Un filosofo pedagogo dall'analista
- Si distenda, si rilassi. Chiuda gli occhi e conti fino a dieci -
- Uno, due, tre, quattro…-
(Per la miseria, si è già addormentato!)
- Mi racconti tutto -
Io avevo già nove mesi quando nacqui. Tutti lo sapevano eccetto mio padre,
che la sera prima aveva bevuto un po'. Mia madre mi aveva partorito
gridando a più non posso ed è per questo che ancora oggi non ci sento molto
bene. E sì, perché mi aveva quasi assordato. Il medico disse che ero a
posto, fino a quando non gli feci una scorreggetta sulla mano destra.
Allora s'incazzò, e in malo modo mi elargì una parolaccia accompagnata da
una strizzatina sulla coscia destra, dove tuttora è evidente un segnaccio
che mia madre, bontà sua, ritiene una voglia di gelato.
Tornati dopo una settimana a casa, iniziarono i guai: la notte gridavo come
un matto per svegliare mamma e papà, ma essi se la prendevano comoda;
quando arrivavano ero pieno colmo di piscio e cacca. Strizzavano gli occhi,
si chiudevano il naso e poi si mettevano all'opera. Era veramente una
tortura sentir dire: - Per la madonna, quanto piscia e caca! Ma da chi ha
preso?!-
E poi cominciavano pure a litigare! Ed io per fargli un dispetto piangevo
più forte ancora. Appena si avvicinavano, mi calmavo (o meglio, facevo
finta di calmarmi), mi allungavano quello schifo di biberon con quella
brodaglia biancastra, che essi reputavano miracolosa; strillavo perché
proprio non la volevo: e quei cretini scambiavano il mio pianto per fame.
Ma quando mai!
Così trascorsero ben tre mesi. I miei cari e adorati genitori avevano occhi
incavati, naso affilato, mani che puzzavano di latte in scatola. Una
mattina sentii felice mia madre che diceva: - Carlone, Fuffino ha dormito
tutta la notte come un ghiro! -
Sa quale fu la insospettabile risposta di mio padre?
- Meno male, almeno adesso possiamo dormire anche noi -
Allora giurai: - Questa me la paghi! -
E così fu. Facevo tutto il contrario di quello che dicevano loro.
Molti pensano che i lattanti siano dei peluches da accarezzare,
sbaciucchiare, sballottolare qua e là, ma non risponde a verità. Essi
capiscono perfettamente tutto e sono disposti a farsi coccolare per
ottenere tutto, dico tutto. Diventai astuto. Per fargliela pagare la notte
cominciai a pisciare nel lettino, e di giorno facevo la cacca dove
capitava. Una volta feci imbestialire mia madre, perché la mollai con gran
gusto sul tappeto persiano, che essa (a proposito, si chiama Carmelina)
mostrava orgogliosa e compiaciuta a tutte quelle scocciatrici ipocrite
false che mi guardavano con certi sorrisetti, come per dire: è tonto,
poverino!
Ma anche per loro arrivò il momento giusto.
Erano state invitate a cena. Avevano portato dei dolci, e per me una specie
di orsacchiotto mezzo spelacchiato, forse riciclato, che non mi piaceva
affatto. Durante la cena, parlavano parlavano, bevevano bevevano; ogni
tanto si ricordavano di me, e allora mi davano dei colpetti sul naso (già
da allora era grosso). Mi infastidivano. Per questo all'ennesimo tentativo
di toccarmi il nasetto, sputai tutto quello che avevo in bocca: una
disgustosa pappetta a base di omogeneizzato. Centrai in piena faccia la
signora Marilena dalle forme abbastanza puttanesche (vedevo che si dava da
fare con mio padre, nonostante le occhiatacce di mia madre); colpii di
striscio sua sorella Violetta, zitella, che spesso si faceva sollazzare da
qualche giovinastro, ricoprendole gran parte del volto compresa una lente
degli occhiali. Il marito di Marilena che tra un bicchiere e l'altro era
quasi partito si vide arrivare un grumo di cereali sulla giacca nuova,
comprata alla Boutique del Mistero. Mio padre e mia madre stranamente si
misero a ridere, ma per poco tempo, perché anche per loro ci fu un
assaggio. Conclusione? Strillarono come galline, me le dissero di tutti i
colori, però io ero contento come una pasqua, tanto che mi addormentai sul
tavolo.
Le cose peggiorarono con il passar del tempo, fino a quando mi portarono
dallo psicologo Ficoni, che sapeva dire solo: - Siate comprensivi con
questo ragazzino! Parlate con lui! State con lui! -
Mi era antipatico. Non capiva che la colpa era tutta mia e non dei miei
genitori.
A scuola andò male: gli insegnanti non dicevano apertamente che ero un
ignorante, ma si vedeva che lo pensavano. I miei compagni mi lasciarono in
pace da quando avevo litigato con un mezzo stupido che si era permesso di
affermare cose non carine (anche se vere) sul conto dei miei.
Ora sono diventato un filosofo pedagogo. Tutti vengono ad intervistarmi,
a far inchini servili, a chiedere favori, ad invitarmi a feste paesane e
non, a tenere conferenze, a partecipare a dibattiti in tv sullo sviluppo e
sulla formazione del bambino. Ed io me la rido, oh come me la rido, a
sentire tutte quelle cavolate, specialmente quelle dette dalle insegnanti
smaniose di apparire. Capisco perfettamente i ragazzi che non vogliono
ubbidire, che non studiano, che raccontano bugie, che approfittano dei
genitori, sciocchi per il troppo bene che vogliono ai figli.
Adesso basta. Sono stanco di fare della metafisica, quasi quasi vorrei
essere un lattante!
Odiavo il biberon!
- Basta lo dico io! Si svegli, si svegli. La prima seduta è finita.-
-Da L'altro mondo-
L'albero di Natale
Il calmo e posato professor Carloni si siede finalmente sul divano ed
ammira la sua opera d'arte.
Ha impiegato ben tre ore per sistemare il piccolo pino, comprato al mercato
il giorno prima. Ha fatto tutto con grande passione ed attenzione,
soffermandosi ogni tanto a rifinire con lievi tocchi le luci ammiccanti e i
ninnoli che la moglie conserva gelosamente da quando, sono ben
trentacinque anni, si sposarono. Ora i figli sono lontani, alle prese
con le traversie della vita. Sono rimasti soli lui e la sua, una volta,
dolce Gisella; tra qualche anno andranno in pensione. Una cosa gli
dispiace: la sua donna forse non l'apprezza più come un tempo. -Chi sa
perché- si domanda con quell'angoscia che lo prende alla gola e quasi lo fa
piangere. Pensa, a luce spenta e ad occhi chiusi, al loro rapporto che non
sembra più quello di una volta. Scaccia via il pensiero, riapre gli occhi.
Si commuove al gioco rutilante delle luci bianche rosse blu e quasi,
leggera, gli scappa una lacrima.
Ma ecco, sente il ticchettio salire le scale, non fa a tempo ad alzarsi che
la porta si spalanca. È Gisella.
-Ho addobbato l'albero. Guarda che bello!-
-Ma non vedi che pende? E poi come hai messo quelle luci?-
-Ma cara, che dici! Ci ho perso tre ore di tempo-
-Sì, per fare una schifezza del genere! Non sei buono a nulla!-
Il professore rimane senza parola, annichilito. Ma una collera nera,
inenarrabile, scuote il suo ventre e le sue membra. Afferra l'albero,
addobbato con tanta pazienza e amore, e lo scaraventa fuori dalla finestra
in un turbinio di palline colorate, angioletti, fili d'argento.
In lontananza s'ode nell'aria serena un canto natalizio sulle note
melanconiche e lamentose di una zampogna come un gemito d'amore perduto.
-Da L'altro mondo-
Sono sempre stato previdente
La settimana scorsa il vecchio signor Vittorio Emanuele, di anni ottantanove,
ha esaudito il suo probabile ultimo desiderio.
È andato a visitare la Fiera dell'arredamento (Tutto per la casa), appoggiato
a mala pena sul suo bastone d'avorio e al braccio della prosperosa badante
slovacca, che ha anche l'ingrato compito di assecondarlo sessualmente almeno
una volta ogni trenta giorni.
Che ressa, ragazzi! Ma lui, pignolo e sorridente (che strano vederlo
sorridere…), rigido e barcollante (ogni tanto il ginocchio destro cedeva e il
gomito scivolava sul seno di Katarina…), metodico e interessato (come quando
esamina la sua collezione di francobolli e farfalle…) percorse tutti i
padiglioni, fermandosi con attenzione ad osservare gli stand uno per uno.
Cucine, salotti, divani, camere da letto, vasche da bagno, tetti, finestre,
porte, scale di legno, materassi, tende, tavoli, sedie… C'era tutto.
Però, gira e rigira, dopo tre ore, non vide quello che cercava, quello che
l'aveva spinto ad abbandonare la comoda poltrona di casa.
Visto che Katarina, biondastra di capelli, dalle labbra carnose rosso-fuoco
(strato considerevole di rossetto), più intenta a mirare uomini corposi ed
aitanti che mobilia, spiccicava poche parole d'italiano e con difficoltà,
decise di chiedere lui l'informazione che gli stava a cuore.
Si avvicinò allora ad un commesso non tanto giovane e che gli sembrava
abbastanza disponibile. Biascicando con la sua bocca da topo, stretta e
prominente, sotto il naso adunco ed affilato, domandò:
-Scusi, dove posso trovare il reparto bare?-
-Ah, il bar lo trova sulla destra in fondo al padiglione.-
-No, no, non cerco il bar, ma le bare!-
-Bare? ma che bare!-
-Le casse da morto! Sa, sono vecchio, e allora vorrei avere un'idea sulle
misure e i costi, prepararmi, comprarne una adatta a me. Non si sa mai. Sono
sempre stato previdente.-
Il commesso spalancò gli occhi e si passò una mano tra i capelli. Stava per
sbruffare con il suo viso da esperto venditore chissà che risata, ma si
trattenne davanti a quello straccio di uomo striminzito ed incartapecorito;
gli consigliò invece di recarsi da un impresario di pompe funebri che
sicuramente lo avrebbe accontentato.
