Caro me stesso mio
Sono un borderline, come dicono quelli che parlano bene.
Un marginale, dico io, per maggiore chiarezza.
Non ho nemmeno l'I-Phone 4.
Neanche il Tablet.
Non vado in vacanza da secoli.
Non pratico l'happy hour,
Non entro nei lounge bar.
Non frequento comitive.
Non accetto inviti a cena da amici e colleghi.
Non ho nemmeno un tatuaggio.
Porto addosso quattro stracci e due soldi bucati.
Passo tutto il mio tempo in casa, ad ingrassare davanti al pc.
A chattare.
Con la webcam.
Ad ammazzarmi di seghe e ad eiaculare malinconia e rimpianti, collezione
di ricordi sprovvisti di cornice.
E sì che ho una certa età, non sono mica un ragazzino.
Peròè così, mi sento inadeguato in tutto, fuori posto come un pesce del
Baltico fra le dune del Sahara.
Ho anche smesso di abbaiare alla luna, si è rotta le scatole pure lei, e
quando mi vede uscire sul terrazzo si gira dall'altra parte
fischiettando e facendo finta di niente.
Ho un patrimonio di trenta stilografiche e diversi premi letterari,
saporiti frutti colti all'albero delle mie false verità, fra applausi di
rito dei figuranti di turno e flash insistiti di fotografi annoiati.
Ho un titolo di studio odiato e non sfruttato, una macchina mai
comprata, quella ragazza di un tempo amata meno di come avrebbe
meritato.
Il tempo scivola veloce come sabbia fra le dita, e io alle dita non
porto nessun anello, niente mogli a condividere malumori e a contare
sogni infranti, e zero figli in cui specchiarsi compiaciuti sentendosi
il Creatore.
In un angolo della stanza il letto a una piazza di sempre, su cui
girarsi e rigirarsi fino a rotolare pesantemente sul pavimento in piena
notte mentre i netturbini spazzano le strade preparandole per il
calpestìo del nuovo giorno.
Lavoro giusto il minimo, quanto basta per sopravvivere, il resto è
attesa di un dopo che non so.
Se il demone della scrittura mi abbandonasse hic et nunc la smetterei di
tormentarvi con queste sciocchezze da maudit fuori tempo massimo.
Invece lui è sempre qui, da anni poggiato sulla spalla, come un rapace
pronto a dilaniare e a ballare sui resti alla prima occasione buona.
In fondo ci sono addirittura affezionato, forse è l'unico essere del mio
microcosmo malato che gioca a carte scoperte e non bara mai.
Aspetta soltanto.
E si alimenta bene, mangia alla mia tavola imbandita il cibo speziato
dei fallimenti e beve il vino forte delle frustrazioni.
E si ingrossa, e diventa sempre più cattivo.
Qualche conoscente che ha avuto modo di leggere qualcosa di mio mi dice:
"Michele, complimenti… non ti conoscevo sotto quest'aspetto".
Complimenti di che?
Non mi conoscevi perché non hai mai saputo leggere fra le righe, e non
quelle di un libro, le righe degli sguardi, delle parole, dei gesti, dei
silenzi, delle risate forzate….
Era già tutto scritto lì.
Cos'è che non ha funzionato?
C'è sempre qualcosa che non funziona nella vita di ognuno, mi rispondo,
e non mi basta mai.
Si spengono le luci, gli amici vanno via, da una festa iniziata oggi e
terminata ieri.
Fuori il sabato sera comincia a sciogliere alla brezza primaverile le
sue lunghe trecce corvine.
Resto in ascolto dei rumori del mondo, la mia finestra spalancata sulla
strada è la personale Radio Londra alla rovescia del nuovo millennio.
Mi alzo dal pc, passo in cucina, apro una nuova confezione da sei in
lattina.
Poi sollevo il calice e brindo agli dei.
E questo è quanto.
Prosit.
Dialogo surreale alle 07.00 di mattina
Passo davanti al bar sotto casa alle 07.00 di mattina, come quasi tutti
i giorni.
A quell'ora la strada è semideserta.
Fuori al locale c'è spesso un tizio sui generis seduto ai tavolini.
Io: "buongiorno"
Il tizio: "buongiorno"
Io: "oggi è San Giuseppe"
Il tizio: "tu ti chiami Giuseppe?"
Io: "io no, mi chiamo Michele"
Il tizio: "Ah…"
Io: "tu ti chiami Giuseppe?"
Il tizio: "no, io mi chiamo Vincenzo"
Io: "ah…"
Il tizio: "buongiorno"
Io: "buongiorno"
Il piccione
Rincaso per la cena e per il posticipo domenicale di Serie A.
Accanto al portoncino condominiale noto un piccione in piedi, immobile.
Gli passo accanto per poter entrare ma lui non svolazza via lesto come
sempre accade quando ci si avvicina ai volatili in genere.
Lui non scappa, fa dei passettini laterali per spostarsi ma resta
grossomodo dov'era.
Faccio le scale, entro nel mio appartamento e ripenso alla stranezza di
poc'anzi, quindi decido di affacciarmi alla finestra per controllare.
Piccio è sempre là.
Con tutta probabilità starà morendo oppure avrà mangiato qualcosa per
cui sentirsi male, dico a mia madre, mettendola a parte della faccenda.
Dopo poco rientra anche mio fratello che dice di aver visto un piccione
fermo davanti al cancelletto del condominio.
Non si muove, che cosa strana…
Sappiamo, sappiamo, arriva pronta la risposta.
Ma che possiamo fare?
Poi principio a cenare e la partita cattura la mia attenzione
distogliendomi dalla singolarità di quanto sta avvenendo.
Stamattina, quando sono uscito di casa, mi sono ricordato ed ho gettato
la sguardo in terra, attorno all'ingresso condominiale.
Non c'era più nulla.
Il piccione sarà andato a morire altrove o, più semplicemente, i
netturbini lo hanno scopato via.
Sci-fi horror
Quando rinvenni il tirannosauro era ancora lì che mi fissava, con le
enormi fauci spalancate da cui si evidenziavano denti aguzzi e lunghi
come stalattiti d'avorio sporco.
Superato l'iniziale, paralizzante, terrore, mi girai di fianco per
afferrare il cellulare e chiedere aiuto, ma mi accorsi, con sgomento,
che non c'era campo.
Non avevo scampo.
Ero solo, in balìa completa del bestione furioso vomitato da chissà
quale inferno spazio-temporale.
Il mostro antidiluviano fece un passo nella mia direzione, la terra
tremò sotto il martello delle sue zampe gigantesche; un altro passo, poi
un altro ancora, la distanza fra di noi era ormai ridotta all'osso, come
il sottoscritto a breve.
Io che non ero mai stato un gran credente recitai in fretta tutte le
preghiere che conoscevo, rividi in un baleno le immagini della mia
esistenza nei suoi fotogrammi salienti.
La bestia primordiale, all'improvviso, si arrestò e, sollevando
lentamente l'orrido capo verso il cielo rossastro di ponente, cacciò un
urlo terribile.
Si sta preparando all'attacco finale, pensai.
Stavolta è davvero finita.
Mi accartocciai su me stesso ed attesi che tutto si compiesse.
Il lucertolone si scosse con un fremito che gli attraversò l'intero
corpo e mi passò di fianco andandosi a fermare dietro un costone di
roccia alle mie spalle.
Incredulo mi voltai.
Doveva semplicemente cagare!
Dialogo fra due animali: un uomo e un canarino
Uomo: "Giorgio (il canarino si chiama così), ti devo confessare una
cosa… da quando ti ho acquistato al negozio di animali mi son venuti gli
scrupoli di coscienza a doverti tenere rinchiuso in una gabbia.
Ci ho pensato molto e sono arrivato ad una conclusione… vuoi che la apra
e ti liberi?
Dimmelo e io lo farò immediatamente, non m'importa dei soldi che ho
speso sia per te che per la "caiola" (e senza nemmeno lo scontrino
fiscale)".
Canarino: "Michele (l'uomo si chiama così), io sono nato già in
cattività, così come i miei genitori, i miei nonni e pure i miei
bisnonni; la vita per me è sempre stata tutta qui, nello spazio finito
di una struttura a quadratini, col cielo e i visi a spicchi, non conosco
altro, non farti problemi di nessun tipo…"
Uomo: "ma, Giorgio, tu hai le ali, puoi volare libero per il mondo,
girar per continenti, amoreggiare con altre canarine, assaporare il
tepore del sole e rinfrescarti con la pioggia e la rugiada mattutina…"
Canarino: "volare libero per il mondo, girar per continenti, dici?
E a far che?
A dovermi procurare il cibo e l'acqua tutti i santissimi giorni, a
difendermi dalle altre specie animali nell'eterna lotta per la
sopravvivenza, ad emigrare in gruppo quando non ne hai voglia perché ti
sei affezionato a un posto?
Ma chi me lo fa fare?
Io a casa tua sto come un pascià, servito e riverito, mangio tutti i
giorni, l'acqua sempre pulita, il sabato il bagnetto, la sera mi guardo
i cartoni animati in tv e il Grande Fratello 24 h su 24 h su Mediaset
Premium…
E tu mi chiedi se voglio lasciare quest'immensa pacchia?
Ma nun ce penso manco pe 'gnente, mica so' scemo!
E dove lo trovo un altro fesso come te?"
Surreality show
Pompei.
Provincia di Napoli.
Tarda mattinata di un giorno di luglio incazzato dal sole.
Sto rientrando a casa a piedi.
Noto un tizio che avvicina i passanti e cerca di vender loro dei libri
che tiene in un borsone.
A un certo punto abborda un signore fermo davanti al palazzo comunale:
"buongiorno, vuole acquistare un libro? - gli fa con aria melliflua- ne
ho di tutti i tipi, romanzi, poesie, saggi, reportage, ricettari di
cucina…".
L'uomo lo guarda con un'espressione mista fra l'incredulo e
l'infastidito e risponde: "no, non ne faccio uso!".
Ma che razza di risposta è, mi chiedo, en passant dal luogo che ormai si
presenta come il teatrino di una transazione commerciale che sta
sfumando sul nascere.
Ma perché, i libri si usano? Continuo a interrogarmi mentre svolto
l'angolo fra il Banco di Napoli e Via Sacra.
I libri si dovrebbero leggere, non farne uso.
Evidentemente il signore fermo davanti al palazzo comunale (nonsì, non
era un dipendente dell'Ente e nemmeno un amministratore, quelli oziano
da altre parti N.d.A.)è come se avesse voluto dire all'ambulante: "ma
che cazzo vuoi tu e 'sti libri? Ma che ci debbo fare? Mettermi a
leggere?
Sono arrivato alla mia età in beata ignoranza e ora tu vieni, tomo tomo
cacchio cacchio, a dirmi che devo mettermi a leggere i libri? E per fare
cosa, poi?
Eggià così chi mi conosce mi prende pure per ricchione!"
C'è poco da fare, la gente è il più grande spettacolo del mondo e non si
paga nemmeno il biglietto, come diceva sempre il grande Hank Bukowski.
Squilla il cellulare
Pomeriggio afoso di un agosto incazzato.
Squilla il cellulare.
Numero anonimo.
Pronto?, rispondo un po' seccato perché non amo chi chiama nascondendo
il numero.
Dall'altro capo un silenzio insistito…
Pronto!, ripeto, alzando un po' il tono di voce, con l'incazzatura che
già sta montando in sella edè pronta a galoppare nelle praterie del
nervosismo.
Ancora assenza d'articolazione fonetica.
Pronto! Ma chi è che (non) parla?
Niente.
Chiudo la chiamata.
Sono già paonazzo.
Dopo qualche manciata di minuti il cellulare squilla nuovamente.
Pronto!
Pronto!!
Pronto!!!
Rimetto giù decisamente imbufalito.
Poi passo in cucina a tracannare mezzo litro d'acqua fredda direttamente
dal frigo.
Si, lo so che è pericoloso, ma evitatemi i sermoni, ok?
"Ma chi cazzo sarà che chiama e non risponde!?
Certa gente è nata proprio per rompere le scatole al prossimo suo
benedetto".
Drin…
Drin…
Drin…
(ho la suoneria a graduale aumento sonoro, saranno cavoli miei, no?)
"Adesso mi hai proprio rotto il cazzo, brutto stronzo rottinculo, se ti
becco ti frantumo l'osso sacro (il coccige, per i puristi)… ma chi
diamine ti ha dato il mio numero, grandissimo zozzo, figlio unico di
madre zoccola…".
"Ma… ma… ragionier Aliberti… le sembra questo la maniera di rispondere
al telefono?
Lei usa un lessico abominevole, tipico di uno scaricatore di porto… ma
che modi sono?"
Era Alfonso Cuccurullo, il direttore megagalattico, con poltrona in
pelle umana e scalpi dei dipendenti assenteisti appesi alle pareti,
dell'azienda ortofrutticola presso cui prestavo opera da qualche tempo…
Ero ancora in ferie e non capivo il motivo di quella chiamata, ma il
dado era tratto.
Prevedevo un settembre nero, al rientro.
Per l'ennesima volta avrei dovuto sottostare al "quarto d'ora" che
sicuramente il Cuccurullo mi avrebbe inflitto e che consisteva in trenta
scudisciate sui testicoli nonchè al pubblico ludibrio dei colleghi
leccaculo.
Ma si sa i padroni come sono…. la solita rottura di palle.
Sei un bambino piccolo piccolo
Sei un bambino piccolo
piccolo
piccolo,
un piccinin appena nato, giunto a velocità moderata dall'eternità alla
culla.
I tuoi occhietti vispi riflessi nei miei occhi stanchi, il tuo primo
contatto col mondo sono le mie rughe di secoli e la barba ispida di
giorni e giorni e questi panni stinti indossati da troppo tempo che
reclamano il cambio della guardia.
E' inutile che mi fissi, uomo in miniatura, calvo e sdentato; io non
sono un buon maestro, di quelli che san sempre indicare la retta via nel
dedalo di viuzze della vita, e non credere di farmi specie con quel
risolino che ti si sta disegnando sul viso sbarbatello.
Cosa vuoi da me, perché continui a stringermi il dito, cazzo ridi,
adesso, che il mondo là fuori non lo conosci mica e fai il gradasso
perché tutti ti sorridono e ti fanno le feste?
Io non ho risposte alle tue domande mute, ero carrozzato d'ideali, da
ragazzo, ed oggi sono soltanto un rottame, mi vedi, no?
Al di là di quella porta, presto, vedrai migliaia di facce, udrai
milioni di parole, in un turbine di colori, di sapori, di odori.
Dietro quella soglia c'è il mondo, la gente, le cose…
Ciao, piccino, tornerò domani a trovarti.
Forse.
In libreria
Entro in una libreria della mia città.
C'è la commessa che mi sta pesantemente sui cosiddetti edè parecchio
che medito di togliermi un sassolino dalla scarpa, per questioni passate
ma non dimenticate.
"Buongiorno, avete per caso (perché in certe librerie di provincia si
esordisce così, dicendo per caso…) il nuovo libro di… e mi invento lì
per lì un autore inesistente, giusto per il gusto di prendere per il
culo la snob.
Non saprei, signore, aspetti che guardo nel computer…", replica con aria
visibilmente infastidita.
Dopo qualche minuto di ricerca alza gli occhi dallo schermo e mi fa: "mi
dispiace ma questo autore non risulta, può indicarmi almeno la casa
editrice?"
"Ma certamente", rispondo giulivo, e le fornisco il nome di un editore
altrettanto inesistente.
La donzella con la puzza sotto al naso torna ad immergersi nella santa
madre web e dopo un'altra manciata di minuti risolleva la testolina
finta bionda e con espressione contrita dice: "mi dispiace ma non
risulta nemmeno la casa editrice…".
"Ma in questa libreria non avete un fico secco!", fingo d'incazzarmi,
mentre lei mostra una vampa alle gote impastate di fard e biascica
qualcosa che non riesco ad afferrare.
"Ma è mai possibile che in questa città del cavolo non si trovi mai
niente?"
"Eppure le ho chiesto un autore noto…"
Le mi fissa inebetita e con un filo di voce sussurra: "bè… veramente io
non l'ho mai sentito nominare…"
"E perché lei non legge i libri che vende, non è una lettrice ma solo
una commerciante, urlo, indicandola col dito accusatorio.
Vabbè, soprassediamo, dico, abbassando il tono di voce.
Mi dia allora il nuovo romanzo Profondo Criminale, di Michele Vaccaro".
"Michele chi?", replica sempre più confusa.
"Come Michele chi?
Michele Vaccaro!
Profondo Criminale, Vitale Edizioni in Sanremo!
Ce l'ha o non ce l'ha?"
"Ma io… veramente…"
"Ma mi faccia il piacere, mi faccia, questa non è una libreria ma un
letamaio!" riprendo ad urlare, facendo un gesto circolare a due mani ad
indicare il locale e dare ulteriore forza all'affermazione precedente.
Giro i tacchi e mi appresto ad uscire.
A un certo punto avverto il suo scalpiccìo, mi ha seguito fino
all'uscita e mi regala, con la sua vocina fifì, un delicato epiteto: "ma
vaffanculo tu e Michele Vaccaro!!!"
Faccio finta di non averla sentita, non m'interessa, gli insulti non mi
toccano.
Missione compiuta, le ho tirato fuori la sua vera natura, quella di una
vasciaiola.
Mi basta così.
Quando si scollano le sovrastrutture sociali, come la pelle che si
squama se stiamo troppo tempo esposti al sole e lascia il posto allo
strato di pelle successivo, capita che si arrivi all'essenza vera di una
persona, e quasi mai quel che ne viene fuori è degno.
Siamo animali nobili ma pur sempre animali, non vi pare?
Le caramelle di Teresa
C'è un'anziana signora che ogni volta c'incrociamo per strada mi saluta
calorosamente e attacca a parlare di calcio e di pettegolezzi cittadini.
I secondi m'interessano poco ma cerco di compiacerla inventandomi lì per
lì qualche gossip fasullo su concittadini inesistenti.
Desidero vedere le persone contente nei loro vizi.
Al termine della conversazione è solita regalarmi una caramella.
Accetto sempre volentieri, la scarto dalla confezione e la mangio
davanti a lei.
Mi piace questa cosa, la considero una sorta di attestato di stima.
Le caramelle di Teresa hanno la valenza di un premio.
Per cosa non lo so, però gradisco il gesto perché in periodi di bassa
autostima può servire a riconciliarsi con il mondo infame.
E poi sono davvero buone le caramelle di Teresa.
La ballata dei mariuoli
La TOM ti cambia il piano tariffario senza preavviso, la VODA VODA fa lo
stesso, la WILD promette chiamate all'infinito a costo zero, previa
attivazione di una sim card in offerta speciale, soltanto che l'infinito
per loro ha un termine e poi applica altre tariffe selvagge, la QUATTRO
ti fa pagare anche per contattare il servizio clienti, COSTE ITALIANE ti
fa le poste e non si è capito ancora bene cosa ti offre che gli altri
competitor non danno, la BLUESè scomparsa da tempo portandosi dietro
tutti i crediti residui dei clienti, la MELECOM ITALIA ti fa attendere in
linea accompagnato da Mozart pagato 1 euro al minuto (iva compresa) ed
hai voglia di aspettare… e intanto Wolfgang Amadeus da Salisburgo-Austria
ti alleggerisce nello spirito e nel portafogli, INFOMOSTARDA non ti fa
pagare il canone fisso (quello degli altri) l'ENELGETICA peggio che
contattare il presidente Barak Obama per andare a far merenda in Central
Park, il METANO ti dà una mano mettendotelo nell'ano, SKYFEZZ ti tritura
i coglioni con offerte che se ci pensi bene ci rimetti pure, MEDIASETTIMA
ti offre pacchetti vantaggiosi e poi t'accorgi che il pacchetto te l'han
fatto veramente… insomma è la ballata dei mariuoli della new economy,
come la giri te lo ficcano dietro.
Era molto meglio il mondo di prima, bello analogico, di quando si andava
a letto con le candele, si comunicava con i segnali di fumo, e quando
avevi freddo invece di accendere i caloriferi mettevi mano al caro
braciere e magari andavi a letto con la borsa d'acqua calda sulla panza.
Che tempi…
Telecom Italia
Mi sento solo.
Terribilmente solo.
Accade molto spesso, quasi sempre, direi, anzi senza il quasi.
Quando si verifica questa ineluttabilità, per far sì che la solitudine
non mi trascini in un abisso senza fondo, mi attacco al telefono, nel
tentativo di assorbire un po' di calore umano.
In genere privilego i call center, il mio preferito è quello della
Telecom Italia.
Ci sono voci femminili di una sensualità potente, che a poterle assegnare
dei contorni fisici sono certo trattasi di ragazze belle e oltremodo
arrapanti.
L'altro giorno ho fatto il 187 e mi ha risposto una certa Vanessa, voce
flebile come un sussurro orgasmico, probabilmente bionda, 'ste cose le
sento a pelle, ormai, e certamente attraente.
"Telecom Italia, Buongiorno, sono Vanessa…in cosa posso esserle utile?"
"Mi sento solo, Vanessa, tremendamente solo…"
"Mi scusi, signore, temo di non aver capito bene quale sia il suo
problema…"
"Non l'ho capito nemmeno io, ragazza mia, fatto sta che mi sento solo,
avrei bisogno di un po' di calore umano…"
"Mi scusi, signore, ma io non posso intrattenere con gli utenti
conversazioni di questo tipo, la saluto, a risentirla…"
"Aspetta, aspetta, non attaccare", le dico implorante, e mi invento lì
per lì una qualche problematica legata al mondo della telefonia, poi
resto in religioso silenzio nell'attesa di una sua risposta con quella
voce vellutata e professionale che ha già provveduto a scombussolarmi gli
ormoni.
Ma lei non parla, i secondi trascorrono nel silenzio più totale, sento
dei rumori in sottofondo e me la immagino ridere con qualche collega di
postazione alla quale ha spiegato di avere un matto in linea.
Prendo il coraggio a due mani e rilancio dicendole: " scommetto che sei
bionda, Vanessa, ho indovinato?"
Finalmente arriva la sua voce, stavolta stentorea che formula la frase:
"non sono tenuta a fornire info (ha detto proprio così, info) inerenti la
mia vita privata, mi dispiace, adesso devo proprio salutarla…"
"Vanessa, io sento già di amarti…parlami, regalami un po' di calore
umano, io mi sento tanto solo…"
"Ma lei è un maniaco, la smetta, si trovi una compagna invece di
importunare le persone che lavorano!"
"Ma io non posso trovarmi una donna"
"E perché non può?"
"Perché non mi tira più il pistolino, cosa le racconto quando poi dovremo
andare a letto a fare le cose?"
"Senta, mi dispiace per lei ma non è affar mio, d'altronde cosa potrei
fare?"
"Bè…Innanzitutto potresti inviarmi qualche tua foto nuda al mio indirizzo
di posta elettronica che sono pronto a fornirti…hai visto mai che il
pipino addormentato fra le gambe si dovesse risvegliare di botto?
Sarebbe una bella cosa, e poi per completare l'opera non guasterebbe mica
uno strip in webcam su Windows Live Messengers…tu ce l'hai Windows Live
Messengers, Vanessa?"
"Porco! Si faccia stimolare da sua sorella!" Clic! Tu…tu…tu…tu…tu…tu…
Ha messo giù, poi dicono che le operatrici dei call center sono
antipatiche, e ti credo, guarda questa…
Mi sento solo, terribilmente solo…drin…drin…drin…drin…drin…drin…drin…
"Telecom Italia, Buongiorno, sono Paola, in cosa posso esserle utile?"
L'Intenditore di caffè
Al bar sotto casa.
Di mattina presto.
Pochi avventori ancora insonnoliti al bancone aspettano la tazzina di
caffè rituale.
Un signore di mezza età accanto a me principia a magnificare la nera
bevanda preparata rigorosamente nella terra di Partenope.
Dice di essere stato di recente al Nord e di aver avuto modo di degustare
un caffè in un locale elegantissimo ed attrezzatissimo, popolato da una
marea di clienti fin dalle prime luci dell'alba.
Il locale era molto trendy però il caffè era una ciofeca, pontifica il
tizio.
E lo ha fatto pure presente al barman.
"Il caffè glielo pago ma sappia che è una vera e propria chiavica",
recita rivolto in maniera plateale agli astanti tuffati ognuno nei cavoli
propri e che fingono di ascoltarlo assentendo distrattamente con la
testa.
Poi continua ad attendere il suo caffè.
E non appena questo arriva osserva estasiato la tazza come se stesse
rimirando un tardo Botticelli.
Indi con gesti lenti e studiati manda giù con voluttà il nero liquido
aromatico.
Porge i complimenti al barista, atteggiandosi a uomo di mondo e fine
intenditore.
In conclusione afferra il bicchiere d'acqua sul banco e lo vuota in un
sorso solo.
L'acqua dopo il caffè?!
Alla faccia del bicarbonato di sodio, e questo sarebbe il fine
intenditore?
Non c'è niente da fare, gli esseri umani sono il più grande spettacolo
del mondo e non si paga nemmeno il biglietto per assistervi, come soleva
dire sempre il buon vecchio Hank Bukowski.
Samuele Bernardo
Salve, mi chiamo Samuele Bernardo, Sam per gli amici.
In pratica Sambernardo.
Tanto vale dichiarare subito il giochino.
E' una croce che mi porto addosso fin dalla tenera età.
Questo fatto, da parte della gente, di collegare ironicamente
l'abbreviazione del nome con il cognome, mi perseguita ancor oggi e mi ha
creato non pochi problemi fin dall'epoca delle Elementari.
Anche le mie rare fidanzate, nel corso degli anni, si sono divertite un
sacco a chiamarmi come il famoso cagnone da slitta.
E' inutile chiarire che quella del Sambernardo è una razza che mi è
sempre stata sui coglioni.
Ma come cavolo gli sarà venuto in mente ai miei genitori di chiamarmi
Samuele senza tener conto dell'insidia celata nel cognome, ma come si fa,
dico io…
Ed eccomi qui: nomen omen, ca va sans dire, il nome fa l'uomo.
Per onestà intellettuale bisogna pur dire che io un pochino come il
Sambernardo lo sono, sia fisicamente che caratterialmente, grosso,
pacioso e con la tendenza ad affezionarmi troppo alle persone, senza
applicare la buona norma di una sana diffidenza allorquando ci si trova a
doversi relazionare con gente conosciuta da poco.
E questo fatto di fidarmi troppo ha contribuito sempre a crearmi notevoli
casini.
Ogni volta mi ripropongo di andare con i piedi di piombo nell'approccio
interpersonale ma ci ricasco inevitabilmente, spendendo tutto me stesso
nei rapporti e terminando con il ruzzolare giù per le scale senza nemmeno
contare i gradini.
Proprio oggi ho conosciuto una nuova ragazza, molto ma molto ma molto
carina, Elena, Ele per gli amici.
Di cognome Fante.
Di cognome Fante?!
Quando mi è scappata la battuta Elefante lei mi ha prontamente risposto
Sambernardo!
E siamo scoppiati a ridere come due brufolosi.
E' stato amore a prima vista, devo dire: il Sambernardo e l'Elefante.
Che volete farci, a volte le cose vanno così.
Come dite?
Sambernardo si scrive con la enne ed in questo modo: San Bernardo.
Lo so, lo so, non state sempre lì a sofisticare, suvvia.
Prendetela come una licenza poetica e non pensateci più.
La bella Alina
Un caso per il commissario Vicedomini
Gli agenti della questura centrale trovarono il corpo con il cranio
fracassato in un burrone lungo la Tangenziale.
Il medico legale, dottor Ciro Aprea, constatò che il decesso era avvenuto
fra le 21.00 e le 23.30 della notte prima.
La vittima, dai documenti rinvenutigli addosso risultava essere tal
Roberto Formisano, di anni trenta, dipendente del Ministero dell'Interno.
Celibe e figlio unico, viveva con i genitori al civico 136 di Via Roma,
un appartamento di un centinaio di metri quadrati che gli agenti
provvidero ad ispezionare sperando di ottenere qualche dettaglio utile a
sbrogliare la matassa di quel cruento omicidio.
Dal casellario giudiziale non risultavano procedimenti penali nei suoi
confronti, era come si suol dire, incensurato.
Il commissario Giuseppe Vicedomini, Peppino per gli amici, interrogò gli
anziani ed affranti genitori alla ricerca di un appiglio per risalire a
movente ed assassino.
Non ne cavò niente di importante.
La vittima sembrava una persona integerrima, niente debiti o litigi,
amato e benvoluto da amici, conoscenti e colleghi di lavoro.
Insomma la polizia brancolava nel buio più totale.
Frugando fra gli effetti personali del povero giovane, però, il
commissario Vicedomini aveva trovato un fazzoletto profumato recante le
iniziali A. K., che successivamente scoprì appartenere ad una ragazza
ucraina, Alina Kurylenko, per l'appunto, di anni ventitrè che
intratteneva da qualche tempo una relazione sentimentale con il Formisano.
Convocata in questura la bionda dell'est fu messa sotto torchio per
diverse ore e alla fine, in lacrime, rivelò che era stata lei a
commissionare il delitto di Roberto Formisano, in quanto questi aveva
scoperto che lei apparteneva ad un gruppo di svaligiatori di ville in
quel di Posillipo.
Nonostante il Formisano amasse la valchiria dai capelli color grano
maturo, da uomo tutto d'un pezzo quale si fregiava di essere, le disse
che non poteva accettare in nessun modo quella situazione e che prima o
poi sarebbe stato costretto dalla sua coscienza a rivelare tutto alle
forze dell'ordine.
A seguito di questa presa di posizione Alina, confidando la faccenda ai
suoi compari e connazionali, aveva maturato la decisione di farlo
eliminare.
Gli aveva dato appuntamento promettendogli una notte di fuoco e fiamme
sotto le lenzuola e che, alla bisogna, aveva sentito dire da alcune
amiche italiane, c'era un alberghetto a ore nei pressi della tangenziale,
discreto ed economico, dove non chiedevano documenti.
Il Formisano era passato da casa a prenderla, l'aveva fatta salire sulla
sua automobile e preso senza indugio la direzione della Tangenziale.
A un certo punto Alina, adducendo quale scusa il bisogno impellente di
fare pipì, aveva chiesto a Roberto di fermare la macchina in una piazzola
di emergenza che dava sui terreni coltivati poco distante.
Una volta scesa dalla vettura aveva finto di espletare la necessità
fisiologica nei pressi di un arbusto e nel contempo provveduto ad inviare
un sms ai compari appostati in un'altra piazzola.
Questi erano sopraggiunti nel giro di qualche minuto, scesi tutti e tre
dalla vettura, afferrato il malcapitato e trascinato successivamente
nella loro macchina.
Qui lo avevano percosso a morte, utilizzando anche un oggetto
contundente, e successivamente gettato in un dirupo a qualche chilometro
di distanza.
Alina era poi tornata a casa accompagnata dai complici in tutta
tranquillità, considerato che nessuno sapeva della sua uscita con il
Formisano.
Poveriello…isso si era 'nnammurato e viro che fine ha fatto, Peppì…
Eh, Giuà, purtroppo pure ammore spisso tene 'ddoie facce: quanno te
pienze che è arrivato 'o mumento tuoio invece t'aspettano 'e palate…
Purtroppo 'o munno va accussì e ce putimme fa poco, simmo comme 'na
specie 'e spazzine, pulizzammo nu poco'e munnezza e pe tramente n'aiesce
fora dieci vote tanto…
Nuie putimme sulamente arginà, rischianno a vita pe ' sti quattro solde
che ce danno…
Il Vicedomini e il Quagliarulo scesero dal sesto piano della questura
centrale avviandosi lentamente verso il bar di Carminiello per mandar giù
un caffè forte e bollente e fare quattro chiacchiere sul calcio, ma
soprattutto per stemperare quel senso di malinconia che pervadeva
entrambi ogni qualvolta arrivassero alla soluzione di un caso.
Nel frattempo le prime gocce d'acqua piovana principiavano a calare come
lacrime leggere sulla città malata, con la sciocca pretesa di sciacquarne
le innumerevoli lordure.
Ma per quell'assurdo luogo ci sarebbe voluto soltanto il diluvio
universale.
Omicidi & lustrini
Un caso per il commissario Vicedomini
Franco Arrigoni la moralità se l'era giocata ai dadi già da diversi anni.
Sei omicidi sul groppone a nemmeno trentanni ed a quaranta proprietario
di ventotto locali notturni fra l'entroterra e la fascia costiera.
Playboy incallito, di bella presenza e divorziato da cinque anni, senza
figli, convivente con Natasha, una cavallona bulgara ventenne, sua
dipendente privilegiata in uno dei locali sulla costa.
Franco Arrigoni giaceva, adesso, supino sul letto di casa, completamente
nudo e con un grosso coltello da cucina conficcato nel ventre.
Lo trovarono così gli agenti della Questura Centrale, avvertiti dalla
portiera dell'elegante stabile di Via Epomeo nel quale la vittima
abitava, allertata quest'ultima, dalla donna delle pulizie che si recava
nel suddetto appartamento al sesto piano per mettere ordine nella gran
confusione che regnava sempre in loco.
Il commissario Giuseppe Vicedomini, Peppino per gli amici, accompagnato
al solito dal fido vice Giovanni Quagliarulo, buon agente nonché buon
padre di famiglia, osservava attentamente la scena del crimine e di tanto
in tanto scuoteva la testa non si sa bene se in segno di disapprovazione
morale per quello che gli stava davanti oppure di perplessità in merito
all'intricatezza del caso.
Sulle prime il questurino pensò ad un litigio finito tragicamente fra l'Arrigoni
e la Natasha, considerato il fatto che lui era nudo, poi lasciò cadere
quell'ipotesi e ne formulò un'altra, quella dell'ex moglie e di un
tardivo riappacificamento, situazione che per qualche motivo, dopo aver
fatto sesso, era degenerata in tragedia.
Ma era tutto troppo semplice, scontato, poco plausibile, pensava il
commissario.
Sia Natasha che Flora, l'ex moglie, sapevano benissimo che le prime
sospettate sarebbero state loro, andava da sé, orbene, che per quanto
possibile la loro diretta implicazione nella faccenda era allo stesso da
ritenersi anche improbabile.
Vabbuò, Giuvà… aspettiamo che la Scientifica faccia il suo lavoro
rilevando le impronte digitali eventualmente lasciate dall'assassino e
poi studieremo meglio la faccenda…
Azz, Peppì…certo che 'sta femmena adda avè na forza erculea pè fa chello
che ha fatto, a mpizzà nu curtellazzo 'e chella manera int'a panza ro
schifuso, pace all'anema soja…
Eh, Giuvà…a vote 'a collera te po aumentà e forze…certo ca chi ha fatto
tutto chesto l'aveva proprio odià a stu puveriello, pace all'anema soja…
La soluzione del caso giunse inaspettatamente presto, allorchè una
settimana dopo il tragico evento si presentò negli uffici della questura
un ometto male in arnese, con la barba lunga ed i vestiti stropicciati,
con l'aria profondamente sofferente, che disse di chiamarsi Ciro, Ciro
Capuano, di anni trentasette e padre di una ragazzina di tredici anni di
nome Rosetta, dichiarando che Franco Arrigoni aveva abbordato la figlia
all'uscita della scuola e, lusingandola con un cumulo di promesse e
regali, convinta ad andare a casa sua a provare non si sa che tipo di
computer nuovo, e quivi aggredita e stuprata ripetutamente, avanti e
indietro.
Rosetta per un certo periodo non aveva detto nulla ai suoi poiché temeva
una pesante ritorsione da parte dell'Arrigoni, che a questo proposito
aveva già abbondantemente provveduto ad ammonirla.
Però, alla fine, la ragazzina, visto che l'uomo pretendeva giochi erotici
sempre più estremi, aveva preso il coraggio a due mani e confidato tutto
quanto ai genitori.
Ciro Capuano, scaricatore al porto, piccoli precedenti penali di furo con
scasso e danneggiamento alla cosa pubblica ma soprattutto poco avvezzo a
denunce e frequentazioni di qualsiasi tipo con le autorità costituite,
nonostante la moglie avesse cercato di farlo ragionare, maturò la
decisione di farsi giustizia da solo.
Fu così che si recò a casa dell'Arrigoni.
Con una scusa si fece aprire la porta, alla quale comparve lui seminudo,
probabilmente stava scopando, pensò Capuano, con una delle tante
puttanelle di cui amava circondarsi il ricco delinquente playboy e
pedofilo.
Come volevasi dimostrare si affacciò dalla camera da letto una donna
anch'ella seminuda che chiese cosa stesse succedendo.
L'Arrigoni la spedì seccamente in cucina a preparare il caffè, dicendole
che si trattava di una questione d'affari e che non avrebbe tardato più
di tanto nel regolare la questione.
Indi fece cenno al Capuano di seguirlo in camera, dove si sarebbe
rivestito mentre ascoltava quel che l'ospite aveva da dirgli di così
urgente.
Il Capuano, non appena l'Arrigoni si adagiò sulla sponda del letto per
rivestirsi gli si fiondò addosso con grande rapidità e con altrettanta
provvide ad infilargli profondamente l'arma da taglio nell'addome.
Successivamente passò in cucina minacciando la troietta di morte se
avesse spifferato quanto visto e sentito.
A tal proposito ebbe al riguardo ottime assicurazioni di omertà.
Al Capuano furono prese le impronte e gli fu fatto firmare il verbale di
confessione.
Subito dopo fu tradotto in carcere nell'attesa del riscontro delle
impronte digitali.
Riscontro che avvenne puntualmente e che significò per il reo confesso
trent'anni di prigione, nonostante il suo avvocato difensore avesse
lottato strenuamente per fargli riconoscere qualche attenuante dovuta al
fatto che fosse implicata la figlia minorenne.
Ma i giudici furono inflessibili.
Il delitto era efferato e meritava una giusta punizione.
Brutta storia, eh Peppì?
Bruttissima, Giuà, anche perché qui le vittime da contare sono tre: il
morto, il padre assassino e la figlia devastata che si porterà dietro
questa brutta storia per chissà quanto tempo, mortificata nella carne e
nello spirito…
Jammece a piglià nu cafè da Carminiello, và…
Si, jamme a piglià stu cafè, almeno c'accungiamme nu poco a vocca do
sapore acre ' e chistu fatto.
Vicedomini e Quagliarulo si avviarono lentamente verso il bar di
Carminiello mentre le prime ombre della sera principiavano a calare su
quella metropoli tentacolare ed una brezza leggera spirante dal mare si
mescolava al puzzo dei gas di scarico delle tante automobili in transito
che ammorbavano la bellezza di quel posto unico al mondo.
Il vecchio borgo
In quel periodo facevo lunghe passeggiate nel verde stinto del bosco di pini,
teatro della mia infanzia nella città natale.
Mi piaceva immergere lo sguardo nel transito di nuvole gonfie che andavano a
compenetrarsi nei tramonti impastati di luce lattiginosa tipica del novembre di
quei posti.
Quelle quotidiane escursioni mattutine in solitaria mi regalavano un senso di
pace interiore, una serenità d'animo che provavo poche volte quando ero in
città, prigioniero di obblighi e doveri.
Ero tornato da alcuni giorni per sistemare delle faccende familiari che non
potevano più essere prorogate.
Rivedere gli zii e la miriade di cugini rimasti lì da un lato mi faceva piacere,
dall'altro mi procurava un senso di fastidio dovuto al fatto che avrei dovuto
produrre decine di spiegazioni sui perché e sui percome della mia vita privata,
dello stile di vita cittadino, ma soprattutto, ad uso delle vecchie ziette, dei
motivi che mi incatenavano ancora nella mia condizione di uomo abbondantemente
adulto ma ancora non sposato.
E poi c'era lei, Caterina, la figlia di Franco, lo stalliere del paese, ancora
molto bella nonostante tre figli e un matrimonio gettato alle ortiche.
Avevamo avuto una storia, da adolescenti, di quelle tenere, fatte di promesse
eterne sotto lo sguardo ruffiano della luna estiva, sdraiati sull'erba fresca o
sul bagnasciuga a guardare le stelle ed a disegnare le architetture dei nostri
sogni.
C'era stato un delitto anni prima.
Rimasto insoluto.
Lo stupro e l'assassinio di una ragazzina di tredici anni, figlia del fornaio
del paese, ritrovata seminuda in un grosso cespuglio lungo l'argine del fiume
che attraversava, tagliandolo in due il paesotto incastonato fra le montagne.
I genitori straziati dal dolore, il piccolo borgo gettato nello sconforto e
nell'incredulità.
I media si occuparono del caso per diversi mesi, poi la luce dei riflettori si
spense definitivamente, consegnando la triste storia all'oblio dei delitti
insoluti.
In quel periodo di fatti simili ce ne erano già stati alcuni e l'interesse
morboso della gente la conduceva a fare dei week end sui luoghi delittuosi,
accampando la puerile scusa, con se stessi e con gli altri, della curiosità per
sanar la voglia di sangue che la permeava da sempre.
Tutto questo mi aveva dato la nausea facendomi trascorrere grossi periodi chiuso
in casa allorquando si vedevano arrivare in paese le frotte di giornalisti
rampanti a caccia di notizie da offrire in pasto a lettori e telespettatori
affamati di storie cruente.
L'assassino non fu mai trovato, restarono dei sospettati sui quali a carico non
c'erano stati indizi importanti.
Il caso fu archiviato con buona pace di giornali, televisioni e semplici
appassionati.
Qualche anno dopo la terribile vicenda decisi di partire, lasciandomi il borgo
definitivamente alle spalle, salvo poi ritornarci in quell'unica occasione in
cui non potevo sottrarmi dovendo apporre delle firme ad alcuni atti notarili
riguardanti antiche questioni patrimoniali.
I miei genitori vivevano da tempo in una casa di riposo nel capoluogo di
provincia, i miei fratelli erano emigrati all'estero da anni, quindi non c'era
assolutamente nulla che mi potesse ancora trattenere lì una volta sbrigate le
pratiche che richiedevano la mia presenza in loco.
O forse qualcosa c'era.
Che non potevo dimenticare.
Seppellito dagli anni riemergeva in tutta la sua prepotenza, adesso più che mai.
Oggi avrebbe avuto 35 anni, Carla.
Chissà, forse sarebbe stata sposata, con dei bambini, con una casa tutta sua con
annesso giardino da tenere in ordine nei ritagli di tempo che la vita familiare
le lasciasse.
Un fiore reciso nei migliori anni della vita da una mano malefica e assassina.
Andai a fare una visita veloce ai genitori, che a stento si ricordavano di me.
Troppi anni erano passati, loro ricordavano un adolescente con le braghe corte e
adesso si trovavano davanti un uomo fatto.
Il breve dialogo si stemperò nel reciproco imbarazzo.
Passai dal cimitero lasciando dei fiori freschi sulla sua tomba.
Andai via subito, la mia presenza lì era inopportuna.
La vigliaccheria non si cancella con un mazzo di garofani.
Non avevo mai detto nulla in tutto quel tempo, interrogandomi sempre e sempre
rispondendomi di aver fatto la cosa giusta, anche se non ci avevo mai creduto
fino in fondo.
Avevo taciuto.
L'assassino di Carla lo conoscevo benissimo.
E' ancora vivo, abita lontano, si chiama Fabio,è sposato ed ha uno splendido
bambino di sei anni, Aurelio, che ogni volta che mi vede mi corre incontro
zampettando come un grillo ed urlandomi con la sua vocina:"zio, zio!"
Capodanno
Mattina di Capodanno.
Ho atteso la mezzanotte di rito ma ho dormito poco e sono uscito presto,
attorno alle sette, minuto più, minuto meno.
Per le strade nessuno o quasi, giusto qualche passante infreddolito che
accelera il passo alzandosi il bavero del cappotto.
Tutto chiuso, tranne qualche bar rimasto aperto per gli ultimi residui
dei caciarosi itineranti.
Lungo i marciapiedi i segni dell'inciviltà della notte precedente, fatta
di fuochi d'artificio, botti e vecchie cose gettate dabbasso quale
auspicio di novità positive per il nuovo anno.
Dopo una mezzoretta trascorsa nel nulla della città ancora semi
addormentata decido di rincasare e m'accorgo della strisciata di vomito
che segnala il malore dovuto agli abusi alimentari ed alcolici da parte
di qualche tizio che non ha fatto in tempo ad onorare il cesso di casa
propria o di qualche locale ed ha pensato bene di lasciare il souvenir
accanto al portone del mio condominio.
Entro in casa e resto un paio d'ore nella mia stanza, al caldo,
leggiucchiando un po' ed ascoltando musica, indi decido di fare ulteriori
quattro passi fuori, nella speranza di incontrare quante meno persone
conosciute possibile, il che equivale a formulare pochi auguri,
sottraendosi così all'abusata ed ipocrita usanza tipica del periodo.
La gente durante l'anno si guarda in cagnesco e poi si produce in una
quantità enorme di salamelecchi per le feste.
Lo trovo ridicolo.
Raggiungo un bar, m'infilo dentro, ordino un caffè, lo sorbisco
lentamente, esco con l'aria gelida che mi sferza la pelle, mi stringo nel
cappotto e mi avvio verso le mura domestiche.
Lungo il tragitto incontro un tizio che conosco ed inevitabilmente
partono gli auguri vicendevoli e totalmente falsi bipartisan.
Decido di rientrare, tutto sommato è andata bene, soltanto una persona
incrociata nel corso della passeggiata, almeno la nausea di prammatica
stavolta sarà contenuta entro limiti accettabili.
Mi barricherò dentro la mia caverna tutta la giornata, solo con i miei
familiari, almeno non mi sentirò obbligato a fare e a dire nulla.
A proposito, Auguri di Buon Anno a tutti.
Il salumiere assassinato
Un caso per il commissario Vicedomini
Il corpo giaceva esanime sul pavimento di mattonelle a scacchi del
monolocale di periferia.
Il cadavere rispondeva - si fa per dire - al nome di Federico Vangone,
quarantanni, di professione salumiere, benestante e molto conosciuto
nella area flegrea, zona dove abitava e svolgeva la professione.
Il corpo presentava profonde ferite d'arma da taglio all'addome, sulla
schiena e sulle mani, con le quali, quest'ultime, presumibilmente, il
commerciante aveva tentato istintivamente di parare i feroci colpi del
suo aggressore.
Il commissario Giuseppe Vicedomini, Peppino per gli amici, accorso sul
luogo del misfatto accompagnato dal suo vice Giovanni Quagliarulo, tre
agenti della questura centrale e due tecnici della scientifica, scosse la
testa più volte mentre osservava attentamente la scena del crimine.
Ispezionando da cima a fondo il locale il commissario rinvenne, in un
cassetto della scrivania situata nella camera da letto, un quadernetto
nero a quadretti pieno zeppo di nomi, date e conti segnati in rosso.
Con tutta probabilità, considerata la cospicuità delle cifre segnate
all'interno, non doveva trattarsi di semplici crediti che il defunto
droghiere potesse vantare nei confronti dei clienti del negozio, bensì di
prestiti ad altissimo interesse, in pratica di usura vera e propria,
pensò subito il commissario.
Vicedomini convocò in questura, nei giorni seguenti, le persone che
comparivano sulla lista e prese ad interrogarle.
Ci aveva visto giusto: il Vangone era un usuraio, di quelli della peggior
specie, uno che si appoggiava per riscuotere i crediti ad alcuni
esponenti malavitosi della famiglia Benincasa che controllava il
quartiere.
Torchiati a dovere fra i debitori del mascalzone saltò fuori l'assassino
reo confesso.
Trattavasi di un certo Mario Esposito, trentatrè anni, netturbino, che
per soddisfare le voglie di lusso sfrenato della bella e procace consorte
si era indebitato fino al collo con il Vangone.
Tuttavia era sempre riuscito ad onorare i propri debiti fino a quando i
tassi usurai erano balzati così in alto che per non incorrere
nell'intervento dei Benincasa aveva dovuto cedere all'aberrante richiesta
dello strozzino: cedergli la moglie a fini sessuali.
La cosa durò qualche mese, allorquando la signora Franca, moglie
dell'Esposito, tornò a casa dall'ennesima seduta di pagamento in natura e
rivelò al marito che in quell'occasione il Vangone aveva preteso delle
prestazioni molto particolari, in parole povere la Franca aveva dovuto
sottostare all'azione sodomitica del depravato creditore.
Fu in seguito a quest'ultima rivelazione che l'Esposito, assalito da una
furia cieca e devastatrice, si era recato a casa del Vangone e l'aveva
massacrato con una trentina di pugnalate inferte con un coltellaccio da
cucina.
Hai visto, Peppì…che razza 'e ggente esiste o munno…nun cuntente e
sfruttà a miseria economica e spisso morale de' persone s'anna sfugà pure
'e voglie 'ncuollo 'e mugliere 'e ll'ate…
Giuà nun se finisce mai 'e mparà, ma a cosa cchiù schifosa è chella che
cierti farabutti s'a pigliano cu a ggente bisognosa…nonostante che a
signora Esposito teneva 'e smanie 'e grandezza nun se meritava chellu
poco che ha dovuto subì…
Bah…jammuncenne a piglià na bella tazzulela 'e cafè, Peppì, pe c'a
accuncià nu poco sta vocca amara…amara comme 'a vita, sulo che dint'o
cafè ce può mettere 'o zucchero ma int'a vita che ce miette?
Mentre il Vicedomini ed il Quagliarulo s'avviavano lentamente giù al bar
su quella metropoli tentacolare perduta in se stessa calavano, come un
lugubre sudario, le prime ombre della sera.
Un altro giorno era trascorso consumato fra le lordure dell'umanità,
pensò il commissario Vicedomini, assalito da improvvisa stanchezza.
Domani un nuovo sole illuminerà le stesse brutte facce di sempre e noi
saremo al solito al nostro posto a fare gli spazzini del crimine.
C'est la vie, mon amì.
Lo scatto distratto
Sala d'aspetto del dentista.
Attendo il mio turno per entrare.
Di fronte a me un'avvenente signora sulla cinquantina che indossa una
generosa gonna che le mette in evidenza gambe abbronzate e ben tornite.
Il sottoscritto e gli altri astanti di sesso maschile, nel tentativo di
non far cadere lo sguardo sulle sue grazie, inseguono forme astratte sul
soffitto e sul pavimento dell'anticamera odontoiatrica.
Ad un certo punto tiro fuori il cellulare e principio a giocherellarci,
per stemperare la noia e la tensione dovuta alla femminea procace
presenza.
Senza accorgermene tengo puntato l'apparecchio verso di lei e smanetto
con i tasti a più non posso.
La dark lady di mezza età mi sta osservando di sottecchi, me ne sono
accorto ma faccio finta di niente e continuo a tormentare il radiomobile.
Saltando di funzione in funzione mi ritrovo in quella della fotocamera e,
dimenticando di disinnescare il suono dello scatto, lascio
involontariamente partire un chiassoso clic.
La signora trasale e, notando il cellulare puntato nella sua direzione,
in località medio bassa, mi lancia un'occhiata inceneritrice.
Arrossisco come un quattordicenne beccato dai genitori in bagno ad
armeggiare col pistolino.
Non so che dire né che fare nell'atmosfera diventata plumbea della
saletta affollata.
Non faccio e non dico niente.
La figura di merda è completa, devastante, senza rimedio apparente.
Vagli a spiegare adesso all'attempata ninfa che lo scatto mi è scappato e
che di certo non l'ho fatto apposta.
Però la foto è venuta bene, si vede proprio tutto, accidenti.
Gli italiani di ritorno
Sabato mattina.
Gran bella giornata di sole.
Sto camminando per i fatti miei lungo una strada del centro cittadino quando un
signore anziano, sulle strisce pedonali, mi affianca afferrando un lembo del mio
giubbotto.
Mi giro di scatto accorgendomi del suo leggero incespicamento sul selciato e
della chiara difficoltà di attraversamento dovuta alla titubanza nell'affrontare
lo scorrimento veloce degli autoveicoli.
Lo guardo bonariamente e gli dico:" sono questi marciapiedi che sono stati fatti
male…"
Lui replica rispondendo in un italiano da emigrante di lunga data: " sì,
effettivamente…sa…io vengo dalla Germania…tutto un altro pianeta rispetto a
qui".
"Può sempre ritornarci di corsa, in Germania", dico io.
Lui mi guarda allibito, lascia di colpo il giubbotto e si allontana scuotendo la
testa.
Avrà pensato: il solito italiano maleducato e borioso.
Il punto è che siamo noi italiani a non volere più gli italiani di ritorno.
Soprattutto quelli come il signore di cui sopra.
La
lunga estate calda del commissario Vicedomini
Era stata un'estate lunga e calda, quell'anno.
Il commissario Giuseppe Vicedomini, Peppino per gli amici, aveva
trascorso una quindicina di giorni di ferie sulla costiera amalfitana, a
Positano, alloggiato in una pensione gestita da una sua amica dal tempo
delle scuole superiori, tal Plinia Varriale, trasferitasi, quest'ultima,
nell'amena località turistica una decina d'anni prima a seguito del
fallimento matrimoniale con tale Franco Giovenale, commercialista di
successo ma poco avvezzo alla fedeltà coniugale.
La Varriale aveva rilevato la piccola struttura lasciatagli in eredità da
una vecchia zia nubile decidendo di stabilirsi definitivamente nella
perla della costiera a continuare l'attività della defunta parente.
Il Vicedomini, saputolo da poco, aveva colto l'occasione per fare un po'
di vacanze a costi contenuti grazie all'antica amicizia che lo legava
alla Plinia, mai venuta meno negli anni, anche se le loro frequentazioni
erano state sempre molto sporadiche e limitate quasi esclusivamente a
qualche telefonata di tanto in tanto.
