho
visto l'uomo | e conosco il suono
| dell'inferno:
non è vero che è | tanto
lontano
quando si nega | una mano all'altra mano | quando
la voce è affermazione di
III
dissensi
| irragionevoli. Ahi, | morde | negli
inguini | una pace | di ultimi | brocchi, | un riposo
di scope.
Ma c'è tanto cammino ancora, come ogni cosa di
mondo, verso la luce e una distanza
di rumori che disciolga
tutte le parole;
IV
percorsi di polvere e di erba nuova. sospiro Portami
in un giorno di pioggia, sarò
Penelope protetta che attenda
alla fatica del tuo
miele.
E tu mi bacerai
dei baci | del fuoco | originario,
per rendermi sostegno di corpi celesti. Io mi
rivolgerò | a
V
te, amore, e gli orti di vitigni | che si allignano
nel mio ventre | ridiranno
| echi | di |
festa lieve, che | le mie carezze | di madre | e di figlia si
prolungano nel sangue strumentale.
Così faccio
dei capelli intrecciatura severa, perché tu sappia
sempre | dove veglia il mio stupore.
- Mar. 20 ott. 09 | 13:18
- una canzone rubata -
I
Ho per davvero fantasia di scribacchiarla questa canzone. Ma
che sia né di pietra o di respiro: spensierato giocattolo.
E sento richiami di tempo lungo,
le fate, le ricorrenze.
E sia
di quando il fico alla finestra, abbarbicato
nei tramezzi del solaio al terzo piano,
non era ancora neanche
un seme
che | potesse | raccontare. Di | quella
banda sempre
allegra. Di fiocchi rossi canditi o verdi a tenere trecce e
code di cavallo, e gambe magre, rosse
dal freddo, infilate in
scarpe troppo grandi | o strette | da fare
male, raramente | della misura giusta. Erano | i tempi delle bacchette
e del granturco che lasciava buchi in ginocchia
intirizzite, i tempi della maestra
Fernanda, della festa
dell'albero […]
II
Che vale poi che io sia musico o tu stella profonda, se del tuo
baleno, che mette una lesione dolcissima
sulle labbra, e nei tuoi lutti
sterminati
io cerchi la forza di | mantenere
una lievitazione di immagini. || Ahi, sapessi
piangere di gioia come una resina superba - l'abete mzimu veglia il
nostro suono; la sua leggerezza
di profumi
e gli sprazzi, le strutture dell'abitare aprono
nelle tue parole i nodi sicuri.
Così mi adagio nella nascita viva dell'aurora, con la bocca
piena | di sereno e di musica - discernimento
infinito di ogni clamore che
si affastella nella
mia voce.
III
Da molti anni ti devo
cadenza d'amore; visito la notte mentre
esploro il tuo sorriso, fino a giungere alla carezza che indugia
nelle tue mani e sopra la mia guancia di
ribelle infedeltà.
La tua limpidezza sorpresa mi
strappa marcature
di aliante; cadono i lunghi minuti dell'orologio del campanile,
saldo ancora per un prodigio di miriadi di
mani | verificate con solennità
spopolata.
IV
Apro in metà asimmetriche il tuo canto come un piccolo limone.
Spezzo i tuoi versi, i deliri come
uno spago d'erba
o un ramo. Scorre fra le mie mani - filatura di bianco mare -
un sussurro denso,
intollerabile della parola
amore. ||
Se potessi ora stoccare la radice delle tenebre, infelice
strumento degli angeli danzanti nel
tuo sguardo: sutura
di una seta senza
ferita - la rosa di purezza che cada
longilinea | nella notte - portagioie | di piume.
Se | potessi |con | la coppa azzurra
di una clessidra. || Ci vorrebbe un poeta per dare forma alle idee,
eleganza ai pensieri. Ci vorrebbe un poeta ad
indicarci la | rotta dei sognatori
per una direzione in più, per un
moto dell'anima.