Vittorio Emanuele, a malincuore, cianchettando e sfogandosi con la badante,
si allontanò dichiarando che la fiera era incompleta e male organizzata.
Mentre girava intorno allo stand vide il commesso dalla faccia buona che,
indicandolo, parlava con un altro, piegato in due dal ridere.
-Ridete, ridete. Quando verrà il momento non potrete scegliere, e starete
scomodi per lunghissimo tempo!-
-Da L'altro mondo-
I cappelli di Carnevale
Arriva Carnevale.
Nei supermercati e negozi abbondano maschere, coriandoli, stelle filanti,
scherzi. In giro c'è aria frizzante e anticonformista.
Ricordo che aspettavo con ansia questa festa, più del Natale e della
Pasqua, perché
la festa del Carnevale, divertente e sbarazzina, trascinava noi bambini.
Avevo otto anni, si avvicinava Carnevale. A gruppi i ragazzi si spargevano
in giro per le case del paese a chiedere qualcosa: un pugnetto di mandorle,
fichi secchi, noci, e qualche dolcetto. Addobbati alla bell'e meglio con
giacche, camicie e pantaloni vecchi e dismessi da zii e padri andavano
perfino nelle campagne a visitare le frazioni del paese.
Ero piccolo, non potevo partecipare a quell'irresistibile gioco festoso
(cosa che feci qualche anno più tardi). Allora mia madre pensò di alleviare
la mia delusione, costruendo con carta da zucchero due cappelli a forma di
cono, per me e mio fratello (il secondo). Erano alti, circondati da
fiocchetti rossi e gialli e da pezzetti di stelle filanti. In cima ad uno
aveva cucito un pompon rosso e all'altro uno giallo, a cui aveva agganciato
un campanellino.
A me capitò il cappello col pompon rosso. Li indossammo felici e
cominciammo a correre per la casa, scuotendo la testa per far suonare il
campanellino. Quello di mio fratello suonava meglio. Siccome ero più
grande, gli presi il cappello per fare lo scambio. Ma lui non ci stava e
cominciò ad urlare e piangere, correndo dalla mamma, che mi ordinò di
ridargli il cappello che mi ero già sistemato in testa. Iniziai a fare i
capricci, non volevo restituire il cappello "più bello". Alla fine dovetti
cedere davanti alla fermezza di mia madre. Indispettito, mi strappai il
cappello di testa, lo buttai sul pavimento e lo calpestai più volte. Fu una
delle pochissime volte che mia madre mi picchiò. Bastarono due schiaffi e
l'espressione dolorosa e incredula del suo volto mentre mi diceva: -Così
non si fa!- per farmi tornare quel buon bambino che ero. Compresi lo
sbaglio. Chiesi scusa a lei e a mio fratello, raccolsi i pezzi del cappello
e piangendo mi rifugiai tra le braccia di mia madre, che mi consolò, ma
disse: -Ora incolla i pezzi e rimettiti il cappello in testa!-
-Da Un ricordo al giorno-
La prima fumata
In questi giorni si parla tanto di spinelli e sigarette.
Perché si fuma? Non so dare risposta, però posso raccontare la mia
esperienza.
Avevamo nove anni mio cugino ed io. Ci venne voglia di fumare per provare
com'era, visto che i nostri compagni più grandi si vantavano di averlo
fatto.
Un giorno, Abele mi si avvicinò guardingo, e mi disse a bassa voce:
-Angelo, l'ho trovato!- Infilò la mano nella tasca ed estrasse un involtino
di carta non proprio pulita. -Che cosa hai trovato? Fammi vedere! - risposi
con impazienza.
-Questo!- Aprì il pacchetto ed apparve un puzzolente mezzo sigaro toscano.
Capii subito che l'aveva fregato allo zio.
-È giunto il momento, ora fumiamo!-
-Mica ti avrà visto lo zio, sennò succede come l'altra volta!-
-No, no, stai tranquillo. Dormiva.-
-Sì, come l'altra volta, che faceva finta di dormire!-
-No, stavolta sono sicuro! Gli ho dato una pizzicata. Non s'è mosso-
-Va bene, se lo dici tu! E i fiammiferi li hai?-
-Ho anche quelli!-
-Faccio io la prima tirata!-
-No. Tocca a me, l'ho portato io!-
-D'accordo, dammi i fiammiferi, che accendo-
Ci nascondemmo dietro casa, vicino alla porta che dava accesso alla
cisterna, in una rientranza del muro maestro, dove crescevano ortiche e
dove facevamo le nostre scoperte e prime esperienze.
Accesi un fiammifero, sfregando con energia, mentre tutti e due ci
guardavamo intorno con sospetto e col timore che apparisse qualcuno. In
quel tempo, cari miei, si usavano mani e cinghie e poche chiacchiere.
Mio cugino aspirò profondamente e quasi non strabuzzava gli occhi alla
vampata calda e aspra del fumo.
Mi venne da ridere, mentre lui cercava di fare il grande, coprendo la
figuraccia con:
-Non è niente, non è niente- Siccome continuavo a ridere -Adesso tocca a
te!- mi disse indispettito -Vediamo quanto sei bravo!-
Feci la tirata. Trattenni la voglia di sputare e tossire. La puzza era
insopportabile. Ma aspirai ancora due volte per dimostrare d'essere più
forte.
Mi girò la testa, mi si appannò la vista, quasi non svenni. Mio cugino non
rise, ebbe paura nel vedermi pallido come un cencio. Dopo un po' mi ripresi
e dissi spavaldo:
-Hai visto come si fa?-
-Sì, hai vinto tu, però stavi per cadere a terra. Ti ho dovuto reggere-
-Andiamo via- gli risposi con un filo di voce (mi veniva da vomitare) -Se
ci scoprono, le prendiamo pure!-
Buttammo in mezzo alle ortiche il sigaro, e ci addentrammo nell'orto in
cerca di qualche frutto ristoratore.
Ma la cosa non finì, perché undici anni dopo ci riprovai con successo (?).
Mi beccai così il vizio del fumo.
Lo feci per apparire più importante? Per darmi un'aria vissuta? Non so,
però so solo che, quando ero imbarazzato o mi sentivo solo o ero con altri
o davanti a ragazze o studiavo, accendevo la sigaretta. Poi smisi di fumare
definitivamente vent'anni dopo con una certa difficoltà, tant'è vero che
per circa due anni, ogni tanto, ebbi il sogno ricorrente di desiderare di
fumare e di pentirmene.
-Da Un ricordo al giorno-
Il passero Cippetto e la gatta Stellina
Un giorno, un passerotto, ai primi voli, rimase imprigionato nella nostra
terrazza. Non riusciva a spiccare il volo oltre la balaustra. Sul tetto di
fronte una famiglia di passeri cinguettava disperatamente. Lo presi
delicatamente, lo feci accarezzare da mia figlia e poi lo lanciai in aria
per dargli la spinta. Lui prese il volo, ma non andò molto lontano, non
riuscì a raggiungere i suoi fratelli sul tetto. Atterrò nel giardino del
condominio, dove subito fu preda di un gatto. Mia figlia scoppiò in
lacrime, corse in camera, dove continuò a piangere. Per consolarla le
raccontai quello che era successo a me tanti tanti anni prima.
Avevo otto anni. Mi divertivo a catturare uccelli. Mettevo una gabbietta,
cosparsa all'interno di briciole, con la porticina aperta, legata ad un
filo, nella stanza adibita a magazzino. Spalancavo la finestra, e
attendevo. Arrivavano uccelli d'ogni specie, beccavano un po' dappertutto,
entravano anche nella gabbietta per prendere i pezzetti di pane. Allora ero
pronto a tirare la cordicella della porticina che si chiudeva. Osservavo
gli uccelli, li prendevo in mano, lisciavo le loro penne, e poi li
rimettevo in libertà.
Un giorno si infilò nella gabbia un passerotto, che mi intenerì per la sua
timidezza e bellezza. Lo presi in mano, e sentii il suo cuore che batteva
forte. Aveva paura. Lo accarezzai dolcemente, gli offrii una briciola di
pane, una goccia d'acqua e lo rimisi nella gabbia. Fuori con quei gattacci
che giravano nei dintorni, non sarebbe vissuto a lungo.
Decisi di tenermelo.
Mi procurai una gabbia più grande, la pulii accuratamente e la destinai a
sua dimora.
Chiamai il passero Cippetto.
Passavo ore con lui, finita la scuola, e tante volte non svolgevo tutti i
compiti. Gli parlavo, e sembrava che mi capisse, muovendo il capo e facendo
cip cip.
Un giorno arrivò il grande momento!
Aprii la gabbia per pulirla, lui si fece prendere senza fare resistenza, e
cinguettando mi diede una leggera beccata sul dito. Lo appoggiai sulla
tavola e non volò via! ma saltellò, beccò qualche briciola e tornò sulla
mia mano. Lo accarezzai, lui di nuovo cantò cip cip e si fece un altro
giretto, muovendosi con eleganza sulle gracili zampette. Non credevo ai
miei occhi. Pulii velocemente la gabbietta, aprii la porticina, e lui cip
cip vi tornò dentro. L'avevo addomesticato, ero felice.
Quella scena si ripeteva ogni giorno. Stavo molto attento quando aprivo la
gabbia. Verificavo se nei paraggi ci fosse la gatta Stellina, spietata
cacciatrice di topi e uccelli. Da quando era entrata in casa nostra, dopo
lo sfollamento, non si vide più un topo in giro. Aveva i piedi e la punta
della coda bianchi, il pelo maculato e una stellina bianca in fronte.
Consapevole del pericolo che passava Cippetto, quando mi dedicavo alle
operazioni di pulizia, chiudevo la porta della cucina e del balcone.
Un triste giorno, di pomeriggio, ero solo in cucina, e, come al solito,
parlavo con Cippetto, gli davo da mangiare, lo accarezzavo, facendogli i
complimenti per la sua bellezza. E lui mi ringraziava con canori cip cip,
saltellando, svolazzando sul tavolo, quando all'improvviso un lampo bianco
e nero mi passò vicino alla spalla ed afferrò il passerotto: era la gatta,
che rapida si dileguò con un agile salto fuggendo per le scale. Rimasi
imbambolato, incredulo: avevo lasciato aperta la porta della cucina. Gridai
disperato:
-Stellina, ridammi Cippetto!-
Poi piansi.