Nel corso delle lunghe giornate oziose il commissario aveva più volte
provato a contattare Caterina, la sua ex, che sapeva essere ancora
single, ma ogni qualvolta ci fosse da pigiare il tasto di invio chiamata
sul cellulare era preso da tentennamenti che avevano sempre impedito il
dialogo riappacificatore.
La loro liaison si era conclusa da qualche anno per l'incapacità
congenita di lui a costruire qualcosa di duraturo.
Troppi anni da single scontroso gli avevano lasciato addosso una scorza
dura da grattare.
E le cose con Caterina avevano imboccato il loro corso più naturale, cio è
la strada della rottura, non senza impiego di male parole nel finale del
tormentato percorso amoroso.
Le giornate vacanziere del commissario trascorrevano, di mattina, fra
calate a mare e granite di limone al chioschetto di Alfonsino sul
lungomare, pisolini pomeridiani al fresco condizionato della sua
stanzetta super accessoriata al terzo piano della pensione Stella,
risvegli, nel tardo pomeriggio, con tappa fissa nella piazzetta ad
assistere al teatrino dei burattini, che amava fin da quando era bambino.
Non mancava mai di assistere, quando se ne presentava l'occasione, alle
gesta del suo beniamino Pulcinella Cetrulo di Acerra, la più importate
maschera napoletana, che beffava sistematicamente ed a volte bastonava di
santa ragione i ricchi boriosi e gli arroganti di ogni genere.
Al termine dello spettacolo un salto da Ciruzzo a mare, sulla spiaggia
grande, per la classica impepata di cozze o caponata oppure tutte e due a
seconda dell'appetito era doveroso nei riguardi di se stesso.
Erano stati, a conti fatti, quindici giorni da villeggiante solitario, ma
Vicedomini lo era di natura e la cosa non gli era pesata più di tanto.
Alla fine era venuto il tempo di ritornare in città, al lavoro e a tutte
le incombenze della vita quotidiana.
Al rientro in commissariato aveva trovato ad accoglierlo il suo fido vice
Giovanni Quagliarulo, uomo buono come il pane, al punto che Vicedomini si
chiedeva sempre cosa ci facesse uno come lui con la divisa da sbirro
addosso.
Non che Quagliarulo fosse un cattivo poliziotto, beninteso, il fatto era
che i suoi modi sempre improntati alla cordialità con tutti, anche con i
peggiori delinquenti, ne facevano una sorta di pater familias, figura che
mal si sposava con quella che doveva essere l'immagine e l'impronta di un
questurino in servizio in quella metropoli tentacolare somigliante più
all'India che ad una moderna città europea.
Ciao, Peppì…tutto ok la vacanza?
Ti sei rilassato, divertito, hai fatto qualche conquista, vecchio
pisellone?- disse il sottoposto rivolto al suo superiore.
Divertito…insomma…ho trascorso quindici giorni lontano dalla merda di
questa città e dai caca cazzi logorroici come te, rispose il commissario,
fra il serio ed il canzonatorio.
Eh, Peppì'…è proprio accussì, ogni tanto s'adda lassà tutte cose areta 'e
spalle, o si no s'aiesce pazze a sta troppo tiempo int'a sta città
malata, sempe areta a mariuoli e fetienti 'e ogni tipo… a vvota me pare e
camminà ncoppa a nu pavimento 'e mmerda, a rò t'à sta sempe attiento a
nun sciulià e a te rompere e cosce…
Sì, Giuvà…è proprio accussì, ogni tanto ce ne avimmo fuì a 'stu posto…
Vabbuò, nun ce penzà, Peppì…bentornato a bordo…che dice…o vuò nu poco 'e
cafè?
Sì, grazie, Giuvà, ma no chello da machinetta dell'ufficio, chello è na
zuzzimma…jammucenno abbascio o bar 'e Carminiello, che fa 'o meglio cafè
de tutta Napule…
E così il Vicedomini e il Quagliarulo scesero al bar di fronte alla
questura a sorbire 'na bella tazzulella 'e cafè per poi a rituffarsi
nelle lordure quotidiane che il loro lavoro non lesinava certo di
offrire.
Il commissario Vicedomini aveva scelto quella professione perché gli
piaceva davvero, fin da piccolo amava giocare all'investigatore, poi,
nondimeno, aveva contribuito a siffatta scelta la propensione insita nel
carattere che lo portava a voler mettere ordine alle cose, a ricollocarle
nella loro giusta dimensione, ristabilendo, in una parola, l'ordine
naturale degli eventi che gli si profilavano davanti.
Era diventato un ottimo professionista e svolgeva il proprio lavoro con
discrezione e lontano dai clamori di certi media sempre affamati di
notizie sensazionalistiche.
Aveva, anzichenò, ottenuto grandi successi contro la criminalità
organizzata, risultandone un poliziotto amato e rispettato dalla gente
perbene, che vedeva in lui una sorta di paladino senza paura sempre
pronto a prendere le difese dei deboli e dei bisognosi.
Qualche volta era addirittura apparso in televisione a rispondere alle
domande degli anchor men in quelle trasmissioni di approfondimento e di
opinione a seguito immediato di qualche fatto eclatante di cronaca.
L'unico lato negativo, se così si può dire, era la sua indole malinconica
che lo portava spesso ad isolarsi ed a estraniarsi dal consesso civile,
come un vecchio orso che si rintana scontroso.
Dopo la breve digressione, si diceva poc'anzi, la lunga estate calda di
quell'anno, intervallata dalla breve parentesi balneare, era ormai alle
spalle.
Lo aspettavano, adesso, lunghi mesi di freddo, di fatica e di incazzature
varie in quella città che non finiva mai di sorprenderlo, sia
negativamente che positivamente.
Sorrise pensando a ciò, poi si diresse lentamente nel suo ufficio, adagiò
la giacca di lino leggero sull'appendiabiti, spalancò la finestra e si
affacciò fuori.
Dal sesto piano si riusciva a vedere il mare e nei giorni in cui non
c'era molto traffico si poteva addirittura percepire nelle narici l'odore
della salsedine.
Il commissario godette per qualche minuto della magnifica veduta, poi si
spostò lentamente verso la scrivania, lanciò un'occhiata distratta al
cumulo di carte accumulatesi durante la sua assenza, sospirò e si accese
la prima sigaretta della lunga giornata.
Hard boiled
Era da diversi giorni che seguivo quella misteriosa traccia.
Non ero sicuro, ovviamente, di dove mi potesse portare, però mi intrigava
over the top.
Ero uno scribacchino locale indipendente, nel senso di non dipendere da
nessuno, nemmeno dai lettori, che non c'erano.
E nemmeno da un editore cazzone che ti dice come devi scrivere, lontano
anni luce dalle logiche e dalle tirannie editoriali.
Scrivevo quel che cazzo mi pareva e lo pubblicavo sulla mia home page di
Facebook, contando sulla bonomia dei tanti amici virtuali che mi ero
fatto.
Stavo tentando di scrivere un pezzo hard boiled per l'unico giornalino
che ancora mi concedesse un po' di credito e mi ero ritrovato non so come
invischiato in una storia di scambisti, feticisti, fancazzisti e
quant'altro.
Una faccenda piuttosto pericolosa per il mio moderato way of life, ma
avevo deciso di buttarmici dentro a corpo morto, chissà magari ne sarebbe
venuta fuori una truculenta cronaca da raccontare e un bel po' di gente
da sbattere in galera, col mio nome sui principali quotidiani nazionali e
magari un po' di gnocca gratis per via dell'ottenuta popolarità.
Peccato che fra gli zozzoni che avevo fiutato c'erano alcuni politici ed
imprenditori importanti.
E così alla fine mi ritrovo sbattuto in galera per calunnie e con
quell'ergastolano che chissà da quanto tempo non scopa e mi guarda un po'
strano…
Dal dentista
Nell'anticamera del dentista.
Una donna incinta seduta sulla poltroncina in attesa del suo turno per la
visita.
Lui seduto di fronte.
Lui: "è il suo primo figlio, signora?"
Lei:" sì,è il primo".
Lui: "dev'essere un'esperienza esaltante, allora…"
Lei: "sì, effettivamente…lei ne ha di bambini?"
Lui: "no, purtroppo no, non sono sposato e non ho mai fecondato nessuna
donna fino ad
oggi, almeno credo".
Lei fa un rapido ed imbarazzato cenno di assenso col viso e poi finge di
immergersi nella lettura del magazine della settimana precedente, pescato
nel portariviste collocato in un angolo della sala.
Lui si osserva un po' i piedi sporchi che fanno capolino dai sandali
consumati da anni di uso e fa fluttuare lo sguardo nello spazio asettico
del locale.
"Cazzo avrò detto mai che questa si è seccata?" - si chiede con aria
ebete.
"Mica sarà per il fatto della fecondazione?
Boh, a me hanno insegnato fin da piccolo a dire sempre la verità, non
capisco perché 'sta tizia se l'è presa…"
Ad un certo punto il professionista dei denti umani scassati compare
nella sala d'aspetto e chiama a gran voce il cliente successivo.
Lei si solleva dalla poltroncina con un pizzico di fatica dovuto al suo
stato interessante e a passi lenti guadagna l'ingresso nella saletta
interna.
L'aggiustadenti, noto erotomane cittadino, le fa qualche complimento con
un chiaro retro pensiero sessuale e lei sorride maliziosa mentre varca la
piccola apertura che la condurrà sul lettino odontoiatrico.
Ne sortisce dopo una mezzoretta buona con i capelli scarmigliati, sudata
e tutta rossa in viso.
Saluta con fare ammiccante il dottore ed imbuca l'uscita senza salutare
gli astanti rimasti.
Adesso è il turno di lui, che si alza dalla sua postazione, si sistema
meglio i sandali ai piedi e si affretta a stendersi sul lettino.
Il dentista: "hey, Mike, hai visto quella giovane donna che è entrata
prima?
Gran pezzo di gnocca, eh?
Me la trombo da mesi e mi sa proprio che il bambino che porta in grembo è
figlio mio.
Lei, negli ultimi tempi ha fatto molto sesso con il marito per fargli
credere che il figlio
che nasceràè il suo, ma sono quasi certo d'averla ingravidata io".
Il caro doc … non gli ho detto, ovviamente, che erano mesi che mi
trombavo sua moglie, che adesso è incinta e mi sa proprio che l'ho
fecondata io …
La Biblioteca Comunale di Pompei
Municipio di Pompei, piano terra, ufficio informazioni, un giorno
qualsiasi di settembre.
Busso alla porta, attendo pronunciare "l'avanti" di prammatica, entro,
richiudo adagio e mi si svela davanti agli occhi un crocchio d'impiegati
intenti a leggere il Corriere dello Sport Stadio e a ciarlare dei fatti
propri a voce alta.
Mi avvicino al primo che capita a tiro e gli faccio: "buongiorno, mi
occorrerebbe il recapito postale della Biblioteca Comunale, dovrei
spedire un plico…"
I dipendenti dell'Ente si zittiscono immediatamente e si guardano fra
loro, stupiti dalla clamorosa ed inaspettata richiesta, offrendomi, poi,
facce dipinte con espressioni miste fra il il perplesso e lo schifato.
Riavutisi dall'iniziale shock uno di loro, autonominandosi portavoce dei
colleghi mi risponde: "la biblioteca? Perché, noi a Pompei abbiamo la
biblioteca? Non mi risulta. Boh." E cerca con lo sguardo i compagni di
merenda in attesa di legittimazione alla sua arguta non risposta.
"Come sarebbe a dire che non vi risulta, - replico incredulo, - io ho
sempre spedito plichi allo storico indirizzo, solo che adesso ho sentito
dire che la struttura è stata spostata altrove e gradirei sapere dove".
Subitaneamente inizia fra gli appassionati di calcio e di pettegolezzi
dell'ente pubblico una sorta di toto-biblioteca, nell'intento di
indovinare la nuova ubicazione e potermi, dunque, fornire, non senza
leggeri accenni di seccatura, l'informazione richiesta.
Dopo una serie d'indirizzi sciorinati senza convinzione uno di loro mi si
avvicina e mi sibila a pochi centimetri dal viso: "ma perché ti serve la
biblioteca, che problema hai?"
Non perdo tempo ulteriore a ribattere, giro i tacchi e sortisco da quella
specie di manicomio aperto al pubblico senza nemmeno salutare.
Li lascio al loro giornale sportivo ed alle chiacchiere querule di
persone spente che si rivitalizzano soltanto il ventisette del mese
allorquando devono stendere la mano per percepire uno stipendio
assolutamente usurpato.
Alla faccia degli striscioni che il borgomastro ha fatto appendere sui
muri della città, inneggianti al senso del dovere ed alla presa di
coscienza che sul lavoro ci si deve impegnare a fondo per poter dire di
aver guadagnato onestamente il proprio emolumento mensile.
Se non ci fosse da piangere mi verrebbe da ridere.
E' un normale rendez vouz con i servi sciocchi di questo baraccone
denominato ente comunale.
Niente di nuovo sotto il sole.
La biblioteca la cercherò da me.
But not for you
Accendo il cellulare.
Esco di casa.
Attivo il lettore musicale e seleziono "but not for you"di Liam Mckahey,
il mitico ex cantante dei Cousteau, straordinariamente somigliante al
divo porno Rocco Siffredi.
Cammino lentamente lungo le strade tiepidamente spalmate di sole e gonfie
di gente intenta a praticare lo struscio domenicale.
Qualcuno si gira attorno nel tentativo di captare da dove venga quella
strana musica, tutti gli altri continuano a deambulare e a ciarlare del
niente come se nulla fosse.
Arrivo al solito bar per il solito caffè e le usuali chiacchiere sportive
con il barista.
Poi faccio un salto in libreria, un altro dei miei santuari privati, per
acquistare qualche album di parole.
Lungo la via del ritorno intravedo qualche conoscente e lo ignoro con
decisione.
Tanto da conoscenti e parenti non ne cavi nulla di buono.
Nemmeno da quelli che ci ostiniamo a chiamare amici, che altro non sono
che conoscenze approfondite.
Al rientro a casa scarico la posta elettronica, posto qualche cazzata su
Facebook e controllo le mie aste su Ebay.
Infine mi adopero nella preparazione del pranzo che consumo guardando
l'anticipo di campionato su Mediaset Premium.
Poi il nulla fino al lunedì.
Anche se non ve frega un cazzo vergo queste scarne righe con la Tombow,
chiudo il Moleskine e vaffanculo a tutti, me compreso.
Amo Napoli
Amo Napoli.
La Napoli dei vicoli stretti come corridoi nel cielo, dei panni stesi al
sole e delle vecchie comari che inciuciano sugli usci a pianterreno,
sedute su sedie impagliate di mille anni, aspettando la cottura del ragù.
Amo la Napoli di Napule è, a voce de criature ca saglie chianu
chianu e saje ca nun si sulo.
Amo Napoli con l'odore del mare che entra nelle narici a farti compagnia
e non va più via.
Amo Napoli, la Napoli del sole che urtica la pelle, ottunde i sensi,
stampa rughe nuove nell'anima.
Amo Napoli, la Napoli di Maradona che ci ha levati 'e pacchere da
faccia, la Napoli di Salvatore Di Giacomo,
di voce e notte, dicitancello vuie, fenesta vascia, io amo
Napoli, la Napoli di Totò, misera e nobile, dove signori si nasce, la
Napoli Dei fratelli De Filippo e Tummasì… te piace 'o presepio?
Amo Napoli, la Napoli di chi non si fa mai i cazzi suoi perchéè un modo
di manifestare solidarietà e dirti che esisti, sei importante anche se
non possiedi niente.
Tutto il resto, la camorra, la munnezza, il malgoverno, gli evasori
fiscali, i caporali, chi assume la gente in nero sottopagata, i pusher, i
furbetti del quartiere, i falsi invalidi, gli arricchiti che hanno
dimenticato le proprie origini, tutto questo non è Napoli, o meglio, lo
è,è il suo alter ego, il rovescio della medaglia, la bella donna piena
di cicatrici.
Amo Napoli, profondamente.
Un giorno si e l'altro no.
Il cellulare nuovo
Estate.
Luglio torrido come non mai.
In bici, con il cellulare nuovo attaccato alla cintura dei pantaloni, mi
godo le ferie dei poveri nella città semideserta.
Nella calura e nel silenzio si affianca uno scooter.
Sono in due a bordo.
E' un attimo.
Avverto con nettezza il brusco strappo laterale.
Il cellulare non è più al suo posto.
Lo scooter nero si allontana velocemente.
L'occupante di dietro si gira un paio di volte un po' sorpreso dal fatto
che io non gridi o inveisca nei loro confronti, faccenda del tutto
normale in frangenti del genere.
Ma io non grido, raramente perdo il controllo di me stesso.
Decido tutto in un attimo.
La distanza che si frappone fra me e loro non è ancora incolmabile, si
può fare.
Dal borsino della mountain bike estraggo la . P38.
Miro direttamente alla testa senza casco.
Questi delinquenti sono ormai talmente sicuri della propria impunità che
nemmeno si premurano più di celare l'identità.
Vedo quello dietro flettere la schiena lentamente come un'immagine alla
moviola di Controcampo, sollevando le braccia al cielo come avesse
segnato un goal e cadere pesantemente sull'asfalto bollente.
L'altro, invece, perde l'equilibrio del mezzo e salta giù lasciando che
esso scivoli per decine di metri sulla carreggiata.
In quel preciso momento non circolano auto nell'orizzonte visivo.
Rari passanti lungo le strade del centro e tutto attorno.
Molti sono al mare, d'altronde, ed i rimanenti saranno barricati nelle
case al fresco dei condizionatori d'aria.
La sorpresa, lo sbigottimento, l'incredulità.
Anch'egli decide in poco tempo.
Corre a recuperare la moto.
Salta in sella e riparte sgommando.
Dal canto mio non ho mai smesso di pedalare tranne quando ho dovuto
prendere la mira a due mani, come nei polizieschi americani che mi
piacciono tanto.
Arrivato a pochi metri di distanza dal malfattore punto il cannone alla
testa.
Esplodo il secondo colpo.
Cade in maniera scomposta, rotando su stesso di circa novanta gradi prima
di stramazzare sul selciato stradale.
Sta arrivando gente, molto lentamente la piccola folla si tiene a
distanza; qualcuno urla di terrore, qualcun altro se la dà a gambe
levate, qualcun altro ancora dice di chiamare la polizia e l'ambulanza.
Torno indietro con la bici e recupero il cellulare finito sul bordo del
marciapiede.
Funziona ancora, fortunatamente.
Lo rimetto nella cintura e ripongo anche la . P38 nel borsino attaccato
centralmente sul telaio della bici.
Mi avvio con calma verso casa.
E' quasi ora di pranzo e la mamma mi ha preparato i tortelli di Giovanni
Rana, poi sofficini Findus mozzarella e pomodoro di secondo ed infine il
sorbetto Valsoia naturale vaniglia e cioccolato.
Quindi poltrona preferita e visione di un bell' action movie americano su
Sky Tv.
Nel tardo pomeriggio una doccia fresca e corroborante e telefonata alla
mia girl per organizzare la serata con gli amici.
La chiamerò con il cell nuovo.
Fortuna che nella caduta non si è rotto.
La crisi
Crisi.
Aria di crisi.
C'è crisi dappertutto, in tutti i settori dell'economia.
Tutti a tirare la cinghia.
Poi a luglio ed agosto tutti al mare a mostrar le chiappe chiare.
La cinghia si allenta e si galoppa a briglie sciolte lungo i sentieri
delle vacanze.
Gli italiani piangono e fottono, ca va sans dire.
Giuseppe Tricarico aveva sempre nutrito il sospetto che le crisi
economiche fossero tutta un' invenzione del governo per giustificare i
tagli alla spesa pubblica e ficcarsi il surplus ricavato in saccoccia.
Ma Giuseppe Tricarico era uno che contava quanto il due di picche.
Era un anarcoide, un derivativo che viveva defilato rispetto al consesso
civile.
Poteva pensare e dire qualsiasi cosa che non se lo filava nessuno.
Perché lui non era nessuno.
Non rappresentava niente.
Se le sue stesse cose le avesse detto un politico oppure un riccone
avrebbe avuto il suo milione di elettori.
A Giuseppe toccavano tutt'al più un milione di risate, quelle dei suoi
amici e conoscenti.
Bisogna dire che a Giuseppe non fregava un cazzo degli altri, aveva
provveduto da tempo ad azzerare quanti più desideri possibile, e più
questi diminuivano tanto più aumentavano le sue fette di libertà.
I sogni, invece, erano rimasti inossidabili, quelli non glieli avrebbe
scippati nessuno, perché Giuseppe, con gli anni, aveva imparato l'arte di
volare ad alta quota, a distanza di sicurezza dal tiro di schioppo di
quelli sottostante.
Per lui non c'era crisi ma soltanto sogni da cullare mentre gli altri si
arrostivano al mare.
Lo sciopero degli uomini
Da anni, ormai, l'uomo, inteso come genere di sesso maschile, aveva
innalzato bandiera bianca nei confronti di quello che una volta era
definito il gentil sesso, o sesso debole, qual dir si voglia.
A conti fatti erano le donne che comandavano il presente, seppur
velatamente (ma nemmeno tanto), in tutti i settori della vita pubblica e
privata.
Con l'ausilio della caterva di leggi approvate in loro tutela bastava un
niente per spedire in tribunale, con l'accusa di violenza sessuale, un
poveraccio appena sufficientemente eccitato ma con nessuna voglia di
forzare alcunché serratura vaginale.
Le suddette leggi rappresentavano una delle armi segrete in dotazione
alle (ex) gonnelle, unite alla bomba atomica del ricatto sessuale in seno
matrimoniale, ma più in generale nei rapporti di coppia, per cui se non
si faceva la loro volontà nel prendere questa o quella decisione nelle
questioni quotidiane esse serravano le cosce a mo' di sciopero e per
l'uomo non restava altro che il fa- da- te erotico.
Insomma, come la si mettesse, erano le gonne-pantaloni a fare il bello e
cattivo tempo sui pantaloni storici.
Un bel giorno, non si sa bene come la faccenda avesse avuto inizio, un
tipo, forse un messicano, brasiliano, non si è mai capito con precisione,
scese in sciopero nei confronti della moglie.
Niente più sesso, niente più attenzioni, niente più doveri.
Sciopero totale.
Se ne andò a vivere nella mansarda dell'appartamento nel quale abitava
con i familiari, rifiutandosi categoricamente di rimettere piede al piano
di sotto.
Passarono giorni, settimane, mesi, ma la sua decisione di scioperare nei
confronti della moglie persisteva in modo cocciuto.
Qualcun altro, poi, cominciò ad emulare il tizio, poi qualcun altro e
qualcun altro ancora.
Come una pandemia il morbo dello sciopero maschile si propagò in un
batter d'occhio al mondo intero.
Gli uomini non cacavano più le donne.
Niente di niente.
Zero assoluto.
Niente sesso, niente complimenti, niente gentilezze, essi si dimostravano
scostanti anche nelle amicizie, con le colleghe di lavoro, con l'intero
universo femminile, anzichenò.
Sulle prime le donne rimasero sorprese, successivamente contrariate e poi
decisamente incazzate con la progenie maschile.
I discendenti di Adamo intanto perseveravano nel suddetto atteggiamento e
nel contempo si moltiplicavano a dismisura le relazioni omosessuali.
Siccome il fatto era senz'altro da considerarsi serio, giunti a quel
segno, le femmine cominciarono a farsi prendere dal panico.
Era pur vero che potessero svolgere senza particolari problemi tutto
quanto facevano gli uomini da secoli, qualsiasi tipo di lavoro e di arte;
avrebbero potuto mandare avanti tranquillamente il mondo anche senza
l'ausilio dei maschi ma… fino a che punto?
Fino a che generazione?
Il ricambio necessitava altrimenti l'umanità si sarebbe certamente
estinta nel breve volgere di qualche decennio.
Compresero, quindi, che quegli stronzi tanto vituperati erano necessari
per la sopravvivenza del pianeta.
Fra l'altro, le ragazze in età avanzata principiarono con gli isterismi
poiché si rendevano ben conto che il proprio orologio biologico non
consentiva di lasciar trascorrere ancora troppi anni prima di poter
concepire e partorire un figlio, cosa alla quale tenevano moltissimo;
altre, invece, abituate ad un regime sessuale regolare davano luogo ad
una smania incontrollabile e lo smanettamento personale che ne seguiva
non le soddisfaceva più di tanto, altre ancora compresero che al mondo
serviva ancora la cultura e l'arte che alcuni uomini potevano regalare.
In parole povere capirono di aver tirato troppo la corda, che in tutti
gli anni spesi a combattere per la causa femminista altro non avevano
ottenuto che copiare il modello maschile, con tutto il suo carico di
arroganza e crudeltà, arrivando addirittura ad imitarli nel vestiario e
nelle professioni e mestieri.
Insomma, il raggiungimento della parità dei sessi aveva dato quale
risultato quello che gli uomini, al punto in cui si era giunti, avrebbero
dovuta chiederla loro, la parità.
Con molta fatica e riluttanza decisero allora di chiedere scusa al genere
avverso dell'atteggiamento adottato negli ultimi decenni e le cose pian
piano ripresero a girare per il verso lecito.
Uomini e donne tornarono di nuovo insieme a fare l'amore, litigare,
scannarsi, invidiarsi, uccidersi, insultarsi nei tribunali … e
quant'altro.
Era senza dubbio tornata la normalità.
Lo sciopero degli Adamo restò una pietra miliare nella storia
dell'umanità e servì a far comprendere che la dualità uomo-donna
rappresenta sempre un'enorme sciocchezza.
Entrambi i sessi sono ugualmente importanti per la continuazione della
specie bipede che pullula da milioni di anni su questo teatrino di
meraviglie e di tragedie a forma di sasso ammaccato.
Tempi nostri
In piedi.
Nell'ufficio postale ad alta densità di utenti e con l'aria climatizzata
guasta nel luglio straincazzato già dalla prima settimana.
In attesa del turno per accedere allo sportello, con finalità di
pagamento di esose gabelle comunali.
Per ingannare il tempo che mi separa dall'impiegata carina con contratto
co.co.co. sfilo dalla tasca posteriore degli shorts (come dicono quelli
che parlano bene) l'ultimo numero di A-RIVISTA ANARCHICA e principio a
sfogliarne le mitiche pagine in bianco e nero che la contraddistinguono
ormai da sette lustri nel marasma generale dei tanti, inutili, magazine
che ingolfano le edicole del Belpaese.
Mi arriva in abbonamento dall'anno 2000 D.C. e pochi minuti prima l'ho
estratta calda calda dalla casella postale situata all'esterno
dell'edificio, che interrogo quotidianamente nella speranza di trovarci
un qualcosa che possa cambiarmi la scialba esistenza.
Mi costa trentacinque euro l'anno (la casella, l'abbonamento al magazine
libertario trenta euro) e non mi ha mutato ancora un fico secco.
Ma continuo a provarci tutti i giorni, non si sa mai.
E rinnovo il contratto con l'una e con l'altro, puntualmente, ogni anno.
Ad un certo momento della lettura, da tergo, una pensionata interrompe il
suo sollazzo da sventagliamento ed allunga il collo per sbirciare fra le
righe.
Dopo un poco mi fa: "scusi, giovanotto, ma lei, per caso,è anarchico?
"Nessuno è perfetto, gentile signora", le rispondo, sfoderando il miglior
sorriso a trentadue denti mai prodotto dalla conquista degli ultimi
mondiali tedeschi.
"Ma come fa a leggere quelle zozzerie da delinquenti eversivi e
terroristi, lei che mi sembra un giovane tanto a modo?- insiste la
vetusta utente INPS, col chiaro intento di ingannare il tempo rompendo i
cosiddetti al prossimo e, parimenti, incassare il bonifico di ragione
onde poter innaffiare un pochino l'autostima prima del pranzo casalingo e
del pisolino postprandiale di prammatica.
"Cara signora, il mondo è bello perché vario - replico mantenendo il
sorrisetto bastardo -, c'è chi la pensa in un modo e chi in un
altro…siamo o non siamo in democrazia, d'altronde?"
"Ma che democrazia e democrazia, le persone che la pensano come lei
dovrebbero andare a zappare nei campi per comprendere cosa sia la fatica
vera e propria, altro che balle tipo anarchia e rivoluzione" - urla
adesso la vecchina, volgendo il capo canuto in tutte le direzioni
sperando in siffatto modo di raccogliere consensi fra gli astanti di
Poste Italiane.
Ma gli astanti di Poste Italiane vanno tutti di fretta, chi atteso da una
giornata al mare, chi dagli obblighi culinari e non se la filano per
niente e fanno finta di non aver sentito la discussione.
La nonnina riprende a sventagliarsi stizzita e retrocede di qualche metro
dal pericoloso sovversivo.
Infine arriva il suo turno allo sportello, paga quel che deve pagare e
sia avvia verso le porte girevoli per guadagnare l'uscita.
Passandomi accanto mi guarda di sottecchi con un'espressione schifata e
scuote la testa in segno di disaccordo.
Dopo il suo passaggio, tempestato da un olezzo di canfora, giro la testa
verso l'esterno dell'ufficio e la vedo salire su un'utilitaria
parcheggiata in sosta vietata e con il bollino dei portatori di handicap
sul cruscotto per non pagare il parcheggio, lei che handicappata non lo è
di sicuro.
Indi mette in moto e parte leggermente sgommando mentre
contemporaneamente risponde ad una chiamata sul cellulare.
Un poveraccio sulle strisce pedonali deve adoperarsi in un movimento
acrobatico per non rischiare di essere investito ed ella, seccata dalla
lentezza dell'attraversamento pedonale del soggetto in questione, sporge
la testa dal finestrino e lo riempie di improperi.
Azzo, davvero tosta la matusalemme in gonnella, mi ricorda Vittorio
Gassman nel film i Mostri.
E' fin troppo semplice ergersi a tutori della pubblica moralità e
concedere, invece, a sè stessi tutte le contraddizioni che fanno stare
bene, andando, magari, a sciacquarsele al buio di qualche confessionale.
D'altro canto i tempi che viviamo sono questi, sempre uguali a sé stessi,
nei secoli dei secoli, tempi nostri.
Una scialba esistenza
Già dal cognome si intravedevano i germi, i segnali, lo specchio
riflettente di quello che sarebbe stato il suo destino.
Francesco Piatta, come la sua vita fino ad allora.
A quarantanni suonati contava nel suo carnet di maschio si e no un paio
di donne, e le liaison erano durate talmente poco da non consentirgli
nemmeno un'attività sessuale completa.
Troppo timido per andare a prostitute, il risultato era una verginità
insistente da portarsi dietro come un macigno.
Lavorare aveva sempre lavorato poco, spesso in nero e sottopagato…la
pensione Inps era per lui un miraggio.
Aveva la patente ma non guidava.
Viveva a casa dei genitori.
Di amici ne aveva sempre avuti tanti, però, negli anni, si erano
diradati, dopo avere imboccato ognuno la propria strada.
I rimpianti erano molti, avrebbe voluto laurearsi, imparare a suonare uno
strumento musicale, aver avuto più amori, fatto più sesso, ottenuto un
lavoro stabile in età ragionevole che gli avesse consentito di metter su
famiglia, avere dei figli…
Francesco Piatta era rimasto al palo, inceppato nel cammino di
un'esistenza irreregolare.
Non che non avesse qualità, il nostro, intelligente lo era, fisicamente
non era da buttare via, la brillantezza nei rapporti interpersonali non
gli mancava, era pieno di interessi, si dilettava di letteratura, di
cinema, di musica, da giovane era anche stato un discreto tennista…
Eppure…
Il problema di fondo sussisteva nel fatto che egli fosse senza dubbio una
persona perbene, un fesso come è di comune definizione per persone di un
certo tipo nel cesso geografico e sociale nel quale era nato e risiedeva.
Un giorno, reduce dall'ennesima delusione esistenziale, decise di
cambiare registro alla propria vita.
Sfruttando l'amicizia di un tossico acquistò una P38 usata con il numero
di matricola abraso e principiò a portarsela dietro ogni qualvolta
uscisse di casa.
Ad ogni contrasto faceva seguito l'ammazzamento del rivale.
Ne fece fuori tanti negli anni a venire, e non fu mai preso dalle forze
dell'ordine.
Aveva scoperto di possedere un enorme talento nel far perdere le proprie
tracce agli inquirenti, a mimetizzarsi fra la gente ordinaria che
affollava
Si ritrovò a pensare che se si fosse accorto prima delle qualità
criminali insite in lui e le avesse messe a frutto in attività poco
lecite forse ora sarebbe stato un uomo ricco e di conseguenza rispettato.
Ma tant'è, le soddisfazioni se le stava togliendo ugualmente.
Era diventato un uomo nuovo: Franco Piatta, l'inafferrabile criminale; un
assassino formidabile e spietato.
In questo racconto non c'è nessuna morale o messaggio da intendere.
E'soltanto la storia di un individuo calpestato dalla società che a un
certo punto decide di riprendersi con gli interessi il maltolto.
A torto?
A ragione?
Non saprei dire e nemmeno mi interessa, decidete voi, il mio compito era
quello di raccontare questa vicenda e la mia parte, anzichenò, si
esaurisce qui.
Al cellulare
Squilla il cellulare.
E' un numero privato.
In genere non rispondo.
Mi dà fastidio il concetto che si possa chiamare nascondendo la propria
identità.
Queste telefonate in genere portano solo guai o, nella migliore delle
ipotesi, non apportano granchè beneficio al ricevente, nel caso specifico
il sottoscritto.
Decido, comunque, di accettare la chiamata.
E' la solita rivista poetica che vuole ammollarmi il suo abbonamento
annuale.
Rispondo, garbatamente, che la faccenda non m'interessa.
Non che non mi piaccia la poesia, beninteso, ma di riviste ne acquisto già
tante, ho l'appartamento invaso di carta che alla lunga finirà per
sfrattarmi.
Cerco di risultare gentile nei confronti dell'interlocutrice, ma quella
insiste e alla fine mi vedo costretto a chiudere bruscamente la chiamata.
Mi ricontatta immediatamente dandomi del maleducato.
Le faccio cortesemente notare che, in quanto a buone maniere, lei forse si
è recata a comprarle al mercatino dell'usato rionale del sabato mattina e
lo ha trovato chiuso.
La venditrice comincia a inveire nel suo dialetto veneto, io rispondo in
napoletano, il che è tutto dire.
Poi spengo il cellulare.
E' stato un bellissimo scambio di opinioni fra intellettuali
contemporanei, in più lingue, oltretutto.
Peccato che non fossimo in televisione, avremmo reso al paese un servizio
di grande spessore culturale circa il recupero dialettale nella società
consumistica globalizzata e massificante.
Windows Xp
Pulsante di accensione dell'unità centrale.
Bottoncino d'accensione del monitor.
Attesa del caricamento del sistema Windows Xp.
Schermata iniziale del sistema.
Clicco sull'icona di Alice Adsl.
Appare la finestra di connessione.
Clicco su Connetti.
Sono in rete.
Mi sposto col mouse sul simbolo di Internet Explorer.
Si dispiega il portale Virgilio.
In alto clicco su Preferiti.
Cala la finestra a bandiera.
Scelgo la voce Chat Libera.
Clicco.
Attendo.
Si apre la schermata principale del canale.
In alto a sinistra clicco sulla voce Chat.
Attendo.
Altra schermata.
Al centro clicco sulla voce Entra in chat.
Attendo.
Compare la bandierina del componente java da accettare.
Accetto.
Aspetto.
Altra schermata.
Inserisco il nickname nell'apposito spazio.
Lo stesso di sempre, mistermike.
Trascorre qualche secondo.
Altra schermata.
Linee di testo e faccine colorate si muovono nella room pubblica.
Leggo un po', poi sposto lo sguardo a destra sulla lista degli utenti..
L'occhio mi cade in particolar modo su un nick: the house of the rising
sun.
Mi ricorda una canzone degli anni '70 di Leroy Gomez, mi pare, non sono
sicuro, verificherò.
Comunque è un brano che mi riporta all'adolescenza, alla gioia senza freni
dell'estate che arrivava, con questo brano come tormentone in tutte le
radio libere nascenti.
Clicco due volte sul nick per aprire il pvt.
<mistermike> : ciao, anni?
<the_ house_ of_ the_ rising_ sun> : 35, tu?
<mistermike> : bhè…sono entrato da qualche anno nel club dei 40 :
<the_ house_ of_ the_ rising_ sun> : non sono mica tanti, sai?
<mistermike> : non ho detto che sono tanti, e me ne sento molti di meno,
comunque
<the house of_ the_ rising_ sun> : da dv dgt?
<mistermike> : Pompei, tu?
<the_ house_ of_ the_ rising_ sun> : bella Pompei, ci sono stata diversi
anni fa.
Io sono di Milano.
<mistermike> : azz, una milanese…la grande metropoli contro la cittadina
di provincia…:
<the_ house_ of_ the_ rising_ sun> : bah…Milano è una città dispersiva,
inquinata, sovrappopolata, non mi ci trovo mica poi tanto bene eh…
<mistermike> : ogni cosa presenta i pro ed i contro, d'altronde…
<the_ house_ of_ the_ rising_ sun> : che lavoro fai?
<mistermike> : diciamo che lavoro con le parole, ma non se ne accorge
nessuno :
<the_ house_ of_ rising_ su> : non mi dire che fai il giornalista?
Fiiigooo
<mistermike> : oddio, faccio anche quello, ma m'interessa di più la
letteratura.
<the_ house_ of_ the_ rising_ sun> : e cosa scrivi di bello?
<mistermike> : racconti, poesie, cose così…
<the_ house_ of_ the_ rising_ sun> : cavolo…devi essere una persona
interessante, allora…
<mistermike> : non so…dovresti chiedere ai miei vicini e al mio padrone di
casa
<the_ house_ of_ the_ rising_ sun> : beato te, io faccio la commessa
presso un punto vendita in franchising di un noto marchio d'abbigliamento
internazionale; tutti i giorni le stesse cose, sempre a combattere con la
clientela…chi vuole questo, chi vuole quello, torno a casa la sera
totalmente svuotata d'energie.
<mistermike> : almeno hai uno stipendio fisso, io vivo sempre al limite
della bolletta
<the_ house_ of_ the_ rising_ sun> : si, capirai…con quella miseria che
prendo faccio fatica ad arrivare alla terza settimana del mese.
<mistermike> :è una condizione comune a tanti, oggi come oggi, purtroppo.
Io mi arrabatto scribacchiando di sciocchezze su un giornale locale: le
strade da asfaltare, l'illuminazione pubblica da aggiustare, la gara
d'appalto truccata per rifare la segnaletica urbana, le magagne
dell'assessore al commercio e corbellerie simili.
Ci campo con queste cose, comunque, ed io sono uno che non sputa nel
piatto dove mangia, anche se il piatto non lo si può certamente definire
ricco.
Almeno mi sono evitato la pazzia di un lavoro impiegatizio a orari fissi,
con villeggiatura agostana al mare in qualche club vacanze.
Se non altro posso dire di essere padrone del mio tempo, per quel che
serve…
<the_ house_ of_ the_ rising_ sun> : senti, adesso devo andare..è stato un
piacere conoscerti…
<mistermike>: te ne vai di già?
Non è che ti ritrovo prima o poi?
<the_ house_ of_ the_ rising_ sun> : chissà, tutto può essere, ma se
vogliamo dare un aiuto al caso diciamo che dovrei connettermi dopodomani
allo stesso orario, più o meno
<mistermike> : ah, ok…penso di esserci, mi piacerebbe continuare la
chiacchierata, considerato il fatto che sei una delle poche persone adulte
in questo canale pieno zeppo di ragazzini
<the_ house_ of_ the_ rising_ sun> : ok, a dopodomani allora…bye :
<mistermike> : hasta lluego , ciao :
Chiudo la connessione e spengo il pc.
In cucina ceno con un piatto di fagiolini e una mozzarella, il tutto (il
poco) annaffiato da acqua minerale a profusione.
Guardo un film noioso in tv, poi una doccia e infine a letto in compagnia
dell'ultima fatica letteraria di Murakami Haruki -Kafka sulla spiaggia- ,
storia di un viaggio onirico ad occhi aperti in cui realtà e fantasia si
mescolano fra di loro a tal punto che diventa praticamente impossibile
distinguere l'una dall'altra.
Questi giapponesi non finiranno mai di stupirmi.
Un popolo altamente tecnologico capace di produrre opere pregne di poesia
purissima in tutti i campi artistici.
Ripenso un pochino alla chattata di qualche ora prima e mi segno
mentalmente l'appunto per il dopodomani stesso orario.
<mistermike> : ciao, ti ricordi di me?
<the_ house_ of_ the_ rising_ sun> : ciao, certo che mi ricordo…come stai?
<mistermike> : tutto bene, tu?
<the_ house_ of_ the_ rising_ sun> : 'nsomma…potrebbe andare meglio
<mistermike> : che ti è successo, dimmi
<the_ house_ of_ the_ rising_ sun> : oh, niente di che, i soliti problemi
quotidiani che alla lunga ti minano la serenità…a proposito, cavolo…ma non
ci siamo nemmeno detti il nome la scorsa volta!
Bhè, io comunque mi chiamo Elena, piacere.
<mistermike> : il mio nome è facile intuirlo dal nick.
<the_ house_ of_ the_ rising_ sun> : Michele?
<mistermike> : Yes.
Visto che ci troviamo posso chiederti perchè quel nick?
<the_ house_ of_ the_ rising_ sun> : non so…diciamo che mi piaceva il
significato-la casa del sole nascente-, molto mistico, non trovi?
<mistermike> : effettivamente è molto bello, a me ricorda una canzone
degli anni '70 che ascoltavo spesso in radio.
<the_ house_ of_ the_ rising_ sun> : il tuo nick?
<mistermike> : il mio nick…il mio nick…ti dirò…tutto nasce dal film -Le
iene- di Quentin Tarantino.
Mi piacevano i nomi dei protagonisti, mister White, mister Blue, mister
Orange, mister Pink, mister Blonde e mister Brown, quindi avevo deciso di
utilizzarne uno per entrare in chat, ma siccome erano già in uso da altri
utenti alla fine ho optato per un più classico e personalizzato mistermike.
Questa è la genesi del mio nickname, piuttosto banale, come puoi arguire
Ma, piuttosto, raccontami qualcosa di te.
Sei sposata, fidanzata, single o cosa, se non sono troppo indiscreto?
Io sono single per scelta…delle donne :
<the_ house_ of_ the_ rising_ sun> : sono legata a un uomo, ma ultimamente
le cose non vanno troppo bene fra noi.
Vorrei lasciarlo ma non è così semplice, ci sono troppe situazioni da
superare.
<mistermike> : senti, posso chiederti una cosa?
Mi rendo conto che forse è prematuro, però siamo due persone adulte e
vaccinate e poi in fondo a rifletterci bene non è nemmeno una cosa così
tanto clamorosa o disdicevole.
<the_ house_ of_ the_ rising_ sun> : di che si tratta, dimmi…
<mistermike> : bhè…ecco…potrei avere il mailto del tuo msn, sempre se ce
l'hai?
Non mi fraintendere, diciamo che mi sono un po' stufato di entrare su 'sta
chat di ragazzini e mi piacerebbe colloquiare in un ambito, diciamo
così…un pizzico più confidenziale, anche se, ripeto, mi rendo
perfettamente conto che sto andando un po' oltre già alla seconda sessione
di chat con te.
<the_ house_ of_ the_ rising_ sun> : non crearti problemi, l'hai detto tu,
siamo persone adulte e vaccinate….e poi non penso che mi violenteresti
tramite messenger, sarebbe un po'…come dire…un rapporto …evanescente…:
Eccoti il mio msn : the_house_of_the_rising sun@hotmail.it
Ti dirò che ho anche la webcam…se ti fa piacere posso anche farmi
vedere…ma non aspettarti un figone alla Aida Yespica però
<mistermike> : ahahahaha, non ti preoccupare, tranquilla, non mi aspetterò
figoni, come dici tu, e nemmeno ci tengo particolarmente.
I figoni sono bei soprammobili che lascio volentieri agli uomini senza
fantasia, passami la citazione di Proust.
Il mio msnè : mistermichele@hotmail.com ed ho la cam anche io :, non
aspettarti nessun Brad Pitt di sorta :.
Ci leggiamo lì?
<the_ house_ of_ the_ rising_ sun> : ok, mi connetto subito
<mistermike> : anche io.
Vado in Start.
Tutti i programmi.
Windows Live Messenger
Accedi.
Aggiungi Contatto.
Ok
Eccola: grafica del pupazzetto verde con il nome Elena.
<michele> : a riciao :
<elena> : a riciao :
<michele> : attacco la cam?
<elena> : si, ok, io attacco la mia.
Start.
Tutti i programmi.
Logitech.
Logitech Quick Cam.
On air.
Dall'altra parte vedo un'immagina confusa, poi dalla risoluzione sempre
più nitida.
Mi appare Elena, e quel che vedo non mi dispiace affatto.
E' sicuramente carina, anche se lo sguardo rimanda ad un non so che di
malinconico.
Bruna, capelli lisci leggermente ondulati che arrivano appena sulle
spalle.
Niente cosmetici a parte un leggero ombretto sugli occhi dal taglio
orientaleggiante.
Indossa una felpa scura con una scritta americana che non si distingue
bene.
Fuma nervosa.
Utilizza un portatile nero collegato all'impianto elettrico.
Dietro si intravede un letto ad una piazza e mezzo e qualche suppellettile
sparsa qua e là.
E' una camera disadorna, arredata spartanamente, che regala un senso di
transitorietà, un non luogo che probabilmente non diventerà mai una casa
vera.
<michele> : sei carina, Elena, complimenti.
<elena> : grazie, anche tu non sei da buttar via a quanto vedo.
<michele> : si fa quel che si può :
Continuiamo a chattare del più e del meno, parliamo un po' delle nostre
famiglie, storie di fratelli, sorelle, nipotini, di villeggiature da fare
che non faremo mai, di progetti, ambizioni, delusioni amorose passate e
mai cicatrizzate del tutto.
Le espressioni facciali di Elena continuano a tradire un senso di
malinconia profondo, malcelato da un atteggiamento improntato alla più
squisita cordialità.
Qualcosa non gira per il verso giusto nella vita di questa ragazza
milanese e me ne faccio persuaso allorquando noto dei lividi su entrambe
le braccia e sulla parte di viso che lei tende a nascondere tenendoci
sopra la folta capigliatura.
Glielo dico.
Lei non risponde, prende tempo tentando goffamente di sviare il discorso.
Insisto, vada come vada, anche a costo di ricevere un secco rifiuto al
proseguio dell'argomento.
Elena si apre.
Il suo compagno la picchia spesso.
E' un violento, schiavo dell'alcool, mi parla di tentativi andati a vuoto
di disintossicazione, piccoli furti e qualche rapina a mano armata a
tabaccai e benzinai fuori città.
Lei vorrebbe lasciarlo, ma come spesso succede in questi casi ne è
succuba; un residuo d'amore la fa desistere ogni volta dall'abbandonare
definitivamente quell'appartamento in affitto nella periferia della grande
metropoli europea.
E' un sentimento malato, lei se ne rende conto, stanno assieme da tempo e
forse rappresentano un bastone a cui appoggiarsi vicendevolmente.
La sua famiglia ha preso le debite distanze.
Lo scandalo di una figlia amante di un delinquente alcolizzato avrebbe
rischiato di compromettere l'onorabilità e la carriera di padre e
fratello, noti principi del foro della città meneghina.
Sta piangendo,Elena, adesso, calde lacrime salate sciano sulle linee del
viso a formare fiumiciattoli di dolore represso che finalmente decide di
manifestarsi senza clamori al mondo.
Il mondo, in quel preciso momento, sono io, giornalistucolo senza
prospettive per il futuro, con un passato da dimenticare ed un presente da
decifrare, testimone consapevole della discesa all'inferno di un angelo
dalle ali bruciate che non può più spiccare il volo.
Lei non possiede il microfono, cosicchè non posso sentire la sua voce.
Mi scorrono davanti immagini da film muto
Le chiedo il numero di cellulare, vorrei sentirla.
Me lo fornisce, faccio altrettanto col mio.
Le dico che se non altro avremo la possibilità di connettere le nostre
esistenze anche al di fuori dello spazio angusto delle rispettive camere.
Se le fa piacere, ovvio.
Le fa piacere.
Ne sono contento.
Ci lasciamo la buonanotte ripromettendoci di sentirci l'indomani su msn.
L'ndomani Elena non c'è.
Nemmeno il giorno dopo e quello successivo.
Mi decido.
La chiamo al cellulare.
"Telecom Italia, informazione gratuita, attenzione, il telefono del
cliente da lei chiamato potrebbe essere spento o non raggiungibile, la
invitiamo a riprovare più tardi.".
Riprovo più tardi.
Stesso ritornello firmato Telecom Italia Mobile.
Riprovo l'indomani mattina più volte.
Niente.
Un presentimento comincia a farsi largo nella mente.
Chiamo un amico che lavora in Tim e gli porgo il numero di Elena.
Da quello deve ricavare il domicilio, sperando che la sim sia intestata a
lei.
Non si può fare, esiste la legge sulla privacy, ma stavolta me ne fotto.
L'amico obietta, ma mi deve un grosso favore e allora acconsente
all'illecito.
La sera stessa ho il recapito di Elena.
La mattina successiva sono all'aeroporto di Capodichino con in tasca un
biglietto per Milano Linate.
La capitale morale d'Italia mi accoglie con vento gelido che sferza il
viso.
A Milano fa freddo, avevano ragione Totò e Peppino nel famoso film, ma qui
c'è poco da scherzare, penso, mentre mi avvio al parcheggio dei taxi per
farmi condurre all'indirizzo che ho memorizzato nel notes del telefonino.
Forse mi sto preoccupando eccessivamente, magari Elena avrà l'apparecchio
guasto edè per questo motivo che non risponde; forse avrà avuto da fare
con i turni di lavoro al punto di non poter stare su internet,etc etc.
Mi impongo di credere a un sacco di situazioni tranquillizzanti, ma quel
senso di inquietudine non mi ha mollato nemmeno per un istante nelle
ultime ore.
Arrivo a destinazione.
Chiedo di Elena in portineria e le parole che fuoriescono dal gabbiotto mi
accompagneranno tutta la vita come un tatuaggio che non si vuole più sulla
pelle ma che bisogna tenerselo altrimenti.
Quello che temevo è tristemente accaduto.
Nel corso dell'ennesimo litigio Elena e Franco, il suo compagno, avevano
avuto una feroce colluttazione.
Franco, in preda all'abituale delirio alcolico, aveva afferrato un
coltello da cucina e stava per avventarlesi contro.
Elena, d'istinto, si era spostata sul balconcino che dava sul cortile
interno condominiale tirandosi dietro la portafinestra del piccolo spazio
esterno, sperando in questo modo di sfuggire alla selvaggia aggressione.
Franco, però, era riuscito a bloccare la porta prima che Elena la potesse
rinchiudere dietro si sé, e l'aveva afferrata con una mano alla gola
mentre con l'altra mano si preparava a piazzare il fendente.
Elena, indietreggiando sul balconcino, nel tentativo di bloccare la mano
omicida era inciampata su un ferro da stiro collocato in terra e nel
volare fuori dal balcone si era trascinata appresso Franco.
Un breve volo d'angelo e si erano schiantati sull'asfalto sottostante.
Tutto ciò, rivelò il portiere, emergeva dalla testimonianza, già resa al
magistrato che si occupava del caso, del Ragionier Peretti, inquilino
dirimpettaio dei due amanti, che aveva assistito a tutta la scena
richiamato dalle prime urla di Elena.
Il resto erano state grida di terrore degli altri condomini, sirene
spiegate di polizia, ambulanze, concitazione, curiosi, attesa del medico
legale, sagome di gesso disegnate nel punto in cui erano precipitati i due
tapini ed infine silenzio, un silenzio potente calato come un sipario
sudario sulla tristezza di un palcoscenico animato da esistenze sconfitte
dalla quotidianità.
Tornai a casa con un senso di malessere che mi impedì il naturale corso
delle giornate per parecchi mesi.
Adesso sono qui, di fronte al mio personale computer, a guardare sfilare
sul monitor una sfilza di nickname della solita chat.
E' iniziato tutto qui dentro, in questa sofisticata macchina elettronica,
inanimata ma allo stesso tempo pullulante di vite allo sbando che si danno
appuntamento sui canali di chiacchiera telematica.
Avverto un potente urto di nausea.
Continuo a ripetere a me stesso che non potevo farci niente, ma non so, in
qualche modo ne sono rimasto coinvolto.
Passerà.
Dimenticherò tutto quanto.
Anche se la malinconia dipinta nello sguardo di Elena accompagnerà molti
mie notti insonni.
Spengo tutto.
Passo in cucina.
Apparecchio uno spicchio di tavola.
Apro il frigo
Tiro fuori quel che c'è.
Mi siedo e comincio a cenare lentamente.
Di fronte la tv accesa su un canale satellitare.
E' un programma di vecchie storie di sangue.
Parlano di un condominio alla periferia di Milano.
Senza titolo
Ci incrociamo ogni tanto, anche se viviamo nella stessa piccola città.
Amici d'infanzia, di scuola e d'adolescenziali amorazzi estivi
interscambiabili.
Di sogni e progetti da realizzare assieme nel tempo della maturità.
Ci accomodiamo ai tavolini di un caffè, con l'autunno che inonda il tardo
pomeriggio con un velo di crepuscolare malinconia.
Mi dice, tutto soddisfatto:"ho lavorato tanto in questi anni, mi son fatto
una famiglia, ho avuto dei bambini, la casa dove sto è di mia proprietà
dopo aver fatto innumerevoli sacrifici economici, d'estate me ne vado in
villeggiatura al mare…insomma, ho costruito".
