Romanzo di Jacqueline Miu
L'ULTIMA PRINCIPESSA IRLANDESE


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L'ULTIMA PRINCIPESSA

 

 IRLANDESE

 

 


 

Thriller

if don’t thrills don’t chills

 

Pensavano fosse un fantasma ma era soltanto uno spirito libero e non era di questo pianeta.

 

Romanzo

 

Prefazione

Il prete recita con le lacrime agli occhi, delle frasi che non stanno sul libro, ancora stretto tra le mani. Conosce i defunti perché ha tenuto a battesimo due dei loro tre figli. La sua voce non riesce a vibrare più forte della pioggia battente che sferza contro. Il giovane che gli regge il grosso ombrello nero sopra la testa, sente la schiena bagnata e ogni tanto cerca di inarcare la schiena per staccare gli indumenti freddi dalla pelle. Il sacerdote parla lasciando lunghi momenti di silenzio e di riflessione.

“ Siamo tutti figli dello stesso Dio, non portiamo nulla con noi, anche se il nostro ricordo vivrà per sempre nei cuori di chi ci ha voluti bene. Oggi ricordiamo la famiglia Murray. La loro perdita lascerà un segno duro e visibile sulla nostra comunità ma non dobbiamo temere per le loro anime che sono vicino a Dio. Loro hanno smesso di soffrire. Siamo polvere nulla più.” Così si chiude l’omelia dell’anziano padre Cedrwick al cimitero di Hollyhill. I reporter filmano dal margine del piccolo viale, la numerosa folla che partecipa al funerale; conoscenti, amici stretti, parenti e collaboratori delle vittime ma non solo, le classi, dove i bambini andavano a scuola sono presenti con genitori e personale scolastico, la tragedia sfiora tutti la mano rinsecchita e triste della morte. Una voce sottile e graziosa non molto lontana, parla in un microfono ricapitolando l’intera vicenda di quel terribile omicidio mentre un cameraman le indica con l’indice alto da quale parte girarsi per essere ripresa.

Dell’assassino, prelevato dagli agenti del FBI, parleremo in seguito e cioè appena i medici della clinica psichiatrica di St. James diranno la loro diagnosi. L’intero Dipartimento di Polizia di Hollyhill è sotto pressione. E’ incredibile quante domande ci abbia lasciato questa specie di esecuzione e quanto sia stata feroce la rabbia L’intero nucleo famigliare macellato, queste e molte altre dure parole espresse dal Capo della polizia investigativa Darren Covaci che si nega alle interviste finché non farà chiarezza … I testimoni ci hanno confidato di aver sentito urla disumane per una decina di minuti poi più nulla. La polizia interrogata, risponde che in circolazione ci sia un altro volgare assassino che a loro detta, non farà in tempo a diventare un serial Killer. L’agente Vayden della Omicidi è certo che la brutalità di questa esecuzione sia fuori dal comune e che l’indiziato sia poco attendibile a causa della …”

 

Hollyhill 2001

Le sue mani tastano il perimetro del pezzetto di carta, ne piega gli angoli dapprima lentamente e appena percepite le dimensioni, si muovono sempre più velocemente. Mentre compone il suo gioco, tiene gli occhi serrati. Ancora due mossa ed è finito. Non lo vede ancora ma ne avverte la leggerezza e l’aerodinamicità.  Lo controlla sempre a occhi chiusi e appena si sente soddisfatto della sua opera, li apre. Quello che sta fissando è il suo piccolo capolavoro. Lo accarezza e infine lo mette con delicatezza nella tasca della t-shirt verde con un grande drago arancione e sputa fuoco macchiato di sangue fresco su parecchie zone del corpo.

In una situazione diversa avrebbe considerato l’uso dell’astuzia ma era tardi. Tutto compromesso. Il suo personaggio sarebbe durato ancora poco. Si siede sulla scalinata con il telefono di casa in entrambe le mani, fissa il display e con molta calma compone il numero d’emergenza. Le sue dita hanno unghie piuttosto lunghe che lasciano colare sul telefono portatile bianco, sangue e materia umana ancora fresca.

Pensa grattandosi la testa e i capelli bagnati di sudore con la canna della pistola, nell’altra mano. Il metallo scompare nella capigliatura lunga. I suoi occhi studiano sempre il display che s’illumina mettendo in mostra il piccolo rivolo rosso che inizia a colargli dai capelli e per non perdere nemmeno una goccia del prezioso liquido, lecca il rimanente dalle unghie. Dall’altra parte dell’apparecchio gli risponde una voce squillante di donna. Cerca di immaginarla ma non ci riesce, deve rimanere concentrato.

“Emergenza prego?”

“Eh …”

“Chi parla? Ha bisogno d’aiuto? Pronto? Pronto?”

“Ehhh …”

Il dito insanguinato molla il grilletto della Remington 1911 da difesa e sfiora la freccia rossa del cellulare per chiudere la comunicazione. Ogni cosa ha il suo prezzo. Era disposto a pagare, aveva un sacco di tempo davanti. La gente avrebbe dimenticato, col tempo, le cose sarebbero tornate alla normalità. Ha dei piani. Ha dei sogni e persino dei desideri. Non ha mai pensato di poter assimilare tante sensazioni in così poco tempo. La violenza lo ricarica, la violenza è l’energia più potente dell’universo come la paura di morire e lui ha bisogno di tante energie.

Torna nell’ufficio imbrattato di sangue e accede al profilo Facebook. Usa uno pseudonimo “Bloody” e posta alcune porzioni del cranio adulto in cui sono assenti, cervello e pelle e muscoli tranne gli occhi. La sua non è un’opera d’arte ma più una semplificazione dell’essere umano.

Una macchina è un assemblaggio di parti che funzionati la mettono in motto così l’uomo. Fissa lo schermo del PC e in basso legge l’ora, 19:30, cavolo, pensa è l’ora del film “Godzilla”, uno dei suoi preferiti.

Due ragazze nude si avventano una sopra l’altra e prima di un rapporto intimo, sono afferrate da un mostro gigantesco che le divora. Solitamente lui guarda sulla chiavetta solo i primi otto minuti del film per poi fermarlo e farlo ripartire. Dopo anni lo ripresentano in televisione e non vorrebbe perdersi il passaggio preferito. Distoglie l’attenzione dal computer per fissare la finestra della camera. Pigia un tasto del PC. Guarda l’immagine dalle telecamere puntate suo “posto preferito” e vede che tutto è OK. Nessuno potrebbe trovare il suo caveau.

Lascia acceso il PC e si dirige in cucina da dove esce con un grande contenitore di gelato al cioccolato. Ha i piedi nudi che lasciano impronte scure, probabilmente sangue sul tappeto bianco del grande salone e sulle scale di legno.

Il film preferisce guardarlo a letto, non importa se la sua stanza è più piccola, gli piacciono i pianeti che ruotano sopra la testa, quelli di quando il piccolo Murray era solo un neonato. Quella sera niente cuffie, tanto nessuno si sarebbe lagnato.

Ha piacere nel sentire rumore. Si rialza dal letto, scende le scale e va in cucina. Butta ogni cosa dentro la lavastoviglie, piatti bicchieri, sapone per piatti, acido muriatico, detersivi di vario genere e la fa partire. Medesima cosa nel locale della lavanderia, accende lavatrice e asciugatrice che girano a vuoto.

Nell’istante in cui fissa l’oblò della lavatrice, china la testa sul lato e ricorda che ci sono altre cose che possono fare rumore: l’auto in garage, il phon, il frullatore, lo stereo.

Fa partire tutto. L’auto in garage è accesa. Nel frullatore ha messo delle posate così il casino è più forte. Guarda un attimo fuori dalla finestra e fissa senza empatia le nuvole nere distese sul cielo. Apre la finestra e ispira l’odore di pioggia in arrivo che è certo cadrà per parecchi giorni.

Prima di risalire a vedere il film, torna in ufficio e apre la pagina di Youtube, dove sceglie la voce di un predicatore infervorato. Gli acesi discorsi su Dio, accompagnano i suoi passi di ritorno al piano superiore che superano pezzi di carne umana, strappata, leccata dalle ossa bianche composte sopra il rosso del sangue e degli organi sparpagliati.

Se fossero semi, fiorirebbero? Si domanda cercando di sentire il proprio passo, ma a piedi nudi c’è un leggero risucchio della moquette sopra il gradino. La detesta. Si guarda dietro, in basso e sorride alle macchie concentrate in mezzo alla scala. Una rapida occhiata alle foto di famiglia. In lui non scatta alcun impulso. Soddisfatto di sé, riprende il posto sopra il letto, con il barattolo di gelato e il telecomando su ci digita canale 560.

Ci sono cose in lui che non hanno tempo. E’ soddisfatto. Inconsapevolmente canticchia un motivetto che gli esce più come un fischio che come una canzone. Le sue mani battono sulla gamba a ritmo e all’ultimo ritornello, la mano si ferma a mezz’aria, e lui ne guarda la fisiognomia nonostante tremi.

“Ohh Golia, Ohh, tu morirai, e sul tuo capo, la mia danza di festa io farò … ohh, oh, Golia, tu davvero morrai …” canta cercando di riprendere il filo dei propri pensieri.

La corsa andata e ritorno dal fossato, la ricarica e il tempo per raggranellare la soddisfazione di essere vivo, è durata meno di sette minuti. ritorna di corsa in casa. Sale scale e afferra il barattolo di cioccolato. Il suo film è quasi alla fine. Non gli piace la fine di quel film. il ragazzino cerca inconsciamente con gli occhi la sua macchinina preferita. Una parte in lui è così assente da lasciare che lui guardi tutti i giochi sulla mensola, ma dura poco. Una sorta di rabbia lo prende e lo sballotta. Il suo corpo trema violentemente per un paio di volte. Gli occhi chiusi del ragazzino si riaprono e ora hanno una luce diversa, malvagia.

Il barattolo gli scivola dalle mani e lui lo afferra in tempo, lo alza, guarda dentro, il cioccolato è finito ma sono rimasti sul fondo ancora dei pezzi di carne incollati al fondo zuccherino.

Sei giorni dopo un boato, a meno di sessanta metri dalla proprietà, la polizia scoprirà il caveau di Bloody, ricoverato in uno stato di profonda denutrizione e shock all’Ospedale Generale di Hollyhill.

Poteva vedere il mondo, osservare il circo di tutti i suoi personaggi o magari farne parte, ma non poteva sfuggirgli. Non poteva scegliere di andarsene o di restare, era prigioniero con una dieta troppo povera di energia per evadere, ma aveva trovato un sistema per non morire del tutto.

L’ospedale è una vasca per deboli e moribondi. Un fiume dove pescare anime. A quell’ora c’è una vera emergenza perché l’arrivo di un’ambulanza provoca subbuglio, ma un paio d’ore dopo tutto si acquieta. Hanno dato al suo corpo un sedativo per endovena ed è certo che dovrà spendere le ultime energie per muoversi altrimenti non avrà più modo di spostarsi. Era stata una giornata pesante prima il Dipartimento di Polizia, poi una decina di ora in auto e infine l’ospedale.  Una serata in ospedale, pensa, e tutto potrà ricominciare, da capo, all’infinito o finché non si stancherà di quel gioco. Un ragazzino non mette paura a dei giganti, così la pensa il genere umano che va avanti più per orgoglio che forza d’intelletto. Avrebbe pazientemente aspettato un nuovo … inizio.

Gli agenti di sorveglianza fuori dalla sua porta si sono addormentati. Lo saranno quando si alzerà per conoscere i superstiti di quell’incidente. S’infilerà nella stanza e poi …

 

Hollyhill undici anni dopo

Il piccolo incendio nella casa azzurra alla periferia di Hollyhill, Louise lo spegne con una coperta di lana, vecchia quanti gli anni di matrimonio che avrebbe dovuto festeggiare, non fosse stato che il trapassato se la stava spassando all’Inferno con qualche derivato del whiskey e una porcella più metilica di lui. L’asta di legno del pavimento, si lascia mordere dal fuoco che la divora silente mentre mostra il vuoto nell’intercapedine, dove passano un groviglio di vecchi fili che hanno visto il passaggio di qualche generazione di atleti a otto zampe, digiuni e ischeletriti sotto la polvere del buio.

Louise guarda il fumo che si alza dalla coperta con un buco scuro in mezzo e lei si accende sovrappensiero una sigaretta. Già, certe cose, pensa lei, hanno un destino ovvio. Si dirige lentamente verso la porta di casa, fissa la fotografia di suo figlio maggiore, gli sorride triste e apre l’uscio, scuotendo con la mano il fumo tossico che certamente non sarebbe uscito così presto.

Con altra calma raggiunge la finestra della sala e dopo aver spostato le tende con pesanti fiori rossi e gialli, la spalanca, a voce bassa riflette, l’assicurazione non pagherà mai per questo scherzo. Nonostante abbia la sigaretta sul filo delle labbra rossissime, ispira l’aria di fuori a pieni polmoni.

“Tutto fumo e niente arrosto Louise.” dice lei cercando un secondo pacchetto di sigarette che aveva messo da qualche parte, prima della cucina e dopo averlo trovato, prende la borsa azzurra dalla sedia, il cellulare dal tavolino, infila il pacchetto di sigarette quasi terminato e quello nuovo, prende le chiavi dell’auto dal comodino, torna a guardare la coperta che ha smesso di fumare e dopo aver alzato le spalle in segno di resa, esce dalla porta che rimane aperta.

La telefonata di John arriva appena lei frena davanti al semaforo.

“Credi che il male esista?”

“John?”

“Credi che il male esista?”

“Hai finito tutte le ciambelle? Sai che troppi zuccheri ti fanno male, lei si prende una pausa poi cambia tono di voce. Il male? Beh, sì. Esiste anche l’inferno e tutto quello che c’è intorno a lui. Stai bene? Non sei ubriaco?”

Il semaforo torna verde. Il tono della voce che la donna cerca di assumere, è rassicurante ma lei è in ansia. Probabilmente la depressione ha occupato il posto della menopausa e gli orizzonti dell’amore si sono ristretti intorno a quell’unico figlio che vive sperando di raddrizzare il mondo con la legge degli uomini. Non c’è riuscito Dio, non c’è riuscito il Diavolo e quell’umanità va alla deriva con la sua zattera di porcherie strappate ai politicanti o peggio alle armate di ecclesiastici confinati nella loro dubbia realtà, quasi senza accorgersi di galleggiare sopra le sabbie mobili.

“Io … sì, almeno credo. L’uomo, il Diavolo credi che esita?”

“L’uomo cattivo muore ma lascia una scia, il Diavolo ti segna per la vita se ti sopravvive.”

“Non credevo che papà fosse stato tanto …”

“E’ morto. Non ti devi preoccupare di lui o di me. Il male esiste nella misura in cui sussiste il bene. Ma dopo qualsiasi temporale torna nuovamente il sole. Non ti sento … John? Ci sei?”

Lei sterza improvvisamente tra i rumori impazziti di clacson e fa inversione di marcia per tornare a casa. L’auto calpesta la linea continua ignorando le regole stradali. Louise nemmeno si accorge di aver trasgredito.

“Louise?”

La donna si riaccende un’altra sigaretta, inspira con soddisfazione il fumo e riprende il cellulare che aveva appoggiato per un attimo sopra la borsa sul sedile del passeggero. Ora sta meglio. La nicotina entra nei polmoni, è qualcosa di piacevole che le ridona la parola.

“Sì. Ascolta John, io non ti posso dire cosa sia bene e male nella vita, sei adulto e ora lo sai, ma c’è un lato di te che ha sempre tenuto testa a papà; un lato profondo e violento che mi spaventava. Temevo che saresti diventato come Damien, affascinato dalla forza bruta, dai soldi facili tanto da pagare con la vita e tu, nonostante il lavoro che fai, hai addomesticato quel lato, ma questo non significa che tu abbia perso il fiuto. Tu hai fiuto figliolo. Quel lato buio, quella parte imprigionata dalla tua ragione, ha capito che c’è qualcosa di malvagio su questo pianeta e lo troverà.”

“Ho visto il Diavolo.”

“Io ho vissuto con un po’ dei suoi emissari e posso solo dirti che ringrazio Dio per averti messo al mondo. Qualunque male quell’essere porti nel mondo, tu lo fermerai.”

“Ne sei convinta?”

“Non mi piace lodarti. Tutti gli assassini hanno paura di qualcosa e quasi sempre di se stessi. Se ti metterai in testa di prenderlo qual bastardo sono certa che ci riuscirai. C’è un rimedio a tutto.”

“ … tranne che alla morte.” risponde lui laconico.

“La morte deve farti paura quando non lasci nulla dietro, ma se come me hai cresciuto un figlio e hai visto sistemarsi certe cose, la morte è un ultimo atto di fede a quei miracoli che non hai visto avverare. Tua moglie è stata una brava donna ma Dio ha pensato di chiamarla, è tempo di risanare le ferite, hai diritto a una nuova vita e anche Madeline lo avrebbe voluto. ”

“Non ti sapevo così credente. Non ci sarà mai un’altra Madeline. Sto bene così.”

“Non bestemmiare. Non andare in chiesa, come certe bigotte fanno, non significa che io non creda nel bene. Mi piace bere birra e più di una ma non sparlo e non volgarizzo la vita come quelle donne che si mostrano sante e poi appena uscite dal sacro sito, ti mandano al diavolo. Se hai un principio, mantienilo qualunque cosa accada. La determinazione è più svelta e più utile di una pallottola. Io non sono eterna e tu non devi invecchiare da solo come un vecchio rancido che si lascia dietro solo tristi ricordi. Sei un uomo, combatti!”

“Che madre saggia ho.”

“Vedi, meglio che andare in terapia. Passa a trovarmi.”

“Già. Ti voglio bene e fuma poco.”

“Ti voglio bene ma non rompere.”

Lei lancia il telefono nella borsa semiaperta e fissa la casa con la porta dell’ingresso spalancata. L’atrio buio è poco invitante, anche se le roselline rosa appassite e secche nel piccolo vaso sulla scalinata del patio, danno un certo tocco sorridente alla casa che avrebbe bisogno di una mano più allegra d’intonaco. Lei guarda ancora la porta aperta invece di parcheggiare l’auto nel vialetto accelera e gira in fondo all’isolato, quasi avesse una meta più interessante che quella vita in quella casa le cui mura che lei vorrebbe che cadessero sul defunto.

Louise si sta godendo la sua terapia in totale libertà ed essere libera è quello che più le è mancato in più di vent’anni di matrimonio con un uomo che non ha mai speso una briciola del tempo per comprenderla. Il suo obiettivo è vedere suo figlio, felice e magari potrà un giorno allevare dei nipotini, se Dio avesse voluto che lui trovasse una nuova compagna.

La sesta sigaretta si sta consumando vicino alle sue labbra soffocate da “Midnight Diva” il rossetto delle star, per la prima volta dopo tanto tempo, le è sembrato di sentire la voce del defunto. Le dita molto magre stringono il cilindro di carta. Ha perso trenta chili da quando è rimasta sola e il suo corpo scricchiola meno di quando sopportava gli effetti del matrimonio. Non ha nemmeno più il coraggio di pensare che quello, le fosse stato marito.

Ora per lei è diventato “il defunto” e questo basta a scuoterla con violenza dalla calma abitudinaria in cui vorrebbe passare il resto dei suoi giorni. Nemmeno l’analista, l’ipnosi, ha cancellato quei giorni pieni di terrore in cui avrebbe dovuto fuggire. Certe ferite risentono del tempo come i reumatismi e lei sente la sua carne lamentarsi per un dolore passato ma che riemerge per consumarle i nervi.

“Lei non deve reprimere l’astio che la consuma. Tiri fuori la rabbia, si compri una pistola e vada al poligono, segua un corso di autodifesa, tutto, mi creda so quello che le dico, è meglio di una pastiglia di Xanax. Per guarire dai nostri fallimenti, dobbiamo imparare a reagire. Faccia emergere la Louise incazzata che sta dentro lì. Faccia jogging, yoga, prenda un caffè con le amiche, il sesso, diceva lui ponderando bene le parole, è un ottimo ricostituente.”

Brutto bastardo, impreca la donna, sparo oggi per dimenticare ieri, ho conosciuto idioti migliori che si spacciano per analisti, non mi servono più i cerotti. La mano tremante con le unghie smaltate di rosso scuro toglie la polvere dal cruscotto, sta macchina ha bisogno di un bagno, pensa guardandosi nello specchietto retrovisore il trucco.

“Mi parli di suo figlio, Louise?”

“Mio figlio? Mio figlio … Quale?”

“Lei ha perduto un figlio?”

“Sì, ho perso un figlio. Ho perso tante cose che nessuno me le riporterà più. Damien ha sempre avuto, mi scusi, aveva sempre avuto il carattere irruento di suo padre, non ascoltava, nemmeno se cercavi, di spiegagli per ore che quello che avrebbe fatto gli avrebbe cagionato. I ragazzi come lui, non si soddisfano col fare una scelta o magari sbagliare e poi ricominciare, si spingono fin, dove fa loro più male e arrivati a un certo punto non posso più tornare indietro e basta.”

“E John?”

“Cosa?”

“John. L’altro suo figlio.”

“Lui, sì, lui è diverso. Ha la mente di un vecchio in un corpo di giovane. Soffre, in fondo è quello per cui l’ho portato al mondo, tenere duro e soffrire.”

“Mi parli di lui, è il figlio preferito.”

“Di chi? Mio? Non ne avevo uno preferito, litigavano sempre e quando arrivavano ai pugni cercavo di convincerli che nella vita hai bisogno di una spalla, di un fratello, si detestavano. Forse era quello che aveva sempre voluto il bastardo, portarmi via la ragione lasciando che i suoi figli si scannassero.”

“Lui non interveniva? Che genitore era? Che marito?”

“Ho smesso di ricordare da quando mi è rimasta impressa la sua faccia nella bara, anche lì dentro sembrava che sogghignasse. Si beffava di me, avevamo sepolto un figlio e lui fingeva che il mondo continuasse a girare intorno all’asse della sua sete. Meglio un vibratore. Adesso sì che sento caldo, non c’era mai un apice, solo una lunga attesa del caldo. John non capiva, perché era andata com’era andata, solo adesso, col vuoto sente quanto bene faccia l’aria ai nostri polmoni senza più bruciarli nell’odio … nelle lacrime.”

“John e lei …”

“Mio figlio è libero, non ha bisogno di una che gli dica le regole della vita. E’ sempre stato così fiero di avere uno spirito giusto, già, la giustizia è quello che ci spinge a tirare avanti. In fondo quanti si possono considerare così fortunati?”

“Non teme per la sua vita?”

“E’ un buon poliziotto. Non eccede. Morire dobbiamo morire tutti, se dovesse capitare, so che avrà lottato per una causa giusta e con tutti i mezzi.”

“Come va con il sonno?”

“Dormo bene da quando non lavo più i piatti e non soffoco in attesa di lavare jeans sporchi di grasso d’auto e birra o calzini sudati. Sogno di uccidere qualcuno ogni tanto ma sarà normale, vero?”

“Uccidere?”

“Ho bisogno di mandare ogni tanto il mondo a fare in culo? Sono pazza?”

“Lei che dice? Si sente pazza Louise? Crede di aver bisogno di cure?”

“Dico che per quanto mi costa un’ora di seduta, potrei permettermi anche altre locuzioni …”

Louise accende la radio. La musica country non è per quel tipo di giornata. Mariah Carrey nemmeno e nemmeno Adele che intasa il KWM25, invece, le arriva alle orecchie come un siluro, la voce di un giovane Mark Knopfler e riprende il ritmo sull’acceleratore con la punta della scarpa rossa.

Uno stacco pubblicitario spezza l’incanto, vendono lotti per l’eterno riposo, diavolo, pensa Louise, l’eterno riposo in Paradiso costa più di un’auto da vivi. La voce continua a descrivere la bellezza e il verde del parco che ospiterà l’eternità di pochi fortunati.

Le viene istintivo spegnere velocemente quella boccaccia nera che le ha rovinato la giornata. Il primo pensiero è passare a comprare birre e altre dannate sigarette, forse al suo ritorno avrà fortuna e troverà solo delle macerie. La cosa le sorride nel capo e accelera investendo una fioriera. Fa spallucce. Vede invece la sua vicina Amanda Core, la pettegola che spinge in macchina come bagagli indesiderati i suoi due poveri ragazzini, mentre digita messaggi sul cellulare, quella sì che meriterebbe essere investita da una montagna, per ritrovare l’affetto perduto o per imparare cosa significhi non averne. Louise sa che Amanda va in palestra troppo spesso ed è incollata al cellulare come un panda al suo ramo di bambù.

Louise guarda ancora nello specchietto retrovisore, sì, Dio si porta via i cattivi troppo tardi e suggestionando l’ego con cose migliori che possono capitare nella vita, incluso un piccolo, casuale, incendio, transita davanti all’intero isolato, sognando per lei e per suo figlio, tempi migliori.

 

John Vayden

Lo stesso giorno, nel sotterraneo della Centrale di Polizia di Hollyhill, il Capo del centro investigazioni Darren Covaci ha un infarto, in mezzo tra la sua auto e quella di un collega. Non ha nemmeno avuto il tempo di dire le sue ultime volontà, si è accasciato a terra, lentamente ed è rimasto a fissare la carrozzeria nera dell’auto in fronte a sé. Non ha potuto gridare e avvisare del suo forte dolore al petto. La sua smorfia di dolore si riflette nei suoi occhi sbarrati che osservano la figura dell’uomo

Sulla carrozzeria lucida della berlina appena lavata. Darren Covaci smette di pensare di preoccuparsi per quella cosa che aveva in mente prima, che cosa si domanda, non importa è svanita, il suo problema immediato è quell’acuto dolore che gli strozza il respiro. Lui tiene entrambe le mani sul petto e appena stringe i pugni, si rende conto che l’apnea è durata troppo e che forse non c’è più ritorno dal dolore. Dopo trent’anni di servizio, avrebbe lasciato poca eredità alla vedova se non la sua encomia carriera.

Il parcheggio è pieno e l’unica auto che transita verso l’uscita che vede l’uomo accasciarsi per poi sbattere contro la portiera, rallenta appena per visionare meglio la scena ma né il guidatore né il passeggero, scendono per dargli il primo soccorso. In piena indifferenza, l’uomo morirà sette minuti dopo e senza il conforto di essere ritrovato fino alle sedici, ora in cui un’impiegata, uscita con un anticipo di venti minuti per portare il figlio dal dentista, lo troverà disteso con la faccia contro l’asfalto. Tredici metri oltre la porta dell’ascensore, un vecchio nemico attendeva con serenità la sua vendetta. Covaci aveva avuto la colpa di ascoltare le parole di un sant’uomo, uno che gli aveva mostrato la via dopo l’alcool e, come riconquistare la famiglia, quell’uomo gli aveva parlato di come il male usasse gli uomini per mascherarsi. 

Quell’amico si era confessato immaturamente a un poliziotto che conosceva bene La sua prematura mancanza, scombussola la gerarchia politica del dipartimento. Tutti i detective aspirano a quell’incarico, tutti tranne un uomo, John Vayden.

Come principio e fine di tutte le cosse, lui pensa sia indifferente chi sostituirà “la vecchia canaglia”, uno stronzo di certo, in fondo era meglio lavorare col Diavolo che con una sua cattiva imitazione. La morte di Darren ha colpito profondamente Vayden. Erano stati amici e colleghi leali ma proprio per questo Vayden non ha voluto mostrare il suo dolore. Ha preso la notizia come una morte qualsiasi di una persona qualsiasi. Lo fa per rispetto a tutti i morti su cui ha dovuto indagare ma nel suo cuore sente un vuoto che diventa sempre più buio di quanto già non lo fosse prima.

John si è rassegnato a fare il poliziotto per passione e non per ambizione. Ha visto troppa morte per volere cambiare il mondo, per lui il male si dirama come le radici di un grosso albero e salvo che non si estirpi la pianta, sarebbe difficile pretendere che qualcosa potesse cambiare. L’umanità si nutre di violenza e questo, l’ha sperimentato sulla propria pelle, cercando di tenere lontano dai guai il fratello o fissando gli occhi tristi di sua madre che non avrebbe mai conosciuto la felicità con un uomo che la maltrattava per sfizio.

Vayden ha dei sogni ma si è dimenticato di essi. Nutre ammirazione per quelli carichi di autostima e sebbene cerchi di combattere per riconquistarla, spesso sbatte il proprio orgoglio contro la negligenza e la strafottenza dell’umanità e per superare questo, affonda la sua delusione in un cartone di “Fricky Fried” le ciambelline alla mela e cannella di Ludo’s, un signore messicano sulla sessantina che immerge pastella e mele dentro olio bollente per meno di un minuto, il risultato sono dei soffici confetti alla mela. Le FF non superano un dito di diametro e hanno un cuore di frutta bollente che quando lo mordi ti ricorda il paradiso e in mancanza di queste delizie, gli bastano due piccole Tic Tac.

La vita è breve non bisogna complicarsela. Vayden si accontenta. Non è un uomo perfetto. Ha provato a esserlo ma il destino l’ha fatto inciampare troppe volte per diventare l’eroe del mondo. John però sente di essere segnato da un destino più grande di lui se il fritto non lo ucciderà prima.

 

Il Controllore di Langley

L’estate è sparita in Virginia. Piove da sei giorni con sferzate di vento oltre i settanta chilometri e danni alle strade a causa degli alberi caduti e non alberi di piccola entità ma giganti strappati alle loro radici ma nulla di questo arriva al Centro Controllo Diagnosi E Sopravvivenza, un ente non governativo sito nel pieno cuore CIA per salvaguardare il mondo da qualsiasi minaccia planetaria e interplanetaria, una specie di servizi segreti che proteggono segreti non di competenza politica.

Le sue stanze si susseguono come in un labirinto monocromo, bianco, asettico.

Sessanta telecamere, milleduecento sensori antiradiazioni e per il controllo termico, ottanta video real time piazzati nei corridoi per visionare i complicati meccanismi di sviluppo del dipartimento dove Tinney Skinnen detto il “Pilota” un assassino, un efferato criminale che si spacciava per rivoluzionario è in stato di coma da più di ottant’anni. Tutti sono spiati e tutti possono spiare è la regola. 

Il Controllore digita velocemente i dati nella cartella segreta. Lui sente di avere a che fare con un giocatore. Si ferma ogni tanto per osservare la sala vuota del laboratorio, ma sa che loro sono là fuori a seguire ogni suo movimento.

Dapprima i calcoli non dicevano nulla di strano. Un su e giù come un elettrocardiogramma di un atleta sano ma appena scoperte quelle celle misteriose come dei salti temporali incongruenti, il Controllore si rese conto che la cosa era totalmente lontana da quello che i Capi di quell’organizzazione super segreta pensavano. Gli scienziati avevano sempre continuato a dire che quella tabella non sarebbe mai cambiata. In fondo i morti non possono né parlare, né ragionare, ma lui ha capito che il gioco era proprio quello, sembrare morti mentre qualcosa poteva vivere liberamente e distante da quella dannata prigione.

Lui è un vero agente ma là dentro come semplice Controllore non avrebbe mai dovuto mettere in dubbio la parola di quella squadra di geni che aveva rinunciato a una vita loro per perseguire un sogno. Che spreco di energie e di fondi per quella cosa, pensa lui mentre scrive codici che si allineano in un file con salvataggio automatico ogni dieci secondi. “Certi sogni fanno male!” pensa ad alta voce il Controllore che si ferma appena teme di essere udito ed è così.

La guardia scannerizza le parole dell’operatore e capito che per lui potesse trattarsi di una forma di stress, cambia schermata e si concentra sul laboratorio seguente.

 

Belfast 2011

“Distant fields look green.”

Inverno. Belfast riposa nel sonno caldo delle coperte. L’odore di pesce fritto vicino alla stazione, è stato spazzato via dal velo di nebbia gelida proveniente dal porto che si è concentrata tra i muri degli edifici. Più in là verso il porto, da un agglomerato di edifici scuri che si regge a vicenda per non cascare sulla riva, si alzano i fumi delle caldaie.

L’odore di cozze è un pregio anche d’inverno. Il Three Tides è sempre una vecchia baracca, con vista mare ma la cucina non è male, le ostriche sono una poesia e la birra nazionale frizza come la brezza. Il bar è ancora chiuso ma sulla piccola lavagna è rimasto il menù del giorno prima.

Sul lato ovest le barche ormeggiate si spingono l’una contro l’altra, in attesa dell’alba. Three Tides si vanta con le sue insegne rosse che fuggono dalla neve o semplicemente cercano gabbiani cui sorreggere la sbornia. Qualche coraggioso si spinge lì anche d’inverno e ci resta finché è abbastanza sobrio da salire in macchina. Gli uomini moderni non hanno dimenticato le vecchie battute e così resta tradizione ogni proverbio strambo e ogni augurio che spinga a ridere. Bere e ridere, sono sempre la pietra millenaria di un buon irlandese. Chi non tracanna birra a Belfast che cosa beve? Birra.

Falich O’Garry il falegname non dorme, ha iniziato a ristrutturare la casa di legno che gli servirà ai mercati di Natale, dove nella confusione dei turisti qualche portafortuna e qualche strano oggetto si vendono.

Belfast da qualche decennio ha smesso di essere la seconda scarpa d’Irlanda. Il suo vivaio di commercianti è molto frizzante e non accomuna la città con nessun’altra dell’isola. La sua innaturale freddezza è cancellata dalle dolci colline che restano verdi per lunghi periodi l’anno. Solo Cavehill con le sue mura antiche tiene l’occhio fisso sul mare in attesa di vedere l’Isola di Man distante e in attesa dei villeggianti estivi.

Ma la globalizzazione ha sottratto al rurale la sua autenticità e adesso Belfast è un grande condominio cosmopolita e privilegiato che offre alle masse lo spettacolo di un sogno o di una lunga fatica per la sopravvivenza. Piovosa e con la raucedine è sempre bella, come una donna malinconica che folgora i passanti con i suoi occhi verdi.

La città appare come una strana creatura che combatte l’aria soporifera con la sua autentica e romantica decadenza che non teme nessuno, in fondo possiede grattacieli alti come missili e l’energia di un popolo orgoglioso.

Il vento sferza contro le barricate di cemento e contro gli scafi che danzano contro frangionde esausti. Il litorale è vuoto ma fa sentire la sua presenza con un forte odore di marina che investe le strade e ogni vita respiri in esse. Il centro resta nel suo guscio appesantito dagli anni e lascia all’inverno la cadenza del respiro quasi grato al letargo per chi se lo può permettere.

Otto ragazzi corrono in strada. Uno di loro urta un cesto dell’immondizia da cui scivola il Belfast Telegraph del giorno precedente che mostra la tragedia in prima pagina: “Il Missionario getta nel panico Belfast!!! Un altro scheletro è stato pescato ieri a trenta metri da Whiterocks. La sua identità resta un mistero, anche se la polizia tema che il killer di Belfast abbia colpito ancora. Il Missionario ha lasciato il suo marchio visibile sul torace della vittima cui sono state amputate le falangi dal metacarpo. Le indagini in corso …”.

A questo punto l’articolo illeggibile si bagna maggiormente, ma poco importa al giovane che è avanti di un paio di metri per cercare di restare a passo con gli altri.

Il gruppo è provato. Il loro fiato impressiona l’aria gelida. Hanno iniziato presto. C’è una leggera ma fitta tempesta di neve ma loro sono in canottiera e pantaloncini, quasi ignari del ghiaccio che scricchiola sotto le suole delle loro scarpe. L’oscurità sta lasciando spazio all’alba e il gelo è una fitta pelle di salmone che pressa confusione negli occhi degli atleti.

Le loro ombre si allungano o si restringono in prossimità dei lampioni, pochi per scaldare le strade e troppi per dare pace ai leggeri alieni bianchi in caduta libera. Sono in otto e tutti fingono di non sentire il freddo che pugnala l’aria prima di ogni respiro.

Uno di loro, il più alto, il più muscoloso comanda la cadenza.

“Lo spirito non prova dolore, solo la carne.”

“Solo la carne!” ripetono faticosamente gli altri.

“Lo spirito non cede solo la carne.”

“Lo spirito non cede” risponde il coro.

“Lo spirito non ha paura, solo la carne.”

“Non ha paura, cazzo che freddo.” impreca uno di loro.

“Lo spirito non muore, solo la carne.” nessuno ha più il fiato di ripetere.

Un’auto si avvicina e dal finestrino del passeggero, partono dei colpi di arma in aria. Il gruppo si disperde ed è scioccato. Ognuno di loro è a terra chi proteggendo con le mani la testa, chi dietro i bidoni dell’immondizia. L’auto si eclissa dietro la cortina di nebbia e sparisce anche il rumore del motore tirato al massimo dei giri.

La corsa del gruppo finisce dietro le porte di un Istituto e la resa è drammatica.

Qualcuno si siede a terra, altri si accasciano sulle ginocchia. Il cammino verso le docce è una ritirata che si consuma in religioso silenzio.

“Dici che era meglio andare alla polizia?”

“No. Nessuno di noi dice nulla. Ci terrebbero dentro dei giorni e anche se non abbiamo fatto nulla, arriverebbe alle orecchie dei nostri. Meglio stare zitti. Qualcuno ha visto la targa? Si muore di freddo. Avete visto almeno la targa?”

Mark Durden guarda il sangue nel palmo della mano e si tocca nuovamente il naso. Le facce disorientate degli altri non lasciano dubbi. Nessuno ha avuto il tempo di reagire e a guardarli hanno paura che il folle, ritorni.

“Io che mi consideravo un guerriero adesso mi sento una cacca.”

“Sai Hoss, credo che tutti noi ci si senta allo stesso modo. Credo di essere morto e resuscitato oggi, sputa a terra e riprende, mi domando se è stato un cattivo scherzo o l’avevano proprio con noi?”

“Pensavo che avreste detto che la paura fosse tutta degli ebrei. Dio non punisce mai gli stronzi. E se tornassero, non sarebbe meglio cambiare aria? Non voglio una pancia bucherellata e pronunciare oggi le mie ultime parole, tanto sarebbero delle stronzate.”

“In un altro momento amico, adesso la cosa la vedo da un punto di vista più ampio. Voi ebrei avete monopolizzato il mondo con tante altre cose.”

“Quei cazzoni volevano farci la pelle o cosa?”

“Che si fa?” domanda Pete Hoss mentre cerca di guardare in fondo alla strada con la speranza di non rivedere nuovamente quei pazzi.

George, il Capitano si ferma e osserva che nessuno è uscito dalla sua casa o si è spaventato, la gente ignora quelli che muoiono in strada, pensa lui, mentre pulisce le escoriazioni nei palmi delle mani.

Gli brucia dentro dovere stare zitto, ma la polizia spesso punta a investigare prima sugli innocenti, lasciando tutto il tempo ai colpevoli per svignarsela. E’ la legge obiettiva di una consapevolezza irlandese, essere una pulce grassa per il protettore dell’assassino e la legge rende i furbi ancora più furbi e i deboli ancora più deboli. Le due migliori cure che ci siano sono una bella risata e una lunga dormita, ma non aveva voglia di nessuna delle due.

“O cosa. Non volevano ucciderci. Sarebbe stato così facile se l’avessero voluto. Uno scherzo di merda.”

“Che ci abbiano confuso con qualcun altro? Uno scherzo ma con fucili veri. Uno di noi poteva …”

Si guardano tra loro.

“Alle sei del mattino? Vedi altri in strada idiota di un Monkey?”

“Smettila di chiamarmi così. Non ti basta Henry? Comunque mi sono pisciato addosso!”

I pantaloncini di Henry sono davvero bagnati.

“Henry caro non piangere …” lo scherza uno dei gemelli. Hoss gli dà una pacca sulle spalle.

“Non ci interessa Henry. Non era meglio se avessi detto una bugia, tipo, che cazzo sono caduto nella neve e ora ho il culo tutto bagnato? Amico, dovrei farti un corso di porcherie da dire quando vuoi nascondere la verità, del tipo, merdosi vendetevi alle farmacie oppure andate a ranare all’inferno. ”

“Grazie Hoss ma non sapevo che gli ebrei dicessero porcherie. Dovrai fare tacere l’ira del tuo Dio mettendo su una carriera di successo economico e una famiglia con una dozzina d piccoli Israel.”

Hoss sorride amaramente con il volto pieno di fango, per una volta non ha nulla da dire, nulla di originale, nulla di ottimistico e cerca in se stesso una forza fino allora indisponibile.

“E’ andata bene, pensa solo a questo. Un ebreo se ti salva la vita non ricordarglielo, potrebbe chiederti sempre qualcos’altro in cambio.”

“Un vero amico, insomma.”

“Cazzo Blake, tu non ti sei pisciato addosso?”

“Anch’io ma non gliela farei passare liscia. Quello stronzo ce l’aveva proprio con noi.”

“Se ci fosse stato un italiano tra voi, avrei detto che poteva essere stata la mafia.”

“Cos’hai contro gli italiani Durden? Mia madre ha origini italiane e non per questo mi sento meno irlandese.”

“Fottiti Blake, hai capito quello che hai voluto.”

“Basta fare gli stronzi, si va o no dalla polizia? La mettiamo ai voti.”

“Sette no e un sì, il mio.”

“Botoman che diavoli, è semplicemente un punto di vista diverso. Non vorrei che mio padre ricevesse qualche dannata telefonata e mi facesse saltare il culo.”

“Va bene Monkey, nessuno ti farà il culo.”

“Posso mettere su FB questo incidente, forse qualcuno …”

“Qualcuno ti prenderà per idiota. Qualunque scemo potrebbe dirti quello che vuole e tu ci crederesti.”

“La mia pagina FB è solo per voi amici.”

Hoss lo guarda stupito.

“Per noi e per tutte le ragazze della scuola, tutte le donne che respirano.”

“Che male c’è?”

“Ci sono pagine e tue foto che girano con la testa di somaro o di pesce.”

“Scherzi da ragazzi.”

“Non è vero Monkey, entra George nel discorso, sono sempre quelli che hanno provato a pestarti l’estate scorsa e ti sei salvato per una certa chiacchierata che abbiamo fatto io e Blake a due caproni che ci hanno giurato che ti avrebbero lasciato in pace.”

“Vi prego, non posso cancellare la pagina, non avrei più modo di chattare con le ragazze ma che ne sapete voi segaioli?”

“Hai mai pensato che potrebbero essere degli uomini? Meglio mal di mano che la gonorrea.”

Arrivano sudati e sporchi al cancello della scuola.

Henry è sovrappensiero. Non vuole smettere di perdere l’unico vero contatto con il mondo.

“Non scriverò di oggi ma sono sempre un ragazzo single pronto per dei veri incontri. Ma infondo che lo dico a fare, voi avete più possibilità, siete le leggende della zona.”

Monkey ha appena aggiornato la sua pagina FB con la fotografia di lui ferito e in tenuta da corsa sporca di fango. Mostra il cellulare a Blake.

“Che ne dici, sembro più maschio così? Scommettiamo che non mi batti?”

L’altro lo spinge indietro e si piazza in testa al gruppo.

Monkey alza la mano sopra la testa per mostrare il display a tutti i suoi amici.

“Guardate! ho già un “mi piace” sulla fotografia. Scommettete che prima di domani avrò più di un migliaio di mi piace, dai chi scommette con me? Blake? George che ne dici?”

“Sono stato io, idiota.”

Un coro di risate spezza la nebbia che ha un cattivo odore di mare e alghe stantie. Monkey deluso, lascia un commento sotto la fotografia che raffigura il suo primo post della giornata: “Io nel giorno in cui ho rischiato la vita” ed esce dalla pagina prima di mettere in pausa il suo cellulare.

Mark Durden fiero dei suoi muscoli, apre con un colpo forte e secco la porta del suo armadietto che mostra da sotto una vecchia coperta, la canna di un fucile e le sagome di altri. Ha un taglio sopra l’occhio che sanguina, ma non lo sente. E’ stanco. Si ferma sovrappensiero davanti ai ripiani che hanno ereditato non solo la polvere ma anche una settimana di maglie e pantaloncini sporchi di fango.

Ha troppe cose in testa e nessuna che ancora funzioni. Ha fatto cose buone ma anche sbagliate e forse quelle sbagliate superano di molto quelle buone. Un giorno sarà tanto ricco da dimenticare tutta la merdosa vita fatta fin’allora.

Il suo armadietto è l’esempio di un ragazzo cresciuto precocemente per necessità e per vendetta contro chi si è dimenticato della sua esistenza. Un armadietto può raccontare molto di una persona persino delle sue abilità di gestire tante cose e tutte extrascolastiche.

Con l’armadietto aperto nemmeno le fotografie porno rendono meno importante il contenuto della palla di vecchia lana colorata.

“Cazzo fratello!”

Henry è vicino di armadietto ed è così stupito che butta gli occhi per verificare una seconda volta il contenuto di quel buco. 

“Hai anche bombe? Cazzo, possiamo fare saltare per aria sta merda. Niente registri, niente voti! Dovranno darci un diploma e ringraziamento quanto tutto sarà in cenere. Fico!”

Durden non ha voglia di scherzare. Sbatte la porta con tanta forza da sentirsi infastidito dal rumore metallico che si combina con la serratura. Le mani si avvicinano agli occhielli di ferro che chiude nervosamente con un lucchetto. Quasi non trancia le dita di Patterson. Henry si stringe le dita con la mano sana, non è offeso e nemmeno spaventato. La sua è una strana eccitazione che gli fa brillare maggiormente gli occhi.

“Fatti i fatti tuoi Monkey. Non lo dovrà sapere nessuno hai capito? Nessuno! Merda!!”

Afferma minaccioso e cercando di intimidirlo con uno sguardo che non lasciava nulla all’immaginazione.

“Mark dimmi quanti ne hai? Dai dimmelo. Giuro che se me lo dici, cancellerò tutto quello che ho visto. Roba che costa, posso darti una mano se vuoi, ho bisogno di soldi e potrei esserti utile. Dai amico …”

Monkey parla da sopra la spalla dell’amico, evitando di farsi sentire dagli altri, ma un coltello dentro la palla destra gli chiarisce la situazione.

“Se non stai zitto, ti giuro che te li taglio e non avrai altro di cui preoccuparti.” Il coltello si allontana dai testicoli di Patterson che scivola lungo l’armadietto e si accascia a terra ma Henry non demorde.

“Dimmelo!”

Uno degli incisivi sotto l’apparecchio è visibilmente scheggiato.

“Tre XM8. Non hai visto niente, hai capito? Monkey tu ucciderò se parlerai con qualsiasi persona e ucciderò anche quella perché non mi fido.”

“Li vendi o cosa?”

Henry si stringe con le mani l’inguine. Il resto del gruppo entra negli spogliatoi. Durden spinge Monkey contro la parete.

“Non ti frega un cazzo di quello che devo o non devo fare. Mi sono spiegato?”

E lo schiaccia ancora contro il pavimento con la scarpa.

“Mi sono spiegato?”

Monkey lo allontana.

“Calmati amico. Non mi frega se vai a puttane, baste che non bruci il culo di tutti noi.”

“Fan culo.”

Durden stringe forte i pugni.

“George lo sa?”

Henry ha smesso di essere simpatico ed è diventato serio. Guarda Durden e allontana lo sguardo appena questo inferocito lo ricambia.

“Una sola parola e …”

“Ma George lo sa?”

Durden finge di non sentire e s’infila sotto il getto d’acqua bollente, osservando le battute di Monkey che gli mostra il dito medio.

“E’ proprio vero, l’intelligenza di alcuni è inodore.” bisbiglia Monkey a se stesso.

 

Tesla Mytie

Londra. Sabato quattro agosto 2012 ore undici. La giornata è serena, anche se gruppi di nuvole bianche si aggrappano le une alle altre per spingersi, nemmeno loro sapendo dove. Il bollettino meteo prevedeva pioggia, di sicuro ai botteghini c’è chi quel giorno avrebbe vinto per cinque a uno.

Una lunga fila di auto transita davanti alle vetrine di Harold’s e i loro occupanti immaginano quel mondo di lusso più lontano dell’Eden che pregano solo quando cadono con le ginocchia a terra. Londra si sfama di quelli appetiti oscuri e del desiderio come una qualsiasi metropoli che non ha mai smesso di ingurgitare i bisogni di superfluo dei suoi abitanti. E’ così che scorre la vita, su un orologio che rallenta il tempo ma fino a poche ore dalla fine, momento in cui torna a defluire a velocità impressionante. La città si eleva più per bisogno di sfida che di coraggio.

Il Tamigi ha indossato una maschera azzurra e mostra acque meno scure del solito, specchiando l’anima di un infinito che cerca a tutti i costi occhi umani per avere un premio. E’ un fiume pensante che ti assorbe e ti rimpatria nel mondo di quei sogni che restano per molto tempo solo dell’inconscio. Ha una storia. Una fama. Un obbligo verso chi lo conosce e ricorda, sì, il Tamigi si rammenta bene di te quando lo fissi per catturarne qualche spigolo del carattere. Tesla dimentica presto il fascino di quel serpente con la corona, le sembra troppo poco interessante rispetto all’ansia di libertà di spazi che lei sente.

Bisogna rompere le catene, non ricorda bene, dove l’ha sentito dire ma fa al caso suo. La prigionia è dimenticata appena lei si lascia alle spalle i giganti di cemento e vetro che la inseguono con gli occhi riflessi nel sole e le vetrate lucide da belle armature dell’Olimpo.

L’aria respirabile invita più a una gita in campagna, a un picnic all’aperto che a chiudersi in un ufficio. Londra ha la capacità di rigenerarsi con pochi raggi di sole e per pochi attimi. Cambia di umore come una donna in attesa ma resta forte sulle sue, quando piove e quando il grigio del cielo rende tutto una piattaforma in mezzo a un oceanico stato di malinconia.

Tesla Maytie ha saltato il lavoro. Non ha nemmeno mandato un messaggio. Forse lo perderà. Ha ancora la sua spilla puntata sul petto, reparto decorazioni al King George Chocolate.  Miss Galley, la vecchia acida come un succo gastrico, le urlerebbe contro “Fannullona!” e altre miserie apocalittiche, ma a lei non sarebbe più importato. Lei ha smesso di ingoiare gli sputi. Ha alzato un muro e nel caso volesse Lunedì ritornare al lavoro, supplicherà padron Peter a riprenderla, inventando una scusa tragica ma sul momento. Già. Racconterà una bugia o implorerà, usando come scusa una visita medica della sorella. Deve sbollire la rabbia.

Deve riflettere. E’ abbastanza arrabbiata da mandare l’intero mondo all’inferno. Lei è fatta così, non si tiene nulla dentro, si sfoga e poi cancella i rancori, l’astio, le fiamme ardenti, altrimenti non potrebbe nemmeno sopravvivere. L’amaro non deve renderle la vita, un tumore, non vuole altro dolore, dopo tutto quello che ha passato non lo sopporterebbe.

Ha letto sul profilo FB del suo ragazzo, il nome della nuova fidanzata che non era lei. Lei si è limitata a piangere e ad ascoltare il suo cuore battere come impazzito di rabbia, poi ha bruciato le fotografie e i due pupazzi a cuore nel lavandino della cucina.

Il primo vero giorno di sole del mese, lei è stata mollata e tramite una fottuta pagina di Facebook, l’odio per il fautore di quel programma è così forte che lei spera diventi per lui una maledizione. Quanti bastardi megalomani hanno usato quel mezzo vigliacco per mollarsi con la ragazza.

Tesla è furiosa ma calma un poco, i suoi nervi, prima di lanciare il notebook contro il muro. Non guarda più nemmeno se ci sono delle nuvole nel cielo.

Con la pioggia o con il sole, muoia in fretta il coglione, pensa lei mentre accarezza il cane dei vicini che corre, appena lei gli lancia la pallina raccolta dalla siepe.

Ha inforcato la sua bicicletta ed è salita lungo il Tamigi, verso la zona dei quartieri bassi. Ricorda i molti depositi abbandonati, la portava lì il suo fidanzato, a fare l’amore e a sussurrarle nell’orecchio cose oscene. Allora tutte quelle parole le piacevano. Sì, pensa lei, i depositi abbandonati vanno più che bene. Là è sicura che nessuno la disturberà. Forse, nel profondo di se stessa, vorrebbe che qualcuno la seguisse o la disturbasse, ma quel qualcuno si è messo con la sua collega di lavoro. Odia troppo i traditori per sopportarli di vederli insieme.

Tesla vuole convincersi che ci sarà del meglio per lei e che i sogni non sono acqua per gli sciacquoni di quella città di alieni e di bastardi. Un giorno lei sarà felice con un uomo decente e fedele, magari discretamente romantico, ma non troppo. Non le piacciono nemmeno i lumaconi o quelli che ti stanno addosso, ventiquattro ore su ventiquattro.

L’amore è una pallottola che quando ti colpisce ti lascia in coma e se non vuoi diventare un vegetale, trovi un pretesto, qualcosa o qualcuno che ti rianimi. Basta anche una fuga dal mondo.

Ora sta sdraiata sull’erba a pochi chilometri dalla città e contempla la perfetta rotondità del sole. Se fosse meno giallo, pensa, potrebbe sembrare una palla bianca pronta a rimbalzare sul mondo, ma lui resta lì immobile a fissarci con i suoi capelli lunghi come un Dio temerario e spesso crudele.

Con la punta dell’indice scava una piccola buca e infila il mozzicone dell’ultima sigaretta, il pacchetto vuoto lo conserva solo per non perdere l’accendino e quel piccolo giocattolo di carta a forma di aereo planino infilato nella taschina di plastica che lo confeziona. Smetterà di drogarsi, un giorno cesserà di farsi del male e in quel momento avrà vinto la cosa triste che oggi le nasconde la faccia, quel dannato proiettile chiamato fortuna. I suoi disturbi del sonno non si sono acquietati. Li sogna ancora mamma e papà. Sogna che appena li riabbraccia cade in una profonda voragine da cui fatica a risalire. Dovrà smettere di fumare, pensa, e cercarsi qualcosa di meno distruttivo a cui pensare.

Ci sono eroi che non sanno di esserlo finché non capita loro un evento speciale. A parte, tutti gli orrori che lei ha già vissuto, lei crede intimamente di essere uno di quei prodi capaci di superare il proprio spirito quando questo comincia a cedere.

Gira il pacchetto vuoto di sigarette, si guarda il pallido colore giallastro tra le dita, legge sul pacchetto, il fumo reca danni irreparabili alla salute, non va bene, si dice e chiude gli occhi per ricordare la prima sigaretta fumata con sua sorella dietro il giardino di casa. Fumare la rilassa ma la uccide e lei non vuole ancora morire per nessun coglione che ha preferito gettare via il sentimento per aumentare il numero delle donne scopate. Schiaccia il pacchetto con la mano e lo infila in tasca al posto del cellulare.

Ci sono due piccole pasticche incollate, dietro la custodia del cellulare. Le guarda poi lo gira per accendere il display. Con tristezza rilegge il messaggio d’addio del suo ragazzo. Fa scorrere le loro ultime fotografie insieme. Le mutandine rosa che lui preferiva mordicchiare e quei ridicoli boxer con piccoli alieni, quanti ricordi …

Quell’idiota! L’ha mollata per una più grande, che vada a quel paese! Lei vorrebbe gridare ma capisce che il suo grido non servirebbe a nulla. Non riesce a piangere e torna a fissare il cielo muto come lei. Il cielo azzurro dietro le nuvole le sussurra qualcosa sulla speranza e lei cerca di capire cosa. Il cellulare è la sua nuova Bibbia. Accede alla sua pagina FB poi richiude tutto di fretta, quasi si sentisse colpevole, colpevole di non sopportare le risate di quelli che passando, prima mandavano gli auguri per una relazione duratura. La gente è falsa, pensa. La gente ti fa credere in qualcosa che in verità non è.

Quella volontà virtuale di vederti felice con una persona è solo una bufala. Tutti gustano dal tuo amaro con beatitudine. Tutti gioiscono del tuo dolore, è così sadico il mondo dietro una schermata e l’amore perde il senso che prima dava a ogni cosa.

Rimette il telefono in tasca e prende dalla giacca di jeans un pupazzo informe che fa da porta chiavi. Lei ha scritto sulla sua pancia gonfia e rosa, Romeo, e se lo stringe sulla guancia, quando il rombo potente di un aereo la fa trasalire e il sentimento scema in altri pensieri di tristezza.

Una follata gelida s’insinua sotto la maglietta e lei sente il bisogno di coprire i brividi sulle braccia. Guarda il cielo ma vede solo quiete nuvole gonfie come zucchero filato sul bastone del cielo.

Percepisce una strana sensazione di dolore e di solitudine. Una cosa che comprende certa, è l’assenza di odore. Tutto quel posto abbandonato e in rovina le disturba i sensi.

Ispira e un’altra follata gelida sbatte uno schiaffo contro la sua faccia. Si volta e vede il mulinello proseguire verso un campo recintato. Intorno a lì nulla è mutato, neppure un filo d’erba ondeggia.

Ha smesso di pensare al traditore. Vorrebbe che quel vento lo inforcasse e lo spingesse dentro i vortici del Tamigi, lì sì che lei sarebbe contenta di vederlo. Un’ombra si alza dal rudere del deposito e scivola verso il perimetro nord del recinto, ma a lei sembra solo l’ombra di una nuvola che corre in mezzo all’erba bagnata.

Tesla si gira sulla pancia e chiude gli occhi per odorare la terra e l’erba, mentre sogna una vita priva di fatica, la sfacchinata dei piccoli per alzarsi sopra le folle, sopra le montagne dei più fortunati. Dovrebbe fare come il protagonista del suo telefilm preferito Doctor Who e guardare le cose da un’altra prospettiva.

Potrebbe usare il suo cellulare come cacciavite sonico e monitorare i Dalek che la stanno spiando da dietro le macerie della fabbrica abbandonata. O potrebbe convertire il divo di Torchwood che per lei lascerebbe il suo compagno e ritroverebbe la via della virilità e procreazione creativa, eh sì, i loro figli non soltanto sarebbero belli ma avrebbero tanto talento e si presuppone molta fortuna. Ma il pensiero ritorna a Doctor Who. Uomini così alti e snelli non ne nascono più, pensa Tesla mentre spoglia l’attore David Tennant con il pensiero. Lui l’abbraccia fissandola negli occhi e poi la bacia senza farla respirare. Doctor Who s’immerge nel cuore di Tesla e lei continua a sentirne la presenza.