V
Ti abbandoni, silenziosa talvolta, nell'accordare la rinuncia acuta
dell'anima, in una poesia. E chiedi
a Tozeur di darsi
matrigna di un sogno di strade di luna nuova. || Non sono
ferrato in geografia: dov'è
che mordono i treni l'aria
intorno, e i templi | crollano | stridendo | come
gabbie di pappagalli o sono portati verso l'alto,
cenere per cenere,
tintinnando quasi
di piccole monete - E' forse
più avanti della galassia delle nostre residenze ultraterrene.
O forse America, delizia oceanica ...magari nella
risonanza
di un gorgheggio da stiro […] Cresce in me | il tuo lievito | divorato,
adesso che mi impadronisco della mia polvere vera, e vedo
il sangue connaturale trasformarsi
in gardenia | nel tuo bacio.
Elia Belculfinè, Rosa Di Cresce - Gio. 5 nov. 09 | 12:56
- Dicono il mio amore amore di poco conto… -
I
Dicono il mio amore: amore di poco conto; pulviscolo di scarsi
fiori assediati. Invece non sai che sgomento
di inferi
mi prende né di questo strano
obbligo di stelle
insensate che danno fuoco al cielo | passata l'ora degli
attraversamenti e il caffè, ma il
suo unico senso è
l'amore. L'amore
soltanto.
È come nel momento in cui un riposano le querce stremate:
anche a noi accade il sogno di essere uguali
a Proserpina incauta.
Ma uguale al sogno
è vivere questo lungo, lungo
giorno, che non basterebbero le mani a farne
filato avvolto. Ho imparato e
distrutto la mia
tristezza di bambino infinito. Oggi ho molti anni, ma i miei
disgraziati averi non dicono nulla della povertà
della mia fronte. E vedo crollare un'aria
vocale che mette nel
pensiero un silenzio
di arenile.
II
Dicono il mio amore amore di poco conto, ma i versi d'amore,
che scrivono tutti gli amanti, non hanno altro
significato che la pioggia |
perdutamente
ubriaca.
Il mio amore era una bandiera di guerra. Adesso è un
drappello di soldati. // Pàrtite lettera mia
de sangue e core
che è giunta l'ora, vai e viri si l'amore
mio pensa a me […] //
recitavano | le donne delle mie strade, nell'affidare | una lettera
alle incurie del tempo e i primi baci | di carta
nascosti sotto i francobolli
delle cartoline;
mia nonna | che ha atteso per tanto il ritorno
dell'innamorato dai banani di Kenia,
prigioniero degli inglesi e di
un fermento difficile.
III
Dello schizzo di attimi e di
voci incalcolabili che sollevano gli ultimi bricioli delle
occasioni non resta | che
una lenta
canzone strappata, gioie del quotidiano e i fortori consueti, a cui ci
atteniamo dimenticando di Faust e di Ofelia.
Dimenticando di Dio e il sentimento delle | nebulose nella
secchezza dell'ultima aurora; genesi che siamo
certi appartenere ad altri,
universi obliati...
IV
Ma l'uomo innamorato rompe il cranio del Leviathan e lo getta
in pasto alle fiere del deserto, lontano dalle
acque prive di sonorità.
L'uomo innamorato è un calice di vino schiumoso
che non possiede misura di cecità
per esaltare
l'autorevolezza dell'anima e inneggiare a Iddio di
Giacobbe che ha fatto l'estate
e l'inverno
alla stessa maniera.
Non dentro il tempio dimora l'anima d'amore, ma
negli ignoti disegni celesti.
Padre, riduci la lusinga. Che io possa amare allo stesso modo
uomo e donna e bambino, l'albero e
lo scarabeo - guerriero puro.
Quanto care queste
dimore!
V
Conosco anche il desiderio; | cresce in me come un'emorragia la
malinconia rovente. Ho avuto timore delle tue labbra,
amore,del tuo fiato largo di gazzella e il
miraggio, eppure non ti ho mai
detto della libertà del
mio cammino.
Ahi, i tuoi occhi in cui si adagia un sole - piroscafo verde,
altresì ne ho avuto terrore sovrastante, iridi aperte
ad ogni vessazione e meraviglia,
così friabili pani
e fieri acini.
…Dicono che il mio amore è un amore da poco, tuttavia ha
abbattuto il muro del mio delirio,
mi ha insegnato a ridere di una
risata sovrumana,
mi ha dettato parole di passione, e le mie orecchie sedimentavano
uno stupore di sabbia e di sale,
una insolente
attesa; non c'è tregua nel mai e nel sempre.
