Poesie di Graziano Capparelli


Home page  Lettura   Poeti del sito   Racconti   Narratori del sito   Antologia   Autori   Biografie  Guida   Metrica   Figure retoriche


Graziano Capparelli io son nomato
Di Roma nei dintorni sono nato
Verso al fine de li anni quaranta
E dunque sul mio capo di neve ce n’è alquanta.
Ma nel mio petto alberga un cuore pazzo
Ed il mio spirto è quello di un ragazzo.
Scrivevo e scrivo per diletto
Ma i miei scritti finora li tenevo in un cassetto.
Poi un giorno gli autor di questo sito io ho incontrato
E allora incoraggiato ho pubblicato.
Non me ne vogliate se ciò che ho detto v’ha annoiato
Potete commentare o anche dirmelo in privato
Postando all’indirizzo sotto riportato
Anche solo dicendo ragazzo benedetto
Forse era meglio se le tue rime le tenevi nel tiretto.
GRAZIANO.CAPPARELLI@POSTE.IT 

Leggi i racconti di Graziano

Tecnologie moderne
Volevo mettervi a parte di un segreto
Che finora ho tenuto riservato
Perché non ancora collaudato.

Da anni mi sono scervellato
Per realizzare un cellulare innovativo
Senza batterie e che si usa anche senza fiato.

E' incorporato,
Nella persona, ha il pensiero come trasmittente
E per tastiera i battiti del cuore comandati dalla mente.

Normali,
Quando sei di buonumore,
Accelerati, per le questioni dell'amore.

Non più parole smozzicate,
Ne mancanza di campo.
Vi troveranno sempre, senza via di scampo.

Diciamo pure che l'ho fatto per trovare Lei
Bella mia ormai
Più non mi sfuggirai.

Posso comunicare
Dalle cantine, dalle grotte,
Financo dal fondo del mare.

Dentro un sommergibile
O su un aereo astrale.
Addirittura dall'un pianeta all'altro.

E senza infrastrutture da realizzare
E senza costi.
Oggi, subito, adesso lo voglio provare.

Che sensazione di trionfo che emozione
Cuore a cento e passa
Non v'è dubbio circa la destinazione.

Vocina dolce e garbata,
SiiiiJ la Sua.. -…è inconfondibile…
“La persona desiderata rimane irraggiungibile.-L

Lo specchio
Vai vai gridò quasi con rabbia
E invece fu costretto a frenare
Per colpa di quel rimbambito
Dopo una certa età guidare dovrebbe essere proibito.

Battè le mani sul volante spazientito
Sbuffò guardando allo specchietto
Una donna giovane con occhi di cerbiatta
la mano destra corse svelta al nodo della sua cravatta.

Scattato il verde con rabbiosa accelerata
Sorpassò deciso il canuto mentecatto
Ma fu costretto a rapida bloccata
Una donna a passo lento sulle strisce imbacuccata.

Bisognerebbe vietare la città agli anziani
fanno perdere tempo occupano gli ospedali
non hanno i riflessi pronti
raccontano sempre le stesse cose e diventano seccanti.

Arrivò al parcheggio snervato e un po' sudato
Fece per uscire svelto ch'era già in ritardo
Si portò una mano al collo improvvisamente
Trafitto da un dolore acuto e lancinante.

Artrosi aveva detto il suo dottore
Ma va è meglio che cambi mestiere.
Entrò in quello che era un bel locale
A cercare un regalo di natale.

Per figlie e nipotini belli e grandicelli
Tra dolci vari e luci colorate
Notò tra gli altri un uomo
I capelli erano bianchi e il volto un po' rugoso

Aveva un che di familiare
Non era certo giovane come lui
anche se non proprio vecchio
Poi incredulo e con raccapriccio s'accorse dello specchio.

Sera in paese
Batte l'ora del vespro,
Solitari rintocchi monotoni
S'infrangono sui muri scrostati
E intanto pe' borghi
E pe' campi s'accostan gli aratri.

Volti dal tempo
E dalla fatica segnati.
Corpi piegati in avanti,
Passi lenti e stanchi
Visi scarni, nasi adunchi.

Dai comignoli acuti
Il fumo leggero col cielo imbrunito si fonde
Mentre un profumo di legna bruciata,
D'inverno,
Per l'aria si spande.