Pieno d'ira e desideroso di vendetta mi armai di bastone, deciso a punire
la gatta con la morte. Mi aggirai dappertutto, ispezionai tutti i suoi
posti preferiti, in modo particolare la legnaia, dove aveva partorito varie
volte i suoi micetti.
La ricerca fu inutile. Stellina aveva capito che non doveva farsi vedere
per un bel po'.
Infatti riapparve una decina di giorni dopo, quando m'era passata la voglia
di vendicarmi, all'ora di pranzo.
Si avvicinò a mio padre e miagolando, gli chiese del cibo, tirandogli, come
sempre, con le unghie, l'orlo dei pantaloni (proprio così!).
Ma giunse l'ultima ora anche per lei che cercava di catturare le rondini,
che avevano costruito i nidi sotto il balcone, facendo scattare la zampa
fuori dalle sbarre della ringhiera. Si ammalò di rogna, e per evitare il
pericolo di contagio si pensò fosse opportuno ammazzarla. Ero contrario.
Protestai piangendo.
La infilarono in un sacco e l'uccisero con un colpo di fucile. Scavarono
una buca nell'orto sotto il noce e la seppellirono lì.
-Da Un ricordo al giorno-
Faffankullo
Avevo quattro anni e mezzo. Ricordo ancora quando sbucò sul versante destro
della collina il carro armato tedesco con la canna minacciosa del cannone
puntata verso il paese. Corsi in casa, dove mio padre e mia madre stavano
ammucchiando la poca roba da portar via. Dovevamo sfollare, era rischioso
rimanere in paese. Il giorno prima s'era sparsa la voce che sarebbero
arrivati i tedeschi.
Partimmo con il carretto tirato a mano da mio padre dove erano state messe
in sacchi le cose indispensabili. Mio fratello minore stava avvolto in una
coperta tra i fagotti, mentre io portavo sulle spalle un sacchetto di
foglie di tabacco e patata, che mio padre avrebbe tritato e mescolato per
fare le sigarette.
Dopo un giorno di viaggio, trovammo rifugio in una vecchia casa colonica
insieme con altri sfollati. Rimanemmo in quel posto più di un anno. Si
dormiva su pagliericci riempiti di foglie di mais stesi sul pavimento di
mattoni, coperti da mantelline e vecchi pastrani. La cucina, abbandonata
chi sa da quanto tempo, tutta nera e sporca, ripulita dai miei per quanto
si poteva, aveva un grosso focolare, dove mia madre cucinava servendosi
degli oggetti che avevamo portato con noi e del cibo che mio padre si
procurava con lavoretti nei dintorni.
A poca distanza dalla casa si era insediato un comando tedesco con
guarnigione di soldati quasi tutti molto giovani.
Mia madre, spinta dal bisogno, cominciò a lavare e stirare le camicie per
gli ufficiali e sottufficiali. A portarle e ritirarle, di solito, veniva un
aitante soldato, altissimo e biondo, che mi prese in simpatia. Mi offriva
qualche caramella insieme al pane nero di segala. E spesso si metteva a
giocare con me e mio fratello.
Una volta come un gigante mi prese per la vita, mi sollevò fino agli anelli
infissi nel soffitto, che mi fece afferrare, e poi mi lasciò penzoloni.
Impaurito, mi misi a gridare la prima parolaccia che avevo imparato senza
per altro conoscerne il vero significato:
-Vaffanculo!-
Lui mi prese di nuovo e mi appoggiò a terra, mentre rideva e ripeteva
contento:
-Faffankullo, faffankullo!-
Un'altra volta mi prese per il tallone e mi infilò a testa in giù nel pozzo
che si trovava vicino all'aia. Anche in quel caso, quando stavo per toccare
l'acqua, mi misi ad urlare vaffanculo a più non posso, e quella magica
parola rimbombante sulle umide pareti muschiose mi tirò fuori dal pericolo.
Lui, naturalmente, rideva pronunciando faffankullo.
Un giorno trafficavo insieme con mio fratello vicino al focolare e non mi
accorsi di un pezzo di tavola da cui fuoriuscivano quattro grossi chiodi
arrugginiti. Dove credete che Angelo si sedette? Depose la sua tenera
chiappa destra proprio su quei puntuti chiodi.
Urlai come un forsennato, accompagnato nel concerto da mio fratello, fino a
quando giunsero mia madre e mio padre (si nascondeva per ore
nell'intercapedine di due muri per sfuggire alle retate dei Tedeschi e
Fascisti) che mi diedero le prime cure. Ma c'era il pericolo del tetano,
comunque di un'infezione.
Poco lontano, oltre la vecchia ferrovia, i Tedeschi avevano adibito una
casa ad infermeria. Là mia madre, facendosi coraggio e sfidando tutti i
pareri negativi, mi portò.
Quando entrammo, scorsi Faffankullo e mi passò la paura. Lui fu contento di
vedermi e mi accolse con un gioioso abbraccio. Prima dell'iniezione, tolse
il pezzo di lenzuolo e pulì il tutto con impacchi di alcool che bruciava e
mi faceva male. Cominciai a strillare e piangere. Per rabbonirmi infilò una
mano in tasca. Pensai che volesse darmi una caramella, invece tirò fuori il
portafogli da cui estrasse una foto che mi mostrò. Mi segnò col dito un
bambino riccioluto all'incirca della mia età, dicendo: -Kwesto essere Otto,
fighlio mio- e poi indicò la giovane donna -Kwesta sua mammà-
A sentire "otto", guardai stupito mia madre e mi misi a ridere (credevo che
i numeri servissero ad altro!) e mi calmai.
Fatta la puntura, aggiunse: -Tu essere puono, non dire me faffankullo-
Aveva scoperto il significato della misteriosa parola! Finita la
medicazione, mi infilò sul petto, sotto la camiciola, un pezzo di pane nero
e con una carezza mi salutò, mentre su pressione di mia madre gli dicevo
sorridendo: -Grazie, ciao-
-Da Un ricordo al giorno-
Lo schiaffo
Ieri sera prima di addormentarmi, ho ricordato un episodio
della mia infanzia, quando, per motivi inspiegabili, la maestra supplente
mi diede uno schiaffo.
Ci rimasi molto male, senza piangere.
Passai un pomeriggio chiuso in casa e in me stesso, mentre i miei amici mi
invitavano al gioco.
Che cosa avevo fatto?
Che cosa avevo detto?
Frequentavo la terza elementare. La maestra s'era ammalata ed era stata
sostituita da una supplente.
Un giorno correggeva i temi.
Ci faceva andare in cattedra, uno alla volta. Leggeva, commentava,
apportava correzioni con segnacci nervosi e sguardi irati.
Quando fu il mio momento, mi avvicinai timoroso.
Cominciò a leggere. Arrivò al punto in cui avevo scritto che le foglie
degli alberi, d'autunno, sono "gialle".
- Gialle come questa? - fece - mostrandomi la sua sciarpa gialla
sgargiante.
- Ignorante! - aggiunse, e mi diede lo schiaffo, irritata.
Mistero che non ho mai potuto svelare.
Passarono gli anni.
Mi mantenevo all'università, svolgendo lavoretti vari e dando ripetizioni
private.
Quella maestra mi chiese - ironia della sorte - se volevo dare delle
lezioni di latino a sua figlia. Forse lei aveva dimenticato, io no. Le
risposi che non potevo, perché ero molto impegnato.
- Da Un ricordo al giorno -
Breve storia dell’egregio Professor Primo Sapiens
Appena nato, il Professor Primo Sapiens subito si mise a recitare innumerevoli
hihihi hehehe, volendo dire:”Ho fame”, ma per i suoi cari genitori era il
grido di una spiccata predilezione per la cultura.
Nei primi anni di vita, mamma e papà lo accudirono amorevolmente, dedicandosi
anima e corpo alla sua educazione, inculcandogli le bellezze dell’arte, della
scienza e della letteratura.
A due anni e mezzo iniziò il suo periodo educativo. A colazione gli recitavano
i versi più belli dei poeti italiani, a pranzo gli descrivevano
scientificamente i cibi, a cena gli facevano vedere i cartoni animati.
Cosicché, quando compì cinque anni, al posto della torta, gli misero davanti,
sulla tavola riccamente imbandita, un contenitore con provette, alcune
riempite d’aranciata rossa, altre di succo di frutta all’albicocca, e lui
dovette berle in onore della scienza e della tecnica. In più dovette recitare
“Pianto antico” di Giosuè Carducci, mentre dal giradischi si diffondevano le
magiche note del Notturno n. 2 di Chopin. La mamma con le lacrime agli occhi,
papà serio e pieno di commozione, gli zii e cugini con sorrisetti ironici, gli
amici invitati, che aspettavano impazienti le paste, applaudirono entusiasti.
Da allora in poi, fino ai dieci anni, papà gli insegnò tutto lo scibile umano,
attingendo il sapere dalle numerose enciclopedie e dai pesanti volumi che
riempivano la sua casa. E, come se non bastasse, perfino di notte, quando la
luna brillava, gli sciorinava le bellezze del Creato, mostrandogli le stelle
con somma sapienza; e lui imparava tutto a meraviglia.
Non destò stupore, quindi, che dopo qualche anno ne sapesse più del padre.
Ma, oltre agli studi intensi, trovava il tempo per divertirsi: gli piaceva
andare in giro in bicicletta, arrampicarsi sugli alberi, suonare i campanelli
delle case insieme con i compagni monelli, fare battaglie sulla riva del mare
con squadre avversarie, lanciandosi pugni di sabbia bagnata, buttare petardi
nei cassonetti delle immondizie e fare pernacchie, nascosti, ai passanti.
Tutto questo non scalfì la corazza della sua buona educazione, che a quindici
anni favorì la metamorfosi completa della sua maturazione ed esplosero le sue
due passioni dirompenti: studiare matematica e collezionare foglie.
Il suo avvenire fu segnato: terminato il liceo, si laureò in Scienze Naturali,
e poi si dedicò all’insegnamento.