Avrei voluto rispondergli che costruire non significa necessariamente
edificare il sogno borghese, ma sono restato muto perché l'amico non
avrebbe compreso e mi avrebbe, parimenti, guardato come si guarda un
alieno appena atterrato davanti ai tavolini di un bar.
Avrei desiderato aggiungere che costruire può significare anche lasciare
un'immagine positiva di se stessi agli altri; farsi apprezzare, cio è, per
le idee, i gesti, le opere, ma evitai , già conoscendo in anticipo le sue
obiezioni: "idee, gesti, opere? Tutt'aria fritta, bello mio, nella vita
conta unicamente la sostanza delle cose, quello che hai e non quello che
sei".
Anche in quest'occasione non avrei saputo replicare in modo convincente e
con le giuste argomentazioni a supporto della tesi precedentemente
formulata.
Io che nella vita non avevo costruito nulla di solido, bruciato anni a
rincorrere le chimere dell'arte, mi ritrovavo quarantenne a stringere un
pugno di mosche.
Tutti gli amici si erano realizzati, io rincorrevo ancora farfalle col
retino.
A volte la malinconia per i treni perduti mi assaliva, cercavo di
scacciarla, al solito, rifugiandomi nell'antro dei miei sogni ad occhi
aperti.
Credo di essermi comportato sempre da persona perbene, per quel che può
significare questo termine; quelli che hanno costruito un po' di meno.
Ma è così che gira la ruota.
Dall'alba dei tempi.
Mi sollevo dalla poltrona, metto su un cd di Alan Broadbent, spalanco la
finestra della camera per far uscire l'aria di chiuso ed accogliere sul
viso una ventata d'aria fresca.
Le note blu del pianista fluttuano libere e mi regalano gioia.
Chiudo gli occhi e riprendo a sognare, non so fare altro, d'altronde.
Fuori il mondo continua la sua corsa a ostacoli, una competizione feroce
alla quale non ho mai voluto prender parte.
Afferro questo calice amico e lo sollevo agli dei.
E va bene così.
Prosit.
Cinema estivo
Deserta la città.
Sono tutti o quasi al mare o in montagna o ai laghi o dove cavolo, sono
affari loro.
Le bestiacce verticali si riposano dalle cazzimme lavorative.
Adesso staranno producendo quelle balneari, montanare o che so io.
Per quanto mi riguarda ferie non ne ho mai fatte in vita mia, perché per
farle si presuppone che bisogna lavorare prima.
Ergo me ne vado a zonzo, da solo, mani nelle tasche del pinocchietto, a
godermi il vuoto attorno come spazio rigenerante.
Ci vuole un po' di tranquillità, riappropriarsi della città una volta
l'anno, passeggiare senza il rischio d'incontrare il rompicoglioni di
turno che ti chiede tutto su di te, mentre lui non concede quasi nulla e
nemmeno gli vien chiesto.
L'amore lo avevo e l'ho perduto, il lavoro scarseggia, i problemi sono
tanti.
Medito su queste cose mentre il mio sguardo è ipnotizzato dal lato b di
una ragazza che mi precede di pochi passi nel nulla pomeridiano.
All'improvviso, temendo volessi attentare alle sue grazie fisiche, si
volta e forse era meglio se non l'avesse fatto;è una bakku -shan, che è
un'espressione in slang giapponese, molto usata anche nei paesi
anglossassoni, che equivale a dire " guardami il culo, non il viso", nel
senso che ci sono ragazze che viste da dietro appaiono bellissime, poi non
appena si voltano risultano dei cessi in perfetto stile Pozzi-Ginori.
Le rivolgo un sorriso ebete, lei accelera il passo senza più voltarsi
Proseguo, dunque, per i fatti miei, mentre il sudore scia libero sulle
pieghe della pelle.
Sarà che sono sempre stato un disadattato, anarcoide a quarant'anni e
oltre, single senza convinzione, ma questo 'meriggio assolato mi sta
donando la consapevolezza di essere un tipo strano.
Macino chilometri su chilometri di strada incontrando decine di persone e
nessun essere umano.
Mi fermo ad un bar e ordino una birra ghiacciata.
La tracanno a garganella e penso ai destini del mondo, anche se il mondo
se ne frega di me.
Ma io sono un altruista.
Chiedo la chiave del bagno al barista e restituisco dai bassifondi tutta
la birra ingurgitata.
Uscendo dal locale, triste come un caffè Hag, dall'altro lato della strada
intravedo un cinemino.
Atrraverso sulle strisce pedonali e leggo il cartellone.
Il film in programma s'intitola: Cappuccetto Rotto.
E' un porno d'antan.
Solo gli unici film che vale la pena di vedere, oggigiorno, almeno non
hanno nessuna pretesa d'autore.
Entro, pago il biglietto e mi accomodo su una poltroncina dell'ultima
fila, sollazzato dall'aria condizionata che avvolge l'ambiente.
Mi godrò un po' di frescura, se non altro.
Saremo si è no una decina in sala, la settima arte che boccheggia,
nonostante i climatizzatori.
In quanto al film…bè…basta farci la mano.
Silenzio, si comincia.
Fuori il mondo gira sempre uguale a se stesso.
La gente ride, piange, mangia, beve, scopa, s'innamora, si separa, litiga,
fa pace, nasce, muore, se ne va in ferie al mare, in montagna, in
campagna, ai laghi.
E' tutto ok, l'ordine naturale delle cose.
Ascensore
Estate del cazzo.
Ma che avranno tutti da farsi prendere da questa smania della
villeggiatura?
Partire lasciando le città deserte, abbandonando cani per strada, serrando
negozi, svuotando palazzi.
E' già mezzora che sono rinchiuso in questo cavolo d'ascensore.
Ho tentato di sboccarlo tramite la leva automatica, chiamato aiuto col
cellulare ma niente campo, a calci e pugni sulla porta, infine urlando a
squarciagola nel tentativo di segnalare il guasto al portiere dello
stabile oppure a qualche stronzo di condomino rimasto in questo casermone
periferico a rinfrescarsi le palle in poltrona col ventilatore davanti a
qualche residuo di magazzino della Rai Tv.
Niente, tutto tace.
Il caldo ottunde i sensi.
Non mi faccio prendere dal panico, però.
E' pomeriggio, fino a stasera qualcuno tornerà a casa, accidenti, si
accorgerà dell'ascensore bloccato e mi tirerà fuori, sempre che, come
spero, non si riattivi la circolazione elettrica quanto prima.
Bisogna aspettare, non c'è altro da fare.
Aspettare e sperare.
Nel frattempo mi detergo il sudore con un fazzoletto di carta e mi sistemo
nell'angusto abitacolo seguendo il metodo degli indiani d'America: sedere
a terra e gambe incrociate.
Fortunatamente porto sempre con me, oltre ai cataloghi della ditta di
aspirapolveri presso cui svolgo la mansione di agente venditore porta a
porta, il mio fido i-pod 4 gigabyte Apple con un centinaio di album di
jazz in memoria.
Lo sfilo dal marsupio e lo accendo.
Seleziona-Musica-Artisti-Jack Bergevin-Holding back the dawn-All
undone-Play…
Ho ascoltato già in ordine gli album di Jack Bergevin, Peter Pavone, Scott
Hamilton, Roger Cicero, Nate Birkey, Phil Urso & Carl Saunders.
Credo di avere la febbre.
Probabilmente mi sono disidratato…ma verrà qualcuno, prima o poi a tirarmi
fuori, ne sono convinto, cazzo, non possono lasciarmi qui dentro.
E pensare che ero fiducioso di vendere parecchi macchinari oggi, mi
sentivo così in forma e pieno di appeal persuasivo.
Avrei realizzato un fatturato coi fiocchi, roba da far strabuzzare gli
occhi al ragionier Brambilla, quel coglione di capoarea al quale sono
risultato antipatico fin dal momento dell'assunzione; sentimento peraltro
ricambiato con gli interessi.
Avrei convinto questi quattro babbioni del palazzo della bontà e utilità
dei miei articoli; sarei riuscito a scucirgli un bel mucchio di contratti,
battendo certamente battuto il record aziendale di fatturato.
Gliel'avrei fatta vedere io a quei bifolchi dei miei colleghi, gli avrei
dimostrato che il terrone quando ci si mette di buzzo buono è capace di
realizzare grandi imprese.
Sarei diventato il re dei venditori degli aspirapolveri Cosimo Buzzati &
Figli.
Ehi…c'è nessuno in questo cazzo di palazzo?
Apriteeeeeeeeeeeeeee, apritemiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiii.
Aiutoooooooooooooooooooo.
Fanculo voi e l'ascensore.
Polentoni di merda.
Le forze cominciano a mancarmi, mi appoggio con il capo al portellone e
osservo i miei liquidi scivolare silenziosi sul pavimento.
Tra poco sicuramente verrà qualcuno a tirarmi fuori di qui e l'incubo
finirà, cazzo, cerco di convincermi e mantenere la calma.
Deve venire qualcuno per forza, qui non siamo in un film horror di serie,
porca boia zozza.
"Quest'anno a voi del Milan faremo un culo così grazie allo squadrone che
abbiamo allestito, caro il mio Giovanni".
"Ma va là, pirlun, dici così ogni anno e poi la tua squadra colleziona
puntualmente figure di merda".
"Shhhhh…zitto un po' , Giuanin…non hai sentito delle urla, per caso?"
"Urla?
E da dove?"
"Da lì, in quel palazzo di fronte, testina".
"Io non ho sentito nulla, Carlin, ti sarai impressionato, sarà il caldo
che ti ha dato al melone.
E poi quel palazzo è disabitato da parecchio, stanno svolgendovi dei
lavori di ristrutturazione.
La ditta che si è aggiudicato l'appalto adesso è sotto inchiesta per una
questione di mazzette ed il magistrato ha fatto sospendere tutto.
Chissà quando le maestranze potranno riprendere il travaglio; certamente
non subito, e non col caldo bestiale di questi giorni".
"Boh…mi sembrava di aver sentito delle grida d'aiuto, ma mi sarò
sbagliato…con questo caldo ti vengono davvero le traveggole…bah.
Comunque il culo quest'anno ve lo facciamo davvero nel derby, puoi
scommetterci un mese di stipendio, caro il mio Giuanin".
"Ma cosa dici cosa, bauscia?
Ma che culo vuoi fare te, con la squadra di pipponi che vi ritrovate
voialtri…sogna, sogna pure Carlin…"
Post Office
Interno.
Giorno.
Tarda mattinata di fine giugno.
Fuori un caldo devastante.
Dentro l'ufficio postale la brezza rinfrescante dei condizionatori d'aria
regala agli astanti un pizzico di sollievo dagli ultimi quattro dì
incazzatissimi dal punto di vista meteorologico.
All'aperto si boccheggia, e mai come in quest'occasione l'andar per uffici
a onorare bollette è un evento affrontato dal popolo dei contribuenti con
minore acrimonia rispetto alla normalità.
Se non altro, a portafogli alleggeriti, si può usufruire gratis di un
pizzico di refrigerio.
All'uopo la lunga fila per guadagnare gli sportelli, per una volta,è
salutata con immenso giubilo.
All'improvviso il normale chiacchiericcio del più e del meno, tipico di
tal forzato consesso,è rotto da voci superanti ampiamente la scala
decibel del vivere civile.
Trattasi di un alterco verificatosi fra due persone di sesso maschile, una
giovane, l'altra un po' avanti con gli anni, in merito al presunto
scavalcamento della fila da parte del secondo nei confronti del primo,
nonostante il ticket numerico dimostrasse l'assoluta precedenza in termini
aritmetici del soggetto più nuovo biologicamente.
Il giovane, rivolto all'anziano, gli urla la frase: "è una questione di
civiltà…che lei non ha!!!"
"Ma cosa stai dicendo!?", replica, piccato, l'altro, muovendo entrambi le
mani con le dita unite in un movimento oscillatorio.
"Le ribadisco che lei è un incivile! - sbraita ancora il virgulto - e non
si azzardi a toccarmi, ha capito?"
"Esci fuori, brutto stronzo", minaccia lo scavalcatore, e fa per
scagliarviglisi contro, prontamente trattenuto da un altro solerte utente
pacificatore, fra la disapprovazione degli impiegati di Poste Italiane che
tentano di riportare la calma utilizzando frasi del tipo:
"signori…diamine… non siamo mica all'asilo infantile…".
E' sabato e la guardia giurata presta servizio in loco soltanto fino al
venerdì.
Il fine settimana è il giorno delle risse verbali e in qualche caso anche
fisiche.
Lo scrivente le presenti righe è concentrato sulla compilazione di un
bollettino di conto corrente finalizzato al versamento di una tassa
d'iscrizione ad un concorso letterario quando la sua attenzione è
catturata dai due homini-sapiens che stanno sbroccando di brutto, dandosi
appuntamento all'esterno dell'ufficio per regolare la questione in oggetto
non certo tramite l'utilizzo di mazzolin di rose e viole.
Com'è varia l'umanità: da una parte c'è chi si iscrive a concorsi di
poesia e dall'altra chi mena botte da orbi.
D'altronde noi siamo animali evoluti; se grattiamo, però, tre-quattro
strati di evoluzione millenaria viene immancabilmente fuori la bestia.
Evidentemente c'è gente che si gratta spesso ed in profondità.
I miei cari vicini
Tutti i giorni i signori Buscè, marito e moglie ultra ottantenni, scendono
al piano di sotto del condominio dove abitano a scambiare quattro
chiacchiere con un'altra coppia di ultraottantenni, i coniugi Ammazzalorso,
padroni di casa del sottoscritto.
Milionari, i primi, grazie al denaro accumulato con le mazzette intascate
da lui quando svolgeva la professione di carabiniere e milionari i
secondi, per via di un lavorare di pasticceria pressoché continuo nei
decenni senza mai concedersi un pizzico di svago o un diversivo.
Quattro persone anziane, superate dal tempo che si radunano
quotidianamente fuori al balcone con veranda a rinvangare i bei tempi
della gioventù, di quando i cazzi tiravano over the top e le fiche erano
sempre lubrificate a meraviglia.
Non ho mai conosciuto gente peggiore.
Avidi e cazzimmosi i Buscè, ignoranti all'ennesima potenza e ombrosi gli
Ammazzalorso.
Hanno in comune solo il fatto di essere ricchi sfondati, per il resto sono
in discordanza su tutto.
Li sento cicaleggiare cortesi e armoniosi quando sono assieme, salvo poi
criticarsi ferocemente alle spalle.
I Buscè dopo le divagazioni pomeridiane se ne ritornano ai piani alti
sempre con grosse buste di frutta e verdura gentilmente donategli dagli
Ammazzalorso, la cui componente maschile si ritiene oltremodo soddisfatta
che la corrispettiva dei Buscè gli dia totalmente e incondizionatamente
ragione nelle dispute dialettiche sugli argomenti più disparati.
L'Ammazzalorso ci guadagna un surplus in autostima, il Buscè quintali di
libagioni di stagione.
Tutti e quattro ferventi cattolici, manco a dirlo, soltanto che con Dio
hanno un rapporto instaurato sul tipo commerciante cliente.
Brutta razza i Buscè e gli Ammazzalorso, fortuna che ho già litigato con
entrambi, così almeno mi sottraggo all'ipocrisia del buongiorno e
buonasera quelle rare volte che capita d'incrociarsi nell'androne
condominiale.
L'affitto lo pago puntualmente, pertanto gli Ammazzalorso non possono
cacciarmi, in quanto ai Buscè uno di questi giorni che li incontro per le
scale gli ammollo un calcio nel culo che li farà ruzzolare giù senza
contare i gradini.
Si sa, io sono un asociale dichiarato, un refrattario alle regole della
buona convivenza civile, un disadattato e un poco di buono.
Un calcione nel culo, però, ripeto, non glielo leva nessuno.
Promesso, quant'è vero che mi chiamo Ele Rovacca, sissignori.
Sangue & sudore
Era un fighetto giovane, uno cagato fresco fresco da qualche università.
Il classico tipo che ti faceva annusare subito l'odore degli studi fatti.
Io venivo dalla strada, vale a dire la migliore scuola del mondo, la cui retta
mensile non la si paga col denaro bensì con il sangue ed il sudore.
Avevo imparato in fretta l'arte di morire in vita.
Morire subito per rinascere il più presto possibile.
Il fighetto era chiamato "il selezionatore".
Per tutti quelli presenti in sala una sua parola sarebbe equivalsa alla salvezza
sociale, l'avvenire assicurato in una botte di ferro dal punto di vita
economico, il salvacondotto per i sogni minimi.
Un ottimo impiego a stipendio ed orari fissi.
Sentivo qualcuno mormorare eccitato che qualora "il selezionatore" gli avesse
assegnato il posto avrebbe finalmente avuto la possibilità concreta di sposarsi
e magari avere dei figli.
In un attimo di estrema esaltazione costui arrivò addirittura ad affermare,
tronfio, che avrebbe dato al suo eventuale primogenito il nome del selezionatore
stesso.
Non credevo alle mie orecchie, ma le cose stavano precisamente in questi
termini, e c'era da giurare che il proposito non sarebbe certo venuto meno.
Eravamo arrivati a cotanto segno, pensai, il fighetto che poteva decidere della
vita del suo prossimo.
Della mia no, che non ci provasse nemmeno.
Mi sollevai dalla poltroncina in pelle dell'anticamera dello stronzetto titolato
e con tutta calma guadagnai l'uscita e me ne andai, sotto lo sguardo sbigottito
degli astanti.
Fuori c'era un magnifico sole, le persone passeggiavano come se nulla fosse,
fermandosi a guardare le vetrine addobbate, i bambini capricciosi si
aggrappavano alle gonne delle giovani mamme, le automobili formavano il solito
serpentone metallico a strisciare sull'asfalto, con i motorini che sbisciolavano
da tutti i lati.
Entrai in un bar e ordinai la solita birra.
Nei miei oltre quarantanni di vita ne avevo bevuto centomila litri che ora mi
ritornavano addosso come onde sul molo deserto.
Tutto sommato non mi andava malaccio, ero ancora piuttosto giovane, il cazzo
tirava discretamente ed i sogni non erano del tutto svaporati.
Il grande scrittore
Devo scrivere un grande romanzo.
Un'opera immortale.
Poi cercare un famoso editore che possa pubblicarmi a vantaggio
dell'umanità tutta.
Nel frattempo pane e fica continuano a latitare ferocemente.
Ma io sono un grande scrittore.
Non me curo e vado avanti.
Il mondo non lo sa ancora ma presto se ne accorgerà.
Lo strabilierò con la mia penna infuocata.
Mangio mele secche e fumo sigarette arrotolate per risparmiare.
Vivo male per regalare il mio genio al prossimo.
Il prossimo che non mi fa più credito, soprattutto il salumiere che mi
nega la mortadella che mi piace tanto.
"Devi pagare - tuona - sei già in arretrato da settimane!!!"
Anche il mio padrone di casa urla che sono in arretrato.
Bifolchi…si ricrederanno, bottegai avidi e gretti.
Mi chiederanno l'autografo un domani che diventerò famoso, oh si se me lo
chiederanno!
Mi supplicheranno quasi!
Diranno:" ricordate quel giovane male in arnese che abitava al terzo piano
di quell'appartamento scalcinato intestato a Samuele Villoresi il fabbro?
Bè, si, proprio quello…io lo conoscevo bene, veniva a fare la spesa da
me…si notava subito che aveva talento e che presto o tardi sarebbe
diventato famoso.
Gli facevo sempre credito perché mi era simpatico e credevo fortemente in
lui.
Che bravo ragazzo…quasi quasi mi manca adesso che è andato a vivere
altrove…"
Ipocriti bastardi…ve la farò vedere io…datemi tempo e la scure della mia
vendetta si abbasserà implacabile sopra le vostre teste di cazzo.
Devo fare in fretta a scrivere il romanzo che consegnerà il mio nome ai
posteri.
E lei chi è?
Mi tolga le mani di dosso…ma come si permette?
E questa camicia senza maniche a cosa serve?
E voi chi siete?
Che volete?
Ma cosa fate?
E quella sirena con lampeggiante a cosa serve?
Dove avete intenzione di portarmi…io non ho tempo da perdere con voi,
miserabili moscerini…io devo scrivere, lo capite che devo realizzare il
più importante libro che mai mente umana abbia potuto concepire, si o no?
Non mi toccate… non osate allungare le vostre luride mani su di me, perché
io sono un vate della letteratura.
Io sono un grande scrittore, io sono un grande scrittore, io sono un
grande scrittore, io sono un grande scrittore, io sono un grande
scrittore, io sono un grande scrittore…
One vs one
Erano almeno venticinque anni che non c' incontravamo.
Adesso, invece, eravamo lì, invecchiati entrambi, di nuovo uno di fronte
all'altro.
Il tempo, cortocircuitando se stesso, ci aveva catapultato nello
sgabuzzino dei ricordi, all'interno di un universo giovanile che nel
presente era oramai in fase di evaporazione.
Di nuovo contro.
Capita, a volte.
Eterni avversari fin dall'adolescenza.
Ancora faccia a faccia, stavolta in quella che sarebbe stata
inequivocabilmente la resa dei conti.
Ci scrutavamo intensamente negli occhi e, nonostante la distanza che si
frapponeva, leggevamo chiaramente nei reciproci sguardi il rispetto e la
voglia di chiudere definitivamente il contenzioso.
Paura no.
Quella mai.
La mano doveva essere ferma e stabile, nessun tremolìo altrimenti sarebbe
stata la fine.
Con un cenno quasi impercettibile del capo ci scambiammo l'intesa
significante l'apertura delle ostilità.
Mi raccolsi in me stesso alla ricerca della migliore concentrazione.
Afferrai, poi, senza indugio e stringendolo con forza l'attrezzo a
disposizione e colpii con tutta la determinazione di cui ero capace.
Lui rimase stupito, impreparato anzichenò.
Nulla potè in risposta.
Il folto pubblico intervenuto si spellava le mani dagli applausi.
15-0.
La finale del torneo cittadino over 40 era appena cominciata.
Un uomo tutto d'un pezzo
Sono un uomo tutto d'un pezzo.
Un self made man, come si suol dire.
Mai chiesto favori o raccomandazioni a nessuno.
Ce l'ho fatta da solo.
Perché sono un uomo tutto d'un pezzo.
Come il celeberrimo spot dell'amaro Petrus.
Petrus: per l'uomo che non deve chiedere mai.
Non m' interessa che i miei amici si siano arricchiti leccando culi,
portando borse e pagando mazzette.
Hanno fatto carriera a scapito dell'etica.
Io no.
Io sono un uomo tutto d'un pezzo.
Non chiedo e non dò.
Vivo del mio stipendio che non è un granchè, ma non ho sogni da cullare nè
vizi da soddisfare e me lo faccio bastare.
Il mio stipendio d' impiegato ministeriale.
Le agiatezze non m' interessano, tengo stretti la coerenza ed i sani
principi che hanno sempre accompagnato le mie scelte.
Ho una bella famigliola, con moglie giovane e affezionata e due ragazzini
ubbidienti e senza grilli per la testa.
Non mi serve altro; soldi, successo e potere sono opzioni che non mi
appartengono.
Mi accontento di quel che ho.
E se gli altri si divertono e fanno la bella vita me ne sbatto altamente.
Non baratterei tutto ciò con la mia integrità morale.
I perdenti sono loro, annegati nella perdizione di falsi valori.
Io amo riamato, il resto non conta.
E non importa se mia moglie stamattina è andata via con il mio migliore
amico a bordo del suo sedici metri cabinato, direzione Seychelles.
Le mi ama, son sicuro, lo avrà fatto per ingelosirmi un po'.
Ma tanto tornerà, prima o poi…
Perché io sono un uomo tutto d'un pezzo.
Pioggia sulla città
Un caso per il commissario Giuseppe Vicedomini
La pioggia incessante spazzava i marciapiedi creando un pavimento
riflettente dentro cui il commissario Giuseppe Vicedomini, tornando a
casa, specchiava il viso stanco e tirato dalla lunga giornata di lavoro
alle prese con l'umanità più varia: papponi che menavano le mignotte per
scarso rendimento, scippatori che imperversavano per le strade alla
ricerca della stabilità economica, topi d'appartamento sempre meno
notturni e mariuoli di ogni risma che rendevano la città una delle più
vituperate della nazione.
Il tutto condito da cumuli di immondizia depositati in ogni dove e
puntualmente dati alle fiamme dai soliti ignoti incuranti del fatto che la
combustione di questi altra utilità non arrecasse che quella di produrre
diossina letale per la salute propria nonchè degli sventurati residenti in
loco.
L'intera l'area urbana si era trasformata in un immenso rogo sfavillante
di munnezza che solo il temporale abbondantemente annunciato dai soloni
delle previsioni atmosferiche stava provvedendo a contrastare, considerata
l'ormai dichiarata resa da parte dei Vigili del Fuoco, che per un focolare
spento altri tre sfuggiti al controllo ne dovevano subire quale smacco
all'onorata carriera.
Riparato alla bell'e meglio dai balconi disseminati lungo il percorso che
dalla Questura conduceva nel piccolo appartamento condominiale nel quale
abitava, il commissario Giuseppe Vicedomini, 40 anni appena compiuti,
single poco convinto, entrato in polizia qualche decennio prima poiché non
sapeva bene cos'altro fare, rifletteva sul menù serale da inventarsi una
volta guadagnato le confortevoli mura amiche che lo avrebbero riparato
dalle brutture del mondo esterno, se non altro il tempo di ricaricare le
pile durante il sonno, e quindi rituffarsi senza salvagente nell'oceano d'
illegalità che gli si apriva ogni luce dell'alba davanti agli occhi.
Al solito optò per le virtù a buon mercato del forno a microonde,
elettrodomestico amico dei soggetti non sposati, particolarmente pigri o
carenti di tempo da dedicare all'arte culinaria.
Aprì il frigo e ne estrasse un cartone con mezza pizza alle acciughe
avanzata dalla sera prima, ipotetico semicerchio commestibile che terminò
nelle fauci del fornello complice.
Il commissario si sedette al tavolino della cucina e principiò a consumare
con lentezza il frugale desco, innaffiandolo con dell'ottimo Greco Di Tufo
D'Aione D.O.C. 2006, con uvaggio greco al 100%, gradazione alcolica del
13%, prodotto a Torrioni, abbuscatosi dal portiere del condominio, di
origini avellinesi, in occasione delle trascorse festività natalizie.
Col televisore quattordici pollici Philips acquistato in leasing
all'ipermercato sotto casa, adagiato sulla lavatrice Indesit con
risciacquo continuo aggiudicatasi ad un'asta giudiziaria, desinava
guardando scorrere, senza vederle veramente, le immagini del tg di prima
serata.
Ogni tanto gli tornava in mente Caterina, la donna che l'aveva lasciato da
qualche anno e che non era mai riuscito a dimenticare del tutto.
Si erano amati sinceramente, anche se lui, incapace di lasciarsi andare
completamente alle emozioni, non era mai riuscito a dimostrarglielo in
pieno.
Era sbirro anche in questo, dimostrava un velo di freddezza esteriore
anche quando dentro insistevano fiamme avviluppanti.
Aveva puntato molto su quel rapporto, gettato pazientemente acqua sul
fuoco di un tète a tète che stava pian piano diventando escandescente;
pensava che per lui, non più in verdissima età, la storia con Caterina
poteva costituire l'ultimo treno su cui salire per sposarsi e magari avere
dei figli.
In altre parole tenuto botta fino ad esaurimento della pazienza, poi le
contraddizioni insite nel menage erano venute a galla in maniera
inesorabile compromettendo sogni e progetti.
Quindi, la fine annunciata, con gli squilli di tromba di una telefonata
terminata a male parole.
Certo, una parte della colpa era anche sua, si sbaglia in due, Vicedomini
ne era consapevole, ma tant'è…la liaison era da ritenersi senz'altro
conclusa, e le ceneri del rapporto durato quattro intensi anni lo
avrebbero ammorbato per lungo tempo.
Terminata la seduta culinaria, il commissario adagiò la macchinetta
espresso sul gas per prepararsi un caffè come diceva lui, alla napoletana,
adottando un trucchetto insegnatogli da un collega; artifizio sconosciuto
ai più che conferiva alla bevanda un'aroma particolare.
Il segreto per la preparazione del piccolo momento privato stava nel
pressare forte il macinato, indi praticarvi alcuni forellini con uno
stuzzicadenti o qualche altro oggetto simile, dandogli così modo di
respirare durante la salita regalando al risultato un sapore decisamente
speciale.
Mentre la macchinetta sbuffava sul fuoco squillò il cellulare.
Vicedomini spense la fiamma, richiuse la bombola del gas e, bofonchiando
qualche epiteto all'indirizzo del cacacazzi telefonico, schiacciò il tasto
di ricezione del cellulare.
Era l'ispettore Giovanni Quagliarulo, di qualche anno più grande,
coniugato con moglie querula, tre figli adolescenti, dispendiosamente
trendy e suoceri nevrotici a carico che lo avvisava di precipitarsi in
Questura poichè si era verificato un fatto di sangue in una località
popolare della città bassa.
Giunto nel fatiscente palazzone di edilizia 'anni 40' adibito a luogo di
lavoro dei rappresentanti della legge il commissario Vicedomini fu
prontamente ragguagliato in merito alla faccenda, quindi, immediatamente
dopo, reclutati alcuni uomini e fatta giungere una volante ordinò di
condurlo immantinente sul luogo del misfatto.
Arrivati sul posto notò subito la figura esanime di un uomo anziano
disteso supino sul selciato accanto a quintali di spazzatura dall'altezza
spropositata ancora ardenti.
Si contavano sull'addome di costui circa una decina di coltellate
profonde, inferte sicuramente con rabbia, probabilmente a causa di un
alterco successivamente degenerato con evidenti effetti devastanti.
Il sangue fuoriuscito dalle ferite, mescolato all'acqua piovana, formava
un fiumiciattolo surreale nella serata ormai pacificata metereologicamente.
Per la prima volta nella vita ed in carriera Giuseppe Vicedomini certificò
un evento che mai avrebbe immaginato: esistevano dei testimoni al litigio
di Luigi Cannavacciuolo, l'anziano accoltellato e l'assassino che, dopo il
folle gesto, si era dato alla fuga a piedi nel ventre della città,
sperando di ottenere impunità.
C'erano dei testimoni non reticenti, roba da non credersi, continuava a
ripetere a se stesso il commissario.
Condomini che alle prime urla scaturite dal litigio dabbasso si erano
affacciati alle finestre assistendo atterriti al brutale episodio.
L'accoltellatore era un tale Umberto Scognamiglio, detto "bebè 'o
sfregiato", per via di una cicatrice, certamente una coltellata inferta
per sfregio lungo la fronte in senso orizzontale, un 32enne disoccupato
dedito a furti d'appartamento e spaccio di eroina nel parco degradato del
quartiere.
Il Cannavacciuolo e lo Scognamiglio, secondo le testimonianze, erano
venuti alle mani dopo che l'anziano, pensionato delle Ferrovie dello
Stato, vedovo e senza figli, avrebbe fatto notare al vicino di casa di non
dare alle fiamme i rifiuti per il pericolo derivato dalle esalazioni
tossiche che da essa sarebbero state prodotte.
Lo Scognamiglio avrebbe replicato di non avere intenzione alcuna di
sopportare la puzza dell'immondizia proprio sotto casa sua, ubicata al
pianterreno.
Una parola via l'altra e i due sarebbero venuti alle mani.
Lo sfregiato, non soddisfatto di aver avuto la meglio nella scazzottata,
aveva estratto un coltello a scatto, la cosiddetta molla, tipico strumento
dei guappi del tempo che fu, infierendo sul povero anziano fino a
lasciarlo agonizzante in un lago di sangue sul marciapiedi.
"Cose da pazzi, eh… Peppì…?"- disse l'ispettore, rivolto confidenzialmente
al commissario.
"E' questa città, Giuà…è la sua aria malefica che rende pazzi gli
abitanti, e il fetore della munnezza c'entra poco"-, rispose il Vicedomini
al suo sottoposto, nonché amico di tante battaglie vinte e perse nei
meandri di quella metropoli tentacolare che somigliava più all'India che
ad una città europea.
"Qui la pazzaria è lo sbocco naturale di una condotta di vita sempre sopra
le righe in tutto…a ggente esce pazza tutte 'e juorne, Giuà …e saje pecchè?
Pecchèè figlia 'e ' na mamma pazza, e quanno a signora nun ce stà cchiù
ca capa pure 'e figlie primma o poi esceno pazze comma a essa.
E' sempe stato accussì e sempe accussì sarrà, fino a quanno 'sta femmena
figlie nun ne farrà cchiù e se lascerà murì int'ò silenzio pe nun ffà
cchiù rammaggie".
"Però che tristezza, Peppì, non mi abituerò mai a queste dinamiche,
nonostante le lordure ingoiate in tanti anni di servizio".
"Non ci farai mai il callo perché sei un buon poliziotto oltre che un
brav'uomo, Giovanni.
Chi si abitua alla merda lo diventa suo malgrado, e questo tipo di
escremento è difficile che diventi cioccolata, amico mio".
"Hai proprio ragione tu, Peppì, le cose stanno proprio così in questo
posto maledetto e bellissimo, unico al mondo, frequentatissimo e
disperatamente solo.
"Andiamo, va…Giuà…sta riprendendo a piovere, anche se temo non basteranno
miliardi di litri di pioggia a lavare il sudiciume depositato
dappertutto".
Il commissario ed il suo vice risalirono in macchina e una volta ritornati
in Questura provvidero ad emanare un comunicato, corredato da foto
segnaletica, di Umberto Scognamiglio a tutte le volanti, affinché
potessero acciuffare il reo nel minor tempo possibile, privandolo, cio è,
della possibilità di riparare in luogo sicuro o addirittura di poter
lasciare il paese.
Lo presero all'alba del giorno seguente, mentre si aggirava logoro nelle
vesti e lo sguardo allucinato, nei pressi della Stazione Centrale, alla
ricerca disperata di un treno per sfuggire alle grinfie delle forze
dell'ordine.
Non fece resistenza, fu ammanettato e portato in Questura per la convalida
del fermo e da lì spedito direttamente al carcere di Poggioreale in attesa
del processo che certamente gli avrebbe riservato un'esemplare condanna.
Al termine di quell'altra dura giornata il Vicedomini tornava a casa al
solito a piedi, abitudine maturata nel corso degli anni di servizio in
quell'avamposto di frontiera e che gli restituiva una sensazione di
piacevole rilassamento, come se si frapponesse un morbido cuscinetto
protettivo, la debita distanza emotiva, fra il lavoro ed il confortevole
rifugio della propria abitazione.
Pensava a Caterina, a come sarebbe potuto essere ed a come non era stato.
La pioggia veniva giù a secchiate.
Specchiando il viso nel riflesso nell'acqua sui marciapiedi il commissario
rimuginava sul menù da assemblare per cena; magari avrebbe optato ancora
per la solita pizza da infornare nel microonde ed il tg di prima serata
quale unica compagnia prima di spegnere tutto e andare a dormire.
End of summertime
Silenzio rotto dal ticchettio della sveglia a muro.
Ripensavo a quei grandi occhi azzurri dentro i quali mi perdevo ogni
volta, accompagnato per mano dalla malinconia di fondo, compagna di
strada da sempre.
Il personale summertime era inesorabilmente passato, restavano adesso
lunghi mesi da prendere per il collo.
Di una bottiglia, of course.
Senza attenuanti stavo mandando a puttane la mia vita.
Albe e tramonti sfilavano in rapida successione; fogli strappati dal
calendario e telefoni muti rappresentavano la coreografia delle mie
giornate da loser sconfitto unicamente da se stesso.
La mia città come fango su una lama.
Giravo a piedi lungo i suoi vicoli come un cane senza padrone, non
scrivevo quasi più, mi sembrava tutto così falso, loffio, inutile.
Freddy Cole dal lettore cd swingava "there are such things"; fuori
dalla porta di casa un sole tiepido caricava di luce fiacca un merdoso
sabato mattina di metà autunno.
Non riuscivo a guardarmi dentro a fondo, l'esercizio della maieutica
evidentemente non era nelle mie corde; forse ero davvero uno stronzo
che non sentiva la sua puzza.
O, più semplicemente, soltanto uno sfigato che aveva tentato di
conferire un senso alla propria esistenza tentando un goffo volo
planare nei cieli tersi dell'amore, precipitando poi in picchiata come
un residuale rottame di guerre combattute lontano nel tempo.
Ogni tanto capitava di sollevare qualche trofeo letterario al soffitto
basso di teatri periferici di città dimenticate.
Sentivo gli applausi scrosciare mentre prendevo tutti per il culo.
Io non ero capace d'amare, e con il tempo e la pratica mi ero
trasformato in un campione dell'esercizio sentimentale.
E le giurie mi premiavano.
Ed ogni sera tornavo a casa gonfio di disperazione poiché primeggiavo
nella gara dei nobili sentimenti bluffando spudoratamente, schiacciando
su carta unicamente parole di plastica.
Lei era andata via da tempo immemore, cercavo con tutti i sensi di
odiarla per poterla dimenticare il più in fretta possibile, ma i
fantasmi dell'amor perduto tornavano puntuali e fluttuanti sulle pareti
ingiallite della mia stanza.
Sdraiato sul letto, le mani intrecciate dietro la nuca, guardavo le
gocce di pioggia fine schiantarsi sui vetri.
Il silenzio rotto dal ticchettio della sveglia a muro.
Senza titolo
Sono ritornato single. Dopo anni in cui ho rappresentato la metà di
qualcun altro. Certo, non è facile adattarsi alle abitudini di prima,
bisogna rifarci la mano, in tutti i sensi. La solitudine pesa, ma ho
ripreso in mano la mia vita e la mia dignità. Ho indossato nuovamente i
vecchi panni del me stesso mio. La sera mi vedo in piazza con i pochi
amici sopravvissuti agli obblighi della quotidianità e ci facciamo,
serenamente e consapevolmente, due palle così. Testicoli da single in
età da moglie. Negli ultimi tempi ho fatto una scoperta piccante: una
nuova dirimpettaia che si produce in strip mozzafiato dimenticando o
fingendo di dimenticare la finestra aperta. Mi sono ritrovato guardone;
non perdo occasione di armarmi di binocolo ad infrarossi ogni
qualvolta, rientrando a casa, noto la mitica finestra aperta sul
piccolo mondo circostante. L'altra sera una coppietta di adolescenti in
amore mi ha beccato mentre dalla mia postazione socchiusa mi producevo
in una performance atletica tesa a trovare la posizione migliore per
godere delle grazie della sconosciuta di fronte. Dalla loro faccia
schifata ho capito che ero arrivato alla frutta. Ho atteso che
transitassero ed ho ripreso a sbirciare. Poi sono passato in bagno…a
pisciare, che avevate capito? Lo stare soli non è poi quella cosa
terribile che sembrerebbe. Ci si fa il callo, a lungo andare, e può
diventare addirittura piacevole lo starsene chiusi a riccio in se
stessi, senza l'obbligo di parlare, ridere, scherzare, fare. Chi teme
la solitudine si sposa, anche senza sentimenti, l'importante è trovare
una compagnia per le lunghe serate da trascorrere davanti alla tv. Io
sono d'indole solitaria, mi piace essere il sovrano dei miei spazi ma
mi rendo perfettamente conto che una donna ci vuole, i figli non puoi
farteli da soli, e questo è il grande ricatto della vita da posizionare
sulla bilancia delle scelte fondamentali: la libertà o la gioia della
prole. D'altronde se ci si vuole perpetrare qualche sacrificio bisogna
pur accettarlo. Dopo tante rinunzie i figli, poi, diventano grandi e
finiscono con lo sputarti in faccia. Ma tant'è. Bisogna conferire un
senso alla propria presenza nel mondo, altrimenti si corre il rischio
di mettere assieme una collezione di giorni inutili ed invendibili
anche al mercato rionale dell'usato esistenziale. Lei mi manca,è fuor
di dubbio, ma tutto scorre e va, come diceva chissà chi. Adesso spengo
tutto e mi calo nella notte liquida della mia città senza mare. A passi
lenti arriverò al solito bar per il solito rustico ricotta e salame,
seguito dal caffè nero bollente e dalle immancabili chiacchiere
sportive col barista di turno. Che volete farci,è il mio instabile
equilibrio, la coperta calda che mi ha scippato la progettualità, quel
che fa di me un rottame romantico che insiste a scrivere racconti e
poesiole che nessuno leggerà mai se non per noia o cortesia.
Senza titolo
Sono ritornato single. Dopo anni in cui ho rappresentato la metà di
qualcun altro. Certo, non è facile adattarsi alle abitudini di prima,
bisogna rifarci la mano, in tutti i sensi. La solitudine pesa, ma ho
ripreso in mano la mia vita e la mia dignità. Ho indossato nuovamente i
vecchi panni del me stesso mio. La sera mi vedo in piazza con i pochi
amici sopravvissuti agli obblighi della quotidianità e ci facciamo,
serenamente e consapevolmente, due palle così. Testicoli da single in età
da moglie. Negli ultimi tempi ho fatto una scoperta piccante: una nuova
dirimpettaia che si produce in strip mozzafiato dimenticando o fingendo di
dimenticare la finestra aperta. Mi sono ritrovato guardone; non perdo
occasione di armarmi di binocolo ad infrarossi ogni qualvolta, rientrando
a casa, noto la mitica finestra aperta sul piccolo mondo circostante.
L'altra sera una coppietta di adolescenti in amore mi ha beccato mentre
dalla mia postazione socchiusa mi producevo in una performance atletica
tesa a trovare la posizione migliore per godere delle grazie della
sconosciuta di fronte. Dalla loro faccia schifata ho capito che ero
arrivato alla frutta. Ho atteso che passassero ed ho ripreso a sbirciare.
Poi sono passato in bagno…a pisciare, che avevate capito? Lo stare soli
non è poi quella cosa terribile che sembrerebbe. Ci si fa il callo, a
lungo andare, e può diventare addirittura piacevole lo starsene chiusi a
riccio in se stessi, senza l'obbligo di parlare, di ridere, di scherzare,
di fare. Chi teme la solitudine si sposa, anche senza sentimenti,
l'importante è trovare una compagnia per le lunghe serate da trascorrere
davanti alla tv. Io sono d'indole solitaria, mi piace essere il sovrano
dei miei spazi ma mi rendo perfettamente conto che una donna ci vuole, i
figli non puoi farteli da soli, e questo è il grande ricatto della vita da
posizionare sulla bilancia delle scelte fondamentali: la libertà o la
gioia della prole. D'altronde se ci si vuole perpetrare qualche sacrificio
bisogna pur accettarlo. Dopo tante rinunzie i figli, poi, diventano grandi
e finiscono con lo sputarti in faccia. Ma tant'è. Bisogna conferire un
senso alla propria presenza nel mondo, altrimenti si corre il rischio di
mettere assieme una collezione di giorni inutili ed invendibili anche al
mercato rionale dell'usato esistenziale. Lei mi manca,è fuor di dubbio,
ma tutto scorre e va, come diceva chissà chi. Adesso spengo tutto e mi
calo nella notte liquida della mia città senza mare. A passi lenti
arriverò al solito bar per il solito rustico ricotta e salame, seguito dal
caffè nero bollente e dalle immancabili chiacchiere sportive col barista
di turno. Che volete farci,è il mio instabile equilibrio, la coperta
calda che mi ha scippato la progettualità, quel che fa di me un rottame
romantico che insiste a scrivere racconti e poesiole che nessuno leggerà
mai se non per noia o cortesia.
A passi lenti
A passi lenti mi trascino lungo il viale delle ore, nel pomeriggio
inoltrato ed ancora assolato di questo maggio bastardo e inutile.
Un anziano seduto sulla panchina di pietra sotto il leccio più alto si fa
vento utilizzando un quotidiano ripiegato, le oche starnazzano giulive
nell'acqua bassa e sporca del laghetto artificiale.
Il sudore continua la sua discesa libera fra le pieghe della pelle, a
formare tanti fiumiciattoli giallognoli che non incontreranno mai il mare
aperto.
Il tremolìo alle mani si è un poco attenuato.
Meglio così, non dare troppo nell'occhio è l'assoluta e indiscutibile
priorità in certi momenti; di quando, cio è, ci si gioca il futuro in una
partita a dadi col destino.
In questi frangenti la fuga rappresenta una delle poche soluzioni, e
nemmeno la più agevole, nel ventaglio di possibilità che si fanno strada
nella testa.
Non pensavo fosse così facile farlo, non realizzo ancora d'esser io il
protagonista della vicenda che da qualche ora si è trasformata in un film
ripetutamente proiettato nella sala cinematografica dei ricordi.
E' successo, comunque;è bastato un attimo, il fischio d'inizio di una
partita da disputare in gara unica, senza il conforto di un ritorno che
eventualmente potesse riportare le cose al giusto ordine.
Mi prenderanno, prima o poi,è solo questione di tempo.
E pagherò salatamene per quello che ho fatto.
E' giusto così, non si possono infrangere impunemente le regole, tradire
la fiducia di quanti ci hanno ancora prospettato una chance, che ci siamo,
però, giocata interamente senza avere buone carte in mano.
Provo appena un pizzico di rimorso, devo onestamente dire, e se mi si
dovesse presentare di nuovo l'occasione propizia rifarei esattamente ciò
che ho fatto.
Edè per questo che devo scontare, assolutamente.
L'avevo vista ad un angolo di strada, bella, sinuosa, provocante oltre
ogni immaginazione.
I sensi erano andati letteralmente fuori giri, i pensieri formandosi in
maniera sconnessa.
Doveva essere mia, continuavo a ripetermi come una nenia disturbante.
L'avevo rimirata a lungo, aspettando il momento giusto, poi con un blitz
devastante portata via.
Era tedesca, ma non avrei mai dovuto farlo; il dottore me lo ripeteva
ininterrottamente da mesi, ma io non ho saputo resistere.
L'ho portata in un posto sicuro, spogliata avidamente, annusata, leccata e
alla fine, con sommo gusto, divorata.
Che gran pezzo di cioccolata.
Fiori fritti di sera
Camminavo a passi lenti fra le nuvole e i tramonti.
La strada davanti s'allargava sotto i passi pesanti.
Di troppa solitudine si muore o si diventa come me, barba incolta e mani
affondate nelle tasche di un cappotto consunto a macinare chilometri su
chilometri senza sapere bene dove andare.
Un sipario si è chiuso, un altro si è aperto sull'ombra di un uomo che
s'avvicina al proscenio senza ricordare la parte.
Il freddo pungente mi fa sollevare il bavero del cappotto, mi soccorrono
le due dita di rhum ancora nella fiaschetta.
Butto giù senza fermarmi.
Di strada da fare tanta ce n'é.
Tutte le strade del mondo, se le mie scarpe sporche e logore tengono.
L'amore, a volte, ci sorprende nascosti a sbirciare dietro le tende e ci
dice di calmarci e di smetterla col bere.
Ma è un lungo lamento la notte scura che si spalma addosso come un
sudario, con la luce del giorno che poi ti offende, si illumina e si
spegne. Intanto ci son le ore da riempire, un letto da scaldare e poi
rifare, ma oggi è già domani, un nuovo blues da sfangare durante il walzer
delle ore.
Tasche sfondate con solo quattro monete, gira, gira la ruota, il bicchiere
si svuota e l'amore non dura, son fiori fritti di sera.
Sull'orlo del pomeriggio, senza più niente da dire, con la voglia di
sorseggiare un bianchino con olive.
E pensare che avrei voluto avere una storia d'amore da amare e adesso mi
trovo solo in compagnia di questo cane spelacchiato che continua ad
abbaiare e non c'è verso di farlo andare.
Scorgo le luci in lontananza di una locanda incastonata come una perla
rara in un paesello di montagna.
Un po' di ristoro per riprendere il cammino.
Gli ultimi spiccioli per una zuppa di fave con piselli ed un litro di
rosso stordente da metabolizzare in un letto duro di stanza spartana.
Domani mattina niente più soldi e ancora asfalto da consumare.
Solo e con questo quadrupede ottuso che non vuol togliersi dai coglioni e
che non smette d'abbaiare.
Gira, gira la ruota, il bicchiere si svuota, l'amore non dura, son fiori
fritti di sera.
Senza titolo
Tarda mattinata d'inizio marzo.
Nello scompartimento dell'Intercity Torino Portanuova.
Fermi a Napoli Centrale.
Di fronte alla mia poltroncina una coppia di sessantenni discretamente
conservati.
Lui sfoglia La Repubblica, commentando con aria disincantata le ultime
brutture nazionali ed estere.
Lei, dopo un'elaborata operazione di maquillage lungo le geometrie del
viso inevitabilmente segnato dal tempo, tenta invano di accendere il
cellulare dalla batteria inesorabilmente scarica.
Stufata, rivolge qualche parola al consorte assorbito nella lettura dei
titoli, sciorinando un accento che, nonostante lo sforzo d'affettazione,
tradisce palesi origini partenopee.
Li osservo discretamente per un po', successivamente estraggo dalla tasca
interna del giubbotto l'inseparabile calepino in formato A7 e decido di
scrivere qualcosa; così, tanto per ingannare il tempo che mi separa
dall'arrivo a Roma.
Lui, nel frattempo, chiude il quotidiano, adagia il capo incanutito sul
poggiatesta e si produce in un problematico tentativo d'assopimento,
considerato il fracasso che generano un gruppo di ragazzetti saliti poco
prima sulla vettura.
Lei è immersa, adesso, nella lettura del suo giornale, sempre La
Repubblica; due copie uguali della stessa testata.
Evidentemente avranno contratto matrimonio in regime di separazione dei
beni, separando anche letti, conti bancari e vite, penso, sorridendo a
denti stretti e con un senso d' insana malinconia che mi pervade dal
profondo.
Che, forse, non costituiscano coppia ufficiale?
Amanti, anzichenò?
Oppure più semplicemente trattasi di colleghi di lavoro che utilizzano
tutte le mattine il medesimo mezzo di locomozione onde poter mettere la
loro professionalità remunerata a disposizione del consorzio umano?
Ma no,è proprio un autentico binomio d'amorosi sensi, poiché lei non
batte ciglio allorquando la controparte maschile emette una serie di
grugniti nervosi ed una reiterata produzione di tentativi piuttosto
maldestri di dar corso alla manutenzione intestinale ordinaria tramite
emissione di flatulenze gentili.
Alla fine il moderno Adamo riesce ad abbandonarsi fra le braccia di
Morfeo, col capo reclinato di lato e le mani intrecciate sul ventre
gonfio, retaggio di parecchie ore trascorse in pantofole.
La moderna Eva, di contro, continua a leggere, impassibile, appunto, ai
siparietti del compagno, e mastica lentamente, una dietro l'altra,
caramelle al mentolo.
La campagna del basso Lazio si srotola come un'enorme moquette verde al
mio sguardo incollato, adesso catatonicamente, al finestrino.
Dopo qualche manciata di minuti lui si desta dal sonnellino rigenerante
targato Trenitalia e, sollevandosi non senza sforzo dalla poltroncina
numerata, si afferra improvvisamente al portabagagli collocato in alto,
principiando un saggio ginnico fuori programma, finalizzato allo
sgranchimento degli arti messi a dura prova dai costosissimi ma invero
scomodi convogli Eurostar.
Lei lo guarda, sorpresa dell'inattesa performance, sorride un pochino e si
rituffa nella personale presa d'atto delle carognaggini circolanti sul
pianeta terra.
Scenderanno, poco dopo, alla stazione di Latina.
Aveva davvero ragione il buon vecchio Hank Bukowski: osservare le persone,
sosteneva indefessamente, costituisce senza ombra di dubbio il migliore
spettacolo del mondo, e non si paga nemmeno il biglietto.
L'ambo di giovanili sessantenni ancora non lo sa, ma presto, con tutta
probabilità, si trasformerà nel soggetto principale di un racconto breve,
il mio.
Si, proprio quello che avete appena finito di leggere.
Campioni del mondo
La diciottesima edizione dei campionati mondiali di calcio s'appresta ad
aprire le sue cosmopolite danze sotto i peggiori auspici per quanto
concerne i colori nazionali.
Lo scandalo di Calciopoli, abbattutosi come una valanga inarrestabile
sull'ambiente, fa presagire oscure trame di ritorsione nei nostri
confronti da parte dei signori in doppio petto che governano il calcio
internazionale, personaggi ambigui, da sempre custodi intransigenti di
valori assoluti quali onestà, lealtà, irreprensibilità in campo e fuori.
Tranne quando si tratti di gonfiare il proprio conto in banca, vero mister
Joseph Blatter, presidente della F.I.F.A., compassato gentiluomo elvetico
dal cognome troppo simile ad una blatta per essere casuale?
Ma, si sa, les affaires sont affaires, nella vita bisogna operare le
opportune distinzioni, che diamine, siamo adulti e vaccinati; lo sportè
mosso dal denaro frusciante, non dalle favolette edificanti da raccontare
ai bambini per farli addormentare.
Nel Belpaese l'opinione pubblica, indignata, reclama a gran voce la testa
del trainer maremmano, grande appassionato di vela, Marcello Lippi,
accusato di avere un figlio procuratore con le mani in pasta nella grande
abbuffata alla tavola telefonica di "Lucianone" Moggi; del portiere
Gianluigi Buffon, reo, questi, di aver giocato bollette su alcune agenzie
di scommesse, e del capitano Fabio Cannavaro, imputato d'essersi eretto ad
avvocato difensore della sua squadra di club dalle maliziose illazioni
diffuse dai moderni untori della carta stampata.
Ah…che bellezza l'italiano qualunque, l'uomo della strada, sempre pronto a
scendere in piazza manifestando il proprio disgusto nei confronti di
scandali e scandaletti vari, salvo poi genuflettersi e specchiare il viso
nei mocassini lucidati del potente di turno al fine di poter ottenere
favori e/o privilegi.
Si fa ma non si dice, vero, italianuzzi miei?
