Racconti di Gianmarco Dazzi
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Oscar, il gatto Oscar il gatto era ormai una istituzione della casa di riposo "Padre Pio", splendida oasi per anziani persa nella campagna del trevigiano. La vita sonnolenta di provincia vi scorreva attorno, senza tangerla più di tanto, finchè la storia di Oscar non divenne di pubblico dominio. Oscar, così battezzato per il suo pelo lucido e la sua compostezza statuaria, non era altro che un micetto randagio, trovatosi per qualche settimana stabilmente a divorare una scatoletta di avanzi della mensa della casa di riposo, che due mani premurose tutte i pomeriggi gli preparavano, proprio al di fuori dei locali del magazzino. La voce si sparse tra i cuochi ed i magazzinieri, e quindi tra le infermiere dei reparti di lungodegenza, che si offrirono di adottarlo. Il direttore sanitario della casa di riposo, davanti a tutto questo entusiasmo, fu costretto ad accettare Oscar come ospite, in barba a tutte le norme igieniche, in primis al pericolo toxoplasmosi, in cambio della promessa di un costante controllo sanitario sul micio stesso, ovviamente dopo la trafila delle principali vaccinazioni. E poi, la "pet therapy" andava così di moda, anche se maggiormente negli ambienti pediatrici. ma in fondo gli anziani che cos'erano, se non adulti tornati bambini? Infatti il successo di Oscar fu immediato: tutti i degenti lo ammiravano durante le sue passeggiate nei corridoi, facevano a gara nello stimolare la sua attenzione, cercavano di prenderlo in braccio, accarezzarlo, come fosse un figlio, arrivato così inaspettatamente in tarda età. Il micio dal canto suo ricambiava volentieri tutte queste premure, non disdegnando di fare le fusa anche di fronte alle carezze più sgraziate di mani spesso segnate dal lavoro di una vita intera e dalle malattie che ne impedivano un movimento dolce e armonico. Cinque anni erano ormai passati dal suo ingresso, ed oggi Oscar non era più un tenero cucciolo, ma uno splendido gatto adulto, sempre caratterizzato da un fisico sinuoso, nonostante la vita piuttosto sedentaria e le molteplici cure amorevoli che lo soffocavano letteralmente. Tra tutti i pazienti, la sua preferita era comunque la signora Tina. Tina, 65enne, ormai da dieci anni combatteva una battaglia persa con il morbo di Parkinson, che aveva addentato selvaggiamente i suoi ingranaggi, relegandola sulla sedia a rotelle, in una rigidità pressoché totale del volto e del corpo. Tuttavia Oscar praticamente tutte le mattine balzava sulle sue ginocchia, a tenere compagnia per qualche ora a quell'arrugginito involucro corporeo, che non poteva permettersi altri stimoli "esterni". Nessuno fra il personale infermieristico si stupì quindi più di tanto, quando Oscar, durante una fredda serata invernale, si stabilì sopra il letto della signora Tina, per godere della sua vicinanza anche durante la lunga e silenziosa notte della sua camera. Oscar prima che l'infermiera spegnesse la luce, guardò Tina, notando un sussulto nei suoi occhi, un misto di felicità e rassegnazione. La mattina dopo Tina era morta, il volto amimico segnato da una piega delle labbra che ad uno sguardo attento sarebbe parso quasi un sorriso. Dopo qualche giorno toccò ad Edoardo, 73 anni, malato terminale di cancro alla prostata. Le metastasi ossee gli avevano causato plurime fratture vertebrali, impedendogli dapprima di camminare, e quindi di mantenere la postura eretta; i lancinanti dolori associati lo avevano fatto diventare, suo malgrado, un tossicodipendente da morfina a dosi sempre più elevate. I parenti lo avevano lasciato lì, fardello insostenibile per una famiglia dedita alacremente al lavoro, il Dio pagano assoluto del nord-est produttivo. La sera prima della morte del signor Edoardo diverse infermiere avevano riferito della visita serale di Oscar, che si era appallottolato attorno al braccio del paziente, ricevendo in cambio qualche timida e goffa carezza, il sussurro di parole gentili, e - questo però lo vide solo il gatto -alcune lacrime, prima