La testa bionda reclina
Vinto dal sonno
Il bambino seduto
Sulle gambe
Del nonno.

Tic Tac sul camino
La sveglia il tempo scandisce
Mentre la fiamma,
Come il giorno, pian piano,
Assottiglia e svanisce.  

Parafrasando Dante
                              Giorgio io vorrei che tu

Giorgio i’vorrei che tu ed anche io
Fossimo presi come per incanto
E messi su uno yacht che ad ogni vento
Per mare andasse al volere tuo e mio.

Si che la fortuna od altro tempo rio
Non ci potesse dare impedimento,
Anzi vivendo senza di salute più lamento
e senza la paura d’alcun licenziamento.

E donna Lory e donna Paty poi
Quella che prefisso de li anni è ancora trenta
Con noi venisse col suo sguardo ammaliatore.

E quivi con loro ragionar sempre d’amore
E ciascuna di loro fosse assai contenta
Constatar da noi una virilità affatto spenta.

L’uomo con la moto
La strada bagnata, la siepe,
Un muro di pietra,
E tutto d’intorno rischiara
Il fanale potente della gilera.

A casa ritorna la sagoma scura
Dopo più di dieci ore,
Suo solo compagno nella notte nemica
il fidato motore.

Gelido il vento spazza la valle,
S’insinua un brivido freddo sotto la pelle.
Dall’altana vigila la sentinella
Sotto un cielo nero senza una stella.

Rallenta appena un poco si piega
E riprende veloce,
Torna nel buio la quercia possente
E ritrova la pace.

Una scossa, un sobbalzo,
Che stia per cadere,
A quest’ora di notte, col freddo che fa,
Chi è quel povero pazzo che va?

Ma la moto
E’ sicura,
Abilmente la guida
La sagoma scura.

Lotta col buio e vince per poco,
Sotto un piatto rotondo di bianca lamiera
Una lampada elettrica fioca
Tra la vecchia fontana e la cantoniera.

Sorpassa veloce e svelta s’allunga davanti
E scompare improvvisa com’era venuta
L’ombra netta e possente
Della sagoma muta.

E più picchia insistente e copiosa
L’acqua sul tetto
Più forte si stringe il bambino
Dentro al suo letto.

Strani disegni proietta la luce improvvisa
Sul buio soffitto,
Frena a fatica le lacrime il bimbo
E’ proprio un ometto.

Dal canale di gronda proviene
Siccome un lamento,
Risponde la vecchia persiana, come per consolare,
Cigolando.

Son quasi le due
O forse le tre,
Di là c’è la mamma che dorme
Ma il babbo dov’e’?

Un tuono più forte
Scuote i vetri delle finestre ed anche le porte.
Sotto le coperte scompare l’ometto
Forse era meglio restar pargoletto.

Ma ecco tra gli altri rumori
Una moto s’arresta con ruggito finale.
Passa dal bianco al rosso rovente
E si spegne del tutto il fanale.

Apre l’uscio appena
E richiude piano.
E sale le scale in punta di piedi
Per non fare rumore

E invece non sa
Quanta tranquillità
In quel cuore di bimbo in attesa
Quel passo ora da.

In morte del padre
Quel grosso bacio che non ti ho mai dato
Quella carezza che ti ho sempre negato
Quell’abbraccio affettuoso di cui mi son vergognato
Quelle dolci parole che più non hai aspettato.

Quel pugno sul muro ed un dito fasciato
Quella risposta dal tono seccato
Quel giusto consiglio non accettato
Quando solo al lavoro io t’ho lasciato.

Ben volentieri cancellerei
L’ultima strofa di questa poesia
Ma gomma non v’è che sia così forte
Da fare in modo che venga via.

Ora bacio il vetro di una foto a colori
E accarezzo la pietra sistemando dei fiori
Poi piego un poco la testa e una lacrima ancora nascondo
E sussurro vane parole ascoltate adesso solo dal vento.

La figlia di Dio
(ode alla donna)

Si muove per le strade della vita
Essenza sua in essa stessa definita.
Spesso incosciente giustificazione ai battiti di un cuore
Serra umida e calda adatta al fiore tropicale dell’amore.

Dizionario dell’esistenza,
A tutte le enciclopedie capace di far concorrenza,
Di lente o telescopio a un tempo la magia
Invidia senza fine di tutta la tecnologia.