Ma, si sa, siamo adulti e vaccinati, le favole lasciamole ai sognatori ed
ai fregnoni.
Il nove di giugno, anno di grazia 2006, inizia, ordunque, la rassegna
pedatoria planetaria.
Il dodici scende in campo la nostra squadra contro il Ghana.
La nazione è spaccata in due: chi tifa e chi gufa.
Io tifo e spero, chissenefrega degli scandali, dopo si vedrà, chi ha
sbagliato pagherà (forse).
Una staffilata di Andrea Pirlo e la magnifica cavalcata vincente, in
ripartenza, di Vincenzo Iaquinta, su break ancora di Pirlo, nella verde
prateria del Niedersachsen Stadion di Hannover, ci regalano la vittoria
all'esordio.
Giochiamo bene ma subiamo più del dovuto l'intraprendenza avversaria.
Gli addetti ai lavori sostengono che è normale l'affanno iniziale in
questo tipo di competizioni, il team italico se lavorerà sodo e bene avrà
certamente ampi margini di miglioramento.
La prima è nel carniere, ad ogni modo.
La seconda uscita ci vede opposti, il diciassette giugno, al Fritz Walter
Stadion di Kaiserlautern, agli Usa, già battuti a fatica nel mondiale
nippo - coreano del 2002.
La partita è durissima, non solo sotto il profilo del gioco.
Al gol di testa in scivolata di Alberto Gilardino, su calcio di punizione
del solito Pirlo, replica una goffa autorete di Christian Zaccardo.
Il match termina 1-1, con le espulsioni di Daniele De Rossi e dei due
statunitensi Mastroeni e Pope.
La critica disfattista dà fiato alle trombe, aizzando ancor di più la
parte di nazione che ha deciso di mostrarsi scettica per il gioco espresso
fino a quel momento dagli azzurri e disgustata dallo scandalo Moggi & C..
Io litigo con un amico il quale sostiene che quest' armata Brancaleone non
arriverà lontano nel torneo.
Non obietto sul giudizio sibillino, mi riservo semplicemente la facoltà di
poter rispondere più avanti.
Gli dico di non possedere le sue certezze, che lo invidio alquanto da quel
punto di vista.
Poi ci salutiamo bruscamente per non salutarci più in futuro.
Ovviamente, nella diatriba, il calcio centra poco o nulla, sarebbe
puerile, altrimenti; antiche frizioni, rinnovate da una rivelazione
fattami qualche giorno dopo la querelle sportiva da un amico comune,
riguardante pettegolezzi in merito ad alcune mie scelte private, questo il
vero motivo del personale risentimento, mettono la parola fine ad una
frequentazione decennale.
Amen.
La terza gara ci vede opposti, il ventidue giugno, alla Repubblica Ceca
dell'ex pallone d'oro 2003 Pavel Nedved, attualmente in forza alla
Juventus, la società più pesantemente implicata nello scandalo.
Una sconfitta ci rispedirebbe a casa con tanti saluti e gran giubilo da
parte del mio, ormai, ex amico.
Non voglio neppure pensare ad un'eventualità del genere.
Mi armo di pop corn e patatine e mi piazzo di fronte al televisore con più
di un'ora di anticipo sull'evento.
L'attesa è spasmodica.
Giochiamo così così, però arriva puntuale la sospirata vittoria: 2-0, reti
dell'interista Marco Materazzi e del redivivo folletto delle aree di
rigore, il milanista Pippo Inzaghi.
Il tutto nella fantasmagorica cornice del Volkspark Stadion di Amburgo.
Da segnalare, in questa partita, il serio infortunio occorso al forte
centrale difensivo Alessandro Nesta, che abbandonerà anzitempo e
malinconicamente il proscenio tedesco.
Anche questa è fatta, nonostante le innumerevoli avversità incontrate
lungo il cammino siamo primi nel girone ed affronteremo negli ottavi la
sorprendente Australia del "santone" Guus Hiddink, che ci ha già eliminati
quattro anni prima quando era alla guida della rappresentativa coreana del
sud.
Gli "aussie"costituiscono un ensamble estremamente insidioso, che ha messo
letteralmente paura, in precedenza, ai celebrati campioni brasiliani.
Quella con i "canguri" si rivela ben presto una gara ostica, l'ennesima.
I nostri avversari sono inferiori tecnicamente ma corrono come puledri in
libertà sul manto erboso del Fritz Walter Stadion di Kaiserlautern.
L'espulsione di Materazzi complica ulteriormente le cose.
Rassicuro la mia famiglia, radunata per l'occasione di fronte al video:
"La difesa tiene bene, possiamo vincere, nonostante l'uomo in meno".
All'ultimo minuto Francesco Totti, "er pupone", trasforma implacabilmente
il penalty assegnatoci per un fallo ai danni di Grosso.
L'inquadratura della regia germanica sui suoi occhi dice tutto: il
Francesco nazionale è carico, non può sbagliare.
Mi aspetto la soluzione a cucchiaio, invece è un destro forte e preciso
che s'insacca nell'angolino alto alla destra del portiere.
Mentre il ragazzone esulta imitando il gesto del ciucciotto in onore del
figlio Christian, nato da poco, la mia esplosione di gioia mista alla
tensione accumulata dà l'impressione di far vibrare le pareti del
condominio nel quale abito.
Alle ortiche il ritegno, siamo ai quarti di finale.
Ci aspetta adesso, al Volkspark Stadion di Amburgo, l'Ucraina dei due
palloni d'oro, l'allenatore Oleg Blokhin, aggiudicatosi il premio nel
1975, all'epoca dell'U.R.S.S., e del milanista in partenza, destinazione
Chelsea, Andrej Shevchenko, che fece suo il cimelio nel 2005.
Gran parte degli italiani non crede ancora nella nostra selezione,
giudicata sì vincente ma zoppicante e difensivista.
A me comincia a frullare in testa una certa idea, un pensiero stupendo, ma
non dico niente,è ancora prematuro.
Italia - Ucraina termina con il punteggio di 3-0 in nostro favore, con
rete di Gianluca Zambrotta, e doppietta di Luca Toni.
E' il trenta di giugno, una calda serata d'inizio estate che regala forti
emozioni, compresa la dedica finale da parte dei calciatori azzurri a
Gianluca Pessotto, "il soldatino", ex-juventino ed ex- nazionale, suicida
mancato qualche giorno prima per motivi al momento non meglio chiariti,
giacente in prognosi riservata all'ospedale Le Molinette di Torino, a
seguito del volo di circa venti metri effettuato dal balcone della sede
societaria del club bianconero, di cui era stato insignito dirigente poco
tempo addietro.
Siamo in semifinale, fra le prime quattro del mondo, erano in pochi a
crederci alla vigilia, io fra quelli.
Penso al mio ex amico…chissà cosa direbbe ora.
Anche se la squadra dovesse fermarsi qui lo ha già, nei fatti,
abbondantemente smentito.
Io gongolo, ma non mi accontento, come d'altronde i calciatori, stando
alle dichiarazioni raccolte a caldo dai media.
Affronteremo adesso i padroni di casa della Germania, i nemici sportivi di
sempre, guidati dal giovane tecnico Jurgen Klinsmann, "il californiano",
trascorsi da interista, una partita da far tremare le vene ai polsi.
Li abbiamo battuti in tutte le grandi occasioni, ma stavolta è diverso,
giocano in casa, col soffio impetuoso di tutta una nazione alle spalle.
Tenteremo l'impresa, la nostra retroguardia è solidissima, con Fabio
Cannavaro (Juventus), capitano di lungo corso e prode condottiero del
vascello italico lungo i mari in tempesta del mese di giugno, trascorso ad
inanellare, una dopo l'altra, superlative prestazioni, unitamente alla
saracinesca Luigi "Gigi" Buffon (Juventus), al sorprendente Fabio Grosso
(Palermo), al "panzer inarrestabile" sulla corsia esterna di destra,
Gianluca Zambrotta (Juventus) ed al generosissimo ed instancabile centrale
Marco Materazzi (Inter), chiamato a raccogliere la difficile eredità, in
una zona nevralgica del campo, del grandissimo e sfortunatissimo
Alessandro Nesta (Milan).
Senza dimenticare i valorosi del centrocampo; oltre al già citato Andrea
Pirlo (Milan), "ringhio" Gennaro Ivan Gattuso (Milan), a tallonare e
mordere i garretti avversari, il "motorino" Simone Perrotta (Roma), il
cavalcatore di fascia Mauro German Camoranesi (Juventus), argentino dal
passaporto italiano, il grintoso Daniele De Rossi (Roma), i vari Andrea
Barzagli (Palermo), Simone Barone (Palermo), Christian Zaccardo (Palermo),
Massimo Oddo (Lazio), poco accreditati a giocare dall'inizio delle gare
gli ultimi quattro ma sempre pronti e reattivi alla chiamata di mister "Paul
Newman"Marcello Lippi.
Con la consapevolezza, anzichenò, di poter contare su un reparto offensivo
di sopraffina e comprovata qualità, grazie al rifinitore Francesco Totti
(Roma), ed alle bocche da fuoco rispondenti ai nomi di Alessandro Del
Piero (Juventus), Luca Toni (Fiorentina), Alberto Gilardino (Milan),
Vincenzo Iaquinta (Udinese) e Filippo "Pippo" Inzaghi (Milan).
Da aggiungere, per onor di cronaca, anche gli unici due fra i ventitré
selezionati che non hanno mai calcato la superficie di gioco, ovverosia i
due portieri di riserva Angelo Peruzzi (Lazio) e Marco Amelia (Livorno).
Nemmeno un minuto di gloria per loro, ma sono lì a far gruppo, la presenza
si avverte, eccome, conta molto questo fattore nell'economia di una
competizione così lunga.
Il valore aggiunto del nostro combo, però, bisogna dirlo,è costituito
certamente dal tecnico Marcello Lippi, ottimamente coadiuvato, fra
l'altro, dal suo secondo Narciso Pezzotti.
"Il toscano"fa ruotare tutta la rosa (tranne i sopraccitati, Peruzzi ed
Amelia, ovviamente) senza mai sbagliare una sostituzione, neppure a
partita in corso; protegge il gruppo, lo responsabilizza, provvede ad
infondergli carica agonistica e sicurezza nei propri mezzi.
La sua capacità di "leggere" le partite, unita all'intelligenza tattica,
all'elasticità mentale nel cambiare continuamente modulo di gioco a
seconda delle caratteristiche tecnico-tattico-atletiche degli avversari e
senza intestardirsi in soluzioni prestabilite, ne fanno uno degli
allenatori più duttili e preparati in assoluto nel panorama
internazionale.
Completano lo staff azzurro Ciro Ferrara, nelle vesti di collaboratore
tecnico, il mitico "rombo di tuono" Gigi Riva, superbomber degli anni '70,
con il grado di dirigente accompagnatore, Ivano Bordon nel ruolo di
preparatore dei portieri, Giancarlo Abete quale capo delegazione ed infine
Marcello Valentini, con il compito di responsabile delle relazioni
esterne.
Nei giorni precedenti il match parte della stampa tedesca invita i propri
connazionali a boicottare la pizza, inoltre ci insulta etichettandoci come
un popolo di parassiti, papponi, mammoni e camerieri, come se quest'ultima
fosse una professione disdicevole.
Incassiamo gli epiteti col sorriso sulle labbra e ci trasferiamo armi e
bagagli al Westfalen Stadion di Dortmund, nel cui impianto i "bianchi" non
hanno mai perso nei precedenti quattordici incontri disputati.
Per favore, ragazzi, battiamoli questi crucchi razzisti e boriosi,
regalateci un sogno.
E il sogno arriva,è il quattro luglio.
Dopo una gara soffertissima, coronata dalla traversa di Gianluca Zambrotta
e dal palo, a portiere battuto, di Alberto Gilardino, Fabio Grosso, grazie
ad un appoggio preciso dell'onnipresente Pirlo, indovina la traiettoria
vincente ad un minuto dalla fine dei tempi supplementari.
I teutonici accusano il colpo mortale e Alex Del Piero, immediatamente
dopo, capitalizzando una lunga sgroppata sull'out sinistro, prontamente
servito da "Gila", gli infligge quello di grazia.
Italia - Germania 2-0.
Ha arbitrato, senza sbavature di sorta, il messicano Benito Archundia, già
sulla nostra strada nell'incontro con la Repubblica Ceca del ventidue
giugno.
Trattengo a stento, per pudore, le lacrime di felicità.
In tribuna Romano Prodi festante accanto all'attonito Cancelliere tedesco
Angela Merkel.
Siamo ad un passo dal Paradiso, in finale, a dodici anni di distanza dalla
sfortunata gara con il Brasile ad U.S.A. '94, persa ai rigori fra la
disperazione struggente del capitano di allora Franco Baresi.
Torno nuovamente con il pensiero al mio ex amico, senza compiacimento,
però, adesso ho da dedicare la mia attenzione a ben altro: al sogno atteso
lungamente.
Non abbiamo ancora fatto nulla.
Stiamo scrivendo la storia, manca soltanto l'ultimo capitolo.
Incroceremo le armi, nell'atto conclusivo della manifestazione con gli
"odiati" cugini transalpini, che ci estromisero da Mexico '86, da Francia
'98 ma soprattutto ci scipparono il titolo agli Europei del 2000, prima
con il maledetto gol del pareggio di Wiltord a quindici secondi dalla fine
(sic!) e successivamente col letale golden goal del futuro juventino David
Trezeguet.
Dopo sei anni quella sconfitta in terra olandese, precisamente in quel di
Rotterdam, il due luglio, brucia ancora dentro come un tizzone d'inferno.
Da dove è sbucata fuori questa Francia infarcita di "vecchie glorie",
destinata ad una rapida eliminazione, diventata negli anni la nostra
bestia nera?!
Lo spocchioso Michel Platini ci provoca affermando che li batteremo non
prima che siano trascorsi almeno cinquant'anni.
Che tristezza, Michel…cosa sei diventato dopo aver appeso i tuoi magici
scarpini al chiodo…
Questo mondiale, però,è nostro, lo sento.
Disponiamo di un gruppo compatto, saldo in tutti i reparti, come sopra
evidenziato.
Rispetto per la Francia, paura nessuna.
Nei giorni che precedono la sfida dormo poco e male, tormento gli amici e
la mia ragazza per l'apprensione che la partita mi causa.
Finalmente si gioca, vada come vada, almeno la smetterò di macerarmi
nell'attesa.
Olympiastadion di Berlino, nove luglio 2006, dopo l'esecuzione degli inni
nazionali le formazioni contendenti sono schierate a metà campo.
Il presidente della repubblica Giorgio Napoletano e la ministra dello
sport Giovanna Melandri sono seduti accanto al presidente francese Jacques
Chirac.
La tensione è palpabile, si può tagliare a fette, bisogna mantenere un
minimo di forma, però.
Nella piazza principale della mia città l'amministrazione comunale ha
provveduto a far installare un maxischermo, ma per scaramanzia preferisco
guardare il match a casa, come ho sempre fatto, questione di scaramanzia.
Pop corn, patatine, coca cola e una quantità indefinita di stuzzicadenti
da tenere stretti fra le labbra per stemperare il nervosismo sono i miei
compagni di viaggio in quest'afosa serata che, a seconda dell'epilogo, può
diventare favolosa oppure tragica.
Fischio dell'arbitro, il 43enne argentino, poeta, Horacio Elizondo, e si
parte, comincia la diciottesima finale mondiale della storia.
Quattro i titoli iridati in campo, tre nostri.
La Francia parte aggressiva e conquista un calcio di rigore al settimo
minuto con Malouda.
Assumo un'espressione catatonica, Zinedine Zidane trasforma il penalty con
un tiro a cucchiaio, alla Totti, la beffa delle beffe.
Non dico nulla, i pensieri mi si congelano.
La partita è lunga, ripeto a me stesso, non può finire così, non deve.
Al diciannovesimo minuto pareggia di testa Marco Materazzi, sfruttando
abilmente un calibrato corner di Andrea Pirlo, sempre lui.
Sale in cielo, il buon Marco, e regala un dono divino ai tifosi.
Il primo tempo è a nostro appannaggio, siamo ben messi in campo, più
incisivi, si può vincere, maledizione, il diavolo francese sembra meno
brutto di come lo si è dipinto.
Invece il diavolo transalpino è brutto davvero.
Nella ripresa i francesi rialzano la testa e cominciano a macinare gioco e
chilometri, sfiorando la rete del vantaggio in più occasioni.
Si soffre, spezzo senz'accorgermene decine di stuzzicadenti, ma la difesa
italiana, grazie ad un immenso Fabio Cannavaro, il muro di Berlino che non
è mai caduto, e allo stratosferico Gigi Buffon, regge alla grande l'onda
d'urto dei "bleus".
I tempi supplementari concedono appena qualche brivido a fior di pelle da
ambo le parti, le compagini sono visibilmente provate dall'immane fatica
fisica e psicologica che la disfida comporta.
Improvvisamente si verifica il fattaccio che getterà un'ombra su tutta la
gara, fino a quel momento improntata su binari di sufficiente correttezza:
una violenta testata di Zidane al petto di Materazzi, reo di aver
ingiuriato le donne della sua famiglia, viene punita, dopo una lunga
consultazione dell'arbitro con il suo collaboratore di linea, tramite
l'estrazione del cartellino rosso, lasciando, così, i "cugini" d'oltralpe
in dieci uomini.
Il berbero d'origine Zizou chiude la propria straordinaria carriera in un
modo decisamente inverecondo.
A capo chino abbandona il rettangolo di gioco, passando accanto alla
coppa, sistemata ai bordi del campo, senza nemmeno sfiorarla con lo
sguardo.
E' un segno del destino.
L'Italia si ritrova in superiorità numerica nei restanti dieci minuti, ma
non accade nulla di rilevante.
Il trofeo si assegnerà, accidenti, ai calci di rigore, atavica iattura per
noi italiani, che dal dischetto abbiamo tanto lacrimato.
Inizia la sequenza dei tiri dagli undici metri.
Preferisco volgere lo sguardo altrove, l'enorme tensione accumulata nei
centoventi minuti mi regala crampi allo stomaco e leggere vertigini.
Non voglio guardare, l'ennesima sconfitta in quella spietata lotteria mi
prostrerebbe, rovinandomi irrimediabilmente la seconda metà dell'estate.
Ripeto a me stesso che non possiamo perdere, lo sento.
Sono teso e fiducioso allo stesso tempo.
Osservo le espressioni dei nostri atleti scelti per tirare, poi guardo
Gigi Buffon.
Sono concentrati, tranquilli, ce la possiamo fare, dai.
Stringo i pugni e chiudo gli occhi quando Andrea Pirlo si porta sul
dischetto: magico Andrea, con quell'aria assonnata tipica di chi si è
appena alzato dal letto, sontuoso architetto delle pallonare geometrie
italiche, mettila dentro quella maledetta palla.
Edè goal!!!
Pirlo goal!!!
Tocca adesso alla Francia tirare.
Il predatore del sogno europeo 2000, Wiltord, posiziona la sfera e
realizza con freddezza la rete del 2-2.
E' la volta di Marco Materazzi, il gigante difensivo tanto discusso in
patria ed all'estero a causa di certe entrate ritenute poco ortodosse
sugli avversari, splendido sostituto di Alessandro Nesta, nonché autore di
due magnifiche ed importanti reti rispettivamente alla Repubblica Ceca e
proprio stasera alla Francia.
Non tradirci, Marco, segna per noi.
Goal!!!
Materazzi goal!!!
Italia-Francia 3-2.
Trezeguet stampa il pallone sulla traversa e le mie urla si sentono
probabilmente a qualche centinaio di metri di distanza.
De Rossi sul dischetto, il De Rossi aspramente criticato per una gomitata
allo statunitense Mc Bride, pagata, questa, con la commistione di quattro
giornate di squalifica, roba da rivedere il Mondiale solo in occasione
della finale.
Figurarsi, la finale.
Ed invece è lì, presente all'atto conclusivo della manifestazione
mondiale, che si appresta addirittura a calciare un rigore della massima
importanza.
Proprio lui, il ragazzone romano rissoso, intemperante, nervoso,è
chiamato al suo esame maturità.
Con personalità e consumato mestiere Daniele De Rossi fa rotolare la palla
alle spalle di Barthez.
Italia-Francia 4-2.
Il pensiero stupendo comincia a prendere corpo, ma non si può dire ancora,
bisogna attendere.
E' il turno di Abidal, che fa il suo dovere segnando.
Italia-Francia 4-3.
Mancano ancora quattro rigori complessivi, ci basta realizzare i due
nostri.
"Achille" Alex Del Piero, considerato un elemento ormai alla frutta, una
sorta di ruota di scorta buona per tutte le occasioni, a dispetto del
notevole talento, dopo la rete della sicurezza contro la Germania si
appresta ad apporre, si spera, il sigillo più importante in una pur già
gloriosa carriera.
E "Achille" non sbaglia.
Con maestria gonfia la rete dell'antipatico portiere francese.
Italia-Francia 5-3.
Comincio davvero a credere nell'impresa, accidenti.
Col fiato sospeso assisto al tiro di Sagnol.
Rete, dannazione.
Italia-Francia 5-4.
L'ultimo tiro dal dischetto spetta a Fabio Grosso, "romano de Roma", una
lunga militanza nelle categorie inferiori e poi il grande salto nella
massima serie, giunta in tarda età e coronata dalla convocazione in
nazionale; successivamente il mondiale, la finale, il rigore decisivo,
roba da annichilire anche il più integralista dei monaci tibetani.
Ho ancora negli occhi e nelle orecchie la sua corsa a perdifiato dopo la
segnatura realizzata ai tedeschi in semifinale, e la frase urlata a se
stesso ed al mondo intero: "Non ci credo, non ci credo, non ci credo".
Magico Fabio, Grosso davvero,è tutto nel tuo piede sinistro, adesso.
Ora e qui.
Noi ci voltiamo dall'altra parte, fai tu.
La palla s'insacca nel "sette"alla sinistra di Barthez, ed io non so
spiegare cosa ho fatto in quel momento, probabilmente la stessa cosa di
tutti gli italiani: gridare a squarciagola e piangere a dirotto come un
bambino.
Abbiamo vinto,è superfluo l'ultimo rigore francese.
Non lo tirano nemmeno.
Italia - Francia 6-4.
L'arbitro Elizondo porta il fischietto alla bocca ed il triplice fischio
sancisce la fine delle ostilità.
Il mitico Nando Martellini, nella notte madrilena dell'11 luglio 1982 urlò
dai microfoni della RAI la frase "campioni del mondo" per tre volte, tanti
quanti erano in quel momento i trionfi mondiali.
Noi adesso la gridiamo quattro volte: "Campioni del mondo, campioni del
mondo, campioni del mondo, campioni del mondo".
Gridiamo anche per te che hai sofferto e gioito da lassù, buon vecchio
Nando, piazzato di fronte al maxi schermo installato nel cielo.
Noialtri, per una volta tanto, ci raduniamo idealmente sotto la cascata di
coriandoli che scendono lenti nella notte nibelunga e cantiamo, tutti
assieme ed abbracciati stretti, l'inno di Mameli.
Più tardi sciameremo in strada a festeggiare.
Domani torneremo ad essere gli italiani di sempre, ma questa è un'altra
storia.
Joseph Blatter non ci ama e sparisce improvvisamente dal comitato di
premiazione.
Lo sostituisce il presidente U.E.F.A, lo svedese Lennart Johansson, con
l'ausilio di Franz Beckenbauer, il padrone di casa.
Forse mister Joseph avrebbe preferito consegnare personalmente la coppa
del mondo nelle mani del suo fraterno amico tedesco, il "kaiser Franz",
presidente del comitato organizzatore dell'evento, nonché vicino di sedia
in qualche cena esclusiva e riservata, ma… noblesse oblige, caro Sepp,
forse è proprio vero che nella vita non si può avere tutto.
Sul podio anche Guido Rossi, il commissario straordinario della F.I.G.C,
chiamato poche settimane prima al gravoso compito di traghettare la
federazione fuori dal pantano delle tante illegalità che l'hanno vista
impelagarsi profondamente.
Fabio Cannavaro solleva la coppa nel cielo sopra Berlino.
Un pezzetto è anche tuo, Gianluca Pessottino.
Vorreste sapere che cosa ha detto dopo l'apoteosi il mio ex amico?
Non posso esaudire la vostra richiesta, non l'ho più rivisto.
Campioni del mondo
Fra le righe
Lo incontro al bar.
Nel solito locale in centro, quello dei due caffè al giorno, mattina e
sera, come fosse una medicina.
Insiste per offrirmi la consumazione, non mi sottraggo, potrebbe
offendersi.
"Ho letto il tuo nuovo romanzo", attacca improvvisamente mentre sto
portando alla bocca la tazzina di liquido nero e fumante.
"Ah…ti è piaciuto? Cosa ne pensi?", rispondo fingendo distrazione per
meglio celare l'imbarazzo che mi assale sempre in situazioni del genere.
"Si, devo dire che non è male, anche se i tuoi scritti sono permeati da
una venuzza amarognola che, conoscendoti di persona, non si riesce a
capire da dove provenga. Sai…io leggo Paulo Coelho e sono abituato alle
vibrazioni positive. Tu esprimi concetti profondi utilizzando un
linguaggio semplice, immediato, multilivello, però la prosa presenta quel
fondo pessimistico capace di trasmettermi ogni volta una sorta di
malessere non meglio definito".
"Bè…è il mio modo di scrivere, uno stile che riflette probabilmente le
letture fatte in passato", replico nella maniera più sbrigativa e banale
possibile.
Non che voglia liquidare la questione in due parole, fatto sta che non amo
parlare della mia scrittura, penso che sia tutto nelle righe e che non ci
sia null'altro da aggiungere a voce.
Terminiamo la casuale parentesi al bancone e ci salutiamo caldamente.
Ognuno riprende la propria direzione, pronto a rituffarsi nelle incombenze
del quotidiano.
Nel coprire a piedi la distanza che mi separa dalle mura domestiche,
rifletto su quanto asserito poc'anzi dall'amico.
Non è che c'entri in qualche modo il solito inganno della letteratura?
Quello, in altre parole, della confusione fra lo scrittore e l'uomo?
O forse lo scrittore e l'uomo sono davvero due entità imprescindibili?
Non sarà il caso che mi accinga seriamente a leggere Paulo Coelho?
Mentre rimugino su questa opportunità mi accorgo di esser giunto nei
pressi della libreria abituale, dove all'ingresso campeggia un enorme
cartellone pubblicitario informante la gentile clientela circa la
disponibilità immediata dell'ultima fatica dell'autore brasiliano di cui
sopra.
Ci penso un po' su, poi con uno scatto repentino dribblo l'immagine
cartonata a dimensione reale del Nostro e mi fiondo al solito nella zona
in cui sono collocati i titoli del buon vecchio Hank Chinaski, al secolo
mister Henry Charles Bukowski.
Non sarà una frequentazione politicamente corretta ma la preferisco di
gran lunga a quella del pluridecorato sudamericano, campione di best
seller.
Tanto a leggerlo ci penserà l'amico bisognoso di vibrazioni positive.
Gira il mondo
Gira il mondo, gira.
Gira il mondo e va.
Le persone sono furbe, badano al sodo, al bottino quotidiano da portare a
casa e rinchiudere a doppia mandata nello stanzino del tempo che verrà.
Le persone non mi somigliano affatto, io sono l'ultimo dei Mohicani che
ascolta ancora canzoni d'amore.
Loro no.
Loro corrono, s'ingegnano, lottano indefessamente per affermare il proprio
ruolo nel mondo.
Io le guardo sfilare sotto gli occhi come fotogrammi veloci di film da
dopocena casalingo, e non muovo un dito per me stesso, non li seguo né li
imito, tantomeno mi getto nella mischia.
M'illanguidisco ascoltando "april moon" di Matt Dusk, addirittura una
lacrimuccia fa capolino alla galassia extracorporea, certamente orgasmo
del sogno ad occhi aperti.
Gira il mondo, gira, io ruoto in senso contrario, in un ciclico alternarsi
d'incontri e addii senza parole.
Nell'androne del condominio due proprietari d'appartamento litigano
furiosamente per una non meglio chiarita questione di quattrini da
sborsare in comunione al fine di turare una compromettente falla
acquifera.
Urlano, smaniano, si rinfacciano questo e quello.
Per coprire la cacofonia dei due urbani sopraccitati rimetto le cuffiette
alle orecchie, tutto sommato è meglio "april moon" di Matt Dusk.
Un amico speciale
Caldo torrido.
Estate del cazzo.
Bella stagione per chi va in ferie, non per chi resta in città, impelagato
nei disagi che l'urbe svuotate presentano a quanti, chi per un motivo chi
per l'altro, son costretti a ciondolare in pantofole e shorts fra le mura
domestiche, anelando sollazzo da penombre di tapparelle abbassate,
ventilatori sbuffanti e climatizzatori da polmonite tecnologica.
Per non parlare della tv, che rifila ogni volta i soliti fondi di
magazzino, minestre riscaldate che non incontreranno proteste sensibili
poiché la maggioranza dei fruitori del tubo catodico è al mare a mostrar
le chiappe chiare.
Gianni Antinori faceva parte di quella categoria di persone che sosteneva
di non andare in vacanza perché la regione d'appartenenza offriva tutto
quel che potesse servire ad organizzare una villeggiatura decente senza
dover macinare chilometri su chilometri.
Il suo, in realtà, era soltanto un modo per mascherare il fatto di non
possedere il becco di un quattrino e, pertanto, il restare sul territorio
residenziale rappresentava, senza dubbio alcuno, non già un vezzo
snobistico, bensì il crudele dettato di una malevola contingenza
economica.
Mentre stava guardando la centomilionesima replica di un film di Totò su
uno dei canali dell'emittente di Stato, squillò il telefono.
Ne occorrevano tre, di squilli, affinché egli potesse, in condizioni
normali, raggiungere l'apparecchio collocato nella stanza adiacente alla
sala dove teneva il televisore.
"Pronto…chi parla", alitò nel ricevitore senza preoccuparsi minimamente di
tener celato il disappunto dell'essersi dovuto sottrarre, almeno
momentaneamente, al gradevole venticello generato dal ventilatore
acquistato in mattinata all'ipermercato sotto casa.
"Gianni… sono io…Giacomo…Giacomo Grandetti…ti ricordi di me…ci siamo
incontrati l'anno scorso al mare…ero assieme a Giulia, mia moglie…abbiamo
chiacchierato tanto di calcio e poi ci siamo anche scambiati i numeri di
telefono…".
Si, Gianni Antinori rammentava perfettamente quel gran rompicoglioni: un
vicino d'ombrellone che si era presentato da solo e subitaneamente aveva
principiato ad attaccar bottone sciorinando le solite banalità sul tempo
atmosferico, la bellezza del luogo, la situazione politica della nazione,
etc…
In sostanza apparteneva a quella tipologia di persone che se è costretta a
tenere la bocca chiusa per più di qualche minuto finisce col deprimersi,
allegando al nuovo status esistenziale una concreta, successiva,
possibilità di suicidio.
Mostrava al fianco una bella donna, però, la moglie Giulia, splendido
esemplare femmineo dalle grandi tette che straripavano dal costume
sembrando voler chiedere giustizia per l'innaturale ma necessario
occultamento.
Mentre il Grandetti urinava fiumi di parole, l'Antinori, di tanto in
tanto, si concedeva la licenza di una sbirciata furtiva al generoso
dècolleté di lei.
In un'occasione i loro sguardi si erano addirittura incrociati e la
prosperosa dama, con l'ausilio di un sorrisetto invero malizioso, aveva
fatto intendere al giovane interlocutore di gradire anzichenò le sue
occhiate vogliose, che andavano a posarsi come un velo di raso soffice
sulle poppe calde e sode.
Non ci fu seguito alla cosa, comunque, in quanto i coniugi, residenti in
una località vicina a quella balneare, avevano praticamente esaurito il
periodo di riposo dal lavoro, e pertanto da lì a qualche giorno sarebbero
dovuti rientrare rispettivamente alle proprie occupazioni.
Lui commerciava in generi alimentari, possedeva un negozio in centro che
gli fruttava un cospicuo incasso mensile; lei era impiegata in qualità di
segretaria tuttofare presso un noto studio notarile.
Entrambi piuttosto giovani, d'estate solevano staccare la spina recandosi
a godere il sole un po' qua e un po' là, senza uscire dai confini
regionali, anche se, bisogna precisare, a differenza dell'Antinori,
avevano scelto "la soluzione limitrofa" a causa dell'atavica riluttanza
che assaliva ambedue quando si trattasse di allontanarsi più del lecito da
casa e negozio.
Si erano, alfine, congedati dandosi appuntamento all'anno successivo, e
Gianni salutò la loro partenza con un misto di sensazioni contrastanti: da
un lato era ben contento di essersi tolto dai cosiddetti quel petulante di
Giacomo, dall'altro provava un pizzico di delusione nel non poter più
rivedere Giulia; una moderna geisha che gli aveva fatto germogliare nei
pensieri l'esistenza dei paradisi di carne.
"Certo che mi ricordo di te, Giacomo…ma…dimmi… come stai?
E Giulia come sta?
A cosa debbo questa chiamata inattesa?"
"E successo un fatto grave, Gianni mio…Giulia non si trova più!
Sono ormai tre giorni che non rientra a casa.
Non ha mai fatto una cosa del genere prima d'ora, non senza preavvisare,
per meglio dire.
Temo le possa essere accaduto qualcosa di grave.
Ho chiesto sue notizie al notaio presso cui presta opera, alle amiche
intime, ai familiari, ai parenti, ai conoscenti; ho contattato perfino
tutti gli ospedali della zona…ma nessuno ne sa nulla.
Trascorse le quarantotto canoniche ore ho provveduto a sporgere denuncia
di smarrimento ai carabinieri ed alla polizia. Sono disperato, Gianni…per
questo ho maturato la travagliata decisione di rivolgermi a te.
Non nutro molta fiducia nelle capacità investigative e nell'impegno
costante delle forze dell'ordine.
Quelle non se ne fregano un cazzo di niente e di nessuno ed aspettano
unicamente il ventisette del mese per riscuotere lo stipendio e chi si è
visto si è visto.
Tu, invece, sei un detective bravo e coscienzioso, uno che svolge la
professione con umiltà ed abnegazione, come fosse una missione laica da
portare a termine.
Aiutami a ritrovare la mia amata consorte, Gianni, e saprò ricompensarti
adeguatamente, vedrai".
"Ok, calmati adesso, Giacomo, farò tutto il possibile per aiutarti, ma non
pensare a me come al detective, piuttosto è un favore che faccio ad una
coppia di amici che mi sta particolarmente a cuore.
In serata mi metterò in macchina e verrò da te; mi racconterai di nuovo
tutto per filo e per segno, con minor concitazione, poi studieremo assieme
il da farsi.
Tu nel frattempo cerca di stare tranquillo, intesi?
So che non è facile mantenere i nervi saldi in frangenti del genere, ma
provaci lo stesso, promesso?
Vedrai che la ritroveremo sana e salva la tua adorata mogliettina".
"Ok, Gianni, sei un vero amico, ti ringrazio infinitamente e ti aspetto
stasera a casa, non mi muoverò assolutamente, dovesse mai telefonare
Giulia…".
Gianni Antinori abbassò il ricevitore e tornò in sala a dedicarsi alla
visione interrotta del film, nonché alla frescura artificiale del
ventilatore a basso costo.
"Gianni, tesoro… chi era al telefono?
Ho sentito che stavi discutendo animatamente…".
La voce di donna proveniva dalla zona doccia del bagno lasciato
semiaperto.
I lunghi capelli neri e bagnati, sparsi in disordine sull'accappatoio, le
conferivano un aspetto ferino ed una carica erotica notevole.
L'apertura nella parte superiore offriva alla vista due seni floridi e
duri innestati su un corpo dalle forme morbide e sinuose.
Una vera delizia per gli occhi, una creatura da sogno che sembrava uscita
pari pari da un numero speciale di Playboy.
"Era Giacomo, amore…si è mostrato molto preoccupato…penso che sia giunto
il momento di tornartene a casa, Giulia".
Tutti i colori del buio
Quello che mi ci vuole, in questa fredda e piovosa serata di novembre,è
senz'altro una presa di Jim Beam riserva speciale.
Sono settimane, ormai, che vado avanti dormendo 3-4 ore a notte.
LUI non mi dà pace, ma lo prenderò, prima o poi, grandissimo figlio di
puttana, dovesse essere l'ultima cosa da fare in quest'esistenza sbilenca,
alla continua e spasmodica ricerca di un centro di gravità permanente.
Dal player mp3 collocato in un angolo seminascosto della piccola sala del
fatiscente loft periferico, - You are too beautiful - di Ernie Andrews mi
accarezza i nervi, rilassandomi in maniera bastevole a dar corso al libero
fluire dei pensieri, alla serenità d'animo che necessita onde tentare
l'impresa di snellire il traffico d'ipotesi che m'ingorga la mente e
sperare, in siffatta maniera, nella possibilità concreta d'individuazione
della giusta pista da seguire per poter arrivare alla carne viva della
verità.
Tre delitti efferati consumatisi in poco più di due mesi, tutti con il
medesimo modus operandi, hanno provveduto a seminare dolore sordo ed
infinito nelle famiglie delle vittime, angoscia nella gente comune,
sconforto e senso d'impotenza fra gli organi investigativi istituzionali,
che brancolano nel buio più assoluto.
Mara Vignozzi, ventitre anni, studentessa alla Facoltà di Economia e
Commercio, single; Adele Vicino, quarantuno anni, casalinga, coniugata
senza prole; Marta Panini, trentadue anni, amministratore delegato in una
locale azienda di laminati d'alluminio, separata, un figlio adolescente.
Tre donne, tre diverse fasce d'età, con occupazioni e stili di vita
differenti, poco o nulla in comune se non il fatto di appartenere allo
stesso sesso.
Bionda la prima, brune le altre.
Non belle, non nella maniera cosiddetta canonica, per meglio dire.
Sui corpi orrendamente mutilati nessuna traccia di violenza carnale, come
ha certificato con sicurezza il medico legale, dottor Guido Panerai, il
quale, nonostante la lunga militanza fra salme sfregiate nei modi più
orripilanti, non riesce ancora, a suo dire, ad abituarsi a quegli scempi.
Come il sottoscritto, d'altronde, imitazione mal riuscita del prototipo
del detective statunitense anni '30-40, sigaretta perennemente penzolante
all'angolo della bocca ed impermeabile dal bavero alzato che ha certamente
conosciuto tempi migliori.
-"Trovi l'assassino di nostra figlia, la prego, noi Vignozzi non
navighiamo nell'oro, ma le garantisco che il suo impegno sarà premiato, le
daremo tutto quanto in nostro possesso, signor Montei.
Scovi il responsabile di quest'incubo, ci aiuti a ritrovare, se non la
pace, almeno un briciolo di serenità derivante dalla consapevolezza che
giustizia è stata fatta". -
No, non è per soldi che esercito questa professione, non è quella la molla
principale; sguazzare nel marciume mi aiuta a placare i demoni interiori,
e poi perché non saprei davvero cos'altro fare.
Il Jim Beam scivola lungo la gola ustionando l'esofago e fermandosi come
una palla di fuoco nello stomaco, trattenendosi ivi a tenermi compagnia.
Fuori, le gocce di pioggia continuano imperterrite a spiaccicarsi sui
vetri della finestra, in un volo kamikaze di particelle elementari d'
idrogeno ed ossigeno anelanti ad una santa morte liquida.
Maledetto bastardo, chi sei?
Dove ti trovi in questo preciso momento?
Magari anche tu dietro alle finestre serrate a guardare la pioggia venir
giù a lavare i palazzoni di cemento di questa città anonima e disumana,
carnaio brulicante di persone perennemente perdute dentro ai fatti propri,
con quintali d'indifferenza cementati nell'anima ad erigere barriere
contro il dolore dell'esistenza.
Il trillo sgarbato del telefono interrompe bruscamente il flusso di
pensieri.
Improvvisamente rammento che avrei dovuto chiamarti.
Lo hai fatto tu.
Balbetto qualcosa, non so come giustificare la mancanza.
Stiamo assieme da anni, le voglio bene, a modo mio, che forse non è quello
che vorrebbe lei, non le basta sicuramente.
A volte non so davvero come faccia ad amare una specie di rottame alla
deriva che gioca a fare il duro a pagamento, rimestando nella merda delle
umane vicende, impiastricciandosi mani, piedi, anima.
Un urto di nausea mi fa precipitare al cesso a vomitare.
Troppo Jim Beam allungato con la malinconia fa male anche ai duri.
La pioggia non smette di cadere, novembre del cazzo.
Ernie Andrews insiste nel riempire la stanza di struggenti note blu; la
sua voce morbida viaggia leggera sul tappeto volante del sax tenore di
Houston Pearson e m' invita a salire per una passeggiata fra le stelle.
Mi appoggio alla finestra con entrambe le mani, il volto riflesso nel
vetro, lacrime che si confondono con l'acqua piovana, con il capo chino
comincio ad urlare.
-"Sento un ronzio nella testa, il solito; sento che tra poco principierà
di nuovo tutto…il calore che sale dal basso ad avviluppare in una spira di
fuoco l'intero corpo…e le voci…si…le voci…le sento chiaramente…sempre le
stesse…poi la vertigine leggera…i passi…i passi…i miei passi stretti in
strada per andare dove…non so…non comprendo…il corpo non risponde più ai
comandi del cervello…deve accadere nuovamente…ed io non posso oppormi…non
posso oppormi…non posso oppormi…quello che deve compiersi si compirà…è
ineluttabile…non posso oppormi…la vertigine…la vertigine…". -
Maria De Sanctis, quattordici anni, studentessa liceale, primogenita di
quattro figli, cranio sfondato con l'ausilio di un pesante oggetto
contundente, ecchimosi sparse su tutto il corpo, seno destro reciso di
netto, nessuna violenza carnale.
Esattamente come le altre tre precedenti, identico modus operandi, stessa
efferatezza ed accanimento sulle vittime.
Il seno tranciato quando le stesse erano ancora vive, presumibilmente,
secondo l'analisi del dottor Panerai.
Bastardo figlio di puttana…cosa cerchi, cosa stai tentando di dimostrare,
agli altri, ma soprattutto a te stesso?
In quali abissi insondabili la tua mente è precipitata e si è perduta?
-"La vertigine, la vertigine…l'ho rifatto…ancora una volta…l'ho rifatto…la
cerimonia di sangue è stata officiata…la cerimonia di sangue…la cerimonia
di sangue…mi sento debole…mi sento debole…passerà…passerà…come sempre…come
sempre…come sempre…ho soltanto bisogno di riposare…dormire il più
possibile…rilassare la mente ed il corpo…tornare in perfetta forma psico-
fisica…fino alla prossima cerimonia…-
Gemma Vicedomini, cinquantotto anni, coniugata, due figli, operaia
specializzata in una fabbrica di pelletteria.
Nessuna traccia di violenza carnale, per il resto solito, macabro,
rituale: cranio sfondato e seno destro tranciato di netto.
E tu, Fabio Montei, detective del cazzo, cosa fai?
Quante morti occorreranno ancora per riuscire a dipanare la matassa prima
che lo facciano gli inquirenti, mandando così in mona l'ultimo residuo
della tua, peraltro già pesantemente compromessa, credibilità
professionale?
Ma fosse solo quello…ormai è diventato un fatto personale, vero, Fabio
Montei?
E' una faccenda fra te e lui, una gara a due in cui le stai prendendo di
brutto; stai nettamente soccombendo ai punti, anche se speri sempre che
l'assestamento del colpo da ko finale sia il tuo.
Francesca La Manna, ventisette anni, single, impiegata in un call center
dellaTelecom Italia.
Superfluo, come sempre, descrivere cosa e come.
Le forze dell'ordine continuano a brancolare nel buio, Fabio Montei e la
bottiglia di Jim Beam sono praticamente diventati amanti inseparabili.
Giorgia Ventura, dieci anni, figlia unica di una coppia di avvocati
residente in una delle zone-bene della città.
Stavolta il bastardo ci è andato giù duro, oltrepassando ogni limite
consentito, ammesso che si possa consentire alcunché in vicende di tal
fatta.
In assenza di seno, chiaramente non ancora sbocciato, il figlio di puttana
si è limitato a tranciare il capezzolo destro, apportando una modifica,
per forza di cose, al suo stile solito.
L'opinione pubblica invoca a gran voce, ormai da tempo, la reintroduzione
nel nostro sistema giuridico della pena capitale per episodi di tale
bestialità; i maìtre à penser dei media pubblici sobillano ulteriormente
la gente comune tramite una copiosa e pressoché ininterrotta produzione di
editoriali e servizi speciali anelanti alla legge del taglione; ondate di
sdegno travolgono da capo a piedi la penisola, come una marea
inarrestabile e devastante.
Sono trascorsi alcuni mesi e LUI non ha più colpito, perlomeno non è stato
rinvenuto alcun cadavere riconducibile ai suoi precedenti abomini.
Evidentemente il pezzo di merda ha ritenuto opportuno starsene accucciato
per un po' di tempo, considerata l'imponente caccia all'uomo dispiegatasi
dopo l'ultimo brutale delitto, quello della bambina, ancor più ignominioso
degli altri, ovemai si possa stilare una classifica di tal genere.
E' furbo, LUI, ha perfettamente compreso che non avrà più campo facile
d'ora in avanti, ed ogni minimo errore potrebbe essergli fatale.
Con tutta probabilità si sarà posizionato in stand-by, in attesa che le
acque si calmino.
Poi tornerà a colpire, quando la stanchezza dei cacciatori comincerà a
farsi sentire.
Da parte mia, in tutto il tempo trascorso dal principio di questa
terribile vicenda, non sono riuscito a cavare un ragno dal buco, ed ho
pertanto maturato la decisione di trasferirmi per un breve periodo in
campagna, nella vecchia masseria lasciatami in eredità dai miei genitori.
Il grande silenzio regnante nella costruzione rurale, circondata dal
marrone delle terre coltivate dal mezzadro che si occupa delle mie entrate
principali e dal verde dei campi circostanti, ha provveduto a infondermi
una sensazione di pace interiore; a permettermi, altresì, di poter
scaricare dal corpo e dall'anima tutte le tossine accumulate in città.
Durante l'intero periodo di soggiorno non ho praticamente toccato la
bottiglia ed ho anche dormito parecchio; in parole povere mi sono
rinfrancato alla massima potenza.
Non ho mai rappresentato un vanto per i miei, il cui vuoto si percepisce
con nettezza girando fra gli enormi saloni della masseria.
Spazi vuoti di parole e di suoni.
Soprattutto quelli lasciati da mia madre, che è sempre stata oltremodo
severa nei miei confronti.
Pretendeva che il sottoscritto, figlio unico sopraggiunto in tarda età,
primeggiasse nella vita, che si facesse strada senza dover mai chiedere
nulla a nessuno, con mezzi leciti e quand'anche illeciti, se necessario.
-"La vita è una giungla"- soleva affermare spesso-, -"e chi si fa pecora
il lupo lo mangia". -
Anna, mia madre, concertista classica mancata e casalinga senza l'ausilio
del focolare domestico.
Ha usato violenza alla mia natura di bambino fragile, tentando in tutti i
modi e con tutti i mezzi possibili di farne un adulto sopra le righe,
astioso ed arrogante nei confronti di quanto e di chi gli si venisse a
parare di fronte nel corso della scalata per la conquista del proprio
orticello ben curato.
Mio padre, Giorgio, d'indole sicuramente più bonaria ed accomodante,
impiegato al Ministero delle Finanze, da sempre abituato a mediare le
situazioni con il buon senso proprio del ceto popolare che con il sudore
della fronte è riuscito a scalare qualche gradino in società, assisteva
allo sconquasso della mia crescita senza trovare quasi mai il coraggio e
le argomentazioni adatte a contrastare la consorte, schiacciato dal peso
della sua personalità autoritaria ed intransigente.
A nulla valevano i timidi tentativi di conciliare i contrasti che di volta
in volta emergevano nel rapporto tra moglie e figlio.
Il risultato dell'educazione impartitami è stato quello di un individuo
venuto su con profondo senso d'inadeguatezza, accompagnato da innumerevoli
conflitti interiori che gli hanno lacerato l'esistenza, impedendogli, di
fatto, il normale corso di una vita regolare.
Un figlio fallito negli schemi esistenziali disegnati dalla madre,
perennemente attaccato alla bottiglia ed alla culla onirica dei propri
sogni infranti.
-"Sono calmo…stranamente calmo…niente vertigini da un pezzo…curioso…
davvero…non sento più nemmeno il solito, devastante, ronzio nella
testa…nemmeno le voci…
Il mio corpo è fresco, così fresco da non crederci, senza quelle orribili
ondate di calore provenienti dal basso ad avviluppare sensi, sentimenti e
capacità di tenere separata la realtà dall'incubo cosciente.
Sto bene…da quanto tempo non mi capitava di sentirmi così…che strana cosa,
davvero…". -
Sono rientrato in città da qualche giorno; il tempo meteorologico è buono,
il cielo sgombro di nuvole ed un sole tiepido mi regalano un pizzico di
buonumore, solitamente latitante in questo periodo dell'anno.
Le strade sono affollate di gente che se ne va in giro per negozi,
bancarelle e mercatini vari.
Il Natale bussa ormai alle porte, e come sempre in questa ricorrenza si è
soliti assistere ad una sorta di vitalità accelerata; una frenesia diffusa
e stratificata per preparare nel migliore dei modi l'Evento o, per meglio
dire, l'attesa dell'Evento.
Sembrerà strano, ma le persone amano più l'attesa di una cosa piuttosto
che la cosa stessa nel momento del suo compiersi.
Io non sono religioso, non nel senso che generalmente si suole attribuire
al termine.
Ho una mia spiritualità; una maniera personale di rapportarmi all'Eterno.
Preferisco rivolgermi a lui a tu per tu, con umiltà, anziché per
interposte persone o modalità prestabilite.
In ogni modo, codesti sono affari legati strettamente alla mia sfera
privata, ed il presente non è il contesto adatto per dare libero corso a
discettazioni in merito.
Il Natale lo trascorrerò a casa mia, con Francesca, la mia compagna,
ovviamente.
Prepareremo una cenetta leggera, irrispettosa della tradizione culinaria
che la festività impone, da consumare a lume di candela, con un bel
sottofondo di jazz vocale a fare da atmosfera a quello che rappresenterà
uno dei nostri rari momenti d'intimità.
Ernie Andrews, Jimmy Scott, Mark Murphy, Jeff Baker, Matt Dusk, Freddy
Cole, solo per citarne alcuni, come preludio ad una nottata vorticosa di
sensi.
Povera Francesca, a volte penso che, con la sua intelligenza unita alla
bellezza fisica ed alla gradevolezza dei modi, avrebbe potuto senz'altro
aspirare ad un uomo di gran lunga migliore di me.
Ancora oggi, a distanza di anni che stiamo assieme, mi chiedo cosa mai le
possa esser piaciuto del sottoscritto al punto tale da conquistarla ed
attrarla finora.
Ci ho riflettuto molto su questo, ed una risposta convincente non è mai
arrivata.
L'eco delle gesta del "mostro" non si è ancora spenta; l'opinione pubblica
non ha metabolizzato l'ennesima storia degli abissi d'aberrazione nei
quali un essere umano può sprofondare.
La paura non è scemata minimamente, sebbene LUI non colpisca più ormai da
settimane.
Sui media, editoriali e talk show si sprecano: tutti ad interrogarsi su
che fine abbia fatto l'autore dei recenti, efferati, delitti.
In Procura i nervi sono tirati come corde di violino.
L'attesa accresce la tensione.
Pochi ritengono che LUI possa non colpire più; ancora meno sono quelli che
pensano possa esser morto, nonostante il silenzio perdurante.
Ad alcuni l'attesa spasmodica di un altro eventuale omicidio addirittura
eccita, pensando all'impennata degli indici d'ascolto delle proprie
tribune televisive.
Qualche esponente politico di destra principia a fregarsi le mani
valutando la faccenda in termini di consensi elettorali; si sa che quando
accadono di queste cose il popolo invoca una maggiore protezione da parte
delle istituzioni e, contemporaneamente,è portato ad assecondare voglie
mai completamente sopite di giustizialismo dal retrogusto primitivo.
Squilla il telefono, allungo la mano destra ed afferro il ricevitore
dell'apparecchio collocato al lato della poltrona dove sono seduto.
Riconosco subito l'inconfondibile voce gracchiante di Gennaro Raimondi,
Commissario Capo in forza al Nucleo Operativo Giovanni Falcone di Via
Palissandri.
In servizio ivi da tre anni, originario di Torre Del Greco, nel
Napoletano, cinquanta anni portati male, scapolo, ventre gonfio da eccesso
di birre e calvizie incipiente, trasferito da Caltanissetta, dove ha
prestato servizio all'incirca sette anni, a causa di una non meglio
chiarita storia di abusi sessuali perpetrati nei confronti di certe
prostitute nigeriane che esercitavano sul territorio sotto la sua
giurisdizione.
Per tacitare le voci di paese e il probabile scandalo che ne sarebbe
risultato, provvedendo a gettare colate di fango sulla credibilità degli
organi di polizia, il prefetto della provincia nissena decise di
collocarlo in altra sede per "meriti di servizio".
Ascoltare un corregionale fa sempre piacere, tranne quando si tratta di un
verme come il Raimondi.
Dialogare nello stesso dialetto ti fa sentire un po' a casa, nonostante
che i miei trascorsi adolescenziali nella terra d'origine siano stati
tutt'altro che edificanti.
Anche io sono un terrone, esattamente come il Commissario Gennaro Raimondi.