del sonno definitivo. Il referto del medico legale del giorno successivo parlò di "decesso dovuto a infarto del miocardio, verosimilmente in relazione al trattamento prolungato con morfina". Si incominciò a parlare di questa strana dote di Oscar, ma le chiacchiere si esaurirono dopo qualche giorno - sarebbero riprese poi soltanto in primavera, alla morte della Signora Gilda... Gilda era una signora cinquantenne malata di sclerosi multipla; le sue condizioni si erano aggravate improvvisamente per la comparsa di una severa insufficienza respiratoria, dovuta alla presenza di placche demielinizzanti, sempre più estese a livello del midollo spinale. Davanti a Gilda si prospettava una lunga agonia, con una morte lenta e straziante, che avrebbe fiaccato qualsiasi tentativo di assistenza respiratoria. Senonchè alla sera del secondo giorno, Oscar capitò improvvisamente sopra il letto di Gilda, di fronte allo sguardo un po' schifato del nipote, unico parente ad aver reagito alla notizia dell'imminente fine della zia con una visita fuggevole. L'indomani raccontò egli stesso ai medici ed alle infermiere che stavano preparando la defunta per un funerale pressoché deserto, di essere stato sul punto di cacciare via il gatto, ma che avvicinandosi al letto avrebbe sentito chiaramente la zia interrompere per un attimo il suo respiro affannoso per sospirare "Grazie, Oscar". Ecco, fu da allora che le cose cambiarono... Oscar divenne "il gatto sensitivo"; prima i giornali locali, poi i TG nazionali, quindi Internet ospitarono la storia del gatto "angelo custode della morte", con tanto di annesso dibattito di etologi, politici, ex veline e psichiatri. Anche all'interno della casa di riposo gli atteggiamenti verso il gatto cambiarono: il cibo non era più così abbondante, ed i suoi pasti non sistematici. Al ciondolare del suo campanellino non corrispondevano più sguardi entusiasti e languidi, non arrivavano carezze ad ogni sua sosta calcolata nei corridoi o nel refettorio. Le infermiere lo evitavano, i Pazienti pretendevano le porte delle loro camere sempre chiuse, e chi di essi poteva si sottraeva alla sua compagnia. Uno, due, cinque, dieci rifiuti; le parole più ricorrenti erano "menagramo" e "portasfiga", il tono di disprezzo costante, la voce alterata, quasi a scacciare un demone dell'inferno. Ma come è possibile, che lui, Oscar, portasse sfiga. non era neanche un gatto nero. aveva il pelo lucido e morbidissimo, di colore bianco con chiazzette grigie ed azzurre, e dei movimenti "slow motion" veramente apprezzabili: avrebbe potuto lavorare nel cinema, o in TV, ed adesso era famoso. Lui non era sensitivo, e nientemeno portava sfortuna. Forse la sua unica colpa, se si può dire tale, era stata quella di ascoltare, riuscire ad ascoltare il dolore dell'uomo. E anche adesso, che vagava ramingo nei corridoi bui con le porte chiuse, e sentiva i lamenti dalla stanza di Elena, la nonna con l'Alzhaimer, anche adesso il suo impulso sarebbe stato di entrare, adagiarsi sul letto, ed accompagnare la vecchina nell'ultimo viaggio: almeno in questa circostanza non sarebbe stata sola. Si fermò sulla porta, cercando un possibile pertugio, cercò di attirare l'attenzione grattando flebilmente sul legno, ma ottenne soltanto un goffo tentativo di calcio nelle costole dall'infermiera del turno di notte. Fuggì allora annaspando con le zampe sul linoleum lucido; fuggì con tutta l'adrenalina che aveva in corpo, attraversò a razzo l'atrio, uscì da una finestra semiaperta che dava sul cortile interno. Si fermò ansimante in cima ad un mucchio di scatoloni: l'aria estiva era calda, ma la sensazione di freddo dentro di lui era insopportabile. Lì era cominciato tutto, e lì sentiva che sarebbe finito: in fondo l'anonimato era lì, ad un balzo, oltre la cancellata. Stanco, si raggomitolò su se stesso, avvertendo improvvisamente come un macigno sul cuore: aveva semplicemente assorbito troppe storie di fallimento e di solitudine. Era troppo da sopportare. Anche per un gatto da Oscar. La vicina del mostro Il mostro |