Divinità fatta persona,
Quale compenso al nostro faticare,
Unica gioia essere amati e lei riamare.

Di tutte le creature la più bella
Perdono per chi la paragonò a una sola stella.
Lei dev’essere la figlia di Dio oppure sua sorella.  

La giacca
Pende una giacca dall’attaccapanni,
La manica è lunga ma anche larga.
e ben proporzionata.
Un uomo alto giovane di sicuro in essa alberga.

Un uomo di successo
Con grande stima di se stesso
amato e rispettato dal suo e dall’altro sesso
perdente quasi mai, vincitore spesso.

Il tessuto è grigio scuro, sobrio e serio
Da manager o direttore o comunque di comando un accessorio.
Di una persona importante,
un professionista, un imprenditore benestante.

Economica non è,
Anche il buon taglio lo denota.
La stoffa raffinata ed i bottoni,
Non può essere di una testa vuota.

Egli deve avere
una voce profonda, da dominatore,
sarà un dottore, un ingegnere
o un amministratore.

Chissà quanta gente
Alle sue dipendenze.
Quante conoscenze
Quante esperienze.

Occhi di ghiaccio grigio verdi
Barba rasata e un carattere forte,
mascella volitiva e pugno duro
Deciso e fiero mai insicuro.

Intelligente e interessante
Preciso scrupoloso e attento.
Questa dev’essere, stando alla giacca, la sua fisionomia
Invece è mia.  

La lavagna
(Tragedia di San Giuliano di Puglia)

Strilli acuti e giocondi
Nel sole del gaio mattino.
Carezze di bimbi
Sul dorso tremante di un dolce gattino.

Colori sbafati
Eccedenti i contorni di una casetta.
Matite spuntate,
Cantilene di una strofetta.

Birichini sorrisi,
Paffutelli visini.
Giocar con le mani
Gli occhietti e i nasini.

Bionda o nera treccina
S’agita coi salti in cadenza,
Grazioso umano vessillo
D’infinita innocenza.

L’astuccio, le penne, i colori,
I nuovi quaderni, gli odori.
La cattedra della maestra,
La cartina d’Italia vicino alla finestra.

La nera lavagna e
Il bianco del gesso,
Negli anni a venire, per tutti,
Ricordo prezioso sempre più spesso.

Poi il tremore improvviso, l’urlo, l’orribile schianto.
Buio assoluto, risa trasformate in pianto.
Contro travi mattoni e cemento assurde difese
Tenere piccole mani di bimbi sul capo protese.

Come boccioli di fiori
Travolti da cingoli di carri armati,
Petali e gambi rigogliosi
Dal durissimo ferro spezzati

maciullati,
al fango per sempre legati.
Poesia profanata.
Bellezza sbranata.

Tra la polvere bianca
E l’acciaio contorto
C’è un bimbo, correte! correte!
Ma è morto.

Un piccone smuove una pietra,
Mio Dio, una mano,
La speranza che torna,
Presto anche qua, fate piano.

Di nuovo, ancora per troppe volte
la vita incontra la morte.
Lacrima e scava, freme e teme
fate silenzio, qualcuno c’e ancora che geme.

Emerge tra le macerie
e i poveri resti di quell’inferno
Un banco di scuola
un cestino, un orsetto, un quaderno.

Ed ecco pure, destino crudele,
Intatta la nera lavagna,
Di lieti ricordi purtroppo stavolta
Tu non sarai lor compagna.   

Donna
Carezza di Dio sulle ruvide guance degli uomini,
Angelo custode visibile e invisibile,
Incomprensibile fantastico universo,
Contenitore stupendo di gioiose speranze,
Dolcezza infinita,
Fragilità, dispensatrice d’insospettata forza,
Fattezze dell’amore.
Selvaggia femminilità,
Porta d’ingresso al paradiso perduto
Dove nuotare di nuovo tranquillo e sicuro
Come pesce in un acquario tropicale
Che non temerà più alcun male.     

Madì
Ti ho visto Madì, ti ho visto in tivvù
Quattro, cinq' anni non certo di più
Su un cencio giacevi ignorato
Nudo, il tuo pianto accorato.

In mezzo a uno spiazzo polveroso
Sotto un sole spietato,
Su un terreno brullo e assetato
Dalle lacrime tue solamente bagnato.