Quale non fu la sua gioia, quando entrò, giovane giovane, a ventiquattro anni,
in un’aula e vide i ragazzi scattare in piedi. Erano altri tempi, come poi,
spesso, amaramente, pensava ed andava ripetendo in ogni occasione a tutti.
Perché dovete sapere che nel corso di trent’anni quella gioia ben presto si
tramutò pian piano, ma inesorabilmente, in sofferenza atroce nel constatare
quanto il mondo della scuola dipendesse dai capricci di alunni piagnucolosi e
di genitori arroganti ed ignoranti.
E poi cominciò a considerare, mentre si faceva strada in lui il demone dello
stress, che le colpe principali del mal funzionamento della scuola, di quella
almeno dove prestava servizio, ricadevano sulla maggior parte dei colleghi e
del Capo d’Istituto.
A lui piaceva insegnare e stare con i ragazzi. Però, già dopo qualche anno, al
mattino, appena sveglio, si sentiva stanco e gli veniva un po’ di nausea al
pensiero di dover andare a scuola per ripetere le stesse cose senza più
slancio, sentire i colleghi lamentarsi di continuo, non essere sempre
apprezzato come lui si aspettava.
Monotonia.
<<Potessi cambiare lavoro!>> arzigogolava <<ma che lavoro? Almeno avessi uno
stipendio decente!>>
E così, avanti. Triste e insoddisfatto.
Una cosa che lo rendeva nervoso e insofferente erano le lagnanze e i
piagnistei di genitori e alunni, le accuse larvate o aperte al suo sistema
d’insegnamento. Alcuni, evidentemente in malafede, dicevano che il proprio
figlio, intelligentissimo, non riusciva a comprendere le sue spiegazioni. E
pensare che la matematica era la sua dea. Una volta, esasperato dalla critica
di una mamma iperprotettiva, rivolta non soltanto a lui, ma anche alla scuola
tutta, esclamò: <<Avete la scuola che meritate, genitori, di che vi
lamentate?>>
Riteneva che la colpa di tutto erano gli alunni, quelli maleducati, quelli che
gli ridevano spavaldi in faccia, mentre lui si prodigava a spargere il seme
del sapere! Si convinse che per quei ragazzi viziati c’era un solo rimedio:
punizioni severissime.
<<Se non tornano le regole>> predicava <<andremo tutti in malora.>>
A volte era pensieroso, cupo; a volte ansioso, scorbutico; a volte sorridente,
beffardo.
Si mise a prendere in giro le colleghe e i colleghi, lui che era stato tanto
rispettoso e disponibile verso tutti.
Gli insegnanti non si resero conto del suo cambiamento, non gli diedero peso,
anzi lo sollecitavano a criticare l’operato della preside e di tutti i suoi
superiori, su su fino al ministro, sghignazzando volentieri e rimpinguando il
campionario dei pettegolezzi. A loro non interessava nulla che il povero
professor Primo Sapiens stesse per impazzire, preda di uno stress strisciante,
barcollante sul baratro della depressione. Non pensavano che potesse succedere
anche a loro.
E dire che in quella scuola si erano verificati in passato fatti che avevano
destato scalpore, capitati a professori stimati e preparati.
Molti ricordano ancora quando la professoressa Vibella alla risposta un po’
strafottente del solito bulletto, all’improvviso, scoppiò in un pianto dirotto
e disperato davanti a tutta la classe. A nulla valsero le parole di conforto
della preside e degli altri docenti. Finì in pensione anzi tempo, come capitò
anche al professor Luigi Pilucci, accusato ingiustamente da un’alunna di
essere stata da lui circuita. Ma dov’era la preside? Cosa dissero i colleghi?
E i genitori? Tutti addosso, specialmente il sindacato che avrebbe dovuto
proteggerlo. E quella bambina dallo sguardo angelico si era inventata tutto!
Andò peggio alla professoressa Elena Sisto. Fin dai primi giorni di lezione fu
oggetto di scherno per la sua evidente timidezza e bontà. Aveva un animo
sensibilissimo, non reggeva ai perfidi sorrisi e agli sgarbi. Soffriva oltre
ogni limite nel vedere come i ragazzi le facessero dispetti e saltassero sui
banchi, e nel sentire come i genitori la denigrassero e volessero che fosse
cacciata. La classe fece perfino sciopero, rifiutandosi di partecipare alle
sue lezioni. Non le bastarono calmanti e pillole, e la mattina di un triste
giorno i genitori la trovarono nel letto morta, stroncata da un infarto.
Nonostante tutto, il professor Sapiens resisteva, ma cominciava ad urlare come
un ossesso e a diventare manesco. Se un alunno lo sfidava con lo sguardo, lo
trafiggeva con battute offensive o addirittura lo colpiva con una sberla.
Proteste, denunce, sospensioni dall’insegnamento.
Ogni volta che tornava a scuola, la situazione si aggravava.
Un giorno, un ragazzo particolarmente maleducato lo mandò a quel paese con un
“vaff…”, e lui reagì di colpo, sferrandogli un manrovescio che lo colpì tra
labbra e naso, facendoli sanguinare.
Per lui fu la fine.
Esonerato, fu costretto a chiedere le dimissioni.
E così si avverò quello che aveva sempre temuto: finire in malora.
Per fortuna la sua famiglia gli è stata sempre vicina, assistendolo con amore
e riconoscenza. Nei rari momenti di lucidità piange per la vergogna e qualche
volta ha anche pensato di farla finita come il maestro Bisceglie che si sparò
un colpo di fucile calibro 12 in bocca, ma l’affetto per i suoi cari lo ha
sempre frenato: non meritano un altro dolore, sarebbe ingiusto far impazzire
anche loro.
-Da L'altro mondo- Adolfo Come ti ho visto mi son detto: <<Questa deve essere una buona diavola che non rompe le uova nel paniere a nessuno, tanto meno a me che sono una pasta d'uomo per bontà e per onestà. Invece mi sono sbagliato, perché tu sei risultata una grande scocciatrice, rompiballe colossale; ogni volta che mi vedi mi chiedi un prestito; ma che scherziamo? Non sono mica Paperon de' Paperoni! E poi cominci anche ad essermi antipatica con quel tuo naso all'insù che sembra abbia paura di annusare i poveri mortali, come se fosse stato soffiato da qualche nobile delle passate epoche. Ieri l'altro ridevi come una tartaruga innamorata, muovevi le mani come una languida fanciulla e dimenavi il sedere come una ranocchia.>> Così inizia il romanzo, intitolato "La vita è un problema", del bidello Adolfo Bellini. E' costui un uomo sui trentacinque anni, dalle gambe leggermente arcuate, orecchie a sventola, narici dilatate e occhi un po' sporgenti. E' perennemente seduto su una sedia metallica con sedile rivestito in compensato, al centro del lungo corridoio del secondo piano della Scuola media "G. Leopardi" di Variano. La scrivania su cui si appoggia pensieroso è piena di fogli bianchi, quadernoni, due penne rosse, una blu ed una nera. Non vede e non sente nessuno, tutto preso dalla sua attività incessante. Scrive scrive scrive. I ragazzi fanno a gara a chiedere il permesso di andare in bagno; si divertono un mondo a passargli davanti, fargli boccacce scimmiesche, camminare come sciancati per sfotterlo, sbattere le porte per vederlo, finalmente!, sobbalzare. Lui alza la testa, osserva con austero sguardo il corridoio...vuoto, sorride al soffitto, e poi si rituffa nel suo ciclopico romanzo. E scrive scrive scrive. Sono dieci anni che ha cominciato il romanzo. E' arrivato a pagina 4357 e non ancora entra nel vivo della vicenda. Altro che "I Miserabili" o "Guerra e Pace", la sua creazione dovrà superare le barriere del tempo, dovrà essere il fulcro della cultura del Tremila. La sua mano corre veloce; ogni tanto egli si ferma, cambia penna e sottolinea di rosso alcune parole; poi passa alla penna blu e disegna dei magnifici ovali intorno ai termini fondanti; quando afferra la penna nera, son dolori. Sembra straziato: gli occhi quasi strabuzzano, si contorce sulla sedia, e...zac! un taglio netto sulla frase malcapitata. E quei birbanti di alunni che ti fanno? Lo imitano, entrando e uscendo dalle aule e dai bagni. Qualcuno più maleducato ed audace di altri disegna addirittura sulle pareti segnacci e svolazzi rossi neri blu. Quelle poche volte che arriva la preside, richiamata dal frastuono e dalle sghignazzate, tutto per incanto tace: gli insegnanti non hanno visto e non sanno; gli allievi, poveri angeli, sono compostissimi. Quella sbraita al vento, nessuno si dà pena di prestarle attenzione. <<Che cos'è questo baccano! E lei, Bellini, cosa fa? Scalda la sedia? Lavori, lavori. Si guadagni lo stipendio!>> Il bidello si alza, tutto anchilosato, con tre penne in mano; sorride con una smorfia disgustosa, come per dire: << Ma lei m' interrompe l'estro creativo!