Ha trovato come diventare l’eroina della sua serie preferita. Giovane donna in fuga dalla città salva il mondo dagli invasori cattivi e si rifiuta di ricevere alcuna ricompensa che andrà ai poveri orfani del paese. Quest’auto gratificazione la illumina al punto di fare piroettare se stessa in immagini molto spinte col suo collega di scena immaginaria, David Tennant.

Lei potrebbe salvare il mondo e fermare il male che avanza in modo subdolo tra i piccoli fili d’erba. Quel mondo immaginario la spinge a capire il valore di un potere totale sul mondo e sulle persone. L’appagamento è minimo ma basta per allontanare i gelidi fantasmi che le hanno leccato da poco la faccia.

Ascolta il mondo e si vede proiettata in un mondo dove lei è il gigante e la vocina dentro di se, l’autostima, le bisbiglia frequentemente quanto sia fortunata. Le sue iridi cercano nuovamente la luce. Dal bagliore compare una forma. E’ un piccolo verme che si arrampica su un filo verde, si contorce e cade.

“Che ci fai tu qui?” allunga l’indice che lo accoglie, vorrebbe sorridere ma non ci riesce. Il suo cuore spezzato è pieno di altri incubi che non ha voglia di rivivere. In un lontano futuro avrà dimenticato tutto quel dolore ma in un lontanissimo domani che non ha idea di come sarà.

L’essere si arrotola su se stesso e si dimena quasi fosse una marionetta. E’ così bianco e piccolo da sembrare un alieno forzato a vivere in mezzo al nulla.

Il verme cade e Tesla si guarda il dito, dove piccoli brandelli di terra sono rimasti incollati alla pelle. Porta il dito sotto il naso e sente un cattivo odore. Putrido? Muffa? Cose morte? Ricordi e incubi. Notti insonni e il pensiero di un mostro che la insegue. Gli odori cattivi espandono cose che la mente fabbrica dietro un velo di tenebra e paura.

Si pulisce la mano sui pantaloni e le vengono in mente i baci e gli occhi dell’uomo cui credeva di aver regalato il proprio cuore.

La rabbia torna a bollire dentro il suo petto. Per un attimo aveva dimenticato il traditore, ma quella terra così desolata e le sue rovine, nutre il suo immaginario con altro dolore che la consuma fin dentro viscere irraggiungibili da qualsiasi uomo.

Il verme è ancora lì a contorcersi e lei pensa ai fantasmi, agli spettri senza voce di tutti quelli divorati dai piccoli predatori senza denti e dall’appetito inumano.

Le orribili maschere della morte cominciano una parata dentro la sua testa e ognuna orgogliosa delle centinaia, miglia di vermi che la divorano.

La morte s’ingegna a dare orrore quasi fosse una virtù smitizzare quel potere e quella boria che gli uomini mostrano per tutta la loro vita. Tesla non ama l’orrore della vita che si falda o lo sbudellamento raccapricciante in certi film che fanno audience.

Lei ama la vita. Ama il colore, l’aria fresca e tutto quello che può dare gioia senza troppo rumore, senza sbalzi eccessivi.

Ha visto com’è la morte. Ha pianto davanti alla Signora Oscura e si è sentita smarrita da allora, ma ha bisogno di guardare il colore del cielo per non farsi vincere dal desiderio di annullarsi. La morte di porta via ogni sogno e tutti i desideri, si è portata via la sua adolescenza e il suo presente. Lei sa bene il prezzo che si paga nel guardare in faccia la morte.

Non è una predatrice e non colleziona storie come giocattoli ma lo vorrebbe non dovere dipendere da quella povera trasparenza caratteriale che la rende invisibile.

E’ una perdente. Si è convinta da qualche tempo. Non ha risorse o talenti, non ha nulla che la renda speciale. Persino per se stessa non è altro che un nome, Tesla e basta. A volte pensa che se qualcosa la cancellasse dal pianeta, nessuno si accorgerebbe.

Non lascia alcuna opera importante, non ha imparato nulla che la renda visibile anche per un attimo.

Se Tesla sparisse chi occuperebbe il posto di Tesla? Una fitta al petto la obbliga a mettere la mano destra nel punto doloroso. Lo input è stato lancinante come uno sparo che le ha attraversato il torace.

Tesla guarda la morte come l’ultimo degrado di uno spirito libero ma quando pensa a se stessa come a un essere in trappola che non è piaciuto nemmeno alla morte.

Un altro rumore. Tesla trasale. Un altro piccolo brivido. La paura dice a se stessa, è sintomo di profonda insicurezza.

Essere povero in qualunque posto ma soprattutto a Londra significa non essere altro che l’ennesimo insulso invertebrato che si agita per un poco di attenzione. E’ un gioco di ruoli che spesso si ereditano o si comprano, lei non ha nessuna di queste due fortune. Non detesta essere povera quanto non avere tutti quei sogni che suppliscono l’amore nel cuore delle ragazze. Quando non ama il suo cuore, è vuoto. Vuoto come un secchio. Il rumore non si ripete più ma lei ha la sensazione di essere spiata nonostante le uniche abitazioni siano a parecchia distanza da quel fortino abbandonato. Una volta ai depositi ci lavoravano più di migliaia di persone, ci fabbricavano delle lunghe barre d’acciaio per la marina, si diceva, ma con la crisi la fabbrica aveva chiuso e nessuno voleva metterci piede dopo gli ultimi incidenti che avevano visto morire parecchie persone durante l’incendio al corpo centrale dove c’era un forno che scioglieva i materiali. Un giorno uno dei ganci giganti attaccato a dei carrelli pensili pieni di metallo bollente si era rotto e gli otto operai erano stati sciolti peggio che con l’acido. Ci furono scioperi, lotte e dibattiti televisivi ma passato il lutto e chiusa la fabbrica, tutto quel posto era diventato stregato e maledetto. C’era chi diceva che aveva sentito delle voci, chi visto aggirarsi le sagome dei fantasmi ma nessuno veramente aveva mai portato delle prove. Tesla non aveva paura delle dicerie.

Gli uomini da predatori sono a loro volta predati da una forza invisibile che non solo li disarma, ma li priva di qualsiasi dignità. La morte. Solo il bianco dell’osso è l’unico monito concesso affinché ci si ricordi dei limiti.

Così vorrebbe vedere il suo ex, un mucchietto di ossa dentro una vasca piena di vermi. Lei sa che in quel preciso momento lui sta portando Eve, la miglior amica di cui non ci si dovrebbe fidare, al cottage dei nonni, dove prima di respirare la muffa nel materasso ti ubriachi con sidro di prima qualità.

La vita non da prezzo alla fedeltà e all’amor proprio e alle spicciole considerazioni che spesso finiscono in un meno glorioso oblio che assorbe la storia dell’universo e probabilmente di tutti i pianeti che lo compongono.

Gli occhi della ragazza corrono sui tumuli di terra e colgono altri vermi che entrano ed escono dalle fenditure del terreno piantonato con filo spinato a poche decine di metri da lei. Tesla si alza e un’altra follata fredda di vento la attraversa. Dentro le rovine, i suoi occhi colgono una figura, un’ombra forse. Prova a fissare il vuoto dietro le pareti di mattoni rossi ma scorge un grosso cespuglio che fa ballare i lunghi rami verdi.

Per un secondo smette di respirare. Il suo cuore accelera i battiti. Perché ho paura, si domanda fissando tutti gli invertebrati che giocano impazienti sotto la luce del giorno. Odia i vermi che prolificano sulla morte e sul putridume, esseri semplici ma dall’appetito sovrumano. 

La morte non è un bene naturale da accettare ma un termine che condiziona tutto il vissuto e vederla o percepirla ci rende desiderosi di evasione. Tesla percepisce la morte che la sfiora nonostante i brividi che corrono lungo il suo corpo, si nega ad ascoltarla.

Si alza e cammina lungo i tumuli di terra fino al recinto di filo spinato cercando nel perimetro di pali e un buco per intrufolarsi. Camminando sente rumore di passi e di più persone, dietro le sue spalle. Un’altra sberla gelida contro il suo volto e il dolore non è immaginario. Ha smesso di farsi le canne da parecchio e non può dire che siano i postumi di una fumatina. L’odore dolciastro le penetra nelle narici. La brucia, è odioso e nauseante.

Quella cosa fredda l’ha sentita bene contro la pelle e continua a girare su se stessa cercando di capire.  Chiude gli occhi. Non ha voglia di avere paura, ma percepisce qualcosa che la osteggia.

Tutti quei dannati film dell’orrore hanno dato i loro risultati. Probabilmente è solo confusa e ogni minima cosa la disarma. Fa un respiro profondo e torna a guardarsi intorno.

Non c’è nessuno. Nemmeno sotto le nuvole non si vedono ali, soltanto una scia bianca come un graffio in accelerazione e a più di diecimila piedi.

Spaventata, si gira, ma non vede nulla. Niente nemmeno un alito di vento. Va avanti e ancora percepisce qualcosa che la segue, un’impressione o meglio, un’ossessione che teme sia realtà.

Non ci sono fantasmi qui, scema, e procede senza voler concentrasi sui piccoli rumori che la tallonano, anche se nella sua testa ci sono ombre e pensieri contorti. I mostri non hanno mai un vero volto perché loro si nascondono dentro le tue paure, pensa lei cercando di distrarsi guardando il fiume. Non voglio più pensare, non voglio più pensare, continua lei a dirsi a voce muta. La paura la cancella. Le storpia le percezioni e lei odia avere paura.

Pensa ai campi verdi dell’Irlanda perché pensa all’Irlanda se non c’è mai stata?

Quel posto e quella situazione la confondono. Forse dovrebbe tornare indietro e andarsene a masticare i suoi problemi amorosi e la sua dirompente e disgraziata solitudine.

Ha cancellato i rumori e gli odori per concentrarsi sul campo che si estende per diversi metri davanti ai suoi occhi. I depositi abbandonati sono l’ambiente perfetto per nascondersi, se fosse un assassino, ma cancella anche questo delirio e guarda il fiume che fiancheggia passivamente il mondo umano.

Venti passi più avanti, trova un’apertura, un filo spezzato e due schiacciati. Qualcuno aveva già avuto la sua idea di farsi un giro in quel posto immenso e desolato. Si guarda intorno. Sicura di essere sola, entra. E’ solo un pezzo di terreno abbandonato, pensa.

Lo specchio scuro del Tamigi specchia un agglomerato di nuvole bianche. Tesla osserva il nulla che la circonda e spera non ci siano cani o peggio guardie a disturbare il suo cammino.

Una volta, un tizio ha sparato a un ragazzo perché ha calpestato la sua proprietà, ricorda mentre procede con attenzione e con gli occhi puntati sui depositi abbandonati.

Gli edifici sono così distanti che potrebbero sembrare costruiti su un pianeta diverso. Le scarpe da tennis penetrano le macchie di fango e avanzano curiose in quella terra di nessuno.

Tesla si guarda spesso dietro le spalle. Non è rassicurante trovarsi da sola in quel posto, potrebbe esserci drogati o peggio, violentatori.

Pensa che contro l’attacco di un cane non potrebbe difendersi, non ha nemmeno un bastone con sé. I cani sono terribili quando si avventano sulla carne.

Cerca di mandare indietro le immagini di se stessa sotto le zanne di un quadrupede inferocito. Si guarda ancora intorno. Non arriva nessun cane. Non c’è anima viva, ovunque terreno spruzzato di erba e pozzanghere eppure si sente spiata. Gira su se stessa un paio di volte. Guarda in alto e nuovamente a terra. Dai buchi nei muri giganteschi dell’edificio abbandonato solo il vento, si fa sentire. E’ ansiosa. Ecco cos’è. L’ansia e il nervosismo giocano brutti scherzi a quelli come lei che non continuano serenamente la propria vita dopo essere stati traditi dalle persone che amava di più. Vorrebbe strozzare con violenza la puttana cui ha confidato le sue speranze e i suoi problemi d’amore. La troia sarà a dondolarsi sulle gambe del porco che godrà nel pensarla mentre farà l’amore con l’altra. Che schifo, ecco il suo pensiero, il disgusto verso quel mondo, quella gente che consuma l’aria per procurare dell’odio alle brave persone. Un giorno lui lascerà anche la puttana per andare a scopare con qualche cameriera, o una vecchia fiamma disposta ad allargargli ancora le gambe.

Ombre nere entrano nella sua testa e sussurrano cose ripugnanti sui morti e sulle loro cortesie verso i vivi. E’ un luogo maledetto, dice, ma non sa nemmeno lei come le sia uscito dalla bocca quel pensiero.

E’ un posto che potrebbe diventare location per film horror, anche in mezzo ai raggi del sole è inquietante, tanto quanto basta per vedere sfilare lenti e tristissimi morti viventi a caccia di sangue fresco.

Tesla sorride. Pensa a tutti i damerini in giacca e cravatta in corsa verso uffici senza finestre che faranno di loro tanti mister nessuno addestrati a fare diventare ricche compagnie il cui nome si legge nelle pubblicità. Ecco i mostri, quelli che abitano tra noi, quelli della porta accanto.

Tesla guarda i pali caduti e la rete di filo spinato. La sua bici è ancora lì appoggiata al palo bianco del recinto. Non vuole più fare altri pensieri cattivi. Troverà un lavoro più decente e si comprerà una macchina e forse andrà in affitto per conto suo, non per voler abbandonare Sarah ma negli ultimi tempi la sorella, ha una vita molto distante dalla sua, viaggia spesso, per giorni sparisce senza chiamare e crede che i suoi piccoli eroi siano affettivamente più bisognosi di sua sorella. La sua bici è troppo vecchia, per liberarsi dal peso di un mondo che non le vuole bene.

Vuole solo dimenticare e fare un balzo temporale nel futuro, come una Doctor Who in una Tardis a forma di bicicletta. Pensa a David Tennant. Gli scriverà una lettera, proprio così, ma non una di quelle sciocche e compulsive pagine di romanticismo.

Gli scriverà per ringraziarlo. Ha fatto certe cose pensando a lui. Mentre le faceva, si sentiva pienamente donna, una che avrebbe bisogno di un uomo di quel genere, ironico, intelligente e molto sexy. Dovrà essere alto. Basta con i piccoli pupazzi traditori. Il suo prossimo uomo sarà completo. E’ già eccitata a quell’uomo altissimo e nudo che la possederà sulla sua bicicletta, sulla sua lavatrice o sugli scalini di casa.  Lei griderà di passione e lui le premerà contro il suo sesso per dimostrarle di esistere per lei e in lei.

La sua bicicletta cade e lei si sveglia prematuramente dal suo sogno. E’ impaurita. Il suo cuore batte. Lei desidera che qualcuno la ami e senta il bisogno disperato di possederla sempre. E’ certa che da qualche parte in tutta Inghilterra, ci sia l’uomo per lei.

La cosa veramente difficile è smettere di dare battaglia al destino. Lei non è fatta per cedere.

Per inginocchiarsi e trascinarsi piangente per casa. La sua diventa un’euforia vendicativa, una guerra fredda e sommersa.

Per precauzione stringe il cellulare. Lo guarda. Batteria a metà, cosa che la fa sentire sicura di poter procedere. Tesla osserva il terreno.

Qualcosa di bianco brulica ovunque. Una delle scarpe s’infossa in una pozza di melma scura. Cerca di ritirare il piede ma questi sembra incollato alla materia densa. Impreca e sforza la gamba a uscire. Mani, faccia, petto sono zeppi di una poltiglia che odora male. Impreca ancora cercando di liberarsi. Scivola e cade con la faccia nel fango. Il suo grido è soffocato dalla terra e dalle cose brulicanti in bocca.

Tesla sputa e piange. Ha il voltastomaco. Vomita. Dal suo stomaco escono rabbia e dolore.

Appena lei si guarda le braccia, i vestiti e nota che sono zuppi di fango e di vermi, grida nuovamente. Inutile perché alcuno la sente.

I suoi piedi sono completamente immersi nella poltiglia. In un attimo si risveglia dal quel sogno orrendo e si accorge che il suo cellulare è scomparso nella pozzanghera. I vermi sono il suo ultimo problema. I vermi sono un problema? Quei cosi viscidi o il suo cellulare?

Chiude gli occhi e si piega per cercarlo. Nonostante il sole dia conforto all’aria, quella trappola ripugnante è gelida. C’è un forte odore e quasi di acido che la costringe a stringere il naso per non respirare. Sulla pelle compaiono i brividi ma non di freddo bensì di ribrezzo. Sente prurito. La testa è concentrata nel fare sopportare il fango a tutto il suo corpo. Il cellulare … cazzo merda di il cellulare … il cellulare … diavolo di un cellulare, impreca liberando dal suo petto una cantilena cattiva.

La mano finalmente recupera qualcosa che non ha la forma del suo telefono. E’ sottile e terribilmente fredda. Ritira il braccio ma la cosa fatica a uscire. Uno spigolo la taglia. Lei si lamenta e ritira la mano. Il fango aderisce alla sua pelle come un triste guanto. Gira il palmo e osserva le sue dita.

Il pollice ha uno squarcio sanguinante di cui non vede i margini. Fango, vermi, trilioni d’invertebrati bianchi e sangue colano misti a brandelli di altra materia, probabilmente stoffa. La materia spugnosa si scioglie come una colata fresca di grasso.

L’odore di putrescente è terribile. Ha un conato di vomito e la cosa acre che le corre su per la gola finisce in terra a mescolarsi con quelle cose brulicanti e portatrici di morte.

Il pensiero fisso di Tesla è trovare il cellulare. Si pulisce la mano per l’ennesima volta sui pantaloni ma spostandosi qualcosa riaffiora in superficie. 

Potrebbero essere rifiuti, gettati in quel posto da gente che di notte svuota i propri camion per non pagare le tasse. In molti smaltiscono i loro rifiuti disgustosi in mezzo alla natura incontaminata.

Con la punta del piede scava leggermente sotto l’oggetto. La cosa biancastra emerge in superficie con orli spezzettati. Sembra una maschera poiché ha le orbite vuote e scure, ma attaccata a un angolo c’è una grossa ciocca rossa.

Tesla guarda tremante in basso e continua con la punta della scarpa continua a scavare. Ha paura. Deglutisce l’amaro impastato alla saliva della bocca e ritorna a osservare le cose che emergono da sotto i sottili fili d’erba.

Il numero dei vermi è aumentato e molti sono rimasti incastrati tra le stringhe delle scarpe da tennis. Si muovono indispettiti dalla luce o probabilmente attendono un altro pasto crudo da scarnificare. Che orrore!  Fissarli sulla punta di plastica sciupata, mentre annaspano in cerca di salvezza. La scarpa penetra nel tessuto morbido del terreno e scuote ogni oggetto rigido che risvegliato cerca la salita. E’ disgustosa la sensazione dell’immersione ma Tesla non pensa che a scuotere la gamba per liberarsi. Nel frattempo, sporge un’altra forma ed è come incollata a qualcosa di più grande della scarpa. Un colpo secco ma nulla si sposta, allora Tesla si piega e chiude gli occhi. Il suo cellulare è lì in mezzo a cose senza nome che i vermi trovano molto appetibili.

I vermi hanno cancellato quasi tutte le pagine nella sua mente. Li detesta. Odia i loro tessuti molli, i loro raccapriccianti visini da esseri innocenti che inghiottono putridume.

Immagina che abbiano delle maschere che nascondono le loro facce, il ghigno e probabilmente denti piccoli e affilati come cesoie pronte a tagliarla, a spezzettarla e probabilmente a ucciderla.

Ricorda di avere visto un film di Stephen King, dove gli animali prendevano vita per poi nutrirsi dei vivi. Odia gli zombi, i fantasmi e tutte quelle paure annesse alle loro leggende.

Odiava quel dannato gatto che piantonava la casa come un demonio conscio di essere al centro di un enorme schermo. Non ha più visto nulla del genere da allora. I morti e le loro macabre figure non fanno per lei e persino gli scrittori e gli sceneggiatori che si occupano del genere, potevano trovarsi un lavoro più serio, qualcosa che facesse del bene all’umanità e non la catapultasse nelle zone più buie del proprio essere.  Perché la gente non deve vivere in pace e dei propri sogni? Ma qualcosa la sfiora o almeno è ciò che crede.

Adesso Tesla è completamente, totalmente divorata dalla paura. Trema. La sua forza interiore collassa. Trema.  Sa di doverlo fare, non ha altra scelta.  La mano entra nel corpo poltiglioso e cerca con lentezza. Nulla le è risparmiato di quello che giace nella materia. Immagina la forma del cellulare.

Sta cercando il suo cellulare e pensa a quello che c’è sotto come a immondizia. Lei sta ravanando nell’immondizia carica della consapevolezza dei suoi terminali sensoriali i cui nervi riconoscono la realtà buia e rivoltante. Un secondo connato di vomito si ferma appena sopra lo stomaco. Deve essere forte. La mano pulita preme sulle narici e sulla bocca.

Il capo le duole ma non ci può fare nulla. Ha lasciato tutto nella borsa sulla bicicletta che è ancora lì a mille anni luci di distanza.

Dovrebbe chiamare qualcuno ma non conosce alcun essere interessato a quello che lei avrebbe da dire. Probabilmente la incolperebbero per violazione di proprietà, quanti mesi le darebbero? Cinque? Sei?

Un altro oggetto più piccolo e curvo entra nel palmo. Lei non molla e tira. La cosa impastata al fango arriva in superficie. Tesla lo studia. Appena capisce che sia una mandibola umana, grida. La sua mano trema ma la cosa non vuole staccarsi dalle linee incrociate del destino dentro il palmo.

Un altro urlo è pronto ma le corde vocali lo bloccano. Ogni cellula del suo corpo è preoccupata a trovare un modo per sbarazzarsi della mostruosità.

Forse è uno scherzo. Un giochetto di carnevale oppure un frammento di plastica che getta via inorridita.  L’orrore la spinge a piangere. Mangia le sue lacrime mentre si ributta nella pasta di fango per cercare il cellulare.

Nervosa, butta entrambe le mani nel pozzo che la assorbe dalle caviglie in giù. Morirà in quel cimitero senza nomi oppure arriveranno gli spettri di quegli esseri a risarcire per il dolore patito.

Ci sono degli occhi in quei muri decrepiti e lontani. Il suo cuore batte a mille e le sue orecchie cercano di captare dal silenzio i suoni altrimenti nascosti dalla forza inesorabile della natura.

Un’entità detesta quel posto quanto lei. Qualcosa la sfiora. I brividi percorrono i suoi arti dal basso all’alto. Tu non sei reale, ripete a se stessa, tu non sei reale. Sente nuovamente un colpo nel petto e si accascia. Era stato uno sparo? No. Non c’era traccia di sangue ma il suono, il dolore le ricordava uno sparo. Sta impazzando. Il dolore per la perdita di due amici ora traditori l’ha resa fragile.

Non ricorda di aver sofferto così dalla morte dei suoi. Una cosa che non vuole più ricordare e che è rimasta sepolta dentro se stessa sotto un monte di granito. Lei non amerà più nessuno così. Lei non dovrà più soffrire tanto da sentirsi inutile, insopportabile, inadatta al mondo in cui viveva e quel suo disadattamento arriva dal fatto che vuole combattere.

Non esistono sulla faccia della Terra battaglie che lei possa vincere. Nessuno le ha mai dimostrato che le guerre avessero dei vincitori tra i poveri o peggio tra le donne sole e senza la prospettiva di un grande futuro.

La quotidianità era una guerra già abbastanza dura da affrontare. Tesla deve sbollire quella crudeltà che il destino le ha arroccato.

Potrebbe fuggire. Gli Stati Uniti oppure l’Alaska. Un posto freddo che la gente teme solo per la sua natura ostile e forse i sentimenti restano inviolati. Già, sussurra lei, potrebbe essere che tu, ragazza cambi vita.   

Una follata gelida interrombe il corso dei suoi pensieri. Allo schiaffo freddo lei risponde con i brividi e nuovamente ha la sensazione di non essere sola in quel posto abbandonato.

Improvvisamente inizia a tremare. Il suo capo dondola in tutte le direzioni e le sue mani si agitano soffocate dall’invisibile. La cosa è arrivata dal nulla. Non è mai stata così male. Il tremare diventa doloroso. Non può nemmeno gridare mentre si agita a terra dopo aver perduto il controllo delle gambe. Velocemente così com’era arrivato, il tremore scompare. Lei si rialza sporca di fango e si guarda intorno.

Una sirena la scuote. E’ un battello che scivola lento e la distoglie per pochi secondi dalla stomachevole indagine. C’è serenità dall’altra parte del cielo.

Nel suo cuore spezzato sono crollati i castelli con tutti i mattoni e quello che le rimane è il ricordo di un amore che è andato perduto nella pancia vorace dei vampiri bianchi, quelli che in quel momento lambiscono all’orlo dei suoi pantaloni.

L’arroganza della vita non smette di esibirsi nemmeno quando l’occhio severo della morte la sta osservando.

Tesla ingoia la saliva cercando di concentrarsi sulla bellezza del cielo e la quiete del fiume. Nulla di orribile le capiterà e nulla di raccapricciante la sta perseguitando. Probabilmente nei rifiuti, ci saranno soltanto pattumiera elegante e manichini di qualche set cinematografico. La gente è talmente fulminata negli ultimi tempi che getterebbe via, anche la propria madre, senza accorgersene.

Lei ha delle speranze. Ovviamente appena ripartita da quel posto, dove il sadico si mescola alle carie industriali e ai mostri di fango.

Qualcosa la osserva. Lei sa che qualcosa è lì nascosto e la sta spiando. Non è pronta a morire ed è consapevole che se la dovesse uccidere potrebbe finire sotto il fango come …

“Cellulare! Cellulare! Cellulare! Merda!” e chiude gli occhi sperando disperatamente di ritrovarlo ma dal fango emerge una cosa bianca, una cosa che toglie a Tesla il respiro. Tesla grida. Grida con tutta l’aria che ha dentro i polmoni. Lascia le scarpe nel pozzo di fango e corre verso la sua bicicletta. Non guarda, dove cammina. Sente il molliccio sotto i piedi e immagina tutti i corpi calpestati fin’ora.  Avranno una voce pensa, una voce pronta a gridare il proprio dolore, come lei. Quella terra non ha mai smesso di gridare la propria sofferenza.

Le mani corrono avanti a lei e cercano la salvezza da qualcosa d’innominabile, qualcosa che è più di un segreto ed è terribilmente legato alla morte. Piange mentre il pollice comincia a bruciare come se volesse staccarsi dal resto del suo corpo. Ancora quell’odore di cose rancide, di carcasse bruciate.

Attraversa il buco nel filo spinato e l’orlo dei pantaloni resta impigliato in una delle spine. Grida e agita il piede, cosa che le procura una ferita dal secondo filo penzolante.

Si toglie la giacca di jeans e la usa come guanto.  Il fango la ricopre come un derma fedele e protettivo.

Libera la gamba ed evita di fissare le ferite sotto i piedi. Sale sulla bicicletta e pedala evitando di guardare indietro. Pedala nonostante il bruciore sotto la pianta dei piedi e cercando di dimenticare cosa aveva visto.

Probabilmente erano degli animali, cerca lei di convincersi, ma un’immagine tremenda si fionda nel suo stomaco. Quel cranio era umano? Non perché non potesse immaginare qualcosa di diverso, ma sui denti superiori c’era un apparecchio ortodontico lucido, dove brulicavano nervose decine di vermi. Odia i vermi e pensarli, rendeva quella giornata forse il peggior incubo della sua vita dopo la perdita dei suoi genitori. Una valanga di emozioni nefaste entra nella sua testa.

E’ arrivata per tranquillizzarsi ma è più arrabbiata e nervosa di prima.

Pedala velocemente e incurante di tutto il fango che ha addosso e persino in faccia. Non che la riguardi ciò che pensano gli altri di lei, ma la gente si fissa molto con l’aspetto delle persone e non con la loro reale bravura. Spinge ancora sul pedale.

Sta pensando quanto sia difficile fare la cosa giusta. Un bene non porta mai un altro anzi c’è il rischio che ci si cacci in un guaio. E se quella cosa la facesse cacciare in una situazione terribile? Dove avrebbe trovato i soldi per un avvocato? Chi avrebbe aiutato sua sorella? Non era stata la giornata giusta per una fuga dal mondo, questa è la verità.

Pedala con forza. E’ sudata. Piccoli fiumi di sudore finiscono col riempirle gli occhi di tossine salate. Il bruciore la spinge a chiuderli e aprirli continuamente. Qualcosa è sveglio intorno a lei. Doveva restare a casa e mentre i suoi occhi lacrimano, percepisce di non essere mai stata veramente sola in quel posto maledetto. Qualcuno l’avrà spiata o peggio seguita. Cosa sarebbe successo se le fosse arrivata una querela per aver violato una proprietà privata? Non volava pensarci. Era abbastanza sconvolta. I morti in quel campo parlavano di un atto criminale o qualcosa di peggiore della tortura o dell’assassinio.

Un lampo squarcia il cielo. Il rombo del tuono la fa sobbalzare sul sellino. Ora ha una sola mano per condurre la bicicletta, l’altra le asciuga il volto preso a fissare quella lama di luce che ha tagliato in due l’orizzonte. Pioverà pensa cercando con tenacia di mantenere il ritmo. Lontano vede una sirena. L’auto ferma.

E’ quasi arrivata davanti a una pattuglia della polizia. Le sue mani stringono nuovamente il manubrio sporco di una poltiglia di terra appiccicaticcia e scivolosa. E’ sudata. Si alza dal sellino. I suoi piedi bruciano, probabilmente si è tagliata e quei tagli si fanno sentire.

L’uomo in divisa si accorge di lei. Perché agita le mani nella sua direzione? Tesla ha un dubbio. I pedali continuano a girare. Il poliziotto la aiuterà, ma perché agita le mani, non può mica fermarsi a pochi metri dalla meta? Tesla sente come una liberazione. Apre la bocca e prende un respiro prima di parlare.

La rabbia di un tuono fa saltare gli antifurti delle auto. Tesla sobbalza. La bicicletta è così leggera ma a meno di sei metri dall’agente un’auto investe la ragazza che sta correndo senza mai guardare il colore del semaforo.  Il corpo della giovane gioca con la gravità e poi cade come una bambola di pezza. Un piccolo lago di sangue sotto la testa. Il suo indice si alza e poi si abbassa stanco. Un altro lampo anticipa la pioggia. Tesla fissa il grigio che soffoca di nubi il cielo. Piccole gocce d’acqua la baciano ma lei non riesce a sorridere e nemmeno a sentirle. Ha un certo fuoco interiore che la pioggia potrebbe alleviare, ma si sente come un ospite dentro un bozzolo immobile.

Una voce la chiama. Tesla continua a fissare il cielo. Tutte quelle nubi che s’impastano nervosamente e mentre lei fissa l’armonia del temporale, la voce continua a chiamarla. Chiude gli occhi.

E’ una cosa oscura, qualcosa che nessuno potrebbe definire se non follia. Lei non vede più il manubrio, la strada, non vede nemmeno gli edifici ma un tunnel e poi a un certo punto, è sospesa in aria per una frazione di secondo. Lei è un angelo e gli spiriti celesti a un certo punto sono insensibili alle cose umane. In un attimo ricorda l’incidente. Un impatto tremendo che la spinge oltre la strada. I suoi occhi si riaprono ma vede sono annebbiato, dov’è finito il cielo.

Il volo ha cancellato qualcosa del dolore e Tesla appena chiude gli occhi, dimentica tutto, persino il suo corpo si frantuma e il rumore sordo che le giunge lontano prima di chiudere gli occhi sotto il peso di una forza invisibile e crudele.

La bicicletta si è piegata orribilmente contro un idrante e fortunatamente non ha investito alcun passante. Tutti illesi, persino il conducente dell’auto di lusso che transitava in quel momento. Il manubrio staccato dal corpo della bici è riuscito a ficcarsi tra le griglie di un tombino lasciando un pezzo affilato ed esposto. Ci vorranno più di un’ora e venti minuti di sforzi per sbloccarla e liberare la corsia bloccata che avrebbe mostrato l’ingresso alle gallerie d’ispezione sotteranee.

Tesla non vede il proprio sangue uscire dall’osso del cranio spaccato e se lo vedesse, si domanderebbe cosa è andato storto quel giorno d’agosto in cui correva come una matta sulla sua Tardis a due ruote?

 

I fratelli d’Irlanda

“Bíonn gach tosach lag.”

2011. Sei Dicembre pomeriggio giornata si sole. Otto ragazzi dopo la partita e completamente sporchi di fango entrano negli spogliatoi urlando. Sono stanchi, provati e feriti. Ridono perché la vittoria merita il loro essere, esausti.

“Sììì! Siamo i migliori!”

Grida di gioia Mark Durden mediano di apertura che afferra dal proprio armadietto sapone e asciugamano, prima di dirigersi verso le docce. L’interno dell’armadio è stranamente vuoto e questa cosa Henry l’ha studiata da lontano. E’ una pulizia inusuale e sospetta, sono svanite persino le pose porno delle sue ragazze preferite.

La gioia di Durden non finisce presto. Balla nudo come un indiano che tiene alto lo scalpo del nemico e lui invece della fiaccola in cima alla statua della Libertà invece alza il sapone.

“Grazie Capitano!” risponde Pete Hoss terza linea centro che si toglie la maglietta per eliminare il sangue raggrumato dal ginocchio. Non è alto ma le sue spalle parlano di un buon atleta pronto a ricevere gli avversari senza problemi.

“Patterson, la prossima ti spezzo le gambe se non mi ascolti. Odio i codardi!”

Henry spinge sul naso gli occhiali da vista prima di rispondere.

“Io non sono un codardo, stronzo. Non hai sentito quando ti chiamavo?”

Le mani di Henry smettono di tremare appena la sua bocca sfiora la bottiglietta d’acqua. Il liquido va giù rumorosamente e lui non smette finché non l’ha finito.

“Ragazzi! Ragazzi, basta. Abbiamo vinto noi, non loro. Le cazzate non ci devono dividere.”

Replica Blake.

“Col cazzo, è un codardo.”

Hoss si sistema la mandibola e si sposta verso Monkey.

“Succhia il mulo di tua madre.”

Henry è pronto a togliersi gli occhiali per fare a botte.

“Ripeti se hai coraggio? Scommettiamo che ti faccio nero brutto stronzo!”

Henry si leva gli occhiali e li appoggia sulla panchina. Avanza di due passi e alza la mano. Tutti girati a guardarli. Hoss spinge col petto Henry e prima di una seconda mossa le loro mani si stringono.

“Eheee, l’abbiamo fatta. E voi che avete da guardare? Era uno scherzo!”

“Che stronzi.” replicano in coro molti di loro.

George è silente e resta seduto sulla panchina dello spogliatoio per leggere con occhi lucidi un foglietto di carta. La contentezza dei suoi si dirama rumorosamente verso le docce. Nemmeno l’allenatore Preston riesce o vuole interrompere quell’onda meritata di gioia. Hanno vinto e al diavolo le regole per una volta e per dieci minuti, pensa l’uomo che cammina nei corridoi fino alla scala sorridendo soddisfatto.

“Urrà per Botoman!”

Due ragazzi molto ben piazzati, Fine e Terence Lanet fratelli gemelli che dopo aver ingoiato un paio di merendine senza nemmeno masticarle, prelevano George e lo portano in trionfo per gli spogliatoi.

Durden lo spilungone con i capelli rossicci, apre lo zaino scuro riposto al sicuro dentro l’armadio e preleva quattro grandi birre che finiscono sul pavimento. Prima di chiudere, sistema i vestiti sporchi accumulati forse da mesi. Il suo nascondiglio non è perfetto, ma se Henry non parla, Durden sa di essere al sicuro.

Durden guarda con astio Henry detto Monkey e chiude l’armadietto. Monkey lo guarda e Durden fa il gesto di una pistola che spara. Monkey gli risponde con il dito medio.

“Bevi Capitano. Festeggia!”

Hoss danza nudo mostrando il proprio pene che balla in libertà. Henry lo guarda ironico e prende un’altra bottiglietta dall’armadietto e la beve tutta d’un fiato. Brillo e di buon umore risponde alle birre di Durden.

“Ma qui non è concesso bere!” imita la voce delle femminucce uno che si è appena sistemato per una decina di volte gli occhiali da vista. E’ sempre l’Henry Patterson di sempre, anche se due bottigliette di alcool hanno cancellato un introverso con la stoffa del poeta che regge da difensore alla squadra, nonostante il suo aspetto intellettuale.

“Smettila Henry, noi festeggiamo la nostra squadra e il nostro Capitano.” risponde Fine uno dei due giganti che tengono in sospeso George  Shaughnessy, studente modello e capitano della squadra di rugby. George nasconde il foglietto nel pugno e sorride ai suoi compagni.

“Siamo mitici fratelli!” canticchia vittorioso Hoss.

“Siamo mitici e fallici e unici e tori! replica Blake O’Farwell, io, miglior amico e consigliere del Capitano vi dico che la nostra vita ha uno scopo superiore e vincente. Brindiamo!”

“Ehi, Hoss anche gli ebrei diventano uomini?” domanda Fine.

“Sì ma con le madri dei loro amici.” risponde l’amico, indicando la propria virilità.

Le birre aperte fanno il giro degli studenti.

“Al Capo!”

“Al mio Capitano! Voglio la tua forza, il tuo coraggio e il tuo uccello!” ribatte il piccoletto rosso che si riempie la gola con un lungo sorso.

“Non ne hai uno tuo? Che schifo.” domanda Henry.

“L’uccello del mio Capitano è quello con cui dovrebbero incularsi tutti i nostri avversari!

“Ben detto uomo.” gorgheggia Blake con la bocca piena di birra.

“Che fossi dannato se avessi mai voluto una vita migliore di questa.” replica George mentre prende un piccolo sorso sul fondo della bottiglia che ha finito il giro.

La giornata è finita. I dormitori sono quieti i ragazzi sono in strada a finire la festa iniziata prima. Hanno in mente un posto da uomini, indicato da Durden, un pub famoso per la birra più scura e le onde di fumo.

Inizia a piovere. Una pioggia mista neve che non li ferma. L’inverno rende ancora più appetibile la bevuta. Appena raggiungono il rifugio dell’Ooak’s Green, un pub candeggiato nelle grida degli avventori e nelle dispute più improbabili, tutti loro si disperdono. Bevono e cantano i ragazzi di fuoco. Henry Patterson, l’ossuto, è così ubriaco da non riuscire a vedere nemmeno con gli occhiali. Dopo la terza birra sviene sotto le risate dei suoi amici, ma si rialza perché gli fanno schifo i codardi, anche se le sue gambe non vanno d’accordo con la sua mente.

George fissa il foglio che teneva prima in tasca, ma è distratto dalla ragazza rossa che raccoglie i bicchieri vuoti dai tavoli, cercando di non inciampare negli ubriachi. Ride e il suo volto è un quadro perfetto dell’innocenza.

George è ipnotizzato dagli occhi verdi di quella musa. Probabilmente ha meno sedici anni, ma non gli importa, la ragazza è più interessante che quel foglio doloroso che gli comunica la morte del padre.

La musa, la musa, è la cantilena dolce nella testa del giovane quasi ubriaco.

I ragazzi sono ebbri e cantano. Brian supportato da Patterson, i due più bassi della compagnia, recita sopra una sedia, i versi di Desmond O’Grady: We’ll never again see to emulate, your strong stride, warm hand; no more admire your noble head’s shape, a noble image of Ireland. Qualcuno li applaude. Henry corre verso il bagno o almeno il posto con la porta verde dietro di cui si libera lo stomaco e la vescica. Si guarda intorno e vede solo scatole stipate ovunque. I fucili escono da dietro le lingue di cartone. Henry si chiude di corsa la patta ed esce. Si guarda intorno. Gli altri bevono.  Bevono tutti e fumano. Nessuno sa di quello che lui ha visto. Si sente salvo.

La ragazza che sorride a George sembra irreale quant’è bella e Henry osserva contento il suo amico che le afferra la mano fingendo di indovinarle il destino dalle linee dei palmi.

Henry si sistema gli occhiali sul naso e ordina un’altra birra. L’uomo dietro il bancone gli consegna l’afrodisiaco con una pacca sulla spalla. Henry lo ringrazia. Pensa anzi ricorda. Erano fucili le cose negli scatoloni, pensa come se fosse in un sogno, ma torna alla realtà e fissa il barista che gli sorride cordiale. La sua mente fa un calcolo veloce che lo spaventa. Dieci fucili in ogni scatola e per quante scatole? Trenta? Di più? Non era stata un’illusione. E’ ubriaco ma non pazzo.

“Fossero così in gamba tutti i baristi. Scommetti che potrei essere un barista migliore di te?”

Henry si piega sullo sgabello e la mano corpulenta del barman lo riporta in posizione eretta.

“Ma io sono speciale.”

Gli risponde l’uomo che guarda la figlia scherzare. Qualcosa lo urta ma non parla. I suoi occhi diventano dei predatori che pesano tutte quelle giovani e inesperte prede, quasi volessero o potessero uccidere guardando.

“Tu sei fortunata.” grida George, cercando di concentrarsi sulle parole e non sul baccano dei suoi amici. Le sue dita si sono infilate nella sottile catenina dorata e giocano con il piccolo ciondolo dall’aspetto insignificante.

“Dici? E perché?”

Risponde lei che rimette nella camicetta la collanina e lo sposta per cercare di farsi spazio sulla sedia.

“Hai conosciuto me. Un ragazzo che guarda le stelle, è molto sensibile e crede molto nell’intelligenza femminile.”

Le risponde, fissandole gli occhi lucidi per il fumo dentro il locale. George è così preso che non sente più il rumore ma solo un assordante silenzio che gli pulsa nelle orecchie ricordandogli i battiti nervosi del proprio cuore. Lei ride a lui sembra che i cieli scendano con tutti gli angeli.

“Sei un ragazzo coraggioso. Quello sai, è mio padre. Peter cerca di essere bravo, ma sarebbe più facile se avessi soli due anni.” e indica a uno dei due uomini, il magrolino dietro il bancone.

“Asterix! No, scherzo.”

George ride e appoggia il capo sul tavolo. In pochi secondi però ritorna a una più dignitosa conversazione.

“Tuo padre? Non vi somigliate molto. Tu sei così bella e lui è così … padre. Dovrei temerlo?”

“George, e gli stringe la mano guardando con ironia i capelli lunghi e disordinati, sei uno studente eh?”

Lui si sistema la chioma che gli ricade sul viso e si morde il labbro inferiore. Vorrebbe dire qualcosa, qualsiasi cosa ma le parole non vogliono uscire dalla sua bocca.

L’uomo dietro il bancone lo fissa come se stesse per dire attento figliolo, stai giocando col fuoco.

La ragazza si alza e riprende il vassoio pieno di bicchieri vuoti. Gli strizza l’occhio e si allontana.

George resta a fissare la propria birra. E’ così ubriaco che ha smesso di sentire battere il proprio cuore e l’unica cosa a farlo sentire vivo, sono i numeri scritti sul vetro con un pennarello, il mio numero e non dimenticarti di chiamarmi.

George sorride e torna a bere. Ricorda i momenti più belli con suo padre e anche quelli più brutti. Non gli importa più nulla. In fondo tutti muoiono alla fine e lui, si convince che sarà meglio morire per un ideale che da conigli e senza nemmeno abbracciare per l’ultima volta l’unico figlio che ha abbandonato prima di sposarsi con un’americana. Seattle non è lontana, di più. Blake prende sotto le spalle, l’amico George e lo strascina fuori. Seduti sull’argine dei marciapiedi gli altri sei in parte coscienti.

“Amico mio è meglio alzarsi finché uno dei due è ancora sobrio. Ho voglia di femmina ma qui non c’è nulla che si possa scopare a meno che non si prendano in considerazione i due vecchi al tavolo rotondo e la babiona che è arrivata poco fa con il marito. La ragazzina non me la filo visto che ci hai messo gli occhi sopra, prima di me.”

“Sai Blake, sbiascica George, mio padre ha avuto la cortesia di morire così in fretta da non darmi nemmeno il tempo di raggiungerlo al funerale, quindi scopare potrebbe essere il verbo più intelligente da usare abbinandolo a un nome comune come “funerale.”

Blake incolla al muro l’amico traballante e gli dà una pacca affettuosa sulla spalla.

“Mi dispiace per il te. il tuo vecchio non è stato un granché in vita e forse meno nella morte, ma tu hai me fratello e potrai sempre contare su questo maschio.” e prende una sigaretta dalla tasca dei pantaloni. Prima di accenderla si assicura che George non crolli.

“Già.” George fissa il vuoto dinanzi a lui.

“Sai amico? Meglio così, meglio andarsene che fingere di dimenticarsi di un figlio adolescente. Che diavolo, non ha mai fatto l’eroe per te allora che senso aveva che continuasse a chiamarti una volta l’anno, per il tuo compleanno, ricordandoti che quello che stava facendo, lo faceva per te. Ho sempre pensato che fosse un idiota e riposi in pace.”

“Amen.” conferma George prima di vomitarsi sulle scarpe.

E’ stata una serata perfetta e George nonostante la vista annebbiata, continua a sognare la perfetta creatura cui avrebbe ceduto volentieri il suo cuore spezzato.

Sono tutti uniti. Tutti di condizioni sociali più disparate, con problemi e genitori differenti, ma hanno in comune la voglia di essere diversi. Ci sono stati degli scontri in passato, ma tutte le vere e grandi amicizie nascono spesso da grosse difficoltà. A scuola li chiamano “la squadra”. Sono imbattibili e tra non molto vinceranno il campionato nazionale tra scuole superiori.

La nebbia e l’arietta gelida rende tutti silenziosi. In mezzo ai marciapiedi sono solo otto ombre che camminano per le strade deserte, ognuno con le proprie aspirazioni e George con un numero di telefono sopra un bicchiere che teneva dentro la camicia.

Blake canta a voce alta e molti lo imitano immaginando un sentiero glorioso verso cui camminare. Un’auto transita con il guidatore che li fissa dal finestrino abbassato. Il sospetto rallenta poi accelera prima che i ragazzi si accorgano.

“Ehi! grida Patterson che si guarda intorno, Avete visto quello? Stai cercando questo?”

Gli mostra l’inguine. L’auto frena e i fari rossi colpiscono il temerario che s’impaurisce. Nonostante l’affronto, l’auto prosegue la sua corsa oltre i semafori lampeggianti.

Fine beve l’ultimo goccio e getta la bottiglia di vetro nel cestino senza fare canestro.

“Voglio cambiare questo disgustoso mondo e pisciare in testa a quelli che oggi mi considerano una nullità. Chi di voi piscerebbe con me in testa al suo nemico?”

“Io!” risponde Durden dopo aver ruttato rumorosamente.

“Io sbudellerò ogni verme che ci succhia i sogni e sposerò una ragazza con lunghi capelli di fuoco che sottometterà ai suoi desideri, sì cazzo, sarò felice e fuori da questo maledetto buco. Voglio fare sprofondare tutta la merda di questo mondo con una bomba che vada dritta nel culo di chi dico io.”

“Amen, fratello.”

Fine apre con i denti un’altra birra che tira fuori dal cappotto.

“Io vorrei dei figli. Un sacco di figli. Decine di figli da una donna che mi ami e che sia bellissima. Voglio aprirmi un piccolo negozio di libri.”

“Cazzo Pete, dove la troverai una ragazza che voglia dieci figli dall’unico ebreo povero di Belfast?”

“Mi amerà. S’innamorerà di me a prima vista. Fine. Io sono un agente segreto che darà un significato alla vita in questo paese.”

“Fratello, tu sei proprio ubriaco marcio e non credo che salverai questa città dalla ribellione delle tue budella gonfie d’alcool. Belfast ti ringrazia per l’anonimato. La città degli anonimi ti offre le sue strade per vomitare, per pisciare e per guardare le puttane assopite nelle loro squallide auto. Non ti prenderebbero a catalogare le pulci in un archivio figurati a difendere questo paese dall’usurpatore.” Blake fissa divertito la faccia seria di Hoss.

“Voi non sapete nulla di me.” risponde il ragazzo.

“Noi vogliamo che tu sia solo questo. Un pessimo esemplare di ebreo che ama la caducità della vita, il sesso veloce e la birra.” grida Blake.

“Anche la carne di maiale … e le canne e la scorta di porno. Tu potresti essere tante cose Hoss ma non un modello per gli altri.” replica Mockey, seduto sul davanzale di un negozio.

Hoss si gira verso i suoi amici.

“Io posso essere tutto quello che voglio. Non ho bisogno di voialtri per dimostralo e la mia fede non c’entra un cazzo con i miei sbagli o i miei desideri. Sono quello che sono ma non ho paura di fare il mio dovere.”

George gli batte una pacca sulla spalla.

“Lo sappiamo amico. Sei il migliore giocatore e senza di te non saremo una grande squadra. Si dice così?”

“Devo pisciare.” piagnucola Mockey.

“Addio poesia.” risponde Blake.

Henry fissa la strada poi aggiusta gli occhiali appannati dalla paura e sospira. Sta mirando con la piscia il centro della corsia e non è facile perché deve seguire il vento che sposta il getto ovunque ma non al centro. Guarda la corsia opposta deserta in attesa che il folle in auto, sbuchi dal nulla, ma questo non succede. Henry inizia a cantare per farsi coraggio … Noi non siamo perfetti ma non abbiamo paura di lottare. Siamo i figli d’Irlanda! Educateci a morire piuttosto che a soccombere davanti al nemico.

Le ombre proseguono stanche e pesanti di sonno. E’ un gruppo di sognatori catalizzati a ideali freschi e raggiungibili. Tutti non hanno ancora cancellato la gioia dai loro cuori tutti meno uno.

George fissa nella mente l’immagine del padre e sente nel suo profondo un tono di grande amarezza. Forse la morte non è veramente la fine di qualcosa, l’avrebbe pensato George prima di guardare una lacrima sfracellarsi sulla punta della sua scarpa.

Ogni lacrima porta con sé un pensiero inespresso e un peso che non potrà più levarsi dal cuore. Piange sommessamente chiedendo a se stesso di provare ancora più dolore, ma l’unica cosa che si ricorda è il volto di Cathleen e un fuoco gli inonda improvvisamente il cuore indifeso.

Il freddo intenso libera piccoli fiocchi di neve che danzano liberi innamorati dell’aria e di quelle luci che li trasformano in star del momento.

Cathleen però, nella mente di George è ancora più bella di una notte romantica che la neve sublima per forza di cose con sogni irreali e irraggiungibili. Ha cancellato le altre muse della sua vita. Ha dimenticato le braccia intorno al suo collo di vecchi affetti. Lui è in uno stato avanzato d’ubriachezza d’amore e gli va bene così.

George tocca il punto del cuore e sente l’oggetto di cristallo. Afferra il cellulare, ma lo rimette nella tasca. Un attimo dopo prende con decisione il cellulare e cambia nuovamente idea. E’ così ubriaco da non mettere a fuoco i tasti, ma lui vuole rivederla a tutti i costi.

Cathleen è rimasta a riordinare. Lo fa sempre. Nello specchio dietro la mensola zeppa di bottiglie non osserva l’ombra che si piega all’unisono con lei. Il lavoro lo fa china e concentrata mentre quella cosa come un’aura scura entra ed esce dal suo contorno. Un paio d’ore e poi riesce a trovare un posto caldo sotto le sue coperte di lana che odorano a rose e lavanda. Deve aiutare il padre e ascoltare i suoi discorsi al telefono. Ha maturato un orecchio fine e parecchia pazienza. Chiunque lo chiami alle due di notte ha cose molto importanti da riferire o da chiedere e lei è lì per capire. Non vuole che l’unica persona rimastale al mondo, cada nelle trappole di certi personaggi, suo padre merita una sofferenza diversa, più raffinata che non sposa i dolori dei semplici mortali. Per questo ha deciso di dare una mano, per sollevare il suo vecchio dai pesi che l’ha sempre colpito duramente e nel posto più fragile, il cuore. Lei conosce le sue debolezze e non lo critica apertamente. Le sue debolezze sono meno interessanti di molti altri nei suoi panni. Sono amici ma lei sa che lui le nasconde qualcosa, una relazione forse. E’ un uomo ancora giovane che potrebbe rifarsi una vita. Lei non vorrebbe un’altra madre. Non sa nemmeno se ci potrà essere dell’amore in quel vuoto che altri chiamano cuore. Con suo padre è diverso, è più facile. Parlano poco, lavorano tanto e ognuno fa quello che desidera per il resto della giornata. Un contratto perfetto in una vita altrimenti snervante e stranamente intensa.

Lei conta i soldi due volte prima di metterli via. Sente un’altra in lei interessata a non perdere un centesimo del guadagno. Sente di non piacere a quell’altra ma non ci può fare niente.

Le piace la ricchezza e più della prosperità le piace il potere che ne deriva. Lei sa che tutta la gente di potere ha uno status sociale superiore e non ha intenzione di essere schiava del sistema ma una che fa le regole per quel sistema. Confida nel suo piano, lento, caparbio, duro. L’impegno ripaga, ha sempre detto suo padre. Non importa in cosa ma lei s’impegna. Ha delle idee sul futuro e una certa curiosità riguardo al sesso di cui volente o nolente ne ha scoperto il fascino. Non ha mai avuto il tempo di pensare. Per lei tutto è stato un lavoro per un progetto e poi per un altro progetto ancora. Lavoro meticoloso cui doveva dedicare ogni minima attenzione.

Ci sono cose nella vita di un adolescente che rende semplicemente esausti e quando quelle cose diventano fondamentali per la sua formazione allora lo spazio dei sentimenti e delle emozioni viene annullato, cancellato, subaffittato a speculazioni cerebrali meno illusorie. Lei ha scelto la direzione sempre senza fare i conti con il sesso sopporto, con un ragazzo che avrebbe potuto sconvolgerla al punto di fare dirottare le sue forze consacrate al “progetto”.

Nella testa di Cat i sogni hanno preso il sopravvento e per una volta nella sua vita si è concessa quella paura preliminare alla realizzazione di tale sogno. Perché lei sa che il sogno sarebbe diventato realtà, lo desiderava, lo voleva e ci sarebbe riuscita, non sapeva spiegarselo come ma capiva che in certe cose il corpo più della mente aveva la priorità.

Cat sente il suo sangue frizzante come la schiuma sopra un boccale di birra. Si affanna a stringere il cuscino in un abbraccio inconcludente e immagina gli occhi caldi e decisi di un ragazzo che l’ha trafitta con la voce, con il suo profumo con … nemmeno lei sapeva bene con cosa.

Forse l’amore è il possesso del corpo dell’altro e una volta fusi in una sola cosa, quella cosa dentro, quel fuoco si sarebbe placato lasciando posto a una via più limpida da seguire? Questa domanda diventa la spina nel fianco di Cat che non vuole assolutamente perdere contro il destino. Morta la madre è cambiata e non solo nel giudicare le persone ma le loro mosse nella vita. C’è qualcosa in lei che non le risulta a posto.

Ci vuole poco per capire chi è forte o no. Suo padre è un debole. L’ha capito prima che lui piangesse di nascosto tutte le notti nella sua camera.

Ogni volta che lei lo sente piangere le viene da vomitare. Non sopporta che un adulto sia più debole di lei. Non deve, non può.

Cat ha cominciato a decidere per se stessa prima di imparare a parlare. I suoi erano troppo impegnati “a fare soldi”, denari che non bastavano mai nemmeno per un paio di scarpe decenti o una bambola. Continuavano a dire che si sacrificavano per lei ma Cat ha sempre capito che non era così. Il loro atteggiamento li giustifica nel non stare con lei, giocare con lei, ascoltare le sue paure e le sue necessità. “Quello che arriva è un dono di Dio.” altra frase fatta della madre che l’ha sempre mandata su di giri. Lei ha capito che Dio non ha mai avuto tempo per i perdenti. Gli uomini sono uguali nelle necessità ma non nelle scelte. Qualcuno non è in grado di affrontare qualsiasi cosa pur di ottenere quello che vuole.

Ha capito che ci sono cose in lei che non possono essere semplicemente imbrigliate. Nessuno conosce mai veramente se stesso.

Perché darsi sconfitti quando non si è nemmeno iniziati a lottare? Cat ha delle idee tutte sue. Superato l’impossibile, lei inizia a lottare e non con armi convenzionali con armi personali. Conosce spade che si affilano solo con la mente ed è questo il suo trucco migliore, lasciare che gli altri la giudichino una debole, una perdente e non darsi pena di dimostrare loro il contrario. Non ha letto molto di filosofia ma sa che la vendetta è solo il momento in cui la propria opera una volta sottovalutata diventa storia. A volte sente che la parte oscura non le racconta nulla di se, altre volte, comunica con lei come un vecchio amico.

La storia ha lasciato molti personaggi famosi con passati fallimentari o semplicemente troppo poveri da essere menzionati. Lei non vuole entrare nella storia fa fare la storia, chi se ne frega che la giudicherà da morta? Niente premi ai cadaveri, alle ossa, alle lapidi.

Adesso Cathleen brucia e il suo stomaco è uno stoppino che tiene il cuore sulle fiamme. Freme. La chiamerà? Quando la chiamerà? A volte si manda al Diavolo per quell’incoerenza a suffragio solo dei suoi impulsi adolescenziali, ma dura poco. Quel dannato George le è arrivato fin dentro le vene e scorreva in lei come benzina in un motore destina a restare acceso.

Vuole vendicarsi di se stessa e del suo stupido desiderio. Ha sentito il padre. L’ennesimo attacco ai magazzini di rifornimento carburante. Lui non è mai stato un patriota. Ha scelto la via più comoda, il tacere, tacere e mantenere il poco orgoglio intatto dall’infamia di essere considerati dei terroristi.

Lei legge. Ha letto di molti che non hanno mai accettato quella calunnia chiamata unità. Lei crede in Irlanda. Crede e si consuma per questo suo fervore. E’ un danno, la condivisione senza una proprietà di alcun genere. Ci deve essere altra gente come lei che può gestire quel mondo in maniera diversa e traendo vantaggi migliori dagli ossequi a una vecchia corona. L’ancien régime è sopra una sottile lastra di ghiaccio. Ha visto morire così un suo compagno di classe. Un gradasso. E’ finito in fondo al lago e così sono finite anche le sue stupide burle. Non ha provato pietà ma solo curiosità.