E' un veleno di sangue
e di primavera.
Ma baciami di sorsi di brezza gentili. Tremano le dita mie notturne,
capaci come il cielo di Praga luminosa,
il mattino ci ruba anche
le stelle.
- Mer. 11 nov. 09 | 12:31
- Può sembrare una poesia quella che sto per scrivere… -
I
Può sembrare | una poesia quella che | sto per scrivere, invece è | una
specie di valigia; ecco: una vecchia valigia di cartone.
Credimi, stavolta, amore;
sono partito sul serio.
Frizza
nel mio petto il suono di questo battello
immenso, (o è astronave?) e di
questo viaggio; itinerario | d'amore. Nelle orecchie si solleva
la sua felicità di strumento musicale
e gli stivali infangati.
E' pietra arenaria antichissima questo
giro, sogno dai nomi dei
dipinti di Gauguin.||
Dissigillo | il polline nuovo del tuo bacio, con un sorriso che
risale dall'immortalità del mondo
e la fotografia. Ma
sempre più
faticosamente il tempo, il nostro tempo avanza
degli spazi di gioia e il grigiore…
Dolce amore, non riesco a far correre l'aeroplano; ahi, quale idea mi
annienta? Potresti dire, a guardare con occhio
mancante, che non mi sia mai mosso, ma la
mia mente è un grande esodo
e spesso visito
le stelle.
II
Ove mai cavalca il mio fantasma? Dentro un olio su tela?
Dove respingo la carità della piacevolezza?
Forse dentro "l'ode alla cipolla" di Neruda…
Ma ti ho visto
andare,
anche te ho visto andare, di sabbia
e di miraggio, nella gamma
di Aldebaran, e ti attendevo presso una sorgente
che piange luce infinita insieme
alla tua sterminata
libertà.
Berrò fino in fondo di queste lacrime: sono canzoni. Le ascolteremo
in tutto il globo, che a ridirle
siano una lieta fiducia
per i figli,
e tutta la tenerezza che sarà in loro come finestra aperta
che contempli il mare delle
balene in agosto.
III
|| Può sembrare una poesia
questa che scrivo, ma a ben vedere, è il vagone
di un treno, sì, il
vagone rugginoso di un treno; lo si è veduto || correre
di fianco al bufalo || e alla nuvola,
nei miei quaderni di scolaro. E tu || non sai quanto benedico il
bufalo e la || nube che || mi
camminano nel cuore e nelle dita. Tu, amore, non sai
che c'è il grano da beccare
per i corvacci || uguali
ai numi. ||
IV
Può sembrarti una poesia o un motivo, invece è un barroccio
trainato da un piccolo mulo; che me
ne faccio di un letto dolcissimo
se posso sognare?
Se posso avvolgermi in questo tendone da circo
che mi ha ammaliato di azzurro
contro il numero
degli angeli.
Sono la donna cannone che sale a Machu Pichu,
o il viandante delle stelle che scende
per ammirare il portiere dei
campi di cotone.
E' troppo lieve il suono dei lauri! Date alle mie braccia
scudo, e faretra alla schiena. Allora,
abbandono
gli assurdi affari
di società.
Allora sono il minatore che raggiunge l'istante della candela.
Però, se io ora mi alzassi anche la terra si leverebbe
con me, con un grido
spezzato di raccolto
amaro.
V
Quale stanchezza mi aggrovigli, laboriosa e infiacchita terra. Terra
mia di giardini di viti e di cantalupi. Quale
superiore bestemmia si imporpora
sulle mie labbra -
fiore vivo.
Ma la mia terra vera è il delirio | delle notti e
i giorni | che mi sospinge e carica
la dinamo.
Perché può sembrare davvero una poesia, ma
è una bicicletta. Esile.
E non sai che
non esiste una poesia
bianca
quanto può esserlo una strada e, allo stesso modo, non esiste un
pentagramma nero come può
annerire il cielo
dell'arco a sesto acuto
della sera.