Tra un tugurio e una capanna
Mai tu conoscesti il canto dolce d’una ninna nanna.
Tra quella piccola disperata folla
Mai nessuno compose per te le sue braccia a mo’ di culla.

Poi mano pietosa straniera,
Missionaria, amorosa e tardiva,
Un poco di latte ora ti offriva,
Mentre insieme con te pure il giorno moriva.

Tu con gesto deciso, sdegnato
lo rifiutavi,
E senza parole il resto
Del mondo accusavi.

Figlio del vento e della disgrazia,
Per altri milioni d’innocenti hai parlato,
Tirandoti solo quel lurido cencio sul capo,
Bara misera e indegna per te diventato.

Tu cherubino nero dagli occhi grandi,
Con la pancia gonfia e le gambe scheletrite,
Senza la forza di scacciare una mosca
Scuotesti però milioni di coscienze assopite.

Diamante che brilla nella lordura
Nessuno di te ebbe mai cura.
Fiore stupendo nato sul fango
Chi solo t’accarezzò fu forse un orango.

Perdonami Madì, non lo sapevo,
Oppure lo sapevo ma non lo vedevo.
Ora so che chi ti ha voluto morto non è stato Dio
Ma tutti gli altri indifferenti tra i quali c’ero anch’io.

 
Rimembranza
L’Odore di una vecchia stufa elettrica appena accesa,
Il riflesso rosso delle resistenze incandescenti,
Una bassa trave e una fioca lampada appesa,
Il muro giallo della vicina chiesa.

L’olmo possente e le sue fronde,
agitate da folate di vento furibonde.
I rintocchi dell’ora ad ogni quarto,
Di quando in quando la campana a morto.

La roncola, le forbici per potare e sulla paglia alcune mele,
Due libri del reader’s digest
“I guastatori delle dighe”
e “Mia cugina Rachele”.

Un cestino di vimini,
Quadrato, con il coperchio rotto,
Tante foto di tutti i formati,
Parenti, sconosciuti ed un biglietto.

E’ ingiallito dal tempo
E un po’ mangiucchiato,
Parole d’amore
Lasciate senza fiato.

Un lucernario incastonato nel tetto
Un colombo, una rondine, un gatto.
Ad aria compressa un fuciletto,
Una ruota di bicicletta, un suo manufatto.

Ora con lui anche l’olmo è scomparso,
Al suo posto c’è un tiglio
Ma in quella soffitta spesso io torno
Come bambino a cercar nascondiglio.

E mi lascio carezzare da tali strane cose
Che un poco mi consolano del perduto affetto
E resto lì seduto, in silenzio, per ore, a guardare i ricordi di una vita
Danzare sulla rete arrugginita del suo antico letto.

Umida sera
Lucido e nero è ora diventato
Il grigio dell’asfalto satinato.
Un cane col suo giovane padrone
Fiuta in terra alla luce di un lampione.
Veloce passa un’auto tra i palazzi
E solleva quantità notevoli di spruzzi.
Si spintonano allegri dei ragazzi
Tra infiniti risolini e lazzi.
In mezzo alle serrande giù abbassate
lascia un bigliettino il metronotte
Mentre s’allontana in bicicletta
è quasi già la mezzanotte.
C’è un bar ancora illuminato è aperto,
Non c’è nessuno, è quasi deserto,
Solo un uomo dietro ad un bancone
Sta armeggiando con le chiavi ed un giaccone.
Barcolla ubriaco un derelitto
A mala pena riesce a stare ritto.
Passa una volante, rallenta, lo guarda con sospetto
Poi tira dritto lasciandolo aggrappato a un parapetto.
Attraversa la strada al traino dell’alano
l’uomo correndo col guinzaglio in mano.
La luna è scomparsa di nuovo dopo una sortita
Dalle nubi la pallida sua luce riassorbita.
Qualche finestra è ancora illuminata
Su un cartellone l’ora, la pubblicità e la data.
Un barbone sta accasciato in un cantone
Tra un cencio e l’atro al riparo di un portone.
Fa freddo e si prepara un nuovo rovescione
si stringe l’uomo nella giacca chiudendo l’ultimo bottone.
Roma:"Un poveretto ha perso la vita cadendo da un viadotto,
Un altro è spirato su un gradino di marmo che usava come letto".


Home page  Lettura   Poeti del sito   Racconti   Narratori del sito   Antologia   Autori   Biografie  Guida   Metrica   Figure retoriche