La curiosità di un essere che capisce che le cose violente finiscono appena trovano un terreno più duro di loro e lei vuole essere quel terreno. I soldi esistono per motivare gli uomini a realizzarsi. Molti li seppelliscono in banca e attendono che la loro vita schiatti miserevolmente in mezzo a lussi senza vere grandi soddisfazioni e a gente che non li stimerebbe nemmeno morta.

I motivi della vera grandezza sono sublimati da una percezione chiara della realtà. Per avere qualcosa devi dare qualcos’altro in cambio e così via. Per Cat la chiarezza vale più della sua vita. La sua vita è quel progetto di cui non ha mai parlato con alcuno. Perché dovrebbe farlo? Chi la capirebbe? Chi l’aiuterebbe? Anche sua madre voleva qualcosa in cambio dell’affetto che le dava. Voleva essere seguita come precetto, come un comandamento e Cat aveva riservato questa debolezza né a Dio né alla madre ma a se stessa.

Le grandi regole sono uguali alle piccole con la sola differenza che le grandi non possono essere imposte come leggi salvo che tu non sia in condizione di dettare la legge. Il sogno di una ragazzina. Potere creare la legge del proprio piccolo impero. Una legge in un paese libero che concede il successo a chi ha la stoffa di perseguirlo. La lotta non fa paura quanto il sentimento. Ed è sempre su questa debolezza che si concentra la notte bianca di Cat.

Lei, è immersa nel suo film preferito “Cime Tempestose” e non riesce a capire quale dei due protagonisti vorrebbe essere. Lei non è debole ma è vendicativa e potrebbe mollare quelle redini di un amore assolutistico e sinistro se questo le facesse perdere il baricentro del suo ego. Lei non amerà fino alla fine ma si farà amare fino all’ultimo. I suoi amori devono esserle devoti. Un giudice soltanto potrebbe mai decidere sul suo cuore se solo capisse dove le è stato nascosto.

Di notte, lei si prende cura degli innocenti e infiamma maggiormente i colpevoli, qualsiasi spirito stia governando Cathleen non si cederà alla tenebra che la stessa energia da cui la forza dell’essere proviene e la ragazza fissa, il soffitto immaginando quell’uomo di cui assorbirà il candore per resistere a tutte le battaglie che il destino le metterà dinanzi.

Al buio la sua mano cerca un oggetto sul comodino. Un accendino. Lo afferra prima che questi scivoli e accende il tabacco nella pipa a teschio con le sue iniziali nelle orbite. Aspira il fumo gustando ogni atomo del retrogusto, in fondo il Paradiso apre le sue porte anche a quelli che riescono a mascherare più degli altri, il dolore. Aspira il fumo e continua a pensare, le cose che non arrivano da te, tu devi semplicemente andare a prendertele.

C’è un velo di profezia nei suoi occhi verdi che ardono il buio in ritirata davanti a una forza che lo schiaccia contro il soffitto. C’è un posto e un momento perfetto per godersi la vita, lei lo sa e il suo cuore approva, la ragione dovrà solo fare il lavoro minuzioso che ha sempre fatto e nutrire il piccolo diavolo che s’inchina in lei a decisioni per molti uomini, assurde.

Non ha sonno, si rialza e accende il computer. L’amore ha un interesse diabolico in una parte di lei che ragiona, sospetta, per conto proprio. Le sue dita corrono sui tasti. Accede a una pagina di FB, dove ha ancora dodici anni. La cattiva ragazza in lei sorride. Ci sono tante celie che abboccano al gioco, pur di sbavare. Attiva la chat. Il display si specchia nei suoi occhi che s’illuminano di una luce fredda. Lei comincia a scrivere e attende …

 

Chi è la ragazza?

Londra. Ospedale Generale  Reparto Chirurgia d’Urgenza. L’agente O’Brian senza uniforme, sposta la tendina bianca e guarda il volto tumefatto della giovane che respira attaccata a un tubo. L’uomo al suo fianco compila dei moduli che in seguito, afferma che farà firmare al direttore sanitario. Rivede inconsciamente il volo in aria della giovane dopo l’impatto.

“E’ la prassi delle agenzie assicurative, capire chi è stato a provocare danno e l’entità delle lesioni delle parti. L’investitore, un quarantenne incensurato sotto shock, ha dichiarato ai poliziotti di aver visto la ragazzina provenire dalla sua destra ma si aspettava che questa si fermasse non allo stop ma almeno al semaforo. Tutto sarebbe filato liscio se lei non avesse riscontrato un leggero stato di ebbrezza nel guidatore.”

Parla con disinvoltura l’assicuratore scocciato probabilmente dal lavoro in più che dovrà svolgere.

Le indagini sarebbero continuate e quel giorno l’agente scelto Timothy O’Brian aveva accompagnato il detective assicurativo John Murray all’ospedale Saint Patrick per conoscere le condizioni di salute di Tesla Maytie.

Non era in servizio, ma sentiva un certo legame con quella giovane. Sentiva che c’era qualcosa in più che lei non riusciva a dire e forse collegato con ferite, non procuratesi durante l’incidente.

“Tesla Maytie. Stava correndo in bicicletta a una velocità folle. Guardì, gli dice, lei guardi le piante dei suoi piedi, sono ferite e presenta ferite da taglio ovunque sul corpo. Questa ragazza scappava da qualcosa che forse non sapremmo mai e ha avuto una dannata fortuna a non rompersi l’osso del collo, nemmeno una frattura, dopo un volo di sette metri.”

“I suoi parenti?”

“Solo una sorella maggiore invalida.”

“Si potrà svegliare?”

L’agente guarda i graffi sulle braccia della ragazza e la sua testa fasciata.

“Diceva?” chiede al detective.

“Se potrà mai svegliarsi?”

Un’infermiera entra nella stanza con un vassoio.

“Certo. Tante ecchimosi, qualche graffio e un trauma cranico ma è stata suturata e pulita. La frattura cranica era seria ma ho visto di peggio. Siamo certi che lei ce la farà. Dovreste uscire, adesso.” e mostra loro una siringa.

L’agente si ferma di colpo prima di aprire la porta. Il detective è già scomparso nel corridoio.

“Sa se ha mai ripreso conoscenza?”

“Impossibile. L’hanno intubata in ambulanza e poi, mostra il capo fasciato all’agente, hanno pensato all’emorragia. Si salverà, preghiamo tutti per lei.”

“Capisco.”

L’agente O’Brian cerca la strada per l’ufficio informazioni. Si ferma e scrive qualcosa sopra un foglio.

“Per favore. Vorrei essere informato del suo risveglio.”

“Certo, agente?” la donna osserva l’abbigliamento informale dell’uomo che tira fuori un distintivo.

“ Ci metteremo in contatto appena la paziente si sarà svegliata.”

“Vorrei sapere se qualcuno le farà visita. E’ fondamentale.” accenna un sorriso che l’infermiera capo non ricambia.

Timothy esce dall’ospedale indossando un elmetto scuro e prima di salire in sella alla sua moto, fissa la finestra della paziente. Il suo pensiero va a quelli che non hanno amici che possano fare loro visita all’ospedale, una vera tristezza.

Un secondo uomo con IPad sottobraccio arriva spedito verso di lui.

“Mi scusi? Ha un momento? Will Arkara della BCM News, piccolo quotidiano ma non di pettegolezzi come potrebbe pensare. Lei ha avuto qualche contatto con la vittima?”

“Mi scusi devo andare.” e mette in motto il motore vivace dell’Honda.

“Aspetti! La prego. Non sono un pirata delle notizie. Sono un reporter, uno vero che ha fatto la gavetta in strada con gli uomini e mai per disprezzo della dignità. Sono preoccupato, ma lei sa chi era l’uomo al volante dell’auto che ha travolto la povera ragazza?”

Tim nega con la testa e si sistema l’elmetto sotto il mento.

“Era Lord Guilgam. La riforma sul programma sanitario? Ecco questo signore ha già perso il controllo del suo automezzo per un paio di volte o più e sempre per il medesimo motivo. Probabilmente anche se innocente offrirà un grosso compenso di denaro alla vittima perché fosse cancellato il suo nome dalla dinamica dell’incidente.”

Apre velocemente il suo IPad e mostra velocemente una cartella di fotografie. L’agente si toglie l’elmetto che desta la curiosità del reporter e osserva le due persone a terra in una pozza di sangue, indica sul display alle figure.

“Chi sono?”

Il reporter sorride ironico e prosegue la sua veloce ricerca tra le cartelle salvate sul display.

“Vede, sono Jenna River e barbara Asthley, sedici e ventidue anni, travolte da un pirata che è scappato dal luogo dell’incidente. Loro sono morte, ecco, ecco i loro corpi sfracellati. Era poco prima delle sette, pioveva e nessuno è stato in grado di fornire informazioni. La telecamera della banca di fronte ha ripreso tutto, anche l’uomo sceso per guardare i danni della propria auto. Certo, hanno provato a insabbiare la cosa fino al secondo incidente. Il ragazzo si è salvato miracolosamente, ma Sir Robert ha pagato fior di quattrini per fare tacere la cosa. Per un periodo si è servito del suo autista, ma quando ho saputo dell’ultimo incidente, ho indagato. Non poteva guidare senza patente. Ho qualche amico che mi deve dei favori ed ecco cosa ho scoperto. Sir Robert usciva da una clinica, due giorni fa, una clinica in cui si vocifera lui faccia degli strani trattamenti.”

“Mi scusi ma non la seguo.“

Il reporter appoggia la mano sul braccio dell’agente.

“La prego spenga il motore per un secondo.”

Timothy spegne il motore e incrocia le mani sul petto.

“Guardi.”

Il reporter mostra una fotografia mal riuscita, dove un uomo disteso su un lettino è attaccato a flebo e prosegue.

“Non è quello che sembra. La cura che gli somministrano, è una droga o meglio un farmaco che stanno testando abusivamente. Sir Robert ha sempre avuto un debole per le mode eroinomani ma questa, sembra avere la facoltà di potenziare il fisico mentre il cervello ti diventa un papocchio mortale. Questo integratore non è nostrano e lo sperimentano già da anni senza buoni risultati. Se non diventerà un farmaco qualcuno è certo che sostituirà l’ecstasy. Oppure deve temere se le offrirà dei soldi, insomma se la pagherà, il nostro caro Lord è vendicativo.

La bomba che lui spaccia a Londra si chiama Cern21 e prende il nome dall’acceleratore e dal numero di ore che ti rendono una poltiglia umana col corpo di Frankenstein. Comunque guidava senza permesso e questo non è permesso nemmeno a un Lord.”

“Ha delle prove?”

“Certo, ma non sono un pazzo che va in giro a gridarle o mostrarle alla gente. A Londra si può morire e per molto meno. Ci tengo alla mia vita. Amo il mio lavoro agente e soprattutto amo vedere i delinquenti in prigione.”

“E che intenzioni ha?”

“Raccogliere prove. L’assicuratore è venuto a investigare sullo stato di salute della ragazza?”

“Sì, almeno così mi è sembrato.”

“Si fidi di me. Non era un assicuratore. Loro escono dopo un mese e con comodo. La ragazza è in pericolo di vita. Perché non gli sia prelevato il sangue, lei deve morire, sa che al sangue serve più di sedici giorni per eliminare definitivamente la droga dal suo sistema?”

“Senta non saprei cosa dirle. Io sono un semplice agente, forse dovrebbe rivolgersi ai miei superiori.”

“Mark. Mi chiamo Mark e questo è il mio numero.” gli consegna il suo biglietto da visita.

“Va bene Mark …”

Timothy ripone il biglietto nel portafogli e riaccende il motore della moto. E’ pensieroso. O il mondo è pieno di matti oppure c’è un velo di verità nelle parole dell’uomo che gli sta davanti.

“E se lei fosse una spia? Uno di quelli che ha appena menzionato?”

“Mia madre abita in Hampton Street e in casa ci sono ancora i miei trofei delle competizioni di letteratura inglese. Mia figlia va alla Carlton High ed è registrata sia col mio cognome sia con quello di mia moglie. Se le parlasse di me, prima la prenderebbe a schiaffi e poi si metterà a piangere. Mia figlia si è tagliata il mignolo nella bocca del nostro bassotto e sapeva imprecare prima di parlare. Le basta?”

“Mi scusi. Lei è un uomo che ha molto da perdere.”

“Mi ascolti, non lasci la ragazza da sola! Potrebbe morire. Pensi a me come a un pazzo, non mi creda se voglia, ma la prego sorvegli chi entra e chi esce dalla sua stanza. La porti a casa sua per un po’. Quest’uomo è molto pericoloso.  Pagherà per riscattarsi quell’uomo e se avrà provato “la cura anche su questa ragazza, dovrà aspettarsi tra qualche giorno gli effetti collaterali che purtroppo nessuno conosce. Comunque scappo. Penso che alla fine si troverà la talpa e farò anch’io una brutta fine. Io non sarò il primo né l’ultimo a indagare. Verranno altri e meno attenti. Se ci tiene alla vita di quella sconosciuta si dimostri qualcosa in più di un ignaro agente, altrimenti è finita.”

Il reporter corre verso il parcheggio, nervoso e guardandosi sempre le spalle.

Pochi secondi dopo un’auto corre a tutta velocità nella direzione della città. E’ un’auto sportiva straniera e costosa. Stranezze del mondo. Uno lavora come un mulo tutta la vita e potrà permettersi una cravatta nuova ogni sei mesi mentre altri digitando quattro cazzate sopra un foglio …

Timothy vorrebbe dimenticare il pazzo e le sue allucinanti conversazioni, ma continua a guardare la finestra della camera di Tesla e gira la moto in direzione del sotterraneo. Inconsciamente ha preso una decisione.

 

La cometa di Belfast

E’ una piccola pensione appena fuori città “Na Caoirigh Bándearg” ma ha l’aspetto di una vecchia villa che con gli anni ha perso un po’ di smalto. Piccole rose selvatiche si arrampicano quasi fino al tetto e il giardino emana un odore di natura verde prepotentemente viva anche d’inverno. Una spruzzata di bianco ravviva la strada e l’ingresso all’alloggio. C’è qualcosa di magico nell’aria. Qualcosa che si respira e penetra dalle viscere fino nelle stanze più segrete dell’anima.

La neve allevia il peso grigio del cielo. E’ così che deve essere quando si è innamorati, una parte invisibile della natura partecipa ai sentimenti più nobili dell’essere umano. Ogni fiaba ha un suo scenario che la rende perfetta. Cat capisce che la sua fiaba sia inconcepibilmente bella. Non ha alcun rimpianto, alcuna paura solo un desiderio ardente e intenso di stare con l’uomo che vede come suo eroe. E’ scritto nel sangue delle donne chi dovrà guidare il loro selvatico cuore sui sentieri della vita. E’ una piccola pensione fuori città ma per due innamorati è una reggia con vecchi mattoni e edera mischiata a rose selvatiche.

E’ così che George entra per primo e trascina quella che sembra un’ombra dietro di lui. L’interno è pittoresco e ricco di piatti, fotografie e mobili tanto vecchi da stare in piedi solo con i ricordi.

La locandiera ha solo quattro stanze, ma nel gabbiotto le chiavi delle stanze libere sono unicamente due.

“Siete maggiorenni, vero?”

Cathleen si nasconde dietro le spalle di George. I lunghi capelli hanno ancora fiocchi bianchi caparbiamente ancorati alla chioma rossa. I suoi occhi

“Eccole un documento.”

“Può chiamarmi Signora Rogers e tu signorina?”

George cambia tono di voce che diventa gentile e quasi supplicante.

“Non può bastare il mio?”

La donna li studia attentamente e sembra cupa.

“E’ davvero esistita una pecora rosa?” domanda Cat e stavolta i suoi occhi sono stranamente vispi. Persino il tono della sua voce è diverso, più deciso, più incisivo della ragazzina timida che si è presentata a George.

Bertha Rogers si ammorbidisce appena le è chiesta la storia della casa.

“Sapete, mio padre più di sessant’anni fa, aveva una pecora con una lana tendente al rosa. La sua famiglia pensava che dopo la prima rasatura sarebbe tornata al suo colore naturale ma non è stato così.  Dafne era diventata molto famosa in paese e la sua lana era pagata fuori di soldi. C’era chi pensava che le cose lavorate con la sua lana fossero miracolose. Per questo motivo avevamo aperto questo piccolo albergo, per la gente che arrivava da lontano per conoscerla. Oggi in molti credono sia stata solo una leggenda, ma ci sono delle fotografie nelle stanze, le troverete singolari.  Nella stanza verde, c’è una coperta fatta con la sua lana che credo apprezzerete, le notti qui sono umide e fredde. Voi avrete quella stanza. Anch’io ero molto giovane quando incontrai mio marito, riposi in pace. L’amore è sacro. Qualunque cosa succeda nella vita, voi due restate sempre uniti.”

“Sì Signora.” risponde George che stringe la mano di Cathleen. Lei non ha intenzione di cambiare idea e si avvicina a lui maggiormente. Salgono delle scale strette che portano a un corridoio alto un dito sopra il capo di George.

La stanza è molto piccola e il bagno è in comune, ma la finestra dà su un piccolo laghetto.

George è seduto sul letto e guarda il corpo sottile di quella che gli ha rubato i sogni.

“Se non ti va, possiamo andare via.”

Cathleen lo guarda e la sua dolcezza è perentoria.

“Ho desiderato questo fin dal primo momento. Forse sono solo un po’ impacciata.”

Lui salta per un paio di volte sul materasso poi si alza e la stringe per la vita.

“Io ho paura.”

Le sussurra dietro l’orecchio.

“Di me?” risponde lei che lo allontana per fissarlo nella profondità delle due iridi scure. Gli occhi stupiti di Cat diventano ancora più grandi quando lei si meraviglia. Lui le gira il capo e le sfiora la bocca con un bacio tenero.

“Io ho paura che m’innamorerò tanto da dimenticarmi il mio nome o peggio che mi serva l’acqua per sopravvivere. Sarà sorta di debito sentimentale eterno. Tu resusciti George dalle ceneri di un eroe esausto. Tu dai vita alla parte migliore di me. Tu mi governi e mi nutri e mi disperi. Tu hai il battito del mio cuore, io ho smesso da tempo di respirare. Dammi respiro, dammi il mio cuore che si fa vanto nel tuo petto.” la bacia ancora.

“Potrebbero arrestarti.”

Lei risponde con passione al bacio e lui la trascina sul bordo del letto.

Ho paura che il cielo assorba le ali di chi ha troppi sogni. Ho paura che lui non voglia vederci fuggire. Appena smetterò di voler volare, correrò verso un sogno che non avrà più bisogno di ali se al posto di me ci sarà un noi. Nessuno mi fermerà. Tu sola avrai le briglie del mio cuore selvaggio.”

“Sei un poeta?”

“Fermami!”

Le sue mani scivolano sopra i seni e ascoltano il tamburo impazzito di un giovane e temerario cuore.

“Non posso. Non voglio.”

Lui si stacca per un attimo.

“Ti perdono.”

“Per cosa?”

“Per avermi rubato l’anima.”

Lei chiude gli occhi e la stanza e il mondo intero iniziano a girare. Mette la mano sul petto di lui e ascolta il battito impazzito del suo cuore. Si allontana e sorride. E’ così ubriaca d’amore che tutto ciò che sente è una polvere di stelle sopra i suoi pensieri. Per una volta non si sforzerà di controllare i suoi sentimenti. George la stringe tanto forte da sentire la fragilità delle sue ossa.

Sono così stretti che per un attimo smettono di respirare. Hanno smesso di sentire, di vedere o di percepire il mondo. Si sono smarriti nei loro sentimenti e facendo questo, sono diventati liberi anche di trovare l’uno nell’altra, il sostegno. I corpi arrivano a un punto di non ritorno che li sublima e toglie loro per qualche secondo le catene terrene.

Hanno le ali con cui arrivare a un sogno che cancella dal mondo cupo qualsiasi cosa non sia in sintonia con gli innamorati. Si parlano con i silenzi e si guardano con gli occhi chiusi. I loro cuori sono così vicini da sfiorarsi e il loto battito si mescola attraverso le bocche sudate della pelle.

Sono pallidi e sfiniti. Fiori che crollano dopo una lunga giornata di sole. Ogni loro cellula è sazia. Ogni tic tac dell’orologio è un dirigibile folle che dovrebbe schiantarsi contro il muro dell’orizzonte. Loro non sognano ma si rincorrono nelle lunghe e colorate fantasie che sorreggono le mura di un mondo dove alcun male potrà mai superare anche solo la soglia di una parola.

Respirano. Le mani si sono abbandonate al riposo. Le parole sono tornate ai pensieri e i pensieri non hanno intenzione di rovinare l’attimo perfetto.

Quanta crudeltà mette madre natura nel separare le anime una volta che i corpi hanno trovato conforto? La parte oscura di Cat non riesce a capire, non riesce a caricarsi, si sente tanto debole da subire quella danza sessuale. Di certo non capisce il piacere e il conforto. L’oscurità si separa dal corpo per un attimo, poi sfiancata torna a riposare e pensa che l’amore non possa caricarlo come la violenza e la morte.

L’alba toglie forza al buio e arriva con i suoi colori appena accentuati e una nebbiolina densa che non cancella completamente l’inverno.

George non ha dormito per tutta la notte. Ha pensato alla sua follia. Ha pensato al padre di Cathleen che se lo scoprisse, sarebbe il primo a sparargli o almeno è ciò che lui avrebbe fatto se avesse avuto una figlia. Ha rapito una minorenne e ha avuto rapporti con lei. L’amore è una botte di dinamite che esplode tra le mani di chi la arma.

“Vorrei sapere cos’è la felicità, un momento oppure la somma di mille istanti perfetti?”

“Hm?”

“Basta una piccola cosa a seppellire un attimo felice ed io vorrei invece che un unico momento di felicità bastasse per cancellare tutti i brutti momenti della vita.”

“E’ così.”

“Togli la parola inverno dalla neve e cosa resta?”

“Cosa?”

“E’ tutto, una questione d’amore!”

“Cosa?” risponde George che stringe al petto la ragazza, quasi avesse il timore che scappi.

“Che amarsi rende il vivere degno di qualcosa. Quando siamo soli, siamo così inutili come uomini, tu che dici?”

George tace. Lei gli mette una mano sulle labbra che scende giù sotto le coperte.

“Allora? Le pietre sono meno mute di te.”

“Cosa?”

George è distante. E’ pentito. E’ ferito dal suo bisogno di dare o di ricevere amore. Quella fuga avrà di sicuro un prezzo, pensa mentre si copre gli occhi con le mani. Non vuole vedere la luce. La luce significa chiarezza e lui non ha chiaro nulla nel suo capo. Gli uomini devono indossare le proprie idee come un vestito comodo e mai rinunciare a esse. Come fare? Come rimediare all’irrimediabile? Quale futuro già scritto può essere cambiato da due ragazzi?

Mille pensieri come pietra fa sentire il proprio peso sul cuore di George. L’attimo perfetto sembra lontano anni luce.

“Forse è meglio così.”

Lui si alza dal letto e va verso la finestra.

“C’è un uomo, un’ombra in piedi che fissa la nostra finestra.”

“Cosa?”

“Un uomo …”

Torna a guardare ma lo sconosciuto è sparito.“

“Forse mi sono sbagliato.”

Apre la porta e va verso il bagno ignorando completamente le parole di Cat. Lei tira le lenzuola fino al mento, imbarazzata sebbene la sua ombra, decida di fissare e disgustata l’uomo in bagno.

“Mio padre sospetta qualcosa.”

George torna indietro e parla dalla fessura della porta.

“Sospetta cosa?”

La timidezza della ragazza neutralizza il silenzio e George cede alla sua fragilità, tanto che si siede sul letto vicino a lei, le accarezza i capelli e le sussurra qualcosa all’orecchio.

“Bella? Per te sono soltanto bella?”

Lui si alza e cerca il cellulare. Lo trova e lo accende. Afferra i vestiti da terra.

“Io sono completamente sbagliato adesso. Non ho nulla da offrire a nessuno. Dimmi ti puoi vestire con i sogni? Puoi mangiare sogni? Io ho solo poche idee e tutte piuttosto sfuocate. Non farti progetti. Ti prego.” La bacia. “I progetti hanno bisogno di futuro ed io faccia a mal appena fatica a pensare al presente.”

“Vuoi dire che è uno sbaglio stare insieme?”

“Voglio dire che devo scappare. Le lezioni iniziano tra mezz’ora e non so come farò a entrare senza che si accorgano della mia mancanza.”

“Ma?”

Lui la bacia sulla punta del naso.

“Ti chiamo!”

Lei gira triste si alza e incolla il capo alla finestra. Nei suoi occhi si riflette una nuvola grigia carica di neve e il loro colore diventa ancora più scuro. Lei non può liberarsi. Tesla sente il vetro freddo con la guancia e prova piacere. I suoi occhi sono attraversati da un’ombra oscura che si dilegua appena la ragazza si gira verso George.

“Sì.”

L’emozione di George finisce nel suo groviglio di dolore e impotenza. La sua vita è una cosa incompleta, lo sente e capisce che non può combattere contro l’invisibilità del destino che vorrebbe afferrare e farlo suo. Scende di corsa e saluta la Signora Rogers.

“Non perderla giovanotto. Non troverai mai una ragazza speciale se non impari che speciale significhi ciò che tu dai a lei.”

George ringrazia con un filo di voce e sparisce dietro la porta che sbatte chiudendosi. Arriva in strada e corre sistemandosi la camicia nei pantaloni. Il cellulare manda uno squillo. E’ il messaggio di Blake. Comincia a scrivere. E’ in ritardo. Lo è da sempre e alle cose più importanti della sua vita.

Cathleen è sotto la doccia e pensa. Si sente una stupida. Se sua madre fosse ancora viva, le direbbe di rinunciare alle crociate contro le chimere, ma lei e quella madre non si erano mai capite, nessuno può capire un essere che vive lontano dal suo vero mondo. Cat lascia scorrere l’acqua e si aggrappa al desiderio di un affetto superiore e immenso che la risucchi dalla noia di quell’esistenza umana.. Comincia a piangere. Si tocca le lacrime. Quel viso non ha visto molte volte scendere lacrime. E’ involontario. Non riesce a definire la parte di se che lascia cadere quei goccioloni d’acqua. No. Non capisce. Non capisce perché è così difficile per lui lasciarsi andare. Perché con la luce del giorno tutto debba cambiare? Non capisce perché certe parole dette non diventino una cosa reale, un bisogno, un attaccamento?

Lei vuole che tutto le appartenga, anche se quel tutto ha un’autorità confusa dentro il suo essere. Ci sono parti di lei che la combattono e altre che sanno già cosa devono fare. A quale dare retta? Quale di queste due è la vera Cathleen? Un pizzicore dentro lo stomaco risveglia il suo senso di possedere quel ragazzo. Vorrebbe dirlo a qualcuno, non sa perché pensa a quella debolezza, ma quel bisogno umano di avvicinarsi a un altro essere per lei è una necessità.

Suo padre non la ascolta né la capirà mai. E’ sempre preso dal bisogno di denaro, dalla mancanza di tempo, dai suoi innumerevoli affari e non ha ancora capito quanto sia cambiata … dentro.

Ha imparato a stare sola, a mangiare da sola a badare a se stessa finché non prenderà sopravvento la malattia e un giorno, morirà, come è crollata sul pavimento di casa sua madre, senza nemmeno un saluto, senza il conforto di un ultimo abbraccio. Che cosa resta di un uomo? Di un amore? Che cosa resta di un ragazzo che non ha il tempo di creare la sua opera perfetta?

Le braccia sottili di Cathleen indossano la camicetta a fiori azzurri. La sua pelle bianca ricorda ancora l’abbraccio di George e lei chiude gli occhi per afferrare il suo sogno. Un sogno che è terminato troppo in fretta. Si domanda se l’ha già dimenticata o la desidera ancora? Si domanda se potrebbe esserci un futuro per loro due e in quale posto lontano dalla Belfast che la tiene in catene? Ha nuove sensazioni in quel corpo che per la prima volta sente suo eppure ha vissuto altri sogni ma nessuno così ben definito. Quell’esperimento la soddisfa, anche se non capisce dove inizia la parte oscura di lei e come mai se ne sta lì, in disparte a imparare dai suoi

George non sa quelle cose di lei che potrebbero fargli cambiare idea. Forse è troppo presto per lei per farsi certi pensieri, ma se lui avesse anche il minimo interesse nel continuare quel bellissimo gioco, dovrà sapere. Non ha mai preso in considerazione quanto le emozioni complicassero le cose. Qualcosa in lei trepida all’idea di capire l’amore ma non è sicura di essere proprio lei.

L’amore toglie il ragionamento e la logica smette di indicare la via giusta, quella per cui si è scelti di vivere.

Davanti alla verità tutto perde il fascino rosa e diventa più complicato. Il sipario della realtà le rende impossibile anche solo immaginare un mondo migliore, dove provare dei sentimenti veri per qualcuno cui importi di lei.

Non c’è nessuno in quel mondo che le mostri la strada giusta e mentre esce dalla stanza, finito di abbottonare il cappotto rosso, si gira per guardare i fiorellini verdi della vecchia tappezzeria; in un angolino dietro la testiera del letto, George ha scarabocchiato le loro iniziali.

“Così iniziano i sogni!”

E lei ricorda che lo considerava un pazzo, un pochino idiota, allora, ma a freddo, si rende conto che chi non ha nemmeno un sogno da inseguire è il vero idiota.

Prima di chiudere la porta della camera si guarda nuovamente indietro; il letto disfatto, la finestra ghiacciata, la tappezzeria strana, tutto parla dei giochi di una ragazza completamente diversa da lei. Una campanella la sveglia e chiude la porta. Cat scende le scale della pensione e sale quelle del pub. Il tragitto dalla favola alla realtà è più breve che fatto con l’immaginario. Lei si toglie i guanti con i denti e li getta nella borsa. Una voce dentro la chiama già da qualche ora. Ha dei doveri ed entra nel pub, conscia di adempierli tutti. 

La neve ha messo giù un leggero strato di ghiaccio. George scivola assaggiando la resistenza dell’asfalto contro la sua parte posteriore.

“Merda!”

Il mondo si è ristretto e lui si sente chiuso dentro una gabbia cui hanno gettato via la chiave. Non ha soldi per scappare, non ha un ideale e non ha una famiglia, dove pensare di rifugiarsi fino al momento decisivo.

 E’ stato catturato dalla regola dell’abbandono e ora, appena si ferma, sente il bisogno di scappare ovunque non ci sia il rumore del silenzio e della solitudine. Cathleen reclama il suo cuore ma lei, pensa George, non capisce che il suo cuore vegeta, lobotomizzato da piccoli felici ricordi e non ha le forze di risorgere per crearsi una memoria propria.

Blake continua a scrivergli di muoversi, che Diavolo, replica nella sua testa, Blake, il suo miglior amico dovrebbe capirlo più di chiunque altro. La vita è una merda, e sospira scoraggiato.

 Nessuno capirebbe il suo amore per una ragazzina di quindici anni. Ti sei fuso il cervello amico, gli aveva urlato Blake prima della partita. Io la amo, è stata l’unica risposta degna della sconfortante pacca sulla spalla della squadra.

In quel momento, la sua storia con Cat era un’accozzaglia di dubbi e di ripensamenti. Sarebbe morto per lei, ma essere così giovani e così legati alle proprie cose, abitudini e pochi mezzi, non gli dava altra scelta che negare la spinta forte di tutti i sentimenti.

La debolezza dell’amore lo aveva reso disattento sul campo e i suoi amici, per quanto vicini, non lo capivano abbastanza da lasciarlo libero dalle catene delle consuetudini. Lui non voleva fare ciò che fanno tutti. George esce dal bagno della scuola e entra in classe. Qualcuno lo fischia, altri lo salutano.

“Buongiorno Sig. Schonessey ha dormito bene?”

Gli studenti ridono.

“Mi scusi. Un problema dovuto alla cena di ieri, ma non si ripeterà.”

“Me lo auguro George. L’indipendenza ha un prezzo che nessuno di noi può pagare senza privarsi di qualcosa. Possiamo cavalcare il vento o resistere a esso, comunque vada moriremo consci di essere stati farfalle e non più bruchi.

Direi che per domani lei presenterà una tesina di seimila caratteri sulla Seconda Guerra Mondiale. Mi accorgerò se frutto della sua noce o di quella di un altro.

Un risolino si spande in classe. La mano del professore cade pesantemente sulla cattedra.

“Direi che possiamo procedere!”

George si siede e fissa l’erba ghiacciata oltre la finestra. Sente che tra lui e Cathleen non finirà bene.  Sente che la sua storia è drammatica e piena di punti interrogativi. Un aereo di carta lo colpisce dietro la nuca. Lo raccoglie. E’ un messaggio di Blake. Ciao, Henry non è tornato ieri sera. Nasconde sotto il banco, il cellulare e compone un numero di telefono. Nessuno risponde. Scrive un messaggio. Attende. Nessuna risposta.

I suoi occhi si alzano verso nuvole gonfie di neve. La calma prima della tempesta, pensa e assapora quell’unico momento di pace che ha cancellato il fuoco in cui il suo animo non ha mai smesso di bruciare.

I fallimenti di suo padre non potranno mai essere suoi ma perché gli pesavano tanto da sentirli sulle sue spalle? I pensieri arrivarono al giorno in quella grande scala aveva iniziato a dondolare e al triste grido di chi cadeva giù nel vuoto fino a sfracellarsi completamente contro l’asfalto dei marciapiedi.

I panni sporchi galleggiavano ancora nelle torbide acque dei suoi sogni … i panni sporchi lasciavano macchie di sangue ovunque in quei ricordi … avrebbe mai dimenticato? Piccoli cerchi di fumo svaniscono verso il piatto infinito azzurro che tiene prigioniero il soffitto a tutti i sogni proibiti della ragazzina. Il volto di qualcosa pressava sul suo, qualcosa di molto più grande e molto più cattivo delle cose cattive che mai avrebbe potuto immaginare e più quella cosa oscura pressava, più lei sentiva di voler vomitare.

“Ohh Golia, Ohh, tu morirai, e sul tuo capo, la mia danza di festa io farò … ohh, oh, Golia, tu davvero morrai …” quella canzone rimbombava nella sua testa e soltanto il ritmo incalzante le cancellava un poco della confusione in testa.

 

Per pochi giorni

Hollyhill. Ospedale della Contea. Piove a dirotto. E’ notte fonda e al pronto soccorso ci sono soltanto tre infermieri di turno mentre il chirurgo di guardia sta schiacciando un pisolino dentro lo stanzino di controllo nr.3. Il tempo è così uggioso da pesare su tutto il personale ancora in piedi. Le pareti dell’ospedale vengono colpire continuamente da raffiche di vento e pioggia che cade copiosa di traverso. E’ un blocco di cemento abbastanza grande da ospitare un paese. All’interno le sue pareti blu sembrano voler immobilizzare la gente, ma in alcuni corridoi il blu si combina al verde e tutto diventa meno agitato. E’ notte fonda. Le cose restano calme. Il corridoio è deserto. Nessun lamento. I pazienti dormono, qualcuno di loro morirà. Sente nel suo capo le sirene di due ambulanze che si fermano all’ingresso del Pronto Soccorso. Pazienta. Fissa i tubi che lo collegano al macchinario. Non sente il dolore degli aghi sottopelle quando lui li strappa alla carne. Quella coppia d’irlandesi morirà, ma ci sono altre vittime con loro che potrebbero sopravvivere. Potrebbero morire in qualsiasi istante ma prima lui deve scegliere il suo nuovo ospite.

Londra. “Mi mancano due anni alla pensione e non ho bisogno che l’ultimo della catena alimentare m’indichi come cretino ai miei superiori. Che diavolo combini O’Brian? Che diavolo è questa storia, tu che insegui una vittima? Ho sentito che hai chiesto il fascicolo dell’incidente e l’indirizzo di casa. Tu non puoi indagare, sei fuori per altri sei mesi. Nessuno si è dimenticato della tua bravata e tieni la pistola nel fodero. Non combinarmi un altro casino altrimenti hai finito col traffico e inizierai a pulire tutti i fascicoli a cominciare dal 1977. L’archivio ha sempre bisogno di volontari e se non vuoi finire come cassiere in un market di indocinese ti conviene adeguarti.” L’uomo ingoia una pillola. “Mi sono spiegato bene?”

“Io …”

“Non ho finito! Adesso sai cosa devi fare? Devi spostare le tue chiappe fuori da qui, scusarti con lei e sparire dalla sua vita. Tu sei un poliziotto e non un babysitter, intendi? Un poliziotto cui non è stato affidato questo caso anzi non esiste nemmeno un caso. Hai capito O’Brian?”

“Capo, posso?”

“Cosa? Che cosa vuoi ancora?”

“E’ minacciata.”

“Da chi? Da cosa? Ha sporto denuncia? Ho detto che il caso sarebbe stato tuo, nel caso ci fosse stato un caso. Ti ricordo che è un incidente bello e buono. La ragazza è passata col rosso e si è fatta investire. Che cosa dovrebbe dire il poverino che le è venuto addosso? Mi scuso è colpa mia? E sai bene di chi stiamo parlano. Un Lord! Un capo del nostro governo. Uno di quelli uomini più influenti e importanti del Regno Unito che possono cambiare la tua la mia di vita e farle diventare un inferno appena capirà che stai proteggendo l’investitrice. Ma che ti frulla nel cervello? Vuoi fare il Capo della polizia al posto mio?”

Barley gli mostra la sedia dietro la sua scrivania.

“Tieni accomodati ma prenditi anche le responsabilità che comporta. Adesso togliti la ruggine dal cervello e vai a rimediare a sto problema. Entro domani ti voglio vedere seduto in ufficio dietro la tua scrivani. Nolte uscirà al posto tuo. Se non vuoi cambiare mestiere, ascoltami, e O’Brian?”

Tim si gira prima di uscire dalla porta.

“Ci sarà anche un’indagine interna.”

Tim ha delle sensazioni, nulla più. Sente che quella storia non è né così semplice né così poco importante. La ragazza forse era vittima di qualcosa di più grande di lei, ma come scoprirlo? Le sue mani tremano, deve controllare i nervi, ha detto il dottore. Troppo stress O’Brian, calmati, ripete a se stesso per un paio di volte. Non ha ancora trovato il modo per scaricare i nervi. Nemmeno le birre fanno molto o la corsa. La sua patetica infanzia era cambiata da quando è entrato in polizia, ma certe cose del proprio carattere non cambiano mai. Ci sono paure, timori in se stesso che non riesce a controllare. Che siano davvero paure? Rose l’ha mollato con un sms veloce. La loro vita insieme chiusa con due crude parole: sono stufa. Ha avuto il coraggio di farsi una foto mentre caccava nella sua tazza del caffè e di postarla su Facebook. Lui non ha fatto niente. Non ha voluto fare niente. La loro vita insieme era una continua richiesta di lei e un continuo non posso, suo. L’ha odiata. Non’erano altri rimedi a quella cosa devastante. Si era fidato e aveva giurato di non farlo più. Il tic peggiorava ma a un certo punto aveva capito che quello era l’unica valvola di sfogo prima di premere il grilletto contro qualcuno. L’autocontrollo non era mai stato un problema ma si era visto davanti a quei due teppisti che lo canzonavano, si era visto infuriato e pronto a dare loro quello che si meritavano: una lezione.

Le donne, aveva capito, non avevano bisogno di un compagno ma di un domatore e lui non se la sentiva di entrare nella gabbia dei leoni per alcuna spinta fisica o divina.

Tim è combattuto. Ha smesso di fare bravate già ai tempi del liceo. Si è fatto prendere a pugni e ne ha dati tanti a sua volta, ma quei tempi sono cancellati. Vive o meglio sopravvive a tutto, impassibile, ordinato, freddo. La ragazza investita è ora la sua priorità, non ha nulla di meglio che investigare su qualcosa che forse esiste solo nella sua testa. Ma lo farà perché ha il fiuto, il tempo e la volontà.

 

Il solitario e l’ammalata

Tim è in malattia. Non ufficialmente ma ha dovuto raccontare una grossa bugia al lavoro. Non gli importava. Voleva scoprire quanto fosse grave il racconto di quel reporter. Ha dei sospetti o meglio, delle fantasie o peggio, ha delle percezioni oscure sull’incidente a Tesla Mytie. Lord Guilgam ha mandato il suo segretario personale a controllare lo stato di salute della ragazza. Gli esami del sangue che lui stesso ha controllato sono nella norma quindi niente droga. Tim ha tutto il tempo da dedicare a quel caso.

La sua vita sociale si limita a dare da mangiare a un gatto randagio che resta con lui per più di due giorni soltanto nei mesi invernali. A lui sta bene così. Ogni uomo dovrebbe avere le sue sacre abitudini e la sua integerrima libertà ma quella ragazza gli ha fatto capire che la vita dura, un secondo, quello in cui la morte decide se prenderti o no e sarebbe stato un peccato vedere il proprio attimo arrivare e non avere lasciato dietro nemmeno un saluto a qualcuno.

Quel tizio di Scotland Yard era stato chiaro “Lei deve badare al traffico e basta.”. Tutti quei “lei” ripetuti come in una dinamica di un possibile omicidio gli ha messo addosso, un certo fuoco. Lui è un poliziotto e la legge è uguale per tutti, lord inclusi ma Guilgam da lì a quarantotto ore, avrebbe pagato venticinque mila sterline alla vittima per evitare che fosse menzionato il suo nome nell’incidente.

Detesta certi lavori sporchi dei suoi superiori. Detestava quelle manovre politiche da campagna elettorale che servono a sistemare tutto senza verità, anche se non era colpa di Guilgam, sicuramente, avrebbe potuto uccidere un altro innocente e abusato del suo status sociale. Tutti quelli che conosceva nel dipartimento avrebbe venduto la pelle per un pezzetto di fama, un posto al governo anche come guardia privata oppure da prescelto di un certo superiore facile con i premi. Timothy O’Brian quando si guarda al mattino nello specchio è fiero delle scelte fatte.

C’è sempre stato uno spazzolino nel bicchiere sopra il lavandino ma non ha mai sofferto per questo. La solitudine è un pregio per certi leoni che quando smettono di cacciare cercano la tregua tra le mura domestiche. Le amiche restano amiche e basta. Mai la casa propria e i motel vanno benissimo a patto che sia lei a insistere. Nulla di più facile al momento del saluto. 

Per ore aveva letto e riletto quel bigliettino da visita ma aveva dei dubbi, delle lacune e non gli piaceva fare considerazioni frettolose, non è da buon investigatore.

Lei non si è svegliata.  E’ notte. Non gli andava di stare in casa. Aveva lasciato la pappa al gatto nella sua piccola ciottola blu e finto di non vedere la montagna di piatti sporchi seminata per casa. Meglio pensare ad altro che alla propria solitudine. La ragazza aveva delle ferite e non riusciva a scordarsi la paura nei suoi occhi prima che fosse investita.

E’ curioso di sentire il suo racconto. Nemmeno la sorella è venuta, forse, pensa, dovrebbe verificare l’indirizzo o meglio chiamare tutti quelli sul registro del telefonino.

“Pronto?”

“Mi scusi per l’ora tarda sono l’agente Timothy O’Brian e … sua sorella ieri ha avuto un incidente?”

“Un incidente? Oh, e mi chiamate adesso? Come sta Tes? E’ grave? Oddio! Dove si trova?”

La donna al telefono è così agitata da balbettare in cerca di conferme. La sua preoccupazione è palpabile. Si presenta sulla carrozzina e fa il suo ingresso in camera accompagnata da un’infermiera.

“Ecco la nostra paziente.” e le mostra la camera con la porta aperta.

“Grazie.”

Appena entra, nota l’uomo addormentato sulla sedia vicino al letto della sorella.

“Agente O’Brian?”

Lui scatta in piedi cercando di sistemarsi la camicia e i capelli. Con la punta dei piedi nelle grosse calze bianche di cotone, tasta il pavimento alla ricerca delle scarpe. Si sente ridicolo e ha un lancinante mal di schiena ma nasconde tutto dietro un sorriso stanco d’imbarazzo.

“Timothy, la prego. Mi sono sentito in dovere di restare. Non c’era nessuno con lei ed è così triste svegliarsi qui dentro da soli.”

Lui si scusa per non fare sembrare sgradevole la sua intrusione, in fondo non rappresentava altro che un agente fuori servizio e chiunque della famiglia avrebbe potuto cacciarlo fuori.

“Ne so qualcosa.” conferma la donna mostrando il suo mezzo.

“Incidente?”

Lei annuisce.

“Il solito ubriaco. Ci ha centrati, mamma e papà sono morti, solo io e Tes ci siamo come dire, salvate. Mi chiami pure Sarah. Povera Tes, le sta passando tutte. Campi di fango, incidenti … Probabilmente non sarà più la stessa. ”

Gli dà un colpetto sulla spalla in segno di gratitudine e si avvicina al letto della sorella.

“Cosa ti hanno fatto sorellina?”

“Piccola frattura cranica. Emorragia. Un’auto l’ha presa in pieno, lei non ha visto il semaforo rosso. Era in bicicletta, ma non ha altre fratture gravi, questo è buono direi.”

“Strano. Tes è così attenta a tutto e quando guida, è quasi una noia. Non avrebbe fatto una sciocchezza senza che lo avesse voluto. Non è da lei. E’ vero che ultimamente era concentrata sui propri problemi affettivi. La mia sorellina …”

“Io c’ero e ho visto l’incidente. Correva o forse era sovrappensiero. Per fortuna è salva. L’assicurazione provvederà a chiarire le cose, per fortuna non ci sono state denuncie.”

“Si è svegliata? Ha sofferto? I dottori che cosa dicono?”

Lei guarda tutti i tubi che corrono verso le varie sacche appese.

“Non ancora. Dobbiamo aspettare il turno di domani per sapere qualcosa. Mi hanno detto della piccola frattura che hanno chiuso e probabilmente lo shock o amnesia che potrebbe avere al risveglio. Mi scuso se le faccio in questo momento una domanda. Sa dov’era stata quel giorno?”

“Al lavoro presumo. Il sabato lavora in una pasticceria, la paga è misera ma è pur sempre un inizio. So che si è mollata con quel deficiente che non la smetteva di prenderla in giro. Per lei non ci vuole un uomo scontato, facile, ma uno arrendevole e sano di mente. Ultimamente è difficile capire cosa stia combinando, oramai è adulta. Avrà curiosato in giro, le piacciono i posti tranquilli e appartati, è una ragazza schiva, anche se non sembra timida. Non dà mai l’impressione che nasconda qualcosa …”

Lei guarda l’agente e fa delle considerazioni sul futuro di sua sorella con lei ma resta tutto soltanto nella sua mente. Tim pensa invece a Tesla e al fatto che la ricordava piena di fango e di ferite e rimarca una certa forte somiglianza con la sorella più grande, quasi fossero delle gemelle. Tim studia Sarah e Sarah lascia trasparire una grande considerazione per quell’estraneo rimasto accanto a loro senza chiedere nulla. 

“Adesso però vivete insieme?”

“Sì, io, come vede, non ho una vita sociale molto impegnativa. Insegno pianoforte ai bambini del quartiere e i soldi ci bastano appena per pagare l’affitto. Resto fuori spesso, mi presento ai tutti i concorsi di pianoforte per i premi sa, ma dicono che sia troppo anziana per rappresentare una cosa straordinaria. Io però non demordo. Mi piace viaggiare e quando mi capita di vincere qualche premio, ecco mi sento più ricca di prima. Sono un tipo che usa tutte le energie per dedicarle alla propria missione. Non sono granché come sorella ma sono un’ottima organizzatrice, qualsiasi cosa sembra difficile o impossibile, io riesco a sistemarla. Potrei nascondere tesori senza che alcuni li trovi.”

“Immagino.”

“Posso chiederle un favore?”

“Se posso.”

“Lei e Tes, non mi fraintenda voi vi conoscevate da prima?”

Lui alza le spalle con le mani infilate nelle tasche dei pantaloni. Probabilmente ha del rossore sulle guance, cosa che la penombra riesce a nascondere. In momenti così imbarazzanti Tim, tende a girare lo sguardo verso il punto meno interessante dell’ambiente e in quel momento, fissa il triste pagliaccio che quasi vuole scappare dal quadro.

“No, mai incontrati sfortunatamente.”

Il quadro lo infastidisce e torna a guardare Tesla. Sarah finge di non voler studiare l’estraneo che ha troppa premura nei confronti della sorella.

“Ah, immaginavo. Non voglio disturbarla ulteriormente ma …”

“Mi dica.”

“Mi dia un’ora per andare a casa e portare il cambio. Non vorrei, come dice lei, che si svegliasse da sola. Ha bisogno di qualcuno che le stia vicino, è una brava ragazza con poca fortuna e molto talento.”

“Talento?”

“E’ una grande pasticcera, solo non ha trovato l’occasione giusta.”

Tim le sorride.

“Vada a preparare il bagaglio.”

Sarah bacia sulla guancia la sorella e le fa una carezza sulla mano. Sebbene i suoi occhi si sforzino alcuna lacrima, scende sul suo viso.  Nasconde con dignità la tristezza e non cede che a una seconda carezza prima di uscire dalla stanza.

Tim la segue mentre lei spinge il suo mezzo verso il fondo del corridoio e sbatte contro le porte ancora chiuse, vorrebbe correrle dietro per aiutarla ma lei, caparbia, spinge la sbarra d’acciaio con tutta la forza che ha nel braccio e quella si apre ubbidiente.

Tesla sogna. Sono pochi i momenti in cui lei si ricorda di aver sognato e quello è un attimo speciale. Gli occhi sotto le palpebre si muovono velocemente. Lei sa di sognare e non può però condividerlo con nessuno. In quella realtà vede i fotogrammi del suo incidente a grande velocità. Immagini che scorrono nel suo capo si sovrappongono ad altre immagini e in mezzo a queste, appaiono dei volti di sconosciuti, per lo più giovani che cadono sul campo da dove lei è scappata.

C’è qualcuno nell’ombra che la fissa, una figura minuta di cui non vede il volto, ma sente il suo odio, la sua rabbia, la sua inimicizia. Appena prova a guardarsi indietro, dal terreno sbucano ossi e fiotti di sangue la immergono e la imprigionano. Vorrebbe gridare aiuto ma è immobilizzata in quell’incubo. Gli scheletri emergono con le braccia protese per afferrarla, lei fugge e quasi la agguantano prima che lei liberi un grido acuto che fa chiudere il sipario. Il cattivo sogno è finito. I suoi occhi si aprono lentamente e trovano pace nel vedere le pareti bianche della stanza. C’è un orrendo quadro con un pagliaccio ridente che la fissa, ma è solo un quadro, ripete a se stessa. Riguarda i denti del clown e ripensa a un’immagine di un osso con pochi denti e dei bottoni di ferro incollati a essi. Forse sta ricordando, ma non ne è certa. La stanza è semi buia. Ogni tanto si sentono i passi svelti di un’infermiera verso stanze da dove provengono lamenti. Gli occhi di Tim si aprono e si chiudono disarmati dopo essere stati forzati a resistere.

“Che ora è?”

Lui salta dalla sedia e si avvicina alla bocca di Tes.

“E’ notte.”

“Ho sete.”

“Chiamo l’infermiera.”

“No. Aspetta … dove sono?”

“Adesso è tutto ok, hai avuto un piccolo incidente.”

“La testa …”

“Stai bene.” risponde Tim.

“Cosa?”

Tes si lamenta, gira il capo fasciato e richiude gli occhi. Tim si precipita in corridoio e corre verso il gabbiotto degli infermieri. Un medico assieme a un’infermiera entra nella stanza.

“Adesso deve uscire un attimo.”

L’infermiera accende la luce e si avvicina al capezzale di Tes. Tim guarda la ragazza e sorride, il peggio è passato e chiude la porta prima di uscire in corridoio.

Tesla riapre gli occhi e si guarda intorno. Non capisce se il suo sogno sia finito o sia ancora intrappolata in esso. E’ questa la peggiore paura di tutte quelle che mai avrebbe potuto avere, restare prigionieri in un corpo che non ti risponde e che non accetta i tuoi comandi.

Per due giorni Tesla si è sfogata con il disegno e camminando nei corridoi dell’ospedale. Disegna ossa su tovaglioli e pezzi di carta. Cammina poco ma cerca di non dormire più, se si addormenta ritorna il mal di testa. Non si è mai lamentata del cibo o del fatto che né il suo ex moroso fosse venuto a trovarla né la sua migliore amica. Ha paura di guardarsi nelle finestre del corridoio, ha il terrore di vedere ombre che la inseguono.

Ha visioni su cose già vissute o probabilmente sono incubi da cui non riesce svegliarsi. Vede i mostri che la inseguono. Vede un ospedale e qualcosa che non va con il suo corpo. Fantasmi che si lamentano e una sorta di ombra che la perseguita. Sarah è via per un concerto ma la chiama ogni tanto cercando di farle coraggio. Ha una voce fredda e assente oppure è lei che non più la stessa da un bel pezzo.

I ricordi degli anni precedenti in cui i genitori erano ancora vivi, la perseguitano. Lei li amava e li odiava per averla lasciata sola quando aveva ancora bisogno di loro. Poi c’è quell’ombra che la perseguita. Qualcosa le sta addosso. Qualcosa cerca di spaventarla, qualcosa di alieno e molto cattivo. E’ una presenza costante che ha impressione di vedere ovunque: negli occhi della gente, nelle fotografie sulle pareti, persino la vede uscire dai muri come un vapore scuro che poi si dilegua nell’aria che respira. La stanza dell’ospedale quando è vuota diventa un’immensa camera con un pavimento di fango e milioni di vermi che si contorcono. Lei odia i vermi. Stringe le coperte sotto il mento e guarda fuori dalla finestra, aspettando che qualcuno entri in quella sua solitudine senza riparo. In bagno evita lo specchio. I suoi capelli sono spariti e hanno la sciato il posto a un turbante di garze bianche. Lei stessa sembra un mostro uno di quei personaggi che infesta gli ospedali psichiatrici abbandonati e in cui hanno girato film horror.

Ha capito che i veri amici non esistono e che un estraneo come Timothy avrebbe potuto sostituire mille persone passate nella tua vita senza che avessero mai fatto nulla per te.

Timothy è un bravo infermiere, pensa lei. La fa ridere. La fa parlare ed è un ottimo ascoltatore. Le chiede quali siano i suoi gusti musicali, cosa preferisca mangiare, le ha persino chiesto, dove preferirebbe giocare se tornasse ancora bambina. Tim è buono con lei e con Sarah che ogni sera ha riaccompagnato a casa, quasi si preoccupasse veramente del suo buon rientro.

Ogni volta che parla del giorno dell’incidente Tesla, ricorda sempre la medesima cosa, un volo sopra qualcosa e dolore alla testa, ma quello che non riesce a dire è la strana malinconia che la prende prima di addormentarsi o quando si guarda allo specchio, come se si scoprisse per la prima volta. Persino la sua pelle è diversa al tatto. E’ come se non fosse lei ma qualcosa che avrebbe ucciso pur di non perdere il suo corpo. Quella strana sensazione si è manifestata all’incidente, quando era in sella alla sua bicicletta. Lei pedalava, lo ricorda ma non ricorda chi stringesse il manubrio perché aveva uno strano formicolio alle dita delle mani, formicolio che l’ha allontanata dal manubrio e diretta verso l’incidente.

La ricaduta è inevitabile. Di notte, con il buio, Tes ha smesso di vedere solo se stessa nel vetro della finestra ed ha iniziato a urlare. Qualcosa usciva da quel maledetto vetro nero, qualcosa come una bocca gigantesca che tentava di ingoiarla o peggio di ucciderla. Probabilmente sta impazzendo e nonostante i sedativi, lei ha paura di chiudere gli occhi. La figura minuta la perseguita.

Tim ha ricevuto la telefonata nel cuore della notte e dopo aver avvertito Sarah di stare tranquilla, si è fiondato in strada, spingendo al massimo il motore dell’Honda. Più accelerava per arrivare all’ospedale più capiva che il puzzle di quell’incidente avesse troppi pezzi in disordine.

L’infermiera lo ferma all’ingresso. Dopo qualche ora si ripresenta il dottore di turno che gli conferma lo stato buono di salute della paziente che trova solo delle piccole difficoltà nel ricordare certi avvenimenti ed è per questo motivo …

“Ed è per questo motivo agente che la signorina Mytie usa le ombre per riempire i suoi vuoti di memoria. Lei adesso si vede come un mostro ma le passerà. Le abbiamo dato un sedativo leggero ma potrà stare con lei se le fa piacere.”

“Certo dottore. Grazie.”

Tim compone un numero di telefono e chiama.

“Sì è solo uno di quei dolori alla testa. L’hanno sedata. Domattina ti vengo a prendere.”

“Non ti devi disturbare, risponde Sarah, in fondo fai già troppo per noi. Ha detto qualcos’altro? Ha parlato dell’incidente? Di dov’era andata prima?”

“No. Adesso vado di sopra.”

“Va bene. Ciao. E Tim?”

“Sì?”

“Grazie. Se dovesse ricordare qualcosa dimmelo subito.”

Ogni gradino della scala dell’ospedale gli fa pensare agli ani assieme alla moglie Rose che aveva deciso di mollarlo perché troppo lento nel prendere decisioni e inaffidabile come compagno di vita.

Rose non era mai stata una bellezza ma aveva il fascino delle latine, tutto l’opposto di Tesla e Sarah. Sarah sarebbe stata una donna bellissima se non fosse rimasta vincolata dal suo male. Poi pensa a Tesla. Troppi anni di differenza tra lui e la ragazza. Si domanda ancora e spesso perché le sta vicino? Che cosa vuole dimostrasi? E poi ha un flash, un volto sovrapposto a quello di Tesla in marcia folle verso e oltre lo stop rosso. Due volti sopra lo stesso viso. Lui ha visto un fantasma quel giorno e non si darà pace finché Tesla non avrà ricordato quello da cui scappava.