Originario di Pompei, città che non ha certo bisogno di presentazioni,
conosciuta ed apprezzata in ogni angolo del globo per le sue mirabilie
archeologiche e religiose, come tanti anche io, anni addietro, infilai la
mia vita dentro una valigia e la valigia dentro a un treno, direzione sola
andata, lasciandomi alle spalle tutti i tepori che fanno della provincia
la trappola e la meraviglia, per dirla con il grande scrittore maremmano
Luciano Bianciardi, ed eccomi qui, parecchi anni dopo, stralunato
cittadino nella metropoli meneghina, capitale morale della nazione, airone
dalle ali bruciate nel luogo geografico che avrebbe dovuto fargli spiccare
il volo planare verso i lidi assolati dell'esistenza.
A conti fatti, Milano mi ha insegnato quasi esclusivamente a stappar
bottiglie una dietro l'altra.
-" Fabio?
Ciao, sono io, Raimondi…". -
-"Ah, Raimondi, ciao…a cosa debbo questa telefonata?"-
-"Beh…sai…non dovrei dirlo ma considerato che stiamo girando a vuoto in
merito alla vicenda dell'assassinio delle sei donne, volevo chiederti se
avessi raccolto informazioni utili alle indagini…". -
-"Raimo'…ma ti sei bevuto il cervello, per caso?
Ammesso che fossi a conoscenza di elementi utili, secondo te li verrei a
servire a voi della Questura su un piatto d'argento?
Così mi sputtanerei il lavoro e voi altri assumereste l'intero merito
qualora riusciste a mettere le mani su quel bastardo.
Dì…mi hai preso per coglione?
Lo sai benissimo che sto lavorando su incarico della famiglia Vignozzi". -
-"Si, hai ragione ma…ecco…vedi…questo è un caso piuttosto insolito,
complesso, ingarbugliato, e la Procura si chiedeva se non fosse il caso di
unire un po' le forze". -
-" Beh, se la metti su questo piano direi che sì, forse sarebbe davvero il
caso di considerare la possibilità di interagire, anche se non credo
affatto che la presente telefonata sia stata sollecitata dalla Procura;
piuttosto penso che sia una tua iniziativa per tentare di fare qualche
passo avanti nella risoluzione del caso e poi gonfiarti come un pavone di
fronte alle telecamere.
Comunque il punto è che nemmeno io sono riuscito a cavare un ragno dal
buco, come si suol dire…". -
-" Ho capito, ho capito perfettamente, Fabio…vaffanculo e come non detto".
-
Il ricevitore sbattuto giù con stizza dal Raimondi mi fa sobbalzare dalla
poltrona.
Caro, vecchio, buon Gennaro Raimondi, mitico sbirro dalle proverbiali
incazzature spesso prive di ragionevole fondamento, come sicuramente in
questo caso.
Evidentemente il Raimondi ha sopravvalutato la mia abilità di detective.
Non ho nulla in mano,è un giro di carte pessimo, Gennaro mio.
Guardo fuori dalla finestra, il cielo si è incupito, grandi manovre da
parte di nuvole incinte d'acqua, a breve pioverà.
Mi sento inutile, perduto, solo come un cane senza padrone, in questa
fredda e bastarda serata di un febbraio da buttare nel cestino
dell'immondizia assieme ai piatti di plastica con gli avanzi di una cena
frugale, la solita di sempre.
Le prime gocce di pioggia cominciano a venir giù, silenziose e subdole,
avanguardia minacciosa e beffarda dell'imminente temporale.
Allungo la mano sul tavolino di fronte alla poltrona e faccio saltare il
tappo della terza bottiglia in meno di due ore.
Pioggia, whisky, lacrime.
Gocce su gocce.
I signori Vignozzi sono una coppia di mezza età, probabilmente coetanei,
almeno alla prima impressione che se ne ricava guardandoli assieme.
Lui, Franco,è un imprenditore di piccolo calibro nel settore edile.
Alto all'incirca un metro e ottanta, capelli e barba sale e pepe, fisico
asciutto e tonico tipico di chi in gioventù ha praticato con assiduità
qualche sport.
Un'eleganza sobria nei gesti e finanche nell'abbigliamento ne fanno, quel
che si dice, una persona attraente ed interessante.
Lei, Maria Imparato, dall'accento che tradisce chiare origini meridionali,
è una figura esile, di una bellezza spigolosa, da apprezzare nei dettagli
piuttosto che nel quadro d'assieme.
Casalinga per meglio accudire la famiglia, dopo un trascorso professionale
di contabile presso un'azienda vinicola del suo paese natìo.
La coppia ha un altro figlio, Giampiero, sedici anni, studente liceale ed
ottimo tennista dilettante.
I tre Vignozzi mi accolgono sull'uscio della loro villetta immersa nel
verde del giardino antistante con profonda mestizia nell'anima.
Lei è pressoché incapace di spiaccicare parola, tremendamente provata
dall'immane lutto chiamata a sopportare.
-" Dovrebbero essere i figli a seppellire i genitori e non viceversa…non è
giusto…è innaturale…"- mi fa Maria con un filo di voce e lo sguardo
profondamente velato di lacrime.
Io annuisco, non so cosa rispondere.
Franco si sforza di praticare i convenevoli di rito della buona
ospitalità, ma si nota lontano un miglio che non ha nessuna voglia di
parlare, non ne ha la forza, le parole gli inciampano fra i denti
faticando a uscire dalla bocca, arrivando, alla fine, fiacche e distorte,
alla meta delle mie orecchie.
Giampiero non parla, se ne sta afflosciato sul divano del salotto come un
pupazzo di peluche stropicciato e abbandonato, con l'espressione
fluttuante nel vuoto come ad inseguire ricordi, fantasmi di una sorella
profondamente amata che non tornerà più a riempire con la sua allegria gli
spazi affettivi di quella grande casa dall'anima ormai dolente.
Il mio imbarazzo è grande.
Purtroppo la professione che ho scelto è fatta anche di questi momenti.
Espongo un coinciso resoconto del lavoro svolto in questi mesi.
Avrei voluto gonfiare un po' il nulla che sto sciorinando, se non altro
per giustificare almeno in parte la parcella che mi onorano, ma non ci
riesco, non voglio illuderli.
Spiego a chiare lettere che sono ben lontano dalla risoluzione del caso;
che la verità veleggia ancora in alto mare.
Loro non dicono nulla, ma è un silenzio che fa rumore.
Raccattano un briciolo di forza soltanto per salutarmi e stringermi
mollemente la mano.
Io balbetto qualcosa, poi a capo chino punto con decisione l'uscita per
mettere quanti più metri possibili fra me stesso e la geometria di un
disagio.
Li saluto allontanandomi in fretta e senza voltarmi da quel pianeta
lontano impastato di sangue, lacrime e dolore infinito.
La decisione di non recarmi in visita ai familiari delle altre vittime è
stata dettata non già dal fatto che gli stessi non abbiano voluto
assoldarmi, come invece si è verificato con i Vignozzi, probabilmente
nemmeno sono a conoscenza della mia attività di investigazioni, quanto
dalla consapevolezza che dai colloqui derivati dagli eventuali incontri
quasi certamente non sarebbero emersi elementi particolarmente illuminanti
ai fini dell'indagine.
Ma il perno fondante della decisione di cui sopra, in tutta sincerità,è
di natura ben diversa; non avrei retto all'urto emotivo del dover
assistere, impotente, a nuovi carichi di dolore in persone comuni chiamate
a una delle prove più dure dell'esistenza: cercare una ragione plausibile
alla morte violenta, con successiva elaborazione del dolore per la
dipartita di un congiunto.
No, ho preferito non incontrarli.
Ho già fatto il pieno dai Vignozzi.
L'auto è imbottigliata nel traffico da più di un'ora.
Sto cominciando a smaniare.
Non sopporto lo stare fermo per più di qualche minuto alla volta in
condizioni normali, figurarsi in questa, di estrema costrizione e senza
via d'uscita (a meno di non abbandonare l'auto ed allontanarsi a piedi) se
non quella di armarsi di pazienza e aspettare, semplicemente.
Inserisco Chante, il nuovo album del batterista e cantante jazz Aldo
Romano nel lettore cd.
Le note de Les enfants s'ennient le dimanche sciolgono un po' la tensione
che mi assale quando vengo a trovarmi in situazioni di disagio che non ho
facoltà di poter gestire al meglio.
Il disco è bello, swingante e melodico.
I brani scorrono veloci, mi piacciono tutti,è raro nelle nuove
produzioni; spendi venti euro per due, tre buone canzoni al massimo, il
resto è rimorso per i soldi buttati via.
E' stato un buon acquisto, il mio portafogli per una volta non fa polemica
con la mia esagerata voglia di musica.
C'è una traccia, la terza della lista stampata sul booklet, in cui
duettano lui e la splendida modella Carla Bruni.
S'intitola Io qui tu lì, e l'aspetto curioso della cosa è quello che, in
un lavoro cantato quasi totalmente in lingua francese, i tre brani in
lingua madre denotano, specialmente in quello sopraccitato, un accento
marcatamente transalpino.
Sembra di ascoltare due francesi che cantano in italiano.
Potenza di una lunga dimora nella patria di Napoleone e Robespierre.
Il traffico è andato un pochino snellendosi, forse sono ancora in tempo ad
onorare la promessa fatta a Francesca; quella, vale a dire, di portarla a
pranzo nel ristorantino nuovo, molto à la page, che hanno aperto da poco
in Via Manzoni.
-" E' un locale piccolo ma intimo, con i tavoli ricolmi di bouchet di
fiori e musica soft in sottofondo.
C'è stata di recente una mia cara amica con il fidanzato e mi ha riferito
di essersi trovata benissimo.
Mi ci porteresti, Fa'?"-
E come potrei dire di no a Francesca; non mi chiede mai nulla 'sta
ragazza, si accontenta di così poco a volte…
Lavora sodo dalla mattina alla sera al servizio di un'anziana signora sola
del centro cittadino, per portare avanti una famiglia con padre invalido
non riconosciuto dall'INPS e madre depressa da anni, pensionati al minimo,
e con un fratello di diciassette anni da mantenere a scuola.
Come faccio a non regalare almeno un'oretta di serenità lontano dagli
affanni quotidiani alla mia dolce Francesca?
Posso offrirle poco ma quel poco desidero porgerglielo su un vassoio
d'argento.
Arrivo a destinazione, lei è ferma sotto al portone di casa ad attendere
pazientemente da una mezz'oretta buona.
Le spiego del traffico, lei sale in macchina e ci avviamo verso un
pomeriggio riservato esclusivamente a noi due.
Allo scadere del tempo libero concessoci dai reciproci impegni sarà la
volta di rientrare ognuno nella propria pelle, nonostante ciò che questo
comporti.
Ma adesso non ho voglia di pensarci.
Mi godo la rara presenza di Francesca accanto e di Aldo Romano che canta
Rue de Douai.
Milano, lentamente, c'inghiotte come un imbuto.
LUI continua a non colpire.
Potrebbe sembrare un fatto positivo all'analisi di un non esperto, però
l'esperienza di chi lavora nel campo insegna che le lunghe inattività, in
questo genere di faccende, spesso rappresentano il preludio a pressochè
sicure ripetizioni dell'azione delittuosa.
Allo stesso modo la pensano i media e l'uomo della strada che li segue.
LUI ha limitato il suo raggio d'azione all'interno della superficie urbana
di Milano.
Sembrerebbe quasi che voglia circoscrivere il territorio pisciandoci
sopra, come usano fare i cani randagi, con un'unica, sostanziale,
differenza: lui non piscia, ammazza.
La paura si è diffusa anche in provincia e, oserei dire, senza tema di
smentita, addirittura nell'intera regione.
Difficilmente la casistica relativa a questo genere di reati denuncia un
decentramento logistico sensibile del soggetto criminale rispetto al
confine entro il quale ha dato corso alle precedenti aggressioni.
A sentire le dichiarazioni degli intervistati ai vari tg, però,
sembrerebbe proprio che il terrore abbia provveduto ad abbattere il
recinto spinato dentro cui era rinchiuso, diffondendosi, così, con la
velocità di un virus in tutto il resto della nazione.
Molti, a tal proposito, i casi risultati successivamente infondati al
vaglio degli investigatori concernenti presunte segnalazioni del mostro,
avvenute nelle località più disparate della penisola.
Personalmente ritengo che LUI viva ed intenda "operare" esclusivamente
qui, nel capoluogo lombardo; ma è una supposizione basata sul fatto che i
sei ammazzamenti si siano verificati tutti entro il perimetro della città
meneghina.
Ovviamente si può sbagliare, beninteso.
Gennaro Raimondi non si è fatto più sentire dall'epoca della telefonata;
evidentemente la mia illazione sul fatto che avesse chiesto la
collaborazione del sottoscritto al caso, per poi probabilmente, a
soluzione avvenuta, accreditarsi l'intero merito e pavoneggiarsi, così, di
fronte a microfoni e telecamere, non fosse poi del tutto infondata.
Colpito ed affondato, vero, Commissario Capo Gennaro Raimondi, aspirante
Questore?
Un altro che presumibilmente mi toglierà il saluto.
La lista è lunga ormai quanto un elenco telefonico.
Siamo a metà marzo e fa ancora dannatamente freddo.
Sono rimasto a corto di capi d'abbigliamento pesanti per potermi difendere
al meglio dagli ultimi assalti del Generale Inverno.
Necessito assolutamente di un impermeabile nuovo, scarpe, maglioni e
quant'altro.
La commessa del negozio è carina ma parecchio fredda e scostante mentre mi
mostra il vestiario da provare.
Prendo due impermeabili, uno bianco per la mattina ed uno blu scuro per la
sera; tre maglioni pesanti di lana pettinata, con il collo a dolce vita e
tre canottiere rigorosamente di cotone per via della mia pelle alquanto
delicata e facile agli arrossamenti, soprattutto con la flanella,
materiale che evito peggio della peste bubbonica.
Passo alla cassa e pago.
Uscendo dallo store rammento improvvisamente che mancano nell'armamentario
qualche ombrello piccolo, di quelli del tipo tascabile, molto comodi al
punto che davvero si possono infilare nella tasca del soprabito, ed un
paio di guanti in pelle per proteggere le mani dai geloni.
Quelli vecchi sono inservibili, bucati in più parti in corrispondenza
delle dita.
Li ho buttati qualche settimana prima.
Ad inizio mese, purtroppo, LUI come ampiamente previsto e temuto,è
tornato a colpire.
Altre due malcapitate, a distanza di pochi giorni.
La prima, Giovanna De Fulco, quarantotto anni, collaboratrice presso uno
studio legale di Via Minturno, coniugata, due figli.
Cranio sfondato e seno destro reciso di netto, con abilità e precisione
quasi chirurgica, nemmeno a dirlo.
La seconda, Chiara Filippi, venti anni, figlia unica, fidanzata, titolare
di un banchetto di frutta e verdura ai Mercati Generali.
Stesso, identico, raccapricciante stile.
Nel secondo episodio, il nono in assoluto, sono emerse delle novità
rilevanti; elementi chiave che lasciano ampi spiragli di ottimismo circa
la risoluzione dell'intricata e sanguinosa storia.
Finalmente si ha la possibilità di ragionare con qualcosa di estremamente
concreto fra le mani.
Il pezzo di merda che, unica certezza degli investigatori, colpisce senza
pianificazione, in maniera assolutamente casuale, stavolta ha lasciato con
tutta probabilità la sua firma genetica sul cadavere dell'ultima
disgraziata capitatagli a tiro: le impronte digitali.
Un errore marchiano, tipico di chi agisce in maniera compulsiva, in un
quadro psichiatrico profondamente alterato.
I periti della Scientifica analizzano gli abiti della vittima di turno,
trovandoci al solito tutta una serie di impronte; quelle della vittima
stessa, in taluni casi quelle dell'addetta alla lavanderia, quelle di un
familiare e di quant'altri possano esservi venuti a contatto più o meno
occasionalmente.
Nel caso specifico sugli indumenti di Chiara sono presenti solamente due
tipi di impronte, le personali ed altre che, successivamente confrontate
con tutto il giro di persone popolanti il microcosmo della ragazza,
risultano essere estranee al suo entourage.
Dunque, le stesse potrebbero rappresentare le impronte dell'altra persona
con la quale ha avuto contatto: il suo assassino.
Riscontro degli schedati nel database delle forze dell'ordine, compreso
alcune estere, ed ore da vivere con il fiato sospeso, nella speranza che
dalla ricerca elettronica spunti un nome ed un cognome che sia quello
buono.
Purtroppo non ne viene fuori nulla di particolarmente utile, con evidente
ed ovvio disappunto dei titolari ufficiali dell'indagine.
Un altro buco nell'acqua, l'ennesimo.
Il pezzo di merda è incensurato.
A questo punto sarà come cercare il classico ago nel pagliaio.
La notte non riesco più a dormire, come già accaduto tempo addietro; mi
assale un'angoscia che vieta di chiedere occhio.
Devo ricordarmi di fare un salto in libreria ad acquistare qualcosa da
leggere per meglio affrontare le lunghe ore da insonne.
Fra gli scaffali di un tempio della cultura qualè, appunto, una libreria,
mi sento sempre come un bambino nel paese dei balocchi.
Tutti quei volumi allineati sugli scaffali, con il dorso rivolto con fare
ammiccante verso i visitatori, quel profumo di stampa che è cocaina pura
per i tossici della parola scritta.
Gironzolando fra i diversi settori numerosi titoli di narrativa,
saggistica e varie si srotolano sotto i miei occhi come un ammaliante
paesaggio rurale filtrato dai vetri del finestrino di un treno in corsa.
Dopo un paio d'ore di dolce stordimento partorisco la difficile scelta
degli album di parole da portare a casa.
Seleziono generi profondamente differenti fra loro.
I miei interessi spaziano dalla narrativa contemporanea a quella
cosiddetta di genere, che è rappresentata dal noir italiano; dalla poesia
classico-moderna alla saggistica politica, quest'ultima di matrice
rigorosamente libertaria.
Metto nel carrellino tre romanzi noir: Faccia di sale, di Eraldo Baldini;
Arrivederci amore, ciao, di Massimo Carlotto; Almost blue, di Carlo Lucarelli, vale a dire i capostipiti moderni del genere, quelli che hanno
meglio raccolto l'eredità lasciata da Giorgio Scerbanenco.
Inoltre tre tomi di poesia: Foglie morte, con testo originale a fianco, di Jacques Prèvert e due antologie ricavate da opere di Nazim Hikmet, il più
grande poeta turco di tutti i tempi, e dell'immenso Cesare Pavese.
Per quanto attiene alla saggistica lascio cadere nel contenitore mobile,
con l'espressione di un bambino appena sorpreso a rubare la marmellata dal
vasetto in cucina, La rivolta libertaria, di Albert Camus.
Pago ed esco.
Mi sento più leggero.
Nello spirito, ma soprattutto nel portafogli.
La decima vittima arriva ai principi di aprile.
Dai documenti rinvenutegli addosso risulta essere Francesca Giovinazzo,
trentasette anni, separata, un figlio di dodici dato in affidamento
all'età di tre ad una coppia di Belluno.
Prostituta lungo il Viale Mazzini, aggiungo io.
Superfluo illustrare lo scempio perpetrato sul corpo.
Sempre lo stesso.
Oramai siamo sull'orlo di un'isteria collettiva; principiano a saltare le
prime teste nei piani alti di Questura e Prefettura.
Il ministro dell'Interno è su tutte le furie.
La tv di Stato manda in onda a reti unificate la diretta dall'aula di
Montecitorio di un'interrogazione parlamentare in merito all'orrore che
sta scuotendo come un fuscello in balìa dei venti di burrasca la già
fragile goletta della coscienza degli italiani.
Proliferano come funghi dopo abbondanti piogge instant-book sul famigerato
ed inafferrabile mostro di Milano; il canale ammiraglio della concorrenza
televisiva avvia la lavorazione di una fiction sull'argomento, sperando
altresì che l'ultimazione delle riprese coincida in ordine di tempo con la
cattura del criminale, per poter scrivere, grazie a ciò, la parola fine e
non già lasciare gli interrogativi aperti che, si sa, fanno mugugnare i
telespettatori e dare, inoltre, parimenti, il via libera alla conta dei
milioni di euro che arriveranno nelle casse dell'azienda dalla raccolta
pubblicitaria che andrà ad infarcire pesantemente la narrazione.
Il solito schifo.
Lo sciacallaggio mediatico sulle disgrazie altrui.
La speculazione sulla morte giustificata dal dovere di cronaca e dal gusto
monetizzante della spettacolarizzazione.
L'etica prezzolata e la professionalità amorale al servizio dell'utente
pagante.
Mando giù un robusto sorso di Jim Beam direttamente dalla bottiglia, poi
la scaravento, vuota, nel cestino della spazzatura.
L'ombra sul muro si staglia minacciosa a presagire l'anteprima imminente
di un nuovo orrore.
Disegna figure distorte, buffe sagome da pittura impressionista sotto
l'anemica luce giallognola dei lampioni ad olio pubblici.
Il motivetto fischiettato come sigla di altro dolore da infliggere per
nutrire il demone personale.
Il bianco e nero sgranato della vecchia pellicola rende la narrazione
ancora più inquietante di quanto non sia già; gli conferisce, in altre
parole, quel senso di sinistra autorevolezza che ne han fatto nel corso
dei decenni un must, cinema allo stato puro, assolutamente da godere,
studiare, suggerire la visione.
L'avrò visto una decina di volte almeno M, il mostro di Dusseldorf, del
grande cineasta tedesco Fritz Lang, con la stratosferica interpretazione
di Peter Lorre nella parte del cattivo uccisore di bambine.
Rivederlo è sempre una malìa, cibo per gli occhi e la mente.
C'entra poco con il mostro di Milano, né per dinamiche d'azione, né per
caratterizzazione psicologica del personaggio principale, tantomeno per
tipologia delle vittime.
Di questi tempi, però, con il bastardo casareccio ancora in giro, guardare
il suddetto film e non prodursi in immediati rimandi e parallelismi è
operazione pressoché impossibile, anche considerando tutte le incongruenze
che il paragone presenta.
Due pezzi di merda, sulla scena del crimine; uno in carne ed ossa e
l'altro di celluloide, impastato con la materia dei sogni, che scorre
sullo schermo fluido come un incubo ad occhi aperti.
Spengo l'apparecchio televisivo, schiaccio il pulsante di espulsione del
dvd dal lettore, estraggo il supporto, lo ripongo nell'apposita custodia e
lo rimetto nella fila di titoli, allineati come soldati in guerra, esposti
in bella vista nel modulo metallico che compone la parete attrezzata.
Infine spengo il lettore.
Fra tutti i libri, i fumetti, i film ed i dischi collezionati avrò speso
una cifra equivalente grossomodo al costo di un miniappartamento in
periferia.
Allo stesso modo, penso che se avessi investito i miei risparmi
nell'acquisto di un immobile adesso non sarei costretto a pagare
l'affitto, come uno degli ultimi coglioni d'Italia.
Ho scelto la prima opzione, però, e sono diventato un sognatore.
Bravo fesso, direbbe qualcuno, ma farei finta di non sentire.
Mi sposto in cucina, afferro un sacchettino di crackers senza sale, alcune
fette di salame e principio a mangiucchiare, accompagnando la pratica con
il conforto di un buon rosso d'annata.
Poi vado in bagno.
Piscio, mi lavo i denti e passo in camera da letto, nella segreta speranza
di riuscire a dormire un po'.
Da sotto il tepore amniotico della trapunta color cielo sereno sento la
pioggia battere violentemente contro i vetri, come non detto.
E' una Milano calata in una luce livida e quasi lattiginosa quella di
questa mattinata di giugno.
Non fa granchè caldo, ma l'azione costante dei raggi solari, mescolata
allo smog ed all'umidità presenti nell'aria, dà corpo e sostanza ad un'afa
fastidiosissima, che fa grondare litri di sudore, rendendo oltremodo
appiccicosa la camicia sulla pelle.
Ieri notte ho fatto un sogno: due fiumiciattoli paralleli, uno d'acqua
rossa e l'altro trasparente che scendevano lungo un sentiero di montagna
fino a culminare all'inizio di una vallata abitata da persone senza volto.
Ad un certo momento i due corsi confluivano in un punto osmosizzandosi in
una sorta di matrimonio liquido, per poi evaporare e scomparire, lasciando
in bella vista solamente un taglio di terra rappresentato dal letto in
secca.
Fermo la macchina nei pressi di un'edicola di Via Roma.
Scendo ed acquisto una copia del Corriere della Sera, come faccio sempre
da anni.
In prima pagina leggo il titolo scritto a caratteri cubitali:
L'UNDICESIMA VITTIMA DESIGNATA DICE NO AL MOSTRO
STAVOLTA GLI E' ANDATA MALE
SFUGGE DALLE GRINFIE DELL'EFFERATO KILLER DELLE DONNE UN'ODONTOIATRA
TRENTENNE, CHE FERISCE IL MOSTRO CON UN BISTURI DA LAVORO
TUTTI I PARTICOLARI IN CRONACA
Dal nostro cronista Piergiorgio Licata
Scorro febbrilmente l'articolo.
Antonietta Mazzei, trentanni, sposata, con un figlio di sei, di
professione odontoiatra, sfugge all'aggressione di un uomo, forse il
cosiddetto mostro di Milano, nelle immediate vicinanze del suo studio
professionale, ubicato in Via Cadorna, al civico numero 18.
Gli inquirenti, raccolta la deposizione della donna, nutrono validi motivi
per ritenere che l'aggressore possa essere messo in relazione con lo
stesso soggetto che da mesi sta seminando lutti e terrore in città.
Ai taccuini della stampa la Mazzei dichiara: - "mi ero attardata allo
studio poiché avevo un po' di lavoro arretrato da completare.
La mia collaboratrice era già andata via da un pezzo e quindi ero rimasta
completamente sola.
In ogni caso avevo provveduto, come d'altronde faccio sempre, a serrare la
porta d'ingresso a doppia mandata, non si sa mai, specialmente in orari
notturni.
Ultimato il lavoro ho guardato l'orologio, constatando, non senza un
pizzico di disappunto, che si era fatto effettivamente più tardi del
previsto.
Fortunatamente mio marito se la cava piuttosto bene con le faccende
domestiche; certamente a quell'ora avrebbe già provveduto a preparare la
cena per lui ed il bambino e, a cose finite, a riassettare la cucina, non
prima di aver messo qualcosa in caldo per il mio rientro.
Ho chiuso, dunque, il laboratorio e sono uscita in strada dove, accostata
al marciapiede di fronte allo stabile sono solita parcheggiare l'auto.
Al momento di aprire la portiera, però, mi sono sentita afferrare da
dietro da una figura ansimante.
Il terrore mi ha assalito, ma non paralizzato nella capacità di reagire
con prontezza di riflessi.
Mi sono difesa arcignamente.
Mentre ero sul punto di soccombere alla forza bruta dell'uomo, che mi
teneva le mani strette alla gola come in una morsa d'acciaio, mi sono
ricordata che nella borsetta avevo un piccolo bisturi che utililizzo di
solito per le incisioni gengivali ai miei clienti.
Con enorme sforzo e con l'ausilio di una sola mano, in quanto l'altra era
impegnata a contrastare la stretta alla gola, sono alla fine riuscita ad
estrarlo.
Con il residuo di forza rimastami glielo piantato nella coscia sinistra;
credo sia penetrato appena di qualche centimetro, però.
L'aggressore ha allentato subitaneamente la stretta ed io sono riuscita
nell'intento di mollargli un calcio ben assestato al basso ventre.
Lui si è dapprima piegato sulle gambe, successivamente ha mollato la
presa, crollando a terra, dolorante ai testicoli e sanguinante per il
colpo di lama ricevuto.
A quel punto ho cominciato ad urlare e sono fuggita via, fermandomi
solamente quando, ormai stremata, ho avvistato una volante della polizia,
ai cui due agenti in servizio ho raccontato, concitatamente, l'accaduto.
E' stato un incubo vero e proprio, da non augurare nemmeno al peggiore dei
nemici.
Al sopraggiungere dei poliziotti sul luogo dell'aggressione - continua
indefessamente la Mazzei - l'uomo era già riuscito a dileguarsi". -
Un ronzio mi prende alla testa, le mani mi sudano, un leggero tremolìo mi
pervade il corpo facendolo vibrare come per una scossa di terremoto
avvertita solo nella mia testa.
I contorni delle strade, delle case, delle automobili, sono sfuocati
mentre tento di rientrare a casa.
C'è una cosa che devo assolutamente fare.
Una verifica.
Fondamentale.
La mano tremante a fatica riesce a guidare la chiave nel buco della
serratura.
Entro nel mio appartamento.
Quello che si deve fare tanto vale farlo subito: abbassarsi i pantaloni.
A metà circa della coscia sinistra la vedo.
Con i contorni slabbrati, larga meno di un centimetro, ma c'è.
Una ferita da arma da taglio.
Quella ferita.
Come in un incantesimo malevolo che si scioglie come burro al sole adesso
mi torna tutto quanto.
Il sangue, l'acqua, i vuoti di memoria improvvisi, il senso di spossatezza
la mattina appena alzato, imputata erroneamente al dormire poco e male.
Il sangue del sogno era il mio, quello che colava lento dalla ferita;
l'acqua quella del rubinetto che sciacquava la coscia, e l'odore aspro e
pungente dell'alcool che percepivo non era whisky bensì alcool denaturato
che stavo utilizzando per disinfettare lo squarcio.
Tutto svoltosi in stato di trance.
Adesso sì che mi torna davvero tutto.
I tasselli del mosaico vanno diligentemente a sistemarsi al giusto posto.
La cruda realtà che torna indietro come un boomerang a rinfacciarti quello
che sei, quello che sei diventato.
E non puoi farci niente, perché non ci sei; tu sei due, che non è somma di
uno ma l'esatto contrario.
-"La stanza gira tutt'attorno…sento un ronzio nella testa…il calore che
sale dal basso…le voci…si…le voci…sento le voci che chiamano…"-
No!
No…maledizione!
Perché…perché tutto questo?
Perché?
-"Le voci mi chiamano…la vertigine…la vertigine leggera…" -
No!
Basta!
Bastaaa…
-"La vertigine…i passi…i passi…non posso oppormi…quel che deve compiersi
si compirà…è ineluttabile…non posso oppormi…non posso oppormi…"-
O forse sì.
Si può.
Uno sforzo, solo un ultimo sforzo, e da eterno perdente puoi ribaltare la
partita.
E' qui la soluzione, in quest'oggetto finemente lavorato denominato
Beretta 21 A calibro 22 LR.
Non è poi così difficile, in fondo.
Morire è facile.
E' a vivere che ci vogliono le palle.
Solleva il cane della semiautomatica e tira, Fabio, tira, non indugiare.
Vinci alla grande la tua ultima gara prima di ritirarti definitivamente
dalle competizioni.
Premi quel grilletto, Fabio Montei, non aver paura, giochi in casa, non
puoi assolutamente perdere.
Il tuo pubblico ti ama, ti incita…lo senti, Fabio…lo senti?
Puoi vederli ad uno ad uno i tuoi tifosi: Mara Vignozzi, anni ventitre,
studentessa alla Facoltà di Economia e Commercio; Adele Vicino, anni
quarantuno, casalinga, coniugata senza prole; Marta Panini, anni
trentadue, amministratore delegato in un'azienda di laminati di alluminio,
separata, un figlio adolescente; Maria De Sanctis, anni quattordici,
studentessa liceale, primogenita di quattro figli; Gemma Vicedomini, anni
cinquantotto, coniugata, due figli, operaia specializzata in una fabbrica
di pelletteria; Francesca La Manna, anni ventisette, single, impiegata in
un call center della Telecom Italia; Giorgia Ventura, anni dieci, figlia
unica di una coppia di avvocati residenti in una delle zone-bene della
città; Giovanna De Fulco, anni quarantotto, collaboratrice presso uno
studio legale di Via Minturno, coniugata, due figli; Chiara Filippi, anni
venti, figlia unica, fidanzata, titolare di un banchetto di frutta e
verdura ai Mercati Generali; Francesca Giovinazzo, anni trentasette,
separata, un figlio di dodici anni dato in affidamento all'età di tre ad
una coppia di Belluno.
Io sono una maschera, e dietro di me c'è un'altra maschera che ne nasconde
a sua volta un'altra ed un'altra ancora.
Fino all'ultima, che è quella che cela la verità che non ci è dato
conoscere.
Una maschera che calza il buio.
Un buio totale, assoluto.
Irreversibile, con tutti i suoi colori.
Notti d'Amburgo
Conosco bene queste notti fredde trascorse ad interrogare lunghi silenzi,
osservando, senza vederla, una candela sottile che si consuma poco alla
volta, come una cena di sempre.
Conosco bene quest'inquietudine che parte dallo stomaco e prende gola e
pensieri, facendo correre alle finestre ad osservare con sgomento il mio
mare d'inverno, popolato solamente da portuali infreddoliti e stanchi.
Conosco bene queste notti d'Amburgo, snocciolate tirando mattina,
ciondolando un po' poeta e un po' ubriaco lungo l'universo colorato e
saggio di bar notturni e amori eterni da pochi marchi.
Conosco bene casa tua, al termine di questo viale di periferia, ma che
vuoi che ti dica,è probabile che non lo attraverserò mai.
Vento d'autunno
Passo le mie giornate seduto ai tavolini di un caffè a scandagliare con
lucidità critica pensieri e sentimenti.
Osservo le persone passare, tutte chiuse in cappotti ed in storie di vita
vissuta o da vivere, e mi sembrano foglie mosse dal vento, vento d'autunno
che secca la pelle e prosciuga gli umori di un'estate già lontana.
Passo le mie giornate cercando di capire se è veramente te che voglio, e
intanto osservo le persone passare e mi sembrano foglie mosse dal vento.
Quanti treni…
Quanti treni son passati lungo la mia stazione, e quante stagioni han
trascinato dietro di sé con la forza risucchiante dell'alta velocità.
Forse le stagioni son proprio come certi convogli che transitano veloci
davanti gli occhi, e danno appena il tempo d'incrociare lo sguardo di una
ragazza bruna di là dal finestrino.
L'aria gelida della sera fa rabbrividire e chiudere dentro un loden blu
scuro acquistato ai saldi di un grande magazzino.
Quanti treni…e quante stagione colorate col rosso vivo di un samba al
chiaro di luna, allacciato stretto a donne mai più riviste.
Quante solitudini affogate in fondi di bicchiere e fermi di polizia per
ubriachezza molesta alle prime luci del mattino.
Anna Luisa, quante volte son partito per la mia ultima frontiera,
ritornando a casa tardi e barcollante di vita pagata a poco prezzo lungo
l'universo triste dei marciapiedi di Rio.
La felicità non esiste, Anna Luisa, lo sai bene mentre abbassi stancamente
gli occhi verdi su una valigia che pian piano va riempiendosi.
Quanti treni…e quanto amore ho dissipato lungo gli angoli della terra,
eterno partente da me stesso.
Azzurro
Azzurro come i tuoi occhi, profondo mare che non navigai, cielo terso di
questa mattina che lentamente cola giù, vernice profumata e leggera ad
inondare il tetto della mia casa in perenne disordine.
Azzurro come te, splendida ed ingannevole dispensatrice di sorrisi, mitra
puntati sulle nostre fragili vite di sognatori all'eterna ricerca di
qualcosa che forse non troveranno mai.
Azzurro come le parole, che racchiudono universi conosciuti a metà, in
bilico fra disordine e pigrizia.
Azzurro come la tua presenza che riempie vuoti del presente, saziando buchi
neri del passato.
Azzurro di momenti magici, di piccole cose che ci mutano in giganti e ci
fan ridere come matti mentre alziamo contro i visi tumefatti le nostre
meravigliose coppe di champagne.
Saudade
Non ci sarà più altro sole che mi scalderà, né altro vento che, sfiorandomi
i capelli, li spettinerà lievemente.
Non ci sarà più tutto un mondo fatto di gesti delicati, parole dolci,
sorrisi, sussurri, sospiri.
Non ci sarà più la voglia di ridere, scherzare, correre scalzi e a
perdifiato lungo le rive di un mare docile ma insensato come noi due
adesso, soli contro un tramonto selvaggio, avido bevitore di poesia
scatenata nell'aria già un po' umida della sera che tra pochi attimi calerà
il suo manto a coprire tutto quanto.
Non ci sarai più tu, pazza e dolcissima ragazza dalla pelle color
cioccolata, che hai saputo regalarmi un'eternità fatta di pochi giorni
solamente.
Fra un po' dovrò partire e la valigia sarà più pesante da portare.
Presto tornerò al mio mondo e alle mie cose di sempre, ma non dimenticherò
mai questi giorni trascorsi con te, che mi han fatto sentire uomo come mai
prima.
In valigia la saudade, saudade di una ragazza carioca che non rivedrò più,
se non nei sogni agitati che farò.
Saudade do Brazil, terra di mistero e magia, di sole caldo che urtica la
pelle e mare tiepido ed accogliente come il corpo di un'amante, di cielo
limpido e samba sotto la morbida luna d'argento che annacqua i cattivi
pensieri.
Ciao, amore, goodbye
Ciao, amore, goodbye.
Chissà, forse un giorno le nostre strade si ricongiungeranno e torneremo ad
essere felici come in questi anni vissuti assieme con gioia e con pazzia.
Ciao, amore, goodbye,
e partono a razzo lacrimoni inarrestabili e caldi come questo schifoso
pomeriggio che ti porta via da me.
Ciao, amore, goodbye,
ti sollevi in volo con un rombo di motori a cicatrizzare il cielo e non ti
vedo più.
Ciao, amore, goodbye,
e credo che mi verrà un gran mal di stomaco da chiudermi dentro casa a
vomitare i brandelli di quest'anima stracciata e pallida come un cencio
bagnato fradicio.
Ciao, amore, goodbye,
e questa è la volta buona che darò fuori di testa, facendo a pezzi la mia
casa ed il mio lavoro; che mollerò tutto quanto e scapperò via, null'altro
conta ora che non ci sei più.
Ciao, amore, goodbye,
me ne andrò scalzo lungo le strade che portano a Phoenix, cercando un po'
di sole che mi aiuti a raccogliere sassi sul selciato, e dormirò sotto un
manto di stelle adagiando la mia stanchezza sopra prati d'erba umida di
pioggia.
Ciao, amore, goodbye.
Mi hai insegnato tanto, sai.
Ho venduto tutto, che forse era niente, e adesso non ho più nulla che forse
è tutto.
Ciao, amore, goodbye,
E per chi mi cercherà ho lasciato scritto sulle rovine della mia casa: la
nave ha lasciato il porto e finalmente ha preso il mare.
Ciao, amore, goodbye.
Legna nel caminetto
Guardiamo la legna che, scoppiettando allegramente e lentamente
consumandosi, si sacrifica per fornire luce e calore a noi due rimasti
seduti in silenzio di fronte al caminetto di una casa vuota e troppo
grande.
"Ci vorrebbe un whisky o un caffè", canta la radio adagiata sul comò.
"E magari bastasse solo questo", arriva puntuale la tua replica a guastare
l'atmosfera, bella o brutta che sia.
E già…è questo che ti distingue: la battuta sempre pronta, l'arguzia
sfrontata e malevola.
Ma chi me l'ha fatto fare d'innamorarmi di te?
Stavo così bene da solo, come un orso che si lecca le ferite e medita piani
di vendetta contro il mondo ostile.
Ma perché ti ho portata nella mia caverna a svernare tra i miei oggetti, i
miei umori e le mie voglie?
Come posso fare per liberarmi della tua presenza invadente e asfittica?
A pensarci bene un modo ci sarebbe; non sarà elegante ma tant'è…
Guardo la legna che, scoppiettando allegramente e lentamente consumandosi,
si sacrifica per fornire luce e calore a me che sono rimasto seduto in
silenzio di fronte al caminetto di una casa troppo vuota e troppo grande.
"Ci vorrebbe un whisky o un caffè", canta la radio adagiata sul comò…e tu
non ci sei più.
Madeleine
E me ne resto qui, seduto in disparte in un angolo di bar, a guardare i
tram e la gente passare e svanire nella variopinta tappezzeria di questa
notte tropicale.
Sono solo e senza più parole; nel corso del tempo le ho utilizzate tutte
quante e così non dico nè faccio niente, limitandomi unicamente con calma
ad un Martini Dry adagiato sul tavolino.
Madeleine, se sapessi solo quanto…
E me ne resto qui, seduto in disparte in un angolo di bar, a guardare i
tram e la gente passare.
Non vi sopporto più
Non vi sopporto più politici, filosofi, opinionisti e preti che avete
sempre un bel vangelo da esibire per fugare gli altrui dubbi e spiegare con
empatica dovizia di particolari il grande progetto umano.
La bussola che da bambino mi avete regalato si è rotta e da adulto sono
diventato un indecente.
Non vi sopporto più borghesi sguaiatamente ricchi ed insolenti, con il
vostro cibo al sicuro nei supermercati.
Siete inutili come i vostri soldi in banca, gli antifurti, i gioielli e le
automobili di lusso.
Che il futuro sia dei saltimbanchi, dei pazzi, degli ubriachi e dei
buffoni.
Che il futuro sia tuo, che sei innocente come un animale e impaurito come
un bambino appena nato.
Amore e croissant
Io parlavo d'amore e tu ti ingozzavi di croissant, in quel bar di adulteri
nel tardo pomeriggio di qualche mese fa.
Uscito di casa con i pianeti confusi e tutto sentimentale, mi ero fermato
all'angolo a comprare rose tattiche per piacerti di più.
Capelli impomatati e papillon, eau de toilette a volontà, fasciato in un
rigato grigio da perfetto gagà, mi piaceva quello stile demodé.
Fischiettavo gaiamente un motivetto jazz old style, il mondo sembrava fatto
apposta per me.
Fiduciosamente, per le mie doti di charmeur, ritenevo, pensavo e credevo…ed
emozionato per primo arrivai.
Dopo circa tre ore giungesti tu.
Mi costò una cifra tutto quello Chardonnet d'attesa.
Poi finalmente parlai e tu ridesti, io zittìì e tu ridesti ancora, io di
nuovo parlai e tu zittisti anzichenò.
E finì lì il sogno del mio grande amore, soffocato da un chilo di croissant
all'albicocca, una mezza dozzina di babà al rhum e qualche milione di lire
in svariati cadeaux.
C'est la vie, e arrivederci alla prossima, mon amis.
Tardo pomeriggio di luglio
Tardo pomeriggio di luglio.
Afa.
Zanzare.
Tapparelle abbassate completamente.
Shirley Horn che alita amore dal lettore cd.
L'elica del vecchio ventilatore non vuole più saperne di girare.
Io non so più dove stia andando la mia vita.
Schiaccio i miei demoni su questo foglio cercando risposte che so già non
arriveranno.
E non so più che pesci pigliare.
Qualcosa non ha funzionato.
Forse sarà stato il troppo orgoglio, la voglia matta di libertà,
l'ingenuità nel credere alle chimere.
Non so cosa sia successo di preciso.
Mi ripeto spesso di vivere con intensità il presente ed a volte ci riesco,
mentre altre sento il tempo scivolare fra le dita e correr via come un
purosangue che ha appena spezzato le briglie.
Librati leggera fra le nuvole di fumo di sigarette che regalano una
parvenza di cielo al soffitto di questa stanza verniciata di blu e canta,
Shirley, non ti fermare, canta come solo tu sai fare…per un'ora almeno, poi
si vedrà..
Tardo pomeriggio di luglio.
Malinconia.
Sotto la pelle sento il sangue fluire come fiumi sotterranei che
giungeranno all'approdo naturale del mare.
Sono ancora vivo, nonostante la vita, ed il sole, dopotutto,è sempre lì
appeso, con la luna che anche stasera arriverà puntuale a prenderne le
consegne.
Intanto giù in strada è ripreso il traffico con la sua consueta sinfonia
straniata di motori e clacson; i negozi riaprono lentamente i battenti; i
pedoni riprendono a calpestare i cubetti di porfido dei marciapiedi.
Sembra tutto normale in quest'ultima estate del millennio, proprio tutto
regolare.
La grande sfera irregolare continua imperterrita a girare.
La risposta giusta
Stavo cercando disperatamente un antidoto contro quella malattia fortemente
debilitante che è la vita (scusate la banalità); un qualcosa capace
d'incendiare l'esistenza come un cerino, che avesse la capacità di fare
uscire di casa urlando come matti ad abbracciare le persone per strada, a
regalare l'abilità di produrre capriole in mezzo al traffico nell'ora di
punta ed a conferire fiato a sufficienza per correre a perdifiato fin sotto
le finestre di casa tua ed invitarti ad una giornata al mare.
Ma questo rimedio non si trovava da nessuna parte, e fu così che presi a
vagare come un cane senza padrone lungo le vie e le città del mondo, fino a
quando non ebbi la ventura d'inciampare negli occhi di un vecchio clochard
seduto ad un angolo del marciapiede.
Egli, in un baleno, seppe leggere sul mio viso tutto il tormento che
m'attanagliava.
Mi invitò a sedere accanto a lui e mi raccontò di sé e dei suoi trascorsi
esistenziali.
Alla fine s'alzò lentamente e s'allontanò, salutandomi con una serenità
nello sguardo che sembrava una sintesi di secoli.
In un attimo compresi quel che non ero riuscito a leggere fra le righe in
tutta la mia esistenza fino a quel momento.
E pensare che era così semplice…la soluzione ai miei affanni davvero a
portata di mano.
Sono i sogni ed i sentimenti la vera ricchezza della vita, la risposta
giusta, l'unico antidoto realmente efficace contro le sue brutture.
Ritornai, allora, senza indugio alcuno, sui miei passi.
Avevo molte situazioni da recuperare.
Mi accompagnava in quel lungo viaggio di ritorno una nuova grande
consapevolezza, ed ero certo che la battaglia sarebbe stata dura.
Mi sentivo forte, però, stavolta.
Pronto a pugnare con la generosità ed il coraggio di un guerriero dotato di
armi nuove, forgiate unicamente di parole buone, gesti concreti, slanci
generosi.
Cronaca di un'estate cronica
Credevo di avere il mondo in pugno ma le mie tasche ospitavano
semplicemente 350.000 lire.
Non era certamente una grossa cifra, ma tutte quelle lirette assieme in una
volta sola non le avevo mai possedute.
L'estate era scoppiata all'improvviso, con tutto il suo carico di caldo e
umidità.
Il mondiale di calcio stava vivendo le battute conclusive.
Feci un rapido calcolo delle spese che avrei dovuto affrontare e risolsi
che quello rappresentasse il momento più propizio per allentare i cordoni
della borsa.
Per prima cosa mi recai dal mio barbiere di fiducia a rasarmi i capelli a
zero: mi dava un senso di pulizia, di onestà, mi faceva sentire un uomo
nuovo, con rinnovate energie e progettualità.
Ultimata l'operazione Yul Brinner, ciondolai soddisfatto di fronte
all'ingresso della stazione ferroviaria e m'infilai in una cabina per foto
tessera.
Avevo la carta d'identità scaduta da un anno e mezzo e dovevo senz'altro
rinnovarla, altrimenti per la Repubblica Italiana sarei stato considerato
alla stregua dell'uomo invisibile.
Sortito che fui dalla cabina, con le quattro foto-cinquemila lire ancora
fresche in mano, sorbii un caffè con poco zucchero in un bar nelle
vicinanze, quindi m'avviai a passo lento e con aria smagata ed indolente
verso la libreria dove ero solito incazzarmi perché non riuscivo quasi mai
a trovare i volumi che m'interessassero.
Entrai e ne uscii con i libri che avevo in lista e con un'aria stupida e
stupita a causa del grande evento verificatosi.
Trattatasi di noir di ambientazione italiana: almeno avevo provveduto ad
assicurarmi brividi di freddo nelle lunghe giornate calienti che
m'attendevano.
Successivamente mi recai in videoteca, e con il mio tesserino magnetico di
socio prelevai qualche film in cassetta.
Poi, ancora, varcai la soglia dell'abituale negozio di dischi ed acquistai
alcuni cd nuovi di jazz singers.
In ultimo, estremamente soddisfatto dei supporti culturali che avevo fatto
miei, tornai lesto lesto a casa.
Le 350.000 lire erano, dunque, già quasi terminate, l'estate, invece, aveva
appena allargato le sue fauci.
Mi preparavo ad affrontarla con lo stato d'animo di un guerriero antico che
parte per pugnare in una feroce tenzone ma presto s'accorge con sgomento di
non avere armi a sufficienza.
Ne avevo superate di peggiori, in ogni modo.
La mattina la trascorrevo al bar sotto casa, stravaccato ai tavolini a
sorseggiare birra, il pomeriggio, dopo pranzo, leggevo un po', guardavo
qualche vecchio film in bianco e nero di sir Alfred Hitchcock, ascoltavo
jazz con le persiane abbassate e con la mano nei paesi bassi che andava
ritmicamente su e giù.
Sognavo amori impossibili mi assopivo una mezz'oretta.
Nel tardo pomeriggio era la volta della mountain bike, ancora un pizzico di
bar e poi di nuovo su per la cena.
Infine la notte ed i giri in macchina verso spiagge ovviamente deserte a
prendere il bagno in costume adamitico con gli amici, le nigeriane da
prendere in giro, i progetti per il futuro da concretizzare.
Avevo da poco superato la trentina e me la stavo prendendo decisamente
comoda.
La villeggiatura estiva non sapevo proprio cosa fosse; le mie erano, per
così dire, "ferie itineranti", da consumarsi in lungo e in largo la regione
Campania: un po' qui, un po' là, senza spendere quasi nulla…in altre parole
oculate, splendide, misere vacanze intelligenti.
Era quella la mia vita: pochi mezzi ed una vagonata di sogni da realizzare.
Cominciavo seriamente a credere di averlo preso nel culo.
Donne niente…inteso dal punto di vista sentimentale, tipo brava ragazza,
fidanzamento ufficiale, pranzo domenicale con le paste dai suoceri…e cose
di questo genere.
Il mio rapporto con l'altro sesso era costituito perlopiù da rare scopate
senza particolare soddisfazione con persone incontrate per caso e con
meretrici di colore a basso costo.
I giorni trascorrevano veloci, attorcigliandosi su se stessi al punto tale
che la mia vita sembrava essersi trasformata in un'intricata matassa da
sbrogliare.
Ero preoccupato di stare buttando via il mio tempo.
Ma ero ancora giovane, il cazzo mi tirava discretamente, dovevo far
qualcosa.
Ero certo che tutti si fossero trovati, ad un certo punto della propria
esistenza, in quell'empasse, e che, per venirne fuori, avessero deciso di
fare il grande, solenne, decisivo passo: farsi coinvolgere dalla società,
entrare nelle sue pieghe più profonde e complesse, cercarsi un buon impiego
e, assecondando un disegno assai preciso, successivamente sposarsi, mettere
al mondo dei figli, cambiare l'automobile, contrarre il mutuo per la casa,
stipulare una vantaggiosa polizza di assicurazione sulla vita, programmare
con buon anticipo le ferie d'agosto e poi attendere serenamente la
sospirata pensione.
Mi trovavo in un tunnel senza uscita apparente, lo sapevo bene, ma forse
fuori era ancora peggio.
Probabilmente anche "i più" dovevano aver riflettuto seriamente su questo
aspetto invero poco trascurabile.
Poi, tra frizzi, lazzi e vari scazzi alla prima pioggerellina d'agosto
l'estate s'avviava a morire.
I vacanzieri ritornavano, abbronzati e felici come maiali nella merda, ad
affollare le città; i negozi riaprivano i battenti, il traffico si faceva
di nuovo caotico.
L'umanità tornava sui suoi passi, la disumanità riprendeva in mano il suo
scettro.
Io ero semplicemente un inoccupato con tendenze alla divagazione.
Quando fuori il mondo riprendeva la sua corsa io correvo a tapparmi nel
cesso di casa e principiavo a menarmelo con calma olimpica, aspettando che,
presto o tardi, venisse anche per me il turno di andare al macello.
Una banale storia d'amore
Nel portafogli solo 10.000 lire e due schedine del totogol.
Addosso un pantalone verde militare e una camicia a righe bianche e nere di
flanella pettinata; al collo un ascott grigio; ai piedi scarpe di gomma
marrone con rivestimento interno di pelliccia bianca.
Fuori ci sono le feste di Natale.
Dal lettore cd Chet Baker mi regala la frenetica - frenesi -.
Avvolto da un coat lungo color fumo di Londra, occhiali scuri, Borsalino in
testa, esco di casa.
Mi sento di buon umore.
Non ne avrei molti motivi ma sono contento.
Giù nella strada che mi ha visto nascere e muovere i primi passi verso la
vita, fra pochi minuti passerà una colf polacca.
La guardo sempre quando percorre il marciapiede con la sua aria austera,
dignitosa, vagamente snob.
Lei risponde ai miei sguardi lanciando occhiate di sottecchi, pudica,
sorridendo leggermente.
Oggi mi sono deciso: le farò un cenno discreto con la mano e l'inviterò nel
mio bar preferito, in mezzo a tante foto in bianco e nero di Totò appese
alle pareti.
Strizzerò l'occhio al mio barista e mi farò dare le chiavi del separè.
Poi tra un whisky ed un caffè le parlerò un po' di me.
Io, senza lavoro da sempre, sognatore maltrattato, poeta da quattro
soldi…quest'oggi son contento, perché tra poco la vedrò.
Lei, venuta dal freddo e dagli orrori della storia, fra miracoli di miserie
e macerie, domestica vitto - alloggio e poco altro al mese.
"Mi piacerebbe prenderti per mano e condurti dolcemente in quel posto
segreto dell'esistenza dove si scatena l'anima e si rimescolano solitudini;
in quella terra lontana e magica, impastata con la materia dei sogni, dove
a trionfare è sempre il cuore.