La vita, la vita di sempre, ha inflorescenze e manovre; ho conosciuto
il dolore, ho conosciuto l'oblio, tuttavia : nulla paura , se
acciuffo l'universo che mi racchiuda,
e la mia anima non avanza
incarcerata in
eterno.
- Sab. 14 nov. 09 | 14:29
a Concetta
Occhi di verde, occhi. Sono occhi
neri questa notte, e non li vedo, che passo
una luna di
fermenti e questa poesia,
sì, questa, la vita,
un aranceto di ultimi fiori indiscutibili
che mi hai lasciato
nella bocca
un lento bacio, una
bestemmia. Occhi di verde, neri,
occhi che dicono e tacciono, e attestano e ridono.
Ahi, paura, e le mie dita non potrebbero
voce per quel dio a
cui Giancarlo diceva:
sono padre, perché... gli istanti,
poi: passerà, non avrò più
freddo.E non posseggo
che una pazzia
etèra.
Ecco d’estate, l’estate, il mio volto nello
specchio, senza simboli,
e la favola bella di
me di te, occhi, in un silenzio
e la radio, di forza.
Forse domani, adesso, uno
specchio d'acqua di giugno che finisce, ma
stasera sfiora piano il mio piccolo
orecchio infernale e dimmi che
forse sei la mia canzone
d’amore
Stage Aside
Tanto per dirne una, odio il rosso.
In principio era il rosso
- anacreonteo,
un fonema masticato
lentamente
- trillo in fabula
rasa -
Allez - Allez
lenta coda di rondine azotata -
ghiaccio, ghiaccio.
Alla fine il vecchio
liutaio
terminò il suo racconto: <<l’angelo
- veterano, liberale - l'angelo
no profit, l'Angelo
- lui -
pieno di lingue di
richiamo per il tardo incavernarsi
delle residenze in a-more - gelò
in quel fuoco - fetido, infini_
tesimale - lui -
la
p(i)ena inguinale delle voci. - O, Fausto...
- Gli fu sottratta anche la preziosa
lancia d'oro...
Lui -
una fiaccola nel ventre della piramide.
Si chiamava - Lucifero? - .-
una piramide
egli stesso.
Lui - il più bello
di tutti.
- Fate ammenda dei vostri
peccati, O Proci,
O Farisei.
L’orologio di Laura
I
Siedo nell’ombra della vecchia
bottega del
calzolaio a farmi vecchio
anche io.
Potresti magari,
per azzardo della mente, chiamarla vita questo break
nervoso, questo cadere sulle ginocchia,
Oggi hai scritto, sturato il lavello
- dici -
nonsense
come la parte migliore
delle cose
ecco come nasce una poesia, gente.
Tra_vasi brindisi salsa di pomodoro, e le altre, le parole ingoiate
per forza e le parole che sembrano
d’amore
ma sono solo i tuoi capelli - se li scostassi
vedrei meglio la luna diurna. Invece
resti dove sei.
Arriva sorridente la piccola Laura – nel sole antropomorfo.
Sbuca dal caffè vicino – enterica – risale in
sella, scompare in un
vicolo.
II
Crescono rose nella fatica
degli occhi
Sono stanco.
Ho camminato ben oltre
il giardino dei sorbi
sommersi.
III
Adesso apro
le finestre. Non lo facevo da anni. Ne vale davvero la pena -
devi crederlo, anche se pare sciocco, che
il mondo è quella bimba
e ci salverà tutti
Lascialo andare il tempo, tu! - e altre
frasi incoraggianti - te ne hanno
dette nei momenti
importanti
della vita -
Fallo
spaccando le clessidre, se ne trovi - glissando su ogni
meridiana che secca al sole cardiaco,
e le pietre - le tue costole - della
chiesa di Sant
Erasmo.
Segui l’orologio di
Laura.
Qui restano poche cose. Domani
penseremo case silenziose
in qualche trafiletto di
economia,
un pugno di stelle - non sapere cosa farne - un vento - seccante,
- que reste-t- il - chi ci indichi
dov’è sepolto l’osso ben spolpato. Amore,
amavo i loro profeti, amavo
le loro muse. Poi
ho amato:
e qui staremo; la tua veste
aggraziata, con luci
di ametista>>
|
|