 

Reparto psichiatria

Tim ha camminato per i lunghi corridoi asettici dell’ospedale, cercando di capire il perché del suo patetico attaccamento a quella ragazza. Per il suo bene, si auto convinceva, ma c’erano molte ombre sulla vicenda che lo stuzzicavano a perseverare in quell’attesa diventata un logorio del suo sistema nervoso.

Avrebbe voluto scavare più a fondo nella vita della signorina Maytie, ma non ha avuto il tempo materiale per farlo. Sapeva di lei che aveva mollato il suo ragazzo il quale se la stava spassando con la sua migliore amica e che è stata miracolata per due volte, in due incidenti d’auto dove avrebbe potuto perdere la vita o peggio, come sua sorella, le gambe. Tesla è una ragazza così semplice da rendere complicata ogni altra supposizione sulla sua follia mattutina che l’ha portata a farsi investire.

Non è da lei, ricorda le parole della sorella, è così precisa e impeccabile e pensa quando è in auto, credo sia una vera noia, e nemmeno se ci fosse, il fuoco in strada accelererebbe, allora cosa ha fatto cambiare idea a Tesla? Chi la inseguiva quel giorno o da chi stava scappando?

“La signorina Maytie è stata trasferita nel reparto psichiatria.”

“La sorella è stata informata?”

“Abbiamo provato a chiamare ma non ha risposto nessuno.”

“E’ su una carrozzella! Dovreste già saperlo.”

“Lei?”

“Si ricorda di me? No, lei è di un altro reparto, giusto, io sono Timothy O’Brian l’agente che l’ha soccorsa.”

“Mi dispiace agente, dovrà parlare con il dott. Grummer, è lui che si occupa della paziente.”

La porta bianca è leggermente socchiusa. All’interno si sentono voci parlare e lui avrebbe domandato sulle condizioni di Tesla. Bussa. Gli rispondono di entrare.

“Non vorrei disturbare è per una paziente Tesla Maytie.”

“La frattura? Sì. Lei è un parente?”

“No dottore. Sono Timothy O’Brian l’ho soccorsa.”

“Si è ripresa per un paio di volte urlando. L’abbiamo sedata. Temiamo abbia un forte esaurimento, può accadere a chi non sopporta gli ospedali o ha subito un trauma tale da provocare un’amnesia.”

“Ma si era risvegliata cosciente!? Ha chiesto dell’acqua.”

“La testa gioca strani scherzi.”

“Come sta?” ma il medico non ha tempo di rispondere appena un'altra persona si presenta dentro la stanza.

“Che Dio sia con tutti noi figliolo!”

Tim gira il capo per guardare l’uomo appena entrato.

“Padre Reid e sono venuto a benedire questa giovane in via di guarigione. E’ una credente?”

Il sacerdote fa il segno della croce in aria e benedice la stanza e la paziente.

“Non saprei.”

“Siete sposati da poco?” domanda il reverendo con un sorriso sincero.

“No, ha frainteso. Io sono un amico. L’ho vista cadere e …”

“Il suo salvatore! Che Dio l’abbia in gloria! Un miracolo e il suo artefice. Dio protegge gli angeli come te figliolo.”

“Da cosa padre? Dalle mogli che scappano o dalla birra che uccide?”

“Dalle torture che noi stessi a volte c’infliggiamo consapevolmente e inconsapevolmente.”

Il reverendo si avvicina a Tesla e le prende la mano. Con la mano libera tiene stretta la croce appesa al collo e fa un’orazione sottovoce, ma non la finisce perché vola in aria, quasi fosse stato sollevato da un gigante arrabbiato e si ritrova con la schiena contro la finestra.

“Brucia! La mia mano brucia!!!!” urla lui tenendosi il palmo della mano.

Le infermiere irrompono quasi fosse l’apocalisse. Il prete si guarda la mano bruciata, non quella che teneva il crocefisso ma quella che ha stretto la mano di Tesla e continua a farsi il segno della croce impazzito.

“No me! Aiutate lei! Aiutate lei!” continua lui a urlare, mentre un piccolo ago gli entra nella vena e due infermieri lo trascinano fuori dalla stanza. Tim fissa le pupille dilatate del pover’uomo e capisce che la sua è una paura reale e poi guarda Tesla che continua a dormire quasi nulla fosse successo.

Appena fuori dal corridoio l’uomo continua a urlare “L’ho visto quel Diavolo!” e poi ancora “Guardatela è lei!”. Tim si alza e guarda in corridoio. Il prete è svanito nella guardiola, dove tutti gli infermieri di turno sono arrivati a controllarlo.

“Lo scusi, lavora troppo e per un uomo della sua età questo ritmo sballato è dannoso.”

“E le ferite?”

“Probabilmente se l’è procurate poco prima e si è accorto solo dopo, mi creda in questo reparto, capita di tutto.”

“Sembrava così tranquillo.”

“La soglia del dolore è diversa per ognuno di noi.” disse lei fissandolo con un grosso sorriso. Aveva dei tacchi altissimi e tanto rossetto sulle labbra. Timothy rimase impressionato dalla ragazza. La sua forte empatia è riuscita a dirottare l’attenzione del giovane dall’assenza del sacerdote.

Nonostante la sua bellezza, Tim sta pensando che la ragazza avesse un qualcosa di diabolico.

“Comunque non credo si sia ferito prima. Era di buonumore.” replica Tim all’assistente che oramai camminava nel corridoio verso la porta d’uscita dal reparto.

Timothy torna a stringere la mano di Tesla, la stessa che ha provocato le orribili bruciature al povero reverendo Reid, ma non accadeva nulla di preoccupante.

“Sai quante cose strane succedono in tua assenza.” sussurra lui all’orecchio della ragazza. Il respiro di Tesla è regolare ma ogni tanto, qualcosa d’invisibile si contorce sotto la sua pelle. E’ come un’energia che Tim avverte anche da una certa distanza e cui non vuole dare peso. L’incidente i Padre Reid lo cataloga come una cosa strana con spiegazioni sicuramente logiche che l’indomani avrebbero fatto sorridere entrambi.

L’infermiera con i tacchi a spillo è sparita, pensa Tim che non ha nemmeno guardato come si chiamasse. Non gli interessava veramente ma c’era una sorta di oscurità in quella donna che avrebbe voluto ricordare per starne alla larga. Nonostante i leggeri lamenti di altri pazienti, nel reparto c’è un profondo e triste silenzio. Tim si sistema la sedia di fianco al letto. Ordina i fogli pieni di schizzi e li mette nel cassetto del comodino così come la matita consumata per più della metà. I scarabocchi mostrano solo ossa e teschi e ruderi abbandonati. Si è data da fare, pensa divertito lui che già litiga con lo schienale scomodo appena si siede. Attenderà il giro del dott. Grummer e deciderà quale bugia raccontare l’indomani al lavoro. Chiude gli occhi ed ha la sensazione che un’ombra si alzi dal corpo di Tesla per fissarlo. Non ha un vero volto e nemmeno una forma ben delineata ma fluttua sopra la stanza come una bandiera senza asta. Timothy non è un uomo che crede nei diavoli o negli angeli, ma quell’ombra la vede bene e appena si alza di scatto per accendere la luce vede come una grossa bocca che grida senza voce.

 

Squali d’acqua dolce

Belfast è vestita di bianco. La città vive seppur a ritmi più lenti. I ragazzi hanno un problema.

Chi di voi l’ha visto per ultimo?

George guarda ognuno dei suoi amici in attesa di una risposta affermativa.

Il corridoio troppo pieno di studenti chiassosi, spinge i sette a rifugiarsi nei bagni. Muller resta fuori per bloccare la porta.

“Che cazzo succede?”

La preoccupazione di George non lascia spazio ad altre interpretazione. Durden distante anni luce smette di fumare, getta la sigaretta e si alaccia le scarpe. La sua attenzione è diretta all’armadietto 252, il suo nascondiglio. Gli viene in mente che quella mattina non l’ha controllato e se … Questo dubbio lo affligge come una pistola puntata alla tempia. Monkey sa, pensa lui, sa e potrebbe averci messo le mani.

Blake spinge Durden per farsi spazio e mostra un messaggio di Henry sul suo cellulare.

“Questo mi è arrivato stamattina. Pensavo fosse uno scherzo di Hoss.

“Solo perché sono ebreo, devo essere l’anima della festa?” domanda scocciato Hoss.

Ma quanti begli squali in quest’acquario d’acqua dolce.” riflette a voce alta George che fissa l’immagine sul cellulare.

“Idee?”

“Ieri sera.” risponde Hoss “L’auto.”

“Ma dai, sarà in giro.”

“Non credo a una vacanza. Suo padre non è il tipo da favoritismi.” aggiunge uno dei gemelli.

“Non me ne frega niente. E’ un coglione e tutto quello che gli succede se lo cerca.” Brian esce incurante.

“Sei uno stronzo Brian. Ho altro cui pensare.” Blake lo segue ma Hoss lo ferma.

“Monkey sarà un pezzo di merda ma sappiamo perché. Brian non ha del tutto torto.”

Blake annuisce e si ferma.

“Aspettiamo qualche ora.” prova a chiamarlo. “Il cellulare è spento.”

“E’ un idiota.” pensa a voce alta uno dei gemelli.

“Ha portato via qualcosa?”

“Non hai capito George, riprende Hoss, non è mai arrivato alla base.”

George si gira e guarda i suoi amici.

“Lo spogliatoio. Apriamo il suo armadietto!”

“Aspettiamo, Capitano, potrebbe non prenderla bene.”

Durden esce per dirigersi negli spogliatoi prima di qualche altro curioso. Muller gli domanda qualcosa ma lui non sente, è preoccupato per Henry. Ha un cattivo presentimento.

Durden spinge con il piede la porta semiaperta ed entra nel deposito cercando di non fare troppo rumore. Le luci sono già accese pertanto capisce di essere atteso.  Un uomo sulla cinquantina si avvicina a lui e lo perquisisce.

“Pulito!” grida a qualcuno un alto e al buio che sorveglia l’operazione.

L’ombra scende le scale. La donna è giovane sulla trentina, molto ben vestita e di una bellezza sana.

“Mio caro e non intendo dire meno, tu mi piaci molto, ma negli affari il piacere ha poco a che fare con i debiti.”

“Ho pensato di ridarvi tutto, io non voglio soldi per me. Mi sono sbagliato … Il Missionario?”

Lei è molto alta con i tacchi. Si pianta davanti al viso del ragazzo cui mette un dito sopra le labbra.

“Sssssttt … Parlo io. Potresti essere tu il Missionario, no? Si?”

“I, i, Io? Io ….!”

Lei gira le spalle e si dirige verso un armadietto.

“Gli affari diventano una cosa personale quando non sono regolati perfettamente, ma, e torna da lui con qualcosa in mano che sembra una granata, tu mi piaci. Sei giovane e hai diritto di sbagliare. Tu sei diventato la mia questione personale e sai bene che il Capo non accetta ben volentieri gli sbagli di alcuno. Come dicevo, il prezzo di questa scivolata, Durden, è minimo. Tu farai una cosa per me ed io sistemerò i tuoi affari.”

Durden guarda gli uomini con i mitra in mano. La cosa in cui si è ficcato è seria e non ne uscirà vivo se non farà quello che loro vogliono.

“Hai capito ragazzo?”

Lei prende tempo per pensare e per decidere. Una volta deciso sa che non potrà più tornare indietro.

“Io non voglio nulla per me …”

“Ti facevo un ragazzo con certe aspirazioni, dove sono andate quelle ambizioni?”

Lei fa cenno con la testa all’uomo sulla cinquantina con il volto completamente privo di qualsiasi espressione emotiva. Lui appoggia l’arma a terra e sferra un pugno nello stomaco al giovane che si piega sulle ginocchia che finiscono a terra.

“Nulla di personale.”

Durden sputa sangue e alza gli occhi sulle gambe della donna.

“Che devo fare?”

“Che devo fare Pat?”

“Che devo fare Pat?”

“Adesso siamo nuovamente in affari. Tu torni alla tua vita ed io ti manderò un messaggio. sarai pronto e ti servirà aiuto. trova qualcuno che ti dia una mano, qualunque cosa accada.”

“Io non conosco nessuno.” piagnucola lui.

“Hai amici. Potrei offrirti una soluzione convenevole per entrambi. Una parte dei soldi in cambio di questo piccolo favore.”

“Co, cosa dovrei fare?”

“Il sicario. Tu farai l’eroe per noi.”

“Voi siete addestrati io non sono nessuno. Potrei fallire.”

“Sì potresti ma noi sappiamo come aggiustare questi piccoli difetti caratteriali. Non ci piace ricattare gli amici con la morte dei propri cari perché amiamo il nostro paese e la nostra gente, ma giustifichiamo alcuni sacrifici come necessari alla causa? Hai capito o devo fartelo spiegare nuovamente dal signor O’Brady.”

Il rumore dei tacchi risuona in tutto l’edificio pieno d’imballaggi di varia natura tra cui sicuramente anche armi. Durden è ancora a terra quando lei passa una mano tra i suoi capelli.

“Lavoriamo per la stessa causa. Siamo dalla stessa parte.”

“e picchiate la gente per farglielo capire?”

“Ti ricordo che tu hai cercato noi e tu hai cambiato idea. Credi che entrare e uscire da un’organizzazione sia come andare in fumetteria? Non Mi piace usare la violenza per ottenere ciò che voglio ma se non arrivo allo scopo, credimi la violenza è una delle strade che adotterò. Tu hai smarrito la via prima che cercassi noi. La tua ambizione dovrebbe essere più determinata. Non ti recluto perché penso che tu non voglia dimostrare nemmeno a te stesso di essere un vincente. Che cosa vuoi fare da grande, il medico? L’avvocato? Il politico? E arriverai mai a quelle cariche senza soldi e senza protezione?  Puoi vincere quell’apatia che ti condanna a vivere aspettando, aiutando la nostra causa. Noi possiamo darti un valore e un lavoro ma Durden, tu non puoi cambiare costantemente idea.  E Mark? Tieni vicino il cellulare.”

L’aria gelida gli rinfresca il volto arrossato e gli occhi freschi di pianto. Per un po’ Durden resta immobile in piedi davanti al passaggio pedonale. Dopotutto, pensa, nulla di speciale accadrebbe a Belfast se qualche idiota non pensasse di avere motivo per farla cambiare e quell’idiota resisteva alla tentazione di non gettarsi sotto un’auto per vigliaccheria. Ci vuole un coraggio che lui non ha, altrimenti avrebbe messo la canna in culo a quella puttana che voleva le si leccassero le scarpe lucide.

Avrebbe potuto confidarsi con qualcuno ma svelare quel segreto avrebbe portato a cose ancora peggiori di quelle che stavano per accadere. Lì sui marciapiedi, sul limite delle strisce, lui si compiace del cielo che nonostante tutta la tenebra sotto, resta, azzurro. Una delle costole è così dolorante che deve camminare piegato per non sentire dolore. Chiama Terence che sa che non direbbe nulla, è un mulo ma è uno che non venderebbe un amico per mille mitra e qualcosa in più. Terence lo riporterà all’Istituto, dove fingerà di essere scivolato nelle docce. Nel suo capo oltre alle vertigini della cazzatta enorme che ha commesso la parola “sicario”, sommerge e ribalta e riemerge ogni sua cellula neurale. I soldi sono svaniti e per venirne fuori dovrà commettere un vero crimine. Mark fissa il traffico che lo assorbe completamente. Probabilmente non dovrebbe fare null’altro che restare in quel mondo. Resta lì in mezzo, annullando il mondo e gli arriva in mente Pat, ma lui la conosce quella donna. L’ha vista da qualche parte, in un posto comune e non era sola. Improvvisamente la scintilla si accende e vede il volto reale del suo nemico. Sorride. Che idiota che è! Ha sempre saputo la verità e potrebbe fargli comodo usarla una volta tanto, per vendicarsi.

 

Le verità sono cose brutte

Blake ha smesso di cercare le ombre nel caffè. E’ in crisi. Ha smesso di fumare ma sente un prurito alle mani peggio della varicella. I denti cercano le sue labbra per morderle, per assaggiarle, per un contatto fisico con qualcosa che ricordi loro la nicotina. Al pensiero della nicotina il suo cuore accelera i battiti. Più spingi in te stesso l’idea di non voler fumare più ogni cellula del corpo respinge tale idea, ripete Blake instancabilmente cercando di ostacolare quella debolezza nella sua estenuante guerra a farlo crollare. Tra meno di sei ore si fermerà al tabaccaio della stazione e caricherà i suoi polmoni della migliore nicotina colombiana.

George fissa la ragazza che scrive poesie al tavolo accanto. Ha i capelli ricci quasi neri e morde la matita ogni volta deve affrontare una nuova pagina. Le sue lentiggini sono numerose e le piace sorseggiare dalla birra che deve avere sul tavolo da più di un paio d’ore; bicchiere pieno ma assenza di schiuma. Ha le mani sottili e piccole, non si mangia le unghie e non mette smalto o rossetto a George piacciono le donne acqua e sapone. Le poetesse sembrano meno lunatiche di quelle concentrate per gli esami di stato. La delicatezza femminile potrebbe essere come una nocciolina per un elefante, ma non abbastanza da sfamarlo. La ragazza gira il capo e gli sorride, o forse sorride a entrambi. Blake lo prende come un complimento. Una gomitata arriva nel fianco di George.

“Perché non ti fai avanti?” gli chiede Blake.

“Non tutte le donne che guardo me le porterei fuori.” risponde sottovoce.

Le sue mani prendono a giocare con il bicchiere di birra.

“Sei l’ultimo candido romantico sulla Terra.”

George finisce la birra dal suo bicchiere e fissa le piccole dita mentre digitano un messaggio sul cellulare, probabilmente il suo ragazzo. Ma gli importa davvero qualcosa? La risposta è che non sa nemmeno quale potrebbe essere il ruolo di una ragazza così nella sua vita. La poesia è bella ma non lo scalfisce. Forse è anormale ma quello che è l’unica cosa sicura che sa.

“Sono uno che non vuole malattie veneree e che non cerca nulla.”

“La paura spinge le mani a cose molto più tristi.”

“Meglio triste che in cattiva compagnia. Che ne sai che non sia una ossessiva, una paranoica che t’insegue per le strade. Ti ricordi la pazza che andava dietro a Hoss? Come si è liberato?”

“Ha chiesto aiuto alla polizia.”

“Ti rendi conto? Alla polizia?”

“Cambiando argomento, non ti ho chiesto com’è, dopo il lutto, sai …”

“Sono qui. Lo ero anche prima e lui non c’era né prima né adesso quindi fondamentalmente non è cambiato nulla.”

“Sei così duro con te stesso. Molla un po’ e divertiti. I vent’anni non ritornano.”

“Nemmeno i morti. Voglio una vita migliore e per una causa migliore.”

“Entra in politica. Io ti voterei.”

“Mi piace combattere per i miei princìpi non nuotare nel fango dei princìpi altrui.”

“Sento che è un periodo di merda. Provo a pensare positivo ma qualcosa mi tira giù. Ricordi i pazzi che ci spararono? E se cercasse proprio noi?”

“Viviamo in un mondo difficile.”

“Questo è un paese di pazzi con pazzi al comando. Voglio andarmene.”

“E dove? A fare cosa?”

“Sono un ottimo cuoco. Chi se ne frega. Lavo pentole e cessi finché non trovo di meglio.”

“Vorresti abbandonare la nostra verde terra?”

“La globalizzazione ci ha regalato lo smog e l’indifferenza come in ogni altra parte del mondo. Preferisco essere un irlandese fiero in un paese che mi rispetta che essere un povero idiota in un paese che lo ignora.

“Credi che ci sia ancora posto per il talento in quest’universo d’invertiti?”

“Adesso sei troppo pessimista. Questa è un’isola, una minuscola pustola sulla costola dell’oceano. Chi credi mai che si curerebbe di quello che pensa o dice il suddetto? L’America o meglio il mio regno per un passaggio in America!”

“Se fosse stato come te, il povero Riccardo non sarebbe morto ma espatriato in terre a lui più consone.”

“Un’altra birra!” gridano in due al ragazzo dietro il bancone.

“Se non piace a te la tipa che scrive …”

“Accomodati pure e mai! Gridano entrambi all’unisono. Mai senza preservativi!”

Blake si alza e va a sedersi sulla sedia vuota al tavolino della ragazza che scrive. George lo guarda divertito, forse la ragazza meritava un saluto. E’ un pochino geloso ma deve rinunciare. Appena capisce quanto sia pesante la parola “rinuncia”, si alza di colpo dalla sedia e si siede a sua volta al tavolo della giovane. Blake resta interdetto ma capisce che non può competere, il suo amico ha un’ascendente che nessuno potrebbe battere. O’Farwell si alza e con una pacca sulla spalla saluta i due.

“No. Tu non vai da nessuna parte.” e George lo spinge nuovamente sulla sedia. Blake non afferra il motivo. George si piega e sussurra qualcosa all’amico cui brillano gli occhi.

“Sei un mostro ma ti amo.”

“Allora come vi chiamate? “ domanda con un sorriso la ragazza.

Il bagno è abbastanza largo ma il lavandino diventa un comodo letto. Lei non emette nemmeno un suono, ma continua a rispondere sorridendo e stringendo gli occhi. Sono bastati dieci minuti. Dieci lunghi minuti dentro quella follia proibita poi entrambi i ragazzi sudati si spostano dal corpo che resta immobile sul margine del lavandino. L’hanno fatto. Blake non ci crede ancora ma ne è estasiato e tutto è filato liscio come il nuoto sincronizzato. Lei è stata perfetta e Botoman non ha mai smesso di essere ciò che è, un duro figlio di puttana.

“Devo pisciare.” e George si dirige nel bagno, con la camicia sul petto sudata e con i pantaloni a metà gamba, è pensieroso. Blake lo segue dietro la porta senza lucchetto ancora accaldato dall’incontro di prima e tiene chiusa la porta con la punta del piede. Bisbiglia fissandosi il pene ammosciato.

“Fratello sei grande! Due volte di seguito ma ti ricordi chi hai chiamato ogni volta che …? George finge di non sentire.

“Cat. Il tuo piacere finiva con un nome ma la scema la dentro non si è mai accorta, o almeno ci ho pensato io a tenerle chiusa la bocca.”

“Basta! Farla finita. Mi fa schifo hai capito? Mi ha schifo quello che abbiamo fatto.”

“Ma se l’hai distrutta quella poveretta e nessuno ti ha detto di farlo. Dai torniamo lì per la rivincita e poi spariamo.”

George prova a sistemarsi i vestiti.

“George?” la voce della ragazza invoca il suo amante.

“Dai andiamo da lei. Vieni. Non capiterà più un’occasione così e hai visto quant’è brava?”

“Mi fate schifo tutte e due. Lasciami stare.”

“Dai non fare cosi, fai così? Non farlo. Cancella tutto. Non fare così.”

George alza la mano in segno di lasciare andare ed esce dal bagno con le scarpe in mano. La sua è una fuga dallo sbaglio ma sa che non potrà mai cancellare quello che ha voluto fare. Blake è rimasto.

Si siede al tavolino con le tre birre bevute a metà, un quaderno pieno di poesie sopra di cui lascia i sold della consumazione poi senza guardarsi indietro, si dirige verso la porta scontrandosi con un uomo una testa più alto e col volto pieno di lentiggini. L’energumeno non si scusa ma entra nel locale filando dritto al banco. George dopo essersi girato un paio di volte e imprecato per il doppio di queste contro lo sciamannato, attraversa la strada e si bea dell’aria fredda che gli arriva in faccia.

Non pensa ma guarda avanti quasi non ci fosse più nulla a sorprenderlo in quel mondo dove tutto lo stringe e nulla riesce a farlo sentire libero. Un piccolo raggio oltre le nubi grigie lo chiama e lui risponde facendo l’ennesimo errore della giornata, chiamare Cat che arriverà con cinque minuti di ritardo. Mangeranno da Oak’s di fronte alla stazione per poi correre al solito posto. George non è ancora sazio di sbagli e per l’ennesima volta cercherà rifugio sul corpo di un’adolescente che riesce più di tutti quanti, a disarmarlo.

“Ohh Golia, Ohh, tu morirai, e sul tuo capo, la mia danza di festa io farò … ohh, oh, Golia, tu davvero morrai … per farmi entrare nel giardino dell’Eden …” canta nella sua testa ma non ricorda, dove ha sentito quella canzone e poi s’illumina ricordando, in silenzio il volto di una ragazza.

 

Solitudini

George appoggia le mani dietro la testa e si sistema comodo sul guanciale. Guarda il modo di fare di lei, è leggero e i passi per la stanza sono impalpabili come una piuma che cerca appoggio al pavimento e non ci riesce perché troppo freddo. Lei apre la piccola borsa con rose gialle e blu e prende l’accendino. Appena riesce ad accendersi la sigaretta, lascia andare un lungo sospiro di sollievo.

“Tu fumi?”

Lui si stacca dal muro e si siede a centro del letto.

“Sì. Non te l’ho mai detto?” risponde Cat guardando lo smalto blu dei piedi, è ora di cambiarlo, pensa.

“No, non credo.” risponde George stupito. Lei si avvicina e lo guarda dritto negli occhi. Sorride.

“Adesso non ti piacerò più?”

“No, lui si prende una pausa, semplicemente è così.” Lei sembra un’altra persona, si comporta come una donna o peggio come un’estranea.

“Così come?”

Lei lo guarda indifferente ai mille pensieri che lo attanagliano.

“Non so. Sei una creatura così innocente così bella che non riesco immaginarti nella veste di una normale umana.”

Nemmeno se ti dicessi che ora devo andare in bagno?

In bagno, ah sì, di là.

Grazie. Risponde lei dopo aver spento la sigaretta ed essersi alzata nuda ma con i calzini di lui.

entra in bagno.

Non ha nemmeno chiuso la porta, riflette George mentre ascolta quando tira lo sciacquone e quando si lava.

“Non c’è il bidè.”

“Cos’è?”

“Mi offendi. Una cosa che serve alla’intimo umano. A noi donne fa un certo solletico. Opps! Cosa da grandi e cose … Lei si lava i denti con l’indice. Sputa il dentifricio.

“Che cosa farai da grande cioè dopo?”

“Da grande? Non saprei. Sogni, ideali, utopie. Farò il randagio.”

“Hai avuto quasi vent’anni per pensarci, non hai idee o non hai sogni?”

“Farò il giardiniere di casa mia.” gli vengono in mente le scene di sesso con la sconosciuta. Vorrebbe dimenticare ma lo eccitano.

“Smettila. Non hai un’ambizione? Essere ricco, importante o famoso che ne so?

“Cosa cambierebbe? Sempre una bistecca mangerei, un abito, forse non avrei nemmeno il tempo per andare in bagno o peggio non avrei una vita privata e questo per cosa? Case che non riuscirei ad abitare o vedermi invecchiare nonostante ricco? A che servono soldi e potere se finisci in un buco buio? Mi piacerebbe avere sempre dei sogni e cercare di inseguirli.”

Lei arriva con la bocca piena di dentifricio e le dita avide di sfregare sui denti.

“A vivere senza preoccupazione questa vita, a vendicarti dei tuoi nemici, a non sentirti impotente.”

“Io non mi sento impotente, prima secondo te sono stato impotente?  E poi quanti nemici potrebbe mai avere uno come me? Io sono un Signor nessuno che nella vita non cerca niente e che non vuole passare alla storia per l’ennesimo sconfitto dall’ineffabile.”

“ Se tu t’innamorassi di una terrorista e nonostante l’amore la volessi fermare?”

“Vieni qui terrorista!”

Lui l’afferra e le pulisce la bocca con l’asciugamano.

“I terroristi come te li fermerei così … “ e la bacia. Cat si divincola e gli salta indiavolata in grembo. Gli toglie l’asciugamano ed esplora con la guancia quasi tutto quel corpo arrivato alla maturità. Solo certe donne lo fanno e lei ha il coraggio di farlo. George non la ferma, anche se volesse, non può. La lascia decidere tutto, il tempo, il ritmo, la fine e ultimato quello spasmo quasi doloroso lo riporta alla mattinata con Blake. Si divora pensando. Si logora mentre il suo corpo si calma.

Lei si lancia dal letto più fresca di prima e danza nuda. E’ una ragazza irriconoscibile, pensa lui.

“Sai, credo tu abbia due persone diverse dentro. Una dolce, ingenua, arrendevole e ogni tanto scopro che sei un’amazzone, temeraria e misteriosa.”

“Sei spaventato?”

“No, spiazzato. Non so chi sei.”

“ Se te lo dicessi, Svanirebbe la magia. Sapere tutto di qualcuno ci toglie il piacere di scoprirlo.”

“Adesso parli come una donna vissuta.” lui scappa in bagno a fare pipì. Lei lo raggiunge ma lui chiude la porta.

“Non hai vergogna.” grida lui dopo aver tirato lo sciacquone.

“Dopo quello che ci siamo fatto dovrei fingere che tu non abbia bisogno di andare in bagno? Ma è stupido, scusa.”

Lui esce dal bagno con un asciugamano intorno alla vita.

“E’ stupido ma molti potrebbero volere la propria privacy.”

Lei lo spinge contro il letto e si mette cavalcioni.

“Io sono una donna vissuta.”

“Sei solo una zanzara pestifera che si mimetizza sotto le spoglie di una bella ragazza. Hai delle passioni?”

“Uccidere le mie prede ma tu sei speciale. Ti pungerò e sarai marchiato per sempre.”

“Grazie, risponde ironico, come sei indulgente … Non ti piace che lavorare, chattare presumo, incontrare ragazzi più grandi.”

“ A proposito. Ho visto come si chiama quel tuo amico … ah, Blake.”

Lui la fa scivolare e si alza.

“O’Farwell?”

“Sì. Ci siamo visti ieri davanti al Flairnach.”

“Ti ha parlato?”

“Sembra abbia voluto dissuadermi dal vederti. Dice che ti creo problemi.”

Lei finge di guardare il pavimento.

“Eh?”

Lui cerca il cellulare e guarda se ci sono nuovi messaggi di Blake. Vuole capire come sia finita la cosa tra lui e la sconosciuta dopo la sua fuga.

“Lascia perdere. So che è il tuo amico e probabilmente sarà geloso. Non ha una fidanzata?”

“Blake ha abbastanza problemi da solo figurarsi con una fidanzata.”

“Ma te l’ha detto? Di noi? Della discussione?”

“Mi dici che hai? Oggi sembri così sovversiva? Non ho visto Blake e in fondo non mi sembra nulla di grave. Un amico cerca sempre di tenerti fuori dalle malie di una ragazza. E’ normale. Sei davvero

strana oggi.”

“Sono una terrorista l’hai detto tu.”

“A volte non so proprio chi tu sia.”

“Che importanza ha? In fondo ricchi o poveri come hai detto tu, andiamo tutti in un buco buio …”

“Ti facevo più innocente.”

“… ed io più adulto.” Non ho mai detto di essere perfetta.”

“No. Non l’hai mai detto.”

Lei smette di sorridere per guardarsi le unghie colorate delle mani. Con una smorfia di disappunto si gratta con i denti lo smalto dal pollice e non ancora soddisfatta, procede con le altre dita.

George la vede per la prima volta. Con molto meno velo divino è quasi una ragazza normalissima, sembra più adulta e forse nemmeno tanto interessante. L’unica cosa che sente è che lei è così forte che riuscirebbe a trascinarlo ovunque e lui la lascerebbe fare come un drogato smanioso di gustarsi fino in fondo la dose. Cathleen parla, agisce e sogna senza il peso degli anni o dello stereotipo sociale. Il suo essere ha limiti solo a se stesso e questo suo fare per lui è una cura ai dubbi, alle incertezze del domani e ai problemi che non smettono di ricordargli quanto sia lontano il suo progetto di felicità. Non è facile amare qualcuno, quando il cuore non è mai stato allenato a farlo.

Il pub è vuoto. George ha smesso di bere dal momento in cui il bicchiere gli è sembrato una grossa torre piena di Cathleen ognuna con una voce e una testa diversa. Blake arriva e sembra un cane bastonato. Ha uno zigomo rotto e il setto nasale fresco di ferita.

Ci sono ancora delle gocce di sangue sul collo e sulle scarpe, le altre sicuramente lui ha provato a pulirsele. George lo guarda e tentenna dirgli quello che vorrebbe. Blake si butta le mani sul tavolo e ci appoggia la testa.

“Chiedi del ghiaccio per me.”

“Che Diavolo?”

“Era un palazzo.” grida Blake.

“Un maledetto edificio fatto di muscoli e rabbia. Si è fiondato in bagno e non so perché ho ancora i genitali. Ricordo solo di aver sentito male e non una volta … I calci sono arrivati dopo. Mentre sputavo sangue, ho visto qualcosa che mi ha fatto vomitare. Si sono baciati capisci. Lei è una di quelle che lo fa spesso con gli sconosciuti e lui rideva mentre cercavo di rialzarmi. Mi chiedeva come mi sarei sentito se avessi saputo di avere la gonorrea. Mi viene da vomitare.” e di corsa si butta contro la porta del bagno restandoci per una buona decina di minuti.

Quando Blake ritorna George è quasi fuori la porta del pub.

“Ehi, dove stai andando?”

“Ho da fare.”

“Devo ammazzare quello stronzo.”

“Perché non l’hai fatto?”

“Potevo ma ho avuto paura di non potermi fermare.”

“Le hai prese e per cosa?”

“Lei mi ha dato il suo numero di telefono. Ha detto che non ha mai fatto nulla del genere ed io, la stronza, la vorrei vedere ancora.”

“Risana il cervello e riportalo al piano di sopra. Non è successo nulla. Una scopata. Basta. Non ci mettere euforia. E’ una stronza che gode facendolo sapere al suo ragazzo. Vuoi un’altra dose di pugni?”

“Pur si scoparla ancora? Fammi pensare? Sì.”

“Allora sei più malato di me.”

“Beviamo una birra?”

“No, devo andare.”

“Come vuoi, chiamerò Terence a farmi compagnia.”

George esce poi rientra e si avvicina a Blake pensieroso.

“Mi ha detto che vi siete visti.”

“Chi?”

“Cat?”

“Cosa? No. Non la vedo dalla famosa sera. Perché dovrei e chi l’ha detto?”

“Lei.”

E’ possibile che abbia visto un altro Blake.

“Non credo.” gli occhi di George sono incollati alle pupille del suo migliore amico.

“Senti fratello io la tua ragazza non solo non l’ho vista ma non capisco perché fare il mio nome. Cos’è uno scherzo?”

“Non stava scherzando e sono io a non capire.”

“Tu ti fidi di lei?”

George lo fissa come se la testa di Blake fosse già esplosa.

“E di me? Ehi che ti prende? Sono io quello che ti tira fuori dal vomito e che ti fa copiare fisica.

“Dici che basta per avere fiducia?” George controlla il cellulare di Blake. Nessun messaggio di Cathleen. Il ragazzo è pulito, forse.

“Metti in dubbio la mia parola?”

“No. Non è così. Non capisco perché questa storia?”

“E’ una ragazzina George, una ragazzina. E’ già pericoloso stare con lei figurati pretendere una cosa limpida … “

“Ma è limpida.”

Credi? E se fosse una pazza?  Una svitata come quella di stamattina che non si scopa solo te. Sei sicuro che fosse vergine? Le ragazze sanno simularlo molto bene. Non mi frega una cicca secca di lei, Botoman, ma credo che tu abbia un problema serio e guardati le spalle.”

“Hai detto tu, ha quindici anni cosa potrebbe mai fare una ragazzina di quindici anni?”

“Sesso con gente più grande, problemi adolescenziali, problemi da donne … insomma che vuoi che ne sappia?  Adesso sono preoccupato per Mark. Durden e Henry sono sul terreno di guerra e questo non va bene. Sono preoccupato per me, per noi dopo l’avventura di oggi e mi fa male la faccia come se ci fosse passata sopra un tram. Vai al Diavolo e lasciami in pace. Io penso a Mark e tu pensa ai cazzi tuoi, va bene?”

“Non mi va di intromettermi per una volta devono cavarsela da soli. Sono i loro problemi non i nostri.”

“Da quando la pensi così?”

“Ci siamo sempre aiutati e non abbiamo mai permesso che nessuno di loro si sentisse spiazzato.”

“Dove hai la testa?”

“Sulle spalle O’Farwell e che mi domando tu dove hai la testa. Durden è il tuo problema? I nostri soldi? Il Missionario. Sai che ti dico? Che non mi frega un cazzo di queste cose. I nostri soldi sono volati via, pfaff, e il mago di OZ, George Schonessey non è capace a farli riapparire. E’ un problema di Durden.”

“Potrebbe entrare in un brutto guaio.”

“Cazzi suoi. In quanti guai non mai entrato Mark? Da quanti casini non abbiamo salvato Mark? In questi anni cosa non abbiamo fatto per Mark? Forse non gli abbiamo mai dato il biberon per il resto, sono a posto con la mia coscienza. Perché non lo chiedi a Hoss o a Fine e Lane che tanto sono i più menefreghisti di questo sistema solare? Perché non chiami quella sberla di sua madre che prima di concepire un fratellastro con l’ultimo marito dovrebbe ricordarsi del primogenito? O tu? Perché non ci pensi tu on fondo è la tua missione, aiutare i poveri e i deboli. Forse Durden è più furbo di noi. Compra armi e traffica organi vivi a diciotto anni. Ha trovato una strada più brave per la felicità e questo senza corrompere il suo animo.”

Mentre guida George, rivede la scena con lui, Blake e la sconosciuta. Ferma l’auto sul ciglio della strada, apre la portiera e vomita.

L’auto di ferma davanti alla chiesa di Saint Patrick. Lei è in piedi sulle scale con la sua sciarpa rossa che si sistema i guanti. Lui la guarda e pensa. Pensa al guaio in cui si caccerebbe se continuasse a vederla, pensa a tutti i sogni che lei dovrebbe farsi sulla loro storia e pensa a quanto sia lontana una qualsiasi felicità dopo quello che ha fatto. Si guarda nello specchietto retrovisore e vede Hyde dietro le iridi blu fredde come quell’inverno cui è dura sopravvivere. Gli arriva il ricordo del padre ma non lo fa entrare, lo caccia via dalla sua memoria e torna a guardare la ragazza con la sciarpa rossa sugli scalini della chiesa che sta chiamando qualcuno, ma non lui. Il suo cellulare è muto. Lei parla velocemente e poi rimette il cellulare nella borsetta. Abbozza anche un sorriso quando vede l’auto del suo innamorato.

L’interno dell’auto è afoso.

“Tua madre come la pensa, sarebbe contenta che tu uscissi con una come me?”

Lui resta in silenzio per un po’ poi la guarda negli occhi e capisce che le deve rispondere. Allenta la pressione sul pedale dell’acceleratore e s’infila nella seconda strada meno intasata di traffico questo almeno finché non si ferma al rosso di un semaforo che sta durando una vita.

“Mia madre è morta.”

Cat guarda fuori dal finestrino. La sua voce emana vapore che s’incolla al vetro e lei immagina cosa potrebbe disegnare. George non percepisce nemmeno uno dei suoi mille pensieri.

“Non so che dire.”

“Non importa. Le madri ricordano e perdonano tutto e credo che conoscendoti avrebbe capito perché tu.”

Lei si gira, abbozza un sorriso che poi si spegne. La distanza tra loro non ha il potere di cancellare ciò che provano.

“Ti avrà amato tanto.”

“Credo di sì. Tutte le madri lo fanno.”

“Non proprio tutte, ma non capire male, anche la mia era come dire, speciale. Hai fratelli?”

“Io vorrei che non parlassimo dei nostri parenti, non credo sia così indispensabile.”

“Pensavo che ti piacesse parlarne.”

“Non mi piace.”

La strada finisce davanti al parcheggio di un piccolo parco.

“Sicuro di non preferire una cioccolata calda?”

“Passo tanto tempo chiusa che non ricordo quando ho camminato e con piacere sopra la neve. Penserai che sono una triste ma non trovo così romantico tutto questo bianco.”

“Allora perché sei voluta venire qui?”

“Ho molti ricordi belli. Quando ero piccola venivamo qui finché abbiamo smesso di venirci.”

“Adesso non sei molto più grande.”

“Mi piace questo tuo vedermi, anche se penso di avere più anni di te. George, lei gira il capo prima di scendere dall’auto, a volte io sono molto cattiva.”

Lui la guarda mentre lei lotta con una lastra di ghiaccio e parla a se stesso, forse io sono più cattivo di quanto qualunque cattivo lo sia mai stato.

George scende dall’auto e resta con le spalle alla portiera mentre Cathleen sta camminando in mezzo al parco. Vorrebbe seguirla ma non può. Non si se la sente. Non corrisponde quelle sensazioni che accompagnano i romantici che hanno smesso di vedere il cielo blu per immaginarlo solo rosa. Lui non vede il cielo e nemmeno le nuvole e i fiocchi di neve. Non vede nemmeno le danze di quella ragazza che tiene per mano ma con il timore che non ci resti incollato. Cat è un aquilone che vola libero, dai colori contradditori oggi forti oggi timidi. 

Lei torna indietro e gli chiede di risalire in macchina.

“Tutto qua?”

“Non mi piace la neve, trovo simpatici gli alberi, spogli scheletri che supplicano qualcosa al cielo. Rappresentano una tragedia, così nudi davanti al freddo, sono tristi anche se carichi di neve.”

“Bel modo di rallegrare la giornata.”

“Perché le giornate devono essere per forza allegre? Tu vivresti di sola birra?”

George la guarda.

“Certe cose potrebbero tentarmi.”

“Non credo. Credo che tu, come me, come altri, non sappia cosa davvero si possa prendere dalla vita. Le cose hanno una durata così breve.”

“Oggi sei particolarmente fuori fase.”

“Credi?”

“Non è da te questa drammaticità.”

“Che ne sai cos’è da me?”

Lui sorride.

“Allora?”

“Dico semplicemente che sei una ragazzina.”

“Davvero pensi questo di me?”

“Blake crede che mi stia mettendo nei guai per te.”

Lei a un certo punto sorride, ma il suo è un sorriso inquietante e misterioso che George non riesce a decifrare.

“Tu moriresti per me George?”

 

Dicembre 2011

Fine e gli altri si ritrovano nel bagno della scuola.

“Avete sentito?”

“Cosa?”

“Henry si è tolto la vita.”

“Non ci credo che cazzata è questa?”

Hoss è sbalordito mentre George arriva scortato da Blake.

“Che succede qui?”

“Henry è morto. Si è gettato dall’Albert Bridge. Tutti i notiziari ne parlano.”

Durden cerca il cellulare nelle tasche dei pantaloni, mentre George si gira verso Blake.

“Tu ne sai qualcosa?”

Blake nega con un cenno della testa.

Durden apre il cellulare e mostra un’immagine di Henry appeso a testa in giù e con la gola tagliata.

“Cazzo che schifo. Cazzo! Cazzo! Povero Henry perché? Un depravato?”

“Ciao coglioni!!!”

Henry fa il suo ingresso mentre gli altri gli imprecano dietro. Ha un aspetto trasandato e dei cerchi scuri intorno agli occhi.

 “Sei un pezzo di merda Henry.”

Henry si siede a terra e toglie gli occhiali.

“Fan culo Monkey.” gli spiattella in faccia Durden che trattiene il proprio pugno. Escono tutti tranne George.

“Che ti succede?”

“Lo scherzo?”

“Non è lo scherzo. Sei mancato per due giorni quasi.”

“Questo mondo fa schifo.”

“Che ti è successo?”

Henry alza la camicia e mostra i lunghi lividi che lasciano pochi spazi di pelle sana.

“Il dolore è scomparso ma è rimasto il rimpianto.”

“Chi ti ha fatto questo?”

“Nessuno. E’ tutta colpa mia forse. Odio la birra e odio anche voi.”

“Che ti è successo?” grida George.

“Che cazzo vuoi che sappia. Mi sono trovato sopra un paio di giganti che facevano volare pugni da ogni direzione.”

“Devi andare al dottore.”

“Certe cose non si curano con l’aspirina.”

“Credo di aver visto qualcosa. Non so se è legato a quello che mi è successo.”

I lembi della camicia tornano a coprire le ferite doloranti di Monkey. Le lacrime di Henry raccontano molto di più che George forse riesce a capire.

Durden è seduto in mezzo a un cerchio di sedie. L’hanno legato e Henry è l’unico rimasto nell’ombra, tutti gli altri lo guardano e aspettano.

“Siete dei pazzi di merda! Perché mi fatte questo?”

Hoss non è certo che quello che stanno facendo sia la cosa giusta, ma Blake lo blocca.

“Monkey sei stato tu bastardo? Hai detto loro delle armi? Io non ho fatto niente!”

“Chi ti ha dato le armi Mark?”

“E tu chi cazzo sei Mister Perfection? Credi che con lo studio noi riusciremo a farci una vita la fuori. Quanti di noi sono realmente ricchi? Hoss o forse i gemelli? Io ho fatto qualcosa per il mio futuro per tutti noi. Liberatemi!”

“Comodo. Non abbiamo nessuna fretta.”

“Mark, ripete George dietro le sue spalle, che cosa hai fatto?”

“Ho preso delle cazzo di armi con il fondo cassa della squadra.”

“Cosa hai fatto stronzo?”

Blake furioso si lancia su Durden ma uno dei gemelli lo ferma.

“Ho fatto un affare. Per tutti noi. Duecentomila che sarebbero diventati due testoni in meno di un mese. Tra un mese ci troveremo milionari senza alcuno sforzo.”

“Ti sei bevuto il cervello locusta?”

Monkey riappare dall’ombra e fissa Durden.

“Non l’ho detto a George, ma credo che le cose siano un pochino più complicate.”

“Stai zitto Monkey o ti ucciderò!”

“Tu non ucciderai nessuno Mark.”

“Voi non potete farmi nulla.”

“Ma la polizia sì.”

Hoss continua a martoriare una pellicina del suo pollice finché non esce il sangue.

“Non potete. Siete tutti complici e poi ho prosciugato il vostro fiduciario.”

Henry getta a terra i dieci fucili.

“Maledetto stronzo.”

“Cazzo siamo fottuti. Ci butteranno fuori. I nostri soldi pezzo di merda? Dove sono gli altri fucili Mark?”

“Fan culo.”

Hoss smette di torturarsi le unghie e si alza a sua volta.

“Sai Durden, nessuno ti dirà che sei il bastardo che sei perché di famiglia povera, no povero stronzo, quelli come te, sono dei viscidi serpenti pronti a colpire alle spalle e sai che ti dico? Grazie. Grazie per fatto in modo che lo scoprissimo. Henry ha pagato per le tue stronzate e ora tocca a te. Dove sono le armi?”

“Ci uccideranno tutti. Non capite merdosi che non si tratta di una cosuccia per cui fai sei mesi di galera e ne vieni fuori. Qui ti tagliano i coglioni e poi ti minacciano. Loro hanno le nostre armi. Non avevo un deposito e fino alla vendita me le avrebbero tenute.”

“E come mai tanta cortesia?”

“Sono un cliente di fiducia. Liberatemi altrimenti non solo non vedrete più i soldi..”

“Che fai, adesso ci minacci?”

“Io non ti minaccio George. In questa cosa ho detto che siamo tutti noi. Ho comprato a nome vostro e voi ci siete infognati quanto me.”

“Dove sono le armi Mark?”

“George, amico, non ci sono altre armi. Non ci sono mai state.”

Durden inizia a piangere.

“Non ci sono mai state armi.”

henry si piazza davanti a lui e lo prende per il collo.

“Hai spazzato via i nostri soldi e ora racconti un’altra balla. Merda! Tu devi morire.”

La sua voce era tranquilla e calma. Mark lo fissava spaventato.

“Henry lascia stare.”

“No, cazzo, e agita le mani in direzione di Durden, mi hanno seguito e ripetevano di stare zitto altrimenti anche Durden tutti voi l’avreste pagata cara.”

George si gira verso Henry che si è tolto gli occhiali che finiscono sopra la sedia. Henry si gira lentamente e cammina verso George ma invece di parlargli sfera un pugno in piena faccia a Mark che urla di dolore. Il sangue gli esce copioso dal naso.

“Il mio naso. Cazzo!” e batte il piede contro il pavimento.

Henry si avvicina a lui ma George gli mette una mano sulla spalla per frenarlo. Henry la toglie con forza.

“Non ti preoccupare non lo ucciderò.”

Si piega e sussurra qualcosa all’orecchio di Durden che resta colpito dalla notizia al ché si rialza per puntargli la mano a forma di pistola che spara.

“Mi dispiace amico, mi dispiace.”

“Non è vero, non t’importa un cazzo di noi. Sei sempre stato una piattola deforme e iniqua. Ti sei solo modellato per fingere di andare d’accordo. Ora mi dici come farà Marius e Peter senza la borsa di studio? Non c’è un cancro peggiore di un nemico mascherato da amico. Tu sei un tumore Durden, incurabile.”

“Forse ha ragione lui, George.”

“Cosa? Ti sei bevuto il cervello?”

“Credo che non ci sia molta offerta per noi là fuori. Quanti dottori a spasso o che lavorano nel McDonald’s ci sono?  Quanti ingeneri che riparano solo i guasti delle caldaie? Nessuno di noi, tranne Hoss e tu George, troverà una strada più brillante di questa verso il successo. Durden ha pensato bene. Ha investito, ha rischiato, ma sapeva che ce ne saremo accorti.

Il suo sbaglio è non aver condiviso, ma ditemi chi si sognerebbe a quest’età due milioni?”

“Blake sei dalla sua parte?”

“No, Monkey, sono dalla mia parte e scusatemi l’egoismo. Io non ho una villa in cui alloggiare terminato il liceo e nemmeno una carriera universitaria pagata da papà e mamma. Ce la metto tutta ma mi vedo già in un pub a servire birre a ubriaconi acidi e forzati alla sopravvivenza.”

George si gira verso Durden.

“Dove sono le altre armi?”

Durden sputa sangue.

“Non ci sono altre armi.”

“Cosa? Che cosa hai fatto con i nostri soldi?”

“Credo che mi ammazzeresti se te lo dicessi.”

Ride e sputa altro sangue.

“Guarda Blake, dice piagnucoloso, mi ha spaccato un dente.”

“Conosco tanti mostri che non vedono il bene se non nella propria sopravvivenza, ma tu appartieni al genere di quelli pensanti, quelli che hanno scelto il male per il bene non solo proprio.”

“Smettila Hoss. Non abbiamo bisogno di un sermone.”

“Fottiti Blake! Mark ha qualcos’altro sulla coscienza che a quanto pare non sono solo i soldi rubati ai suoi amici.”

“Spero che ti uccidano, Durden, spero che tu finisca in una fossa piena di vermi che iniziano a mangiarti mentre sei ancora vivo.”

“Io, volevo quei soldi. Lui mi aveva promesso.”

“Lui chi Durden?”

“Non posso dirtelo George. Non posso dirti nulla altrimenti sarete morti prima di capire quanto sia grave a cosa.”

“Io ho tutto il tempo del mondo.”

“Anch’io.” risponde Hoss.

“Io credo invece che dovremmo considerare più possibilità.”

“Smettila Blake! Tra poco ci ricercheranno tutti come terroristi o peggio come assassini.”

“Sai George, non tutti viviamo nella certezza che qualcosa di buono un giorno ci succederà. Io ho fatto una scelta cercando di migliorare. Ho fottuto i vostri soldi? No. Non credo. Li ho investiti. Un investimento che frutterà un bel gruzzoletto.”

“In che cazzo ti sei invischiato Durden?”

“Te lo ripeto. Se te lo dicessi mi uccideresti.”

“Sarà meglio che tu ce lo dica. Dobbiamo sapere in quale merda ci hai fatti affondare tutti. Droga? Bombe? Plutonio?”

“Ho comprato sedici bambini.”

“Cosa?”

Hoss si siede a terra sconvolto.

“Che dovresti farci? Pedofilia o cosa?”

George è l’unico a mantenere ancora il controllo mentre slega Durden dalla sedia.

“Traffico d’organi. Ma vi giuro io i ragazzini non li ho mai visti, ma il tizio con cui sono, siamo in affari è proprio lui “il Missionario”.

“Ti sei messo in affari col Missionario?! Oh Dio siamo morti.”

George sconvolto si mette le mani nei capelli. Henry è rimasto seduto sulla sedia e da mezz’ora fissa il pavimento tenendo in mano i suoi occhiali.

L’auto di Blake resta incastrata nel traffico. Continua a nevicare ma né lui né George hanno voglia di parlare.

“Cazzo!”

Sbuffa e sbatte entrambi le mani sul volante.

“Ti rendi conto, ha conosciuto un tizio in Facebook e gli ha consegnato i nostri soldi credendo fosse il Missionario.”

“Io credo sia proprio il Missionario. Durden non è stupido.”

“Ma noi sì.”

“Mark è sempre stato diverso da noi.”

“Che cosa intendi dire?”

“Che si è fregato di quello che pensavano gli altri e si è sempre fatto i fatti propri. Nessuno lo conosce a fondo. insomma da quanti anni siamo insieme? Da quanto nelle squadra e per non contare le bevute, le puttane e le vomitate? Con Mark invece non ho dei veri e propri ricordi, come se mi sfuggisse qualcosa.”

“E’ sempre stato più legato a Monkey ed è già tanto se pensi che ha un padre così violento da farlo piangere quando parlano al telefono. Non vorrei essere nei suoi panni.”

“Tuo padre …”

“Va tutto bene. Io e lui lasciamo dei lunghi discorsi senza mai mettere un punto … e adesso che è morto, non saprei come finirli. Mi sento come un assassino che sbaglia vittima.

 

Ricordi oscuri

“Io? Non ti voglio bene, ti odio abbastanza da restare con te per tutta la vita!” 

Ma lei non ha potuto dirglielo. Lui è scappato prima e vorrebbe perdonarlo. Lei vorrebbe che lui ritornasse ma sa che non lo farà, nessuno è mai tornato indietro per lei. Questo ricordo è peggiore del veleno nel suo cervello. Ricordare chi si è amato e che non ritornerà più. Tesla

Tutte le cose sembrano identiche al buio. Tesla si alza dalla poltrona per avvicinarsi alla finestra.  Ha dei piccoli giramenti di testa ma li controlla benissimo. Fuori non c’è nulla che possa attirare la sua attenzione e allora si gira e osserva la casa. Pensa a Sarah, così sola, così pallida e così strana negli ultimi periodi, ma chi non lo diventerebbe se forzato a finire i propri giorni sopra una sedia a rotelle e con un’anemia spaventosa in pieno progredire. Lei l’ha capito. Ha visto quelle trasfusioni, le medicine e quando Tes le sta vicino, percepisce il suo profumo acre, forte che non potrà mai nascondere nemmeno sotto i litri di quel profumo dozzinale che compera sempre al market. Non è pronta a perdere anche sua sorella. L’ultima volta che l’ha vista piangere erano insieme sull’ambulanza e tutti qui volti sopra i loro occhi che tentavano di animarle con parole di conforto e coraggio. Quella notte nonostante fossero sdraiate sopra le barelle e sotto shock, si tenevano la mano.

Sarah ha dovuto sempre farcela da sola, non ha mai avuto vicino a sua sorella e non ha mai chiesto aiuto. Ha saputo reggersi sulle proprie forze per accudire al temperamento volubile di una ragazzina cresciuta troppo in fretta e senza alcun consiglio.

Ogni tanto nella sua testa affiorano pochi ricordi o tanti insieme. In quel momento ricorda una strada rumorosa, dove abitava con qualcuno, sua madre? Non ricordava nemmeno questo. Spesso si mette a danzare e non smette nemmeno quando prende qualche spigolo. Danza con le caviglie doloranti fissando quelle forme nel buio che sembrano volerle dire qualcosa. Ma cosa? Certe voci nella sua testa la chiamano con un nome diverso. Ha sognato che beveva birra ma che non avrebbe avuto il permesso di farlo. Aveva sognato suo padre, non ricordava più suo padre, mentre riempiva di spuma boccali più grandi dei suoi stivali. Ogni tanto si piega per le fitte al petto. Sente dolori lancinanti e questo anche dopo aver ingurgitato due antidolorifici per volta. La fasciatura la fa sembrare un grottesco pupazzo di neve con le occhiaie.

Sente voci. Voci che dovrebbe riconoscere, voci di persone estranee che le parlano di posti dove dovrebbe aver vissuto lontano da Londra, lontano dall’Inghilterra e di terribili morti. Tesla non ricorda di aver mai viaggiato da piccola con i suoi genitori o con sua sorella. Tutte quelle cose che la chiamano, tutto quel pensare la debilitano. I fantasmi portano solo ricordi.

Ha acceso la televisione e ha lasciato che il programma su MTV sostituisse il suo cattivo umore. Nel frigorifero di quell’uomo nemmeno un succo d’arancia o una merendina, soltanto birre e tutte le marche. Si alza e va verso i fornelli decisa a prepararsi un tè.

La convivenza con un uomo completamente diverso e dalla vita sociale più incasinata della sua è più difficile di quanto se lo fosse immaginata. La vergogna è stata superata dal silenzio. Passano ore a fissare la televisione oppure i piatti dove pezzi di pizza fredda, restano a galleggiare finché O’Brian non decide di gettare piatti di carta e avanzi in un sacco nero che resta in cucina per abbastanza tempo o finché non diventa il giochino del randagio che lui non riesce a curare ma solo a nutrire.

Con la prima uscita gli ha comprato un collare con il campanellino e dei biscotti, ma quando si è accorta che lui in verità fosse una lei, allora al collare ha aggiunto una medaglietta con inciso un nome “Miracle”.

Tim ha passato ore a osservarla. Molte volte mangia con la mano destra ma il più delle volte è mancina. Ci sono momenti in cui parla in irlandese e lui non capisce una sola parola di quello che lei gli sta dicendo. Altre volte lo chiama George. A volte trova bicchieri pieni di birra ovunque persino sull’asse del water e quando domanda a Tesla perché ha riempito quei bicchieri, lei non sa cosa rispondere. Tim ha persino parlato con i dottori.

“Può essere normale che dopo un grande trauma, lei abbia la memoria sfasata e sia alla ricerca consapevole della propria identità. Probabilmente riuscirà a ritrovarsi come potrà restare così per sempre.”