>> Cosicché sfiduciata, irata, minacciando sanzioni disciplinari agli insegnanti ed agli alunni, e licenziamenti in massa ai collaboratori scolastici, se ne torna in presidenza a sorseggiare la sua tazzina di tè. Appena sparisce, rieccoti il putiferio. Tutti son contenti e, a detta di Adolfo, il peso della cultura si fa sentire in un ambiente sereno, dove è molto proficuo lavorare. Ma lui svolge il lavoro per cui è pagato? Certo! In mezz'ora ti pulisce le aule, il corridoio, i bagni e alle tredici e trenta precise vola a casa dalla sua famigliola. Ad attenderlo ci sono, a sentir lui, due graziose personcine: la moglie Marietta e la figlia di cinque anni Giuseppina. A dir la verità son bruttine, ma per Adolfo sono ninfe; le ama veramente, è molto legato ad esse che, servizievoli, si preoccupano tanto delle fatiche a cui è assoggettato. Ingurgitato un grosso piatto di pastasciutta, scolato un mezzo litro di vino, il buon Bellini può raccontare la sua pesante e faticosa giornata trascorsa a scuola. Ma del romanzo in casa non parla affatto. Si sa, son cose da letterati quelle, mica roba per quella ignorantona (nel senso che ignora, non sa) di sua moglie. I suoi cari, compresi i parenti lontani in Calabria, pensano che lui sia quasi sfruttato dallo Stato italiano, che nemmeno una divisa gli passa! E Adolfo fa di tutto per avvalorare queste ipotesi. Verrà, verrà il giorno della riscossa, quando tutti, a cominciare da quei tromboni di insegnanti, si inchineranno alla sua magica maestria, al suo sublime capolavoro, al nuovo e imperituro vate della cultura italiana. Perfino Dante, di fronte alla possanza delle sue ineguagliabili idee, sarà ridimensionato. Su questo medita, mentre gioca a cavalluccio con Giuseppina. Si rotolano felici sul tappeto, la moglie prepara il caffè: perfetto quadretto di sana famiglia. "Ti sono vicino e mi sento di stare più tranquillo, ma tu non mi dici niente. Perché? Lo so che qualche volta sono scortese e mi comporto un po' male. La tua bellezza è un piacere per me che ti amo con tutto il cuore e l'anima. Sai che sempre ti sarò accanto fino all'ultimo attimo della vita. Tu mi vuoi bene anche quando non lo fai vedere. Scadenza delle mie attenzioni. Tripudio della mia felicità folle. Olfatto generoso di olezzi sapienti. Fuga dalla monotonia quotidiana. E tu, dolce pulcino, sei l'anima del mio vivere, soave fragola saporosa. Scala della mia gioia". Ecco, Adolfo pensava di inserire questi profondi e sublimi pensieri nel suo romanzo. Così avrebbe celebrato nel migliore dei modi il suo affetto per Pinuccia e il suo amore per Marietta, che adesso lo stava osservando con sguardo estasiato. Ma non sempre "Adolfuccio mio" era tanto buono e gentile. A volte si arrabbiava per un nonnulla, specialmente quando veniva chiamato mentre era assorto in chissà quali fantasticherie. In quei momenti diventava scuro in volto, con gli occhi più sporgenti del solito e fissi su un oggetto, e roteava la mano destra in aria come se scrivesse. Allora anche Giuseppina esitava ad avvicinarsi al dolce "papino". Povera Marietta! Non sapeva nulla del romanzo, non poteva immaginare che suo marito aveva intenzione di diventare l'uomo più famoso del ventesimo secolo. Adolfo, intanto, riportato alla realtà dalla sua bimbetta, che gli faceva solletico sotto le ascelle, sorrideva, felice di vivere. Che pace! Che bello assaporare le gioie della famiglia! Erano momenti di felicità piena. E allora lui parlava per due tre ore senza mai stancarsi. La moglie capiva quei discorsi che spaziavano in tutti i campi del sapere e svisceravano le problematiche dell'esistenza, ma gli estranei facevano molta difficoltà ad afferrare quel torrente impetuoso di parole, screziate di cadenze dialettali, arricchito di termini inventati sul momento per dare forza esplicativa al ragionamento. Così passava la vita, Adolfo. La mattina, a scuola, scriveva; il pomeriggio, a casa, parlava, andava a spasso da solo o in compagnia dei suoi cari per la cittadina, vedeva la tv quando pioveva o faceva troppo freddo. Era contento anche perché a scuola era stato accettato ed aveva trovato il luogo adatto per continuare a scrivere il suo romanzo esistenziale. Gli insegnanti, però, parlavano poco con lui, e non capiva il perché; soltanto la professoressa Morino, di origine meridionale, qualche volta si fermava a scambiare con lui qualche parola. Gli sembrava che avesse difficoltà a seguirlo, le doveva ripetere i concetti quasi sillabando. A lei aveva rivelato il suo progetto; le aveva letto alcuni brani significativi del libro e aveva notato in lei una certa invidia, sì, invidia per il fatto che un sempliciotto di bidello, in possesso solo di un modesto diploma di perito aziendale, potesse esprimere con tanta magnificenza la realtà quotidiana e scavare con tanta profonda perspicacia nell'animo dell'uomo. Veramente la professoressa stava per scoppiare a ridere, come poi aveva raccontato al capannello di insegnanti durante la ricreazione. <<Quello>> diceva <<è un esaltato; scrive delle cose strampalate, senza capo né coda.>> I professori da allora cominciarono a sorridergli (lui ricambiava, spingendo in basso a sinistra il labbro), e varie volte gli si avvicinarono proprio quando era immerso nella stesura delle sue idee formidabili. Avevano voglia di ridere un po'. Riuscirono a farsi leggere dei pezzi della sua storia infinita. Nei corridoi, davanti alle porte delle aule, salendo le scale, nella sala insegnanti, si scambiavano festosi e ridenti le "descrizioni patetiche" del povero Bellini. Il professor Maurone, grande narratore di barzellette, colse al volo l'opportunità di incrementare il suo repertorio; preparò diverse battute esilaranti incentrate sulle magagne ortografiche e lessicali del novello Manzoni. Con il suo vocione imitava Adolfo, quando, paonazzo per lo sforzo di emettere le sue irruenti frasi, con movimenti convulsi muoveva le mani come a spiegare concetti metafisici. Così ridevano tutti, a volte senza ritegno. Gli alunni più grandi si accorsero della cosa; cominciarono anch'essi a tartassare il bidello, che non se la prendeva, anzi era persuaso di aver acquistato notorietà. Moncini, alunno ripetente della famigerata classe 3D, iniziò a chiamarlo "maestro"; Marrone, più preparato, si rivolgeva a lui con un "Ciao, Manzoni!"; Salvetti, basso di corpo e di cultura, più spesso fuori che dentro l'aula, gli chiese addirittura il piacere di svolgergli un tema dal titolo astruso "Ho visto un uomo morire", che la professoressa Bianco aveva assegnato, forse fidandosi troppo delle capacità dei suoi allievi, con troppa leggerezza. Ebbene, Adolfo, allettato dalla possibilità di mostrare veramente tutto il suo valore, riempì otto facciate di protocollo. Impiegò più tempo Salvetti a ricopiarle che lui a scriverle. L'insegnante rimase allibita. Capì subito che doveva esserci di mezzo il bidello. Rimproverò aspramente il maleducato Salvetti, e poi, offesa per come erano stati interpretati i suoi intendimenti didattici, si sfogò con la preside, chiedendo la sospensione per l'alunno e una doverosa rampogna per Bellini. Ma Salvetti non fu sospeso, perché <<Cara professoressa, non si può trattare in questo modo un alunno da recuperare; e poi non assegni quei temi!>> Successe il finimondo. Urla, minacce, ordini imperiosi. La Bianco perse la calma e si mise a strillare con voce acuta e rotta: <<Lei è la rovina della scuola! Protegge questi screanzati, che si sentono in dovere di fare il loro sporco comodo!>> <<Professoressa Bianco, misuri le parole, se no le invio un'ispezione!>> <<Ecco, lei è capace solo di minacciare quelli che lavorano, approfitta della sua posizione. Non ci si comporta così, specialmente con un'insegnante che ha alle spalle vent'anni d'insegnamento!>> E, sbattuta la porta, se ne andò vociando in aula. E Bellini? Ah! povero Adolfo, quante ne sentì. Lui, ingenuo e nello stesso tempo temerario, non diede molto peso ai proponimenti del capo d'istituto. <<Tanto>> pensava << cosa mi può fare? Al sindacato mi hanno detto che non mi può fare niente. Se vuol gridare, che gridi!>> Questa volta però si sbagliava. Una grossa tempesta stava addensandosi sul suo capo. Ma lui non percepì l'atmosfera della situazione. Era ancora pieno di vitalità creativa; l'ottimismo gli sprizzava da tutti i pori: tutto andava bene, anzi benissimo. Preso dall'euforia, finalmente rivelò alla moglie il suo magnifico progetto: stava scrivendo un libro immortale! La donna lo guardò per un attimo perplessa, ma poi fidandosi delle capacità di Adolfo sorrise felice, lo abbracciò e gli domandò: <<Ci sarà anche da guadagnare? Un po' di soldi in più ci farebbero comodo.>> Lui con atteggiamento magnanimo e lungimirante rispose che, sì, il denaro sarebbe arrivato; ma ad un artista non è la vile pecunia che interessa, quanto la gloria, la fama imperitura. Lei sarebbe passata alle cronache letterarie del futuro come la Musa ispiratrice, insieme con la ninfa Giuseppina, dell'autore più eclettico che avesse calcato le scene dell'arte novecentesca. Venerdì, 23 aprile 1993, accadde un fatto straordinario, che Adolfo accolse con somma gioia, non sapendo che avrebbe provocato un cambiamento improvviso e tormentoso alla sua vita. Certamente, se avesse potuto immaginarne le conseguenze, quel giorno avrebbe tenuto a freno la sua mente vulcanica e incontrollabile. Si era recato di corsa a scuola in anticipo, perché smaniava di scrivere l'arcobaleno di immagini che aveva attraversato la sua fantasia. E cammin facendo, pensò, ahi, pensò di inserire poesie nel suo romanzo. Sfogliando una vecchia storia della letteratura, aveva scoperto che tutti i grandi scrittori italiani erano stati magnifici prosatori e ineffabili poeti. Gli vennero in mente Dante, Petrarca, Boccaccio, Leopardi, Manzoni. La "Vita nova" di Dante gli offrì lo spunto di mettere in atto il suo originale proposito, ma lui voleva essere più concreto, più aderente alla realtà quotidiana. Manzoni, nonostante fosse stato il più grande romanziere dell'Ottocento italiano, si era troppo dilungato in particolari storici che toglievano forza e scorrevolezza al racconto. Leopardi, poeta veramente unico, era per lui troppo pessimista e filosofo piagnucolone. Insomma, Adolfo riteneva di dover cimentarsi nel nuovo progetto per operare una rappresentazione della realtà che fosse una sintesi dei valori letterari del passato inseriti in un contesto tormentato com'è la vita d'oggi. Detto fatto. Appena arrivato a scuola, penna in mano, si mise a sedere sulla sua sedia scalcagnata e iniziò a buttare giù dei versi:
"Fragile farfalletta che in ciel voli, dimmi, quando ti poserai mai?" Ma i versi non gli fluivano come avrebbe desiderato; si accorse, suo malgrado, che faceva fatica a poetare. Non era facile come lo scrivere dei casi dell'esistenza. Quasi quasi se la prendeva con se stesso. Provò con un altro tema:
"La vita è come un fantasma: or ti spaventa, or rider ti fa." Non riusciva ad andare avanti. Però non voleva mollare. Tentò ancora con un'immagine floreale ed esistenziale:
"Un albero maestoso, dalla chioma possente, olmo antico che i rami lunghi distende, in questo cortile pieno di piccola gente che strilla e corre con in mano le merende, osserva tutto e non si lamenta mai, mai." Gli sembrò che andasse meglio. E così, anche se a fatica, continuò per tre ore filate. Alla fine della terza ora, suonata la ricreazione, con il quadernone in mano, si avvicinò alla professoressa Morino e farfugliò: <<Signorina, che cosa pensa di questi frammenti poetici?>> L'insegnante, data una rapida scorsa a quell'ammasso di insulsaggini, per non ferirlo, rispose che non erano male, ma che abbisognavano di una certa limatura, di più vena e di più afflato (parola che Adolfo dovette andare poi a consultare sul vocabolario). <<D'altra parte, caro Bellini, mica si nasce poeti; lo si diventa con l'impegno e con lo studio; bisogna saper cogliere i momenti creativi; non si scrivono versi tutti i giorni!>> La risposta piacque al bidello, che si ripropose di aspettare l'ispirazione. Quel giorno non scrisse nemmeno una riga del romanzo. La sua idea fissa era la poesia. Per procurarsi un'atmosfera più rispondente al dettame lirico, decise di immergersi nel mondo della natura. Senza dire una parola, appena finito di pranzare, uscì di casa e si diresse verso la laguna. Gli piaceva passeggiare sull'argine, essere accarezzato dalle folate di vento, osservare i gabbiani immobili sull'acqua, sentire le chiacchiere delle canne, afferrare fili duri d'erba, sedersi tra i fitti cespugli della scarpata. Cercava disperatamente l'estro che sempre l'aveva accompagnato nel suo racconto ciclopico, ma era bloccato da qualcosa che gli sfuggiva. Era come una malinconia sottile che lo permeava tutto, una triste inquietudine ristagnava all'altezza del cuore, si sentiva come svuotato di forze. Il suo sguardo cadde su una fila di laboriose formiche, simbolo di incalzante operosità. Finalmente un barlume d'ispirazione! Trasse di tasca, frenetico, il quadernetto che si era portato, ed una matita. Cominciò a scrivere o meglio a soffrire. Quelle immagini felici che gli sgorgavano impetuose dal profondo dell'anima diventavano inerti parole prive di sentimento sulla carta. I versi si inceppavano. Un improvviso rabbioso movimento involontario spezzò la matita in due, e il quadernetto, con la pagina già bucherellata, finì in acqua a spaventare una solitaria alzavola. Si alzò costernato, abbattuto, finalmente conscio della propria limitatezza. Adirato contro se stesso, cominciò a camminare sull'argine a passi lunghi, a falce, compiendo con le gambe degli archi irregolari, calpestando i fiori e le infaticabili formiche. Scuro in volto, i pugni stretti, gli occhi fissi, percorse due volte tutto l'argine dal cimitero fino alla darsena. Quando tornò a casa, a vederlo, Marietta si spaventò, ma non ebbe il coraggio di chiedere cosa gli fosse successo. Più tardi lo sentì borbottare: <<Asino deficiente, buono a nulla!>> <<Chissà con chi ce l'ha>> pensò, un po' rassicurata. Quella sera Adolfo andò a letto senza dare il bacetto alla sua Pinuccia, gravato da un peso che lo tirava in basso, con il cuore che martellava palpiti dolorosi sui timpani delle orecchie. <<Adolfo, che cos'hai?>> chiese Marietta, con apprensione. <<Nulla. Lasciami in pace!>> replicò irritato. Si addormentò a fatica. Sognò campi elisi in cui poeti divini sorridenti gli davano la mano, che diventava all'improvviso un artiglio avido di sangue; si vide circondato da insegnanti e alunni che lo sbeffeggiavano mentre tentava di recitare, senza riuscirci, una sua lirica dolcissima; la professoressa Bianco e la preside sghignazzavano feroci e lo minacciavano di sospensioni e di licenziamento; un ammasso di grasso vischioso lo catapultava nel pozzo della vecchia casa paterna diroccata, profondissimo, senza fine, alla cui estremità una massa oleosa pulsante lo attendeva pronta a risucchiarlo nel baratro; invece egli finiva nell'acqua gelida e maleodorante, a testa in giù; sopraffatto dall'angoscia annaspava nel buio liquame. Si svegliò madido di sudore, con il respiro rotto e la bocca amara. Una spossatezza totale lo trattenne a letto al primo tentativo di alzarsi. Erano le sei e trenta. <<Stamattina, non vado a scuola>> pensò <<Sento che mi può succedere qualcosa di brutto.>> Per non svegliare la moglie, piano piano, al lieve bagliore di luce che filtrava attraverso le persiane, si recò in cucina. Gli tremavano le mani, mentre preparava il caffè, e per poco non faceva cadere sul pavimento la caffettiera. Il pensiero dell'incapacità di scrivere poesie gli rese il caffè più amaro di quanto non lo fosse. Un brivido gli attraversò la schiena, e uno spasimo improvviso gli fece muovere con violenza il labbro inferiore, mentre le narici si dilatavano al massimo come in cerca d'aria. Si sedette su una sedia con la testa fra le mani, i gomiti appoggiati sul tavolo, quasi fuori di sé. Un rumore di porta che si apriva lo riscosse. Erano la moglie e la figlioletta. Marietta vide subito lo stato pietoso in cui versava Adolfo e gli si rivolse con dolcezza: <<Ado', devo chiamare il dottore? Ti senti male? Che cos'hai?>> Pinuccia intanto guardava il padre con gli occhi lucidi, e già le labbra accennavano al pianto. <<Vai di là a giocare con la bambola>> le disse la madre. Appena uscì dalla cucina, Adolfo scoppiò in un pianto dirotto e disperato. <<Piangi, piangi, che così ti sfoghi>> gli sussurrava tenera Marietta. <<Non andare a lavorare, se non te la senti; rimani a casa con noi. Parla, dimmi tutto.>> E lui finalmente si sfogò, spiegando alla moglie che non riusciva a scrivere poesie. <<E per questo devi soffrire tanto? Lascia stare le poesie e continua a scrivere il romanzo, perché tu sei un grande scrittore.>> Rincuorato da queste parole, Adolfo cambiò aspetto, e, spazzando via le tristi fantasticherie e gli incubi della notte, baciò riconoscente la moglie. Dimentico all'improvviso delle sue angosce, decise di recarsi a scuola. Infilato il prezioso capolavoro in una borsa sgualcita, presa la bicicletta, cominciò a pedalare con lena, quella dei tempi migliori; non faceva caso al vento che si era levato e che a tratti esplodeva in rabbiose raffiche, tanto che per poco non lo mandava a sbattere contro un pino. <<Anche il vento ora ci si mette; ma che! tutto il mondo ce l'ha con me?>> rifletté con inquietudine irata. <<La sfortuna mi ha preso di mira, mi tiene sott 'occhio, mi cura>> considerò con amarezza. Aveva ragione. Il caso voleva proprio divertirsi con lui quel giorno, assestargli il colpo finale. Nel lungo e largo corridoio il chiasso dei ragazzi e gli urli degli insegnanti non lo distolsero un attimo dal rimuginare idee nuove, strampalate; ma si soffermava con insistenza sui lugubri sogni della notte e formulava tristi constatazioni sulla sua essenza di povero cristo alla mercé del destino. Rimase immobile e con un'aria allucinata quando si accorse che la penna non scriveva. La penna, capite? Quella rapida e tenace penna che di solito lanciava irrefrenabile sulla pagina pensieri, voci dell'anima, cronache del quotidiano. <<Adesso intoppo pure con la prosa? Ma che cosa m'è successo! Qualcuno, che ce l'ha con me, mi ha fatto il malocchio!>> Immerso in questi pensieri, non badò a Mirco Bullini, alunno un po' particolare, con problemi caratteriali che, quando poteva, cercava di squagliarsela. A scuola non voleva starci, era un tormento per lui rimanere seduto per cinque ore a sentire cose di nessun interesse. Si era stancato di ascoltare il professore di matematica, Anselmo Pogolin, che parlava in modo lento e strascicato, facendo esempi lontani dalla realtà delle cose; aveva chiesto quindi di andare al bagno. Una volta in corridoio fu uno scherzetto per lui eludere la vigilanza di Bellini, tutto preso dalle sue elucubrazioni; uscì in cortile e poi si diresse verso viale Nazionale. Dopo una mezz'ora, il professore si chiese come mai Bullini tardasse tanto e si sporse fuori della porta a dare un'occhiata: nessuno; anzi, vide solo il bidello seduto che storceva la penna con le due mani, proteso in avanti sulla scrivania. Dopo vari tentativi di attirare la sua attenzione, lo chiamò a voce alta: <<Bellini, ha visto per caso l'alunno Bullini?>> I ragazzi scoppiarono a ridere a sentire quel gioco di parole; erano contenti perché presagivano che il loro compagno ne avesse combinata una delle sue. <<Per favore, dia un'occhiata nei bagni e nelle aule speciali>> continuò l'insegnante, mentre con sguardo severo e urlando intimava il silenzio alla classe ormai scatenata. <<Prof, forse è al primo piano, posso andare a vedere?