Se crederai un po' in me mi darai quel che il mondo non mi ha dato mai…e il
mio mondo comincerà con te…e il mio mondo finirà con te".
E anche questa è fatta
Esco in strada da solo, per fare quattro passi in centro.
Entro in un bar, ordino un caffè Hag.
Lo bevo amaro.
Poi accendo una sigaretta, ne aspiro un paio di boccate e riesco in strada,
totalmente a disposizione di questa notte fredda e umida.
Mi nascondo nel cappotto con la speranza che nessuno mi riconosca.
Non ho voglia di parlare né di sorridere né di fermarmi.
Vorrei che mi lasciassero in pace.
Nel bar c'era folla e nessuno si è accorto di me, per fortuna.
Prendo a passeggiare lentamente guardando le vetrine dei negozi addobbate
per Natale.
Mi piacciono ma non mi fanno venire in mente niente.
Proseguendo lungo la strada giungo nei pressi di un ipermercato.
Nonostante l'ora tarda c'è un gran via vai di persone che entrano ed
escono, trasportando sui carrelli ogni ben di Dio.
Facce sorridenti, soddisfatte, felici, pregustando l'Avvento.
Persone che fanno il presepe, l'albero, che comprano e ricevono regali, che
si siedono a tavola schierati come un esercito in guerra per il cenone e
mangiano, bevono, scorreggiano, eruttano, ridono, piangono, pregano,
bestemmiano.
Più avanti scorgo una bancarella abusiva di botti.
Un tizio s'avvicina e ne compra un po'.
Gli chiedo perché li spari.
Lui si volta lentamente verso di me e con le lacrime agli occhi e la voce
rotta dall'emozione mi risponde: "per dimostrare che esisto".
Proseguo il cammino e, alcuni minuti dopo, noto un vecchio seduto sul
marciapiede all'angolo di una strada, che chiede l'elemosina.
Mi chino su di lui e gli chiedo il perché (mi rendo subito conto d'aver
formulato una domanda sciocca).
Lui mi fissa intensamente negli occhi e con un fil di voce mi sussurra: "
perché la società non perdona chi fa della propria vita un sogno.
Essa mi ha scaraventato come un peso morto fuori dai suoi meccanismi
stritolanti.
E' stata poco indulgente con la mia voglia di libertà, con la volontà ferma
di non voler scendere a patti con le sue regole ricattatorie.
Ma ora, nella mia infinità povertà di mezzi, posso dire d'esser ricco e
libero, finalmente".
Ho continuato a vagare per la città consumando per intera la notte,
incrociando il passo con generali pluridecorati e pluriassassini; manager
con tanti denari e zero cuore; signore e signorine col corpo e l'anima
vendute al miglior offerente; puttane da marciapiede dai sogni ancora
vergini, con figli da tirare su e montagne di dignità da vendere.
E poi ancora preti senza più Dio che raccontano enormi balle a folle
adoranti, e moderni santi laici soli contro tutto e tutti, mossi da un
immenso amore verso il prossimo e sistematicamente ignorati e derisi.
La legge del branco
Solo i ricchi sono liberi.
Per la gente comune libertàè solo una parola svuotata di significati.
Per sopravvivere la "plebe"è costretta a scendere di continuo a
compromessi, con tanti e su tanto.
Deve fare ogni santo giorno la sua brava marchetta.
E' bene imparare a fingere se si vuole tenere almeno la testa fuori da
questo immenso mare di merda denominato consesso civile.
E' bene ridere quando tutti ridono, piangere quando tutti piangono, celarsi
o manifestarsi a seconda delle convenienze, seguire acriticamente la
maggioranza per non correre il rischio di segnare il passo e restare
indietro e soli in una società volgare e cinica che non obbedisce alle
leggi del cuore ma solo a quelle del branco.
Non tenete conto dei precedenti suggerimenti sul come affrontare la vita ed
i rapporti interpersonali.
Essi sono stati formulati con l'intenzione di fare del sarcasmo (come spero
si sia capito).
Se, invece, decidiate di prenderli in considerazione e nondimeno di
metterli in pratica…bè…con un pizzico d'impegno potreste diventare presto
dei provetti mediocri.
Ogni giorno c'è sempre qualcuno pronto a farci la lezioncina; consigliarci
su questo o su quello; l'idiota di turno che per stare meglio ci scarica
addosso le proprie frustrazioni; l'entusiasta a oltranza della vita che ci
guarda intensamente negli occhi e ci parla con enfasi di felicità private;
il coglione in agguato ad esortarci, per il nostro bene, a stare con i
piedi per terra ogni qualvolta possiamo manifestare un desiderio; il
conformista dall'anima spenta che gode nel rosicchiarci le ali…
Io non sopporto la gente che non sogna.
Sono stufo di questi nani.
La mia rabbia è grande e per sbollirla mi ci vogliono giganti.
Ho spento la tv, non leggo più i giornali, quando noto delle persone che
discutono sulle problematiche "alte" mi allontano in tutta fretta.
Mi tengo a debita distanza da opinionisti ed intellettuali da salotto.
Alla larga anche da parenti e conoscenti.
Nella mia vita c'è spazio unicamente per la mia famiglia e qualche amico
veramente tale.
Niente di più.
Se sono riuscito a restare a galla ed a rimanere me stesso durante questi
anni fastidiosi lo devo in parte alle mie passioni un po' infantili, ai
sogni di feto adulto, ai princìpi d'onesta con sé stessi e con gli altri,
all'idealismo radicato e radicale, alle chimere di libertà, alle utopie
possibili, al ballo sfrenato sopra il filo sospeso dei giorni un po' così…
Ho sfondato a calci e pugni la pesante porta della mia prigione privata e
sono corso fuori.
Finalmente fuori.
Pronto ad affrontare la vita con calmo coraggio.
Pronto a rivedere il sole.
E' domenica
E' tutto così tremendamente normale, non si muove una foglia, nessuno batte
ciglio.
E' tutto così amorfo, grigio, stagnante, tremendamente quotidiano.
Ma come possono le persone vivere così?
Cammini per strada e t'assale un senso d'angoscia, di claustrofobia; un
magone che non riesci a mandar giù.
Entri in un bar, ordini un caffè.
Non sai che fare, dove andare, chi vedere.
Sali in macchina e giri, giri, giri a vuoto nel niente delle città,
macinando chilometri di asfalto e solitudine.
E vedi insegne al neon di negozi, fari d'automobili davanti, di dietro, di
fianco, di sopra, di sotto, di fuori, di dentro, accendini che brillano sui
marciapiedi, squarciando angoli notturni, illuminando ad intermittenza
figure ammantate d'oscurità.
C'è luce, tanta luce nelle città, ma è fasulla, inequivocabile splendore di
morte.
Parcheggi la macchina e riprendi a camminare, da solo, ancora da solo,
sempre da solo, con lo sguardo stranito, con i mal di testa continui.
Cammini, cammini…avrai percorso cinque chilometri almeno, incrociato
centinaia di persone ma nessun essere umano.
La domenica finirà.
La folla rincaserà andandosene a letto per affrontare, riposata, un'altra
settimana di lavoro.
Otto ore di sonno, otto di lavoro, otto di tempo libero, ventiquattro di
niente.
La società ti coinvolge, ti mastica, ti sputa fuori.
E tu non rappresenti nulla, soltanto un minuscolo ingranaggio in un grande
meccanismo stritolatutto; l'anello di un'infinita catena che una volta
logorata si butta via senza rimpianti né rimorsi.
Tutt'attorno a questa giornata di fine inverno si ride, si grida, si
passeggia, si corre, si sale, si scende, si vince, si pareggia, si perde.
Tutt'attorno.
Io fuori.
Ad esplorare la circonferenza di qualcosa che non comprendo.
E giro in tondo senza trovarne l'ingresso, senza volerlo trovare.
Sto bene, sto male, sto così.
E' solo domenica sera, passerà.
Una giornata qualsiasi
Il sole è già alto nel cielo, caldo e arrogante come solo qui al sud sa
essere.
Un altro giorno d'estate a rompermi i coglioni.
Mi alzo dal letto tutto intontito, sbadiglio, mi stiracchio, inforco le
ciabatte e vado al cesso.
Piscio.
Poi prendo una tazza di caffè, freddo, come tutte le mattine.
Preparato alle 08.00 da mia madre.
Sono io che sono in ritardo, che m'alzo tardi, molto tardi.
Da troppi anni il primo caffè della giornata è ostico da mandar giù.
Accendo lo stereo al massimo, avvisando del mio risveglio l'intero
condominio, tanto quelli già non mi sopportano…una bestemmia in più cosa
volete che sia?!
Mi vesto lentamente.
Spengo l'hi-fi e mi tiro la porta alle spalle.
Scendo al bar.
Ordino un caffè caldo ed ascolto il cazzaro di turno vomitare le sue
stronzate di metà mattina.
Poi faccio un salto all'edicola a prendere il giornale: dò un'occhiata ai
titoli giusto il tempo necessario a disgustarmi.
Ritorno al bar e gioco la schedina.
Indi trotterello fino al bancolotto e scarico i miei sogni notturni
legandoli a qualche terno: chissà che un colpo di culo, un giorno o
l'altro, non possa farmi decollare, destinazione Paradiso.
Lavoro niente.
Non posseggo soldi a sufficienza per poterlo comprare e non ho nemmeno la
lingua adatta per leccare culi.
Qualcosa ho provato a fare, ma mi hanno sempre "pisciato in mano" e fatto
sgobbare il triplo del dovuto, come si usa dalle parti dello scrivente.
Ritorno a casa che è ora di pranzo.
Mangio senza grande appetito, lanciando di tanto in tanto occhiate
distratte alla tv.
Dopo poche forchettate agli spaghetti aglio ed olio mi alzo da tavola e
ritorno a letto.
Leggo un po', poi ascolto musica dalle cuffiette.
E' certamente il momento migliore della giornata.
Una pausa di isolamento che fa bene alla salute.
Nel tardo pomeriggio mi scollo dal letto inzuppato di sudore e faccio una
sortita in garage.
Tiro fuori la mia mountain bike e pedalo a zonzo per la città sonnolenta e
bastarda di quest'agosto inutile.
Qualche bel culo che non è andato a sciacquarsi in villeggiatura lo si vede
sempre, per fortuna.
Dopo un paio d'orette sono di ritorno e faccio la doccia.
Successivamente mi sforzo di cenare.
Con la tv spenta forse ci riesco.
Ad un certo orario immancabilmente suonano al citofono.
Sono i miei amici, i pochi che ancora mi sono rimasti.
Devono essere, per questo, un po' matti.
Mi vesto velocemente mentre loro aspettano giù al portone.
Stampo un bacione sulla fronte al mio splendido nipotino, una delle poche
cose belle di questa vita di merda, e scendo in strada.
Facciamo un largo giro in macchina attorno al niente del circondario,
toccando con mano le bestialità ed il cinismo dei nostri simili.
Io e i miei amici donne niente.
La nostra pressione è troppo bassa per poter godere delle loro grazie.
Sesso bricolage per me ed i miei amici.
Niente sentimenti e niente fica.
Solo sogni bagnati ed anni che passano veloci.
A notte fonda ritorniamo alle rispettive abitazioni profondamente depressi,
il che non costituisce di certo novità.
Mi spoglio, rimango in mutande.
Attivo il ventilatore.
Accendo la tv.
Nel videoregistratore infilo la cassetta di un film noir in bianco e nero,
così sto bene per un paio d'orette.
Terminato quest'ultimo resto solo con me stesso e la notte stellata di San
Lorenzo, che regna superba e maestosa appena un po' più in là della mia
finestra spalancata.
Con la rabbia che sale sollevo lo sguardo a spiare la luna degli innamorati
e la mando a fare in culo.
Alla fine prendo carta e penna e vi scrivo 'sta cosa.
A settembre si vedrà
Mi alzo dal letto, tutto sudato e intontito dal caldo di questo luglio
incazzato.
In mutande ed a piedi nudi mi sposto in cucina a bere qualcosa di fresco.
"Ma 'sto cazzo di frigo è sempre vuoto?!".
Verso l'acqua del rubinetto nella formetta di plastica per il ghiaccio e la
introduco nel freezer, aspettando che si formino i cubetti.
"Ma quanto tempo ci metti, freezer?!".
Accendo la tele: c'è una chiromante tutta infarinata e ingioiellata che
mescola un mazzo di carte per i gonzi; poi un'asta di pentole in offerta a
800.000 lire, che se le compri ti regalano una mountain bike, una
macchinetta per il caffè espresso e ti mandano pure in vacanza per quindici
giorni alle Seychelles.
Poi, ancora, una ragazzotta abbronzata, tutta culo e tette, che pubblicizza
una nota marca di automobili.
Spengo la tele.
Accendo la radio.
Sento la voce di Silvio Berlusconi.
Spengo la radio.
Torno in cucina.
Apro il freezer: il ghiaccio finalmente è pronto.
Ne verso alcuni cubetti nel bicchiere colmo fin quasi all'orlo: l'acqua
schizza fuori bagnandomi la faccia, ed un moto di leggero incazzamento
principia a montare dal profondo.
Poi bevo a garganella.
Ritorno nella stanza da letto.
Inserisco un cd nel lettore: Laura Fygi con il suo jazz morbido ed elegante
si propaga come un profumo inebriante in tutto l'appartamento.
Così va bene, Laura, sei al solito splendida, come cantante e come donna.
Ho appena perduto il lavoro.
Francesca, quando glielo rivelato, mi ha mandato a fare in culo.
Ho provato a spiegarle che non era colpa mia, ma mi ha mandato a fare in
culo ugualmente.
Che grande storia d'amore la nostra: tutta legata al filo del portafogli.
Stronza, tre anni della mia vita fregati.
L'avessi saputo prima…i soldi che ho scialacquato per assecondare i suoi
capricci me li sarei mangiati e bevuti con il primo mignottone che mi fosse
capitato a tiro.
Ma che accidenti di caldo fa oggi…non si respira proprio.
Mi metto addosso un bermuda ed una t-shirt, poi inforco un paio di zoccoli
e mi chiudo alle spalle la porta.
Scendo giù in garage, tiro fuori la vecchia moto dolorante di anni e
chilometri sfangati e me ne vado al mare.
Si, al mare…e vaffanculo Francesca, vaffanculo lavoro perduto.
A settembre si vedrà.
Splendido splendente
Era una tarda mattinata di giugno, sul finire del millennio.
Il sole picchiava a martello sulla testa dell'occidente opulento e
peccaminoso.
Io ero un italiano del sud; in quel periodo eravamo da poco diventati
europei e, quindi, a ragion veduta, potevo senza dubbio considerarmi
anch'io un europeo, del sud, ubicato dalle parti del bacino del
mediterraneo, antica culla di civiltà ed ora interessante embrione di
un'altra civiltà, più moderna e funzionale, improntata fondamentalmente sul
principio dell'usa e getta.
Era una tarda mattinata di giugno, dicevo, quando entrai in un bar con la
solita aria smagata e sonnacchiosa.
Ordinai un caffè, mi sedetti su uno sgabello e attesi.
Mi facevano compagnia, al solito, le mie sorelle maggiori: sorella
depressione e sorella ipocondria, che pesavano come macigni sulla mia
esistenza, impedendomi il normale corso di una vita regolare.
Un tizio strafatto di birra seduto lì accanto mi chiese, con aria,
ovviamente, pesantemente alcolica, cosa ne pensassi degli esperimenti
atomici avviati da India e Pakistan…
Io risposi, con aria sempre più indolente, che erano affari che non mi
riguardavano e che, in ogni caso, esse avevano il pieno diritto a
realizzarli, considerato che tutte le grandi potenze occidentali o
filo-tali si erano già tolte lo sfizio di sentirsi simili a Dio.
Fa parte dell'evolversi naturale del processo di pace nel mondo, continuai,
armarsi per farsi paura vicendevolmente; annullarsi, in altre parole, in un
nulla di fatto atomico.
Poi arrivò il caffè, nero, bello fumante.
Lo sorbii con voluttà.
Quindi scesi dallo sgabello e accesi una Marlboro di contrabbando.
Il tizio mi aveva dato ragione, si vedeva subito che la birra tracannata
era di buona qualità.
Adesso stava russando con la testa appoggiata al bancone.
Pagai anche per lui, poveraccio, i test atomici lo avevano evidentemente
sconvolto, e mi avviai verso l'edicola dei giornali: dovevo incartare
l'insalata a casa e la stampa italiana, pulita e asettica, avrebbe fatto
ottimamente alla bisogna.
Eravamo a pochi mesi dai mondiali di calcio e il senso della patria
navigava a vele spiegate.
Le italiche genti sortivano eccitate dagli ipermercati con tanti televisori
nuovi di zecca: 14 pollici, 28 pollici, 48 pollici…io al pollice destro
avevo un'unghia incarnita che mi procurava un male cane.
Faceva caldo; gli esperti indicavano l'anno come uno dei più torridi del
secolo.
Molti uomini politici in quel periodo si stavano adoperando in tutti i modi
possibili per potersene andare al fresco in santa pace.
Ad un tratto ricordai che dovevo chiamare Claudia, bionda, spumeggiante,
dagli occhi azzurri come il cielo terso d'agosto, dai seni prosperosi e
dolci come le colline di Fiesole.
Era la mia ragazza.
L'avevo deciso da solo dopo una notte insonne dell'inverno precedente.
La chiamai da una cabina pubblica: tre squilli e un "pronto, chi è?"sinuoso
e stordente dall'altro capo del filo.
Misi giù lentamente, senza proferire una parola, come al solito.
Era troppo per me quella meraviglia del creato…non la meritavo proprio e
poi sarei andato incontro sicuramente a seri problemi di gestione e
bilancio se mi fossi messo con lei veramente, pensai, mentre davo delle
vigorose smanacciate al contenitore delle monete, sperando in quella
maniera nell'improbabile fuoriuscita di qualche spicciolo.
Alla fine risolsi, dopo svariati tentativi andati a vuoto, che quella non
era la slot machine, bensì la Telecom Italia, che notoriamente non
restituisce niente a nessuno.
Faceva davvero caldo in quel giugno da prendere a schiaffi, e la vita non
era certo uno swing.
C'era da pagare l'affitto, fare la spesa, salutare i condomini per le
scale.
No, non era per niente agevole cavalcare i giorni della quotidianità
cercando l'equilibrio giusto per domarne le ore ribelli e imbestialite come
un puledro selvaggio, spietate ed inutili come un lavoro fisso dalle 08.00
alle 17.00; sgradevoli e patetiche come le parentele alla tavolata di
Natale.
Intanto, mentre elaboravo queste considerazioni da premio Nobel dei poveri
per la filosofia spicciola, il caffè del bar aveva provocato un
imbarazzante effetto collaterale nel mio organismo…
Dovetti accelerare il più possibile il ritmo della falcata onde guadagnare
in fretta le mura amiche.
Una corsa snervante contro il tempo vinta al fotofinish per qualche decimo
di secondo…( sic!).
Tra una scarica di diarrea e l'altra riflettevo sulla vita in generale, e
mi sembrava di aver imboccato un tunnel senza uscita.
Terminata ch'ebbi la santa e meravigliosa funzione corporale, lanciai
un'occhiata fugace all'interno della tazza…poi, tirando lo sciacquone,
considerai, non un senza un pizzico di malinconia, che se ne stava andando
la parte migliore di me.
Hana - bi
Gocce di pioggia, spremuta amara di nuvole sporche, si stampano sui vetri
della mia finestra.
Dentro la stanza la pressione è assestata su valori medio-bassi.
Nell'aria s'inseguono liquide e languide le note di "trust in me", di Mark
Murphy e Sheila Jordan.
Ed eccoci qui, tutti insieme appassionatamente, nel teatrino dei figuranti
del terzo millennio, cominciato già da più di due mesi.
Marzo malinconico tirato su a litri di caffè, con i pensieri che rimbalzano
pigri sulle pareti scrostate ed ingiallite dal fumo di migliaia di
sigarette, e che ritornano addosso così velocemente da doversi scansare per
non soccombere sotto l'urto dei tanti chili di vita passata, perduta,
rimpianta, sognata, amata, odiata.
Credo proprio che arriveremo nei più segreti anfratti del cosmo, infileremo
capsule nei buchi neri dell'universo probabile, sveleremo misteri e magie
che da sempre fanno a pugni con il raziocinio…credo proprio che andrò a
scaldarmi una brioche nel fornellino elettrico ottenuto con i punti del
Mulino Bianco.
Intanto ha smesso di piovere, il cielo ha riacquistato il colorito
naturale.
Fuori, in basso, molto in basso, il traffico veicolare ha ripreso a far
sentire il suo bestiale ruggito.
Un po' più su, proprio qua dentro, fra la cucina e la camera da letto, il
vento non soffia e la barca non può navigare.
Un fuoco d'artificio che fa cilecca, hana-bi, come dicono i figli del sol
levante, come lo splendido film di Kitano visto ieri sera in cassetta e che
mi ha preso al cuore e allo stomaco, regalando la sensazione d'esser ancora
vivo nelle lacrime appena accennate.
E la penna prende a scivolare veloce e leggera sui fogli…uno, due, tre…e
voilà,è questo, forse, il vero dramma della mia esistenza: buttare via il
tempo ad imbrattare carta invece di lavorare; sognare sempre quell'astronave
che possa un giorno atterrare dolcemente nel cortile condominiale e
portarmi via con sé in un fantasmagorico spettro di luci e colori, fino
all'ingresso di un enorme ed improbabile videogame fatto di stelle filanti
e pianeti rotanti, misteri rivelati e magie continuate, buchi neri
esplorati e sogni inossidabili.
Firenze
Martedì mattina di fine luglio.
Aspettavamo il furgoncino che avrebbe dovuto prelevarci restando seduti ai
tavolini del solito bar.
Non ne potevamo più.
Il sud ci aveva scavato dentro a fondo, asportandoci tutta la voglia di
vivere, a poco a poco, giorno dopo giorno, anno dopo anno, e ne erano
trascorsi tanti, quintali di esistenza gettata via, persa in un vuoto
pneumatico, nell'assenza più totale di un benché minimo progetto di vita.
Eravamo sfiniti.
Bisognava svoltare a tutti i costi.
Le valige rigonfie davanti ai piedi, sorseggiavamo un ultimo caffè
napoletano nell'attesa.
Il Fiat Fiorino grigio, con i vetri fumè, arrivò con alcuni minuti di
ritardo.
Sistemammo i bagagli a bordo e salutammo l'umanità di nostra appartenenza.
Era fatta.
La macchina si avviò nella calura opprimente, i finestrini aperti
lasciavano presagire un po' di sollievo durante il tragitto.
Partimmo alla volta di Firenze che eravamo ormai alla disperazione.
Cinquecentoventinove chilometri ci separavano da una nuova vita; il candido
Giglio avrebbe dovuto rappresentare il riscatto da un'esistenza fatta di
stenti e privazioni.
La radiosa città di Dante e di Lorenzo il Magnifico era già entrata
prepotentemente nei nostri cuori; l'Arno già fluiva potente nelle vene,
mescolandosi al sangue avvelenato dai troppi anni trascorsi nella provincia
di Napoli, striscia di territorio carogna e senza possibilità di redenzione
alcuna.
Sulle nostre bocche il grido - vaffanculo sud - era diventato una canzone
d'amore.
Il Fiorino macinava chilometri di asfalto bollente, noi tre ci guardavamo
in viso senza parlare, consapevoli di stare facendo per la prima volta
qualcosa di realmente fondamentale per noi stessi.
Di tanto in tanto il silenzio imperante nell'abitacolo era rotto da qualche
frase scherzosa in un toscano napoletanizzato, così, tanto per ridere un
po' ed allentare la morsa della tensione che sembrava averci assalito man
mano che si apprestava la meta.
Poi qualche sorso d'acqua, una sigaretta, il verde maestoso dell'Umbria che
sfilava come fotogrammi veloci sotto i nostri occhi di emigranti di fine
millennio convinti che indietro mai.
L'autista, nonché titolare dell'impresa per la quale ci accingevamo a
prestare la nostra opera, era riuscito ad ottenere una serie di subappalti
in Toscana e ci aveva assoldato in qualità di elettricisti.
Io svolgevo la mansione di aiuto, non conoscendo il mestiere, ma la paga
era comunque ottima.
Non ci fece mai domande sulla nostra vita privata, mi piacque la sua
discrezione.
Quel viaggio si stava ormai trasformando in qualcosa di simile ad una
iniziazione.
Ce ne rendemmo ben conto.
Cominciavamo a respirare aria pura, lontani da quel che eravamo prima;
proiettati in una dimensione nuova, che non ci apparteneva, ma che avremmo
fatto tutto il possibile per rendere nostra.
Arrivammo a destinazione a pomeriggio inoltrato; l'adrenalina era alta, la
stanchezza perfettamente controbilanciata dal senso di euforia che ci
pervadeva.
Ci sistemammo in un residence in periferia, spartano ma pulito.
Una doccia, il disfacimento delle valige, il cambio d'abito ed eravamo
pronti a misurarci con i nuovi noi stessi.
Ci recammo a cena, su indicazione del datore di lavoro, già pratico della
zona, in una trattoria ubicata a pochi passi dal nostro alloggio.
Una cena frugale a menù fisso: carbonara per primo e per secondo una
caprese, il tutto innaffiato da una mezza minerale o da un quartino di
bianco, a scelta.
Poi al lavoro.
Si dovevano sostituire le plafoniere di un parcheggio a quattro piani
sotterraneo alla stazione centrale.
C'era da lavorare per parecchi mesi.
Era la prima notte, quindi l'affrontammo di petto, come si suol dire.
Volevamo fare bella figura; che non dicessero le solite cose sui
napoletani.
Lavorammo sodo e con buoni risultati fino alle otto del mattino seguente.
Infine uscimmo nell'aria frizzante di Santa Maria Novella ad attendere il
14, bus che ci avrebbe riportato ai letti del meritato riposo.
Respirammo forte quell'aria che ci stava salvando il culo.
Eravamo stanchi ma soddisfatti.
Di tutto.
Del lavoro svolto, della cortesia dimostrataci, ma soprattutto di noi
stessi.
Ci sentivamo finalmente uomini liberi, avevamo spezzato le catene, eravamo
a cinquecentoventinove chilometri lontano dalle miserie e dalla schiavitù
del meridione; distanti anni luce dalle logiche clientelari, dalla
leccaculaggine, dallo sfruttamento, dalla mancanza di rispetto,
dall'arroganza, dall'omertà, dal terrore, dalla speculazione edilizia, dal
racket, dalla cultura mafiosa, dai preconcetti, dai pregiudizi, dalla
cazzimma atavica imperanti nel buco del culo del Belpaese.
Ci trovavamo in un altrove quasi metafisico per noi che provenivamo da un
cesso di regione.
E ci piaceva, avevamo finalmente cominciato ad intonare la nostra canzone
d'amore.
"Firenze Santa Maria Novella scusa, volevo farti una sorpresa…", cantava
Pupo negli anni '70; adesso la interpretavamo noi, stonando anche un po',
ma chi se ne fregava, era bella lo stesso.
Di mattina si dormiva per recuperare le energie; di pomeriggio si sortiva
in centro: Piazza della Signoria, il Duomo, gli Uffizi, Pontevecchio con le
sue botteghe artigiane e le canoe sul lungarno.
Al termine il 14 con rientro.
Doccia, cambio d'abito e cena al solito locale, il Charlie's.
E di nuovo garage e lavoro.
Ci andava bene, percepivamo una paga normale per il tipo di prestazione
fornita, ma a noi sembrava di esser stati investiti dalla dea Fortuna.
Andò avanti così per circa una settimana.
Poi il fattaccio: il concittadino imprenditore ci disse che non poteva più
sostenere l'alto costo del nostro mantenimento, ragion per cui saremmo
dovuti tornare a casa.
Parole come pietre.
Seguirono giorni di grande rabbia, delusione, malinconia.
Eravamo nuovamente nella fogna, stringendo nelle mani i frammenti
impalpabili dei nostri castelli in aria.
Come tutte le cose, però, anche il malumore, pian piano, andò
stemperandosi.
Restava l'amarezza per una grande occasione sfumata.
Abitavamo ancora una volta all'Inferno, ma con la consapevolezza che il
Paradiso era a portata di valigia: sarebbe bastato rifarla e ripartire non
appena si fosse presentata una nuova possibilità.
Quel viaggio ci aveva svezzato; non più legati morbosamente alle sottane di
mammà, ma uomini, uomini veri in grado di gestirsi con coraggio e
responsabilità.
Fu questo il grande regalo che Firenze ci fece.
Il sogno proibito di una sogliola
Sognava, la sogliola, mari puliti che si potesse guardare dal fondo il
cielo; rive senza più subdoli arnesi da morir d'inganno; larghi senza
barche dinamitarde; niente più reti e arpioni.
Sognava, la dolce sogliolina, che i pesci grandi non mangiassero più i
piccoli, che non puzzassero dalla testa.
Sognava un mare diverso, una vita diversa, profondità di anarchie
realizzate almeno lì, dove l'azzurro si rovescia diventando verde come la
speranza di un futuro migliore.
Era il sogno proibito di una sogliola malinconica che, dopo tanto dibatter
di pinne,è finita surgelata in un frigo di città preso a rate e che adesso
è qui, di fronte a me, con i suoi grandi occhi sgranati e senza più luce,
che guarda senza più guardare, fritta in un piatto, con contorno di
insalatina mista.
Corvo di Salaparuta
Stanotte, in preda ad un delirio alcolico, ho cercato un po' di ristoro nel
sonno.
Giunto, dopo un fastidioso viaggio in groppa ad un cavallo alato, fra le
braccia morbide ed accoglienti di Morfeo, ho visto poeti che guadagnavano
miliardi con le proprie poesie; imprenditori senza scrupoli che andavano in
giro con le pezze al culo; politici che dicevano sempre la verità
nell'interesse della nazione; militari in carriera alle prese con problemi
di coscienza; donne che giudicavano gli uomini per quel che erano e non per
la grassezza del loro portafogli; uomini che trattavano le donne come
esseri umani e non soltanto come contenitori dentro cui iniettare torrenti
di sperma; il terzo mondo così ricco da mettersi a dieta per non
schiattare.
Ho visto me stesso finalmente sorridente, senza più fragilità e paure.
Ho visto…
Ho visto…
Ho visto…
Poi mi sono svegliato con lo stomaco in fiamme ed un possente mal di testa.
Un urto di nausea mi ha riportato alla realtà facendomi correre al cesso a
vomitare.
Dalle feritoie delle tapparelle abbassate si annunciava una nuova giornata.
Ricomponendomi con un po' di sforzo, mi sono vestito con calma e sono
uscito, per sputare ancora una volta in faccia al sole.
My love went to London
Il mio amore arrivò in aereo da Londra in un mattino carico di nuvole dalle
minacciose promesse.
Io non possedevo una lira e studiavo il modo migliore di trascorrere la
settimana con lei senza che si accorgesse che i miei sax non suonavano più.
Avevo intuito da lungo tempo che la vita fosse tutta una colossale
stronzata, che i nostri giorni sono regolati da meccanismi che non
riusciamo a comprendere ma che penetrano sottopelle in maniera subdola,
facendoci credere che il dolore è necessario per portare avanti l'umanità
in questo viaggio in cui c'è poco da ridere anche se sembra tutto da
ridere.
Eravamo due anime in pena, Shirley ed io, che si sorreggevano
vicendevolmente per la paura fottuta di tutto quel che ci potesse essere
all'infuori di loro.
Da bambino avevo studiato da sognatore, ottenendo splendidi risultati; da
adulto ero diventato l'ultimo della classe nella materia della vita.
Non mangiavo in ristoranti alla moda, non indossavo cravatte firmate e non
guidavo automobili potenti; i condomini, incrociandomi per le scale, mi
salutavano con sufficienza, il salumiere sotto casa mi faceva strani gesti
con le mani aperte, congiungendo pollici ed indici a mo' di cerchio.
Si, gli indici di gradimento stavano proprio precipitando.
Io chiedevo solo amore, i creditori volevano solo i soldi.
Avevo la pressione bassa e continui mal di schiena, ma sembravano dettagli
trascurabili in confronto ad una paventata crisi di governo che ci avrebbe
resi tutti un po' più poveri, costretti a tirare avanti, come si dice, a
furia di "perete e pernacchie", ma non mi lamentavo più di tanto.
In fondo ero pur sempre un sognatore professionista che nei momenti bui
poteva rifugiarsi nel proprio universo segreto, fatto di fiumi di latte e
verdi vallate percorse al galoppo da bianchi puledri in libertà.
Mi ritenevo, tutto sommato, fortunato: possedevo una terra da favola e non
pagavo alcuna tassa.
Trascorremmo una settimana serena io e my darling.
Lei era come me, si entusiasmava per poco, cosicché fu facile mascherare i
miei squallori di lungo corso.
Avevo poco più di trentanni, un mucchio di sogni nel cassetto e il cazzo
sempre duro.
A Shirley andò bene così.
La mia pazzia
L'unica cosa alla quale aspiro veramente è quella di essere lasciato in
pace.
Non ho un gran rapporto con gli esseri umani, e meno vedo le loro facce
meglio è per tutti.
Amo tutto ciò che non parla: genesi di magnifico silenzio, vuoto pneumatico
di rumore, estasi che rinfranca lo spirito.
Desidero starmene da solo a cercar di domare questa tigre che mi cavalca la
schiena; a schiacciare i miei demoni su carta picchiettando come un ossesso
i tasti di questa macchina per scrivere fuori produzione.
E' questa la mia pazzia, perdonate.
Circumvesuviana
Ti guardo.
Tu mi guardi.
Io ti fisso proprio.
Anche tu mi fissi proprio.
Sei bella, lo sai bene e ci giochi pure.
Io chi sono, un povero disoccupato ormai anche un po' in là con gli anni,
senza quasi più sogni e senza nemmeno l'automobile.
Tu sei giovane, vesti bene, devi essere figlia di un medico, di un
ingegnere, che so…?
Io scrivo poesiole che potresti ridere di me.
Tu con le tue feste, i tuoi amici, le vacanze in Sardegna, un superattico
in centro, gli studi in Inghilterra…
Io in due camere e cucina e la Circumvesuviana da solo per andare al mare.
Poi il vagone si arresta ad una fermata.
Tu scendi senza voltarti neppure.
E io proseguo questa corsa verso il nulla, portando a spasso le mie miserie
fino alla solita spiaggetta.
Passaggio a livello
A piedi, fermo ad un passaggio a livello.
Ferme anche le macchine, qualche motorino e un paio di signore con le borse
della spesa.
Cinque minuti di vita, di realtà che rallenta piano fino ad immobilizzarsi
nello spazio circostante al passaggio ferroviario.
Mi guardo attorno, tutti si guardano attorno, con circospezione, come a
scrutarsi, a spiarsi, a respirare la stessa aria, forse gli stessi
problemi, le stesse angosce, gli stessi sogni.
Poi il treno, fischiando con prepotenza, passa veloce, riportando tutti ai
propri obblighi.
La sbarra si rialza, a strattoni, lentamente.
I motori si riaccendono.
E si riparte, tutti assieme, in simultanea, come se non fosse successo
nulla.
Amici
Un amico mi disse: "in questo paese le persone oneste stanno tutte con il
tubo del gas alla bocca".
Un altro amico mi disse: "conosco molte persone sposate che non sono
felici".
Un altro ancora mi disse: "la tecnologia fra non molto sostituirà
completamente il lavoro umano".
Io ero onesto, lavoravo in un'azienda di robotica e mi ero ammogliato da
poco.
Mi grattai le palle pensando che a casa gli operai avevano appena terminato
d'installarmi la cucina nuova.
Anni di merda
Anni di merda, di fottute incomprensioni, di amori mai svelati, di chimere
di lavoro, di gioventù buttata via a rincorrere sogni ed utopie.
Anni di freddo e umidità penetrati nelle ossa, di caldo soffocante che
spappola i pensieri e non fa dormire.
Anni di politica carogna, di esistenze innocenti prima depredate e poi
umiliate.
Anni volati via a sentir sempre le stesse parole, gli stessi eterni
discorsi, ad affrontare a mani nude i vigliacchi atteggiamenti della
cosiddetta gente comune.
Cos'è rimasto del guerriero dentro me, di quel dolce ma battagliero
libertario di provincia, inadeguato e felice delle proprie scelte
minoritarie, gonfio di sogni e di progetti da realizzare?
Eccolo qui, adesso, alle soglie del terzo millennio, lo sconosciuto Don
Chisciotte moderno che ha perduto nuovamente la sua battaglia contro i
mulini a vento.
Eccolo l'avvocato delle cause perse, che a trent'anni e più scrive ancora
poesie e sogna un mondo libero e giusto.
Guardatelo il campione delle scelte controcorrente, guardatelo bene, oggi
goffamente arrotolato in una Gibaud per i dolori reumatici, con la
bottiglia di Maalox e le bustine di Aulin a tenergli compagnia.
Anni di merda che forse saranno lavati via quando si troverà la forza di
tirare lo sciacquone.
Per quanto mi riguarda io resto un sognatore, perché non so fare altro.
Chi è chi?
La combustione fra sogni e malinconie genera un fuoco liquido; un fuoco
esistenziale che non arde e non brucia.
Il mio fuoco esistenziale, miscela improbabile di passioni terrene e lampi
d'irrazionalità.
Sono fuori tempo massimo dalla vita, fuori anche da ogni schema
precostituito, già nudo senza aver raggiunto alcuna meta.
Ho trascorso un'intera gioventù senza amore, sono agnostico ed anarchico,
amo i poeti maledetti, il cinema d'essai, il jazz e la bossanova, ho
operato sempre scelte minimaliste rimanendo in minoranza su tutto.
Preferisco la luna al sole, la montagna al mare, il bianco e nero al
colore, ma non etichettatemi come semplice bastian contrario, non è quello.
Gli altri mi trovano simpatico, tranquillo, affidabile; le donne mi
considerano come uno che trasmette sicurezza.
A me fa male la schiena, ho una cervicale che mi affligge da anni, qualche
reumatismo sparso qua e là in ricordo di un passato più o meno recente
speso a praticare su me stesso un remake povero di Easy rider.
Chi è chi?
Chi è cosa?
Chi sono, da dove vengo, dove sto andando?
Inizio d'autunno
Inizio d'autunno.
Pomeriggio dell'immediato dopopranzo.
Gocce di pioggia si spiaccicano silenziose sui vetri della finestra
sollecitamente chiusa.
Mia madre lavora china alla macchina per cucire.
Mio fratello ripara meticolosamente un hi-fi.
Io invece scrivo.
Per schiacciare i miei fantasmi; farmi beffe in qualche modo della
solitudine scontrosa unica compagna di viaggio.
Dal lettore cd Dulce Pontes mi rapisce col suo dolce e triste fado
portoghese.
Sogno di andare via.
Via da tutto.
La mia astronave non è ancora arrivata.
Sono anni che scruto attentamente il cielo sperando ogni volta di poterla
scorgere da qualche parte a farsi largo nel traffico di stelle, per
atterrare morbidamente in uno sfarfallio di luce nel cortile di casa mia.
Nell'attesa bisogna pur fare qualcosa per ingannare il tempo, come
travestirsi da uomo e navigare per le strade d'ogni giorno sforzandosi di
parlare e di ascoltare, di non parlare e di non ascoltare.
Disturbo alla quiete
Anche quest'altra estate volge al termine.
Niente lavoro.
Niente donne.
Niente fica.
Un deserto di prospettive.
Una città del cazzo.
Pochi amici rimasti, con uscite serali che ormai si avvitano stancamente su
se stesse.
A casa stiamo stretti: due stanze per quattro persone, l'India ci fa un
baffo.
Quando ci incrociamo in cucina dobbiamo addossarci al muro per poter
passare.
Passare per andare in fretta e furia dentro ad un cesso buono solo per i
puffi.
Poi c'è troppa polvere, il materasso dove da anni adagio i miei incubi
pullula di acari.
La schiena mi fa male.
La testa mi fa male.
Lo stomaco brucia come l'antica città di Troia.
Tutto questo mentre due splendidi nipotini mi strillano in continuazione
nelle orecchie.
I sogni ad uno ad uno scivolano dalle dita e s'infrangono contro gli scogli
del quotidiano.
In questa vita sbiadiscono i colori.
E' diventata proprio dura.
Vorrei incazzarmi, gridare a squarciagola tutto il mio disprezzo per il
mondo e per me stesso, ma è vietato disturbare la quiete.
A che serve alzarsi la mattina, lavarsi, vestirsi, parlare, ascoltare,
bere, mangiare, ridere, scherzare, uscire di casa, dire le bugie e le
grandi verità, soffiare un "ti amo" a qualcuna e mandare qualcun'altra a
cagare.
Che senso ha fare a botte per poi stringersi la mano, aspettare sotto un
sole cocente o sotto una pioggia battente questo benedetto bus delle 09.00
che non arriva mai.
Che senso ha, che senso abbiamo quando imprechiamo all'indirizzo degli dei
per esser finiti in un pantano.
Confessioni di un codardo
Mi alzo tardi, come al solito.
Appoggio a terra prima il piede sinistro, poi lentamente il destro.
Lo faccio da anni, mi dà sicurezza.
Poi vado al cesso e piscio.
In cucina un sorso di caffè.
Freddo.
Preparato da mia madre molte ore prima.
Non mi lamento.
Sono io che sono in ritardo.
Su tutto.
Prima sigaretta e hi-fi a volume altissimo.
Bestemmie degli inquilini del condominio.
Sempre le stesse.
E' incredibile come le persone siano così povere di fantasia.
In stato di simil-trance mi vesto, spengo tutto quel che c'è da spegnere e
mi tiro la porta alle spalle.
Bar sotto casa: un altro caffè, un'altra sigaretta.
Mi fermo sempre una mezz'oretta per constatare in quale forma fisica si
trovi l'umanità.
Anche stamattina non registro miglioramenti sostanziali.
Poi mi reco a piedi all'edicola più vicina, indi al bancolotto, poi non so
più cosa fare di preciso…ma per fortuna c'è sempre qualcosa che mi salva
dall'oblio esistenzial-urbano.
Ritorno a casa, pranzo in silenzio, successivamente mi chiudo nella mia
stanza a scrivere, leggere, ascoltare musica, sognare un'astronave che
possa venire a portarmi via.
Il mondo nelle prime ore del pomeriggio è lontano, se ne sente soltanto lo
sferragliare ovattato.
E' sicuramente il momento migliore della giornata.
Purtroppo passa.
E' nella logica delle cose, d'altronde.
A metà pomeriggio mi alzo dal letto.
Quando c'è mio nipote usciamo assieme per andare alle giostre.
Lui ne è felice, me lo dimostra con ampi sorrisi e gridolini di gioia.
E io sto bene.
Sto veramente bene con lui, e lo lascio correre a perdifiato su quel poco
di verde rimasto nel parco comunale.
Gli lascio fare quel che desidera perché probabilmente fra qualche anno non
potrà più, assorbito dalla vita adulta.
Mi chiedo come sarà una volta entrato nel mondo, quello vero.
Cerco di non pensarci più di tanto.
Quando non c'è trascorro il pomeriggio facendo cose di nessuna importanza,
oltre alle attività citate poc'anzi.
La sera arriva puntuale come una cambiale in protesto.
Con tutte quelle stelle, quella luna e quella brezza che sembra promettere
chissà cosa.
Cena leggera davanti al tg delle 20.00, da veri masochisti, io e i miei
familiari.
Dopo viene sempre qualche amico a prendermi per uscire.
Scendo le scale del mio stabile centenario, pronto ad attraversare la notte
come un uccello impaurito e schifato di tutto quanto.
Del lavoro che manca, di una lei che se n'è andata via con un tizio in bmw,
di questa città malefica e sempre uguale a se stessa, del poco spazio che
ho a casa mia, di questo caldo tunisino che ammorba anche i pensieri, di
questa esistenza che prosegue la sua corsa scivolando imperturbabile e
senza praticare sconti lungo la falsa sacralità di un binario morto.
Rientro a casa che è quasi l'alba.
Per fortuna tutti dormono.
Vado al cesso e vomito un altro po' d'alcool e un altro po' di dignità.
Poi apro i rubinetti e trascino il corpo sotto il dolce stordimento della
doccia fresca.
L'acqua che scorre sciacqua via quel che resta, indifferente, matematica,
aristocratica, erotica, santa e puttana.
Ed io sotto di lei, assente, lontano anni luce, con la testa abbassata a
scrutare, senza vederle, le mattonelle del pavimento.
Ed essa continua a venir giù, implacabile e sempre uguale, con i suoi
miliardi di atomi antipatici lungo quest'ammasso di ferraglia.
Scivola senza pietà su questo poco di buono.
Sciacqua via la sbornia ed i sogni infranti.
Esco, bisogna uscire prima o dopo.
Infilo l'accappatoio, le mutande, il letto ed il sonno arriva anche per me.
Tic, tic, tic
Un uomo solo seduto alla scrivania in un angolo della piccola stanza
illuminata da un sole a strisce che come un fiume chimico e malevolo
straripa senza vergogna attraverso le feritoie delle tapparelle abbassate
per metà.
Viaggia questa luce indecorosa attraverso il microcosmo silente del
meriggio di controra napoletano, sorprendendo il pulviscolo galleggiante
nell'aria pregna di fumo di Marlboro e cogliendolo in flagrante nel suo
fluttuare da finta astronave in viaggio da millenni alla ricerca di
risposte.
Un uomo solo batte sui tasti di una vecchia macchina per scrivere: tic,
tic, tic…
Batte dello schifo del mondo, di tutta la merda che c'è di là da quella
finestra socchiusa.
Rantola sui tasti di tutto quel che c'è da mandar giù e da metabolizzare se
non si vuole rimanere esclusi.
Egli lotta tutti i giorni e con tutte le sue forze per far parte di quella
merda.
Perché fuori non si può restare.
E tic, tic, tic…scrive, riscrive, strappa i fogli e li appallottola con
rabbia e con rabbia corre al cesso a vomitare pezzi d'anima avariata, e
vorrebbe essere lontano un milione di chilometri da tutto quanto.
E una febbre lucida gli sale dalle viscere: vorrebbe far qualcosa, gridare,
spiegare, rompere, scappare.
E tic, tic, tic…e i suoi amici si sistemano, si sposano, si arredano la
casa, fanno figli, se ne vanno in ferie.
E lui è sempre lì, seduto alla vecchia Olivetti a far tic, tic, tic…
E questa minuscola città, santa e puttana, che si è tramutata in una
vergine di ferro e che si stringe sempre più con i suoi aculei d'acciaio è
pronta, ormai, al sensuale e sanguinario abbraccio finale.
Tic, tic, tic…
Pulp fiction
Rientro a casa che quasi il gallo canta.
Anche stavolta strafatto di scotch e malinconia.
Tanto non c'è nessuno a farmi la scena.
Mi chiudo alle spalle il mondo con tutta la sua merda.
Già riuscire a dormire nel proprio letto è una vittoria.
Fino a mezzogiorno non vedrò né uomini né donne.
Fino a mezzogiorno potrebbe anche sembrare che la vita è bella.
Poi bisognerà alzarsi, pisciare, cagare, farsi la barba, pettinarsi,
lavarsi i denti, mettere mutande e calzini puliti, vestirsi da capo a piedi
e riaprire quella porta.
E ritornare a sentir puzza di merda dappertutto: nei bar, vicino alle
edicole, nel traffico delle auto, all'interno dei negozi, nei parchi, sui
marciapiedi, sulle panchine, in alto sui balconi, alle finestre, nei
capannoni delle fabbriche, negli stanzoni dei ministeri, negli uffici
postali, nelle banche, nelle stazioni, nei treni, nelle agenzie di viaggi,
negli aerei, sulle navi, nei cantieri, nei containers, nelle case di lusso,
nelle case d'appuntamento, nelle case dell'Ina Case.
Ognuno a fare la propria marchetta quotidiana perché ha scelto di farsi
coinvolgere.
Poi bisognerà anche pensare a nuove frasi d'amore per potersi fare una
scopata in santa pace con Caterina.
Non è un bel mestiere quello di tirar tardi la sera osservando l'umanità
che sta fra le fogne e le stelle e sentire ogni volta una specie di tonfo
dentro, come di qualcosa che precipita e si rompe preoccupandosi di non
fare troppo rumore.
Siamo nati per morire, diceva qualcuno, e nel frattempo dobbiamo pur
adoperarci in qualcosa per riempire questo spazio d'attesa, come ad esempio
stipulare assicurazioni sulla vita o, che so, disegnare bandiere oppure
inventarsi religioni per tenere a freno miliardi di persone infelici e
spaurite.
No, non è proprio un bel mestiere neanche quello di uscire di casa la
mattina presto, travestiti da esseri umani e sforzarsi di dire o fare
qualcosa.
Perché in questo esatto momento non sono una gallina che becca mangime in
un pollaio o un neon che s'accende inutilmente in pieno giorno o anche un
toro da monta o il letto di un fiume prosciugato da millenni?
Sono nato uomo, intendo dire appartenente alla razza umana, e me ne
vergogno profondamente, ma ci sono dentro fino al collo e posso farci poco.
Fuori e dentro di noi
Fuori regna il caos dell'ordine.
Perchéè l'ordine che genera il caos.
Dentro aleggia musica e malumore per l'ennesimo sabato andato a male.
Gli amici ad uno ad uno stan partendo.
Via da questa vita non vita, da questo sud bambino, medioevo dell'anima,
che regala solo malinconia ed eredità di anni bruciati, cenere di gioventù
sparsa al vento potente delle illusioni.
Per noi che non riusciamo più a dormire restano flaconi di Maalox e magoni
da ingoiare al buio di una stanza diventata ormai opprimente.
Occhi sbarrati nella notte e fumo che sale ad ingiallire le pareti.
Suona forte Radio Montecarlo, suona anche per noi e allontana questa paura
che ci attanaglia l'anima; paura per queste vite che non riescono ad
approdare in un porto sicuro e restano ferme in alto mare in balia di maree
assassine.
Ma come è potuto accadere a noi leoni corazzati dei vent'anni ritrovarsi a
trenta e più a leccare le ferite?!
Canta, Caetano Veloso, con la tua magia regalaci Bahia.
Suona, Antonio Onorato, cullaci col tuo Volo d'angelo, prestaci un momento
che qui non c'è rimasto niente più da fare.
Per le strade che calpestiamo notte e dì molte femmine ma di donne neanche
l'ombra.
Che fine avete fatto?
Fra quali braccia di coglioni vi state buttando via?
E tu, Federico, Fellini per il mondo ma Federico per gli amici, svegliati
foss'anche per un istante e fai brillare questo sole spento come solo tu
sai fare.
Scrivi ancora una poesia Pier Paolo, Pasolini per tutti quelli che non
hanno mai compreso ma Pier Paolo solo per noi, scrivici e parlaci ancora
perché quaggiù siamo rimasti troppo soli.
E anche tu, Cesare Pavese, fatti vivo ogni tanto che andiamo a farci un
goccio.
Mi raccomando porta anche Bukowski che magari dopo andiamo tutti assieme ad
ascoltare Chet Baker e a vedere il nuovo film di Theo Angheloupoulos.
Fuori regna il nulla, qualcuno dice che l'anarchia è tramontata, gli amici
stan partendo…e anche quest'altra bottiglia è ormai finita.
Il tempo di capire
Caldo.
Grande caldo.
Caldo che soffoca i pensieri.
Estate che vieni, estate che vai e che porti via tutti gli aromi che
insaporiscono amori eterni consumati nell'euforia stordente di poche
settimane.
Estate di sudore, estate d'amore, finestra a cielo aperto dove s'affacciano
palpitanti milioni di cuori innamorati.
Tranne noi che giochiamo a farci del male così; a rincorrerci a perdifiato
lungo il veloce scorrere dei giorni e a mollare poi la presa
improvvisamente, senza un plausibile perché.
Estate per tutti gli altri ma non per noi che soffriamo troppo questo caldo
irreale che ustiona i sentimenti e le parole, che ci fa evaporare come
l'acqua di questo mare stupido che lentamente sale su fino a diventare
cielo d'agosto.
Caldo, grande caldo, caldo che soffoca i pensieri in un'estate che leva
l'ancora troppo in fretta e non lascia il tempo di capire.
Niente sarà più come prima
Niente sarà più come prima.
L'amore è finito, adesso cresce la rabbia.
Troppo tempo è trascorso ingannandomi con i suoi abili trucchi da
illusionista.
Troppa polvere si è alzata dal mio deserto, risucchiata dal vento freddo di
un falso destino.
Niente sarà più come prima.
Se l'amore si è consumato la rabbia è più viva che mai.
Io non aspetterò più e spaccherò i vetri di quest'inferno trasparente che è
la vita di ogni giorno.
Canterò a squarciagola il mio inno di libertà, spezzando le catene che
impediscono di percorrere la strada scelta.
Niente sarà come prima, l'amore è finito e la pietà terminata dove
germoglia l'arroganza del potere, che ha deciso della mia vita a porte
chiuse.
Niente sarà più come prima: inizia ora, subito, la mia guerra privata
contro il mondo e contro te, maledetta e bellissima che hai sconvolto i
giorni miei, rivoltandoli come un guanto.
Inizia la mia carriera di ladro e stupratore.
Niente sarà più come prima.
Giorni miei d'angoscia e di beltà, di incubi da sveglio e samba sotto una
luna d'argento che pizzica le guance alle coppie innamorate.
Giorni tuoi, donna, di peccati veniali e pentimenti, di sole e sassi sotto
i piedi nudi.
Niente sarà più come prima.
L'amore tornerà e la rabbia finirà appena avrò di te solamente ricordi
sbiaditi.
Niente sarà più come prima.
Mondo curioso, denso di mistero e magia.
Insensatezza
Quante volte rasentai gli abissi oscuri dell'insensatezza, camminando
bendato lungo il precipizio di un'idea.