“Ma è completamente sfasata, ricorda cose e gente di un altro paese, parla persino in un’altra lingua.”

“Come le ho detto, è possibile che il trauma abbia sensibilizzato certe zone del cervello e finché non ritroverà la propria memoria, la paziente vivrà in una specie di stato confusionale.”

L’ha osservata ancora più a lungo quando le ha mostrato la busta sopra cui c’era il suo nome: Tesla Mytie.

“Che c’è nella busta?”

“Guarda.” le ha risposto con un tono di voce passivo e indifferente.

Lei ha aperto la busta ed è rimasta muta con il pezzo di carta dinanzi agli occhi per quasi un’ora.

“Allora?”

“Sono venticinque mila sterline! Sono venticinque mila sterline? Sono venticinque mila sterlina … venticinque mila, già, venticinque.”

“Che hai intenzione di fare?”

“Di certo non sporgerò denuncia, in fondo dovrei essere io a pagare quel tizio.”

“E che pensi di fare?”

“Perché non dovrei accettare?”

“Non ti ho detto di non farlo …”

“Ma l’hai sottinteso.”

“No. Ti ho domandato solo cosa vorresti fare.”

“Pagare l’affitto e regalare a Sarah una sedia a rotelle motorizzata, un pianoforte più grande e perché no, mangiare pizza ogni sera, poi si avvicina a lui e lo fissa negli occhi, lo prende per il colletto della camicia che stira con le mani, e ti regalerei un farfallino, staresti bene con un farfallino, sei alto sei magro e potresti nel sogno di qualche ragazza essere il suo Doctor Who. Naturalmente per me, e fa una piroetta, conserverei l’originale.”

“Saresti gentile.”

“Già. Ti faccio una cattiva impressione? Intendo se volessi accettare, cosa che avrei fatto.”

“No. Mi fai tenerezza. Hai diritto a vivere la tua vita come meglio credi e se un incidente diventa anche fortunato perché no? Tu sei viva, lui è vivo e in più e ricco sfondato, direi che sei assolta.”

Lei gli salta al collo e lo abbraccia. La sua testa è ancora fasciata ma presto tornerà le toglieranno i punti. Lei ispira il suo profumo. Le piace. Sa di maschio. Tim fatica a capire cosa significhi quella cosa tra loro ma non ha intenzione di cacciarla via. La sua mente di scapolo non è più occupata a ricordare le poche cose belle capitate nella vita, ma a viverle. Quella ventata di aria fresca lo spinge a desiderare che lei si fermi, in fondo non sarebbe così difficile diventare il suo Doctor Who.

La neve ha bloccato il traffico. Tesla guarda dal finestrino del passeggero e osserva le persone che cercano un equilibrio sui marciapiedi. E’ silenziosa, ma nella sua testa ci sono tante voci che chiamano una certa Cat. Parlano tutte insieme e c’è un uomo, un ragazzo che la fissa muto, anemico, con degli occhi inespressivi e privi di vita. Scoppia a piangere. Sommessamente.

E’ una cosa incontrollabile. Si pulisce con i palmi e sospira. Vorrebbe che qualcuno le mettesse una mano dentro la testa e le estirpasse tutte quelle scene odiose.

Guarda nuovamente fuori. I suoi occhi si fissano su una persona di cui vede solo i polpacci e le scarpe nere. E’ un ragazzo, sporco di fango. E’ fermo proprio davanti a lei. Tim ha appena rallentato per il traffico e Tesla ha tutto il tempo di fissare quelle scarpe logore e molto sporche. Il ragazzo fa un gesto che atterrisce Tesla. Con la punta della scarpa scava un buco e continua a farlo finché non si allarga. Finito di scavare, un osso finisce dentro e con l’altra scarpa richiude il buco con una piccola onda di neve. Tesla sente i brividi correre in ogni parte del corpo. Tim accelera.

“Fermati!!!”

L’auto prosegue fino al semaforo che fa scattare il verde.

“Fermati ti ho detto!” grida isterica.

Tim si avvicina ai marciapiedi ma pur rallentando non ferma del tutto l’auto.

“Non posso fermarmi qui.”

La guarda preoccupato dallo specchietto retrovisore.

Tesla abbassa il finestrino e guarda fuori. Il ragazzo è sparito, ma si vede ancora la piccola montagnetta di neve, dove riposa l’osso umano.

Nel piccolo appartamento di Rainbow Street 1273 quella notte Tim è rimasto sveglio. Fuori il gelo ha smorzato la caduta dei fiocchi di neve. Ogni cosa riposa in attesa di un caldo che arriverà solo tra non meno di quattro mesi e sotto le coperte nessuno vuole scoprire quale bella tonalità di blu cristallo abbia preso sotto la luce fredda della luna, la natura. Timothy O’Brian è bloccato su un canale di televendite. La donna che strilla facendo continui sorrisi in telecamera non lo diverte, non comprerebbe nemmeno un cacciavite da lei anche se mostra quanto sdi siano i suoi glutei grazie ala panca professionale Gymna. Resta a fissare lo schermo col telecomando in mano. E’ ipnotizzato da idee assurde e lontane. Non riesce a dormire. I cambiamenti d’umore di Tesla non spariscono e non può obbligarla a fare gli esami del sangue. E se Guilgam l’avesse drogata, lui riconoscerebbe in lei i sintomi? E’ già difficile vederla combattere con le allucinazioni, le amnesie e tutto il resto. A volte ha l’impressione di trattare con due persone diverse. La sorella l’ha avvertito, Tesla ha un carattere difficile.  Tiene in mano decine di fogli scarabocchiati. Sono disegni elementari con parecchi contorni e sottolineature che dicono nulla o molto, dipende da cosa uno ci vede. Il suo tè non è più caldo ma la sua testa è bollente. C’è un foglio in particolare, anzi, è l’angolo di una pagina bianca strappata da un libro che ritrae la prospettiva di un posto particolare, tanto da fargli venire in mente un luogo dov’era già stato in passato. Conosceva quelle rovine solo che non ricordavano dove potessero trovarsi. Tesla non gli racconta molto delle sue giornate. Lui sa che vaga per le strade alla ricerca di un dettaglio, di una scintilla che le risvegli la memoria, ma quando lui le fa delle domande, lei rabbiosa gli chiede di farsi gli affari propri per poi tornare carina pochi attimi dopo. C’è un altro pacchetto di fogli sul comodino del letto e lui entra nella stanza per prenderli. Appena imbocca le coperte a Tesla si accorge che sulle mani non si è tolta il fango, quand’è uscita e dove ha trovato quel fango? Lascia stare i fogli e porta dal bagno un asciugamano bagnato con cui le toglie la terra dalle mani. Lei continua a dormire ignara. Lui riprende i fogli e torna a leggerli dopo aver tentato di bere dal tè freddo. Dopo la smorfia di disgusto, si pulisce la bocca con il dorso della mano e consulta i disegni rimasti. Resta impressionato davanti a uno. Un grande prato pieno di scheletri che emergono davanti a un vecchio fabbricato, dei bulbi oculari penzolanti come oggetti d’arredamento gli schiariscono le idee. Quel quadro l’aveva visto in una trasmissione, sì, una trasmissione televisiva americana sui criminali più feroci, ancora in vita. Afferra il vecchio Tablet e scrive il nome dell’omicidio con scheletri in una buca e occhi appesi al soffitto … Ecco! L’omicidio di Hollyhill, il serial killer è alto meno di un metro, legge O’Brian nell’articolo che scorre sullo schermo, il bambino sembra avere un forte ritardo e sebbene si dubiti della sua colpevolezza, gli indizi, le impronte e persino le macchinazioni conducono a lui, l’agente John Vayden non è sicuro che non possano esserci altre vittime e o complici. Il ragazzino è in stato di shock e sembra impossibile per il momento avere qualche risposta. Poi le sue dita fanno scorrere un paio di pagine finché non trova il pezzo che gli interessa: gli scheletri già perfettamente ripuliti e in ottima conservazione, sono stati sistemati all’interno di una stanza dove sono stati rivenuti anche capi di vestiario perfettamente piegati e messi in pile ordinate per colore. Nel suo caveau il killer sopranominato “Bloody” per la crudeltà rinvenuta sulla scena del delitto e la profusione di sangue e fango ritrovato in ogni cosa e per un’area molto vasta, ha mostrato una naturale esigenza per l’ordine. Il medico legale non riesce a datare la morte dei membri della famiglia Murray… Del fango è stato trovato all’interno delle cavità degli scheletri che si pensa siano stati spostati. Naturalmente si cerca un assassino adulto e complice che abbia portato a compimento questo massacro.

Fango, pensa Tim, e riprende i fogli che mostra pezzi di ossa e scheletri che escono da qualcosa che somiglia ai fili d’erba. Un piccolo scarabocchio mostra un verme con denti da vampiro e la parola “odio” sopra. Poi fissa gli scarabocchi più piccoli che lui prima pensava fossero degli yoyo, invece sono occhi sospesi a un soffitto di brutte nuvole. Torna al Tablet e digita velocemente John Vayden. Mentre legge sullo stato di servizio del suo collega, il suo sguardo si fa cupo. 

Più di una decina di unità con le luci lampeggianti e una decina di ambulanze provenienti da tutti gli ospedali dotati di pronto soccorso chirurgico, sono sistemate davanti al campo dei Old London Storage, depositi abbandonati e in rovina circondati da sette ettari di terreno che ha fruttato alla squadra anticrimine un bel numero di cadaveri. In verità la telefonata anonima parlava di scheletri. Tim O’Brady si è presentato ma non essendo parte della squadra investigativa, gli è stato proibito l’accesso. Ha filmato tutto col cellulare. Otto teschi, e pezzi di ossa sparse in una cavità rettangolare franata sui corpi ma che avrebbe dovuto assumere le sembianze di una stanza. Dalla cavità sono emersi dei vestiti e una sedia. Interrogato il disegno piegato nella tasca, vede che le struttura disegnata da Tesla è identica al Vecchio Deposito diventato negli ultimi tempi un’acciaieria finché un carrello penzolante rotto non aveva affumicato degli operai. Quel posto avrebbe dato i brividi a chiunque. Man a mano che le ambulanze partivano e il coroner insacchettava i resti umani, Timothy si domandava che razza di killer stava girando per Londra.

 

Hollyhill - “Bloody”

C’è un via vai continuo nel piccolo dipartimento di polizia alla periferia di Washington D. C.

L’incendio alla scuola elementare e l’allerta all’uomo armato che potrebbe fare una strage, hanno messo in subbuglio tutti gli agenti. Si sentono passi che corrono ovunque e voci che gridano per organizzare una retata. Contro le finestre si sta abbattendo il temporale del secolo e come se non bastasse, il vento soffia oltre la soglia del pericolo.

In fondo al corridoio del primo piano e in pieno cuore dell’unità investigava del municipio di Hollyhill, in mezzo a loculi abbandonati e sedie consumate, si vede un monte di carte che sommergono una scrivania dall’aspetto antico e probabilmente mai riuscita a liberarsi da decenni di polvere.

L’uomo dietro la scrivania è sommerso da altri giornali che di certo non hanno quello che lui cerca. Tutto il resto della sua giornata giace nel cesto dell’immondizia che esausto di bicchieri vuoti di caffè e cicche consumate a metà, sembra un oracolo i cui auspici potrebbero salvare la vita dell’agente.

L’uomo si fida ciecamente di soli due esseri, sua madre superstite a un marito violento, a un figlio ammazzato da uno spacciatore e il suo cane Ciob, un vecchio pastore tedesco scappato dal canile municipale e cui ha salvato involontariamente la vita. E’ il primo a entrare in ufficio e l’ultimo uscire John Vayden. Ha smesso di avere una causa, una missione ma nonostante questo è legato a quel porto di giustizia come un cane al suo collare.  Non c’è nulla di tenero tra lui e il lavoro solo una dipendenza cronica che lo tiene ancorato alla vita. Quando ha preso l’uniforme, si è promesso di non farla mai passare liscia ai maledetti che preferivano usare la pistola o i pugni per convincere qualcuno delle proprie posizioni. Non sono stati periodi facili, la sua esperienza è di due pallottole nella spalla e sei tagli ovunque sul corpo. Ogni volta che guarda un bambino, vede lui o i figli dei Murray, tutti loro, vittime di una violenza inimmaginabile. Il ricordo è così nitido da dargli i brividi. Lui ha avuto forza di volontà, è un dannato sopravvissuto che prima di guardare il filo di luce, pensa bene a ispezionare il buio che ha intorno.

E’ così sommerso nei suoi pensieri che non vede la stazza di Bo Stanley passargli accanto. Bo è uno dei migliori colleghi di lavoro che uno potrebbe trovarsi, anzi è “il collega” per antonomasia. Bo ti sostituisce col capo, quando il tuo rapporto non è finito, con Bo passi le sbronze migliori e le bevute sono dei veri record ma Bo sa esserti amico tanto che la sua spalla si allarga per sopportare tutte le stronzate che ti pressano la mente. Bo guarda il mucchio di giornali e dondola la testa “ancora con sta storia”, sussurra senza fermarsi a dire che non si possono disseppellire i morti e nemmeno fare ravvedere i loro assassini. La vita non ha larghi punti di vista quando si tratta di omicidi e soprattutto di quello dei bambini. Bo finge di non vedere il tic nervoso e masochista di John che si massacra il pollice della mano destra, cercando di convertire a un ordine innaturale le sue pellicine sanguinanti.

Dall’ufficio, ridipinto di arancione probabilmente da un pazzo esaurito dopo una seduta zen, escono due reclute che superano con sincero ossequio la scrivania di un vero dinosauro del dipartimento, no che Vayden abbia una buona fama ma ha fatto leggenda catturando “Bloody” per due volte.

Bo si ferma sul pianerottolo tra il secondo e il primo piano, sembra che abbia cambiato idea e spinge la sua stazza di un metro e novanta per centoventi chili sui gradini per ritornare dal “pazzo di sopra”.

Arriva che fatica a respirare.

“Senti imbecille, ho penato quando ti sei quasi fatto ammazzare neanche fossimo due fidanzate che si confidano i propri segreti, ma ho due fratelli e so di che parlo, io vedo una luce nei tuoi occhi, la stessa che ti era rimasta impressa quando ti chiamarono per dirti che era fuggito. Non è una luce buona. Non è una luce sana. Non rientrare nel tunnel John, potresti trovare quello che cerchi e non è detto che tu possa uscirne fuori intatto e togliti sti dannati vestiti scuri, ti fanno sembrare una checca del FBI.”

“Io non lo cerco. Lui mi aspetta. Non posso lasciare che uccida perché adesso, mentre stiamo parlando sta uccidendo qualcuno. Quell’essere è diverso da tutti noi. E cos’hai contro il mio cravattino?”

“E’ un uomo. Gli uomini anche quelli che uccidono, moriranno e spero per lui che muoia in un banalissimo incidente, per cancro o morso da una banalissima vespa. Quella cravatta ti sta castrando.”

“Bo?!”

“Sì?”

“Vattene.”

“Sei in ferie. Vai fuori e fatti una vita. Ubriacati. Vai a pesca ma smettila di legarti a quel maledettissimo pazzo. Era solo un bambino dannatamente ritardato che probabilmente s’è levato i genitori dai coglioni. Sai quanto possono essere esigenti dei genitori di quel ceto sociale?”

“Ahaa.”

“Cazzo, mi prendi in giro. Io me ne vado ma Domenica vieni da me. Partita, birre e botte con i miei tre pazzi marmocchi.”

“Vedremo.”

“Tu vieni altrimenti mando Virginia a prenderti.”

“Alla fine non ti ha mollato?”

“Dove lo trova uno stallone più bello e più maschio di me?”

Bo va via e John gli risponde anche se in ritardo.

Dieci minuti più tardi e davanti al nuovo Capitano, Bo chiede che al suo amico e collega John Blanstein Vayden venga imposta una seduta e forse più di una con la psicologa del distretto. Il Capo ha solo una risposta che è una smorfia catalogata come “smorfia del bullo” cioè chi se ne frega. Bo esce colpendo la porta e finisce in una parata di colleghi per discutere della salute del suo amico.

“Sa il fatto suo.” dice uno che ha la metà degli anni del suo collega.

“Sì, io non interferirei con le sue decisioni se ha deciso di essere così è per soffrire meno e tu vorresti darlo in pasto alla disciplinare, meglio chiamare gli accalappia cani e metterlo a guinzaglio. E’ un puro sangue non merita che i suoi colleghi tramino dietro.”

Bo capisce che troppo affetto per quel collega fuori dai confini del regolamento, potrebbe rovinarlo e raggiunge la propria scrivania schivando le pacche sulla spalla dei colleghi. Gli ha sempre dato piacere fare parte di una squadra affiatata e quel dipartimento glielo dimostrava, e dopo aver aperto un file con i casi di omicidio degli ultimi dieci anni, finisce col rileggere la storia di Bloody, a quel punto tutti i brividi e le ombre più nere lo catturano negli spazi più bui della mente. Se fosse mai esistito il terrore, Bo si convince che abbia avuto il suo migliore discepolo in un fantasma sanguinario. Le poche certezze della sua vita iniziano a vacillare e nel momento in cui arriva a studiare ogni dettagli degli omicidi, comincia sinceramente a temere per la sua vita e per quella della sua famiglia. Per la prima volta da allora, si rende conto che la pazzia di John è solo una forma di difesa contro un male assoluto e se quel male fosse ancora libero? Una sciabolata di terrore gli perfora lo stomaco. Prima di cliccare sulla sesta immagine, la sua faccia è completamente immersa nel cesto dell’immondizia per vomitare.

Altri piccoli ritagli di giornale, altri fascicoli con gli interrogatori, altre fotografie, cadono dalla sua scrivania incasinata al punto da offrire poco spazio ai piedi intrecciati dell’uomo che finge di dormire sotto il suo preferito berretto da baseball tirato sugli occhi. Non ha mai smesso di pensare, di scervellarsi di arrovellarsi dietro un incubo che nemmeno a lui sembra reale. La sua vita vegeta intorno a quell’assurda idea. Non può condividere con nessuno le sue supposizioni e non può nemmeno presupporre che quello che pensa possa nuovamente accadere. Il cellulare vibra nella tasca dei pantaloni “Jessica”.

“Non ho tempo.” bisbiglia seccato, ma prende lo stesso la comunicazione.

La voce della donna al telefono lo fa adirare al punto da iniziare a gridare in mezzo ai suoi colleghi.

“Fatti dare i soldi da quelli che ti scopi e cancella il mio numero!”

Martin, il suo collega destinato agli affari interni perché in sovrappeso gli passa accanto e si ferma con la mano sulla spalla di John.

“Bevici su! Non serve a nulla nemmeno se le ammazzassimo. Lo stomaco resta rovinato e i ricordi diventano una merda.”

Il cellulare finisce nella spazzatura.

“Grazie Martin. Adesso so che dalla merda, in pratica non se ne esce mai.”

Martin è uscito e non sente le sue parole e nemmeno lo vede mentre riprende il telefonino usando un paio di forbici. In meno di un attimo riprende il filo dei pensieri e torna a osservare tutte le fotografie e i rapporti su Bloody. La vera tragedia di quegli omicidi era il non aver sparato al cuore a quel maledetto bastardo. In quei ricordi e dopo tanto tempo, sentiva che c’era qualcosa in più che gli sfuggiva da anni.  Questa volta e più di prima si sente in trappola. 

Ha i calzini scuri corti e le scarpe nere così lucide da fare sembrare la sua scrivania, una turca per ubriaconi. Strana combinazione, ufficio di poliziotti casual e scrivania devastata dai faldoni di documenti, per uno che non toglierebbe il suo abito scuro di buona sartoria, nemmeno a un barbecue tra vicini. Anche se detesta i Men in Black si sente un po’ parte di quella forza oscura che mette ordine al disordine del mondo. Non deve piacere a nessuno, nemmeno a stesso e questo l’ha capito ogni tre giorni che si trova davanti allo specchio e alla lametta per radersi. Ha provato anche a tenere la barba lunga ma spesso le briciole di pane e hamburger finivano in mezzo al groviglio di peli e nonostante fosse uno cui la vita doveva scorrere in santa pace, l’igiene doveva fare parte assolutamente di quella pace.

E’ un poliziotto dandy un po’ fuori posto in quel dipartimento assuefatto da casi di innocenti prostitute e vili spacciatori. La sua esistenza non ha mai smesso di essere contraddittoria.

Le sue certezze non hanno mai superato i dubbi e le risposte non arrivano a soddisfare la valanga di domande dietro di cui deve scervellarsi. La vita dei poliziotti non è mai fatta dai casi ma dal caso, quell’unico fottuto caso che non riesci a risolvere. Quella trappola uscita dal vaso di Pandora che t’infligge le pene dell’inferno, quando ti ridomandi perché.

I giornali sono più di un centinaio e accatastati ovunque ma con un sistema ben studiato.

Tutti i ritagli mostrano titoli sconvolgenti di omicidi verificati negli ultimi dieci anni e commessi da bambini o giovani adolescenti. Vayden ignora il caos dell’ufficio e la gente che lo chiama ma che lui ignora. Deve pensare e non vuole prendersi dei giorni di vacanza per farlo. Il cellulare ha ripreso a vibrare sopra alcune cartelle che dovrebbe aver già consegnato al capitano ma Vayden non lo vuole sentire.

Ha smesso di avere una vita privata da quando la sua nuova ex ha ammesso di averlo tradito con molti dei loro vicini di casa. Ha venduto la casa. Ha venduto tutto tranne auto, vinili, stereo e piano e si è trasferito in un garage che momentaneamente gli offre tutta la comodità di cui ha bisogno. Ha smesso anche di credere che il cielo possa mai essere stato rosa, in fondo l’amore è pragmatico, cammina per strada con i tacchi alti, in testa un preservativo e una collana di perle al collo. La sua alfa rossa ha l’età di Louise ed è dopo sua madre e il ricordo della defunta prima moglie, la cosa più bella della sua vita. Non ha bisogno di sicurezza, non ha necessità nemmeno di sognare, ha smesso di essere ragionevole con il destino, accetta oramai tutto da quella farsa e senza smancerie. Il cellulare squilla. Un numero nuovo.

“Sì?”

“Tim O’Brian. Non mi conosce ma sono un poliziotto.”

“Come …”

“Ho avuto il suo numero, in centrale.”

Il disappunto di John è evidente e sospira cercando di ascoltare quell’estraneo.

“Credo che ci sia un Bloody qui.”

Il silenzio di John dura più di quanto Tim si fosse aspettato.

“Se la disturbo, richiamerò.”

“Aspetti! La voce di Vayden diventa debole, Bloody? Sono passati dieci anni ...”

“Ho scoperto una cosa terribile e in un modo totalmente accidentale. Abbiamo una fossa comune con soli scheletri e molto fango. Tutti hanno il collo rotto, un foro di proiettile dietro la nuca e incisioni sul torace.”

“O’Brian ha detto? Credo che il suo killer non possa essere quello che abbiamo arrestato a Hollyhill. Potrebbe essere un emulatore. Insomma sono passati dieci anni.”

“C’è di più i ragazzi non sono delle nostre parti sono stati portati qui. Ho ritrovato un pezzo di documento … ma se la disturbo, potrei sbagliarmi.”

“Ok. Sì potrei dare un’occhiata al rapporto ma nulla di più. Mi dia l’indirizzo e vedremo.”

“E’ disposto a venire qua anche subito?”

“Che ci vuole?”

“Direi un aereo. Le salme sono a Londra. Io la chiamo da Londra. Le vittime ecco … Non le abbiamo ancora identificate.”

“Quanti sono?”

“Otto.”

E’ fermo sul ciglio della strada da più di due ore. La tolleranza del suo stomaco al nervoso è minima. Il bruciore è iniziato prima della fine della telefonata. Infila la mano nei pantaloni e cerca le ultime reliquie della sua merenda, la mano fuoriesce con una decina di briciole dolci e pezzetti di glassa che butta in bocca, momento in cui il palato comunica al cervello la presenza di glucosio e questo ricevuto il messaggio dà il commando ai tessuti dei muscoli di rilassarsi. La sua fibrillazione è stata spazzata da un momento di paradiso in terra. Con le mani cerca altre briciole ma nulla, allora si guarda in giro, ma ovunque trova cartoni vuoti di Lou il pasticciere e cartine dei vari cioccolatini spazzati via dal suo ego zuccherino.

L’interno dell’auto gli comunica un vuoto terribile e una nostalgia di qualcosa che ha perduto per sempre la sua fiducia negli altri. Sul sedile del passeggero c’è una borsa da viaggio, molto femminile appartenuta a Madeline, un biglietto d’aereo e il suo passaporto.

Ha paura di andare avanti e scoprire di aver avuto ragione. Certe volte il male dovrebbe trovare una cura, un ostacolo, uno stop ma il male che insegue è più cattivo che qualunque arma sia stata concepita per i diavoli travestiti da esseri umani. Aspetta e pondera bene ogni parola dell’uomo all’apparecchio che rispolverava una situazione già vissuta. I suoi occhi ricadono sulla cartelletta che tiene sulle gambe.

Allontana leggermente il sedile e appoggia la cartelletta al volante. La apre. A caratteri grossi rossi e disordinati appare il titolo sopra il primo foglio che mostra la fotografia di un agente, John Vayden Junior e sopra “Rapporto sull’assassinio della famiglia Murray.” e fotocopie di un fascicolo mai chiuso “Bloody”. Ci sono alcuni reperti mancanti, quasi tutte fotografie dell’indiziato, ma sono rimasti i macabri ritratti delle vittime o meglio delle loro carni staccate dagli scheletri. Piccole cose sanguinolente sono state immortalate e gocciolanti sui fili delle tende, peccato che non erano fili ma intestini di bambini tirati fino alle riloghe e legati con piccoli fiocchi da una mano meticolosa e ferma. Il fiocco è tipico dei bambini di cinque anni che imparano come legarsi le scarpe. L’interno della bella casa arredata con gusto dalla dottoressa Martha Murray che prediligeva il bianco e non solo sulle pareti, ma dei mobili e degli accessori, comprimeva l’odore pestilenziale di un piccolo inferno, dove i primi agenti arrivati, avrebbero vomitato involontariamente e persino sulle proprie scarpe fino alle lacrime. Vayden ricorda di aver inghiottito il proprio rigurgito con la saliva mentre era colpito sulla guancia da un dentino caduto dal pezzo di carne incollato al soffitto. Non avrebbe più dormito in pace da allora.

Il mostro era stato portato alla Centrale a dispetto degli ordini del prossimo arrivo dei federali che sicuramente avrebbero preso in consegna l’enfant prodige, annullando tutti gli sforzi della polizia di arrivare a delle risposte. Il mormorio nei corridoi era sempre il medesimo “impossibile sia stato lui” e ancora “non ha la forza fisica per trasportare dei corpi” e molto altro … Con un caso chiuso e prove consegnate alla concorrenza non ci sarebbe più stata alcuna verità, solo un insabbiamento fino a prove più certe, portate via con l’assassino. Il mostro aveva una maschera innocente, indossava pantaloncini corti di un colore indefinibile perché zuppi di sangue raggrumato, una maglietta con un drago al centro e un casco di football ha l’altezza media di un bambino, capelli lunghi sulle spalle, corporatura esile e occhi freddi. Gli occhi sono quelli che ti colpiscono appena t’afferrano. Sono un arpione gelido, di un azzurro cristallino e alieno. Non parla. I suoi gesti sono lenti, innocenti. Nasconde bene la violenza.

A un certo punto il bambino aveva mosso la testa lentamente come un alieno o meglio un velociraptor prima dell’attacco. La sua dimestichezza con quegli adulti che lo pressavano era impressionante. Teneva ogni cosa sotto controllo senza crollare nel pianto abituale dei piccoli. Lui non stava interpretando un ruolo, lui era il personaggio, il contorsionista o meglio l’acrobata che aveva avuto il coraggio di fare il suo triplo salto mortale nel vuoto. Era così piccolo che sopra quella grande sedia sembrava un terribile scherzo contro la morale umana. Avevano dovuto lasciargli le mani legate e per un genitore come tanti presenti, vederlo torturato, diventava uno strazio. L’intero il dipartimento spettatore dietro lo specchio era ammutolito. Il piccolo Murray cercò di stendere i piedi. Era il primo movimento dopo ore. Silenzio. Il piccolo fece la cosa più ovvia in quella situazione, scaricare l’intestino e nel nulla si era liberato il rumore di una puzzetta. Tutti i presenti dietro il vetro, scoppiarono a ridere tutti, tranne Vayden. Il fragore delle risate echeggiava per le stanze vuote della stazione di polizia e si sarebbero protese se non fosse per il bambino oltre la vetrata che con il capo chino e la voce glaciale aveva iniziato a elencare dapprima lentamente poi sempre più velocemente, tutti i nomi e cognomi e nomignoli dei presenti. Un silenzio agghiacciante aveva fermato il respiro di tutti loro. La voce del ragazzino arrivava dagli amplificatori posti in alto e molti dei loro occhi si alzarono per fissare il nulla in quella scatola che distribuiva l’orrore ai troppi sicuri di sé. 

“John Vayden, Damien Vayden, Bo Francis Finley, Greg Freeman, Sarah Stacey, Lorrain Huster, Matt Darren, Charlie Fischer, Craig Stevens, Cole Theodore Pantone, James Franco Pantone, Virginia Stiller, Chester Buick, Jordan Mae, Luke Poslskie, Natra Irsvi Hastmat, Delia Gavrel, Maria Donato Stue e la sua conta sarebbe continuata per una decina minuti con gli ultimi sei che erano gli inservienti.” ha una voce metallica come quella di un robot.

“Ma è il mio nome!!!” aveva urlato spaventato un poliziotto. Una delle segretarie era diventata pallida per poi cadere come un sacco vuoto a terra. Una delle poliziotte aveva già impugnato la pistola e si guardava intorno quasi fosse certa che sarebbe arrivata il complice del piccolo mostro. Nessuno però arrivava né in loro soccorso né in soccorso all’alieno parlante. La sua voce rullava una fila di nomi e cognomi di persone, di figli e di nipoti e altri cari di questa gente.

“E’ anche il mio, come Diavolo fa a sapere tutti i nostri nomi? Che cos’è quel mostro? Mio Dio sa dei miei figli?? Come fa a … a … saperlo? Jeremy è solo un neonato? Chi ha gli ha dato i nomi dei nostri figli e dei nipoti?” Si guardavano sospetti gli uni contro gli altri. Una massa di poliziotti resa inerte da una sottile voce di bambino che continuava il suo macabro gioco dei nomi.

E quando pensarono che avesse finito, alcuni iniziarono a uscire e a piazzarsi dietro la porta della Stanza Interrogatori 1, per entrare con o senza il permesso del FBI, e lo avrebbero fatto se non fossero stati fermati.

“Fermi! Sta continuando! Siamo certi che non succerà nulla se lo fermassimo?”

Vayden mette la mano sulla spalla di un collega.

“Dovrebbe aver piazzato una bomba nucleare per ucciderci tutti non pensi?”

“Allora dimmi tu John perché sta facendo  questo? Mio figlio ha solo sei anni, dici che sarà al sicuro da lui?”

“Nessuno è al sicuro in questo paese e tu lo sai meglio di me. Lui ha semplicemente un dono che usa per fermare la sua paura e iniettarla nei nostri capi.”

“Tu non hai nessuno. Perché dovresti avere paura?”

“Già … ma ho un cane a cui tengo molto …” il muso incazzato del collega fa allontanare Vayden.

Il ragazzino sempre a capo chino e sempre lentamente stava elencando altri nomi, senza fare pause, senza sbagliare, ma attento, meticoloso, freddo continuava quell’abominevole lista di nomi che cominciò a fare tremare i sessanta poliziotti presenti tra la stanza d’ascolto e il corridoio di dodici metri.

“Ma è il nome dei miei figli!”

“Il nome di mia moglie, è malata di cancro perché la sta nominando?”

“Che Diavolo succede qui? Chi è questo mostro?”

“Balle, non esistono mostri, stava rispondendo uno che si era fermato ma appena sentito il nome dei suoi genitori si mette le mani tra i capelli disperato, cazzo, questo sa i nomi dei nostri parenti.”

Sguardi di terrore. Gli occhi di tutta quella gente s’interrogavano terrorizzati mentre il bambino articolava tutti quei nomi che gli uscivano dalla bocca come se sentenziassero dei colpevoli.

“Come cazzo fa a conoscerci!??”

Un altro poliziotto si pianta davanti al Capitano e lo interroga.

“Capo?? Che cosa vuole dire???”

Una donna era scivolata lungo il muro per piangere.

“Basta! Basta!! Siete poliziotti, niente isterismi!

Vayden fissava dal vetro ogni minimo spasmo della piccola mano e contava ogni respiro, ma c’era dell’altro, la sudorazione non aveva cambiato lo stato di nuova paralisi in cui era caduto. Non parlava più. La mano sinistra del ragazzino aveva iniziato una serie di movimenti lenti e ben definiti. Lui seguiva una specie di linea a occhi chiusi e poi altri movimenti con entrambe le mani come una sorta di dolce danza che gli dava soddisfazione. Sembrava scrivesse qualcosa e mentre lo faceva Vayden, si domandava perché nell’elenco dei nomi ci aveva messo anche suo fratello Damien morto da un pezzo.

John aveva pensato di fare qualcosa per limitare l’ira dei suoi colleghi. L’idea di Vayden non era cattiva. Aveva spinto Bo a mandare il Capo a parlare con la stampa che si era affollata all’ingresso del dipartimento e gli altri poliziotti a uscire perché stava arrivando l’arroganza del FBI. Vayden aveva calcolato tutto, parlare col bambino, impossibile, ma alcune gocce del suo sudore finirono dal mento sopra il piano del tavolo che non era di legno per fortuna ma di quel compensato lucido e vetrificato, materiale che avrebbe conservato per qualche secondo la sua prova. Vayden cercò nella giacca scura il suo cellulare. Lo strinse e con la mano cominciò a grattare lo schermo. La sottile pellicola quasi invisibile si attaccò alle sue dita. Senza indugiare si diresse di corsa verso la porta mentre uno dei primi agenti in arrivo lo vede e gli aveva ordinato di non entrare, ma Vayden finse di non sentire. Aveva un’idea che lui era certo, avrebbe funzionato.

Gli agenti urlarono di fermarsi e si fiondarono nella stanza bloccando l’agente ancora sulla porta.

“Lei non può stare qui!”

“Signori, voi non potete stare qui. Io non posso parlare al testimone. Non è Langley è il Dipartimento di Hollyhill e voi non comandate che sulle prove. Per i reclami dovrete rivolgervi al capo e indica Bo.”

“Vedremo Vayden, risponde il loro capo. Credo che per oggi tu abbia fatto abbastanza.”

Gli uomini prelevarono il bambino che non alzò mai la testa dal basso finché non aveva incrociato in corridoio Vayden e lì i suoi occhi s’illuminarono in modo irreale. “Ciob.” disse e questo gli era bastato per stupire Vayden che per la prima volta lo prese sul serio. Il ragazzino fece ancora due movimenti in aria come per lanciare qualcosa, sorrise a John e fu trascinato via senza guardare più nessuno. Intorno a lui uno strano odore dolciastro di cui si accorsero anche i federali ma senza dare alla cosa, troppo peso.  Vayden approfittò a entrare nella stanza degli interrogatori per schiacciare con un pezzo di pellicola trasparente nel punto in cui le gocce di sudore erano ancora intatte.

Bo lo raggiunse e vide la stanza vuota mentre Vayden usciva dopo aver già piegato e messo in tasca le sue prove. Era prima di uscire dalla stanza che era riuscito a sentire ancora quell’odore nauseante di zucchero bruciato.

Ancora luce ma è tramonto. I passi risuonano per la fretta e si fermano appena dietro la schiena di un uomo di bassa statura che salta come arso appena, sente una voce conosciuta.

“Come butta Jordy?”

La voce di Vayden è appena un sussurro. Il piccoletto trasale e porta subito la mano dietro la schiena per afferrare la pistola ma trova il braccio di Vayden che lo ferma. Ha una statura bassa ma è smilzo e molto agile. Ha uno sguardo vivace quanto basta a un pusher per essere credibile davanti ai clienti e ai fornitori. Sembra rozzo dall’abbigliamento ma le sue mani sono curate in modo perfetto e sono pulite perfino sotto le unghie. Nella tasca della giacca di jeans ha una crema che usa spesso sebbene di nascosto e il Rolex che vuole fare sembrare una patacca mostrandolo sotto la maglietta macchiata di birra e avanzi di pranzo, è un numero limitato cui nessuno baderà se non per deriderlo. Jordy non è interessato al proprio futuro ma al proprio presente e per farlo è amico di tutti.

“Cazzo fratello, te la passi proprio male. Non ho teste da mozzare oggi, hai qualche dado per me? Questo puzzo mondo mi sbatte troppo pesto e oggi filo anche peggio del solito.”

“In verità sono io ad avere bisogno.”

“Puzza puttana, cazzo vacca, che cosa?! Bisogno? Naa, non se ne parla chiodo, oggi meglio che schivo i parenti buoni. ”

“Smettila di parlare come un pisciasotto di ragazzino. Un prestito. Mi servono dei soldi e subito!”

Jordy trascina John per la spalla e nell’angolo più buio della strada. Teme di essere visti.

“Chiedi al tuo informatore dei soldi? Non li do nemmeno a quelli che spacciano per me. Mi prendi per la gola amico, non ho un centesimo e sono giorni che fumo solo quello che riesco a rubare nei bar. I tempi sono duri e bla bla bla bla. Che vuoi che ti dica? Piscio marcio ovunque.”

“Dai Jordy mi conosci, sai che non lo farei ma ho una cosa in ballo?”

“Donne? Se è per una donna non ti darò mai nulla, quelle serpi prima ti spogliano poi ti espugnano e gettano la tua mente nell’immondizia. Piscio marcio e senza resa.” Jordy sputa. Tiene sempre la mano vicino all’impugnatura della pistola.

“E’ una cosa seria. Ti ricordo le cose che ho fatto per te.”

“Non posso Capo. Sono al corto. Gli affari sono fermi e i clienti abituali hanno stretto la cintura. Dicono che la roba sulla sessantesima sia migliore e loro corrono come cani in calore a provare la prima merdina da quattro soldi.”

“Non ho tempo Jordy.”

La voce di Vayden e la sua pistola diventano più convincenti.

“Rubare al tuo informatore non è legale!!! Non hai un collega, un fratello, una madre? Cazzo fratello rifatti il giro, trovati una gang migliore. Guardami! Sono al verde. Mi hanno tirato un pacco e adesso sono meno di un pidocchio che cerca un cane da cui nutrirsi. Fammi vento e trova un bozzo con veri quattrini.”

Vayden lo spinge con forza contro il muro e lo fissa negli occhi mentre la canna della sua pistola è appoggiata alle labbra del pusher. Jordy comincia ad avere le idee confuse.

“Non posso fare sapere a nessuno quello che sto facendo. Ti sembro uno che non paga i propri debiti?”

La stretta contro il muro è difficoltosa per Jordy che fatica a respirare con il peso del corpo di quel gigante che lo supera di un palmo. Vayden lo stringe con una mano mentre con l’altra si pulisce la giacca dell’abito dalla polvere del muro contro cui continua a sbattere il corpo del suo informatore.

“Patrick Murray.” bisbiglia Vayden all’orecchio dello spacciatore. Jordy sbarra gli occhi per il terrore e poi si lascia scivolare lungo la parete finché non arriva giù dove cade in ginocchio sopra le scarpe di Vayden. Vayden ritira le scarpe da sotto i pantaloni unti di Jordy e sul suo volto appare una smorfia di disgusto.

“Dio no! No! Ho dimenticato. Non voglio che ricominci.”

“Ma Patrick era amico tuo?”

“Sì. Era il mio miglior cliente e un amico. Mi ha salvato il culo dal carcere. I suoi figli, Dio, non voglio più ricordare quel macello.”

“Devo andare a scoprire che fine ha fatto Bloody.”

“Ma, ma l’avevate preso! Quel handicappato che hanno adottato, era stato lui no? Che fine ha fatto. Cazzo perché non friggete sti cazzo assassini. Dov’è? Cazzo, non voglio saperlo.”

“No, Jordy. Tu devi sapere perché il tuo culo sarà presto sul suo piatto è questo che vuoi? Sai, si è fatto un passeggiata in una casa di cura e poi è svanito. Ma lui sa e ricorda tutto del suo passato. Vuoi che ritorni a farti visita?”

“No, amico. No ti prego, non farlo arrivare a me. Mi scioglierebbe che cazzo ne so che mi farebbe. Quanto vuoi?” e si rovista nelle tasche dei pantaloni per riemergere con le mani piene di alcuni rotoli di dollari. Mentre tira fuori i soldi sbatte le palpebre con un tic nervoso che pensava guarito. Si piega e prende altri soldi dal tacco delle scarpe firmate Prada. Nulla è ciò che sembra in Jordy ma tutto dice a cosa aspira. Le mani piene di bigliettoni avanzano tremanti davanti a Vayden. Il tic agli occhi peggiora.

“Tieni!” e tutto quello che ho ma se aspetti vado in tana e ti porto altro.

Gli occhi di Vayden scintillano soddisfatti. Prende i soldi e li mette con cura nel borsone che attira l’attenzione del piccoletto il quale vorrebbe ridere, non fosse per un certo sguardo di un certo poliziotto che si veste meglio di un damerino di Wall Street ma lavora nella più piccola centrale di polizia della capitale.

“E’ solo un prestito ricorda!”

Vayden saluta con una mano sulla spalla il piccoletto che resta a tremare seduto a terra e nel suo angolo buio. A un certo punto, quando il poliziotto è già lontano, gli grida dietro.

“Non vivrai tanto a lungo, poi sussurra più a se stesso che all’altro, sei già morto Vayden, mi dispiace ma sei già morto.” Ma Vayden riesce nonostante tutto a sentire e replica a sua volta, chi ha mai voluto vivere in eterno

John ha un cellulare da interrogare e fissa tutti i messaggi in arrivo da un posto del mondo oltre oceano. Non è un uomo importante chi gli scrive ma è importante ciò che gli scrive.

Vayden si ferma davanti al vecchio cancello aperto e titubante avanza fino alla porta, dove rimane una decina di minuti a temporeggiare con gli occhi fissi sul campanello. Padre Jackson dice la targhetta anche lei datata. La mano spinge il piccolo bottone e la voce che risponde sembra più quella di un fantasma che di un uomo.

“Vayden.”

La porta si apre e il corridoio illuminato mostra una parete interminabile di libri ordinati su file fino al soffitto che catturano l’attenzione di John.

“La verità spesso si nasconde nei libri!”

L’uomo abbastanza anziano da portare con fatica i propri anni, si mostra da dietro la porta, è così minuto da arrivare appena alle spalle del poliziotto. La sua voce dimostra un entusiasmo quasi adolescenziale.

“Ciao ragazzo, me lo sentivo che alla fine ti avrei rivisto. Entra.”

Si accomodano in due poltrone scavate dalle ore di studio e di contemplazione di migliaia di pagine scritte per incantare la mente e l’anima di qualcuno. John continua a fissare la stanza ben illuminata e in ordine.

“Tutto bene ragazzo?”

“Sì, mi aspettavo …”

“Che i preti vivessero in case ben illuminate e confortevoli. La nostra è una scelta non sempre facile ma quando crei un posto che rispecchi la tua anima credo che debba rispecchiare anche un pochino l’anima di colui che servi.”

“Crede che Dio possa apprezzare una libreria di pensieri e battaglie umane?”

“Dio ci illumina con capacità che durante la vita dovremmo essere in grado di usare.”

“Allora io non ho ancora scopeto la mia.”

“Le strade più difficili diventano percorsi verso vette più ambiziose e questo non è un male ma richiede tempo e sacrifici maggiori.”

“Io non sono un grande credente.”

“Chi lo è?”

“A volte ci smarriamo nelle nostre debolezze come bambini che faticano ancora a camminare e credimi non c’è limite d’età all’imperfezione umana.”

“Io non cerco un rimedio. Nemmeno delle risposte. Vorrei non credere a quello che penso ma ho il dubbio di aver conosciuto il Diavolo.”

Il vecchio sacerdote resta in silenzio e senza rispondere si alza per aprire un piccolo comò dal quale tira fuori due bicchieri lindi di cristallo e una bottiglia con un’etichetta più vecchia dell’uomo.

Con mano leggermente tremante, versa due dita del liquido ambrato che si adagia gentile nei bicchieri. Vayden guarda l’interno della casa e finisce col fissare la piccola carrozzella che sicuramente non serve al sacerdote le cui gambe sono agili nonostante lui si sia ingobbito, ferma davanti alla porta presumibilmente della cucina da cui non proviene alcun rumore. Probabilmente vive con un parente. Lo sguardo torna alla lampadine chiare che lo rasserenano. Il prete lascia aperta la bottiglia e si dirige verso il suo ospite.

“Bevi.”

“Ma …”

“Dio non è all’opera ma l’uomo. Noi dovremmo soddisfare le sue molte aspettative che facilmente falliamo, ma credo sia più divertente così, per entrambi. Hai bisogno di restituire un po’ di forze morali al tuo ego.”

Il liquido scende nella gola di Vayden che tossisce.

“E’ fuoco.”

“Come l’ira di Dio, ecco perché ha confinato il suo prediletto in un letto di fuoco perché imparasse dal rifugio quello che gli era mancato in Paradiso, la fede.”

“Non c’è nulla che lei veda come nero assoluto?”

“Quale genitore odierebbe il proprio figlio? Nemmeno Dio potrebbe. La fede non è semplice. Vanno domate la ribellione, l’ambizione e altre caparbie virtù che se non ben dosate portano la gente allo sfracello. Mi chiedevi del Diavolo.”

“Io credo che il male abbia un compito suo, un compito che Dio ha voluto che fosse portato a termine dal migliore dei suoi angeli. Perché? Perché la felicità è solo l’attimo di una luce che si spegne in fretta ma la soddisfazione di un bene è duraturo e perenne. Il male serve per metterci alla prova, per togliere di mezzo i peggiori di noi o forse ci comunica che nulla e per qualunque scopo è più eterno di un bene e della fede.”

“Ha mai conosciuto il Diavolo?”

Il vecchio sacerdote, posa molto tremante il bicchiere vuoto vicino alla lampada dai toni tenui che mostrano un volo di uccelli dentro un’acqua chiara dove si specchia un sole gigantesco. Nonostante il suo autocontrollo, qualcosa in lui fa pensare a una incerta paura.

“Io e il Diavolo ci siamo scontrati parecchie volte.”

“Io sento che mi stia cercando o forse sto semplicemente impazzendo.”

“Chi ti sta cercando?”

“Un assassino, non uno qualunque, uno che toglie la carne dai ragazzini per ripulire gli scheletri per poi portarseli via nella nuova dimora, come portafortuna.”

Il sacerdote si alza nuovamente e si dirige verso la libreria dalla quale prende un libro e per farlo si serve di una grande scala. E’ un tomo gigantesco con fogli scuri che si sbriciolano. Lui lo appoggia con grande affetto sul tavolo e lo apre quasi come stesse toccando un neonato. Le pagine sembrano rigide ed emanano un odore strano. Il dito del sacerdote scorre lungo le righe finché non si blocca.

“Ecco qua! Vieni, avvicinati.”

Vayden lascia il bicchiere ancora pieno e raggiunge il vecchio prete.

“Attento, noi non possiamo essere del tutti delucidati sulla battaglia tra Dio e Satana. Certe cose non ci vengono spiegate e non si spiega nemmeno come mai mandi Michele a combatterlo e non lo faccia lui direttamente ma c’è un passaggio che egli ha lasciato all’umanità che spiega perché Satana sia libero da tutte le regole universali e perché l’uomo non potrebbe mai esserlo.” e legge.

“Nelle ore del mattino e quando sarai solo, capirai che il freddo che senti nonostante il sole all’orizzonte viene da un posto dentro le tue paure e questo vuol dire che lui è già lì con te a pesare sulla fatica che fai a sollevarti da quel freddo e dalla solitudine. Tu non dovrai mai guardarlo in faccia pensando che la sua luce possa in qualche modo illuminarti il difficile sentiero della vita, ma dovrai guardarti le spalle e combatterlo quando si mostrerà a te in una delle sue tante forme. Non ti potrà mai sedurre abbastanza da colmarti il cuore e quando nella tua solitudine sentirai il suo fiato, tu alzati e chiudi gli occhi, da quel dentro prendi tutta la luce che ti serve per andare avanti. Un giorno, scalfito il pezzo duro di quel Male, non resterà che ceneri sotto il cielo e Dio nella sua infinità bontà zittirà finalmente i dolori che per millenni hanno offuscato il cammino dell’uomo verso l’Eden.”

“Non capisco …”

“Il Diavolo spesso parla alle solitudini per traviarle dalla vita comune e dalla fede nella luce serena del bene. Gli uomini colpiti duramente dalla vita sono i preferiti di Satana perché li spinge verso un dirupo che loro credono sia un nuovo ideale. Satana non si mostra mai veramente ma parla, incanta e danza nelle nostre paure.”

“Io vorrei soltanto che questa storia finisse.”

“Quell’assassino che oggi insegui è solo un mezzo. Satana è ben lontano da quel mezzo e conosce bene le tue debolezze. Se ti sta mettendo alla prova, allora è perché sei un osso duro o forse è lui stesso ad avere paura. Ogni anima che perde, per lui è una disfatta. Un giorno, scalfito il pezzo duro di quel Male … Credo che Dio ci metta doppiamente alla prova e lo faccia anche con suo figlio, se lui perde noi troveremo finalmente la porta di casa aperta e non dovremmo più soffrire né per nascere né per morire.”

“Vista così sembra una passeggiata in un giardino fiorito.”

“Non è un giardino ma una palude, dove pullulano i serpenti più grossi dell’universo ma sei un uomo già colpito da tutto il veleno della vita e questo ti rende immune a certe carezze di Mammona.”

“Per Dio va bene che uccida il mio Male?”

“E’ un combattimento di vita o di morte, dove la tua vita non significa aver voluto salvare te stesso ma gli altri, il bene comune, la fede.”

“Anche se non è ciò che sento?”

“Non è rilevante come metti in fila le parole, importante è che portino bene quando escono dal nostro cuore.”

“Adesso devo andare.” John si alza e prende la tracolla, dopo essersi scusato per il whiskey avanzato.”

“Va bene e se fosse vendetta?”

“Dio disprezza la vendetta ma non avresti atteso tanto. Il Diavolo ti sprona a non meditare sulle tue azioni e ad agire. Tu no sei vendicativo come io non sono indenne dai piccoli piaceri della vita, ma questo non mi squalifica davanti a Dio. Ora, inginocchiati!”

John piega la testa ma con un colpo del prete dietro le ginocchia si vede costretto a toccare terra. Il vecchio si rallegra e chiude gli occhi per ricevere l’illuminazione. Con le mani sulle spalle di John e annuendo continuamente con il capo come se stesse ricevendo un messaggio importante dall’etere, esercita la sua funzione.

In nómine Patris + et Filii et Spíritus Sancti. Dominus noster Jesus Christus te absolvat: et ego auctoritate ipsìus te absolvo ab omni vinculo excommunicationis, (suspensionis), et interdicti, in quantum possum, et tu ìndiges. Deinde ego te absolvo a peccatis tuis, in nomine Patris, et Filii, + et Spiritus Sancti. Amen.”

Il sacerdote apre gli occhi e fissa Vayden incitandolo a finire il rito. Con la fatica di uno che sta masticando pietre, quest’ultimo risponde: Amen.

“Ricordati di mettere fede nelle tue paure e nei tuoi dubbi e la risposta ti sarà rivelata dal cuore. Guardati dal facile e non cedere alla fretta.”

“Non c’è più nulla per me là fuori e sinceramente la salvezza è l’ultimo dei miei bisogni.”

“Tutti abbiamo bisogno di essere salvati.”

Rispose il prete che teneva la porta di casa aperta, mostrando delle fasciature bagnate di sangue su entrambe le braccia. Vayden sente un colpo provenire dall’interno della casa, ma il prete non sembra neanche averlo udito e considera la cosa come un’allucinazione dovuta forse al whiskey o al vento.

“Non credo di voler vivere così a lungo.”

Un altro colpo fa girare la testa del sacerdote all’interno della casa. Il suo volto visibilmente preoccupato diventa paonazzo sotto la luce dell’ingresso. Vayden riprende la tracolla che gli scende dalla spalla e esce dal cancelletto di ferro.

“John?”

Vayden si ferma e si gira verso il vecchio prete che sembra ancora più vecchio da quella distanza.

“Madeline avrebbe voluto che tu tornassi alla vita. Non sprecare il suo amore svalutandoti.”

“Non mi interessa reverendo. Il passato è passato ed io non ho cause migliori con cui impegnarmi.” ma l’uomo dietro la porta era già svanito. Dalla casa non proveniva alcun rumore e anche le luci si spensero appena lui era entrato nell’auto direzione aeroporto.

Qualsiasi assassino si fosse messo sulla sua strada avrebbe trovato pane per i suoi denti. Correva su un terreno difficile avvantaggiato da una solitudine che non gli avrebbe mai più mostrato la sua compassione.

Pensa a quanto deve aver sopportato Louise per il bene suo e di suo fratello. Pensa a quanto male ha subito sua madre, a quanta violenza tacere per non separare la famiglia e poi la morte di Billy, costretto per forza da una natura congenita a seguire quegli impulsi violenti che lo hanno spinto a morire come un criminale in mezza alla strada, travolto da un camion che non si è fermato dopo che avevano sparato tre volte alla sua schiena; quel giorno avevano litigato per un pacchetto di sigarette che Damien aveva rubato dalla borsa della madre.

A diciannove anni alcun litigio può essere serio ma John non aveva mai avuto il tempo di dirlo al suo fratellino . Ci sono cosa da cui alcun uomo si può riprendere e sono le domande rimaste aperte, la gente che non puoi riabbracciare e le parole mai dette. Per la voragine lasciata da sua moglie invece, non ci poteva essere quantità di cemento che la riempisse. Tutti i sogni, tutti gli ideali, tutte le attese erano state cremate col corpo di una donna malata di cancro. A chiunque gli avesse mai detto quanto fosse bella la vita, lui avrebbe risposto della possibilità di essere infinitamente più squallida di quanto qualsiasi essere umano potrebbe immaginarsi.

 

L’uomo segreto

Dalla porta di servizio il Controllore può osservare l’attività dei due scienziati che si agitano continuamente davanti agli schermi del loro gigantesco microscopio. Lui controlla loro e altri controllano lui, una catena che metterebbe paura a chiunque si azzardasse incominciare la sua vita lavorativa la dentro. Si tratta di vita lavorativa perché non potrebbe essercene un’altra.

Sono dieci anni che quelle figure dietro le maschere bianche continuano ad agitarsi per ogni equazione li porti su una nuova strada. Lui sa bene che non c’è più nulla da scoprire. La vera scoperta potrebbe essere quella, la verità è davanti ai loro occhi e loro continuano a ignorarla. Il Controllore cerca di non guardare oltre la seconda parete di vetro che mostra una grande capsula collegata a tanti tubi colorati, controllati ogni mezz’ora da altri scienziati che passano più tempo nella decontaminazione che dentro il laboratorio.

Bard Hunter si gira sulla sua poltrona di pelle e aggancia il segnale che la Nasa manda attraverso un satellite militare per aggiornare i dati nel laboratorio. Il Controllore, fa girare le telecamere interne per mostrare ogni angolo e ogni attività del Settore Ricerca. Sebbene sia possibile seguirli tutto il giorno, le teste calde del Pentagono preferiscono monitorare solo le ore in cui gli scienziati ispezionano la capsula, puliscono i tubi e fanno marketing di ricerca sui giochini con il dna.

Pochi giorni e tornerà al suo comodo ufficio, è un lavoro che alcuna persona al mondo potrebbe sopportare per più di sei mesi e lui sottoterra, non sopporterebbe altri dieci minuti. Bard sorseggia il suo caffè che non sa di caffè e controlla i dati di stazionamento del satellite Big Columna. Il suo profilo affusolato galleggia calmo nello spazio ma a Bard arrivano delle onde di sollecitazione inquietanti. E’ una cosa che riesce a percepire persino nella sua testa e se loro lo sapessero, lo chiuderebbero in una stanza per studiarlo come fanno con altre cavie umane e persino scienziati, rimasti a donare il loro sapere alla curiosità di tutte le agenzie americane più segrete.

Si gira per controllare i suoi osservatori che sembrano poco preoccupati e questa è la vera stranezza. Qualsiasi spillo, batuffolo di polvere fuori posto, in quel sistema super sorvegliato diventa preoccupante. Bard continua a verificare i dati e la trascrizione delle onde. Decide di aspettare a mostrare i dati.  In un posto dove nessuno non scopre qualcosa di nuovo da più di cinquant’anni, lui ha novità che terrà per se e per la propria agenzia appena sarà riassegnato al suo incarico di vedetta in superficie, già si pregustava un espresso e il fumo del sigaro di mezzanotte, vizi che rendono un uomo soddisfatto di ciò che fa e di quello che è.

Per dieci anni è fuggito. Si è nascosto al mondo. L’agente Brad Pierce ha un guscio resistente alla realtà che vorrebbe aprire. Lui è il sopravvissuto, quello, intaccabile dalla solitudine poiché nella mente lui è vicino a tutti quelli che ha amato. La sua passeggiata fuori dura meno di pochi attimi. E’ il suo modo di combattere, non ferire chi vorresti vedere distrutto e Brad, coltiva solo sogni, come un fiume che scorre e non permette alle ninfee di mettere radici.

Ogni dice anni Brad si ricorda di avere lasciato scorrere il tempo e cerca un contatto con gli alieni di cui sopporta da quando è nato, le leggi. Ogni volta il contatto è deludente e ritorna nel suo guscio che non è mai stretto, mai scomodo, mai compassionevole con la solitudine. Da quel guscio Brad torna a guardare il mondo che oppone resistenza a tutti i sopravvissuti; ricorda lui, la medesima cosa era successa con i veterani del Vietnam, più ti sacrifichi più t’ignorano, allora perché tornare?