>> si fece avanti Claudio Mussa, ragazzo sveglio e sfrontato, che coglieva tutte le occasioni per alleggerire il peso delle lezioni monotone, facendosi un giretto per i corridoi. <<Va', va', ma fa' presto.>> E così nel giro di cinque minuti tutta la scuola venne a sapere che a Bullini era riuscita l'evasione. Tutte le classi del secondo piano erano in fermento: aspettavano da un momento all'altro l'arrivo della preside urlante. Di lì a poco infatti si sentirono delle grida, e apparve furibonda la dottoressa professoressa Linda Panetto Russo, vestita in tailleur bleu, con le vene del collo turgide per l'ira; si diresse come una scalmanata verso il professor Pogolin, apostrofandolo con aria minacciosa: <<Ma professore, tutte a lei succedono queste cose? I ragazzi si prendono gioco di lei. Non faccia l'incapace; non dorma, stia più attento. Lo sa che è responsabile dell'accaduto? E adesso chi lo trova quello!>> Poi, senza aspettare nemmeno una più piccola spiegazione dell'insegnante, si scatenò sbraitando contro Adolfo, che sentendosi in colpa si aspettava la lavata di testa stando quasi sull'attenti con il volto atteggiato a reo confesso, con gli occhi bassi e le orecchie tremule. <<Lei, Bellini, cosa faceva mentre quello le passava sotto il naso? Scriveva, eh, scriveva le stupide storie che fanno ridere tutti e non valgono niente. Lei, invece di lavorare, fa il comodo suo e mangia il pane a ufo, togliendolo a quelli che se lo meritano. Ma non finisce qui, non finisce qui. Io la licenzio!>> Gli alunni ridevano divertiti alla scenata isterica e le rifacevano il verso dietro, scambiandosi battute condite di "pane a ufo" e "la licenzio". Due bidelli e tre professori ebbero l'incarico di perlustrare le strade intorno all'edificio scolastico. Intanto Mirco correva sull'argine dietro le farfalle, baciato dal vento e accompagnato dal volo dei gabbiani. Si fermò davanti alla fattoria ad ammirare i cavalli, beato, lontano mille anni luce dal minimo comune multiplo. E là fu raggiunto. Fu sospeso per due giorni, e lui ci rimase male, perché si aspettava una sospensione più sostanziosa. Adolfo tornò a casa preoccupato per la sua mancanza e prostrato dalla considerazione avvilente che non riusciva a dar vita alle sue creazioni interiori. Per di più era convinto che la preside tentava con tutti i mezzi di rovinarlo. <<Quella>> diceva alla moglie mentre ingoiava senza gusto la minestra <<ha osato chiamarmi mangiatore a ufo! Mi ha offeso, gridandomi che scrivo storie stupide! Proprio così ha detto. Gliela faccio vedere io, se non la smette di tormentare un serio lavoratore come me. A tutti può succedere di sbagliare una volta!>> Marietta era sgomenta, non sapeva come consolarlo, e si limitava a rispondergli: <<Hai ragione, ma non prendertela troppo; can che abbaia non morde.>> Non sfiorava minimamente l'argomento romanzo, per non accrescere in lui lo scoramento. Soffriva molto anche Pinuccia nel vedere il padre nero in volto e la madre nervosa e preoccupata. Adolfo cominciò a pensare che le sue disgrazie dipendessero da una sola persona: la preside. Essa l'aveva sempre perseguitato fin dal primo giorno, quando si presentò in presidenza per prendere servizio. Già allora gli aveva fatto una specie di interrogatorio, e ciò che l'aveva irritato era stato il modo sprezzante come l'aveva guardato e trattato. E gli venivano in mente gli immancabili richiami fatti sempre davanti a tutti: colleghi, insegnanti, alunni. Sì, era lei la causa dei suoi mali! Era lei che voleva la sua rovina! Era lei che gli aveva fatto il malocchio! Il giorno seguente, a scuola fu più attento, anche perché la mano si fermava inesorabile sulla pagina. Non si sedette che per breve tempo; passò la mattinata a controllare i ragazzi, che per nulla intimoriti gli facevano boccacce e pernacchie, e rimase in piedi davanti al finestrone ad osservare - sembrava - le foglie degli olmi, ma in effetti rimuginava sulle ingiustizie da lui patite ad opera di quella vipera puttana. La moglie per distrarlo un po', il pomeriggio, lo convinse a fare una passeggiata insieme con lei e Pinuccia lungo la laguna, perché sapeva che Adolfo la preferiva su tutte. Saranno stati l'affetto delle sue amate donne o le parole di conforto di Marietta o il sorriso della figlioletta o l'aria della primavera imminente o il volo radente dei gabbiani, fatto sta che Adolfo si tranquillizzò e rassicurò con quella rapidità che gli era consueta. Lui passava facilmente da uno stato di euforia a uno di profonda depressione con sbalzi di umore che infiacchivano la sua già labile psiche, proprio come suo zio Alberto che, a quarantacinque anni, sconvolto dagli incomprensibili casi della vita, si era buttato sotto un treno a Vibo Valentia. I giorni seguenti, recuperate come per incanto le energie creative, si rimise a scrivere con passione le pene dei poveri mortali, facendo tesoro della sua esperienza personale. Un giorno, dal cielo limpido e dallo zefiro soave, era intento con tanta tensione e concentrazione alla sua opera che non si avvide né sentì le due donne che gli si avvicinavano. Erano il capo d'istituto e una signora magra, bassa, dai capelli biondi raccolti in un toupé, dalle labbra sottili e dagli occhi grigi penetranti. <<Bellini!>> chiamò la preside. Il bidello, di soprassalto, alzò la testa e scattò in piedi. <<Colto in flagrante!>> continuò gelida. <<Vede, signora, che avevo ragione? E questo lo fa tutti i giorni, invece di compiere il suo dovere>> rincarò la dose imperterrita. La bionda si presentò: <<Sono Laura Pallino, ispettrice del ministero della pubblica istruzione. Lei ha ricevuto molte note di demerito per gravi inadempienze. Favorisca venire in presidenza per un colloquio chiarificatore.>> Adolfo rimase di sasso. Il mondo gli crollò addosso. Rivolse uno sguardo carico d'odio e di penosa misericordia alla "nemica". Un sorriso impercettibile vibrava negli occhi freddi e soddisfatti della preside. Aveva vinto, era riuscita ad incastrarlo. Dopo l'incontro disastroso, da cui risultò - per sua stessa ammissione - che passava gran parte delle ore di servizio a scrivere un grande capolavoro (le donne ghignavano con sadica voluttà), Adolfo, disfatto, non tornò subito a casa, ma si avviò verso la laguna, come in cerca di difesa e pace. Funesti pensieri lo tormentavano. Davanti alla placida distesa delle acque pensò: <<Se entrassi in laguna e mi mettessi a camminare, cosa succederebbe? Andrei piano piano avanti, e l'acqua salirebbe fino alle ginocchia, poi fino alla vita, poi fino alla bocca, poi, poi...>> I cespugli di pruni avvinghiati, armati di acute spine che gli punsero una mano, gli fecero cambiare l'umore, caricandolo di collera furiosa. <<E se invece lanciassi quella lurida puttana in mezzo a queste spine e la lasciassi qui, cibo per gli insetti? O sarebbe meglio ammazzarla a coltellate, o a calci e pugni? E se la strozzassi, che faccia farebbe? Mi chiederebbe pietà? No, mai: nessuna pietà per una che non la merita!>> Di pensiero in pensiero dopo tre ore tornò a casa inebetito, sicuro di essere perseguitato non dalla sfortuna, ma da quello stecco di donna senza cuore, che voleva a qualsiasi prezzo la sua rovina. <<Ma questo non avverrà>> gridò a Marietta pallida in volto per la gravità dell'accaduto <<O io farò una strage, o io m'uccido!>> La moglie tentò di risollevarlo: <<Ma che dici! Non pensare a cose impossibili! Piuttosto rivolgiamoci al sindacato.>> Lei stessa il giorno dopo telefonò. Cercò di spiegare con esattezza come erano andate le cose, e il sindacalista, dall'accento meridionale e dalla cadenza lenta, rispose con calma: <<Il fatto è grave, ma non disperato. Prima di licenziare un lavoratore, dipendente dello Stato, ce ne vuole! State tranquilli, male che vada, ci saranno dei giorni di sospensione dal servizio.>> E così fu. Con l'intervento del sindacato, Adolfo ebbe solo quindici giorni di sospensione. Ma per lui fu un affronto insostenibile, gratuito, vigliacco che scatenò la sua mania di persecuzione. Parlava pochissimo, diventava sempre più trasandato con il passar dei giorni; usciva di casa con i pantaloni stropicciati, a volte con la zip aperta, con i capelli arruffati, la barba lunga e sporca, e non si sapeva quando tornava dai suoi vagabondaggi; spesso, mentre camminava, si metteva a gesticolare e ad urlare insulti contro la causa dei suoi guai. Marietta si era rivolta al medico curante, chiedendogli un parere e il da farsi. Il dottor Filippi già da tempo aveva compreso quale fosse il male che affliggeva Adolfo, per cui prescrisse un calmante per lui. Poi, misurando le parole, le confidò: <<Signora, ci vuole una cura adatta; si rivolga al dottor Pasquini, che è un ottimo psicanalista. Ecco qui il suo numero di telefono. Lo può contattare facendo il mio nome. Non perda tempo, però; questo è il mio consiglio spassionato.>> Solo tre mesi prima Marietta era felice. Ora una triste sciagura si stava abbattendo sulla sua famiglia. Vedere il marito che percorreva la strada nefasta dello zio Alberto, la riempiva di angoscia. Pianse lacrime amare, a casa, di nascosto, chiusa in bagno. Non fu necessario che si mettesse in contatto con lo psicanalista.