Quante volte le fiamme di un inferno in terra bruciarono l'erba fresca dove
posai i piedi.
Quante infinite notti e giorni trascorsi in solitudine con uniche compagne
la paura e le fredde mura ingiallite di una stanza vuota.
Quante domande che non ebbero mai risposta.
Quante energie consumate per il sacrosanto diritto all'utopia.
Sognavamo in tanti, forse in troppi, e venne il giorno in cui ci puntarono
un cannone contro, e la non vita ci assorbì nelle regole elementari della
sua quotidianità.
Dove siamo finiti, adesso, tutti quanti?
E dove sono finito io?
Un po' in giro per il mondo e un po' a frugare fra le tue cosce, cercando
un senso dove non c'è.
La libertàè una parola che non è concessa quando a proferirla sono in
tanti, quanti eravamo noi, quanti siamo adesso, sperduti, delusi,
incattiviti, precocemente invecchiati.
E tu, bambina, che non sai, che non immagini neppure e continui a masticare
pop corn davanti alla tv.
E' andata così, forse i verdi campi arati dell'utopia non calpesteremo mai,
ma i sogni quelli no, non basterà un cannone puntato contro a spazzarli
via.
Bisognerebbe…
Bisognerebbe ridere un po' di più, scherzare un minimo su se stessi,
affrontare la vita e i suoi giorni di sale con meno seriosità e con sguardi
aperti e limpidi sulle cose, prendendo per buono quel che di buono c'è se
si riesce a leggere fra le righe del voluminoso libro dell'esistenza il
significato di parole pronunciate distrattamente fra un'azione e l'altra di
una quotidianità vissuta svogliatamente; lasciarsi andare, di tanto in
tanto, anche ai vizi del presente, senza pensare troppo agli ozi di un
futuro che non costituisce dimensione reale, non esiste ancora.
Bisognerebbe trovare il coraggio di assecondare i sentimenti, tramutare in
operatività istinti spesso ed a lungo soffocati; andarsene in giro per la
città ridendo, ballando, lanciando fiori e caramelle all'indirizzo di
passanti frettolosi e stupiti.
Occorrerebbe aprire la gabbia interiore e far defluire il mondo privato
all'esterno, come un fiume traboccante che finalmente rompe gli argini e si
libera, felice di inondare tutto quel che incontra lungo il cammino che lo
condurrà a valle.
Necessiterebbe che tu ed io la smettessimo di giocare sulla nostra pelle.
Amarci solo un po'.
Malinconia di fine millennio
Anni ed anni passati ad imbrattare carta su carta, a versare litri e litri
d'inchiostro nero e blu, a conservare ed a rileggere con voracità tanti
quaderni che il tempo ha provveduto ad impolverare e ingiallire.
Il tempo vile che passa e va, e penetra subdolamente attraverso i fogli,
insinuandosi come un serpente velenoso fra le righe inerti, depositando
polvere antica sulle abusate parole, nelle pieghe della pelle, negli angoli
più nascosti dello sgabuzzino dei ricordi, nei più bui e segreti anfratti
del cuore.
E pensare che una volta ero anche capace di parlare d'amore.
Che cosa sono diventato adesso che non scrivo quasi più?
In questo tardo, freddo, pomeriggio di settembre i pianeti sono assai
scorbutici, me lo dice l'oroscopo sul giornale e la mia pressione
eternamente bassa.
Anche la bici è giù, con entrambe le ruote bucate, a terra come me in
questa malinconica fine estate di fine secolo di fine millennio.
Non posso nemmeno uscire a prendere una boccata d'aria, magari senza farmi
vedere, sotto le finestre di casa tua.
Mi sorprende questo ritmo lento e ieratico dei giorni, ordinati ed in fila
come tante pecorelle quiete, dallo sguardo intenso e smarrito per l'assenza
della rassicurante e calda voce guida di un padrone buono.
Tu come stai…sei felice, forse?
E dove vivi adesso…lontano o a pochi centimetri dalla mia malferma
palafitta?
E cosa fai, dimmi, cosa pensi, cosa dici, chi c'è accanto a te ad
accompagnarti lungo la grande strada, attraverso i giorni, nel sole caldo e
nella pioggia che regala brividi di freddo, sugli altari e nella polvere?
Io sto qui, dove tu sai bene.
Sono rimasto fermo e sono lo stesso di sempre, perennemente in bilico fra
sogni da abitare e realtà da vivere; pericolosamente sospeso tra poesia e
pornografia.
La vita scorre lentamente, come il lungo fiume tranquillo del celebre film,
e i ricordi diventano un fertile terreno onirico da coltivare con perizia,
come le abitudini che danno un falso senso alle cose che facciamo, delle
quali ci circondiamo come una coperta calda, nelle quali ci appiattiamo e
un po' moriamo.
Vorrei che tu fossi qui, adesso, in questo preciso ed irripetibile istante,
e che tutti gli orologi del mondo si fermassero per noi, solo per noi, per
sublimare questo magico incontro prima di rimettere in moto la loro
inarrestabile e folle corsa verso chissà dove e chissà cosa.
Ma ciò non è possibile, il tempo è un dittatore e non si può fermare il suo
inganno.
E tu resterai dove sei, chissà in quale angolo di mondo a spendere i tuoi
giorni e la tua vita, le risate e le malinconie, il sole e la luna, i
sentimenti e la rabbia; mentre io resterò ancora qui, affondato sempre più
nelle sabbie mobili dei miei sogni bislacchi e delle utopie da inseguire,
incoscientemente e magicamente perduto nei tanti voli pindarici da fare,
coccolato e strapazzato dal morbido e soffocante abbraccio della folla
colorata di poeti e pornografi della mia sacra ed eretica città.
Il velluto interiore
Mi desto.
E'tardi, molto tardi.
Al solito tardi.
Gli occhi gonfi, le palpebre ancora pesanti nonostante il lungo sonno
ristoratore di niente.
Fuori un freddo boia.
Dentro anche.
E brividi lungo la schiena, denti che ballano il samba, piedi che battono
cadenze militari sul pavimento di mattonelle zozze, mani che si sfregano
alla velocità della luce per trovare un pizzico di tepore.
Televideo acceso, pagina 101: leggo che l'inflazione è scesa al 2,5%.
Era dal '68 che non si teneva così bassa.
Dicono che ora la moneta avrà più potere d'acquisto.
Che bello.
Bello per chi ce l'ha la moneta, ovviamente.
Personalmente la notizia non mi tocca più di tanto.
Ho ben altro a cui pensare.
Devo spazzolare un po' il mio velluto interiore.
Al bar sotto casa butto giù un caffè amaro e bollente, e chiacchiero un po'
con il barista, sognatore e filoamericano.
Poi gioco una schedina del Totogol.
Mi devo sistemare.
Lavoro non ce n'è, prospettive a breve-medio termine nemmeno.
Quindi esco, bavero del giubbotto alzato e sigaretta all'angolo della
bocca, direzione bancolotto.
Scarico qualche spicciolo anche lì.
Nel frattempo si è fatta ora di pranzo, ma per me è colazione.
Mentre le italiche genti mangiano i canonici primo, secondo, terzo, frutta
e caffè io invece mi abbuffo di brioches alla marmellata.
La controra è il periodo più difficile della giornata: non si sa mai che
fare.
Leggo, guardo un film in cassetta, ascolto un po' di musica al walkman ed
il pomeriggio è bello che sfangato.
Poi l'appuntamento quotidiano inderogabile: la morosa.
A bordo della mia Fiat 126 bordeaux ammaccata dappertutto vado a recitare
la parte del principe azzurro che si reca a prender la sua bella, che bella
propriamente non è, ma d'altra parte la Schiffer non la si incontra tutti i
giorni, e quand'anche avessi questa fortuna dubito fortemente che la
teutonica Claudia accetterebbe di salire sul mio cavallo Fiat scalcagnato.
Comunque…
Giungo a destinazione e saluto con forma i suoceri.
Loro non mi guardano neppure.
Acchiappo la Schiffer dei poveri ed usciamo entrambi già mezzi incazzati
col mondo intero, senza motivi apparenti, nella sera umida della periferia.
Periferia bagnata e ruffiana che si volterà dall'altra parte quando,
disperati e libidinosi, uniremo in un vortice di mani, gambe, lingue,
preservativi e mutande che volano via, le nostre solitudini sovrane.
La scenografia di queste serate è quasi sempre la stessa: la pizzeria da
Giacomino-pizza al metro anche al mattino.
Una pizza da schifo che s'intona perfettamente alla clientela abituale.
Io e Maria Antonietta ci sentiamo molto a nostro agio lì.
Il programmino è il solito: due margherite, birra alla spina, quattro
chiacchiere che non dicono niente e l'immancabile scopatina per concludere
degnamente l'idillio nella macchina ferma in una piazzola autostradale a
pochi chilometri dalla di lei abitazione.
Dopo la "sveltina" la riaccompagno in silenzio e prendo poi a vagare per le
strade di notte, che fa tanto "maudit" e anche un po' "easy rider", senza
la moto, però.
Un po' mi piace e un po' credo sia un'emerita stronzata, ragion per cui
smetto sempre dopo pochi minuti.
Torno a casa e mi ficco a letto, con la coperta tirata fin sotto agli occhi
e la borsa d'acqua calda adagiata sui piedi intirizziti.
Credo che domani mi alzerò tardi, molto tardi, al solito tardi.
E avrò ancora un bel daffare nel tentativo quotidiano di spazzolare un po'
il mio velluto interiore.
Parabola moderna
"Il lavoro che facciamo definisce il nostro personale rapporto col mondo.
Se un individuo, però, non è occupato gli viene negato qualsiasi tipo di
scambio con la società.
L'inoccupato o il disoccupato diventa, in parole povere, un soggetto
marginale, un elemento, cio è, fuori dai cicli produttivi, una sorta di peso
morto che fluttua indifeso, frustrato ed ignorato nelle pieghe del sistema.
La mancanza cronica di lavoro provoca una forte diminuzione dei consumi,
dando luogo, in questo modo, ad una profonda crisi economica che rischia di
mandare in frantumi l'intero assetto della civiltà.
Quanto sopra accade perché il senza-lavoro è portato a mutare, talvolta
drammaticamente, i propri rapporti con gli altri, nonché la personale
visione etico-morale delle cose".
Il tipo in televisione discettava su questi argomenti con grande enfasi.
Vestiva Armani e portava al polso un orologio di Cartier.
I (pochi) capelli ben pettinati, le mani curate, il trucco del viso
sapientemente impostato per la grande prova del piccolo schermo.
Prestava molta attenzione alla scelta degli aggettivi, si sforzava di non
gesticolare troppo, controllava, da attore consumato, il ritmo del respiro,
badava con maestria a che la voce fosse modulata sui timbri giusti e che il
sorriso fosse ampio e rassicurante.
Sullo sfondo dell'inquadratura campeggiava con solennità la nutrita
biblioteca del suo elegante studio milanese.
Ei parlava.
Col cuore in mano discettava.
Era fondamentale dare corpo alle speranze delle angosciate genti italiche,
da troppi anni in fervida attesa di segnali positivi.
Il problema occupazionale rappresentava un nodo di vitale importanza, da
sciogliere il più in fretta possibile.
Non si poteva certo consegnare l'amata nazione nelle mani di sanguinari
bolscevichi.
Era invero importante che quel nodo fosse lui a scioglierlo.
Gli era venuto in sogno Nostro Signore Iddio Onnipotente, che l'aveva
scelto per portare a compimento la Santa Crociata contro gli infedeli.
Dare lavoro agli affamati e ricacciare indietro le orde barbariche di atei
e nemici della patria era la parola d'ordine.
Non era un'operazione semplice, ma se lo Stivale gli avesse tributato voti
sufficienti alla bisogna avrebbe potuto senz'altro assurgere al ruolo di
moderno santo laico, e con i poteri divini di cui sentiva di poter disporre
a iosa…fornire occupazione, a suo dire, almeno ad un milione di
disgraziati.
L'Italia delle partite di calcio, delle telenovelas, dei quiz, delle
lotterie, dei film dei Vanzina, del Festival dei Fiori…subì la fascinazione
stordente di questo nuovo messia massmediologico, e lo investì, adorante,
della sua piena e incondizionata fiducia.
Ed ei governò.
Ma il milione di posti di lavoro non ci fu.
E il Belpaese sprofondò nella più cupa disperazione.
"L'uomo della provvidenza" fu cacciato via dal blitz feroce e
anticostituzionale di una nuova serie di Terminator in cravatta e
doppiopetto, usciti freschi freschi da un film di Vittorio Cecchi Gori: i
ribaltonanti.
"L'Unto del Signore" adesso quando compare in tv mostra un'espressione
triste e amareggiata, preoccupato dei suoi tanti amici democristiani e
socialisti finiti a marcire nelle anguste e maleodoranti celle delle patrie
galere.
Negli ultimi tempi il Nostro è stato spesso indagato dalla magistratura, e
in qualche occasione si è indagato pure da solo, servendosi di un insetto
elettronico.
Si consola, comunque, il "divino" con i successi della sua squadra del
cuore e del portafogli.
Morale della favola: tanto va il biscione al lardo che si becca l'avvisino.
"Abbiamo trasmesso la nona puntata della trasmissione: parabole moderne.
I programmi della rete proseguono con i tg a carattere regionale.
Nell'augurarvi una buona visione e un buon ascolto vi suggeriamo di bere
Jagermeister…il digestivo che digestimola!
Perché?
Perché c'è sempre un perché.
E se non lo bevete…sono fatti vostri!
Grigio piombo
Un cielo grigio che sembra piombo fuso.
Nuvole pesanti.
Aria greve.
Un pomeriggio da cani.
Dalla radio Diane Schuur canta la vita, canta il jazz.
Ascolto, sogno, poi esco.
Per strada incontro il mio vecchio maestro delle elementari: mi prende
sottobraccio e mi parla di Dostoevskij.
Mi dice che da lui si può attingere a piene mani.
Può rappresentare un valido antidoto contro questa vita di merda.
Il mio maestro delle elementari…vorrei abbracciarlo, stringerlo così forte
da fargli male…ma mi vergogno, mi incute un po' di soggezione.
Penso al Paradiso, mi infilo nel bancolotto.
Comincia a piovere.
L'impiegata che vidima le giocate è carina, ha un bel sorriso che le
illumina un viso freschissimo.
Ci faccio un pensierino, ma mi passa quasi subito.
La pioggia adesso viene giù forte.
Entro in un portone per ripararmi e trovo un conoscente al quale, in pochi
minuti, racconto tutti i fatti miei, senza capirne bene il motivo.
Poi lo saluto e mi avvio lentamente verso casa, dove non mi aspetta nessuna
donna bella e sensuale, solamente una frittata fredda di patate e la
partita di coppa UEFA della Roma alla tv.
Meglio queste cose, d'altronde, che uscire in piazza.
La piazza della mia città…si è fottuta gli anni migliori e poi mi ha
scaricato come un sacco di merda.
Penso a quel che avrei potuto essere ed a come sono oggi, con tutto il
tempo che ho perso calpestando i suoi sampietrini.
Nel frattempo segna la Roma.
In cucina mi preparo un caffè forte, come il mal di testa che principia ad
assalirmi.
La partita è terminata, spengo la tele e riaccendo Diane Schuur.
Il vicino di casa comincia a battere alle pareti.
Non gli piace la vita, non gli piace Diane Schuur.
Smozzico un vaffanculo, spengo Diane.
Riaccendo la tele: Maurizio Costanzo.
Rispengo la tele.
Un'altra giornata sta per morire.
E fuori piove a dirotto.
Mi sono dato troppe proroghe e sono lontano dalla meta ma già nudo.
Ti voglio bene Caterina.
Sono anni che non vivo.
E tu sono anni che mi aspetti
La vita scorre veloce, l'abusata caffettiera non carica più.
Domani non avrò niente da fare, come oggi, ieri e ieri l'altro...come
sempre.
Vomito nel cesso la frittata di patate.
Esco sul balcone a prendere una boccata d'aria: piove ancora.
Alzo gli occhi al cielo ed accolgo sul viso il suo pianto disperato.
Rientro e faccio una doccia.
Poi mi asciugo, mi vesto, scendo giù in garage, prendo la macchina, mi
perdo nella notte.
Il puzzle dell'amore
"Non si può amare senz'amore, non si avere senza dare"…cantava Ornella
Vanoni negli anni '60.
Sono trascorsi tre decenni da allora ma il "vizio"è ancora lo stesso.
E' stato sempre lo stesso, per meglio dire, fin dagli albori
dell'umanità…un vizio inossidabile, inestirpabile.
Persone che legano la propria vita ad un'altra con il laccio dei
sentimenti, senza sapere bene il perché; forse per gli occhi del mondo,
come si suol dire, o forse per l'ancestrale paura di rimanere soli, o fors'anche
per tutte queste cose assieme…chi può saperlo?!
Individui che si sposano contrattando tutto: inviti, cerimonia, ristorante,
regali, mobilio, appartamento, viaggio di nozze, numero di figli da
sfornare (…).
Soggetti smarriti che navigano con l'acqua alla gola dentro un rapporto che
muore d'abitudine, con i sogni che tossiscono nei fumi tossici della spenta
quotidianità.
Elementi impauriti che hanno il desiderio di prolungarsi la vita e credono
di soddisfarlo mettendo al mondo figli che abbandoneranno poi a se stessi,
poiché comprendono che è grosso e mefitico il respiro di questa civiltà del
consumo, e che, quindi, bisogna combattere, combattere, combattere ad
oltranza contro un nemico subdolo e poco visibile.
Uomini che si sentono tali soltanto quando dimostrano la propria virilità
gonfiando le pance delle mogli; donne che si sentono complete solo con il
conseguimento della maternità, e che per arrivare all'approdo della stessa
cercano con ansia un portatore sano di sperma che le possa regalare la
vocina di un bimbo che chiami mamma.
Uomini e donne, mariti e mogli, padri e madri: una vasta e complessa
umanità, orgogliosa ed al tempo stessa depressa per aver sistemato i
tasselli mancanti della propria esistenza preordinata.
L'amore è un gioco ad incastro:è bene trovare il pezzo corrispondente.
Non è un'operazione semplice, ci vuole tempo, abilità, grande profusione di
sentimenti sinceri.
Non tutti hanno la pazienza di cercarlo il pezzo giusto, tanti sono quelli
che si accontentano.
E questo puzzle intricato dell'amore non lo si completa mai.
Babele moderna
Mi tiro alle spalle la porta di casa, esco in strada, m'immergo nella folla
anonima.
Manca qualche anno alla fine del millennio.
Il malessere generalizzato si taglia con il coltello.
C'è la crisi, la recessione economica, l'impoverimento stratificato, ci
sono scarse prospettive per il futuro, si sente dire in giro come un
tormentoso tormentone.
Ma non è soltanto questo.
Si avverte un'evidente difficoltà a vivere, ad instaurare rapporti
interpersonali.
Ci si barrica sempre di più nell'egoismo e nell'indifferenza che azzerano
tutto e che ci azzerano rendendoci simili a bestie diffidenti e rabbiose.
Si va avanti a tentoni, a spintoni.
Ci si attacca a maghi, veggenti, chiromanti, cartomanti.
Si rifiuta e si combatte con astio ogni diversità.
Si caccia con livore chi, affamato e implorante, bussa speranzoso alla
nostra porta.
Ci si accanisce contro i bambini, che sono l'unica cosa veramente pulita
rimasta in questa babele moderna.
Si stupra perché non si è (più) capaci di parlare d'amore.
I sogni si appiattiscono dentro le realtà virtuali offerte a basso costo
dai moderni santuari del divertimento.
I sentimenti ed i valori s'annacquano miseramente nell'olio profano di una
nuova divinità pagana: Padre Nostro Consumismo.
Ci si accoltella per banali motivi di precedenza ad un incrocio, si spara
per denaro e per potere, si piazzano bombe al servizio di ideologie
politiche e fanatismi religiosi.
E' il trionfo degli ismi.
Si fanno guerre "intelligenti" per mantenere l'ordine mondiale, si uccide
in maniera atroce perché Mafia comanda.
Si muore indifesi e soli perché lo Stato è colpevolmente assente.
Si sprangano porte e portoni per collocare vite e beni al sicuro
nell'abbraccio caldo e protettivo dei più sofisticati sistemi d'allarme.
Si fa l'amore sempre di meno e sempre con la crescente angoscia di
contrarre la peste del 2000.
Si cerca conforto nel conturbante tempio via cavo delle hot-lines, dove
moderne e lascive madonne offrono la loro parola in cambio di quanti più
scatti telefonici possibile.
Gli stadi diventano valvole di sfogo per le frustrazioni e teatro di
tragedie in nome di qualcosa che con lo sport a poco a che spartire.
I Cinema cambiano d'abito e si trasformano in ipermercati.
La carta stampata viene usata per avvolgere la spesa.
Io non riesco a dirti ti amo e tu trovi un altro che non sa renderti
felice.
La televisione urla e mette in piazza le disgrazie altrui perché
l'audience, l'audience, l'audience…
La tv dei varietà, dei quiz, dei tg, degli spot che ormai ci escono dalle
orecchie e rientrano dal buco del culo.
Un traffico veicolare arrivato a livelli insostenibili, che sfregia
irrimediabilmente la bellezza delle nostre città e attenta alla salute
fisica e psichica.
Un inquinamento ambientale che ha sconvolto l'ecosistema del pianeta.
La politica come ultimo rifugio della canaglia.
Un certo tipo di cattolici che auspicano ancora il rogo.
Il cittadino medio che si augura fortemente il ripristino della pena di
morte…così, tanto per fare un po' di pulizia.
I nostri esimi connazionali che, buoni padri di famiglia, onesti ed
indefessi lavoratori, vera spina dorsale della nazione, si recano in
Thailandia a scopare i bambini.
Chi parla di libero mercato e di economia globalizzata quando il primo ha
prodotto nella sola Europa del secondo dopoguerra diciotto milioni di
disoccupati sulla soglia della disperazione.
Chi parla troppo perché non ha niente da dire e chi non parla più perché ha
già detto quel che doveva e nessuno lo ha ascoltato.
Chi come me passa il suo tempo a scarabocchiare sciocchezze invece di
cercarsi un lavoro.
Mi chiudo alle spalle la porta, vado in bagno e mi sciacquo un po' la
faccia.
Poi adagio la macchinetta del caffè sul fuoco e un disco di morbido jazz
sul piatto del vecchio impianto hi-fi.
Quindi mi svesto lentamente ed inforco le pantofole.
In casa sono solo.
Solo con i miei malumori e le mie aspirine in bella vista sul comodino
accanto al letto.
Sorbisco il caffè con calma, osservando alla finestra il via vai di persone
che affolla la strada sottostante.
Gesticolano, corrono, corrono, corrono…sembra un buffo cartone animato.
Questo è tutto, questo è quanto.
Se qualcuno, poi, fosse seriamente interessato alle stramberie quivi
scritte…beh, che strappi il foglio e lo tenga pure.
Isole
Contro le brutture e le bestialità di questo vivere arrogante,
violento, conformista ed ignorante bisogna crearsi delle isole sulle quali
approdare lontano dagli occhi, per calmare nervi e cuore.
Per accarezzarsi, coccolarsi, staccare la spina e assaggiare con voluttà le
cose belle che la vita ci concede sempre più col contagocce.
Un'isola può essere tante cose: un libro, un film, un disco, un modellino
di galeone da costruire, una lettera d'amore da vergare a mano, una cenetta
intima da preparare con cura, una notte d'estate da trascorrere sul
terrazzo al chiaro di luna a contare stelle e a mettere ordine ai ricordi.
Un'isola può essere ciò che si vuole, tutto quanto possa dare godimento e
serenità.
Sono già dentro di noi, basta cercarle, sono là che aspettano pazientemente
il nostro dolce e volontario naufragio.
Sveleranno ai nostri occhi un secolo ipertecnologico, veloce, distratto,
cianotico.
Ci suggeriranno di spegnere la tv e accendere la radio; di lasciare in
garage la macchina e di rispolverare la vecchia bici; di abbandonare al
proprio destino computer e stampanti e prendere di nuovo in mano carta e
penna; di staccare telefoni e telefonini e ricominciare ad attaccare
francobolli sulle buste; di riporre nell'armadio la telecamera all'ultimo
grido e acquistare un bel rullino da 36 in b/n; di tirare dritto quando
s'incrocia un ipermercato e d'infilarsi lesti lesti in una piccola bottega;
che il mare non è tutto e che esiste anche la montagna, salutare e
misteriosa, che non brucia e scortica la pelle.
Ci spiegheranno con parole semplici che vivere ad una velocità più bassa
significa vedere e godere cose che chi va a tavoletta non conoscerà mai.
Le isole siamo noi, con i nostri sentimenti e la nostra capacità di
ragionare.
Non buttiamoci via.
Vecchia Olivetti
La mia vecchia Olivetti elettrica si è inceppata e io mi sto leggermente
incazzando.
Il mio best seller - premio Nobel per la letteratura - venti milioni di
copie - tradotto in venti lingue compreso il mongolo-, non è ancora
terminato e richiederà, presumo, ancora un po' di tempo prima d'esser
consegnato alle stampe.
Il mondo aspetta e la mia Olivetti fa i capricci.
Anche il mio padrone di casa aspetta.
Aspetta quattro mesi di affitto arretrati.
Aspettano anche il salumiere, il panettiere, il vinaio, il barbiere, il
giornalaio, il tabaccaio.
Loro aspettano e la mia Olivetti si è inceppata.
E io mi sto leggermente incazzando.
E anche loro si stanno leggermente incazzando.
Ma ragazzi, dico io, un best seller richiede i suoi tempi di
realizzazione…mica son fiaschi che si abboffano!
No, non son fiaschi che si abboffano…ma loro si sono stancati di aspettare
e hanno "abboffato" me!
Plebei ed incolti…ma guarda te!
Vecchio ventilatore
Il ventilatore sbuffa aria fresca nella stanza accaldata d'agosto.
Il giradischi esala note di un vecchio swing stanco di spiaccicarsi in
continuazione sulle pareti ingiallite dal tempo e dal fumo di sigarette.
Sdraiato sul letto sbuffo noia e fumo di Marlboro.
Noia di un'estate senza poterti vedere, toccare, senza poter ridere un po'
di noi e dei nostri universi malati.
Tu sei in villeggiatura a sciacquare stress e solitudini.
Io sono rimasto in città, come tutti gli anni, come sempre; in una città
vuota e desolante come il mio portafogli di disoccupato.
Disoccupato d'amore e di lavoro, disoccupato dalla vita.
E pensare che basterebbe così poco: prendere l'auto e in un'oretta o poco
più essere lì, per poterti gridare che mi sono deciso a mandare affanculo
tutto quanto, e poi abbracciarti forte.
Si, basterebbe poco, ma non ho nemmeno i soldi per la benzina…e dunque
resto qui, allungato sul letto ad ascoltare un vecchio swing e a fumare una
dietro l'altra puzzolenti Marlboro di contrabbando.
E 'sto cazzo di ventilatore vecchio come il cucco, come uno swing anni'30,
come un giradischi mezzo scassato, come un antico amore che non riesce a
decollare nei cieli del domani…
E 'sto cazzo di ventilatore che non funziona mai!
Robin Hood
Salve a tutti, mi chiamo Robin Hood.
Vivo nella foresta di Nottingham e rubo ai ricchi per dare ai poveri.
Qualche mese fa mi è capitato un fatto curioso: stavo aspettando l'autobus
per tornarmene a casa dal "lavoro"quando all'improvviso mi si avvicina,
saltellando, un ragazzino che dice di chiamarsi Peter Pan.
Io gli faccio: "piacere, Robin Hood…cosa posso fare per te, piccolo Peter?".
Lui mi risponde che è affetto da un complesso che si porta dietro fin dalla
tenera età e che gli sta rovinando l'esistenza:è incapace, cio è, di
diventare adulto, edè per questo motivo che Cappuccetto Rosso ha rifiutato
il suo amore, adducendo il motivo che lei necessita di un vero uomo, non di
un ragazzino cretino come lui.
"Ma io sono un uomo!", mi fa Peter, "ho trentanni suonati anche se ne
dimostro tredici…che colpa ne ho se non riesco a crescere?".
La nonna di Cappuccetto Rosso ha detto che la nipote si deve sistemare con
qualcuno che abbia il posto fisso e che le dia, pertanto, sicurezza e
stabilità economica.
In quanto all'amore, ha sospirato…beh, quello è solamente un optional".
Mentre mi dice questo, Peter appoggia la sua testolina alla mia spalla e
prende a singhiozzare, implorandomi di aiutarlo.
"Aiutarti…si…ma in che modo?", replico perplesso.
"Sono un giustiziere io, cosa credi…non sono mica Marta Flavi!".
e lui, sollevando piano la testa dalla mia spalla, con gli occhi gonfi di
lacrime e con un fil di voce mi sussurra: " un modo ci sarebbe, a dir la
verità".
"Sentiamo", dico io ancora più perplesso di prima.
"Dovresti raccomandarmi per quel posto di aiuto sceriffo nella contea di
Nottingham…lo stipendio è buono, ti danno anche la 14esima e le ferie
pagate, così la nonna di Cappuccetto Rosso acconsentirà senz'altro al
matrimonio, ed io con i primi risparmi avrei la possibilità di pagarmi un
chirurgo plastico per un intervento di lifting all'incontrario; ad
invecchiarmi di qualche anno, voglio dire, di modo che possa presentarmi
alla mia amata con le fattezze di un reale uomo adulto".
"Ma tu sei pazzo!", rispondo strabuzzando gli occhi all'insana richiesta.
"Non sai che lo sceriffo di Nottinghamè il mio più acerrimo nemico?
Con quale faccia mi presenterei da lui?"
"Ma, io, veramente", replica lui balbettando, "credevo che fra criminali
v'intendeste".
"Giovanotto!", ribatto io, indignato, "modera i termini, io sono un
giustiziere e la mia rappresenta una nobile missione: rubare ai ricchi per
dare ai poveri, cio è a me, e non tollero insinuazioni di nessun genere!".
Ma lui, a queste parole, riprende a singhiozzare forte, ma così forte che
alla fine mi vedo costretto a cedere alla promessa di aiutarlo in qualche
modo.
Ma non con lo sceriffo di Nottingham, però!
Lì non se ne parla proprio!
Alla fine, considerato che mi serviva un aiutante nel lavoro, decido di
assumerlo alle mie dipendenze, con mansioni di contabilità.
Adesso lavora, guadagna bene, e devo onestamente riconoscere che il ragazzo
è dotato anche di un certo talento, non solo per i libri contabili ma anche
e soprattutto per quanto attiene alla riscossione crediti.
Come dite?
Con Cappuccetto Rosso com'è finita?
Avete ragione, la curiositàè sacrosanta e deve essere certamente ed
esaurientemente soddisfatta.
Dunque, la sera stessa dell'assunzione Peter si presenta tutto contento
dalla nonna di lei, stringendo nella mano destra l'anello di fidanzamento e
nella sinistra la fotocopia del contratto di lavoro.
La vegliarda afferma che se fosse dipeso da lei non ci sarebbero stati
problemi di sorta; il fatto è che la nipote aveva conosciuto nel frattempo
un miliardario tedesco della carta igienica che se ne era follemente
innamorato ed aveva voluto subito sposarla e portarla seco in Germania,
dove le sarebbe toccato un futuro da ricca signora nonché unica erede
dell'immenso patrimonio dell'ormai anziano-e senza figli-consorte.
Lungo la via del ritorno Peter non pianse, bensì ritenne che forse era
senz'altro meglio così.
Considerò che se non fosse entrato in scena il magnate cartaceo dei culi
sporchi avrebbe di certo impalmato una gran mignotta, pronta a cornificarlo
ben bene col primo stronzo carico di soldi capitato a tiro.
Attualmente Peterè fidanzato con Gretel, la sorella di Hansel: una ragazza
seria, senza tanti grilli per la testa, che lo ama e riverisce senza
particolari pretese, tranne che per l'esigenza di una pratica sessuale
invero libidinosa e pressochè continua.
Beh…così va la vita, amici miei, che volete farci…
Adesso però debbo lasciarvi, c'è stata la soffiata di qualche carognone, e
lo sceriffo di Nottinghamè già sulle mie tracce.
Credo sia salutare cambiare aria per un po'.
Eau de toilette
I sogni aiutano a vivere meglio, dice Gigi Marzullo alla tv.
Già, se non si sognasse la vita diventerebbe insopportabile e non sarebbe
poi tanto remota l'ipotesi di un suicidio collettivo.
Preoccuparsi di vivere è un grosso problema per quelli come noi, schiavi
della casualità.
Hai ragione tu, Sergio Caputo, a volte la malinconia ci sorprende con le
mani nel sacco, e allora speriamo che questo dirigibile arrivi presto a
portarci via verso un sogno planetario, perché il futuro è una variabile
che ci logora il presente.
Grattiamo via lo stress, amica mia, passiamo attraverso le vie più chic
della nostra anima perché questo amore che ci scombussola le abitudini sarà
la nostra Waterloo.
Per te metterò eau de toilette, poi un frac e una paillette.
Pressione bassa
In un mondo dove tutti corrono veloci nelle auto Gigi-pressione bassa se ne
va lentamente a passeggio sulla sua bici, facendo incazzare gli
automobilisti che, con le vene del collo gonfiate a dismisura, imbufaliti e
paonazzi in viso, gli imprecano e clacsonano contro.
In un mondo anestetizzato dal dio moderno-televisione Gigi si accomoda
placido nella sua poltrona di vimini dedicandosi con passione alla lettura
di un buon libro.
In un mondo di realtà virtuali Gigi ama guardare un bel film in b/n in
cassetta ed ascoltare un po' di sano e sognante jazz dal vecchio impianto
hi-fi.
In un mondo fatto di sabato sere da sballare in discoteca, da ubriacarsi,
da impasticcarsi e da morire in assurdi giochi di velocità Gigi porta la
sua ragazza in riva al mare a rimirare la luna sorridere ai pesci a pelo
d'acqua.
In un mondo dove tutti si affannano per popolare i litorali alla moda
perché "abbronzati fa chic & charme" e si ritrovano poi come sardine sudate
e stressate sotto un sole assassino Gigi si reca al fresco delle sue amate,
pulite e silenti montagne.
In un mondo che gira sempre più in fretta Gigi rallenta e se ne gode il
meglio.
Qualcuno in paese dice che è un po' suonato, ma a Gigi non importa granchè;
gli altri dicano pure quel che vogliono, tanto lui è felice così, con le
sue manie, le stravaganze, il modo personale di affrontare la vita.
Forse i pazzi sono loro, con quel vivere iperveloce, iperattivo,
ipercalorico, iperalcolico, virtuale che sa d'artificiale.
Considerando lo stile di vita degli altri Bube, la sua ragazza, di tanto in
tanto viene assalita da dubbi che prontamente gli manifesta.
Gigi-pressione bassa risponde sempre alla stessa maniera, cio è cantandole a
squarciagola un celeberrimo motivo di tanti anni addietro: "in un mondo che
prigioniero è respiriamo liberi io e te".
Giorgio il grande
Giorgio Ventura aveva compreso perfettamente che se voleva aspirare ad una
dignitosa collocazione in seno alla società e, parimenti, ad un buono e
tranquillo matrimonio, avrebbe dovuto recitare suo malgrado la parte del
coglione e del mediocre; calarsi, cio è, nei panni di quel soggetto sociale
razzista, colonialista, imperialista e qualunquista che cade sotto la voce
di uomo medio: un uomo moderno tutto casa, lavoro, celebrazioni, parenti,
ferie in agosto, automobile come propaggine meccanica e prolungamento
tecnologico della personalità e tv color stereofonico 99 canali con
televideo dentro il quale sprofondare giorno dopo giorno sempre più
inebetito.
Giorgio era un trentenne con una discreta vivacità intellettuale e con un
buon numero di interessi che spaziavano dalla letteratura al cinema, dai
fumetti alla musica, dallo sport ai viaggi.
Amava molto anche la natura e i gatti, e con quest'ultimi aveva in comune
una particolare insofferenza riguardo alla regole precostituite;
insofferenza che col passare del tempo si era tramutata in una vera e
propria vocazione alla ribellione.
Giorgio era, se non propriamente un anarchico per definizione, certamente
un anarcoide; un mister no fiero di quel lato del proprio carattere che lo
portava a puntare sempre i piedi di fronte alle ingiustizie anche a costo
di pagare prezzi molto alti; incombenze che, comunque, onorava sempre di
persona, senza coinvolgere nessuno.
Amava girare di notte, poiché, come sosteneva con argute argomentazioni,
"il giorno è pieno di cattiverie e bestialità".
Così usciva di casa sempre dopo le 23.00, quando le strade erano
semideserte e le "bestie" dormivano o se ne stavano rintanate dentro la
proprie gabbie di cemento, intente a consumare il cibo guadagnato dopo una
faticosa giornata lavorativa condita da piccole e grandi cazzimme, opzione
comportamentale fondamentale per la sopravvivenza e la conservazione della
specie.
Negli ultimi periodi Giorgio aveva preso a litigare con tutti gli amici; in
taluni casi per questioni invero banali.
Gli restava, ordunque, solamente qualche conoscenza e, quindi, in pratica,
era rimasto solo.
Solo con i propri pensieri e le proprie frustrazioni, che gli otturavano la
mente come fosse un cesso ingorgato.
Aveva bruciato tutta la gioventù nella vana ricerca di una donna che
sapesse comprendere e gestire i suoi continui malumori, dettati da quell'insofferenza
alle regole ipocriti e castranti del cosiddetto vivere civile.
Ci fu qualcuno che definì questi malumori con un giudizio perentorio che
sapeva di sentenza inappellabile: inquietudine esistenziale.
Quando lo ascoltò Giorgio ci fece su una grassa risata.
Non gli andava giù molto il fatto di potersi ritrovare un giorno a svolgere
un lavoro noioso e di routine in qualche ufficio squallido e polveroso
oppure negli stanzoni freddi e angusti di un qualche ministero, come non
gli andava a genio nemmeno la possibile, futura, ingombrante presenza di
una moglie petulante e piena di pretese, ma considerava, cionondimeno, che
fosse senz'altro cosa buona e giusta il porre fine alla vita scioperata che
aveva condotto fino a quel momento.
Un lavoro bisognava trovarselo prima o poi, e in quanto alla
moglie…"beh…speriamo bene", si ripeteva continuamente non senza un pizzico
di apprensione.
Giorgio divenne miliardario grazie ad una schedina del Totogol giocata
sulle partite della B e della C1 e C2, poiché la massima serie quella
settimana osservava un turno di riposo onde consentire alla nazionale di
disputare un incontro amichevole valido per le qualificazioni ai campionati
mondiali.
Giorgio-Totogol!
Giorgio improvvisamente e magicamente miliardario.
Giorgio vita nuova di zecca e affanculo lavoro dalle 08.00 alle 17.00
orario continuato; affanculo moglie pallosa e parenti pieni di livore e
ipocrisia; affanculo ferie in agosto con le code interminabili
sull'autostrada; affanculo vita di merda fatta di giorni-fotocopia senza un
momento di allegria e senza un briciolo di novità stimolante, aspettando
solamente il 27 del mese per riscuotere uno stipendio da fame.
E affanculo anche alle bollette dell'Enel, della Telecom, dei rifiuti
solidi urbani, delle acque reflue, del metano che ti dà una mano.
Affanculo vita normale, ma normale per chi?
Giorgio da oggi vola, Giorgio da oggi v-i-v-e.
Giorgio non comprerà la casa, Giorgio non cambierà la macchina, Giorgio non
depositerà i soldi della sua vincita in banca ingrassando quei parassiti.
Giorgio i suoi piccioli se li godrà fino all'ultimo spicciolo, fino
all'ultimo respiro, fino all'ultima stilla di vita.
Giorgio si perderà per il mondo e il mondo si perderà dentro di lui.
Eterna storia di
un amore incompiuto
Alberto Milani aveva avuto poche donne nella vita.
A trent'anni suonati ne poteva contare due, tre al massimo; storie peraltro
insoddisfacenti, fatte di sesso sbrigativo e disordinato, d'amore che non
si poteva in nessun modo definire tale.
Lui sapeva di questo amore-non amore; si era reso conto ben presto che i
suoi approcci con l'altro sesso denotavano un qualcosa di ambiguo, di non
sano, di morbosamente proteso più verso l'affermazione di una volontà atta
alla compensazione di certe carenze che per uno slancio affettivo vero e
proprio.
Aveva compreso che la vita può essere terribilmente priva di senso quando
non si affermano i sentimenti.
In altre parole Alberto amava il suo bisogno d'amore, non le donne che
incontrava.
Elle lo deludevano.
O, forse, era lui che deludeva loro.
Le sue giornate scorrevano tranquille, tra fiumi gorgoglianti di caffè e
nebulose di fumo prodotte dalle tante sigarette bruciate.
Scorrevano di finestre che s'aprivano su cieli limpidi e nuvolosi, di
giradischi che suonavano di continuo vecchi standard di jazz.
E Alberto continuava a sognare l'amore mentre si vestiva in fretta per
andare incontro ad un nuovo scontro di sensi e sentimenti.
Andò avanti così per anni e per tentativi, fino a quella fatidica sera di
settembre.
Lei proveniva da un paese confinante col suo, e benché fossero entrambi
assidui frequentatori della piazza principale di lui non si erano mai
accorti l'uno dell'altra.
Ad Alberto Francesca fu presentata da un amico comune, il quale, subito
dopo aver espletato le formalità di rito, si congedò in tutta fretta,
adducendo come giustificazione alla repentina ritirata il fatto che dovesse
sbrigare certe faccende.
Così i due rimasero, dopo appena un minuto, soli soletti, l'uno di fronte
all'altra: Alberto Milani, inoccupato di lunga data, amante dell'arte e
della natura, idealista perennemente sospeso tra vocazioni artistiche e
presunto senso degli affari, incerto e fragile trentenne alla ricerca
dell'amore vero e della propria identità e…Francesca Ferreri, ventisettenne
studentessa fuori corso e fuori tempo massimo dalla vita, sognatrice ed
autoritaria, amante degli animali e maniaca della pulizia, anch'ella alla
ricerca dell'amore ma soprattutto di un figlio perché "l'età avanza e il
tempo è tiranno".
Passeggiarono un po', presero un caffè ai tavolini di un vecchio bar
all'aperto e conversarono del più e del meno, con naturalezza, come se si
conoscessero da tempo.
Si rividero spesso da quella sera, da amici, da buoni amici che si
confidano a cuore aperto le rispettive pene esistenziali.
Alberto non sapeva ancora, non credeva…
Un giorno lei annunciò la propria partenza per un lavoro inaspettato e
lontano, e ci fu un pranzo d'addio a casa sua, alla presenza di tutti gli
amici.
Il dopo pranzo significò per Alberto un mesto ritorno a casa.
Uno strano, mesto, ritorno a casa.
Trascorsa qualche settimana dalla partenza di Francesca, Alberto cominciò a
sentirsi come un leone in gabbia, nervoso, inquieto e propendente alla
malinconia senza motivo apparente.
Stava male.
Davvero.
Dopo un lungo guardarsi dentro risolse, finalmente, che il suo malessere
oscuro aveva un nome: Francesca.
Era l'amore, improvviso e devastante come un fiume in piena che rompe con
inaudita violenza tutti gli argini.
Alberto piombò di corsa giù per le scale catapultandosi nella strada
deserta alla ricerca di una cabina telefonica: sapeva che Francesca era a
casa dai suoi in quel periodo; aveva ottenuto un permesso di pochi giorni
dall'azienda presso cui lavorava per poter sistemare alcune pratiche nel
suo ex comune di residenza o qualcosa di simile, non ricordava bene, ma
l'importante, comunque, era che lei fosse vicina; vicina per ascoltare il
suo canto d'amore.
Trovò la cabina e compose, ansimando per la corsa che aveva fatto, il
numero dell'amata.
Attimi lunghi un'eternità lo separarono dall'istante in cui dall'altro capo
del filo venne sollevata la cornetta.
Non era lei.
La sorella pugnalò Alberto riferendo con tono neutro che Francesca non era
in casa e che sarebbe rientrata a sera tardi.
Alberto non telefonò più, né quella sera né nei giorni successivi.
Gli era venuto meno il coraggio, non aveva potuto cogliere l'attimo.
Succede.
Dopo l'episodio della telefonata si rividero spesso in piazza, e nelle
normali e piatte conversazioni che ne scaturivano ogni tanto lui proferiva
qualche frase che "diceva e non diceva", le lanciava occhiate che
lasciavano "intendere e non".
Aveva perso l'attimo, Alberto, e ora cercava goffamente di recuperare.
E si comportava da babbeo.
Succede anche questo.
Francesca, dal canto suo, aveva compreso il gioco e mostrava di starci.
Le piaceva Alberto, con quell'aria un po' demodé da sognatore gentiluomo.
Aveva capito tutto e aspettava.
Molti anni sono trascorsi, ormai, e quando adesso raramente s'incontrano in
quella piazza divenuta solamente teatro di sguardi e parole non dette,
Alberto continua a fare il babbeo e ad essere sempre più solo col suo amore
da spendere.
Francesca non ha ancora il fidanzato ma aspetta smaniosa il matrimonio,
quel figlio che la realizzerebbe come donna, quella casa tutta sua con
tanti animali da tenere in libertà.
Aspetta qualcuno che le offra amore.
Lei ricambierà, perché ne ha troppa voglia e troppa urgenza.
Francesca aspetta Alberto e Alberto…
Piccola storia futile
Quella mattina Amerigo si svegliò di soprassalto e in preda ai
sudori freddi.
Si toccò con ansia un po' dappertutto ed emise un profondo sospiro di
sollievo quando constatò che si trovava in camera sua, interamente
tappezzata di fotografie in bianco e nero di personaggi dello spettacolo a
lui cari.
"E' stato tutto un brutto incubo", pensò, asciugandosi con la manica destra
del pigiama la fronte imperlata di sudore e guardando fisso negli occhi di
Laureen Bacall che sorrideva ineffabile dalla parete di fronte al letto.
Fuori la giornata era di quelle da depressione totale: pioggia, freddo e
poche persone per le strade che, cercando di ripararsi alla men peggio, con
gli ombrelli che il vento puntualmente scoperchiava, entravano nei negozi
più per cercare riparo che per fare acquisti.
Amerigo si spinse giù dal letto tutto infreddolito, inforcò le ciabatte e
strascicando i piedi lungo il pavimento si diresse verso la cucina per
dedicarsi al rito del primo caffè della giornata e, successivamente, al
bagno per la pulizia personale.
Dopo aver effettuato meccanicamente questi "atti obbligatori", si
stiracchiò sbadigliando piano e ritornò, sempre strascicando i piedi sul
pavimento, nella stanza da letto.
Aprì la finestra quel tanto che bastasse a cambiare l'aria viziata della
notte, facendo comunque attenzione a non far penetrare la pioggia
all'interno; pioggia che veniva giù inesorabilmente offuscando la veduta
dei palazzoni di cemento di fronte.
Si soffermò per qualche minuto ad osservare le gocce d'acqua che si
spiaccicavano una dietro l'altra sui vetri, e non pensò a niente.
Sul viso gli si era disegnata un'espressione fissa, come se fosse rimasto
ipnotizzato da quel picchiettare d'acqua gelida a pochi centimetri dalla
sua vita.
Poi si riebbe con un sussulto e, guardando la sveglia del
videoregistratore, capì che era venuto il momento di vestirsi. Lo fece in
fretta e controvoglia a causa della cattiva giornata che lo aveva messo di
malumore.
Si accertò con meticolosità che il gas della bombola in cucina fosse
chiuso, le luci spente, i rubinetti dell'acqua serrati e, in ultimo, si
affrettò a chiudere la finestra in quanto notò, non senza un pizzico di
disappunto, che l'aria piovana era penetrata all'interno della stanza
bagnando il pavimento, nonostante l'avesse lasciata solo leggermente
socchiusa.
Ultimate queste operazioni si diresse verso l'attaccapanni situato
all'ingresso e afferrò un ombrello ed un soprabito blu scuro che indossò
con fretta e noncuranza.
Guardò di nuovo l'ora; questa volta, però, sull'orologio da polso decorato
interamente con disegni esotici, acquistato sulla bancarella di un
robivecchi che vendeva cianfrusaglie a qualche centinaio di metri da lì, in
un piccolo mercato rionale, e constatò che si era effettivamente fatto
tardi.
Chiuse adagio la porta dietro di sé, fece le scale a quattro a quattro e
raggiunse l'automobile parcheggiata vicino al portone del palazzo.
Amerigo lavorava come commesso presso un negozio di antiquariato di
proprietà di una ricca signora non più giovane che, da qualche anno, dopo
la dipartita del marito, imprenditore di successo nel ramo edilizio, aveva
maturato la decisione di coltivare quella che era sempre stata la sua più
grande passione fin dai tempi della giovinezza: l'antiquariato, appunto.
Con il lascito del marito defunto la ricca ereditiera aveva così intrapreso
la sua nuova attività di commerciante acquistando un locale di 700 metri
quadrati nella strada principale della città e, fidando successivamente
sulle amicizie influenti coltivate in numerosi anni di vita salottiera,
aveva provveduto ad arredarlo con mobili ed oggetti antichi provenienti da
ogni dove, anche per vie non propriamente legali.
In seguito aveva provveduto a far pubblicare un annuncio sui giornali
locali nel quale si richiedeva la presenza di un uomo sui trent'anni, di
buona cultura, dai modi cortesi e dall'aspetto gradevole per l'avviamento
al lavoro nel suo negozio.
Amerigo si era presentato nell'esercizio della signora la mattina stessa in
cui aveva aperto il giornale ed il suo sguardo era caduto sull'annuncio,
stampato con caratteri più grandi rispetto agli altri per evidenziarlo
maggiormente.
Aveva suscitato subito una buona impressione alla proprietaria, la quale
mostrava di gradire i modi affabili di quel giovanotto ben educato e ben
vestito che le si era presentato sorridente con una copia del giornale
sotto al braccio, aperto sull'annuncio.
Così, dopo i preliminari di rito che precedono un'assunzione, quali la
discussione sugli orari, sulla paga e sui documenti da produrre, Amerigo
tornò a casa visibilmente contento e diede la buona notizia ai suoi, che
l'accolsero con viva soddisfazione poiché in quel periodo se la passavano
piuttosto male e che, quindi, un'entrata economica supplementare avrebbe
senz'altro fatto comodo.
Ordunque, Amerigo si gettò anima e corpo nella sua nuova attività
lavorativa, seguendo diligentemente i suggerimenti della signora, la quale
nonostante fosse anch'ella nuova del mestiere, mostrava di saperne già
abbastanza, forse in virtù del fatto che si era sempre interessata
all'antiquariato in forma privata, soddisfacendo quella che era la propria
passione giovanile, come già detto.
Amerigo apprendeva velocemente i segreti della professione e cominciò così
a diventare un vero e proprio esperto nel campo, suscitando in questo modo
l'ammirazione della signora, che lo osservava lavorare restandosene
seminascosta nel retro del locale per poterlo "studiare" con più
attenzione.
Col passare dei mesi l'attività andava sempre meglio ed anche lo stipendio
di Amerigo era diventato più corposo.
Era aumentata anche l'ammirazione e la simpatia che la signora provava nei
suoi riguardi.
Amerigo si era comunque accorto delle attenzioni continue che la signora,
vedova e senza figli, gli rivolgeva sempre più di frequente, ed attribuì
tutto ciò al fatto che, forse, avesse visto in lui il figlio che non aveva
mai potuto avere o, ancora più semplicemente, non avendo il marito né
frequentato più i salotti nei quali era solita recarsi, vedesse in lui
nient'altro che una compagnia, un modo come un altro per riempire il vuoto
della propria esistenza dorata.
Niente di tutto questo.
La signora, un giorno, fu preda di un attacco violento di libidine e
Amerigo, stupefatto e incredulo, dovette sottostare alle voglie della sua
padrona nel retrobottega, sopra un materasso ammuffito che faceva parte di
un vecchio letto dei primi del secolo, appartenuto alla nonna paterna di
lei.
Amerigo guadagnava bene e in quel periodo non aveva la ragazza, quindi
ritenne che, tutto sommato, e considerata l'avvenenza di Mara, questo era
il nome della signora, forse gli conveniva accettare la situazione.
Avrebbe conservato il lavoro e l'ottima paga, usufruendo, inoltre, di una
razione periodica di fica, cosa che puntualmente avvenne durante i mesi
successivi ed in luoghi sempre più insoliti.
Era ormai un anno che Amerigo lavorava e si scopava Mara, la quale gli
aveva messo su un appartamentino in periferia: un locale composto da due
stanze con bagno e cucina e che era diventato il luogo da lei preferito
quando voleva soddisfare le proprie voglie.
Amerigo che adesso non viveva più con i genitori e la sorella minore, non
aveva mai giustificato il possesso di quell'appartamento, ma di tanto in
tanto destinava una parte del suo guadagno alla famiglia, che così non
faceva più domande indiscrete in merito alle sue mutate condizioni di vita.
Anche gli amici di Mara non facevano più domande, mostrando comprensione e,
forse, compatimento nei suoi confronti, anche se qualcuno di loro non
perdeva occasione di fare dei due amanti l'argomento preferito dei propri
chiacchiericci mondani.
Il rapporto fra Amerigo e Mara procedeva, in ogni caso, su binari di
tranquillità, anche se, talvolta, nel corso di qualche sporadico litigio,
lei gli rinfacciava di aver approfittato della sua condizione di donna
sola, bisognosa anche di sesso, certo, ma soprattutto di affetto e calore
umano che lui non sapeva o non voleva darle, interessato com'era agli agi
economici dei quali stava beneficiando grazie al rapporto instaurato.