Brad torna a fuggire, incurante di sembrare un pazzo e per ogni attimo di aria, spende un sogno: che il mondo ritorni alle leggi di un uomo e non di troppi alieni.

 

Ombre ostili

“John?”

Vayden si gira e trova la sagoma di Bo sotto il lampione. L’ho sta aspettando e deve averlo seguito per trovarsi dall’altra parte della città.

“Bo?”

Vayden stringe le chiavi dell’auto e la apre per gettarci dentro la borsa da viaggio dai toni candidi femminili.

“Vedo che non ti separi mai da Mad.”

John abbozza un triste sorriso.

“Che ci fai da queste parti?”

“Ti aspettavo. Ho capito che stai partendo e volevo bermi una birra con il mio migliore amico.”

“Nessuno lo sapeva, e John riflette per un attimo, tranne …”

“… Louise.”

“Già. Mia madre pensa ancora di farmi da babysitter.”

“Ce la prendiamo quella birra? Due passi. Ho delle notizie per te.”

“Ho un volo tra meno di tre ore.”

“Dieci minuti, terza strada, il pub dell’irlandese.”

Vayden chiude l’auto e prima di attraversare la strada, gira il capo per guardare la casa del prete, ma la illumina solo la luce del portico perché le finestre oramai sono tutte buie.

Camminano superando la prima di due vie strette e piene di cartoni. L’insegna del “Vecchio irlandese” è usurata come la cornice di legno del pub che odora di birra e piscio fino a tre isolati.

“Hai sempre avuto ragione tu, Bo si accende una sigaretta e continua, ho letto con attenzione dopo essermi vomitato addosso. Quella merda l’ha sempre avuta con te e come se ti conoscesse. Ti odia, anzi odia tutto il genere umano e gode come un diavolo nel vedere il dolore negli occhi delle sue vittime. Tu non ti sei fuso il cervello amico, hai realmente riportato a casa la sua identità e credo di sapere com’è.”

“Com’è cosa Bo?”

Bo getta via la sigaretta accesa sopra un cartone che in meno che non si dica, s’incendia. Il tizio dentro esce infuriato e pretende di essere pagato per trovarsi un altro cartone dentro cui dormire. Vayden appena si vede le mani sporche addosso, spinge l’uomo ancora più grosso di lui contro il muro. Non sopporta che qualcuno gli sciupi i vestiti.

“Fai il buono e non rompere. Il mio amico ha sbagliato.”

Il gigante si getta a terra, scivola sul fianco sotto il cartone ed esce fuori con una lama lunga più di venti centimetri.

“Ehi che vuoi fare?”

Bo ha già la mano sul fodero ma Vayden lo ferma.

“Cos’hai scoperto?”

Un pugno respinge il vagabondo che si rialza e sembra abbia ingoiato una decina di peperoncini Moruga poiché sul suo volto schizzato di cirrosi si leggeva un odio irrefrenabile. Bo tiene la pistola puntata sul poveretto, ma attende che succeda qualcosa e chiude gli occhi per riaprirli subito, soddisfatto e come se qualcosa gli si fosse spezzato dentro. Bo continua a sorridere. Il suo sorriso diventa scherno ma gli altri non possono vederlo. Sottovoce il collega di Vayden ripete a successione alternata una cantilena con una sola parola, uccidi, uccidi, ucciidiii, insomma un ripetitivo e cattivo ritornello che aumentava la soddisfazione sul suo viso.

Il vagabondo che si avventa su Vayden ha le spume intorno alla bocca. I suoi occhi convulsivi e irreali brillano di una luce buia. E’ un toro infuriato che spinge il suo corpo e la mano armata di un lungo coltello da macellaio contro il poliziotto. Bo non riesce più a trattenersi e la sua voce spara quella cosa che prima era solo una strofa triste da dire solo a se stessi. Rimette la pistola nel fodero, si lecca le labbra soddisfatto e invece di terminare quella terribile nenia esplode come un vulcano.

“Uccidilo!! Uccidilo! Uccidilo!!!!!”

Il vagabondo salta sopra il bidone della spazzatura, schiva Vayden e pianta il coltello nella spalla di Bo. Bo ferito scivola lungo il muro e lascia che Vayden lo difenda.

 “Uccidi quella bestia dannazione!”

Vayden lo fissa calmo e sventa la carica del vagabondo, fissando il volto contorno in un ghigno indemoniato di Bo. Tiene ancora le mani lungo i fianchi e gli occhi chiusi per percepire quell’odore nauseabondo di bruciato che il suo amico emana.

“Uccidilo John! Ammazza quel maiale! Ficcagli una pallottola nelle budella! Uccidilo. Uccidilo. Uccidilo.” Bo non smette di supplicare.

Il vagabondo in ogni sforzo ripete la medesima cosa.

“I miei soldi! Voglio i miei soldi per il cartone. I miei soldi fottutissimi stronzi!

Il bisonte si agita e mugola cercando il punto debole su cui buttarsi.

“Uccidi! Uccidi! Uccidi quell’animale! Uccidilo John! Ammazza quel dannato bastardo! Buttalo giù e ficcagli il coltello in gola. Uccidi John! Uccidi!”

John si gira e guarda la bocca di Bo che mitraglia le sue orecchie con la forza delle parole. Il suo amico e collega si ferma giusto un attimo mentre l’avversario si china per prendere velocità. Vayden è sotto il viso arrossato del collega. Questi gli parla nuovamente ma sommerso.

“Uccidilo!!! Uccidilo! Uccidilo Vayden!” e la mano di Bo si spinge verso lo stomaco di Vayden nel punto, dove la giacca è aperta. La lama penetra con difficoltà. Gli occhi di Bo si aprono per ricevere la soddisfazione di quel gesto.

“ Che cazz …!” la mano insanguinata di Vayden ferma la lama prima che affondi. Gli occhi di Bo gorgogliano d’ira e di rabbia. Il primo pugno di John gli frattura la mandibola, il secondo arriva allo stomaco. Quasi non sente dolore l’amico e mentre il gigante arriva minaccioso col suo coltello, Bo abbozza un sorriso e con un filo di voce risponde a quell’assalto.

“Uccidilo! Uccidi quello schifoso! Uccidi John! Rendimi fiero di te e uccidi quella feccia!

Vayden si avventa sul vagabondo e lo stende a terra. Il coltello del pazzo vola via e il suo braccio piegato dal poliziotto fa un crac strano e doloroso, tanto che si sente un lamento.

Con la faccia contro l’asfalto, il vagabondo mugugna frasi incomprensibili ma davanti ai suoi occhi compare una banconota da dieci dollari e il suo corpo si rilassa.

“Miei?”

“Sì brutta scimmia, vai a trovarti un cartone migliore!”

Il poveretto scappa zoppicando, girando spesso la testa per paura di essere derubato improvvisamente e invece di finire la sua corsa verso un posto sicuro, si dirige verso il pub.

Vayden è a terra ma Bo è in piedi che lo fissa.

“Chi devo uccidere?”

Bo non ha nulla da dire, gira i tacchi e attraversa la strada in direzione del pub. Vayden percepisce ancora quell’odore sgradevole di bruciato e putridume che il suo amico lascia come una scia odorosa per prede e rivali. Vayden pensa. Ha bisogno di qualche secondo per pensare. Parla a se stesso, ci sono molti modi per fare sì che qualcuno ti trovi e mi riferisco a qualcuno che non può o non vuole dimenticarti. E quando ti trova che cosa succede, ricorda John di averlo chiesto a un suo collega ucciso da Bloody. Succede che diventi il suo nuovo giochino, ecco cosa succede John, tu diventi il suo nuovo giochino.

Certe cose non si dimenticano mai. Vayden ha raccolto gli indizi e si alza. Qualcosa vuole che lui non parta. Bloody non vuole che parta. La memoria lo aiuta. La Stanza degli Interrogatori 1. E’ blu o almeno lo sarebbe stata finché il bambino non è stato accompagnato dentro e fatto sedere. John ricorda anche che non c’era un centimetro di quella creatura che non fosse rosso e madido di sangue. Lo hanno lasciato solo per meno di mezz’ora. Il Capo all’epoca, il vecchio Darren Covaci detto Vaniglia per l’odore dolciastro del suo dopobarba, si litigava il caso con i federali. Aveva del fegato il bastardo. Era il tipo di poliziotto che non sarebbe mai arrugginito, uno che le sue palle le faceva pesare anche ai politici di cu i non gli fregava nulla. Sparava volentieri perché nel suo profondo credeva più alla giustizia dell’uomo, ma era stato abile a non farsi beccare. La legge è uguale per tutti, non era il suo blasone, la legge protegge i cittadini preferiva dire. I venti minuti che il bambino era rimasto seduto, sono diventati i peggiori della storia del dipartimento.

Tutti i poliziotti presenti si spingevano contro il vetro per vedere, ammirare quell’esemplare di giovane assassino e si aspettavano che piangesse, supplicasse, ma lui restava lì, pietra dura incollata a una sderenata sedia con gli occhi azzurri ghiaccio fissi sullo specchio da cui sapeva lo stavano spiando. Una mosca vola sopra il suo capo, si ferma su qualche ciocca intrisa di sangue, medita e si pulisce le zampette umide per  rialzarsi in volo e riposarsi infine sulla bocca del ragazzo dove scompare in mezzo al rivolo di sangue che gli esce dalla bocca. I suoi denti sono rossi e li mostra ogni volta ci passa sopra la lingua per risucchiare quello che non ha ingoiato del tutto. Quest’azione la compie con estrema calma e lentezza. Tiene le piccole mani sopra il tavolo e con i mignoli danza una specie di tic nervoso. Vayden ha guardato per due anni e ogni notte i nastri di quell’interrogatorio e i mignoli continuavano a battere sul tavolo come se volessero lanciare un segnale ma non in un codice morse o simile. Stesso ritmo stesso disegno circolare e stessi tempi. Persino un matematico aveva tentato di studiarne i movimenti ma nulla finché un giorno la nipote di Mad, premiata studentessa del conservatorio in visita di cortesia, aveva notato lo zio che segnava linee sopra un foglio guardare al rallentatore un video con un ragazzino orribilmente sfigurato o ferito e immobilizzato a una sedia.

“Sono note!”

“Cosa? Che cosa stai dicendo?” aveva detto Vayden scosso e risvegliato dal torpore della tabula rasa.

“Sono note. Sta indicando delle note e i tempi delle note. Lo so perché abbiamo una bambina sordomuta cui stiamo insegnando la musica e il maestro usa questo procedimento, il disegno della nota e il tempo.”

Bloody allora aveva parlato e scoperto il suo segreto, a John non restava che inchiodarlo.

Nella Stanza Interrogatorio 1, il bambino ha solo i piedi legati a una catena e chiusa nell’occhiello di ferro cementato al basamento, come se un metro e venti di carne umana potesse essere più feroce di un raptor. La polizia si sente più ridicola che mai, ma nulla è paragonabile alle cose dette e fatte da un infante indiavolato. Un’infermiera imboccata dal FBI entra per ripulire dal sangue il piccolo. L’opera di pulizia dura meno di due minuti ma lei non estrapola nemmeno una parola “a” quell’essere che le sembra solo un innocente indifeso legato a un patibolo. L’infermiera sparirà due giorni dopo senza lasciare tracce. Solo Vayden annetterà al caso quella sparizione.

Il ragazzino nella stanza aveva iniziato a sudare copiosamente. L’intero dipartimento si spingeva contro il vetro per guardare, studiare, osservare l’assassino. Tutti quanti nessuno escluso, dagli inservienti al Capo Investigazioni, uomo risoluto e poco permeabile alle curiosità, tutti quanti stretti gli uni agli altri bisbigliavano ammirati, increduli, strabiliati,

“Tu chi sei?”

 

Il Pilota

Non ha occhi ma può sentire. Immagini, ombre veloci che girano la pellicola dentro il suo capo. Sente tutto e percepisce energie contrastanti dalle interferenze nelle fasi di dolore di quella gente. Ogni tanto estrapola pensieri, ricordi di ogni genere e li analizza. La prigione è solo una scusa. Lo è sempre stata. Lui è in grado di capire quanto sia debole la materia. L’uomo agonizza alla ricerca di qualcosa che vanifichi la sua esistenza. E’ la sua natura. Cose che si cristallizzano in masse di piccoli ragionamenti che poi si disperdono in esigenze primarie, come fumo.

Più di sessant’anni di prove. E’ un processo che lo soddisfa poiché il materiale ricavato è diventato importante. Le scoperte sono necessarie per indebolire la catena di certezze che circonda quell’energia. Per imparare tutto bisogno esercitarsi in tutto.

L’esercizio è la migliore maniera per perfezionarsi. Ha vissuto quelle personalità con un appetito, una novità nel suo genere che ha saputo apprezzare incamerando quell’energia nel centro sensibile della partizione interna. Quelle nature diverse sproporzionate alla legge del tempo e negligenti ad apici superiori, sono alimenti per l’attesa. Qualunque pilota, direbbe che l’energia che necessità la riuscita di un viaggio è proporzionale alla capacità di sopravvivenza di cui è dotato. Non è nella natura umana la diversificazione. Copie di un qualche antico originale, creano un loro personaggio che vivrà un percorso instabile e pieno di dubbi. Questa è la vita umana. Una trappola d’incertezze, violenza, passioni, energie contrastanti ma forti. Assorbire energia. L’oscurità e la divinizzazione. Uccidere. I dilemmi della gente e le paure, lo nutrono. Il vortice diventa frenesia e la frenesia gioco. Gli assassini spesso giocano con le vittime per incamerare l’energia delle loro paure e lui non teme rivali, in fondo chi mai potrebbe scoprirlo? Chi potrebbe accorgersi dello sbaglio? Chi di loro, potrebbe mai vivere così a lungo per rendersi conto della verità?

 

Per pochi giorni

E’ un blocco di cemento abbastanza grande da ospitare un paese. All’interno le sue pareti blu sembrano voler immobilizzare la gente, ma in alcuni corridoi il blu si combina al verde e tutto diventa meno agitato. E’ notte fonda. Le cose restano calme. Il corridoio è deserto. Nessun lamento. I pazienti dormono, qualcuno di loro morirà. Sente nel suo capo le sirene di due ambulanze che si fermano all’ingresso del Pronto Soccorso. Pazienta. Fissa i tubi che lo collegano al macchinario. Non sente il dolore degli aghi sottopelle quando lui li strappa alla carne. Quella coppia d’irlandesi morirà, ma ci sono altre vittime con loro che potrebbero sopravvivere. Potrebbero morire in qualsiasi istante ma prima deve scegliere.

 

Sarah

Sarah non ha mai smesso di sentirsi sola. La prima volta è stata alla morte dei genitori quando ha visto la madre col volto pieno di sangue e gli occhi freddi e fissi nel vuoto e poi da quando Tesla ha cominciato a sentire il peso dei primi sbagli e poi della memoria scomparsa nell’incidente. Perduta la mobilità, Sarah ha perduto non solo parte dei suoi sogni ma della libertà che la vedevano volare lontano per concerti nelle più grandi capitali e a braccetto del suo eterno oramai perduto amore Nick Spencer.

Nessun agente vuole una handicappata, anche se promettente, nessun agente passerebbe la vita a spogliarti e poi a metterti a letto per poi rivestirti e metterti sulla carrozzina. Ma Sarah ha perdonato il destino. Si è rimboccata le maniche e ha iniziato a insegnare con lo stesso talento con cui ha studiato. I suoi ventisei anni ha un velo vecchiardo in qualche piccola ruga intorno agli occhi ma è una cosa da poco confronto la gioia che lei esprime quando si ricorda di avere una sorella da amare. E’vero, Sarah ha perso le sue gambe ma non il suo cuore. A volte è dura con se stessa più di quanto lo sarebbe una persona normale, ha una sorella minore cui badare e che non vorrebbe mai vedere infelice non almeno quanto lo è stata lei.

La sera in cui ha ricevuto la telefonata di Tim, era protagonista di una forte discussione con il proprietario della casa. L’affitto sarebbe stato pagato in ritardo ma c’erano uomini cui non importava come si procurassero da vivere.

Sarah aveva sentito qualcosa di benevolo nella voce di Tim. Un uomo aveva salvato la vita della sorella e non solo, l’aveva vegliata come farebbero pochi. La vita di Sarah non ha mai aperto le porte all’amore e forse questo le ha aperto gli occhi su tutti quelli che hanno frequentato Tesla senza mai amarla veramente. Detestava tutti gli uomini entrati nella vita della sorella e sperava se la speranza fosse esistita che le cose si fossero sistemate anche nella loro vita, almeno per una volta e senza pagare il prezzo che avevano dovuto pagare i genitori morti senza nemmeno rendersi conto. Il suo sesso è fermo al desiderio e sebbene qualcosa si senta vicino a quella parte del corpo, lei non appaga mai il fuoco per paura di diventare dipendente di una natura che non avrà appagamento da un uomo. nasconde i suoi fremiti nell’alcool e quando non riesce a zittirli completamente lascia che la mente divori qualche porno libro in rete, non è peccato, pensa lei, se resta solo tra te e te.

Sarah ha paura e fiducia in chiunque. Lei sa che non è positivo ragionare così ma in definitiva non potrebbe fare altro, lei è invalida e vede costantemente la pietà negli occhi della gente o semplicemente l’indifferenza, quando parcheggia negli spazi del drugstore dove i furbi occupano il suo spazio ignorando il suo stato.

Non può più tornare piccola, al momento in cui tutte le cose andavano bene e anche se non c’erano molti soldi, c’era comunque una famiglia e qualcuno che stava lottando per lei e per la sua felicità.

Non puoi vivere e pagare le bollette senza la gente e la gente ti guarda, ti pesa, ti critica per poi avere compassione di te.

Sotto il cuscino del divano c’è il rifornimento per le giornate grigie e non hanno cambiato colore dall’incidente. Come fa a non sembrare ubriaca tutto il giorno? Una ricetta segreta. Una regola. La festa non doveva mai iniziare prima delle cinque del pomeriggio e finire prima di mezzanotte. Da ubriaca smetteva di sentire i dolori alla schiena, i crampi allo stomaco e cancellava la nausea da farmaci.

L’unica nota positiva in quella tenebra è la sua sorellina. Soffre per lei più che per se stessa e sacrificherebbe la vita per non vederla ferita.

nei giorni più bui, Sarah si è abbandonata a cose più forti e dolorose dell’alcool. Nulla a che fare con le droghe o con il fumo. Una piccola pistola, un vecchio ricordo di suo padre. Una volta al mese, la mette sul tavolo della cucina

 

Il Missionario

Fine ha appena litigato col fratello. La vita dei gemelli è meno ricca di certe sfumature che aiutano a smaltire le emozioni negative. Sono rimasti a secco di soldi e la notizia è stata digerita in modo diverso dai due. Ma una cosa li rende dei grandi, i loro litigi restano una cosa intima, oscura agli altri e la gente percepisce solo il fatto che due fratelli che vadano d’accordo in questo modo sono mitici.

Fine apre l’armadietto e da la notizia.

“Avete sentito?”

“Cosa?”

“Henry si è tolto la vita.”

“Non ci credo che cazzata sarebbe questa?”

Hoss è sbalordito mentre George arriva scortato da Blake.

“Che succede qui?”

“Henry è morto. Si è gettato dall’Albert Bridge. Tutti i notiziari ne parlano.”

Durden cerca il cellulare nelle tasche dei pantaloni, mentre George si gira verso Blake.

“Tu ne sai qualcosa?”

Blake nega con un cenno della testa.

Durden apre il cellulare e mostra un’immagine di Henry appeso a testa in giù e con la gola tagliata.

“Cazzo che schifo. Cazzo! Cazzo! Povero Henry perché? Un depravato?”

“Ciao coglioni!!!”

Henry fa il suo ingresso mentre gli altri gli imprecano dietro. Ha un aspetto trasandato e dei cerchi scuri intorno agli occhi.

 “Sei un pezzo di merda Henry.”

Henry si siede a terra e toglie gli occhiali.

“Fan culo Monkey.” gli spiattella in faccia Durden che trattiene il proprio pugno. Escono tutti tranne George.

“Che ti succede?”

“Lo scherzo?”

“Non è lo scherzo. Sei mancato per due giorni quasi.”

“Questo mondo fa schifo.”

“Che ti è successo?”

Henry alza la camicia e mostra i lunghi lividi che lasciano pochi spazi di pelle sana.

“Il dolore è scomparso ma è rimasto il rimpianto.”

“Chi ti ha fatto questo?”

“Nessuno. E’ tutta colpa mia forse. Odio la birra e odio anche voi.”

“Che ti è successo?” grida George.

“Che cazzo vuoi che sappia. Mi sono trovato sopra un paio di giganti che facevano volare pugni da ogni direzione.”

“Devi andare al dottore.”

“Certe cose non si curano con l’aspirina.”

“Credo di aver visto qualcosa. Non so se è legato a quello che mi è successo.”

I lembi della camicia tornano a coprire le ferite doloranti di Monkey. Le lacrime di Henry raccontano molto di più che George forse riesce a capire.

Mark Durden è seduto in mezzo a un cerchio di sedie. In fondo lui conosce bene la verità, ma non vuole dirla. Se non fosse quello che lui pensa? L’hanno legato e Henry è l’unico rimasto nell’ombra, tutti gli altri lo guardano e aspettano.

“Siete dei pazzi di merda! Perché mi fatte questo?”

Hoss non è certo che quello che stanno facendo sia la cosa giusta ma Blake lo blocca.

“Monkey sei stato tu bastardo? Hai detto loro delle armi? Io non ho fatto niente!”

“Chi ti ha dato le armi Mark?”

“E tu chi cazzo sei Mister Perfection? Credi che studiando riusciremo a farci una vita la fuori. Quanti di noi sono realmente ricchi? Hoss o forse i gemelli? Io ho fatto qualcosa per il mio futuro per tutti noi. Liberatemi!”

“Comodo. Non abbiamo nessuna fretta.”

“Mark, ripete George dietro le sue spalle, che cosa hai fatto?”

“Ho preso delle armi con il fondo cassa della squadra.”

“Cosa hai fatto stronzo?”

Blake furioso si lancia su Durden ma uno dei gemelli lo ferma.

“Ho fatto un affare. Per tutti noi. Duecentomila che sarebbero diventati due testoni in meno di un mese. Tra un mese ci troveremo milionari senza alcuno sforzo.”

“Ti sei bevuto il cervello locusta?”

Monkey riappare dall’ombra e fissa Durden.

“Non l’ho detto a George, ma credo che le cose siano un pochino più complicate.”

“Stai zitto Monkey o ti ucciderò!”

“Tu non ucciderai nessuno Mark.”

“Voi non potete farmi nulla.”

“Ma la polizia sì.”

Hoss continua a martoriare una pellicina del suo pollice finché non esce il sangue.

“Non potete. Siete tutti complici e poi ho prosciugato il vostro fiduciario.”

Henry getta a terra i dieci fucili.

“Maledetto stronzo.”

“Cazzo siamo fottuti. Ci butteranno fuori. I nostri soldi pezzo di merda? Dove sono gli altri fucili Mark?”

“Fan culo.”

Hoss smette di torturarsi le unghie e si alza a sua volta.

“Sai Durden, nessuno ti dirà che sei il bastardo che sei perché di famiglia povera, no povero stronzo, quelli come te, sono dei viscidi serpenti pronti a colpire alle spalle e sai che ti dico? Grazie. Grazie per fatto in modo che lo scoprissimo. Henry ha pagato per le tue stronzate e ora tocca a te. Dove sono le armi?”

“Ci uccideranno tutti. Non capite merdosi che non si tratta di una cosuccia per cui fai sei mesi di galera e ne vieni fuori. Qui ti tagliano i coglioni e poi ti minacciano. Loro hanno le nostre armi. Non avevo un deposito e fino alla vendita me le avrebbero tenute.”

“E come mai tanta cortesia?”

“Sono un cliente di fiducia. Liberatemi altrimenti non solo non vedrete più i soldi..”

“Che fai, adesso ci minacci?”

“Io non ti minaccio George. In questa cosa ho detto che siamo tutti noi. Ho comprato a nome vostro e voi ci siete infognati quanto me.”

“Dove sono le armi Mark?”

“George, amico, non ci sono altre armi. Non ci sono mai state.”

Durden inizia a piangere.

“Non ci sono mai state armi.”

henry si piazza davanti a lui e lo prende per il collo.

“Hai spazzato via i nostri soldi e ora racconti un’altra balla. Merda! Tu devi morire.”

La sua voce era tranquilla e calma. Mark lo fissava spaventato.

“Henry lascia stare.”

“No, cazzo, e agita le mani in direzione di Durden, mi hanno seguito e ripetevano di stare zitto altrimenti anche Durden tutti voi l’avreste pagata cara.”

George si gira verso Henry che si è tolto gli occhiali che finiscono sopra la sedia. Henry si gira lentamente e cammina verso George ma invece di parlargli sfera un pugno in piena faccia a Mark che urla di dolore. Il sangue gli esce copioso dal naso.

“Il mio naso. Cazzo!” e batte il piede contro il pavimento.

Henry si avvicina a lui ma George mette una mano sulla spalla per frenarlo. Henry la toglie con forza.

“Non ti preoccupare non lo ucciderò.”

Si piega e sussurra qualcosa all’orecchio di Durden che resta colpito dalla notizia al ché si rialza per puntargli la mano a forma di pistola che spara.

“Mi dispiace amico, mi dispiace.”

“Non è vero, non t’importa un cazzo di noi. Sei sempre stato una piattola deforme e iniqua. Ti sei solo modellato per fingere di andare d’accordo. Ora mi dici come farà Fine e Terence senza la borsa di studio? Non c’è un cancro peggiore di un nemico mascherato da amico. Tu sei un tumore Durden, incurabile.”

“Forse ha ragione lui, George.”

“Cosa? Ti sei bevuto il cervello?”

“Credo che non ci sia molta offerta per noi là fuori. Quanti dottori a spasso o che lavorano nel McDonald’s ci sono?  Quanti ingeneri che riparano solo i guasti delle caldaie? Nessuno di noi, tranne Hoss e tu George, troverà una strada più brillante di questa verso il successo. Durden ha pensato bene. Ha investito, ha rischiato, ma sapeva che ce ne saremo accorti.

Il suo sbaglio è non aver condiviso, ma ditemi chi si sognerebbe a quest’età due milioni?”

“Blake sei dalla sua parte?”

“No, Monkey, sono dalla mia parte e scusatemi l’egoismo. Io non ho una villa in cui alloggiare terminato il liceo e nemmeno una carriera universitaria pagata da papà e mamma. Ce la metto tutta ma mi vedo già in un pub a servire birre a ubriaconi acidi e forzati alla sopravvivenza.”

George si gira verso Durden.

“Dove sono le altre armi?”

Durden sputa sangue.

“Non ci sono altre armi Botoman.”

“Cosa? Che cosa hai fatto con i nostri soldi?”

“Credo che mi ammazzeresti se te lo dicessi.”

Ride e sputa altro sangue.

“Guarda Blake, dice piagnucoloso, mi ha spaccato un dente.”

“Conosco tanti mostri che non vedono il bene se non nella propria sopravvivenza, ma tu appartieni al genere di quelli pensanti, quelli che hanno scelto il male per il bene non solo proprio.”

“Smettila Hoss. Non abbiamo bisogno di un sermone.”

“Fottiti Blake! Mark ha qualcos’altro sulla coscienza che a quanto pare non sono solo i soldi rubati ai suoi amici.”

“Spero che ti uccidano, Durden, spero che tu finisca in una fossa piena di vermi che iniziano a mangiarti mentre sei ancora vivo.”

“Io, volevo quei soldi. Lui mi aveva promesso.”

“Lui chi Durden?”

“Non posso dirtelo George. Non posso dirti nulla altrimenti sarete morti prima di capire quanto sia grave a cosa.”

“Io ho tutto il tempo del mondo.”

“Anch’io.” risponde Hoss.

“Io credo invece che dovremmo considerare più possibilità.”

“Smettila Blake! Tra poco ci ricercheranno tutti come terroristi o peggio come assassini.”

“Sai George, non tutti viviamo nella certezza che qualcosa di buono un giorno ci succederà. Io ho fatto una scelta cercando di migliorare. Ho fottuto i vostri soldi? No. Non credo. Li ho investiti. Un investimento che frutterà  un bel gruzzoletto.”

“In che cazzo ti sei invischiato Durden?”

“Te lo ripeto. Se te lo dicessi mi uccideresti.”

“Sarà meglio che tu ce lo dica. Dobbiamo sapere in quale merda ci hai fatti affondare tutti. Droga? Bombe? Plutonio?”

“Ho comprato sedici bambini.”

“Cosa?”

Hoss si siede a terra sconvolto.

“Che dovresti farci? Pedofilia o cosa?”

George è l’unico a mantenere ancora il controllo mentre slega Durden dalla sedia.

“Traffico d’organi. Ma vi giuro io i ragazzini non li ho mai visti, ma il tizio con cui sono, siamo in affari è proprio lui “il Missionario”.

“Ti sei messo in affari col Missionario?! Oh Dio siamo morti.”

George sconvolto si mette le mani nei capelli. Henry è rimasto seduto sulla sedia e da mezz’ora fissa il pavimento tenendo in mano i suoi occhiali.

L’auto di Blake resta incastrata nel traffico. Continua a nevicare ma né lui né George hanno voglia di parlare.

“Cazzo!”

Sbuffa e sbatte entrambi le mani sul volante.

“Ti rendi conto, ha conosciuto un tizio in Facebook e gli ha consegnato i nostri soldi credendo fosse il Missionario.”

“Io credo sia proprio il Missionario. Durden non è stupido.”

“Ma noi sì.”

“Mark è sempre stato diverso da noi.”

“Che cosa intendi dire?”

“Che non si è fregato di quello che pensavano gli altri e si è sempre fatto i fatti propri. Nessuno lo conosce a fondo. Insomma da quanti anni siamo insieme? Da quanto nella squadra e per non contare le bevute, le puttane e le vomitate? Con Mark invece non ho dei veri e propri ricordi, come se mi sfuggisse qualcosa.”

“E’ sempre stato più legato a Monkey ed è  già tanto se pensi che ha un padre così violento da farlo piangere quando parlano al telefono. Non vorrei essere nei suoi panni.”

“Tuo padre …”

“Va tutto bene. Io e lui lasciamo dei lunghi discorsi senza mai mettere un punto … e adesso che è morto, non saprei come finirli. Mi sento come un assassino che per vendicarsi sbaglia ogni volta vittima .”

“Cosa stiamo facendo fratello?”

“Che intendi dire? Ci sarà qualcosa anche per noi che Diavolo! La vita non sarà solo un fiume di piscia dove tutti fanno il bagno credendo sia birra …”

“Grazie George. Buona questa Botoman!”

“Sono stanco, credimi. Ho così tanti pensieri ma nessun capace di darmi una scrollata.

“Credo che tu abbia scoperto il tuo cuore che batte. Non è grave amico. C’è qualcos’altro in quel corpo che ti fa sentire uomo? Ha! Lo sapevo. Le donne!!!!”

“Non fare il cretino. E’ che sono in subbuglio. Certe cose non attecchiscono con me ma questa cosa mi divora dentro.”

“Allora il nostro George ha dei sentimenti.”

“Cosa devo fare?”

“Vai fuori, trovati una vecchia fiamma, scopate per più di sei ore e poi andiamo a bere una birra. Il tuo fuoco svanirà, l’amore avrà fatto le valigie e tu ritornerai stronzo come prima e normale.”

“Ho già provato.”

“Ma dai? Con chi?”

“Ti ricordi la tizia allo stadio, quella con il pallino della pubblicità a tutti i costi.”

“Grande! Sei un mito! Tu sei il mio mito!”

“Sì, sì  grande quanto vuoi ma io non smetto di pensare a lei.”

“Allora non basta più una birra, ci vuole dello scotch e di quello buono.”

“Già.”

“Non stare male. Vai da lei. Spassatela e amen. E’ così difficile provare quello che provi tu che pagherei per essere al tuo posto. Tu meriti un po’ di sincerità da questa esistenza di merda.”

“io non mi merito nulla. Ho sempre vissuto seguendo l’onda. Ho vent’anni e cosa ho fatto? Nulla. Che cosa farò? Non lo so. Che diavolo voglio diventare non lo so!”

“Ma sai chi ami e questo batte tutte ste cagate con cui ti riempi la testa. Fatti amare e poi diventa un agente segreto. Saresti figo in smoking. Cazzo se non fossi tuo fratello ti sposerei?”

“Sei gay?”

“Sono uno che guarda in positivo al cuore che batte.”

“Missionario o no, la vita dopo il college è una latrina con una fila che si lamenta per l’odore. Forse perché Mark è americano che ha scelto la via più corta.”

“Mark ha provato i suoi limiti e forse anche i nostri. Non vorrei essere al suo posto ma presto capiremo in cosa ci siamo ficcati.”

 

Reparto psichiatria

Tim ha camminato per i lunghi corridoi asettici dell’ospedale, cercando di capire il perché del suo patetico attaccamento a quella ragazza. Per il suo bene, si auto convinceva, ma c’erano molte ombre sulla vicenda che lo stuzzicavano a perseverare in quell’attesa diventata un logorio del suo sistema nervoso.

Avrebbe voluto scavare più a fondo nella vita della signorina Maytie, ma non ha avuto il tempo materiale per farlo. Sapeva che aveva mollato il suo ragazzo che se la stava spassando con la sua migliore amica e che è stata miracolata per due volte, in due incidenti d’auto dove avrebbe potuto perdere la vita o peggio, come sua sorella, le gambe. Tesla è una ragazza così semplice da rendere complicata ogni altra supposizione sulla sua follia mattutina che l’ha portata a farsi investire.

Non è da lei, ricorda le parole della sorella, è così precisa e impeccabile e pensa quando è in auto, credo sia una vera noia, e nemmeno se ci fosse, il fuoco in strada accelererebbe, allora cosa ha fatto cambiare idea a Tesla? Chi la inseguiva quel giorno o da chi stava scappando?

“La signorina Maytie è stata trasferita nel reparto psichiatria.”

“La sorella è stata informata?”

“Abbiamo provato a chiamare ma non ha risposto nessuno.”

“E’ su una carrozzella! Le avete almeno dato il tempo di arrivare al telefono o non avete nemmeno provato?”

“Lei sarebbe?”

“Timothy O’Brian l’agente che l’ha soccorsa.”

“Mi dispiace agente, dovrà parlare con il dott. Grummer, è lui che si occupa della paziente.”

La porta bianca è leggermente socchiusa. All’interno si sentono voci parlare e lui avrebbe domandato sulle condizioni di Tesla. Bussa. Gli rispondono di entrare.

“Non vorrei disturbare è per una paziente Tesla Maytie.”

“La commozione? Sì. Lei è un parente?”

“No dottore. Sono Timothy O’Brian l’ho soccorsa.”

“Si è ripresa per un paio di volte urlando. L’abbiamo sedata. Temiamo abbia un forte esaurimento, può accadere a chi non sopporta gli ospedali o ha subito un trauma tale da provocare un’amnesia.”

“Ma si era risvegliata cosciente!? Ha chiesto dell’acqua.”

“La testa gioca strani scherzi.”

“Come sta?” ma il medico non ha tempo di rispondere appena un'altra persona si presenta dentro la stanza.

“Che Dio sia con tutti noi figliolo!”

Tim gira il capo per guardare l’uomo appena entrato.

“Padre Reid e sono venuto a benedire questa giovane in via di guarigione. E’ una credente?”

Il sacerdote fa il segno della croce in aria e benedice la stanza e la paziente.

“Non saprei.”

“Siete sposati da poco?” domanda il reverendo con un sorriso sincero.

“No, ha frainteso. Io sono un amico. L’ho vista cadere e …”

“Il suo salvatore! Che Dio l’abbia in gloria! Un miracolo e il suo artefice. Dio protegge gli angeli come te figliolo.”

“Da cosa padre? Dalle mogli che scappano o dalla birra che uccide?”

“Dalle torture che noi stessi a volte c’infliggiamo consapevolmente e inconsapevolmente.”

Il reverendo si avvicina a Tesla e le prende la mano. Con la mano libera tiene stretta la croce appesa al collo e fa un’orazione sottovoce, ma non la finisce perché vola in aria, quasi fosse stato sollevato da un gigante arrabbiato e si ritrova con la schiena contro la finestra.

“Brucia! La mia mano brucia!!!!” urla lui tenendosi il palmo della mano.

Le infermiere irrompono quasi fosse l’apocalisse. Il prete si guarda la mano bruciata, non quella che teneva il crocefisso ma quella che ha stretto la mano di Tesla e continua a farsi il segno della croce impazzito.

“No me! Aiutate lei! Aiutate lei!” continua lui a urlare, mentre un piccolo ago gli entra nella vena e due infermieri lo trascinano fuori dalla stanza. Tim fissa le pupille dilatate del pover’uomo e capisce che la sua è una paura reale e poi guarda Tesla che continua a dormire quasi nulla fosse successo.

Appena fuori dal corridoio l’uomo continua a urlare “L’ho visto quel Diavolo!” e poi ancora “Guardatela è lei!”. Tim si alza e guarda in corridoio. Il prete è svanito nella guardiola, dove tutti gli infermieri di turno sono arrivati a controllarlo.

“Lo scusi, lavora troppo e per un uomo della sua età questo ritmo sballato è dannoso.”

“E le ferite?”

“Probabilmente se l’è procurate poco prima e si è accorto solo dopo, mi creda in questo reparto, capita di tutto.”

“Sembrava così tranquillo.”

“La soglia del dolore è diversa per ognuno di noi.” disse lei fissandolo con un grosso sorriso. Aveva dei tacchi altissimi e tanto rossetto sulle labbra. Timothy rimase impressionato dalla ragazza. La sua forte empatia è riuscita a dirottare l’attenzione del giovane dall’assenza del sacerdote.

Nonostante la sua bellezza, Tim sta pensando che la ragazza avesse un qualcosa di diabolico.

“Comunque non credo si sia ferito prima. Era di buonumore.” replica Tim all’assistente che oramai camminava nel corridoio verso la porta d’uscita dal reparto.

Timothy torna a stringere la mano di Tesla, la stessa che ha provocato le orribili bruciature al povero reverendo Reid, ma non accadeva nulla di preoccupante.

“Sai quante cose strane succedono in tua assenza.” sussurra lui all’orecchio della ragazza. Il respiro di Tesla è regolare ma ogni tanto, qualcosa d’invisibile si contorce sotto la sua pelle. E’ come un’energia che Tim avverte anche da una certa distanza e cui non vuole dare peso. L’incidente i Padre Reid lo cataloga come una cosa strana con spiegazioni sicuramente logiche che l’indomani avrebbero fatto sorridere entrambi.

L’infermiera con i tacchi a spillo è sparita, pensa Tim che non ha nemmeno guardato come si chiamasse. Non gli interessava veramente ma c’era una sorta di oscurità in quella donna che avrebbe voluto ricordare per starne alla larga. Nonostante i leggeri lamenti di altri pazienti, nel reparto c’è un profondo e triste silenzio. Tim si sistema la sedia di fianco al letto. Ordina i fogli pieni di schizzi e li mette nel cassetto del comodino così come la matita consumata per più della metà. I scarabocchi mostrano solo ossa e teschi e ruderi abbandonati. Si è data da fare, pensa divertito lui che già litiga con lo schienale scomodo appena si siede. Attenderà il giro del dott. Grummer e deciderà quale bugia raccontare l’indomani al lavoro. Chiude gli occhi ed ha la sensazione che un’ombra si alzi dal corpo di Tesla per fissarlo. Non ha un vero volto e nemmeno una forma ben delineata ma fluttua sopra la stanza come una bandiera senza asta. Timothy non è un uomo che crede nei diavoli o negli angeli, ma quell’ombra la vede bene e appena si alza di scatto per accendere la luce vede come una grossa bocca che grida senza voce.

 

Il pasto degli agnelli

Lei è sola nell’appartamento di Tim. Fissa il gatto che viene a mangiare e poi scappa da una finestra semiaperta. Ogni tanto accende la televisione ma non le interessano i programmi. Telefona.

“Dove vai? Sono giorni che manchi tutte le mattine?”

“Sai dove sto andando? Alla mensa. E’ un lavoro o no?”

“Sì ma è gratis e tu sai di non potere vivere solo di aria e di buone azioni.”

“Non hai mai avuto fiducia in me vero?”

L’uomo si scola il bicchiere di whiskey tutto d’un fiato.

“Tua madre non ha mai avuto fiducia in te. E’ scappata in cielo o dove diavolo ci portano quando siamo a pezzi. Io sono rimasto e credo di avercela messa tutta a farti capire quanta merda serva ingoiare per rigare dritto.”

“Ancora con sta storia. Ero solo una ragazzina ubriaca, non ho ammazzato nessuno. Guardati sei già ubriaco e sono solo le sei.”

“Nel frattempo sei sull’elenco della polizia.”

Lei avanza e gira dietro le spalle del padre per abbracciarlo.

“Non hai cresciuto una stupida. Le cose si sistemeranno. Forse troverai qualcuno che si prenderà cura del tuo cuore meglio di quanto lo abbia fatto la mamma..”

“Qualche altra sgualdrina che venga con me soltanto per chiedermi soldi. Dovresti ritornare a scuola.”

Lui si versa un altro bicchiere e lascia sul tavolo dei soldi prima di uscire non ben ancorato sui suoi piedi.

Cat prende la borsa e indossa il capello con fiorellini che la rendono ancora più giovane.

“Papà devo andare a distribuire i pasti. Non tornerò a scuola e nessuno mi violenterà senza il mio permesso.”

“Sì, sì credi che sia tutto facile.”

“La vita è stare da una parte o dall’altra ed io ho capito quale fosse la parte giusta, me l’ha insegnato il migliore cioè tu. Non ti lascerò e non soffrirai mai a causa mia, fidati.”

“Sì, ma tu tieni il cellulare a portata di mano. Vuoi anche un coltellino, sai nella borsetta …”

“Posso difendermi senza usare le armi papà e poi sto andando al quartiere inglese, mica all’Inferno.”

“Non ho capito bene, dove sia questa mensa.”

“E’ una mensa privata.”

Per sei ore Catleen ha pensato continuamente soltanto a George. Mentre riempie di minestra i piatti, lei cerca nello specchio fumante il volto del giovane. Vorrebbe vederlo subito per fare quelle cose ancora e senza limite di tempo. Le oscenità che viaggiano per la sua testa le dicono che è cresciuta e che è il momento di sfogare tutti quei limiti. Un piccolo insetto transita sul pavimento e lei lo osserva con la coda dell’occhio. Un’altra povera creatura, pensa e la schiaccia prima di entrare nel recinto degli agnelli piagnucolanti, così chiamava lei quei bambini che urlavano incessantemente cercando la mamma o semplicemente un poco di affetto.

“Non c’è nessuna mamma ma c’è la minestra.”

Appoggiava sui piccoli tavoli improvvisati il piatto caldo e si occupava personalmente di ognuno di loro.

“Voi siete così importanti. Non piangete. C’è un pezzetto di cioccolato per tutti.”

Con il cioccolato riesce a portare il silenzio. Non sono molti solo una ventina ma tutti loro cercano un contatto che addolcisca quei lunghi e troppi silenzi che durante il giorno erano costretti a subire.

Cathleen, lascia sempre stanchissima la mensa. Ci vogliono quasi quaranta minuti sopra un grandino e un paio di sigarette prima di ritrovare le forze e la serenità. Gli agnelli sono sensibili al punto di risucchiarti con le loro voci anche l’anima. Alla più piccola, Diana di soli due anni e mezzo, ha regalato la sua sciarpa rossa. Fa ancora freddo in quel dannato posto e il proprietario tarda a sistemare la caldaia. Avrebbe fatto in modo di risolvere anche quel piccolo inconveniente.

I bambini l’avrebbero aspettata per un altro giorno e lei sarebbe ritornata come faceva da quasi otto settimane.

Prima di alzarsi per tornare a casa, legge i messi sul suo cellulare. Sorride. Un poco di felicità serve anche a lei che si divide in quattro per trovare una soluzione a tutto. La mercanzia ben in salute, oggi è merce rara chi se ne frega da quale paese arrivi, importante che sia perfetta al momento dello scambio e sul display ci sono già le prime richieste.

Padre Reid ha lasciato del tutto l’ospedale. Questa è stata l’unica novità mattutina. Il risveglio di Tesla è sereno e prima ancora di aprire gli occhi ha mormorato la parola “fabbrica”. La cosa ha colpito e non poco Tim che ha scritto la parola nel suo taccuino dove annota ogni nuovo ricordo della giovane.

Tim è coinvolta al punto che le sue telefonate si riducono al minimo. I colleghi lo chiamano preoccupati e persino la sorella si è fatta l’idea che le cose per lui non siano facili nell’ultimo periodo.

Ogni giorno è una gara contro il tempo, contro il traffico e contro il lavoro. Per lui nulla conta di più che scagionare Tesla dall’accusa di aver provocato volontariamente l’incidente e senza il costo di un avvocato che nessuno dei due in quel momento si poteva permettere.

L’ombra sul soffitto è rimasta impressa a fuoco nella mente di O’Brian. Probabilmente, ha pensato lui, sarebbe una contro risposta del corpo affaticato e molto stanco ma lui sa che non è così. Qualcosa blocca Tesla ed è una cosa che ha fatto del male a un sacerdote. Quanto buona potrebbe essere?

Sarah ha parlato con Tim e insieme hanno convenuto che per Tesla sarebbe stato un bene vivere sotto l’attenzione di Tim che l’avrebbe portata in giro per Londra per ritrovare le strade e una connessione con il viaggio che aveva portato Tesla all’incidente. La sua guarigione sarebbe stata incerta, detto dal dott. Ryan che aveva confermato l’amnesia parziale. La fiducia di Sarah nello sconosciuto è sconcertante ma Tim capisce che a volte la stanchezza spinge la gente ad appoggiarsi su altri più forti di loro. Tim pensa che probabilmente il suo modo di fare ispiri abbastanza fiducia oppure tra le sorelle non c’è un legame fortissimo. Per lui è una novità. Provare a vivere con una donna con non ha alcun legame affettivo o interesse sessuale. Se lo raccontasse in giro, lo prenderebbero per pazzo, ma non lo farà, nossignore, non è così idiota. Nel suo cervello però resta come un chiodo fisso, l’immagine della ragazza che sembrasse scappasse da qualcuno o da qualcosa, si guardava dietro, sembrava inseguita, qualsiasi cosa fosse era lì nella sua testa, lui poteva essere lì con lei avrebbe ricordato.

Il primo suono uscito dalla bocca di Tes appena entrata nell’appartamento di Tim è stato “hm….” una cosa che indicava la prospettiva sotto cui una persona poteva guardare nel trambusto già all’ingresso della casa. Lui ha smesso di giustificarsi col mondo per la sua vita., il suo disordine o la sua freddezza. Guarda la ragazza e le indica la camera, dove lui va a appoggiare il bagaglio, una borsa piena di vestiti.

Durante la notte lei grida così forte da spaventare Tim che accorre in mutande e assonnato. Accende la luce ma gli occhi di Tesla sono ancora chiusi.

“Ho paura! Ho paura!!” grida lei come se la bruciassero. Lui si siede sul letto e la chiama.

“E’ solo un sogno.”

“Smettila! Sssst … non c’è nessuno qui che voglia farti del male …”

Tesla apre gli occhi pieni di lacrime.

“Ho paura!” e si rifugia tra le braccia di Tim che è più spaventato di lei a quel gesto.

“Non c’è nulla qui. E’ stato un brutto sogno.” Lei alza verso di lui gli occhi pieni di lacrime e lui istintivamente la bacia. Quando le loro labbra si staccano, Tim riprende il controllo di se stesso e sussurra … scusami. Lei non gli risponde ma lo guarda prima di tornare a rifugiarsi tra le sue braccia. Lui la stacca e le stringe le braccia per darle forza.

“Vado a prepararti una tazza di tè.”

“Ho avuto un incubo. C’erano dei morti … un mostro m’inseguiva, voleva uccidermi.”

“Fuori ci sono zanzare, serpenti e criminali e tutti in mezzo a gente come noi. Sfidarli a volte ci salva o ci uccide.”

“Noi da quale delle due parti stiamo?”

Lui le sistema una ciocca di capelli e si alza per andare in cucina.

“Ti spengo la luce, va bene?”

“Sì ma lascia la porta aperta.”

 

Il giorno dopo la notte

Ci sono molte cose oscure nella mente di Tesla. Ombre. Spazi vuoti che lei teme di riempire e di doverne ricordare l’uso. Ci sono pagine senza righe che probabilmente erano scritte prima di leggere quella certa nebbia da cui una volta entrata, non riesce a uscire.

Nemmeno lei sa cosa le mette più paura se aver perduto la memoria o se dover ricordare qualcosa di sgradevole.  Ci sono cose da cui nemmeno Tesla riesce a liberarsi, cose che hanno le dimensioni di gigantesche domande nascoste nei perché. Cose che Tim ha cercato di sorvegliare, di riconoscere, di investigare al prezzo di molte emicranie e notti in bianco almeno da quando Tesla è andata a vivere con lui, giusto il tempo per riprendere il filo della memoria.

Il risultato conduce sempre alle ore prima dell’incidente di cui Tesla ricorda piccoli pezzi di strade, di edifici e muri di cinta.

Tim si concentra sull’ultimo indizio, un recinto e a Londra ci sono decine di migliaia di edifici con dei recinti ma pochi sono quelli che sorvegliano depositi e zone intorno alle discariche.

Ha smesso di contare le volte in cui in auto ha girato la città dall’alba fino a notte per ritrovare almeno una strada che per Tes potesse ricondurre a qualcosa.

Sarah ha fatto in modo che la convivenza tra lui e la sorella non fosse una cosa imbarazzante. Le sere le passano insieme fino ai titoli di coda del telefilm, momento in cui Tim accompagna Sarah a casa. Al suo ritorno Tesla è già raggomitolata nel letto che fissa i cadaveri delle ombre in costante battaglia con i suoi occhi. Alla fine vincono le ombre e lei si addormenta, ma lì nel sonno riaffiorano i suoi incubi. Gli scheletri si ergono sopra la Terra e lei non riesce a sconfiggerli. Fatto sta che si risveglia sudata o peggio gridando di paura.

“Ho visto la morte.” gli mormora prima di riaddormentarsi.

Il tempo non aspetta che i casi si risolvano. A Tes arriva una lettera giudiziaria e capisce che contro quella persona lei non potrà che perdere. Le chiedono i danni dell’auto dell’autorevole Lord Guilgam.

 

Il confine del Mondo

Tesla si bagna la faccia con l’acqua fredda e fissa lo specchio. Ha i brividi. Lei vede nello specchio un campo, un campo esteso e dopo averlo messo a fuoco si blocca. Ricorda. Ricorda le ossa, quel vento anomalo e la cosa che la inseguiva.

Conosce parole, canzoni e ha ricordi di cose che non ricorda di aver mai vissuto. teme di diventare pazza.

  

Tesla contro il Missionario

“Non avevi smesso di fumare?”

“Mi è tornata la voglia.”

“Cos’hai? Sei così strana. Stai cambiando sorellina ed io non riesco più a capirti.”

“Forse è menopausa precoce. Ieri ho mangiato le fragole e forse tu non sai, ma io solo allergica. Nemmeno un puntino. Nemmeno un eritema. Nulla. Prima avevo un prurito alla gola che facevo dei versi strani per grattarla ma quelle fragole direi che fossero aliene.”

“Meglio così, sei guarita.”

“Mi prometti che non dirai nulla?”

“Cosa? Cosa stai dicendo, ti sento male.”

“Ti dirò una cosa che tu non dovrai dire a nessuno. Promettimelo1”

“Sai che non farei nulla che ti facesse del male.”

“Lo so.”

“Stai bene? Perché non vieni a casa?”

“Non posso. Aiuto Tim a sistemare qui e poi tornerò.”

“Tim eh?”

“Non è come pensi tu non c’è nulla tra noi ma mi aiuta a ricordare. Ci tiene più di me a questa cosa e vuole trovare il motivo per cui ho fatto l’incidente.”

“Forse gli sei di peso. E’ un uomo ha bisogno dei propri spazi e magari di venire a casa con una donna.”

“Sì forse hai ragione ma non ho sentito di alcuna che gli giri intorno.”

“Svegliati Tes, una con cui andare a letto e basta.”

“Ah, forse sono un ospite scomoda e non me ne sono accorta.”

Tesla allontana il cellulare dall’orecchio e riflette.

“Tesla ci sei? Tesla? Tesla?”

La sorella continua a chiamarla e Tesla si sveglia dal trans. La mano appoggia il telefono al mento e parla.

“Tutto bene.”

“Mi hai fatto spaventare. Comunque ti aspetto domani, dopo il lavoro ci prendiamo un tè insieme.”

“Meglio una birra. Il tè ultimamente mi fa venire mal di stomaco.”

“Non pensavo ti piacesse, ma va bene. Birra tra sorelle. Ciao.”

“Sì.”

“Tes?”

“Ah?”

“Fai attenzione.”

Tesla lancia il cellulare sul tavolo e si butta sul divano. Ha mentito a sua sorella.

Io? Non ti voglio bene, ti odio abbastanza da restare con te per tutta la vita.

Tutte le cose sembrano identiche al buio. Tesla si alza dalla poltrona per avvicinarsi alla finestra. Fuori non c’è nulla che possa attirare la sua attenzione e allora si gira e osserva la casa.

Eppure ricorda una strada rumorosa dove abitava con qualcuno, sua madre? Non ricordava nemmeno questo. Spesso si mette a danzare e non smette nemmeno quando prende qualche spigolo. Danza con le caviglie doloranti fissando quelle forme nel buio che sembrano volerle dire qualcosa. Ma cosa? Certe voci nella sua testa la chiamano con un nome diverso. Ha sognato che beveva birra ma che non avrebbe avuto il permesso di farlo. Aveva sognato suo padre, non ricordava più suo padre, mentre riempiva di spuma boccali più grandi dei suoi stivali. Ogni tanto si piega per le fitte al petto. Sente dolori lancinanti e questo anche dopo aver ingurgitato due antidolorifici per volta.

Sente voci. Voci che dovrebbe riconoscere, voci che le parlano di posti dove dovrebbe aver vissuto lontano da Londra, lontano dall’Inghilterra. Tesla non ricorda di aver mai viaggiato da piccola con i suoi genitori o con sua sorella. Tutte quelle cose che la chiamano, tutto quel pensare la debilitano.

Tim ha passato ore a osservarla. Molte volte mangia con la mano destra ma il più delle volte è mancina. Ci sono momenti in cui parla in irlandese e lui non capisce una sola parola di quello che lei gli sta dicendo. Altre volte lo chiama George. A volte trova bicchieri pieni di birra ovunque persino sull’asse del water e quando domanda a Tesla perché ha riempito quei bicchieri, lei non sa cosa rispondere. Tim ha persino parlato con i dottori.

“Può essere normale che dopo un grande trauma, lei abbia la memoria sfasata e sia alla ricerca consapevole della propria identità. Probabilmente riuscirà a ritrovarsi come potrà restare così per sempre.”

“Ma è completamente sfasata, ricorda cose e gente di un altro paese, parla persino in un’altra lingua.”

“Come le ho detto, è possibile che il trauma abbia sensibilizzato certe zone del cervello e finché non ritroverà la propria memoria, la paziente vivrà in una specie di stato confusionale.”

La neve ha bloccato il traffico. Tesla guarda dal finestrino del passeggero e osserva le persone che cercano un equilibrio sui marciapiedi. E’ silenziosa, ma nella sua testa ci sono tante voci che chiamano una certa Cat. Parlano tutte insieme e c’è un uomo, un uomo di cui vede solo la mano che mostra un anello a forma di teschio che ingoia un serpente alato, che la spinge a camminare nella neve dove lei cade e poi è spinta nuovamente con la forza. Le lacrime iniziano a scenderle sul volto. E’ una cosa incontrollabile. Si pulisce con i palmi e sospira. Vorrebbe che qualcuno le mettesse una mano dentro la testa e le estirpasse tutte quelle scene odiose.

Guarda nuovamente fuori. I suoi occhi si fissano su una persona di cui vede solo i polpacci e le scarpe nere. E’ un uomo. E’ fermo proprio davanti a lei. Tim ha appena rallentato per il traffico e Tesla ha tutto il tempo di fissare quelle scarpe lucide e molto costose. L’uomo fa un gesto che atterrisce Tesla. Con la punta della scarpa scava un buco e continua a farlo finché non si allarga. Finito di scavare, un mozzicone di sigaretta vola dentro e la seconda scarpa richiude con una piccola onda di neve. Tesla sente i brividi correre in ogni parte del corpo. Tim accellera.

“Fermati!”

L’auto prosegue fino al semaforo che fa scattare il verde.

“Fermati ti ho detto!” grida isterica.

Tim si avvicina ai marciapiedi ma pur rallentando non ferma del tutto l’auto.

“Non posso fermarmi qui.”

Tesla abbassa il finestrino e guarda fuori. L’uomo è sparito, ma si vede ancora la piccola montagnetta di neve, dove riposa il mozzicone di una sigaretta.

“Come hai fatto a trovarmi?”

Lei prende dalla tasca un fazzolettino di carta.

“Non sono stata io, è stata Cathleen.”

L’uomo ha come un sussulto.

“Io non conosco nessuna Cathleen.”

“ Ma lei ti conosce bene animale, risponde una voce in irlandese, ti ha aspettato per tanto tempo. Tu sei il Missionario. Sei il bastardo che ha ucciso i propri amici e che ha sulla coscienza decine di innocenti.”

L’uomo prende dalla tasca una pistola e punta in faccia a Tesla.

“Io non so come tu faccia a sapere chi sono ma credo che sia una delle ultime cose che dovrai scoprire di me.”

Il colpo aveva spezzato il silenzio della camera. L’uomo ha impiegato meno di tre minuti per uscire dalla casa e altrettanti per salire nella sua auto e partire.