L'ultimo mercoledì di maggio Adolfo camminava, come ormai era solito, solo, con lo sguardo allucinato, gesticolando animatamente contro i nemici immaginari che si accanivano contro di lui. All'improvviso stramazzò a terra sul marciapiede di via Roma, di fronte al Parco dei Bambini. I due anziani turisti che si erano avvicinati per soccorrerlo videro che spingeva il labbro pendulo alla sinistra della bocca a scatti, mentre le narici palpitavano frenetiche; muoveva la gamba destra a compasso disegnando degli archi tra il marciapiede e la strada. Ben presto si aggiunsero altri a curiosare. Una donna, alta e grassa, premurosa, portò una bottiglia d'acqua. Finalmente Adolfo, ravvivato da qualche spruzzo d'acqua fresca, riuscì a biascicare qualche parola: <<Le due galline mi hanno beccato. E' stato il malocchio della vacca secca. "La vita è un problema" non va più avanti e Giacomo Leopardi mi ha consigliato di lasciar perdere...>> <<Chi? Che cosa?>> chiese uno dei due, sbalordito, non credendo alle proprie orecchie <<Giacomo, chi?>> <<Giacomo Leopardi, il poeta di Recanati; mi ha consigliato di non scrivere poesie, perché non sono pane per i miei denti.>> A simili parole il viso dell'uomo fu attraversato da un lieve tremore, come se stesse per sbruffare in una risata, e rivolgendosi agli altri che si accalcavano intorno a Bellini fece capire con un dito puntato sulla fronte che il caduto era matto. Dopo circa un'ora arrivò la moglie, giusto in tempo per vederlo sulla barella, mentre lo caricavano nell'autoambulanza. Rimase per quindici giorni nel reparto neuro chirurgico dell'ospedale regionale. Per una settimana di seguito aveva farneticato di galline spelacchiate, vacche secche, malocchio, romanzo, poesia, e aveva ripetuto con monotonia che Leopardi (proprio lui!) lo aveva scaricato. <<Non tutti, caro Adolfo>> aveva il poeta affermato in sogno << sono in grado di scrivere poesie, tanto meno un bidello come te. Da vero poeta mi sento offeso nel leggere i tuoi orribili componimenti; tale paccottiglia è da incenerire subito.>> L'ottavo giorno si era ristabilito come per miracolo, dopo che Giuseppina gli aveva accarezzato lieve lieve il viso, rivolgendogli dolci parole venate di pianto. Nel tempo che rimase in ospedale i medici lo avevano preso in simpatia per le numerose stupidaggini che raccontava; erano molto divertiti specialmente quando egli con posa calma e meditativa parlava o meglio sparlava di quasi tutti gli insegnanti della scuola media di Variano. Gli infermieri ridacchiavano al solo vederlo. Per farlo parlare bastava che dicessero: <<La preside, però...>>. Allora lui si scatenava in una sequela di contumelie e di imitazioni. Venivano ad ascoltarlo anche i pazienti delle altre stanze e più di una volta suor Maddalena era dovuta intervenire con modi decisi, ma cortesi ed affettuosi, per riportare l'ordine nella corsia dei "matti". Era infuriato contro Leopardi. Le sue filippiche terminavano tutte con un: <<Da un gobbo non mi potevo aspettare altro!>> Finalmente a casa! Riposo per due mesi. Motivazione: esaurimento nervoso, si diceva. Ma nel certificato medico, impietoso, si poteva leggere la vera causa del lungo periodo di convalescenza: turbe psichiche dovute a psicosi maniaco depressiva. Marietta la mattina si faceva bella per lui. Pettinava con cura i suoi capelli corvini, metteva un po' di profumo dietro le orecchie, spalmava la crema antirughe sul viso e sul collo. Sembrava ringiovanisse. Accudiva con amore alla figlia e poi usciva per fare la spesa. Gli preparava dei pranzetti squisiti e sostanziosi. Il suo Adolfo aveva bisogno di due ottimi ricostituenti: amore e cibo. Per lei la colpa di tutto ciò che era capitato al marito era dovuta a quella megera di preside, dall'aria consunta di vecchia zitella, che ce l'aveva con i meridionali, anzi con i Calabresi. Una delle pochissime volte che si era trovata a scuola aveva sentito quella, infastidita, esclamare: <<Qui, nella Padania, non c'è la 'ndrangheta!>> Capito? Era lei che aveva voluto la visita ispettiva contro il marito. Da allora il suo Adolfo era cambiato: sempre preoccupato, stanco, silenzioso, triste, depresso. E poi aveva saputo da una collega del marito che lui a scuola non scriveva più tanto, cosa che probabilmente gli aveva fatto male. Glielo avevano rovinato quell'insaziabile persecutrice e il troppo lavoro.
Adolfo aveva proprio bisogno di riposo. Arrivava l'estate, e la cittadina diventava sempre più caotica; la vita si faceva frenetica, poco adatta per uno che era sempre sul punto di perdere del tutto la ragione. Per questo Marietta convinse il marito a tornare al loro paese natio, Sant'Onofrio. L'aria della collina e il contatto con i parenti ed amici sembrarono in un primo tempo che portassero ad Adolfo serenità ed oblio delle paure e dei soprusi patiti. Ma non era così. Ormai si trovava sull'orlo della voragine: la sua mente si era immessa su un sentiero tortuoso che percorreva le imperscrutabili lande della pazzia. Frequentava i vecchi amici, tra cui Michele Spadicci, il collocatore, perfetto dicitore di liriche, esperto autodidatta di letteratura. Con lui al Bar dello Sport discuteva di opere letterarie, e spesso il discorso cadeva su romanzi e poesie. Si tessevano elogi l'un l'altro, infervorati, poco badando al riso che suscitavano sulle bocche degli altri avventori. Un caldo e afoso pomeriggio, all'ombra di una quercia centenaria, seduti intorno ad un tavolino, davanti al bar, mentre sorseggiavano un fresco vinello, lessero brani delle loro opere. Soddisfatti degli applausi carichi di sarcasmo, si chiesero se avessero potuto pubblicare le loro opere. Adolfo, risentito per un: <<Cala, cala, mastrone!>>, aggrottando la fronte, si rivolse ad un giovane universitario, Peppino, che insieme ad altri sfaccendati, a sentirli, se la spassava divertito: <<Senti, non ridere tanto; che sfotti? Noi diventeremo famosi, e allora ti inchinerai alla nostra grandezza.>> Michele avrebbe voluto dire qualcosa, per togliere un po' di esagerazione da quell'affermazione, ma la replica del giovane fu più rapida: <<Sì, sarete famosi come Tarzan e Cita.>> Una risata irrefrenabile scaturì immediata, lasciando Adolfo sconcertato e offeso. <<Ma chi sei tu che osi con tanta sicumera prendere in giro me? Chi ti credi di essere: il figlio dell'oca bianca? Tu non capisci niente di romanzi!>> replicò con ira, e si alzò per sferrare un pugno al giovane. Le cose stavano mettendosi male; la situazione non peggiorò per il pronto intervento dello Spadicci, che conosceva le battute innocenti di Peppino e che fece da paciere. Adolfo, ferito, stravolto - le labbra tremavano a scatti, gli occhi si aprivano al massimo, le narici fremevano rapide, le orecchie si tingevano di vermiglio - si allontanò adirato, scagliando lontano la sedia, senza nemmeno pagare la consumazione. Cominciò a camminare per le vie strette del paese, borbottando parole confuse e gesticolando in modo ridicolo come era solito fare a Variano. Da quel giorno Adolfo divenne oltremodo permaloso; era convinto che tutti si facessero beffe di lui, lo prendessero in giro, lo deridessero. Bastava un sorriso e lui si inalberava, aggrediva come un forsennato il malcapitato. Urlava minacce, e spesso rideva mentre lanciava le sue accuse; altre volte piangeva in preda ad ineluttabile sconforto. Per la famiglia tutto ciò era un disonore. I parenti decisero di farlo ricoverare in una clinica psichiatrica. Ne uscì cinquanta giorni dopo, calmo e tranquillo. Riprese anche a scrivere il suo romanzo. Andava a dare una mano, in campagna, al suo vecchio zio paterno. Spesso si fermava, come in meditazione, nel podere, ereditato e venduto, presso il pozzo della casa dov'era nato e da cui si ammiravano le distese degli ulivi e delle viti digradanti dolcemente verso il mare.
La pioggia scendeva fitta e leggera; la terra riarsa fremeva ristorata, gli alberi bevevano avidi l'acqua fresca, finalmente gli uccelli cantavano. Alle tre del pomeriggio, Adolfo uscì di casa con un grosso involto sotto il braccio, senza impermeabile ed ombrello. Alla moglie che gli chiedeva dove andasse rispose che sarebbe tornato verso le otto per la cena. Ma non tornò. Marietta aspettò fino a mezzanotte, in piedi, ad attenderlo. Poi cominciò a preoccuparsi. Mai, suo marito aveva fatto tanto tardi, era sempre stato abbastanza preciso negli orari. Ora questo ritardo la metteva in ansia; non sapeva cosa fare, non voleva gettare falsi allarmi. Aspettò ancora fino alle sei, poi piena d'angoscia, con un brutto presentimento, svegliò la suocera, che sentiti i fatti, temendo fosse successo qualcosa di irreparabile, vestitasi in fretta, si diresse di corsa alla stazione dei carabinieri a denunciare la scomparsa del figlio. I carabinieri iniziarono le ricerche verso mezzogiorno, quando si resero conto che veramente il Bellini Adolfo era sparito, dopo che le due donne già più volte erano tornate da loro e avevano messo in subbuglio tutto il paese. Lo cercarono dappertutto, anche nei paesi vicini: nessuna traccia. Allargarono il campo delle indagini fino al capoluogo, senza risultato. Marietta non sapeva darsi pace: l'avesse trattenuto! Le era sembrato strano, ma aveva pensato che andasse, come era solito fare, da Michele il collocatore; forse sotto il braccio aveva i quaderni del suo romanzo; li portava sempre da don Michele, e insieme leggevano, parlavano. Ma...- e un dubbio atroce le attraversò la mente - si era accorta che mancava la fotografia sul comò. Perché l'aveva portata via? Gesù mio, perché? E Giuseppina, a vedere la madre triste nera e a sentir la nonna piangere, frignava anch'essa piano piano con un rauco rumore di pioggia. Le ricerche intanto proseguivano… e il sole tornava a splendere. Lo trovarono quattro giorni più tardi nel pozzo del podere che fu suo, presso la cadente casa paterna. Era immerso nell'acqua fredda e limacciosa, in piedi, abbracciato a se stesso, con la bocca chiusa e gli occhi sbarrati. Appoggiato al bordo del pozzo aveva lasciato un cofanetto. Quando lo aprirono videro la fotografia: la moglie e la figlia sorridevano con un velo di tristezza negli occhi. Dietro la foto aveva lasciato questo messaggio: perdonatemi. Chi aprì il grosso manoscritto poté leggere a pagina 5914 la scritta in rosso: scadenza della vita; si chiude la vita, si apre la morte.
-Da L'altro mondo- |