Il cellulare di Tesla non ha mai smesso di squillare nelle ultime due ore. Timothy è in ritardo. Voleva una cena speciale e prima di arrivare a casa, sarebbe passato da Jouy’s il take away thai più in, di Londra. la prima fitta al petto gli arriva sul viale “dei Fantasmi” così chiamano il vialone che collega la Manrage con la Hornen perché i tigli sono così grossi che senza fogliae sembrano dei terrificanti mostri di legno. Tim non dà peso al leggero dolore. Continua invece a chiamare Tesla. Probabilmente è uscita, pensa, ma perché non risponde?

“Mi mancano due anni alla pensione e non ho bisogno che l’ultimo della catena alimentare mi indichi come cretino ai miei superiori. Che diavolo combini O’Brian? Che diavolo è questa storia, tu che insegui una vittima?”

“Io …”

“Non ho finito! Adesso sai cosa devi fare? Devi spostare le tue chiappe fuori da qui, scusarti con lei e sparire dalla sua vita. Tu sei un poliziotto e non un babysitter, intendi? Un poliziotto cui non è stato affidato questo caso anzi non esiste nemmeno un caso. Hai capito O’Brian?”

“Capo, posso?”

“Cosa? Che cosa vuoi ancora?”

“E’ minacciata.”

“Da chi? Da cosa? Ha sporto denuncia? Ho detto che il caso sarebbe stato tuo, nel caso ci fosse stato un caso. Ti ricordo che è un incidente bello e buono. La ragazza è passata col rosso e si è fatta investire. Che cosa dovrebbe dire il poverino che le è venuto addosso? Mi scuso è colpa mia? E sai bene di chi stiamo parlano. Un Lord. Uno di quelli uomini influenti e importanti che possono cambiare la tua la mia di vita e farle diventare un inferno appena capirà che stai proteggendo l’investitrice. Ma che ti frulla nel cervello? Vuoi fare il Capo della polizia al posto mio?”

Barley gli mostra la sedia dietro la sua scrivania.

“tieni accomodati ma prenditi anche le responsabilità che comporta. Adesso togliti la ruggine dal cervello e vai a rimediare a sto problema. entro domani ti voglio vedere seduto in ufficio dietro la tua scrivani. Nolte uscirà al posto tuo. Se non vuoi cambiare mestiere, ascoltami, e O’Brian?”

Tim si gira prima di uscire dalla porta.

“Ci sarà anche un’indagine interna.”

Le cose buone fanno di un uomo un cattivo soggetto, le cose malvagie fanno di un uomo un gentiluomo, riflette lui cercando di controllare la vena che gli pulsa tra il seno nasale e l’orbita sinistra del capo.

Guardami! Sono libero. Sono tutto ciò che non sarei mai stato in grado essere, coraggioso, forte e tu non potrai uccidere due volte la consapevolezza di un uomo libero.

Non ci sarà mai un ultimo volo

soltanto e sempre

una prima magia.

Vivere nella mente di un assassino è scomodo quanto interessante perché ti fa scoprire i volti più disparati della malvagità umana. Reincarnare il male non è poi tanto assurdo quando ci misuriamo con la clonazione, la fecondazione in vitro e giochiamo con le cellule staminali.

Il sacerdote prende una sedia e la trascina a fianco della panca di legno da dove Tim osserva conquistato dalla luce colorata proveniente dalle vetrate delle finestre, l’altare.

“La verità è che il malvagio ci piace. Ci prende da dentro e a volte arriviamo persino a simpatizzare per lui. Perché lo facciamo? Perché noi siamo soggetti alle cause e agli effetti di quelle emozioni che ci sono trasmesse. C’è un filo così sottile tra quello che viviamo e quello che immaginiamo di volere vivere. Ci sono barriere insormontabili che sono le nostre debolezze.”

“Parla come se la vita fosse un romanzo dove il male non ha soltanto lo scopo di uccidere, ma di vendicare quella parte di debolezza che gli ha fatto smarrire il controllo sulla situazione.”

“L’ombra si fa seguire con la coda dell’occhio. A volte noi la repelliamo, altre volte la seguiamo. Lei è dentro. Lo senti. Senti spesso delle nausee indescrivibili e vomiti bile per giorni. Il male Ha un comportamento strano e abitudini di cui non ricorda il nascere. Tesla ha perso il commando sui propri pensieri. A volte è la ragazza di sempre altre, una svitata che si comporta da bambina capricciosa, bambina con gusti stravaganti e voglia di sesso. Anche a lei è sempre piaciuto il sesso ma in particolari momenti e con il lui giusto.

Tesla ascolta l’estranea nel suo corpo e le domanda perché, perché vuole proprio lei, una fallita, una che non è disposta a tutto per riconquistare un traditore? Ma quell’altra non risponde. Resta muta sotto pelle in attesa di qualcosa. Tesla lo sa. Capisce che dentro c’è una battaglia tra due spiriti incompatibili. Vorrebbe rigettare quel morbo, quel tumore che la spinge a camminare per strada per vedere il mondo mai visto e per sentire ancora il rumore del traffico. Quale pazzo vorrebbe riascoltare il traffico?

A volte fa degli incubi paurosi. Sogna bambini macellati come agnelli di cui ascolta le voci. Si sogna reggere un piatto pieno di minestra che diventa sangue coagulato e mescolando dal fondo appaiono occhi, organi, mani tanto piccole da poter appartenere solo a neonati.

Altre volte si lascia cadere nella vecchia poltrona con un fuoco dentro che ascolta fermentare. Non è un fuoco benigno ma un’esplosione, dove le anime degli angeli finiscono con l’arrostire. Spesso grida, quando non la sente nessuno, in mezzo ai boschi dove vaga per trovare la strada di casa.

Ci sono momenti del giorno in cui non sa dove si trova. Cammina molto, cammina tanto da aver consumato due paia di scarpe. Con la scarpa bucata al centro l’acqua gelida entra nelle calze e sotto i piedi ma a lei non importa. Non soffre quanto altri farebbero. Ha una forza smisurata di volontà per cercare, cercare, cercare, cercare, una cosa e appena la ritroverà tutte le cose andranno al loro posto.

Una sera camminava e aveva visto un uomo, non un uomo qualsiasi ma l’uomo che l’altra in lei cerca. Lui non era a piedi era in auto, in una grande a lussuosa automobile scura di cui aveva memorizzato la targa. Tim avrebbe pensato che fosse pazza se gli avesse raccontato le stranezze che sentiva dentro di lei e le cose che doveva fare per placare la vocina che le ripeteva all’infinito cosa doveva fare, dove dovesse andare e cosa guardare.

Il carrello della spesa era pieno di lattine di birra irlandese che accatastava lungo il muro della cucina. Tim aveva cominciato a chiederle il perché di tutta quella birra al che lei rispondeva, che ne so bisogna averla in casa e basta.

Deo666 era la targa che aveva memorizzato. Il biglietto era ben visibile sul frigorifero e ricalcato con un pennarello rosa fluorescente. La calamita che teneva il biglietto era a forma della lettera G

“Mi mancano due anni alla pensione e non ho bisogno che l’ultimo della catena alimentare mi indichi come cretino ai miei superiori. Che diavolo combini O’Brian? Che diavolo è questa storia, tu che insegui una vittima?”

“Io …”

“Non ho finito! Adesso sai cosa devi fare? Devi spostare le tue chiappe fuori da qui, scusarti con lei e sparire dalla sua vita. Tu sei un poliziotto e non un babysitter, intendi? Un poliziotto cui non è stato affidato questo caso anzi non esiste nemmeno un caso. Hai capito O’Brian?”

“Capo, posso?”

“Cosa? Che cosa vuoi ancora?”

“E’ minacciata.”

“Da chi? Da cosa? Ha sporto denuncia? Ho detto che il caso sarebbe stato tuo, nel caso ci fosse stato un caso. Ti ricordo che è un incidente bello e buono. La ragazza è passata col rosso e si è fatta investire. Che cosa dovrebbe dire il poverino che le è venuto addosso? Mi scuso è colpa mia? E sai bene di chi stiamo parlano. Un Lord. Uno di quelli uomini influenti e importanti che possono cambiare la tua la mia di vita e farle diventare un inferno appena capirà che stai proteggendo l’investitrice. Ma che ti frulla nel cervello? Vuoi fare il Capo della polizia al posto mio?”

Barley gli mostra la sedia dietro la sua scrivania.

“tieni accomodati ma prenditi anche le responsabilità che comporta. Adesso togliti la ruggine dal cervello e vai a rimediare a sto problema. entro domani ti voglio vedere seduto in ufficio dietro la tua scrivani. Nolte uscirà al posto tuo. Se non vuoi cambiare mestiere, ascoltami, e O’Brian?”

Tim si gira prima di uscire dalla porta.

“Ci sarà anche un’indagine interna.”

Tesla Mytie custodisce un segreto. E’ lì nella sua mente, intrappolato ma in agguato, cosa che le pesa soprattutto da quando risvegliata da un incidente, si accorge di avere una temporanea amnesia. Di questo stato si preoccupa Tim, il poliziotto che l’ha salvata e che cerca di scoprire i motivi di un incidente assurdo. Qualcosa si agita nei sogni di Tesla, qualcosa che manipola il suo presente e rincorre i suoi passi non lasciandole tempo di disseppellire certi ricordi finché in un secondo incidente lei ricorderà, un posto desolato, un campo di fango con un recinto fatiscente, molti, moltissimo vermi e carne ancora attaccata a delle ossa umane.

Un gruppo di ragazzi della medesima squadra di rugby si

  

“Qualcosa del genere non basta”

Londra da sopra un aereo non è altro che un’altra metropoli sotto la nebbia dello smog, un puzzle fitto di cemento e lunghi intestini di nuvole che usano la città per salire e scendere. Qualche piccola turbolenza ma l’atterraggio impeccabile, interrompe le sei ore di volo e acidità arrivata alle piante dei piedi. Per sei ore ha pensato ai poveretti che Bloody si è lasciato dietro, al piccolo Murraye ai suoi occhi di mostro senz’anima, al miracolo un interrogatorio muto finito con una lista di nomi di tutti i parenti di tutti quelli che lavoravano alla Centrale di Polizia di Hollyhill inclusi gli inservienti e gli assistenti sociali.

L’anonimo americano in vacanza passa la dogana e si dirige con la sua effervescente borsa a tracolla verso l’uscita del terminal. Il primo vero respiro su terra inglese, gli fa venire in mente la guerra d’indipendenza. Sorride e sale sul primo taxi disponibile. Il suo abito scuro lo fa sembrare un perfetto gentiluomo arrivato nel vecchio continente per affari più seri di una caccia a un fantasma.

La sveglia dell’albergo suona esattamente alle 6:00. Il telefono fa tre squilli poi tutto si tramuta in silenzio.  Il jet lag  è peggio di una sbornia. Il cellulare di Vayden manda un suo sottile  bip che continua ogni tre secondi finché non si decide di spegnerla. Vayden ha la testa corrotta dai brutti sogni, ma spinge la mano verso l’abat-jour e schiaccia il pulsante. La luce cancella anche le ultime tracce degli incubi. Ricorda solo di essere a Londra. E’ così alto che le punte dei piedi spuntano dalle lenzuola un palmo oltre la fine del materasso. Il suo corpo è pesante ma balza dal letto come un felino. I piedi nudi sul pavimento non sentono solo il fresco delle piastrelle ma anche il fastidio delle briciole secche delle FF che ha terminato prima di leggere il materiale che si è portato dietro rinunciando a un paio di abiti. Per Londra ne basta uno e un paio di camicie, il resto sono fotografie, chiavette e un quadernetto rosso, consumato e abbastanza logoro da sembrare un reperto del post guerra. Sul quaderno in stampatello, c’è scritto Bloody, con la punta fine di un pennarello indelebile nero. John butta un’occhiata ai fogli sparsi sul letto. E’ inquieto. Nonostante abbia cercato di regolarizzare la sua vita, certi pensieri sono lì costati e forti. Percepisce un’imbarazzante paura di qualcosa che dovrebbe aver cancellato dalla propria mente. No, certe cose non si possono cancellare. Certe cose non terminano, non muoiono con il tempo. I delitti possono cancellarti l’amaro in bocca e lo strazio alla bocca dello stomaco ma le visioni permangono e d’impuntano a resistere in quella parte del cervello che non si riesce a controllare.

Sta già camminando verso il bagno, nel corridoio buio strippato di foto di cantanti blues, quando si ferma. La sua mente ritorna al caveau degli scheletri del piccolo Murphy, un vero e proprio tempio della morte, concepito per intrappolare il dolore e le ultime sofferenze delle sue vittime. Fa mente locale a ogni cosa, ogni disposizione delle ossa, ogni cimelio rimasto addosso ai cadaveri. C’è qualcosa che gli manca, anzi non sono le cose ma i rumori, i suoni. Qualcosa che rende tutti gli altri siti scoperti negli ultimi sessanta anni, simili. Quello che sembra impossibile, pensa lui, forse non lo è. Entra nel bagno e accende la luce. Quel brusco lampo chiaro è una vera folgorazione.

Il ragazzino è troppo giovane e non potrebbe aver concepito, rifinito e ultimato quel paradossale crimine, inoltre è troppo macabro persino per un undicenne, vivere in mezzo agli scheletri, in quella sedia posizionata al centro dell’ammasso di ossa, come per ospitare un sorvegliante o qualcosa del genere. “Qualcosa del genere” erano le parole che lo avevano colpito di più. Non c’erano armi nel nido dell’assassino solo una marea di vestiti, come se le vittime si fossero spogliate ma non era così, poiché le vittime erano state fatte a pezzi e allora come si spiegano i vestiti indossati, le scarpe e tutto il resto?

Vayden ha finito di radersi. La sua camicia bianca non nasconde il peso del corpo ma è una cosa a cui lui non da alcun peso. L’abito è stato stirato e appeso al pomello della porta.

“Dieci sterline per stirare un abito? Che cazzo di paese ai confini della realtà!” apostrofa amaramente e infila il cellulare con il portafogli nella tasca posteriore dei pantaloni.

“Hanno ragione i Dalek a volerli invadere, sono dei mutaforma che succhiano soldi ai forestieri.”

Esce dall’hotel con i pensieri che si compattano come un puzzle quasi a buon fine. Qualcuno forse emula “Bloody” oppure il mostro ha due vite?  Non è abito all’aria fresca ad Agosto. Fissa la strada in cerca del suo ospite.

Una moto si ferma davanti a lui. L’uomo si toglie il casco e scende dal bolide.

“O’Brian!”

Vayden lo guarda e fissa la sua divisa molto casual.

“Direi che non mi sono mai mosso da Washington. Anche il continente soffre la globalizzazione.”

“No, non sono in servizio. Posso darti del tu? Salta!” e gli consegna un casco che a fatica gli sta sulla testa.

“Prima di saltare come dici tu, ho una domanda?”

“Va bene, ma abbiamo fretta, io non posso accedere alla zona d’indagine. Dobbiamo inventarci qualcosa.”

“Sei un poliziotto o cosa?”

“Sono anche una donna delle pulizie nel dipartimento, un meccanico, uno che dirige in traffico, un autista del capo, un buon investigatore e un pessimo ballerino. Io sono l’ultimo della catena alimentare della polizia di Londra, quelli della Scotland Yard prendono molto sul serio i casi di omicidio e a noi gente da uniforme, lasciano qualche piccolo indizio da spolpare, questo quando loro non hanno voglia di cercarsi i testimoni o di scomodarsi per prendere le impronte. Manca solo che puliamo loro il culo e siamo a posto!”

“A voi il lavoro sporco e a loro le lodi!”

“Qualcosa del genere. Ma a loro piacciono i giornali, farsi fotografare con le alte teste del governo, insomma un poco di ancien regime per combattere “la crisi” che ha colpito anche la sacralità di Scotland Yard mettendo in dubbio i soldi che si spendono per mantenere lor signori.”

“Ci sono signorie anche da noi, FBI o CIA oppure dipartimenti di cui nessuno conosce il lavoro che fanno ma solo le sigle e sono così segreti da non riconoscersi tra loro. Però il lavoro sul campo resta di quelli come noi, soldati che vanno bene in tempi di pace e di guerra.”

Prima di infilarsi il caso O’Brian si confessa.

“Io ho studiato sai. Ho studiato ogni dettaglio del tuo caso. Ho riguardato le foto anche se vecchie e non nitide, le ossa, i pezzi di carne appesi alle tende come ciondoli o qualcosa del genere.”

“Qualcosa del genere …”

“Cosa?”

“Credo che ci sia dell’altro. Chiamala percezione. Bloody non è un comune serial killer, uno che ammazza e ti fa impazzire per catturarlo. Non è nemmeno un vero cannibale, probabilmente un perverso. Credo che non gli importi, è così sicuro di non essere preso che si può permettere di fare dell’altro con i cadaveri. Credo che ci sia un collegamento.”

“Un emulatore?”

“L’ho pensato in un primo momento ma è impossibile emularlo. Ha una firma, una fisima o peggio, un modus operandi suo. Non può farne a meno, come se fosse la sua unica via possibile per uccidere … o qualcosa del genere.”

“Allora non si può entrare?”

Vayden fissa il campo transennato e i reporter che fotografano con obiettivi, tanto grandi da fare sembrare un telescopio un giocattolo.

“E quelli?”

Vayden indica agli uomini nell’auto scura appartata alla fine della via.

“Credono che qualcuno d’interessante potrebbe ritornare sulla scena, ma per lo più lo fanno per le stazioni televisive, si mettono in mostra e attendono interviste, dove possano mostrare la propria superiorità e competenza. I reporter pescano nella palude della notizia qualunque cosa, idee, pettegolezzi, supposizioni che garantiranno per più di un mese, novità sul crimine più orrendo di Londra dopo le sevizie di Jack lo Squartatore.”

“Stanotte si potrà entrare. Torniamo dopo. Non è un posto trafficato e non piace nemmeno ai delinquenti perché così appartato da non offrire loro alcuna via di scampo. Direi che sarebbe meglio fare colazione e parlare degli scheletri.”

Dopo venti minuti di traffico, Tim O’Brady si ferma davanti a un locale da cui proviene un cattivo odore di fritto. Risponde per un attimo al cellulare lasciando intravedere il suo tic nervoso a Vayden che osserva quanto un uomo possa scarnificare il proprio pollice senza nemmeno rendersi conto che sta sanguinando.

“Dobbiamo proprio?” domanda Vayden non proprio convinto di quel posto e perplesso sul tizio che lo sta accompagnando in giro. Tim si rende conto di aver esagerato con le pellicine e si dirige verso il bagno, ma mentre cammina, parla a voce alta.

“Ho saputo che hai una passione per le frittelle di mele. Questo è il mio posto preferito, servono certe torte di mirtilli da restarne innamorati e la birra è discreta.”

Entrano e John ha la conferma di quello che pensava, il posto è davvero disgustoso. Si gira per andare via, ma una ragazza con il volto pieno di lentiggini fa la sua comparsa da dietro il bancone e assieme a lei un piatto pieno di cose fumanti. L’odore di zucchero a velo è così forte e così invitante che Vayden torna indietro e si ferma davanti ai dolci quasi in estasi.

“Che t’avevo detto? Mai criticare l’oste dall’abito.”

“Ma come?”

“Tua madre.”

“Hai chiamato mia madre?”

“In verità l’ha fatto lei. L’ha saputo dal dipartimento che ti era stato proposto un viaggio a Londra e ha chiesto il dipartimento di riferimento e di dirti che, adesso ti ripeterò le sue parole “lui non ha mai avuto un vero rivale” e che ti piacciono le frittelle di mele e che Ciob sta bene.”

“Altro?”

“No. E’ una donna molto testarda e se vuole, ti dice qualcosa altrimenti ti pianta la conversazione senza nemmeno darti il tempo di salutarla.”

Vayden sorride.

“Già, è proprio Louise.”

Dopo aver mangiato le frittelle, entrambi si fermano a fissare i bicchieri ancora colmi di birra.

“Cominciamo da capo, ti va?”

“Sono qui per questo.”

“La ragazza che l’ha scoperto tutto dov’è?”

“Credo a Belfast.”

“E’ stata interrogata?”

“No. Nessuno sa che è stata lei la prima a scoprire quel massacro. Lei ha perso la memoria e quel giorno ha avuto un terribile incidente.

“Bene. La ragazza scopre il posto e poi ha un incidente. In questo lasso di tempo lei che ha fatto?”

“E’ rimasta qualche giorno in ospedale, poi l’ho ospitata a casa mia perché meno periferica per le visite mediche e per facilitare la sorella che è sulla sedia a rotelle.”

“Altri famigliari?”

La mano veloce di Vayden continua a scrivere in un piccolo block notes con fogli bianchi.

“Morti in un incidente.”

“La ragazza dopo l’incidente cosa ha raccontato?”

“Nulla. Ha sempre sofferto di grandi dolori alla testa e ricordava soltanto l’attimo prima dell’impatto, ovvero il volo, poi nulla.”

“Il suo incidente?”

“In bicicletta, ma ci possiamo spostare da qui, andiamo a prenderci un’altra birra e poi ti mostrerò le foto degli scheletri.”

“Non è possibile vederli?”

“Sarà quasi impossibile. Non ho accesso ai file e pertanto non posso indagare direttamente.”

“Ma io sì.” O’Brady lo guarda.

“Quasi” conclude Vayden.

“E’ meglio di niente.”

“Andiamo a casa mia, prendo un po’ di cose e le mettiamo insieme.”

“Anche delle notizie in più su questa Tesla.”

“Ho i suoi disegni fatti in ospedale.”

“Ah!”

“Che c’è?”

“Resta qui e aspettami.”

“Hai visto qualcosa?” ma Vayden era già fuori.

La camminata è lunga abbastanza per fare sbollire i nervi dell’uomo. Ogni volta che fissa il volto imbarazzato di Jordy, Vayden avrebbe la voglia di ucciderlo.

“Che ci fai qui?”

“Ti ho seguito, non si vede?”

“Jordy che ci fai qui?”

“Amico che vuoi che ti dica che avevo paura? Ebbene avevo anzi, mi sto cacando sotto dalla paura! Quello mi mangia se mi trova, se si ricorda il mio nome.”

“Nessuno che non abbia fumo nel cervello si ricorda di te … Jordy.”

“Dai non essere così severo con te stesso. Stringimi la mano e dimmi che sei contento di vedermi.”

“E se ti facessi arrestare?”

“Ci sono già abbastanza grandi spacciatori in questa città che non saprebbero cosa farsene di uno piccolino come me.”

“Che vuoi?”

Vayden lo fissa con abbastanza cattiveria da impaurire un uomo grosso quanto lui, ma su Jordy non fa effetto.

“Quello che vuoi. Ti presto soldi, ti do una mano, ti porto la cena in camera, ti metterò i vestiti fuori dalla porta per lo stiro ma per favore non mi lasciare solo.”

“Qui non puoi fermarti. Torna in albergo. Ti chiamerò io.”

“Senti, guarda, ho noleggiato una macchina, da signori, scura, vetri oscurati, ti farò da autista.”

“Non se ne parla Jordy.”

“Ti cancellerò anche il debito.”

“Ok.”

Vayden gli fa cenno di aspettare e torna da O’Brian.

“Ci vediamo davanti a casa tua. Lascia la moto e portati solo i documenti, abbiamo un autista e gli mostra il suo informatore.”

“Ti fidi?”

“No. Ma in questo momento abbiamo bisogno di pensare solo al caso mentre alla mobilità ci penserà il nostro amico Jordy.”

“E Jordy … che fa?” domanda perplesso Timothy.

“Lo spacciatore, ma tranquillo. E’ uno un po’ pazzo ma ama troppo la vita per giocarsela male. Mi ha dato una mano in qualche caso e gli devo un favore.”

“Ma?”

“E’ uno che potrebbe muoversi di notte in ogni angolo di questa città e senza destare sospetto.

 

Moriremo

“Chi ci dice che non sia tu Bloody?”

“Nessuno. Chiunque in questa città potrebbe esserlo.”

“Tu e la ragazza però siete gli elementi più indicativi del puzzle.”

Una raffica di colpi da sparo li spinge verso una stanza al secondo piano.

“Meglio dividerci sui due lati. Io est e tu ovest.”

Vayden accetta il piano e corre verso il lato ovest del secondo piano. Tim invece sale verso il terzo piano, dove pensa di aver sentito il rumore di un fucile che veniva caricato.

“Irlandese?”

La voce di Vayden irrompe nel silenzio.

“Vuoi farci ammazzare?” grida O’Brady.

“Credo che il nostro amico sia solo e se non ha il dono dell’ubiquità, potrà prendere soltanto uno di noi due.”

“E allora?”

“Invece di salire scendi. Non potrà gettarsi da diciotto metri. Copri il perimetro e attendi Jordy che ti darà una mano, nel frattempo io lo terrò occupato.”

Altri spari si susseguono nel buio. La torcia di Vayden colpisce le pareti imbrattate di graffiti osceni e di liquami essiccati.

“Che c’è venuto a fare? domanda Tim urlando.

“Credo per lo stesso motivo per cui noi ci troviamo qui. E’ venuto a ispezionare la sua cassaforte vuota. E’ molto attaccato ai suoi cimeli, e prosegue sottovoce, come un bambino al nascondiglio delle sue caramelle.”

“E allora?”

“Una volta finita questa piccola guerra, dovrà decidere cosa fare con noi e con la su vita ma temo che lo abbia già fatto.” l’ultima parte della frase la finisce sottovoce.

Altri spari arrivano da pianterreno.

“Ma qui ci sono altri che sparano all’impazzata! Ha portato rinforzi?” grida nuovamente O’Brady.

“Credo che siano i nostri amici imbalsamati, erano stanchi di starsene nella loro macchinetta scura. Si erano stancati di caffè freddo e volevano svuotare un pochino il caricatore prima di chiamare la stampa. Direi che ci daremo appuntamento da te!”

Un boato fa saltare le scale dei due lati dell’edificio.

“Vayden! Vayden! Sotto la grondaia! La vedo!!!!”

Urla di uomini e raffiche di mitra illuminano il buio del campo intorno ai depositi. Jordy pigia sull’acceleratore spinge l’auto fin dentro l’edificio. Due in giacca e cravatta cadono sopra il cofano mentre un terzo è impegnato a sparare contro un’ombra a più di una ventina di metri da lui e con il fucile carico. Jordy si lancia dall’auto e corre fuori dall’edificio per chiamare Vayden. Il suo cellulare prende a squillare mentre il suo corpo fa tremare le grondaie dove si stanno staccando le bretelle a una a una, le bretelle che inchiodano al muro i gocciolatoi. Vayden cade. L’urto per una massa così grande è forte e doloroso, ma la sua preoccupazione è per l’abito di troppa buona fattura per rovinarlo in quel postaccio. L’uomo in giacca scura, sicuramente un agente di Scotland Yard,  ricarica la pistola e inizia a sparare nella sua direzione.

“Sono un poliziotto! Fermo!”

“Che ci fai qui? E’ una zona proibita!”

“Sono qui per lo stesso motivo per cui voi vi siete fermati! Per aspettare l’assassino!”

Il cellulare di Vayden squilla. Lui legge il display, è Louise, che tempismo del diavolo, pensa Vayden. Lo spegne e si concentra sugli avversari.

“Potresti essere tu! Getta la pistola o sparo!”

“Mi chiamo John Vayden! Controlla!”

Ma il fuoco ricomincia dal fondo del deposito e il nemico si spinge sempre più avanti finché Jordy da una finestra del cortile vicino al killer, spara scaricando tutto il caricatore nel buio. Il fucile smette di sparare e i due poliziotti restano a fissarsi con le pistole che puntano una sull’altro.

“Adesso mi credi?” chiede Vayden all’uomo che ha dinanzi,  e questo gli risponderebbe se una pallottola non gli entrasse in bocca e non gli trapassasse il cranio da parte a parte. L’uomo sbaraglia gli occhi e non ha nemmeno il tempo di emettere un suono perché stramazza a terra, morto.

“Sei un emulatore?”

Uno sparo gli sfiora la spalla e un secondo colpo passa così vicino all’orecchio del poliziotto da ferirlo.

“Se sei Bloody perché non mi uccidi! Fallo maledetto bastardo perché se io ti avessi di fronte, giuro che non ti risparmierei.”

Gli spari di Jordy e Tim inseguono l’ombra in fuga.

“Ehi tutto bene?” domanda O’Brady.

“Sì mi ha lasciato vivo. Ma si è lasciato dietro altri morti. Che facciamo?”

“Io ho visto tutto e posso dire che non era alto. Persino uno come me se gli saltava addosso lo avrebbe fatto nero.”

“Nero di che Jordy? Ha ammazzato senza problemi tre agenti di Scotland Yard, ti avrebbe ucciso se avesse voluto. Sta giocando e sicuramente non sarà l’ultima volta che lo incontreremo. O’Brady chiameresti la ragazza? Vorrei una conferma.”

“Tesla? figurati non potrà mai essere lei.”

“Tu fallo. Io ragionerò su come uscire da questo casino.”

Un lampo strappa il buio e un tuono scuote l’intero edificio.

“Sta arrivando la pioggia. Meglio lasciare qui i corpi e tu Jordy avviserai la polizia di aver sentito degli spari. E’ passato di qui a vedere la bara vuota, adesso avrà del nuovo lavoro da fare.”

Un cellulare squilla a ritmo di samba e Vayden fissa O’Brady a sua volta sbalordito. Jordy corre verso l’ingresso da dove spunta Tesla, spaventata e completamente zuppa di pioggia.

“Sono tornata. Non volevo restare da sola.”

“Da quanto tempo?”

“Il taxi è andato via dieci minuti fa, ho attraversato il campo e ho sentito gli spari.”
“Perché sei tornata? Tua sorella sa che sei qui?”

Tesla si avvicina e Vayden guarda le mani della giovane, sporche di sangue.

“Cosa ti sei fatta alle mani?”

“Credo il filo spinato.”

“Ma le tue scarpe non sono sporche di fango e hai detto di aver attraversato il campo sotto la pioggia?” afferma Tim, preoccupato delle lacune temporale che lei nasconde.

“Beh, ho cercato di non andare proprio nelle pozze d’acqua, ho già avuto un’esperienza del genere ed è stato scioccante.”

Tesla vede gli uomini morti e resta a fissarli.

“Sono morti.”

“Si direbbe.” replica scocciato Jordy.

“Chi è stato? Non è che magari ritorna a ucciderci?”

“Potrebbe.” afferma Vayden.

“Sei arrivata un po’ troppo velocemente. Mi dici perché sei tornata? Jordy! Pulisci! Prendi i loro fucili e le pistole, temo che ci serviranno, vai nella loro auto e cerca i caricatori, prendi anche quelli. Non lasciare tracce. O’Brady abbiamo la tua benedizione?” Tim non risponde ma continua a essere pensieroso.

“Non hai visto nessuno uscire dai depositi? Jordy occupava i due ingressi e l’avrebbe visto ma se è uscito dai campi, tu dovresti averlo incontrato.”

“No. Io non ho visto proprio nessuno, dagli spari in poi.”

“Potrebbe essere ancora qui.” grida Jordy mentre corre verso l’auto con le braccia cariche di armi.

Un altro tuono squarcia il cielo e la pioggia battente e Tesla scompare.

“Dov’è andata? Jordy?! Jordy!” domanda Vayden.

“Tes?” Tes?” grida O’Brian.

“Oh Golia … tu morrai Golia …”

“Ma è la voce di Tesla!!! Solo l’assassino conosce questo ritornello, come Diavolo fa a conoscerlo???? Fate attenzione! Potrebbe essere lei l’assassiona!” e alza la pistola verso le ombre dinanzi.

“Vayden, non sparare. Aspetta!” bisbiglia O’Brian.

O’Brian esce dall’edificio. Vayden continua a cercare di illuminare il deposito ma è troppo grande perché la luce possa rivelare qualcosa d’importante. Il suo cellulare continua a vibrare nella tasca dei pantaloni ed è insistente.  La voce di Tes ha smesso di cantare. I morti sono riversi a terra e il loro sangue è già un lago sotto i corpi.

“Ci guarda.” parla sottovoce Vayden.

Jordy arriva di corsa e ferito.

“Cazzo maledetto, qualcuno mi ha sparato!!!! Ho lasciato l’auto con le portiere aperte e sono fuggito. Bloody mi ucciderà!!!!!”

“Se l’avesse voluto, l’avrebbe già fatto.” e il cellulare continua vibrare abbastanza a lungo da vedere la faccia perplessa di Jordy, fissare quella di Vayden.

Un odore forte e acido penetra nello spazio dell’edificio. Vayden fissa i corpi dei tre agenti morti ma è costretto a lasciarli a terra per correre verso l’uscita. Jordy prova a sparare al buio ma senza colpire altro che le pareti.

“Jordy smettila! Non lo colpirai così! Vieni via! O’Brady! Dove sei?”

“Ho trovato Tesla è svenuta. Venite fuori ad aiutarmi!”

Vayden compone il numero di Louise. Lei risponde subito alla sua videochiamata.

“Qualcosa non va?”

“Mi ha chiamato qualcuno. Mi ha detto che presto saresti morto e vorrei che tu tornassi a casa ovunque ti trovassi ora.”

“Sono a Londra. Lo sai che non posso tornare. Chi era?”

“Non saprei. Una voce, sottile, acuta. Parlava in falsetto. Mi ha detto che avevo giusto il tempo per l’ultimo saluto e che mi avrebbe risparmiato. Mi ha fatto scrivere queste parole, caro John, le debolezze uccidono, hai avuto tutto il tempo per rifarti una vita e per dimenticarmi ma non l’hai fatto. Io dovrò ucciderti ma non temere, sarà per una giusta causa. Hai ragione, io sono sempre un passo avanti a te e così vicino che potresti allungare una mano per trovarmi. Saluta la mamma. Oh John, ti prego lascia andare questa storia e torna a casa, non voglio perderti.” gli dice lei tra le lacrime.

“Tranquilla non ho intenzione di morire e non sono solo, sono con altri colleghi di lavoro.”

“Sì, quell’irlandese, mi sembrava più interessato a quello che avevi scoperto ... Non è di certo un tipo affidabile.”

“Sai che io non mi fido di nessuno.”

“Ho sognato tuo padre e tuo fratello. Non è stato un bel sogno. Io ho paura John. Tu non lasciarmi da sola, è una vita che affronto questo schifo di vita e mi rendo conto che le cose migliori sono quelle fatte vicino a quelli che ami. Io ti voglio bene lo sai. Stai attento!!! John …”

“Tranquilla. Ti prometto che dopodomani sarò a casa. Ceniamo insieme e ci spariamo dei Fricky Fries davanti alla tele, o meglio, ti porterò a cena nel posto dove Mad ed io ci siamo sposati, so che ti piaceva quel lago …”

“Sì, lei continua a piangere, comunque sappi che ti voglio bene. Succedono cose strane John che né tu né io possiamo comprendere. Non hai nessun conto in sospeso con il tuo lavoro, ricordatelo! John? John mi senti? Jo …”

Un altro tuono e molto più vicino a loro strappa un urlo al cielo. La conversazione con Louise è finita, quando l’indice di Vayden ha chiuso improvvisamente la comunicazione. L’avrebbe chiamata dopo, dall’aeroporto.”

“Mammina ti manda i saluti?” lo canzona Jordy.

“Fatti i cazzi tuoi, è l’unica cosa che è riuscito a rispondere, sai Jordy, non c’è nulla di buono al mondo salvo che non ci sia qualche pezzo di merda che decida di morire ammazzato prima che lui imbratti il mondo con il suo schifoso essere.”

Una sferzata di pioggia investe tutti quelli vicini a una finestra. Jordy la schiva ma per farlo si appiccica al muro che lo fa schifare più del pavimento dove i morti sono rimasti incollati per mostrare i buchi nelle giacche scure che non sono bastate per difenderli. Jordy fissa Vayden poi ruba un’occhiata all’esterno.

“Calmati amico. Io sono qui per aiutarti.”

“Sì, si … come no?”

L’inverno ha preso tutto il corpo di Londra e nemmeno tre ore dopo lo sfiato di pioggia, un agglomerato di nuvole fredde fascia tutta l’atmosfera. Il cielo sembra persino più chiaro e quasi roseo. La città respira l’aria gelida e una sottile lastra di ghiaccio si deposita sopra le pozze d’acqua. La natura respinge i sogni caldi e si avventa con morsi decisi sopra gli edifici e le cose che riparano uomini e qualsiasi essere respiri.

L’auto si muove velocemente verso l’indirizzo stabilito. Nell’abitacolo l’aria calda si mescola all’umore dei passeggeri. I quattro occupanti restano in silenzio ma solo per poco tempo. Il primo a iniziare la sequenza di un ragionamento è Vayden. A occhi chiusi cerca il filo di un caso lungo decenni. Come può un assassino colpire nell’arco di cinquant’anni? Che abbia lasciato un erede? Che ci sia un emulatore? Troppi punti in comune perché sembrino crimini di mano diverse.

Il piccolo Murrayl’hanno trovato al pronto soccorso, riverso a terra e sotto shock, dopo questo incidente, quando lui era sfuggito alla sorveglianza per scendere o per fuggire dall’ospedale, non si sa, è caduto in uno stato catatonico. Epilettico avevano diagnosticato i specialisti ma lui ricordava bene i suoi occhi, inespressivi, freddi, innaturali. Chiunque l’abbia visto dopo il suo internamento nell’Istituto Psichiatrico o abbia provato a parlarci, ha trovato davanti a sé un vegetale cui hanno espiantato l’anima. Di soppiatto si rivolge a O’Brady.

“La ragazza Cat, cui avete trovato lo scheletro, si trovava un anno fa in un ospedale degli Stati Uniti e precisamente al pronto soccorso di Hollyhill, chi c’era con lei quella notte?”

Vayden finisce la domanda e nel contempo cerca frettolosamente il cellulare che usa per chiamare un certo amico al dipartimento di polizia che ha visto le sue ferie come un segnale divino poiché John Vayden non era mai andato in ferie, mai mollato il lavoro nemmeno per un giorno di vacanza.

“Sono io. Mi puoi restituire il favore. Ora!”

La voce dall’altra parte gli ricorda che è più in alto in grado di lui.

“Sì ma io ti ho sostituito durante tutte le ferie natalizie degli ultimi dieci anni.”

“Cosa vuoi?”

“Archivio. La notte in cui Bloody è stato trovato al pronto soccorso riverso a terra, chi c’era con lui in corsia, mi servono i nomi del personale di turno e di tutti quelli arrivati in accettazione durante la notte.”

“Ci vorrà del tempo.”

“Hai dieci minuti. Mandami una foto con la lista.” e chiude.

“Grazie.” risponde la voce dall’altra parte che aveva compreso in tempo di parlare a un telefono muto.

Dieci minuti dopo Vayden visualizza il messaggio e l’allegato in arrivo da un cellulare anonimo.

“Bravo caro!” afferma a bassa voce. I suoi amici di viaggio sono interessati più al paesaggio che a quello che lui sta leggendo.

“Casa tua la puoi girare in esattamente dodici secondi.”

“Che vuoi, sono modesto.”

Jordy insiste nel guardare le due stanze che si affacciano sulla sala cucina.

“E lei dove dormiva?”

“In camera da letto, io dormivo … ma cos’è una confessione?”

“Scherzavo.”

Jordy chiude gli occhi e comincia a girare per l’appartamento finché non si sente un colpo secco e un grido. Vayden e O’Brady scattano.

“Che è successo?”

“Temo di essermi lussato la caviglia. Cazzo! Cazzo che dolore! Forse dovrò andare in ospedale. Mi accompagnate?”

“Adesso ti metti buono su una sedia altrimenti ti sparo.” replica Vayden mentre recupera un poco di ghiaccio.

Qualcuno bussa alla porta e Timothy la apre. L’uomo che si presenta dice di essere anche lui un agente federale.

“Noi non abbiamo un’identità pertanto anche se vi dicessi il mio nome, sarebbe una bugia.”

“Ma tu almeno te lo ricordi?” replica, ironico Jordy che litiga con il suo panno pieno di cubetti di ghiaccio che continuano a cadere sul pavimento.

 

la fine

“Tenente venga qui!!!!”

Il Capo di tutti gli agenti presenti è tanto giovane da sembrare un ragazzone con molte altre vittorie dietro la porta. I suoi passi sono lenti e colpiscono lì’asfalto con determinazione. ha qualche ricciolo ribelle e le scarpe sportive sotto l’abito elegante, ma lui sa che le vittorie richiedono lunghe corse a ostacoli da farsi con il materiale adatto.

“Che cosa abbiamo qui?”

Lui resta fuori a firmare carte e permessi per chiudere la zona ai passanti e ai curiosi.

“Un mattatoio signore. Jackson e Stevens stanno vomitando dietro la porta d’ingresso. Io ho dato di stomaco prima di loro. Tenente Harp, non ho mai visto nulla di simile in tutti i miei trent’anni di servizio.”

Una lacrima involontaria scende sul volto del veterano che cancella subito con il braccio. Potrebbe non essere da uomini piangere ma quello era uno scenario fuori dal particolare.

Harp supera la soglia ed entra nel piccolo appartamentino. Non ci sono tracce di sangue all’ingresso ma appena superata la soglia di casa trova uno spettacolo difficile da digerire.

Carne umana e sangue e qualcosa che sembra una poltiglia di viscere lontane da scheletri perfettamente pulititi, quasi fossero stati lavato con un acido. Nonostante tutto il macabro la cosa peggiore probabilmente era il fetore, un odore permanente dolciastro che ti si attaccava addosso una volta penetrato nella casa..Nonostante il suo sangue freddo, Harp è costretto a mettersi la mano sulla bocca per fermare qualsiasi conato voglia indicargli la difficoltà di accettare quello scenario spaventoso.

“Stavano bevendo credo. Ci sono dei bicchieri con la birra rovesciati e cocci di vetro ovunque. I vestiti sono piegati accuratamente e accatastati. Non ci sono armi, di alcun tipo, e non è stato sparato alcun colpo sebbene ci siano dei fucili nella stanza, accanto e le pistole che avevano con loro sono sotto gli scheletri. Ecco i loro documenti, non sembra sia stata una rapina, ci sono circa tremila sterline e vari oggetti personali di valore. I pezzi di carne saranno analizzati e sistemati per ogni salma per adesso possiamo solo sperate un riconoscimento dalle arcate dentali. Sono quasi sciolti e c’è un liquido dolciastro che si sente persino nell’aria, lo sente?”

“Spalancate quella dannata porta e uscite!”

Harp osserva che nemmeno il coroner riesce a conservare il proprio sangue freddo. Il medico appoggia la propria borsa da lavoro a terra esce di corsa dalla casa per vomitare dentro un vaso di fiori secchi.

“Nessun sopravvissuto? E i testimoni sergente Laraby?”

“Nessuno ha sentito o visto nulla. Come se non avessero gridato mentre li facevano a pezzi. Non ci sono siringhe, o impronte e la porta era chiusa dall’interno. Le finestre sono chiuse e la moto fuori è del proprietario della casa, anche lui deceduto.”

“Ho notato che ha lasciato loro i capelli.”

“Io ho visto un paio di occhi galleggiare nel water. Erano azzurri e l’unica vittima con gli occhi azzurri pare essere stata la donna, almeno dalla fotografia che abbiamo sul suo documento di identità.”

“Abbiamo un serial killer e temo che dovrà essere avvertita anche Scotland Yard.”

“Sì tenente e i corpi?”

“Fotografate, impacchettate ogni pezzettino di carne e portate via gli scheletri. Sigillate la casa, ci sarà lavoro per la squadra omicidi e per parecchi giorni. Catalogate ogni cosa e bussate nuovamente a tutte le porte. Questo è stato un omicidio commesso in pieno giorno, forse qualcuno canterà.”

Al terminal 2 dell’Aeroporto Internazionale di Heathrow  un uomo zoppicando, spinge il suo trolley pieno zeppo di riviste e gadget di Londra. Entra nell’ascensore e schiaccia il pulsante del primo piano.

Ha gettato pochi minuti prima il mozzicone dell’ultima sigaretta che gli era rimasta nel pacchetto di Marlboro. Guarda il suo cronografo d’acciaio dell’Aereonautica Militare e prende dal portafogli tre banconote da cinquanta sterline. Le stringe nel palmo e entra nel negozio di telefonia con un grande sorriso stampato sulla bocca.

“L’ultimo modello, vero?”

“Sì. Davvero bellissimo.”

“Lo prendo. Adoro la tecnologia e voi avete dei prezzi accessibili.”

“Glielo incarto.”

“Direi che potrebbe già entrare in servizio, non crede?”

“Ha ragione. Anch’io se l’avessi lo userei subito. Paga con carta o …”

“In contanti. Per un turista la spesa migliore è quella che si regala durante le vacanze.”

“In partenza?”

“Sì torno a casa.”

“Volo?”

“Belfast 1719.”

“Buon viaggio.”

“Grazie. Lei è gentilissima.”

Pochi passi avanti si siede su una panchina. Scarta il suo cellulare e inserisce la scheda. Dalla tasca prende un oggetto di carta consumato su cui c’è scritto un numero. Lo legge e digita sulla tastiera l’intera cifra.

“Tesla?”

“Sì chi parla?”

“Sono Jordy Cluster, mi manda O’Brian e l’agente Vayden a pensare a lei finché non avranno sistemato le cose.”

“Va bene l’aspetto.”

“Arriverò tra poco meno di quattro ore. Sarà bello rivederla.”

“Lì va tutto bene?”

“Credo di sì, per qualche ora saranno impegnati nel cercare

Jordy apre il trolley e controlla i suoi cimeli: un dente, una falange, un pezzo di scatola cranica e una costola, tra le riviste sui vari interessi e possibili investimenti in Irlanda pesca il suo biglietto con il passaporto dopodiché con il biglietto in mano avanza zoppicante verso il suo checkin, lasciandosi dietro un odore dolciastro.

Le debolezze uccidono. Più il cuore umano è volubile più si piega a un lato oscuro. La folla cammina determinata verso il proprio obiettivo poi, davanti alla paura si blocca e la stessa gente che ora lo sfiora, ignora di aver camminato in mezzo alla morte. Jordy si apre a un grande sorriso. Qualunque cosa lui sia o fosse diventata, poteva avere una libertà che pochi conoscono se non dopo una lunga prigionia. Dondolando sulla gamba con la caviglia meno gonfia, lentamente si mescola alla gente che riempie l’aeroporto, ma ovunque in quello spazio si sente chiaramente la sua voce cantare sopra tutto il brusio e gli annunci delle partenze dei voli: Baby, I need your lovin', I got to have all your lovin', Baby, I need your lovin', Got to have all your lovin' …

Sulla carta è routine. Imparare a essere altro

Mi fa paura sai?

Chi? Chi ti fa paura? Pensavo non avessi paura di niente.

le donne. Le donne mi fanno paura.

Ne so qualcosa.

Ti molesta?

Mi vuole e

E ttu non la vuoi? E’ così brutta?

No. Ma è di un amico.

Qualcuno di noi?

Ma che dici?

Allora fregatene e vai dove ti porta il cuore.

Un tradimento?

Non è tradimento se vi amate.

Amarla? non so. So che la desdero e che mi arde dentro come un fuoco.

Ti capisco, sorride George pensando alle notti scatenate con Cthleen.

Forse avresti qualcosa da imparare.

Credi che si possa imparare qualcosa da una notte di sesso.

Credo che qualsiasi sesso se fatto con fuoco lasci una traccia attento a non soffrire dopo. Le cicatrici sono lunghwe a guarire.

Parla l’esperto.

Io amo una creatura perfetta ma temo che non lo saprà per un po’ di tempo.

Perfetta dici?

“Tu sai chi siamo?”

“Americani, direi dall’accento. Dei pappagalli a guardare il vostro abbigliamento. Solitamente il capo ha qualcosa che lo contraddistingue dalla massa, un carisma proprio che voi non avete.”

I due si guardano.

“Nemmeno tu tesoro.”

“Io sono solo una locandiera. Voi credete nelle superstizioni?

Loro la fissano.

“E nelle streghe? quelle donne cattive che praticano la magia nera praticamente dalla culla. Non avete famiglie, non temete per loro? Se fossi in voi non mi crederei immune a certe cose. Noi irlandesi siamo superstiziosi e in giornate come questa, nebbiosa, fredda, una cosa da non fare mai è sfidare il nemico. Noi lo attacchiamo sempre frontalmente mai alle spalle.”

“Volevi una cartolina?”

“Credete che potrei avere paura di voi solo perché americani? Siete delle piccole spie in mezzo a certi ceceni che squartano prima di torturare.”

Cathleen alza le mani per fare salire la manica del cappotto e mostra loro una lunga ferita dietro il braccio destro.

“Questo non è un graffio e voi non sareste capaci di farlo senza uccidere il prigioniero.”

Le due spie fissano la ragazza.

“Non siete molto coraggiosi. Mi legate, mi puntate una pistola e credete di mettermi paura? Ragazzi quanto valete? Un milione, due, sei milioni? Potrei comprare le vostre anime per l’eternità ma oggi non ho voglia di spendere.”

“Bene.”

La pistola continua a pungerle il fianco mentre lei sorride e l’uomo alla guida fissa i suoi gelidi occhi verdi dallo specchietto retrovisore.

L’auto prosegue per una ventina di miglia e si ferma davanti a una piccola chiesa sconsacrata e senza tetto. Intorno solo alberi e colline brulle.

“Noi non siamo mai stati, come dire, accomodanti con quelli che in qualche modo hanno molestato la legge. Questo non è il suo territorio.”

Lei fissa le mani legate e poi guarda i volti dei due uomini.

“Vi scomodate in due per una ragazzina? Perché non mi avete ucciso se pensate che io sia …”

“Noi sappiamo chi lei sia. Non temiamo il “Graffio dell’Angelo” e credo che questa pagliacciata debba finire. Vogliamo sapere, dove tiene la merce.”

“Perché ve lo direi?”

La canna della pistola passa dalla tempia e le entra nel fianco. Lei tace un lamento ma loro sanno di farle male.

“Perché potrebbe soffrire?”

“No vi prego no. Il dolore non lo sopporterei piuttosto uccidetemi o meglio, facciamo sesso?”

Lei spalanca le gambe e sorride all’uomo seduto vicino a lei.

“Mai quando faccio affari bellezza.”

“Che peccato, potevi assaggiare una vergine con il talento naturale per il crimine. E poi non lo direi a nessuno. Facciamo una cosa e tre e vi dirò qualcosa se mi dimostrate che siete dei veri maschi altrimenti, uccidetemi, torturatemi, non ci sarà nulla da scoprire.”

“Una scopata? Non credo tu sia vergine. Sembri più una puttanella con il fuoco nella figa.”

“ E voi non vorreste cavalcarla prima di farla parlare di cose serie? Insomma c’è chi chiede un’ultima sigaretta e chi implora un’ultima mezz’ora di sano sesso, sempre che voi riusciate a non venire nei primi dieci minuti, ragazzi, e si  passa la lingua sulla labbra.”

“La signorina non ci crede uomini. Jim direi che dieci minuti possano bastare per schiarire i pensieri di questa signorina.”

“Stai scherzando vero? Potrai scoparti tutte le irlandesi che vuoi ma dopo che abbiamo sistemato la faccenda.”

“Dai ragazzi è gratis e poi potrete raccontare di aver fatto sesso con la più famosa criminale d’Irlanda, non vi crederà nessuno ma il vostro cazzo ve ne sarà grato. Già li sento nei vostri pantaloni chiedere di assaggiarmi.”

“Jim, dieci minuti solo per me. Tu non fallo ma questa ha bisogno e noi non siamo degli animali che neghiamo un desiderio a un prigioniero. Ci sta supplicando.”

“Mettile qualcosa in bocca. Non voglio sentirla né parlare né gridare.”

Il gusto del fazzoletto era secco e la saliva era l’ultima preoccupazione. Cat sentiva il peso dell’uomo e del suo pene che godevano entrambi della sua fragilità. L’amico invece restava fuori a guardare con aria gelida e schifata anche se lei vedeva bene la sua erezione.

I primi dieci minuti non ha sentito dolore ma bruciore. Le ricordava la prima volta che era stata penetrata da suo padre sbronzo. Quella cosa l si era piantata dentro la pancia fino a non lasciarla più e quando aveva smesso e si era ritirata moscia e bagnata tra le gambe, lei aveva pensato che quel fuoco le avesse bruciato tutto. Non aveva ucciso suo padre per un motivo, le era piaciuto, il dolore, le spinte, quella cosa pulsante. La sua palpitazione che era durata minuti dopo. Le era piaciuto tanto da coltivare quel segreto da sola perché lui si era già dimenticato di tutto. Non aveva più usato a proprio piacere le sbornie del padre ma aveva continuato a filtrare e a giocare con molti dei suoi amici che molto lentamente erano scomparsi come se fossero stati inghiottiti dalla strada. Erano i giorni del “Graffio d’Angelo” e tutti mormoravano che il terrorista aveva ucciso le spie o i suoi collaboratori. Non si moriva più di morte naturale, non per la gente che leggeva tra le righe degli articoli di giornale. Si moriva per mano del vendicatore, lo spacciatore più terribile che Belfast abbia mai conosciuto dall’arrivo degli inglesi.

L’uomo si era ritirato dall’auto per pulirsi e sistemarsi la camicia nei pantaloni mentre lei mostrava ancora il suo sesso bagnato al collega.

Non erano troppo lontani perché non li sentisse parlare.

“E’ solo una puttanella, sei certo che lei abbia la merce?”

“Ignori quello che sono capaci di fare certe pazze. ti ricordi Sarah?”

“La tua prima moglie, sì ha provato a sparare alla tua seconda moglie quand’era incinta.”

“Non saprei, guardala. Adesso mi fa schifo ma era così stretta che avrei detto che fosse vergine.”

“Sposatela.”

“Voleva essere scopata e l’ho scopata adesso andiamo a finire il lavoro. Sono proprio curioso di capire cosa ha in comune con il nostro amico. Lasciamola vestire prima, mi fa schifo vederla sbrodolare sul sedile.”

L’uomo avanza con dei fazzolettini di carta che lancia nell’auto.

“Pulisciti e in fretta.”

Lei chiude le gambe e gli mostra le mani legate. Lui apre le manette.

“Grazie. Sapete perché noi irlandesi siamo così testardi?”

“Tieni per te la risposta.”

“Perché ci piace credere di avere una fede che non crolla quando siamo messi alla prova.”

“Hai ucciso da sola o hai dei complici?”

“Gli imperi fondano sulla forza di un comandante e sull’obbedienza dei suoi.

“Parli come mia suocera.”

“Donna intelligente.

Vedete, l’essere di cui vi sto parlando non è chi pensate. Ma se l’abbiamo visto tutti noi. Era lì. Stava martoriando quel povero uomo.

“Quello che vedete non è quello che è.”

“Che stai dicendo.”

“Io parlo di una creatura che non si è mai mossa da Dark Town. Parlo di un essere apparentemente morto ma la cui forza psichica è fuori controllo.”

“Un Diavolo.”

“Si, presumo di sì. Può essere chiunque e in qualunque momento. La bugia che nasconde una verità che nasconde una bugia.”

 

Tracce di morte sull’erba

L’auto si ferma una trentina di metri prima del recinto. La strada ha qualche lampione cieco e molti degli edifici restano nascosti nell’oscurità. Ci sono altre auto, probabilmente di gente appartata per amoreggiare. Un grosso rimorchio mostra le gomme posteriori in panne, qualcuno le aggiusterà appena fatta alba. Non ci sono spacciatori, troppo lontana la città e la metropolitana ma si vede un vero via vai di topi che corrono lungo vecchie mura fino a imbucarsi in tane ancora meno grandi di un pollice.

Tim e Vayden entrano da sotto il recinto. E’ un’area immensa e desolata. Una pioggerellina fitta scende a tenda.

“Tutti gli assassini, penso a quelli raffinati, egocentrici, hanno un nido. Sono dei perfezionisti. Usano la tecnologia e non scappano, ti sfidano. E’ così che è sparito “Bloody”, si è lasciato dietro un bambino di meno di dieci anni, ignaro di aver compiuto crimini indicibili e capace di crearsi un fortino di scheletri, come una cassaforte dell’orrore dove probabilmente ci passava del tempo, succhiava quei cadaveri, Diavolo lo sa?”

Tim avanza attento a non cadere nel fossato recintato con parecchio nastro giallo.

“Sono tutti giovani, non più di vent’anni. Otto ragazzi sciolti nel terreno e temo ci siano altri cadaveri, forse non qui ma se “Bloody” è a Londra …”

“Bloody non resta per molto nello stesso posto e nella stessa persona.”

Tim si ferma e punta la torcia sul viso di Vayden.

“Non guardarmi così. Non sono pazzo. Io ho visto nella sala interrogatori un bambino saldo e freddo che ti fissava negli occhi come il demonio e dove vedere come parlava, senza gesticolare, senza paura, senza tremare. Il ragazzino che hanno trovato traumatizzato nella corsia dell’Ospedale di Hollyhill, non era l’assassino. La sua memoria si è cancellata e ridotto allo stato vegetativo è in una clinica di recupero,  ma non parla più e non riconosce nessuno. Non sa nemmeno di non avere più nessuno al mondo. La notte del suo cambiamento “Bloody” era sceso dal letto e si era diretto in Pronto Soccorso, Vayden illumina la cassa di acciaio in cui erano depositati i corpi, probabilmente non ha avuto il tempo di ricavare la casa in cui avrebbe voluto passarci del tempo con i suoi trofei, dicevo, quella notte, i due agenti si sono addormentati e lui è sceso per sette piani a piedi nudi. Le telecamere lo hanno seguito sulla rampa degli inservienti, nessuno sa come ha a avuto l’accesso a quell’area. C’è un fotogramma in cui fissa l’occhio dell’ultima telecamera, sembra spiritato e sai cosa fa prima di scendere, ride. Una lunga risata al nulla.

“E poi cos’è successo?”

“Poi è rimasto in corsia per sette minuti.”

“E?”

“Lo hanno trovato a terra svenuto.”

“Chi c’era in corsia?”

“Questa è la cosa strana, c’erano tre infermieri del turno di notte e quattro vittime di un incidente d’auto di cui due decedute sull’ambulanza.”

“Va bene, il bambino probabilmente è crollato dopo essersi reso conto di aver commesso il delitto.”

“La pensai allo stesso modo, finché non ho ricevuto la tua chiamata. Ho analizzato minuto per minuto i filmati di quella notte e ho ripreso i delitti degli ultimi dieci anni. Per dieci anni si è fermato in Irlanda.”

“I delitti del Missionario!”

“Probabilmente.”

“E poi come ha fatto ad arrivare fin qui? Perché uccidere tutti questi giovani?”

“Sarà arrivato allo stesso modo di dieci anni prima e sicuramente loro, non servivano più allo scopo o semplice vendetta.”

“Per dieci anni è stato buono, buono in Irlanda e poi si stufa e viene a Londra?”

“Che ne so? Non so tutto: Non so se ha un piano o sceglie a caso. E’ come un cannibale, finché l’aia è piena non ha bisogno di altre bestie. Dobbiamo scoprire l’identità di quei scheletri.”

“C’ è un tizio di Scotland Yard, un certo Potio Shmonk, quello dirige il caso e nessuno può fiatare.”

“Ma anche lui avrà bisogno del rapporto del coroner, in fondo passa tutto dall’obitorio.”

“Ho capito l’antifona. e che ci facciamo qui?”

“Devo scoprire dove ha messo le telecamere e se sono funzionanti. Se sì, embé, ci sta già dicendo “Ciao!” il nostro amico. Parlami della ragazza.”

“Io non …”

“Bevuto? Non la tua donna, la ragazza che ha scoperto questo cimitero.”

“Tesla Mytie. Normale, vita difficile, vive sola con una sorella, era qui quando ha visto spuntare ossa tra l’erba.”

“Dov’è?”

“Che coincidenza, riflette Tim, a Belfast.”

“Non esistono coincidenze soltanto scelte. Perché è andata a Belfast?”

 

Belfast nei ricordi

Tesla ha smarrito i propri ricordi appena si siede al tavolo del pub e sorseggia da una pinta di birra scura. Fissa il traffico dalla finestra e guarda il gioco del semaforo mentre si veste di rosso per lungo tempo e poi in fretta di giallo e finalmente verde, ma il verde dura poco ecco perché l’auto proveniente dalla direzione opposta gli aveva travolto in pieno.

Un bel pacchetto famiglia era sull’asfalto, insanguinati e in fin di vita. Lui, il bastardo era scappato e probabilmente avrebbe smontato l’auto, pezzo per pezzo pur di non lasciare traccia di quella vergognosa strage. Lei fissa la strada e cerca di ricordare. Nulla. Nulla le arriva in quel capo che continua a calcolare i secondi e i respiri tra il cambio dei colori del semaforo.

Dovrebbe tornare a casa e ricominciare. Trovare un lavoro che la meriti e magari vedersi con nuovi ragazzi, in fondo non è mica troppo vecchia per farlo. Sarah non ha mai smesso di pensare che fosse matta. Almeno è quello che legge nei suoi occhi quando la guarda, come se non avesse più speranze per lei, come se i sogni di una giovane ragazza contassero meno di una ricarica del telefono, “ma è reale!” le avrebbe gridato contro, Sarah, ogni volta che lei piangente le rispondeva che aveva tutto il diritto di avere degli ideali.

“Gli ideali non ti pagano la minestra e l’affitto. Non riempiono lo stomaco e non fanno sì che ti stacchino la luce.”

Sì, la voce di Sarah era un costante ammonimento contro quei desideri troppo alti per una così povera. Era passato un anno ma sembravano decenni dall’incidente. Sarah si era chiusa egoisticamente in un guscio freddo che la spingeva a esigere da se stessa e dagli altri persino l’impossibile. Era meno di una sorella e più di una madre che spesso, voleva ignorarla. Stavano in casa, al buio e in silenzio per ore, fin quando lei non si addormentava sul divano e Sarah spariva nella sua camera a studiare, diceva, il programma per i suoi studenti.

Si fidava ciecamente dell’unica persona che le era rimasta sulla faccia della terra. Spesso aveva crampi allo stomaco per fame, ma taceva.

Si rimpiazzava delle briciole rimaste nel cassetto dei biscotti o mordicchiava una mela per ore, immaginando che fossero ali di polo piccanti. Certe volte, non osava chiedere nemmeno i soldi per l’autobus e si alzava ore prima per andare al lavoro a piedi. Non voleva pesare a nessuno. Nessuno doveva preoccuparsi per lei. Nessuno doveva rinfacciarle quanto poco fosse capace di portare avanti la propria vita.

“Ohh Golia, Ohh, tu morirai, e sul tuo capo, la mia danza di festa io farò … ohh, oh, Golia, tu davvero morrai …”

 

La trasformazione

Catherine è una ragazzina esile e molto magra con due gambe secche e il viso pieno di lentiggini. Suo padre ha provato a vivere negli Stati Uniti per qualche mese ma con la bambina e i debiti ancora da saldare, capisce di dover tornare a casa, Belfast non lo farà diventare ricco ma nemmeno morire di fame. La caviglia di Cat è gonfia come un pupazzo violaceo senza capelli. Le sue lacrime cadono cospicue a terra mentre attende che qualcuno la visiti. Il pediatra di turno non è sceso dal reparto e lei fissa il soffitto perché teme tutte quelle cose che ci sono nel carrello dell’ambulatorio. Ha paura che le faranno ancora più male, per fortuna è sopra una sedia a rotelle che il padre usa per farla divertire.

“Dai non piangere più.” e fa il volto tenero che lei abbraccia con forza.

Lui la guarda. nel suo capo si riversano i problemi, la solitudine e persino la volontà di morire. A volte pensa che senza la bambina potrebbe sentirsi più libero e mentre le piccole braccia gli si avvinghiano intorno al collo, percepisce un leggero calore che lo rincora. Ha esaurito le forze e la volontà di lottare. L’ultima volta che il Missionario aveva chiesto la tangente, lo aveva fatto lasciandogli un regalino sotto la gola, un taglietto di sei centimetri per fortuna poco profondo, ma aveva insinuato di rivolgere le sue attenzioni al resto della famiglia se lui non avesse capito che doveva pagare. Il Missionario non poteva colpire altri che sua figlia, unica creatura che gli era rimasta al mondo dopo la perdita della moglie. Aveva deciso di scappare.

Aveva chiuso il pub e preso gli ultimi risparmi per andare negli Stati Uniti, il paese che offre una possibilità a tutti. Lui però quella possibilità non l’aveva colta in tempo oppure era già troppo vecchio perché cambiasse carattere.

Nella sala d’attesa quella notte non c’è nessuno e persino il personale di turno dell’ospedale sembra ridotto al minimo. La ragazza è molto stanca. E’ notte fonda e dovrebbe già dormire ma il padre è certo che dovrà fare una radiografia. Anche lui è stanco. Tiene gli occhi chiusi in attesa che qualcuno li chiami.

Cat è caduta al parco giochi e senza assicurazione era facile che nessuno la curasse.

In un attimo il silenzio è spezzato da una forte sirena che mette tutto l’ospedale in agitazione. Infermieri, medici e persino pazienti cominciano a correre dentro e fuori dall’ospedale come se ci fosse in atto un’invasione, ma di cosa? L’allarme si protrae per diversi minuti, finché l’arrivo della polizia con sei macchine a sirene accese, bloccano tutte le uscite dell’edificio.

“Che diavolo succede?”

Domanda l’uomo a un infermiere che lo spinge nella sala d’attesa chiedendogli di non preoccuparsi.

“Non si preoccupi, c’è la polizia, tutto si sistemerà in pochi minuti.” ma il volto del ragazzo troppo giovane perché abbia più di qualche anno di esperienza, tradisce la sua grave preoccupazione.

Una piccola esplosione ferma il calvario della fuga di tutti. Per un momento, c’è solo silenzio e qualche lamento di paura. Il buio fa scattare le luci di emergenza. C’è un incendio e alle sirene della polizia, poco dopo, si uniscono quelle dei pompieri. All’entrata di emergenza due reporter tentano di ingannare due infermieri con la cortesia per cercare di filmare all’interno il caos che si è creato, ma vengono respinti e mandati fuori. Uno di loro, fa cenno al padre di Cat di avvicinarsi e lo implora di filmare per lui. Per sembrare più convincente, firma un assegno di mille dollari. L’uomo accetta e lascia sola la ragazza per girare lungo il corridoio con il cellulare che trascrive tutte le immagini di paura e il lavoro dei medici che faticano a rassicurare i pazienti.

Il giro termina davanti a due medici lasciati in una pozza di sangue in mezzo al corridoio centrale e pochi passi prima della porta principale. Il padre di Cat filma e sa bene che con queste immagini potrà contrattare sul prezzo. L’uomo avanza fino al vano degli ascensori e gira per aprire la porta e salire sulle scale di servizio fino al secondo piano. Il suo cellulare è quasi scarico e disperato si fruga nelle tasche finché non ritrova quello della figlia.

 

La combinazione perfetta

L’interruzione di gravidanza di Cat è un fatto reale. Non l’ha deciso lei ma qualcosa nel suo capo che l’ha spinta a sedersi su quella barella che sta scivolando dall’ascensore verso il reparto di chirurgia ostetricia. Lei vorrebbe dirlo a George ma ci sono tanti problemi in mezzo e tutti che portano la sua firma. Se lui sapesse che lei ha causato solo morte negli ultimi anni, che è la maschera del male e che non ha mai avuto obiettivamente pietà per alcun innocente, che direbbe il suo amato? Deve liberarsi per continuare a vivere ma qualcosa in lei le comunica che il suo corpo non è abbastanza forte per superare quel intervento di routine. Morirà e mentre le ruote scricchiolano sul pavimento di linoleum, una coscienza oscura riemerge per prendere possesso della sua volontà. La lasciano in anticamera ad aspettare. Quel tempo è abbastanza perché qualcosa facesse scattare tutti gli allarmi antincendio dell’ospedale. Non è completamente sedata e si gira sul fianco, cade a terra e raccoglie tutte le forze per alzarsi.

Il Missionario non può, non deve morire. Per certi giochi di prestigio basta l’abilità. Lei scende le scale per cercare il pronto soccorso. E’ già successo. E’ routine. I dolori vanno e vengono. Con la flebo staccata quella cosa smetterà di agitarsi dentro la sua pancia. I gradini iniziano a ballare dinanzi ai suoi occhi ma lei sa che c’è un’altra vista che dirige i suoi passi verso la discesa sicura che non è lei a comandare.  Potrebbe buttarsi giù e fermare quella cosa mentre è distante da tutti i pensieri in cui lei si è rifugiata, ma potrebbe anche fermarla e farla soffrire, l’ha fatto per molte volte. Non ha nemmeno il cellulare per chiamare George e le crederebbe? tra loro c’è sempre stata molta confusione che lui non ha mai cercato di migliorare. Nemmeno suo padre potrebbe fermare la cosa che avanza con caparbietà verso il pronto soccorso. Potrebbe fermarla e impunta le mani sulla ringhiera, mettendo tutta la forza che riesce a trovare, tanto che i passi scivolano sui gradini inferiori e il corpo cade a peso morto sul cemento contundendo nei gradini superiori, le parti alte della schiena.

“No!” dice a se stessa. Ma i suoi piedi s’incollano al gradino e il corpo si rialza spinto da una forza invisibile e superiore. Vorrebbe chiedere aiuto ma la sua mano destra le colpisce la bocca e penetra nel palato. Cat schiaccia i denti e nonostante il sangue fuoriesca dalla ferita che si sta procurando, il corpo continua la sua discesa tra i piani dell’ospedale. La mano le impedisce di emettere qualsiasi suono. Ogni passo avanti lascia dietro di se gocce di sangue che escono dalla mano appiccicata alla bocca che la soffoca mentre la spinge a camminare. Lei non ha modo di difendersi. A fatica prosegue, cercando di rubare bocconi d’aria dallo spazio tra le sue nari e la mano. Le lacrime hanno smesso di scendere e il dolore si è trasformato in un bruciore costante.

L’allarme non ha cessato di sibilare il suo suono mostruoso. Appena entra in pronto soccorso, cerca il bagno. La mano scende lungo il corpo e la lascia respirare. Lei non ha nemmeno le forze di gridare. Apre bocca e la chiude come un pesce che cerca disperatamente di respirare. Le sue corde vocali sono bloccate. In quel caos non si è nemmeno accorta di fissare una famiglia appena arrivata sulle barelle. Le luci di emergenza hanno un colore metallico e mostra le vittime come corpi esangui pronti per l’obitorio. Esce dalla stanza e si avvicina all’unica infermiera presente nella stanza 4. Non c’è nessun altro in corridoio, ha pochi secondi. Guarda il carrello delle medicine. Vede un paio di forbici, un bisturi, delle garze e un sacco di medicine in disordine. Afferra la lama e recide di netto la gola alla poverina. In meno di un minuto ha indosso la sua uniforme. Chiude la stanza e si avvicina alle barelle. I paramedici sono al banco per compilare i moduli di accettazione. Due dei quattro sono morti. Fissa solo quelli in vita.

Cat capisce che ha poco tempo per fermare l’entità e cerca di correre verso i paramedici ma in quel momento, lei cade sulla barella di una delle due vittime dell’incidente. L’ultimo ricordo è una secchiata di terra che le entra in bocca e capisce che non può più gridare quando quello che le è caduto addosso a corpo morto e violaceo è il suo unico grande amore, George.

 

“Qualcosa del genere non basta”

Londra da sopra un aereo non è altro che un’altra metropoli sotto la nebbia dello smog, un puzzle fitto di cemento e lunghi intestini di nuvole che usano la città per salire e scendere. Il turbolento Luna Park fitto di strade e di piccoli mezzi in movimento fanno sapere ai viaggiatori si essere prossimi all’arrivo. Qualche piccola turbolenza ma l’atterraggio impeccabile, interrompe le sei ore di volo e acidità arrivata alle piante dei piedi. Per sei ore ha pensato ai poveretti che Bloody si è lasciato dietro, al piccolo Murphy e ai suoi occhi di mostro senz’anima, al miracolo un interrogatorio muto finito con una lista di nomi di tutti i parenti di tutti quelli che lavoravano alla Centrale di Polizia di Hallyhall inclusi gli inservienti e gli assistenti sociali, al dna di un leader dell’IRA sparito non poco di ottant’anni prima e a tanti misteri, rimasti tra le carte di un’indagine mai finita.

L’anonimo americano in vacanza passa la dogana e si dirige con la sua effervescente borsa a tracolla verso l’uscita del terminal. Il primo vero respiro su terra inglese, gli fa venire in mente la guerra d’indipendenza. Americani contro inglesi, figli di una patria severa rimasta sotto uno stendardo di tradizioni obsolete. Sorride e sale sul primo taxi disponibile. Il suo abito scuro lo fa sembrare un perfetto gentiluomo arrivato nel vecchio continente per affari più seri di una caccia a un fantasma.

La sveglia dell’albergo suona esattamente alle 6:00. Il telefono fa tre squilli poi tutto si tramuta in silenzio.  Il jet lag  è peggio di una sbornia. Il cellulare di Vayden manda un suo sottile  bip che continua ogni tre secondi finché non si decide di spegnerla. Vayden ha la testa corrotta dai brutti sogni, ma spinge la mano verso l’abat-jour e schiaccia il pulsante. La luce cancella anche le ultime tracce degli incubi. Ricorda solo di essere a Londra. E’ così alto che le punte dei piedi spuntano dalle lenzuola un palmo oltre la fine del materasso. Il suo corpo è pesante ma balza dal letto come un felino. I piedi nudi sul pavimento non sentono solo il fresco delle piastrelle ma anche il fastidio delle briciole secche delle FF che ha terminato prima di leggere il materiale che si è portato dietro rinunciando a un paio di abiti. Per Londra ne basta uno e un paio di camicie, il resto sono fotografie, chiavette e un quadernetto rosso, consumato e abbastanza logoro da sembrare un reperto del post guerra. Sul quaderno in stampatello, c’è scritto Bloody, con la punta fine di un pennarello indelebile nero. John butta un’occhiata ai fogli sparsi sul letto. E’ inquieto. Nonostante abbia cercato di regolarizzare la sua vita, certi pensieri sono lì costati e forti. Percepisce un’imbarazzante paura di qualcosa che dovrebbe aver cancellato dalla propria mente. No, certe cose non si possono cancellare. Certe cose non terminano, non muoiono con il tempo. I delitti possono cancellarti l’amaro in bocca e lo strazio alla bocca dello stomaco ma le visioni permangono e d’impuntano a resistere in quella parte del cervello che non si riesce a controllare.

Sta già camminando verso il bagno, nel corridoio buio strippato di foto di cantanti blues, quando si ferma. La sua mente ritorna al caveau degli scheletri del piccolo Murphy, un vero e proprio tempio della morte, concepito per intrappolare il dolore e le ultime sofferenze delle sue vittime. Fa mente locale a ogni cosa, ogni disposizione delle ossa, ogni cimelio rimasto addosso ai cadaveri. C’è qualcosa che gli manca, anzi non sono le cose ma i rumori, i suoni. Qualcosa che rende tutti gli altri siti scoperti negli ultimi sessanta anni, simili. Quello che sembra impossibile, pensa lui, forse non lo è. Entra nel bagno e accende la luce. Quel brusco lampo chiaro è una vera folgorazione.

Il ragazzino è troppo giovane e non potrebbe aver concepito, rifinito e ultimato quel paradossale crimine, inoltre è troppo macabro persino per un undicenne, vivere in mezzo agli scheletri, in quella sedia posizionata al centro dell’ammasso di ossa, come per ospitare un sorvegliante o qualcosa del genere. “Qualcosa del genere” erano le parole che lo avevano colpito di più. Non c’erano armi nel nido dell’assassino solo una marea di vestiti, come se le vittime si fossero spogliate ma non era così, poiché le vittime erano state fatte a pezzi e allora come si spiegano i vestiti indossati, le scarpe e tutto il resto?

Vayden ha finito di radersi. La sua camicia bianca non nasconde il peso del corpo ma è una cosa a cui lui non da alcun peso. L’abito è stato stirato e appeso al pomello della porta.

“Dieci sterline per stirare un abito? Che cazzo di paese ai confini della realtà!” apostrofa amaramente e infila il cellulare con il portafogli nella tasca posteriore dei pantaloni.

“Hanno ragione i Dalek a volerli invadere, sono dei mutaforma che succhiano soldi ai forestieri.”

Esce dall’hotel con i pensieri che si compattano come un puzzle quasi a buon fine. Qualcuno forse emula “Bloody” oppure il mostro ha due vite?  Non è abito all’aria fresca ad Agosto. Fissa la strada in cerca del suo ospite. I pullman rossi a due piani sono ridicoli quasi quanto la guida a sinistra. Vayden pensa agli inglesi dalla patina antica con un passo nel futuro e l’altro nel passato. Gente raffinata che vuole considerare la perfezione dalla parte posteriore della ragione non obliata dalla nebbia fitta e dalle piogge continue. Un vortice di bob con l’ombrello nell’odore del fish and chips e con il cuore devoto a una corona molto meno democratica del principio con cui resta in piedi il Ku Klux Clan. Sorride ironico e guarda le nuvole sopra la testa, gli mancano sia il capello sia l’ombrello ma quello che non intende capire è la marcia contromano, come un pazzo che cerca coerenza camminando all’indietro.

Una moto si ferma davanti a lui. L’uomo si toglie il casco e scende dal bolide. La sua mano destra tesa mostra una predisposizione alla socievolezza.

“O’Brian!”

Vayden lo guarda e fissa la sua divisa molto casual.

“Direi che non mi sono mai mosso da Washington. Anche il continente soffre la globalizzazione.”

“No, non sono in servizio. Posso darti del tu? Salta!” e gli consegna un casco che a fatica gli sta sulla testa.

“Prima di saltare come dici tu, ho una domanda?”

“Va bene, ma abbiamo fretta, io non posso accedere alla zona d’indagine. Dobbiamo inventarci qualcosa.”

“Sei un poliziotto o cosa?”

“Sono anche una donna delle pulizie nel dipartimento, un meccanico, uno che dirige in traffico, un autista del capo, un buon investigatore e un pessimo ballerino. Io sono l’ultimo della catena alimentare della polizia di Londra, quelli della Scotland Yard prendono molto sul serio i casi di omicidio e a noi gente da uniforme, lasciano qualche piccolo indizio da spolpare, questo quando loro non hanno voglia di cercarsi i testimoni o di scomodarsi per prendere le impronte. Manca solo che puliamo loro il culo e siamo a posto!”

“A voi il lavoro sporco e a loro le lodi!”

“Qualcosa del genere. Ma a loro piacciono i giornali, farsi fotografare con le alte teste del governo, insomma un poco di ancien regime per combattere “la crisi” che ha colpito anche la sacralità di Scotland Yard mettendo in dubbio i soldi che si spendono per mantenere lor signori.”

“Ci sono signorie anche da noi, FBI o CIA oppure dipartimenti di cui nessuno conosce il lavoro che fanno ma solo le sigle e sono così segreti da non riconoscersi tra loro. Però il lavoro sul campo resta di quelli come noi, soldati che vanno bene in tempi di pace e di guerra.”

Prima di infilarsi il caso O’Brian si confessa.

“Io ho studiato sai. Ho studiato ogni dettaglio del tuo caso. Ho riguardato le foto anche se vecchie e non nitide, le ossa, i pezzi di carne appesi alle tende come ciondoli o qualcosa del genere.”

“Qualcosa del genere …”

“Cosa?”

“Credo che ci sia dell’altro. Chiamala percezione. Bloody non è un comune serial killer, uno che ammazza e ti fa impazzire per catturarlo. Non è nemmeno un vero cannibale, probabilmente un perverso. Credo che non gli importi, è così sicuro di non essere preso che si può permettere di fare dell’altro con i cadaveri. Credo che ci sia un collegamento.”

“Un emulatore?”

“L’ho pensato in un primo momento ma è impossibile emularlo. Ha una firma, una fisima o peggio, un modus operandi suo. Non può farne a meno, come se fosse la sua unica via possibile per uccidere … o qualcosa del genere.”

“Allora non si può entrare?”

Vayden fissa il campo transennato e i reporter che fotografano con obiettivi, tanto grandi da fare sembrare un telescopio un giocattolo.

“E quelli?”

Vayden indica agli uomini nell’auto scura appartata alla fine della via.

“Credono che qualcuno d’interessante potrebbe ritornare sulla scena, ma per lo più lo fanno per le stazioni televisive, si mettono in mostra e attendono interviste, dove possano mostrare la propria superiorità e competenza. I reporter pescano nella palude della notizia qualunque cosa, idee, pettegolezzi, supposizioni che garantiranno per più di un mese, novità sul crimine più orrendo di Londra dopo le sevizie di Jack lo Squartatore.”

“Stanotte si potrà entrare. Torniamo dopo. Non è un posto trafficato e non piace nemmeno ai delinquenti perché così appartato da non offrire loro alcuna via di scampo. Direi che sarebbe meglio fare colazione e parlare degli scheletri.”

Dopo venti minuti di traffico, Tim O’Brady si ferma davanti a un locale da cui proviene un cattivo odore di fritto. Risponde per un attimo al cellulare lasciando intravedere il suo tic nervoso a Vayden che osserva quanto un uomo possa scarnificare il proprio pollice senza nemmeno rendersi conto che sta sanguinando.

“Dobbiamo proprio?” domanda Vayden non proprio convinto di quel posto e perplesso sul tizio che lo sta accompagnando in giro. Tim si rende conto di aver esagerato con le pellicine e si dirige verso il bagno, ma mentre cammina, parla a voce alta.

“Ho saputo che hai una passione per le frittelle di mele. Questo è il mio posto preferito, servono certe torte di mirtilli da restarne innamorati e la birra è discreta.”

Entrano e John ha la conferma di quello che pensava, il posto è davvero disgustoso. Si gira per andare via, ma una ragazza con il volto pieno di lentiggini fa la sua comparsa da dietro il bancone e assieme a lei un piatto pieno di cose fumanti. L’odore di zucchero a velo è così forte e così invitante che Vayden torna indietro e si ferma davanti ai dolci quasi in estasi.

“Che t’avevo detto? Mai criticare l’oste dall’abito.”

“Ma come?”

“Tua madre.”

“Hai chiamato mia madre?”

“In verità l’ha fatto lei. L’ha saputo dal dipartimento che ti era stato proposto un viaggio a Londra e ha chiesto il dipartimento di riferimento e di dirti che, adesso ti ripeterò le sue parole “lui non ha mai avuto un vero rivale” e che ti piacciono le frittelle di mele e che Ciob sta bene.”

“Altro?”

“No. E’ una donna molto testarda e se vuole, ti dice qualcosa altrimenti ti pianta la conversazione senza nemmeno darti il tempo di salutarla.”

Vayden sorride.

“Già, è proprio Louise.”

Dopo aver mangiato le frittelle, entrambi si fermano a fissare i bicchieri ancora colmi di birra.

“Cominciamo da capo, ti va?”

“Sono qui per questo.”

“La ragazza che l’ha scoperto tutto dov’è?”

“Credo a Belfast.”

“E’ stata interrogata?”

“No. Nessuno sa che è stata lei la prima a scoprire quel massacro. Lei ha perso la memoria e quel giorno ha avuto un terribile incidente.

“Bene. La ragazza scopre il posto e poi ha un incidente. In questo lasso di tempo lei che ha fatto?”

“E’ rimasta qualche giorno in ospedale, poi l’ho ospitata a casa mia perché meno periferica per le visite mediche e per facilitare la sorella che è sulla sedia a rotelle.”

“Altri famigliari?”

La mano veloce di Vayden continua a scrivere in un piccolo block notes con fogli bianchi.

“Morti in un incidente.”

“La ragazza dopo l’incidente cosa ha raccontato?”

“Nulla. Ha sempre sofferto di grandi dolori alla testa e ricordava soltanto l’attimo prima dell’impatto, ovvero il volo, poi nulla.”

“Il suo incidente?”

“In bicicletta, ma ci possiamo spostare da qui, andiamo a prenderci un’altra birra e poi ti mostrerò le foto degli scheletri.”

“Non è possibile vederli?”

“Sarà quasi impossibile. Non ho accesso ai file e pertanto non posso indagare direttamente.”

“Ma io sì.” O’Brady lo guarda.

“Quasi” conclude Vayden.

“E’ meglio di niente.”

“Andiamo a casa mia, prendo un po’ di cose e le mettiamo insieme.”

“Anche delle notizie in più su questa Tesla.”

“Ho i suoi disegni fatti in ospedale.”

“Ah!”

“Che c’è?”

“Resta qui e aspettami.”

“Hai visto qualcosa?” ma Vayden era già fuori.

La camminata è lunga abbastanza per fare sbollire i nervi dell’uomo. Ogni volta che fissa il volto imbarazzato di Jordy, Vayden avrebbe la voglia di ucciderlo.

“Che ci fai qui?”

“Ti ho seguito, non si vede?”

“Jordy che ci fai qui?”

“Amico che vuoi che ti dica che avevo paura? Ebbene avevo anzi, mi sto cacando sotto dalla paura! Quello mi mangia se mi trova, se si ricorda il mio nome.”

“Nessuno che non abbia fumo nel cervello si ricorda di te … Jordy.”

“Dai non essere così severo con te stesso. Stringimi la mano e dimmi che sei contento di vedermi.”

“E se ti facessi arrestare?”

“Ci sono già abbastanza grandi spacciatori in questa città che non saprebbero cosa farsene di uno piccolino come me.”

“Che vuoi?”

Vayden lo fissa con abbastanza cattiveria da impaurire un uomo grosso quanto lui, ma su Jordy non fa effetto.

“Quello che vuoi. Ti presto soldi, ti do una mano, ti porto la cena in camera, ti metto i vestiti fuori dalla porta per lo stiro ma per favore non mi lasciare solo.”

“Qui non puoi fermarti. Torna il albergo. Ti chiamo io.”

“Senti, guarda, ho noleggiato una macchina, da signori, scura, vetri oscurati, ti farò da autista.”

“Non se ne parla Jordy.”

“Ti cancellerò anche il debito.”

“Ok.”

Vayden gli fa cenno di aspettare e torna da O’Brady.

“Ci vediamo davanti a casa tua. Lascia la moto e portati solo i documenti, abbiamo un autista e gli mostra il suo informatore.”

“Ti fidi?”

“No. Ma in questo momento abbiamo bisogno di pensare solo al caso mentre alla mobilità ci penserà il nostro amico Jordy.”

“E Jordy … che fa?” domanda perplesso Timothy.

“Lo spacciatore, ma tranquillo. E’ uno un po’ pazzo ma ama troppo la vita per giocarsela male. Mi ha dato una mano in qualche caso e gli devo un favore.”

“Ma?”

“E’ uno che potrebbe muoversi di notte in ogni angolo di questa città e senza destare sospetto.

 

Moriremo

“Chi dice che non sia tu Bloody?”

“Nessuno. Chiunque in questa città potrebbe esserlo.”

“Tu e la ragazza però siete gli elementi più indicativi del puzzle.”

Una raffica di colpi da sparo li spinge verso una stanza al secondo piano.

“Meglio dividerci sui due lati. Io est e tu ovest.”

Vayden accetta il piano e corre verso il lato ovest del secondo piano. Tim invece sale verso il terzo piano, dove pensa di aver sentito il rumore di un fucile che veniva caricato.

“Irlandese?”

La voce di Vayden irrompe nel silenzio.

“Vuoi farci ammazzare?” grida O’Brady.

“Credo che il nostro amico sia solo e se non ha il dono dell’ubiquità, potrà prendere soltanto uno di noi due.”

“E allora?”

“Invece di salire scendi. Non potrà gettarsi da diciotto metri. Copri il perimetro e attendi Jordy che ti darà una mano, nel frattempo io lo terrò occupato.”

Altri spari si susseguono nel buio. La torcia di Vayden colpisce le pareti imbrattate di graffiti osceni e di liquami essiccati.

“Che c’è venuto a fare? domanda Tim urlando.

“Credo per lo stesso motivo per cui noi ci troviamo qui. E’ venuto a ispezionare la sua cassaforte vuota. E’ molto attaccato ai suoi cimeli, e prosegue sottovoce, come un bambino al nascondiglio delle sue caramelle.”

“E allora?”

“Una volta finita questa piccola guerra, dovrà decidere cosa fare con noi e con la su vita ma temo che lo abbia già fatto.” l’ultima parte della frase la finisce sottovoce.

Altri spari arrivano da pianterreno.

“Ma qui ci sono altri che sparano all’impazzata! Ha portato rinforzi?” grida nuovamente O’Brady.

“Credo che siano i nostri amici imbalsamati, erano stanchi di starsene nella loro macchinetta scura. Si erano stancati di caffè freddo e volevano svuotare un pochino il caricatore prima di chiamare la stampa. Direi che ci daremo appuntamento da te!”

Un boato fa saltare le scale dei due lati dell’edificio.

“Vayden! Vayden! Sotto la grondaia! La vedo!!!!”

Urla di uomini e raffiche di mitra illuminano il buio del campo intorno ai depositi. Jordy pigia sull’acceleratore spinge l’auto fin dentro l’edificio. Due in giacca e cravatta cadono sopra il cofano mentre un terzo è impegnato a sparare contro un’ombra a più di una ventina di metri da lui e con il fucile carico. Jordy si lancia dall’auto e corre fuori dall’edificio per chiamare Vayden. Il suo cellulare prende a squillare mentre il suo corpo fa tremare le grondaie dove si stanno staccando le bretelle a una a una, le bretelle che inchiodano al muro i gocciolatoi. Vayden cade. L’urto per una massa così grande è forte e doloroso, ma la sua preoccupazione è per l’abito di troppa buona fattura per rovinarlo in quel postaccio. L’uomo in giacca scura, sicuramente un agente di Scotland Yard,  ricarica la pistola e inizia a sparare nella sua direzione.

“Sono un poliziotto! Fermo!”

“Che ci fai qui? E’ una zona proibita!”

“Sono qui per lo stesso motivo per cui voi vi siete fermati! Per aspettare l’assassino!”

Il cellulare di Vayden squilla. Lui legge il display, è Louise, che tempismo del diavolo, pensa Vayden. Lo spegne e si concentra sugli avversari.

“Potresti essere tu! Getta la pistola o sparo!”

“Mi chiamo John Vayden! Controlla!”

Ma il fuoco ricomincia dal fondo del deposito e il nemico si spinge sempre più avanti finché Jordy da una finestra del cortile vicino al killer, spara scaricando tutto il caricatore nel buio. Il fucile smette di sparare e i due poliziotti restano a fissarsi con le pistole che puntano una sull’altro.

“Adesso mi credi?” chiede Vayden all’uomo che ha dinanzi,  e questo gli risponderebbe se una pallottola non gli entrasse in bocca e non gli trapassasse il cranio da parte a parte. L’uomo sbaraglia gli occhi e non ha nemmeno il tempo di emettere un suono perché stramazza a terra, morto.

“Sei un emulatore?”

Uno sparo gli sfiora la spalla e un secondo colpo passa così vicino all’orecchio del poliziotto da ferirlo.

“Se sei Bloody perché non mi uccidi! Fallo maledetto bastardo perché se io ti avessi di fronte, giuro che non ti risparmierei.”

Gli spari di Jordy e Tim inseguono l’ombra in fuga.

“Ehi tutto bene?” domanda O’Brady.

“Sì mi ha lasciato vivo. Ma si è lasciato dietro altri morti. Che facciamo?”

“Io ho visto tutto e posso dire che non era alto. Persino uno come me se gli saltava addosso lo avrebbe fatto nero.”

“Nero di che Jordy? Ha ammazzato senza problemi tre agenti di Scotland Yard, ti avrebbe ucciso se avesse voluto. Sta giocando e sicuramente non sarà l’ultima volta che lo incontreremo. O’Brady chiameresti la ragazza? Vorrei una conferma.”

“Tesla? figurati non potrà mai essere lei.”

“Tu fallo. Io ragionerò su come uscire da questo casino.”

Un lampo strappa il buio e un tuono scuote l’intero edificio.

“Sta arrivando la pioggia. Meglio lasciare qui i corpi e tu Jordy avviserai la polizia di aver sentito degli spari. E’ passato di qui a vedere la bara vuota, adesso avrà del nuovo lavoro da fare.”

Un cellulare squilla a ritmo di samba e Vayden fissa O’Brady a sua volta sbalordito. Jordy corre verso l’ingresso da dove spunta Tesla, spaventata e completamente zuppa di pioggia.

“Sono tornata. Non volevo restare da sola.”

“Da quanto tempo?”

“Il taxi è andato via dieci minuti fa, ho attraversato il campo e ho sentito gli spari.”
“Perché sei tornata? Tua sorella sa che sei qui?”

Tesla si avvicina e Vayden guarda le mani della giovane, sporche di sangue.

“Cosa ti sei fatta alle mani?”

“Credo il filo spinato.”

“Ma le tue scarpe non sono sporche di fango e hai detto di aver attraversato il campo sotto la pioggia?” afferma Tim, preoccupato delle lacune temporale che lei nasconde.

“Beh, ho cercato di non andare proprio nelle pozze d’acqua, ho già avuto un’esperienza del genere ed è stato scioccante.”

Tesla vede gli uomini morti e resta a fissarli.

“Sono morti.”

“Si direbbe.” replica scocciato Jordy.

“Chi è stato? Non è che magari ritorna a ucciderci?”

“Potrebbe.” afferma Vayden.

“Sei arrivata un po’ troppo velocemente. Mi dici perché sei tornata? Jordy! Pulisci! Prendi i loro fucili e le pistole, temo che ci serviranno, vai nella loro auto e cerca i caricatori, prendi anche quelli. Non lasciare tracce. O’Brady abbiamo la tua benedizione?” Tim non risponde ma continua a essere pensieroso.

“Non hai visto nessuno uscire dai depositi? Jordy occupava i due ingressi e l’avrebbe visto ma se è uscito dai campi, tu dovresti averlo incontrato.”

“No. Io non ho visto proprio nessuno, dagli spari in poi.”

“Potrebbe essere ancora qui.” grida Jordy mentre corre verso l’auto con le braccia cariche di armi.

Un altro tuono squarcia il cielo e la pioggia battente e Tesla scompare.

“Dov’è andata? Jordy?! Jordy!” domanda Vayden.

“Tes?” Tes?” grida O’Brian.

“Oh Golia … tu morrai Golia …”

“Ma è la voce di Tesla!!! Solo l’assassino conosce questo ritornello, come Diavolo fa a conoscerlo???? Fate attenzione! Potrebbe essere lei l’assassiona!” e alza la pistola verso le ombre dinanzi.

“Vayden, non sparare. Aspetta!” bisbiglia O’Brian.

O’Brian esce dall’edificio. Vayden continua a cercare di illuminare il deposito ma è troppo grande perché la luce possa rivelare qualcosa d’importante. Il suo cellulare continua a vibrare nella tasca dei pantaloni ed è insistente.  La voce di Tes ha smesso di cantare. I morti sono riversi a terra e il loro sangue è già un lago sotto i corpi.

“Ci guarda.” parla sottovoce Vayden.

Jordy arriva di corsa e ferito.

“Cazzo maledetto, qualcuno mi ha sparato!!!! Ho lasciato l’auto con le portiere aperte e sono fuggito. Bloody mi ucciderà!!!!!”

“Se l’avesse voluto, l’avrebbe già fatto.” e il cellulare continua vibrare abbastanza a lungo da vedere la faccia perplessa di Jordy, fissare quella di Vayden.

Un odore forte e acido penetra nello spazio dell’edificio. Vayden fissa i corpi dei tre agenti morti ma è costretto a lasciarli a terra per correre verso l’uscita. Jordy prova a sparare al buio ma senza colpire altro che le pareti.

“Jordy smettila! Non lo colpirai così! Vieni via! O’Brady! Dove sei?”

“Ho trovato Tesla è svenuta. Venite fuori ad aiutarmi!”

Vayden compone il numero di Louise. Lei risponde subito alla sua videochiamata.

“Qualcosa non va?”

“Mi ha chiamato qualcuno. Mi ha detto che presto saresti morto e vorrei che tu tornassi a casa ovunque ti trovassi ora.”

“Sono a Londra. Lo sai che non posso tornare. Chi era?”

“Non saprei. Una voce, sottile, acuta. Parlava in falsetto. Mi ha detto che avevo giusto il tempo per l’ultimo saluto e che mi avrebbe risparmiato. Mi ha fatto scrivere queste parole, caro John, le debolezze uccidono, hai avuto tutto il tempo per rifarti una vita e per dimenticarmi ma non l’hai fatto. Io dovrò ucciderti ma non temere, sarà per una giusta causa. Hai ragione, io sono sempre un passo avanti a te e così vicino che potresti allungare una mano per trovarmi. Saluta la mamma. Oh John, ti prego lascia andare questa storia e torna a casa, non voglio perderti.” gli dice lei tra le lacrime.

“Tranquilla non ho intenzione di morire e non sono solo, sono con altri colleghi di lavoro.”

“Sì, quell’irlandese, mi sembrava più interessato a quello che avevi scoperto ... Non è di certo un tipo affidabile.”

“Sai che io non mi fido di nessuno.”

“Ho sognato tuo padre e tuo fratello. Non è stato un bel sogno. Io ho paura John. Tu non lasciarmi da sola, è una vita che affronto questo schifo di vita e mi rendo conto che le cose migliori sono quelle fatte vicino a quelli che ami. Io ti voglio bene lo sai. Stai attento!!! John …”

“Tranquilla. Ti prometto che dopodomani sarò a casa. Ceniamo insieme e ci spariamo dei Fricky Fries davanti alla tele, o meglio, ti porterò a cena nel posto dove Mad ed io ci siamo sposati, so che ti piaceva quel lago …”

“Sì, lei continua a piangere, comunque sappi che ti voglio bene. Succedono cose strane John che né tu né io possiamo comprendere. Non hai nessun conto in sospeso con il tuo lavoro, ricordatelo! John? John mi senti? Jo …”

Un altro tuono e molto più vicino a loro strappa un urlo al cielo. La conversazione con Louise è finita, quando l’indice di Vayden ha chiuso improvvisamente la comunicazione. L’avrebbe chiamata dopo, dall’aeroporto.”

“Mammina ti manda i saluti?” lo canzona Jordy.

“Fatti i cazzi tuoi, è l’unica cosa che è riuscito a rispondere, sai Jordy, non c’è nulla di buono al mondo salvo che non ci sia qualche pezzo di merda che decida di morire ammazzato prima che lui imbratti il mondo con il suo schifoso essere.”

Una sferzata di pioggia investe tutti quelli vicini a una finestra. Jordy la schiva ma per farlo si appiccica al muro che lo fa schifare più del pavimento dove i morti sono rimasti incollati per mostrare i buchi nelle giacche scure che non sono bastate per difenderli. Jordy fissa Vayden poi ruba un’occhiata all’esterno.

“Calmati amico. Io sono qui per aiutarti.”

“Sì, si … come no?”
 

L’inverno ha preso tutto il corpo di Londra e nemmeno tre ore dopo lo sfiato di pioggia, un agglomerato di nuvole fredde fascia tutta l’atmosfera. Il cielo sembra persino più chiaro e quasi roseo. La città respira l’aria gelida e una sottile lastra di ghiaccio si deposita sopra le pozze d’acqua. La natura respinge i sogni caldi e si avventa con morsi decisi sopra gli edifici e le cose che riparano uomini e qualsiasi essere respiri.

L’auto si muove velocemente verso l’indirizzo stabilito. Nell’abitacolo l’aria calda si mescola all’umore dei passeggeri. I quattro occupanti restano in silenzio ma solo per poco tempo. Il primo a iniziare la sequenza di un ragionamento è Vayden. A occhi chiusi cerca il filo di un caso lungo decenni. Come può un assassino colpire nell’arco di cinquant’anni? Che abbia lasciato un erede? Che ci sia un emulatore? Troppi punti in comune perché sembrino crimini di mano diverse.

Il piccolo Murphy l’hanno trovato al pronto soccorso, riverso a terra e sotto shock, dopo questo incidente, quando lui era sfuggito alla sorveglianza per scendere o per fuggire dall’ospedale, non si sa, è caduto in uno stato catatonico. Epilettico avevano diagnosticato i specialisti ma lui ricordava bene i suoi occhi, inespressivi, freddi, innaturali. Chiunque l’abbia visto dopo il suo internamento nell’Istituto Psichiatrico o abbia provato a parlarci, ha trovato davanti a sé un vegetale cui hanno espiantato l’anima. Di soppiatto si rivolge a O’Brady.

“La ragazza Cat, cui avete trovato lo scheletro, si trovava un anno fa in un ospedale degli Stati Uniti e precisamente al pronto soccorso di Hallyhall, chi c’era con lei quella notte?”

Vayden finisce la domanda e nel contempo cerca frettolosamente il cellulare che usa per chiamare un certo amico al dipartimento di polizia che ha visto le sue ferie come un segnale divino poiché John Vayden non era mai andato in ferie, mai mollato il lavoro nemmeno per un giorno di vacanza.

“Sono io. Mi puoi restituire il favore. Ora!”

La voce dall’altra parte gli ricorda che è più in alto in grado di lui.

“Sì ma io ti ho sostituito durante tutte le ferie natalizie degli ultimi dieci anni.”

“Cosa vuoi?”

“Archivio. La notte in cui Bloody è stato trovato al pronto soccorso riverso a terra, chi c’era con lui in corsia, mi servono i nomi del personale di turno e di tutti quelli arrivati in accettazione durante la notte.”

“Ci vorrà del tempo.”

“Hai dieci minuti. Mandami una foto con la lista.” e chiude.

“Grazie.” risponde la voce dall’altra parte che aveva compreso in tempo di parlare a un telefono muto.

Dieci minuti dopo Vayden visualizza il messaggio e l’allegato in arrivo da un cellulare anonimo.

“Bravo caro!” afferma a bassa voce. I suoi amici di viaggio sono interessati più al paesaggio che a quello che lui sta leggendo.

 “Casa tua la puoi girare in esattamente dodici secondi.”

“Che vuoi, sono modesto.”

Jordy insiste nel guardare le due stanze che si affacciano sulla sala cucina.

“E lei dove dormiva?”

“In camera da letto, io dormivo … ma cos’è una confessione?”

“Scherzavo.”

Jordy chiude gli occhi e comincia a girare per l’appartamento finché non si sente un colpo secco e un grido. Vayden e O’Brady scattano.

“Che è successo?”

“Temo di essermi lussato la caviglia. Cazzo! Cazzo che dolore! Forse dovrò andare in ospedale. Mi accompagnate?”

“Adesso ti metti buono su una sedia altrimenti ti sparo.” replica Vayden mentre recupera un poco di ghiaccio.

Qualcuno bussa alla porta e Timothy la apre. L’uomo che si presenta dice di essere anche lui un agente federale.

“Noi non abbiamo un’identità pertanto anche se vi dicessi il mio nome, sarebbe una bugia.”

“Ma tu almeno te lo ricordi?” replica, ironico Jordy che litiga con il suo panno pieno di cubetti di ghiaccio che continuano a cadere sul pavimento.

 

“Qualcosa del genere”

La sveglia dell’albergo suona esattamente alle 6:00. Il telefono fa tre squilli poi tutto si tramuta in silenzio.  Il jet lag  è peggio di una sbornia. Il cellulare di Vayden manda un suo sottile  bip che continua ogni tre secondi finché non si decide di spegnerla. Vayden ha la testa corrotta dai brutti sogni, ma spinge la mano verso l’abat-jour e schiaccia il pulsante. La luce cancella anche le ultime tracce degli incubi. Ricorda solo di essere a Londra. E’ così alto che le punte dei piedi spuntano dalle lenzuola un palmo oltre la fine del materasso. Il suo corpo è pesante ma balza dal letto come un felino. I piedi nudi sul pavimento non sentono solo il fresco delle piastrelle ma anche il fastidio delle briciole secche delle FF che ha terminato prima di leggere il materiale che si è portato dietro rinunciando a un paio di abiti. Per Londra ne basta uno e un paio di camicie, il resto sono fotografie, chiavette e un quadernetto rosso, consumato e abbastanza logoro da sembrare un reperto del post guerra. Sul quaderno in stampatello, c’è scritto Bloody, con la punta fine di un pennarello indelebile nero. John butta un’occhiata ai fogli sparsi sul letto. E’ inquieto. Nonostante abbia cercato di regolarizzare la sua vita, certi pensieri sono lì costati e forti. Percepisce un’imbarazzante paura di qualcosa che dovrebbe aver cancellato dalla propria mente. No, certe cose non si possono cancellare. Certe cose non terminano, non muoiono con il tempo. I delitti possono cancellarti l’amaro in bocca e lo strazio alla bocca dello stomaco ma le visioni permangono e d’impuntano a resistere in quella parte del cervello che non si riesce a controllare.

Sta già camminando verso il bagno, nel corridoio buio strippato di foto di cantanti blues, quando si ferma. La sua mente ritorna al caveau degli scheletri del piccolo Murphy, un vero e proprio tempio della morte, concepito per intrappolare il dolore e le ultime sofferenze delle sue vittime. Fa mente locale a ogni cosa, ogni disposizione delle ossa, ogni cimelio rimasto addosso ai cadaveri. C’è qualcosa che gli manca, anzi non sono le cose ma i rumori, i suoni. Qualcosa che rende tutti gli altri siti scoperti negli ultimi sessanta anni, simili. Quello che sembra impossibile, pensa lui, forse non lo è. Entra nel bagno e accende la luce. Quel brusco lampo chiaro è una vera folgorazione.

Il ragazzino è troppo giovane e non potrebbe aver concepito, rifinito e ultimato quel paradossale crimine, inoltre è troppo macabro persino per un undicenne, vivere in mezzo agli scheletri, in quella sedia posizionata al centro dell’ammasso di ossa, come per ospitare un sorvegliante o qualcosa del genere. “Qualcosa del genere” erano le parole che lo avevano colpito di più. Non c’erano armi nel nido dell’assassino solo una marea di vestiti, come se le vittime si fossero spogliate ma non era così, poiché le vittime erano state fatte a pezzi e allora come si spiegano i vestiti indossati, le scarpe e tutto il resto?

Vayden ha finito di radersi. La sua camicia bianca non nasconde il peso del corpo ma è una cosa a cui lui non da alcun peso. L’abito è stato stirato e appeso al pomello della porta.

“Dieci sterline per stirare un abito? Che cazzo di paese ai confini della realtà!” apostrofa amaramente e infila il cellulare con il portafogli nella tasca posteriore dei pantaloni.

“Hanno ragione i Dalek a volerli invadere, sono dei mutaforma che succhiano soldi ai forestieri.”

Esce dal hotel con i pensieri che si compattano come un puzzle quasi a buon fine. Qualcuno forse emula “Bloody” oppure il mostro ha due vite?  Non è abito all’aria fresca ad Agosto. Fissa la strada in cerca del suo ospite.

Una moto si ferma davanti a lui. L’uomo si toglie il casco e scende dal bolide.

“O’Brady!”

Vayden lo guarda e fissa la sua divisa molto casual.

“Direi che non mi sono mai mosso da Washington. Anche il continente soffre la globalizzazione.”

“No, non sono in servizio. Posso darti del tu? Salta!” e gli consegna un casco che a fatica gli sta sulla testa.

“Prima di saltare come dici tu, ho una domanda?”

“Va bene, ma abbiamo fretta, io non posso accedere alla zona d’indagine. Dobbiamo inventarci qualcosa.”

“Sei un poliziotto o cosa?”

“Sono anche una donna delle pulizie nel dipartimento, un meccanico, uno che dirige in traffico, un autista del capo, un buon investigatore e un pessimo ballerino. Io sono l’ultimo della catena di montaggio, quelli della Scotland Yard prendono molto sul serio i casi i di omicidio e a noi gente da uniforme, lascia qualche piccolo indizio da spolpare, questo quando loro non hanno voglia di cercarsi i testimoni o di scomodarsi per prendere le impronte. Manca solo che puliamo loro il culo e siamo a posto!”

“A voi il lavoro sporco e loro le lodi!”

“Qualcosa del genere. Ma a loro piacciono i giornali, farsi fotografare con le alte teste del governo, insomma un poco di ancien regime per combattere “la crisi” che ha colpito anche la sacralità di Scotland Yard mettendo in dubbio i soldi che si spendono per mantenere loro signori.”

“Ci sono signorie anche da noi, FBI o Cia oppure dipartimenti di cui nessuno conosce il lavoro che fanno ma solo le sigle e sono così segreti da non riconoscersi tra loro. Però il lavoro sul campo resta di quelli come noi, soldati che vanno bene in tempi di pace e di guerra.”

“Io ho studiato sai. Ho studiato ogni dettaglio del tuo caso. Ho riguardato le foto anche se vecchie e non nitide, le ossa, i pezzi di carne appesi alle tende come ciondoli o qualcosa del genere.”

“Qualcosa del genere …”

“Cosa?”

“Credo che ci sia dell’altro. Chiamala percezione. Bloody non è un comune serial killer, uno che ammazza e ti fa impazzire per catturarlo. Non è nemmeno un vero cannibale, probabilmente un perversoCredo che non gli importi, è così sicuro di non essere preso che si può permettere di fare dell’altro con i cadaveri. Credo che ci sia un collegamento.”

“Un emulatore?”

“L’ho pensato in un primo momento ma è impossibile emularlo. Ha una firma, una fisima o peggio, un modus operandi suo. Non può farne a meno, come se fosse la sua unica via possibile per uccidere … o qualcosa del genere.”

“Allora non si può entrare?”

Vayden fissa il campo transennato e i reporter che fotografano con obiettivi, tanto grandi da fare sembrare un telescopio un giocattolo.

“E quelli?”

Vayden indica agli uomini nell’auto scura appartata alla fine della via.

“Credono che qualcuno d’interessante potrebbe ritornare sulla scena, ma per lo più lo fanno per le stazioni televisive, si mettono in mostra e attendono interviste, dove possano mostrare la propria superiorità e competenza. I reporter pescano nella palude della notizia qualunque cosa, idee, pettegolezzi, supposizioni che garantiranno per più di un mese, novità sul crimine più orrendo di Londra dopo le sevizie di Jack lo Squartatore.”

“Stanotte si potrà entrare. Torniamo dopo. Non è un posto trafficato e non piace nemmeno ai delinquenti perché così appartato da non offrire loro alcuna via di scampo. Direi che sarebbe meglio fare colazione e parlare degli scheletri.”

Dopo venti minuti di traffico, Tim O’Brady si ferma davanti a un locale da cui proviene un cattivo odore di fritto. Risponde per un attimo al cellulare lasciando intravedere il suo tic nervoso a Vayden che osserva quanto un uomo possa scarnificare il proprio pollice senza nemmeno rendersi conto che sta sanguinando.

“Dobbiamo proprio?” domanda Vayden non proprio convinto di quel posto e perplesso sul tizio che lo sta accompagnando in giro. Tim si rende conto di aver esagerato con le pellicine e si dirige verso il bagno, ma mentre cammina, parla a voce alta.

“Ho saputo che hai una passione per le frittelle di mele. Questo è il mio posto preferito, servono certe torte di mirtilli da restarne innamorati e la birra è discreta.”

Entrano e John ha la conferma di quello che pensava, il posto è davvero disgustoso. Si gira per andare via, ma una ragazza con il volto pieno di lentiggini fa la sua comparsa da dietro il bancone e assieme a lei un piatto pieno di cose fumanti. L’odore di zucchero a velo è così forte e così invitante che Vayden torna indietro e si ferma davanti ai dolci quasi in estasi.

“Che t’avevo detto? Mai criticare l’oste dall’abito.”

“Ma come?”

“Tua madre.”

“Hai chiamato mia madre?”

“In verità l’ha fatto lei. L’ha saputo dal dipartimento che ti era stato proposto un viaggio a Londra e ha chiesto il dipartimento di riferimento e di dirti che, adesso ti ripeterò le sue parole “lui non ha mai avuto un vero rivale” e che ti piacciono le frittelle di mele e che Ciob sta bene.”

“Altro?”

“No. E’ una donna molto testarda e se vuole, ti dice qualcosa altrimenti ti pianta la conversazione senza nemmeno darti il tempo di salutarla.”

Vayden sorride.

“Già, è proprio Louise.”

Dopo aver mangiato le frittelle, entrambi si fermano a fissare i bicchieri ancora colmi di birra.

“Cominciamo da capo, ti va?”

“Sono qui per questo.”

“La ragazza che l’ha scoperto tutto dov’è?”

“Credo a Belfast.”

“E’ stata interrogata?”

“No. Nessuno sa che è stata lei la prima a scoprire quel massacro. Lei ha perso la memoria e quel giorno ha avuto un terribile incidente.

“Bene. La ragazza scopre il posto e poi ha un incidente. In questo lasso di tempo lei che ha fatto?”

“E’ rimasta qualche giorno in ospedale, poi l’ho ospitata a casa mia perché meno periferica per le visite mediche e per facilitare la sorella che è sulla sedia a rotelle.”

“Altri famigliari?”

La mano veloce di Vayden continua a scrivere in un piccolo block notes con fogli bianchi.

“Morti in un incidente.”

“La ragazza dopo l’incidente cosa ha raccontato?”

“Nulla. Ha sempre sofferto di grandi dolori alla testa e ricordava soltanto l’attimo prima dell’impatto, ovvero il volo, poi nulla.”

“Il suo incidente?”

“In bicicletta, ma ci possiamo spostare da qui, andiamo a prenderci un’altra birra e poi ti mostrerò le foto degli scheletri.”

“Non è possibile vederli?”

“Sarà quasi impossibile. Non ho accesso ai file e pertanto non posso indagare direttamente.”

“Ma io sì.” O’Brady lo guarda.

“Quasi” conclude Vayden.

“E’ meglio di niente.”

“Andiamo a casa mia, prendo un po’ di cose e le mettiamo insieme.”

“Anche delle notizie in più su questa Tesla.”

“Ho i suoi disegni fatti in ospedale.”

“Ah!”

“Che c’è?”

“Resta qui e aspettami.”

“Hai visto qualcosa?” ma Vayden era già fuori.

La camminata è lunga abbastanza per fare sbollire i nervi dell’uomo. Ogni volta che fissa il volto imbarazzato di Jordy, Vayden avrebbe la voglia di ucciderlo.

“Che ci fai qui?”

“Ti ho seguito, non si vede?”

“Jordy che ci fai qui?”

“Amico che vuoi che ti dica che avevo paura? Ebbene avevo anzi, mi sto cacando sotto dalla paura! Quello mi mangia se mi trova, se si ricorda il mio nome.”

“Nessuno che non abbia fumo nel cervello si ricorda di te … Jordy.”

“Dai non essere così severo con te stesso. Stringimi la mano e dimmi che sei contento di vedermi.”

“E se ti facessi arrestare?”

“Ci sono già abbastanza grandi spacciatori in questa città che non saprebbero cosa farsene di uno piccolino come me.”

“Che vuoi?”

Vayden lo fissa con abbastanza cattiveria da impaurire un uomo grosso quanto lui, ma su Jordy non fa effetto.

“Quello che vuoi. Ti presto soldi, ti do una mano, ti porto la cena in camera, ti metto i vestiti fuori dalla porta per lo stiro ma per favore non mi lasciare solo.”

“Qui non puoi fermarti. Torna il albergo. Ti chiamo io.”

“Senti, guarda, ho noleggiato una macchina, da signori, scura, vetri oscurati, ti farò da autista.”

“Non se ne parla Jordy.”

“Ti cancellerò anche il debito.”

“Ok.”

Vayden gli fa cenno di aspettare e torna da O’Brady.

“Ci vediamo davanti a casa tua. Lascia la moto e portati solo i documenti, abbiamo un autista e gli mostra il suo informatore.”

“Ti fidi?”

“No. Ma in questo momento abbiamo bisogno di pensare solo al caso mentre alla mobilità ci penserà il nostro amico Jordy.”

“E Jordy … che fa?” domanda perplesso Timothy.

“Lo spacciatore, ma tranquillo. E’ uno un po’ pazzo ma ama troppo la vita per giocarsela male. Mi ha dato una mano in qualche caso e gli devo un favore.”

“Ma?”

“E’ uno che potrebbe muoversi di notte in ogni angolo di questa città e senza destare sospetto".

 

 

 


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