Amerigo non replicava mai a queste sfuriate e codesto atteggiamento mandava
su tutte le furie Mara, che credeva di riscontrare in questo non difendersi
di lui la fondatezza di tutti i dubbi che le assillavano la mente.
Amerigo in questi frangenti aspettava pazientemente che le sbollisse la
rabbia che aveva in corpo, poi le si avvicinava piano, fissandola negli
occhi e, accennando un sorriso dolce che sembrava volesse dire: "Dai,
calmati, non fare così, sai bene quanto io tenga a te, sciocca", la
stringeva forte contro il suo petto e cominciava a baciarle il collo, le
labbra, il naso, la fronte, i capelli, fino al momento in cui lei non le si
abbandonava completamente, mettendo da parte tutto il livore accumulato nei
suoi confronti.
Amerigo accese il motore dell'auto, ingranò la marcia, diede gas e si
catapultò nel traffico cittadino delle 9.00, imprecando contro il cattivo
tempo che imperversava sulla città ormai da diversi giorni e che
contribuiva con i suoi nuvoloni grigi e la pioggia battente ad intristirlo
sempre di più.
Poi ripensava a Mara, al negozio ed al fatto che solamente un anno prima
era un giovanotto senza arte né parte, e considerò che quella tristezza che
gli si disegnava in viso e che poteva veder riflessa nello specchietto
retrovisore non aveva motivo di essere.
Si accesa una sigaretta e sintonizzò la radio su una trasmissione che stava
irradiando "Sotto le stelle del jazz" di Paolo Conte, concentrandosi
definitivamente sulla strada, senza pensare più ad altro.
Arrivò al negozio attorno alle 9.30, prese l'ombrello che aveva adagiato
sul sedile anteriore, spense lo stereo ed il motore e uscì dall'abitacolo
riparandosi alla men peggio dall'acqua e dal vento per quei pochi metri che
separavano l'auto dall'ingresso del negozio.
Sulle prime non afferrò il significato della piccola folla accalcata
davanti allo store, ma quando notò la presenza di alcuni carabinieri
all'interno risolse, col cuore in gola, che qualcosa di molto grave dovesse
essere accaduto.
Facendosi largo a spintoni tra i curiosi si precipitò dentro e vide.
Mara era accasciata sul pavimento dietro al bancone, con una chiazza di
sangue che le colorava il viso rendendola quasi irriconoscibile.
Amerigo stette per qualche minuto come sospeso tra il cielo e la terra,
vagando in una dimensione onirica più surreale di qualsiasi sogno o incubo,
e quando si riebbe chiedendo con espressione ebete ad un carabiniere cosa
fosse successo, anche se lo si poteva facilmente immaginare, ricevette una
risposta secca, pronunciata con il tono neutro di chi è abituato a fornire
risposte del genere: "Rapina a mano armata".
"Probabilmente erano in due, uno all'esterno a fare il palo e l'altro
all'interno a prelevare i soldi della cassa che la vittima, si suppone, non
svuotasse mai la sera prima.
"La signora deve avere reagito e il malvivente gli ha sparato un colpo alla
fronte, presumiamo col silenziatore, in quanto nessun passante afferma di
aver udito rumore di arma da fuoco".
Quelle parole risuonarono nella testa di Amerigo come un ronzio d'api
percepito da chi si trovi in uno stato di dormiveglia, provocando allo
stesso tempo un senso di fastidio e di dolore.
Soltanto verso sera, quand'ebbe terminato di rispondere alle domande che
gli avevano rivolto presso la stazione locale dei carabinieri, seduto sulla
poltrona di fronte al piccolo camino di mattoni bianchi dove lui e Mara se
ne stavano spesso accoccolati a guardare il fuoco consumare la legna, si
ricordò dell'incubo avuto la mattina e cominciò a sudare freddo, nonostante
che il camino avesse già provveduto abbondantemente a riscaldare la stanza.
Mara non gli aveva intestato il negozio, che ora sarebbe rimasto chiuso per
qualche tempo e passato poi nelle mani di Francesca, una delle tre sorelle
minori di Mara.
Amerigo avrebbe, così, di certo perduto il lavoro, poiché Federica nutriva
tutta l'intenzione di continuare ella stessa, assieme al marito, l'attività
già avviata dalla sorella defunta, e nonostante avesse poca pratica del
mestiere non gradiva estranei fra i piedi, a maggior ragione Amerigo,
l'amichetto di Mara.
Qualche lacrima calda cominciò a scendere sul viso scavato di Amerigo,
sempre più sprofondato nella poltrona di pelle marrone situata al centro
della piccola stanza.
Teneva fra le dita una sigaretta accesa che andava lentamente consumandosi
senza che ne avesse aspirato una sola boccata; lo sguardo fisso sul fuoco
che, facendola schioppettare di allegra tristezza, bruciava con una
lentezza che sembrava studiata, la legna nel caminetto di mattoni bianchi.
No, Amerigo non piangeva per il lavoro perduto.
Anche se non aveva mai amato Mara provava uno struggimento fortissimo al
ricordo di lei, dei suoi lunghi capelli neri sciolti sulle spalle bianche
come il latte, dei suoi sorrisi, della sua bocca così piccola da sembrare
una fessura dalla quale poter spiare tutto il suo mondo interiore, fatto
d'inquietudini e grandi slanci protesi verso un infinito costellato di
favole.
Un bruciore alle dita lo riportò alla realtà della sua stanza, dissipando
in un colpo la nuvola di pensieri e ricordi che l'avevano inchiodato alla
poltrona, di fronte al fuoco del caminetto.
Era la sigaretta che si era consumata completamente senza che ne avesse
aspirato una sola boccata.
Pensò, così, che il suo viaggio onirico ad occhi aperti era durato il tempo
di una sigaretta che si consuma da sola, bruciandoti le dita…e chissà che
la vita non fosse proprio questo: una lenta combustione, un consumarsi
attimo per attimo e alla fine mandare in fumo tutto quanto senza aver
aspirato nemmeno una boccata.
Amerigo diede via l'appartamento e la macchina regalategli da Mara, perché
gli sembrò giusto così, ed inoltre bisogna pur dire che non aveva mai amato
troppo quello squallido quartiere di periferia che con i suoi palazzoni di
cemento alti e grigi gli metteva addosso una tristezza indicibile,
specialmente di sera quando era solo e si metteva alla finestra ad
osservare le luci delle case di fronte che, ad una ad una, si andavano
spegnendo facendo calare il sipario, per una notte di tregua, sui piccoli e
grandi drammi che accompagnavano quotidianamente la varia umanità che
viveva ad un tiro di schioppo dal centro dei suoi pensieri.
Ritornò a casa dai suoi che avevano saputo dai giornali l'accaduto, e né il
padre né la madre gli formularono domande e Amerigo di questo fu contento:
non si trovava certamente nello stato d'animo adatto per poter fornire
spiegazioni in merito all'intera vicenda.
D'altro canto i soldi a casa li aveva sempre mandati durante il periodo
trascorso assieme a Mara, ed i suoi non avevano mai trovato nulla da
ridire, anzi gli era sicuramente convenuta la situazione.
Poi, tutto sommato, non vedeva cosa avessero potuto mai obiettare i
genitori, considerato che lui non era più un bambino e che poteva,
pertanto, disporre liberamente della propria vita e delle proprie scelte,
anche se queste potevano risultare in qualche misura criticabili.
L'anno trascorso assieme a Mara era destinato a lasciare una traccia
indelebile nell'esistenza di Amerigo; non tanto per il delitto in sé, a
quello avrebbe pensato il tempo, che provvede sempre o quasi a cancellare
tutto o quanto meno a cicatrizzare le ferite, bensì per una serie di
sommovimenti e trasformazioni interiori che avrebbe portato in superficie e
che Amerigo realizzò come precisi segnali suggerentigli che il tempo delle
responsabilità e delle scelte perentorie era venuto.
Si sposò qualche anno più tardi con Roberta, un'operaia di una fabbrica di
scarpe che prendeva tutte le mattine il treno che anche lui usava per
andare al lavoro in un grande supermercato distante una decina di
chilometri da casa.
Roberta abitava nella stessa città di Amerigo ma non si erano mai notati
prima di quella mattina; di quando lui, cio è, la urtò distrattamente nel
vagone affollato di persone che viaggiavano nella maggior parte in piedi e
le fece cadere la colazione dalle mani.
Così, dopo le scuse di rito che si verificano in queste situazioni,
cominciarono giorno dopo giorno a chiacchierare ed a scoprire poco alla
volta i punti in comune, finchè una mattina che il treno era fermo in
attesa di una coincidenza, Amerigo si dichiarò e Roberta, che non aspettava
altro, rispose subito di si, fra gli applausi e le congratulazioni degli
astanti che mostrarono in questo modo di gradire un mondo quell'intermezzo
fuori programma offerto dal viaggio solitamente noioso.
Ebbero due figli: Giorgio ed Elena, e vissero il resto della loro vita
senza grandi scosse, col pilota automatico inserito, come la maggior parte
delle coppie che popolano questa strana sfera irregolare chiamata terra.
Spesso, di sera, durante i periodi invernali dei primi anni, Roberta
sorprendeva Amerigo seduto in poltrona a fissare con lo sguardo assente la
legna crepitare nel caminetto e a tenere fra le dita una sigaretta che si
consumava senza che aspirasse una sola boccata, fino al punto che la
stessa, terminando, non gliele bruciasse facendolo sussultare.
Non ebbe mai, però, il coraggio di chiedere al marito i motivi di quegli
strani turbamenti che lo assalivano di tanto in tanto, poiché intuiva si
potesse trattare, con tutta probabilità, di avvenimenti tristi accaduti in
passato, e dei quali un uomo non parlerebbe mai, nemmeno con la propria
moglie; non già per motivi di egoismo o semplicemente per tenere celato un
segreto, bensì perché era certa che nella vita di Amerigo, prima che si
conoscessero, dovesse essere accaduto qualcosa che aveva provveduto a
lasciare un segno profondo, come se questo rappresentasse una sorta di
spartiacque fra due vite, di cui una consegnata definitivamente al passato,
con tutte le sue ombre e i suoi fantasmi, e l'altra proiettata verso un
futuro tranquillo, come in un perentorio voltare di pagina.
Poltrona
Te ne stai lì seduto su di una comoda poltrona di fronte al fuoco del
caminetto acceso e pensi di stare bene, molto bene.
I tuoi soldi sono in banca, il tuo cibo è al sicuro negli scaffali del
supermercato, la tua macchina è in garage, la tua casa è protetta dai più
sofisticati sistemi di allarme, la tua bella ed elegante moglie è dal
parrucchiere, i tuoi bravi ed ubbidienti figli sono in una costosa ed
esclusiva scuola privata e tu te ne stai comodamente seduto su di una
poltrona, crogiolandoti beato nel narcisismo e nell'analisi compiacente
della vita da uomo arrivato.
Ma tua moglie non è dal parrucchiere: il tuo migliore amico proprio in
questo momento se la sta scopando e tutti e due ridono di te.
I tuoi figli non sono a scuola come credi: la femmina fra un po' abortirà;
il maschio è in giro per i vicoli della città alla ricerca di paradisi
artificiali perché sapessi la vita da ricco rampollo quant'è noiosa.
E tu te ne stai lì seduto su di una comoda poltrona di fronte al fuoco
caldo e rassicurante del caminetto acceso e pensi di stare bene, molto
bene.
Eh, si, la vita ti ha concesso tutto, ma proprio tutto, caro amico; se solo
sapessi quant'è dura, invece, per noialtri, tirare avanti a denti stretti
stringendo la cinghia ogni giorno di più.
Periferia di una vita
Mi sedetti all'aperto al tavolino di un piccolo bar del centro storico di
un'antica e magnifica città, dopo aver portato a spasso per tutto il
pomeriggio malinconie e tormenti.
Era tremendo vivere quei giorni.
Passavo in rassegna tutta la mia vita mentre sorseggiavo lentamente un
caffè ristretto e bollente che distraeva e allentava la tensione.
Pensavo al mio sole lontano convincendomi che vivere era un diritto ma la
gioia di frequentare i giorni dell'esistenza quella no, non la ricordavo
proprio più.
Quegli anni, quegli assurdi ed ipocriti anni mi avevano scavato dentro,
addentrandosi così a fondo con le loro pale e i loro picconi da arrivare a
grattare l'anima, devastando irrimediabilmente paradisi ritmati di vino e
risate.
La gente nel parco di fronte passeggiava serena; qualche coppia, mano nella
mano, rideva con voluttà, bambini dalle carrozzine sparavano senza posa
pianti e gridolini di vita.
Era il sincrono del mondo, la magica armonia di un concerto per violini in
cui l'unica nota stonata ero io che me ne stavo lì in disparte come un cane
bastonato a leccarmi le ferite.
Io con i miei problemi, le chiusure, il radicalismo, i sogni, le chimere e
quella maledetta sensibilità, virtù penalizzante in un mondo che gira
troppo in fretta, che come un pazzo giro di valzer ti gonfia di vita e poi
ti abbandona all'improvviso in compagnia di un forte capogiro.
Il lavoro tardava ad arrivare, com'anche quell'amore pulito che avevo tanto
bramato.
Gli anni volavano via come rondini impaurite da una strana primavera, i
ricordi sbiadivano come istantanee stuprate dal tempo, i miei libri e i
miei dischi s'impolveravano sempre più.
Ero stato lusingato dalla poesia, la stessa amante passionale e meretrice
che mi aveva poi condannato a navigare per i giorni e le notti come un
comandante intrepido e sbigottito che non trova più la rotta e si perde in
alto mare.
Ero io, si proprio io al tavolino di quel piccolo caffè: promessa futura e
futuro compromesso; un fragile impasto di atomi e spirito, scaraventato
nudo al cospetto di una realtà dura come uno scoglio di mare sul quale si
frangevano a folle velocità, disperdendosi in mille rivoli, sogni e
aspirazioni.
Non so quanto tempo me ne restai seduto a quel tavolino, immobile e
verniciato di pensieri, fatto sta che la sera era già calata e il cameriere
cominciava a guardarmi storto.
Pagai il conto e me ne andai camminando a passi lenti, avvolto nella brezza
sottile e fresca di quella giornata sul finir del millennio, che mi aveva
regalato un altro assaggio di quell'amara pietanza che è la periferia di
una vita, nei cui angoli nascosti si possono covare dolci vendette e
promesse di guerra.
Mi sedetti all'aperto al tavolino di un piccolo bar del centro storico di
un'antica e magnifica città.
Molti anni erano trascorsi e tante cose cambiate.
Ero ritornato in quei luoghi del passato, teatro di miserie giovanili, e
tutto sembrava uguale, eternamente uguale: la gente nel parco di fronte
passeggiava serena, qualche coppia, mano nella mano, rideva con voluttà,
bambini dalle carrozzine sparavano senza posa pianti e gridolini di vita.
Sembrava proprio tutto uguale a come l'avevo lasciato.
Ero io ad essere cambiato, invece.
Avevo fatto i soldi, come si suol dire, ed ero ritornato.
Ricco e spietato come il conte di Montecristo, mi concederete la
digressione letteraria.
Accanto a me regnava, magnifica e ingombrante, la presenza splendida di una
giovane puttana bionda.
Mi consideravano un po' tutti come uno che si è fatto da solo, un self made
man, un uomo arrivato dicevano i miei ex concittadini, storditi a metà fra
invidia e ammirazione.
Si, ero arrivato, ma non capivo bene dove.
Ma capire non era importante.
Importante era apparire, ed io ero apparso in tutta la mia potenza fatta di
simboli e segnali.
Non so quanto tempo me ne restai lì immobile e verniciato di pensieri,
fatto sta che la sera era già calata e il cameriere, lo stesso di tanto
tempo prima, non guardava più storto bensì pregustava la lauta mancia che
quel signore sconosciuto arrivato in Limousine gli avrebbe certamente
elargito.
Così va il mondo ed io non so se esser contento o rattristarmi.
Prima vivevo di ideali e poesia ed ero solo, adesso giro in Limousine
dispensando grosse mance e sono riverito e rispettato.
Che pazzo, pazzo mondo che gira all'incontrario; che pazze, pazze righe che
vorrebbero spiegare.
Ma spiegare cosa?
Non c'è niente da capire.
Solo decidere da che parte stare.
Poesia e sentimento oppure denaro e apparenza?
Io ho scelto la mia via, ma non vi nascondo che qualche volta, di notte,
quando nessuno può vedermi, mi alzo dal letto e, silenziosamente, come un
ladro, butto giù qualche verso e qualche lacrima per poi rinchiuderli in
fretta e furia nei più nascosti cassetti del cuore, perché la mattina
arriva presto e bisogna uscire in Limousine.
Shopping
Facevi shopping da sola per le vie del centro.
Era un caldo pomeriggio d'aprile.
C'era molta gente e c'ero anch'io che camminavo lentamente sprofondando ad
ogni passo dentro i fatti miei.
C'incontrammo per caso.
Ci urtammo.
Non so se fu colpa mia o colpa tua.
La tua borsa si rovesciò.
Ci chinammo contemporaneamente.
Cozzammo con le teste.
Tu ridesti, io risi.
Eravamo così spaventosamente soli che ci ritrovammo a letto poco dopo.
Ti guardai mentre uscivi dalle lenzuola con quel tuo corpo bianco e morbido
per andare a preparare un caffè.
Io accesi una marlboro e attesi.
Dopo il caffè ricominciasti ad accarezzarmi tutto il corpo e parlavi così
tanto, dicevi tante cose: che eri felice, che avevi trovato l'uomo della
tua vita dopo tanta solitudine, che se ti avessi lasciata mi avresti
ucciso, che volevi una vita regolare, dei bambini, una bella casa spaziosa
col caminetto per le sere d'inverno e una serena vecchiaia.
Ma a me non me ne fregava niente.
Mi vestii lentamente e me ne andai.
Fuori era ancora un caldo pomeriggio d'aprile.
Accesi un'altra marlboro e svoltando un angolo entrai con noncuranza nel
solito sexy shop.
Malinconia di fine millennio
Anni ed anni passati interamente ad imbrattare carta su carta, a versare
litri d’inchiostro, a conservare gelosamente ed a rileggere con voracità
quaderni che il tempo ha provveduto ad impolverare ed ingiallire.
Tempo vile che passa e va; che penetra subdolamente attraverso i fogli, che
si insinua come un serpente velenoso fra le righe inerti e deposita polvere
antica sulle abusate parole, nelle pieghe della pelle, negli angoli più
nascosti dello sgabuzzino dei ricordi, nei più bui e segreti anfratti del
cuore.
E pensare che una volta ero anche capace di parlare d’amore.
Che cosa sono diventato adesso che non scrivo quasi più?
In questo tardo, freddo, pomeriggio di settembre i pianeti sono assai
scorbutici, me lo dice l’oroscopo sul giornale e la mia pressione
eternamente bassa.
Anche la bici è giù, con entrambe le ruote bucate, a terra proprio come me
in questa malinconica fine estate di fine secolo di fine millennio.
Non posso nemmeno uscire a prendere una boccata d’aria, magari senza farmi
vedere, sotto le finestre di casa tua.
Mi sorprende questo ritmo lento e ieratico dei giorni, ordinati e in fila
come tante pecorelle quiete, dallo sguardo intenso e smarrito per l’assenza
della rassicurante e calda voce guida di un padrone buono.
Tu come stai, sei felice forse?
E dove vivi adesso, lontano o a pochi centimetri dalla mia malferma
palafitta?
E cosa fai, dimmi, cosa pensi, cosa dici, chi c’è accanto a te ad
accompagnarti lungo la grande strada, attraverso i giorni, nel sole caldo e
nella pioggia che regala brividi di freddo, sugli altari e nella polvere?
Io sto qui, dove tu sai bene.
Sono rimasto fermo e sono lo stesso di sempre, perennemente in bilico fra
sogni e realtà, pericolosamente sospeso tra poesia e pornografia.
La vita scorre lentamente, come un lungo fiume tranquillo, e i ricordi
diventano un fertile terreno onirico da coltivare con perizia, come le
abitudini che danno un falso senso di sicurezza alle cose che facciamo,
delle quali ci ricordiamo, nelle quali ci appiattiamo e un po’ moriamo.
Vorrei che tu fossi qui, adesso, in questo preciso e irripetibile istante e
che tutti gli orologi del mondo si fermassero per noi, solo per noi, per
sublimare questo magico incontro prima di rimettere in moto la loro
inarrestabile e folle corsa verso chissà dove e chissà cosa.
Ma ciò non è possibile, il tempo è un dittatore e non si può fermare il suo
inganno.
E tu resterai dove sei, chissà in quale angolo di mondo a spendere i tuoi
giorni e la tua vita, le tue risate e le tue malinconie, il tuo sole e la
tua luna, i tuoi sentimenti e la tua rabbia; mentre io resterò ancora qui,
affondato sempre più nelle sabbie mobili dei miei sogni bislacchi e delle
utopie da inseguire, incoscientemente e magicamente perduto nei tanti voli
pindarici che ancora farò, coccolato e strapazzato dal morbido e soffocante
abbraccio della folla colorata di poeti e pornografi della mia sacra ed
eretica città.
Nave
Sono appena arrivato.
Arrivato da lontano, con quella grande nave laggiù; quella che i marinai
stanno ancorando alla banchina per impedirle di scappare.
Mi muovo nel porto con un’aria un po’ smarrita e un po’ intontita dai
lunghi giorni di navigazione e dalle tante albe e tramonti vissuti seduto
su una seggiola a poppa.
E’ pomeriggio, l’aria è calda e penso di entrare in un bar a prendere
qualcosa che mi possa dissetare.
Detto fatto e la sete è un problema già risolto.
Adesso posso dedicarmi con tutta calma alla ricerca di un albergo:
dovrebbero essercene molti in questa città, a giudicare dal continuo via
vai di turisti che affollano vocianti le strade a ridosso del porto.
Quanti piedi che calpestano l’asfalto bollente, quante voci che si
rincorrono, quante mani che si cercano e si impregnano di sudore in questa
giornata che diventa ogni minuto più afosa.
Anche l’albergo non è più un problema.
Un po’ caruccia la stanza, peròè pulita; piccola ma pulita e con
finestrelle tonde che sembrano oblò e che danno sul mare.
Credo che mi troverò bene qui, tutto sommato.
Doccia veloce e cambio d’abito.
Sono di nuovo in strada e comincio a passeggiare con le mani nelle tasche
dei pantaloni, immerso in questa fiumana di persone colorate e vocianti.
Cosa ci faccio qui?
Solo e in terra straniera, vestito in abito di lino bianco, cappello
bicolore a larghe tese, occhiali scuri e mani in tasca?
Già…cosa ci faccio qui?!
Onoro un debito.
Un debito grande quanto questo mare azzurro e calmo che ci separerà da oggi
in poi.
Non dovevo pretendere di entrare nella tua vita fatta di certezze e
comodità; di far breccia nel tuo mondo colorato da ricevimenti mondani e
cene sontuose all’aperto in giardini di grandi ville illuminate a giorno.
La mia grande colpa è stata quella di amarti al di là di ogni possibile
immaginazione, e non è stata certo quella pistola nera e lucidata di tuo
marito, stranamente sbigottito e amareggiato, a farmi approdare qui,
lontano dagli occhi e dal cuore.
Pago il mio debito con te, e se ciò può restituirti serenità lo faccio
volentieri.
Sono appena arrivato.
Arrivato da lontano, con quella grande nave laggiù.
Lo spaventapasseri
Scivolavo senza peso né volontà lungo sentieri solitari e irti di pensieri,
con in tasca una nuova bottiglia di Maalox, qualche spicciolo e tanta
indifferenza.
Intere notti trascorse in bianco non erano riuscite a regalarmi una
straccio di risposta.
Ormai mi trascinavo attraverso i giorni come un automa, senza più slanci né
desideri né vita.
Cos’era che non aveva funzionato, dannazione!
Questa domanda continuava a tormentarmi il cervello e lo stomaco, ma
niente, non riuscivo proprio a trovare il bandolo della matassa.
Stavo velocemente mutando da uomo a spaventapasseri, e già mi vedevo
crocifisso in mezzo ai campi arati, con addosso panni sporchi e lisi, a
difendere le colture dagli uccelli affamati e predatori.
Uno spaventapasseri…mio Dio, com’era potuta accadere una cosa simile?!
E gli amici…cosa avrebbero pensato di me, gli amici?!
E Francesca, poi?!
Chissà come l’avrebbe presa, poverina, quando le sarei apparso al cospetto,
invisibile agli occhi, soltanto come un mucchio di stracci gonfi d’aria e
traballanti, felici ed infelici allo stesso tempo di poterla rivedere.
Uno spaventapasseri…era questo, dunque, il mio futuro: un omino con l’anima
di legno di noce che in un tempo non lontano era stato un uomo che andava
in giro a raccontare di Dio e Michail Bakunin.
Ma com’era potuto accadere?!
Eppure avevo fatto tutto per bene, esattamente come mi era stato insegnato:
avevo creduto ciecamente nei valori della Fede e dell’Amore; negli ideali
della Giustizia, della Fratellanza, dell’Uguaglianza, della Libertà.
E allora…perché, perché?!
Conciato com’ero, a poco a poco e con banali scuse si erano tutti
allontanati da me; tutti, compreso Francesca.
Ero rimasto solo.
Solo con i miei campi arati e gli uccelli predatori.
Ero diventato, ormai, uno spaventapasseri.
“E’ la vita, figliolo,è la vita”, mi disse un giorno un contadino, curvo
dagli anni e dalla fatica, presso il quale prestavo la mia opera
stagionale.
La vita…era la vita, dunque, la risposta alla mia domanda.
Ma si, certamente, come avevo fatto a non pensarci prima?!
Era lei, soltanto lei la causa del mio stato ed io, stupido, che non avevo
capito un cazzo.
“Mamma, mamma…guarda laggiù…quello spaventapasseri…sembra vivo…muove gli
occhi…guarda, mamma!”.
“Ma non dire sciocchezze, Robertino, gli spaventapasseri sono fatti di
legno, non sono vivi, non possono muovere gli occhi!
Ti dovrò proibire una buona volta di guardare quegli stupidi film horror
alla tv!”.
Hic et nunc
Sparò contro il sole con il suo fuciletto a molla e disse: “vorrei il mio
tempo subito, perché tra un minuto l’universo esploderà e tutte le stelle
verran giù.
Mi travesto d’arte per rendermi irriconoscibile, per scappare da questa
vita non vita, da questa vita quasi morte”.
Era uno che veniva da lontano: un illuso che regalava e non vendeva, un
magnifico incompiuto che distruggeva le sue opere più belle perché non
voleva lasciare tracce dietro di se, un libero pensatore che la grettezza
endemica di questa città stava lentamente ammazzando.
A volte mi sembrava un angelo indifeso, altre un replicante minaccioso.
Senza un pizzico di follia non sarebbe stato LUI.
Quando ci incontravamo si parlava del più e del meno, cio è del niente.
E lui era niente.
Un niente popolato di colori.
Prima d’esser vinto da una violenza implosiva che lo catapultò lontano, mi
chiamò a tarda notte al telefono e disse: “sai, il cielo non è per me che
guardo troppo in alto fino ad avvertire una vertigine leggera…
L’ho veduto, però, questo cielo…e ci sono scivolato sopra come fosse merda
di cane”.
Hic et nunc (ora e qui).
Giovanna e Luigi
Giovanna la rossa, la chiamano tutti così per via dei lunghi capelli color
rame che le circondano il bel viso come una cornice di fuoco.
Giovanna, anni 17, un magnifico culo e grandi tette portati a spasso con
disinvoltura lungo le strade e i vicoli della piccola città-cortile.
Giovanna niente più scuola: bisogna dare una mano a tirare avanti la
carretta di una famiglia povera e numerosa.
E allora addio per sempre gioventù.
Luigi, anni 22, aiuto meccanico in una piccola officina di quartiere.
Alle spalle un passato da micro delinquente: un talento naturale per furti
e scippi.
Un cielo a pezzi, piccolo Luigi.
Poi quel lavoro, opprimente, pagato male.
Com’è lontano il magico mondo del cinema, vero, Luigi?
Luigi quand’è sera prende l’auto del padre e guida calmo, sigaretta
all’angolo della bocca e bavero del giubbotto alzato, verso la periferia,
laddove ha inizio l’irreale e terribile profilo dei casermoni dell’INA
CASE; alveari popolati da persone che vivono una vita di seconda mano e poi
muoiono fragili, inutili e senza far rumore così come hanno vissuto,
davanti alla tv accesa.
Luigi con 50.000 lire va a mendicare un tozzo d’amore.
Povero Luigi che la vita ha trafitto troppo in fretta.
E povera Giovanna; non era certo questo che volevi per te, vero,
signorinella che sognavi cene romantiche sulle stelle e risvegli impastati
di sabbia e acqua di mare?
Giovanna la rossa e Luigi l’aiuto meccanico: due purosangue che non hanno
mai vinto una corsa, che forse non la vinceranno mai; due vite nate
danzando che stanno lentamente morendo.
Quanti ne abbiamo conosciuti e quanti ne conosceremo ancora: quante
Giovanna e quanti Luigi incroceremo per la strada e non sapremo
riconoscere, perduti come siamo nel groviglio inestricabile di passioni e
dolori che è questo strano viaggio chiamato vita.
Giardini pubblici
Che faccio, glielo dico?
E poi?
Come la prenderà?
Mi getterà le braccia al collo, felice, regalandomi uno dei suoi grandi
sorrisi aperti, oppure sgranerà quegli occhioni
neri assumendo un’espressione fra lo stupito e il contrariato?
Che faccio, Dio mio, che faccio?
Non si può andare avanti così; ogni giorno che passa è un tormento, una
febbre che sale dalle viscere fino ad intorpidire il cervello.
E allora che faccio, glielo dico?
E lei che farà?
Ed io, poi, che farò?
Manca poco all’appuntamento; compro un cartoccio di patatine fritte e mi
metto a sedere, cercando di calmare l’ansia che mi attanaglia, su una
panchina lì vicino.
Nei giardini pubblici alcuni bambini giocano a rincorrersi, guardati a
distanza dalle mamme che lavorano golfini a uncinetto e chiacchierano fra
loro.
L’aria è frizzante, gradevolissima, e tutt’attorno si respira un clima
positivo di mamme, figli, alberi e panchine, tutti sereni tranne me.
Un po’ più in là un vecchietto passeggia lentamente appoggiando il peso dei
suoi anni ad un bastone di legno scuro e di tanto in tanto si gira,
sputacchia per terra e poi sorride…e sputacchia di nuovo.
Dio mio, eccola!
Quant’è bella avvolta in quell’eskimo marrone: sembra una bambina, e che
movenze leggiadre da libellula!
Mi faccio forza e mi alzo dalla panchina.
Dò un’occhiata attorno: le mamme lavorano sempre golfini a uncinetto, i
bambini giocano a rincorrersi, il vecchietto si gira e sputacchia per
terra, poi sorride e…sputacchia di nuovo.
Adesso siamo vicini, io e lei.
Un altro passo in avanti e ci troviamo l’uno di fronte all’altra.
Un venticello fresco ci sfiora i visi avvisandoci che il pomeriggio volge
al termine.
La guardo intensamente negli occhi, lei mi guarda intensamente negli occhi.
Sono scosso da brividi di freddo.
Prendo tutto il fiato che posso e glielo dico, mi sono deciso; a denti
stretti e occhi bassi ma glielo dico.
Glielo detto!
E finalmente ci siamo lasciati.
Non ci sopportavamo più.
Dò un’altra occhiata attorno: la sera è calata tutt’ad un tratto e le mamme
lavorano ancora golfini a uncinetto, i bambini giocano a rincorrersi, il
vecchietto si gira e sputacchia per terra, poi sorride e…sputacchia di
nuovo.
Giardini pubblici di una metropoli industriale.
Accade anche questo.
Ed eccomi qui
Ed eccomi qui, nel tardo pomeriggio di un aprile piovoso, seduto dietro una
finestra, con lo sguardo che vaga nel cielo che lentamente va
rasserenandosi.
Le nuvole hanno rovesciato molta pioggia, dissolvendosi poi in fretta e
andando a morire chissà dove: un po’ come accade ai sogni quando viene
l’alba.
Le strade tra poco saranno completamente asciutte; la gente ha già ripreso
a popolare la città ridando un senso a negozi, vetrine, cartelloni
pubblicitari, statue, parchi, panchine.
La musica corre forte come la mia malinconia.
Mi restano soltanto due sigarette e un’ipotesi di whisky.
Penso che la vita sia tutta un’illusione; siamo noi, stupenda e terribile
nobiltà di bestie destinate al macello che vogliamo conferirle un senso,
caricarla di significati perché bisogna pure andare avanti in qualche modo,
impegnando la mente e il corpo, e dipingendo i suoi giorni coi colori
accesi degli ideali, dei sogni e dei sentimenti: in una parola sola
appellandosi all’anima.
Dodici anni dalla fine della scuola: quante persone che ho incontrato,
storie che ho intrecciato, sogni che ho diviso, amori che ho consumato,
ferite che ho lavato.
Quante speranze di una vita migliore sono naufragate una dopo l’altra nella
bonaccia di questi lidi sporchi e assolati.
Quanti di voi, amici e nemici, non ho più visto.
Non so più nemmeno in quale angolo di mondo siate finiti.
Un carosello di visi gira come una trottola impazzita nello sgabuzzino dei
ricordi.
Dodici anni dalla fine della scuola ed io sono ancora qui, struggente e
patetico angelo in pena.
Credo che qualcosa non abbia funzionato.
Mentre correvo dietro a chimere di arte e libertà tutti gli altri si
andavano integrando.
Ed eccomi qui, solo e confuso, a cercare di capirci qualcosa, mentre gli
altri, tutti gli altri prenotano i luoghi di villeggiatura per le ferie.
Il cielo è ormai sgombro completamente, l’aria è frizzante, gli uccelli
tornano a cantare, si sente il profumo dell’erba bagnata dalla finestra
adesso spalancata.
Un pallido sole brillerà ancora per qualche ora, poi un’altra notte verrà a
depositare polvere di stelle sui tetti delle case.
La musica corre forte come la mia malinconia.
Sono rimasto senza sigarette e anche quel po’ di whiskyè scivolato via.
Sto vivendo questa vita stralunata a modo mio, un po’ dentro, un po’ fuori,
di sghimbescio alla realtà, e mi sento un po’ re e un po’ barbone.
Ma non è niente,è solo un’illusione, un pizzico di foschia che nasconde
dietro ad un angolo il domani che forse sarà di nuovo bugia.
Un’ipotesi d’amore
Giovanna aspettava sotto il portone di casa, con un occhio all’orologio e
un altro alla pioggia che batteva fitta sull’asfalto già da qualche ora.
Era ottobre e bisognava abituarsi a quel clima uggioso che ormai doveva
accompagnare le giornate dei prossimi cinque o sei mesi almeno.
Antonio si trovava a qualche chilometro di distanza, imbottigliato nel
traffico delle 17.00, quello dei pendolari che ritornavano a casa dagli
uffici e dalle fabbriche della zona.
Fumava nervosamente una sigaretta dietro l’altra, tenendo un po’ aperto il
finestrino dell’auto per far uscire il fumo che rendeva l’abitacolo simile
ad un bagno turco.
Nel traffico si procedeva a passo d’uomo e, così, Antonio rischiava di
compromettere seriamente l’appuntamento con Giovanna, che non glielo
avrebbe perdonato sicuramente, scorbutica e malfidata quel era.
“Avrà preso certamente dalla madre”, pensava.
Quell’arpia della madre che non lo aveva visto di buon occhio fin dalla
prima volta che era andato a prendere Giovanna a casa per uscire e andare a
mangiare una pizza, l’unica cosa che al momento poteva garantirle,
spiantato cronico com’era.
Bisogna pur dire, però, che la colpa non era del tutto sua: studiare aveva
studiato, ma non sopportava l’idea di dover lavorare alle dipendenze di un
qualche parassita che avrebbe preteso tanto e pagato una miseria.
“Eh, già…con quelle idee politiche che ti ritrovi sarai destinato
sicuramente a diventare un morto di fame”, sibillava spesso la suocera,
quell’arpia!
Antonio era sulla trentina, alto, bruno, di carnagione scura, con un fisico
atletico e lo sguardo leggermente velato di malinconia che non faceva altro
che accrescergli l’endemico fascino.
Un passato da militante anarchico e qualche cicatrice lungo il corpo, segno
tangibile nonché memorandum vita natural durante di antiche “divergenze
d’opinione” con le forze dell’ordine.
Era Perito Industriale Elettrotecnico, Antonio; professione che non aveva
mai amato molto, ma che, in ogni modo, gli consentiva se non altro di poter
svolgere qualche lavoretto, perlopiù di progettazione e disegno, presso lo
studio di un ingegnere amico di un suo zio materno.
Così almeno poteva pagare le pizze a Giovanna.
Giovanna, 25-26 anni, maturità magistrale, non propriamente una bellezza
abbacinante, scorbutica e priva d’interessi particolari, con in testa una
sola idea fissa: il matrimonio in chiesa, con l’abito bianco e centinaia di
invitati a lanciarle il riso.
Antonio e Giovanna: che strano assortimento d’amore.
Già…ma si amavano almeno?
Probabilmente si, nonostante tutte le sostanziali differenze di fondo.
Antonio, un sognatore convinto senza il becco d’un quattrino e Giovanna,
una ragazza della media borghesia con gli orizzonti limitati alle mura del
negozio di alimentari del padre.
Antonio e Giovanna: un’ipotesi di vita insieme.
Antonio era arrivato vicino al portone di casa di lei che era rimasta lì ad
aspettarlo pazientemente.
Aprì lo sportello dell’auto e la fece salire a bordo, non prima di averla
aiutata a saltare una pozzanghera che divideva il portone del condomino
dalla vettura.
Sgommando lievemente partì per la solita pizza, le solite facce, gli stessi
eterni discorsi.
Il mondo di Antonio e Giovanna: un' ipotesi d’amore.
Sono trascorsi diversi anni da allora e Antonio e Giovanna non stanno più
assieme.
Lei si è coniugata con un commerciante di pellami ed ha messo al mondo
cinque figli, tutte femmine.
Si è notevolmente ingrassata e trascorre le sue giornate tra i fornelli e
le grida delle bambine.
Di Antonio non se n’è saputo più nulla.
Partì un giorno d’estate dicendo che sarebbe andato alla ricerca di qualche
cosa che non sapeva bene nemmeno lui.
Ogni tanto qualcuno nel rione giura di averlo visto ora in Grecia, ora in
India, ora in Brasile…
Ma probabilmente si sbagliano.
Antonio e Giovanna fu un’ipotesi d’amore.
Un sogno
Stanotte ho fatto un sogno.
Con gli occhi della mente ho visto un porto, una banchina, un uomo con una
grossa valigia nella mano.
In una mattinata umida di nebbia e di pensieri un viaggiatore di poche
parole aspettava di partire per un lungo viaggio.
Un viaggio verso sud, ai confini dell’anima, alla ricerca del velluto
interiore.
A sud di nessun nord, forse incontro al nulla o, chissà, forse verso Itaca.
Tutt’attorno odore acre di caffè e un viavai di portuali infreddoliti e
stanchi, stretti in larghi cappotti di kaftà.
In lontananza sirene di navi urlavano al vento.
In un angolo nascosto una radiolina scassata gracchiava: - It’s a wonderful
world -, del grande vecchio Louis Armstrong.
Tutte le meccaniche del mondo sembrava si fossero date appuntamento in
quello strano luogo, specchio segreto di vizi del presente, per muovere
all’unisono le loro antiche leve.
Io non riuscivo a comprendere il perché mi trovassi là: ero un testimone,
uno spettatore del mio sogno, un sogno dentro un altro sogno.
Mi sono avvicinato, senza parlare, al viaggiatore, facendo il gesto di
offrirgli una sigaretta.
Lui si è girato lentamente verso di me e con un fil di voce ha sussurrato:
“Questa non è nebbia,è malinconia”.
Stanotte ho fatto un sogno…
Te l'avevo detto
Te l'avevo detto che, per tradizione paterna, russavo forte e mi puzzavano
i piedi.
Ma tu niente, cocciuta, hai voluto sposarmi lo stesso.
Avevi ormai trentanni e nessuno che ti filasse più.
Il tempo stringeva le sue fauci e necessitavi, ordunque e al più presto, di
un marito e di un figlio per sentirti completamente realizzata come donna.
In gioventù avevi fatto la schizzinosa, snobbando fior di giovanotti che ti
venivano dietro.
Ti sentiva una regina, forte di quella bellezza maestosa che madre natura
t'aveva offerto in dono.
Una beltà con i controcazzi, ma altera e presuntuosa oltre ogni limite di
sopportazione.
Poi gli anni presero a volare e i tuoi fiori ad appassire, ripiegando sul
gambo ad uno ad uno come guerrieri che gettano le armi riconoscendo la
sconfitta.
Non ti cagava più nessuno, eri rimasta prigioniera di quella libertà che
avevi eretto a prerogativa suprema della tua esistenza.
Ma eri anche molto, molto facoltosa attorno ad un deserto di prospettive.
Di singles ce n'erano a tonnellate.
Di senza lavoro altrettanto.
Tu non volevi restare zitella, io mi dovevo sistemare.
Nacque così il nostro grande amore.
Adesso mi esibisci soddisfatta alle amiche e ai parenti.
Adesso esibisco soddisfatto tre automobili nuove all'anno.
Adesso sei felicemente moglie e madre.
Adesso sono felicemente marito, padre e dirigente d'azienda.
Adesso siamo finalmente e felicemente realizzati e coglioni.
Storia di nessuno
Delio viveva una ricca povertà.
Le sue grigie giornate d’inoccupato si coloravano nella quasi totalità di
arte e di sogni e, a sera, dopo la frugale cena consumata di fronte al
telegiornale in compagnia degli anziani genitori, prendeva le chiavi della
sua utilitaria per recarsi in centro alla ricerca di qualche amico con cui
trascorrere la serata.
Serata che già si sapeva come iniziasse e finisse.
Serata di niente, fatta di auto ferma in un angolo di piazza, con il
mangianastri acceso ad esalare vecchie, malinconiche, canzoni jazz e lui a
fissare il vuoto fantasticando sul futuro: futuro che sperava pregno
d’amore e lavoro.
Un futuro che tardava ad arrivare, ma che in realtà era arrivato già da un
pezzo e stava anche velocemente esaurendosi.
Delio Maestosi, anni 31, inoccupato da 13, diploma di maturità
tecnico-industriale sepolto nel cassetto, niente raccomandazioni e ripetute
porte chiuse in faccia.
Delio Maestosi, altezza 1.80, capelli castani, carnagione olivastra sul
tipo mediorientale, sogni d’arte e libertà, segni particolari: meridionale
orgoglioso e dai sani principi morali.
Delio Maestosi: un’esistenza scippata.
Delio che non aveva mai fatto del male a nessuno, che desiderava soltanto
crearsi uno spazio e una famiglia tutti suoi.
Delio sognatore, Delio idealista, Delio dal cuore grande così…
“Esploso un ordigno alle 13.20 in pieno centro storico, nel momento di
massima defluenza degli impiegati del Ministero delle Finanze, che a quell’ora
sono soliti assentarsi dal posto di lavoro per la pausa pranzo.
E’ una strage.
Il bilancio provvisorio è di 7 morti e 14 feriti, di cui 3 in condizioni
disperate.
Sul luogo dell’attentato dinamitardo sono accorsi prontamente il Presidente
della Repubblica e una delegazione di parlamentari della maggioranza.
Si scava ancora sotto le macerie nel tentativo di riportare alla luce altri
eventuali corpi.
Ai familiari delle vittime va il cordoglio delle Istituzioni tutte.
Nel conflitto a fuoco ingaggiato fra le forze dell’ordine e gli attentatori
è stato colpito a morte quello che dai documenti risulta essere un
appartenente al neo movimento anarchico - Per Un Futuro Migliore -.
Trattasi di tal Delio Maestosi, di anni 31, inoccupato da 13, altezza 1.80,
capelli castani, carnagione olivastra sul tipo mediorientale, amante
dell’arte e della libertà.
Per ulteriori dettagli vi rimandiamo al tg delle 20.00”.
Addio, Delio.
Non era questo il modo e tu lo sapevi bene, ma eri accecato dalla
disperazione che questa società ti aveva cucito addosso.
Addio, Delio dal cuore grande così…e addio anche a voi povere, innocenti,
vittime di un errore collettivo che ha armato la mano di pochi.
Un mangianastri acceso esala vecchie, malinconiche, canzoni jazz…
Sandro tante stelle
Una tenda mossa dall’alito caldo del venticello di quasi estate, una
vecchia canzone alla radio a diffondere malinconia nell’aria stupida di
questo giugno inutile, un lettino sfatto, un corpo ivi disteso, uno sguardo
perduto nell’infinito del soffitto sotto al quale vanno a schiantarsi,
allacciati, pensieri, malumori e fumo di sigarette.
Sandro sa che la sua gioventù sta per finire, che come un sudario va
avvolgendosi sopra un passato impastato di miserie, coprendo pietosamente
anni consumatisi in fretta e senz’amore…
Sandro Lombardi…quante notti trascorse a guardare le stelle e a sognare la
vita.
Sandro Lombardi che ti fai chiamare Elena…un angelo dalle ali bruciacchiate
che non riesce a spiccare il volo.
Sandro tante estati e parole non dette; con l’inverno cucito sulla pelle
anche quando fuori brillava il sole.
Sandro che nessuno ha mai capito tutto l’amore che portavi dentro.
E i tuoi che sapevano, fingevano di nulla e abbassavano gli sguardi.
E la gente che ti indicava e ridacchiava al tuo passaggio.
Sandro tante stelle che con le donne non ci sei mai riuscito, che quando
quel tuo amico di scuola ti sfiorò per caso sotto al banco una gamba
provasti un brivido forte.
Qualcuno molto erudito ti disse che eri malato ma tu non ti sentivi così.
Cercasti l’amore in ogni angolo dell’esistenza, ma tutto quel che riuscisti
a trovare fu soltanto pornografia.
E continuasti nella ricerca delle stelle sempre, senza arrenderti mai.
Poi, in un giorno come tanti, grigio di polvere e poesia, trovasti lei, la
nera signora con la falce mascherata da bel ragazzo bruno e forte che ti
sedusse e avvelenò con i suoi germi di morte.
Ma non è per questo che lo farai, bensì per il dolore seguito all’ennesima
grande delusione.
Sandro che s’alza dal lettino sfatto di stanchezza e solitudine e che
lentamente s’avvia al balcone.
E’ un attimo…è Sandro…è un breve volo planare…è un rumore sordo sul
selciato.
Una manciata di secondi e poi tanta gente, la tua gente, ma non indicano,
non ridacchiano più.
Ora sono muti e sgomenti e, con gli sguardi che vagano persi nell’aria
soffocante di questo giugno da morire, s’interrogano cercando i perché.
Perché che potranno trovare dentro le risate di scherno, in quell’
“indicare” criminale, nelle rughe secolari di anime bigotte e ignoranti.
Dentro il vuoto di questa nazione insignificante e medievale.
Addio Sandro Lombardi che ti facevi chiamare Elena, dolce angelo senz’ali
di riserva.
Ho capito più cose dalla tua esistenza fragile e indifesa che da tutti i
discorsi del mondo.
Sono certo che adesso hai davvero intrapreso il tuo viaggio verso le
stelle.
Luigi il manager
Luigi è un manager stressato.
Non ce la fa più a reggere il ritmo di una vita impostata tutta
sull’immagine e sugli status-symbol lungamente inseguiti.
Non sopporta più i macchinoni di lusso, i vestiti firmati, il telefonino
che squilla in continuazione, le noiose cene di lavoro, la moglie sempre
dal parrucchiere, i figli che vogliono questo, vogliono quello…
Cresciuto davanti alla televisione Luigi ha sempre ritenuto che nella vita
il denaro rappresentasse tutto e che possederne in quantità fosse indice di
superiorità sociale.
Possederne poco significasse, di contro, essere uno zero assoluto.
E lui gli zero assoluti li aveva sempre trattati da coglioni.
Ha lavorato vent’anni al servizio di una compagnia finanziaria tedesca,
accumulando, grazie ad abili speculazioni in borsa, una discreta sommetta a
nove zeri, ed oggi possiede una villa a Posillipo con piscine e campi da
tennis annessi, una Limousine con autista, un’altra villa a Portofino nelle
cui acque è ancorato uno splendido 12 metri cabinato sul quale scarrozza in
giro per il Mediterraneo moglie, figli, parenti, amici, amanti e tutta la
gente-bene conosciuta frequentando i salotti della ricca borghesia italiana
ed alemanna.
Nonostante la bella vita, però, Luigi ad un certo punto della sua esistenza
dorata è andato letteralmente in tilt.
Si è reso conto di non essere felice; d’esser mancante di qualcosa.
Ma cosa può mai mancare al nostro yuppie-super manager-very important
people?
Possiede tutto quanto un uomo possa desiderare: beni materiali di ogni
fatta, ammirazione da parte di amici e nemici, femmine scaldaletto dal
numero imprecisato…ma allora cos’è che non va nella sua esistenza da
privilegiato?
Luigi Cesavola ha bisogno di canzoni, di risate, di tramonti infuocati in
riva al mare.
Ha bisogno di un amico vero da svegliare alle tre di notte per scambiare
quattro chiacchiere fino all’alba.
Ha bisogno di una donna che lo faccia restare immobile sotto una pioggia
battente di fronte alla sua finestra a soffrire d’amore.
Ha bisogno di un sacco a pelo e chilometri da macinare a piedi, sotto un
sole rovente, per trovare un posto buono dove trascorrere la notte al
chiaro di luna.
Ha bisogno di una bicicletta per godersi la dolce primavera delle campagne
in fiore.
Ha bisogno, Luigi, di cose semplici, genuine, che diano il gusto pieno
della vita, come recitava una famosa pubblicità.
Ha bisogno di poesia.
Si è accorto che il way of life che ha condotto finora non lo appaga più;
che non l’ha mai appagato a pensarci bene, che non gli infonde la serenità
che desidererebbe.
Ha individuato il malessere ma non la terapia.
Se solo avesse avuto più tempo per stare con se stesso…
L’hanno trovato cianotico nella vasca da bagno della villa a Portofino.
Chissà quanta morte in pillole hai ingerito, povero Luigi, che la vita ti
ha dato tutto e non ti ha dato niente.
Lo smemorato delle Vele
Francesco ha perduto la memoria.
Non ricorda più niente del suo passato.
Confusamente soltanto una strada bagnata di pioggia, una curva improvvisa,
una brusca sterzata, una frenata disperata, un gran volo, un assordante
schianto.
Poi più nulla, solamente il buio.
E al risveglio un gran mal di testa, un senso di vertigine, un po’ di ossa
rotte, un lettino di una stanzetta d’ospedale.
Tutto perduto: macchina, documenti, memoria e passato.
Poi, lentamente, convalescenza e completa guarigione fisica.
Ma memoria niente.
E Francesco che vaga per le strade d’Europa con l’andatura e lo sguardo di
un bambino che ha smarrito i genitori tra la ressa di gente alla festa di
paese.
Poi l’Olanda e l’amore per una ragazza dai capelli color del grano maturo e
dal sorriso dolce come zucchero filato.
E Francesco che mette fine al suo girovagare disperato e che trova un posto
da magazziniere in una ditta export di laminati d’alluminio.
Francesco non ricorda più nulla del suo passato.
Non sa di essere stato un esecutore di camorra.
Il più feroce e disumano.
Francesco Apuzzo, anni 26, nato alle Vele di Secondigliano.
Un’esistenza sbagliata, un cammino costellato di morte e dolore.
Da ragazzino con il pallone ai piedi era il migliore: un futuro radioso
davanti, lo voleva la Juventus.
Ma la cocaina fece prima.
Dapprincipio furono scippi e furtarelli, poi sempre più su, sempre più su,
sempre più giù.
Perché i soldi non bastavano mai.
Perché la sua era una famiglia povera.
Perché non voleva finire come suo padre, scaricatore al porto, esistenza
grama e tanti calci presi in faccia.
Francesco Apuzzo, detto “Ciccio ‘o bello”, voleva il mondo nelle sue mani
per essere libero di graziarlo o schiacciarlo a piacimento; pollice su o
pollice giù, come gli imperatori dell’antica Roma.
E poi fu camorra.
E morte, dolore, lacrime.
“Ciccio ‘o bello” sempre più su, Francesco Apuzzo sempre più giù.
Francesco senza più memoria, nato da poco, innamorato di Greta-zucchero
filato, ha scoperto dentro di se una vena lirica insospettata e le scrive
poesie nei ritagli di tempo del lavoro.
Francesco che non ricorda più.
Ma gli altri si.
E che dopo estenuanti ricerche lo trovano e lo freddano fra la folla, in
pieno giorno, accanto alla staccionata di uno dei tanti canali di una
splendida e soleggiata Amsterdam d’ottobre.
Questo testo è opera di fantasia, pertanto ogni riferimento a fatti e/o
persone reali è da ritenersi assolutamente casuale
Fantasma d'amore
Napoli quella mattina di settembre srotolava un tappeto di cielo di un
azzurro così intenso da far male agli occhi nel sollevare lo sguardo.
Dopo un fastidioso viaggio di tre quarti d'ora in un vagone affollato di
persone, ero sortito dalla stazione della Circumvesuviana di Piazza
Garibaldi e mi accingevo a percorrere a piedi la distanza che mi separava
da Corso Umberto, dove di fronte all'ingresso del Teatro San Carlo avevo
appuntamento con la misteriosa dama che durante l'intera settimana mi aveva
tormentato con telefonate anonime.
Nel corso dell'ultima chiamata, però, era rimasta all'apparecchio più a
lungo del solito e, dopo l'usuale campionario di sospiri e mugolii, aveva
finalmente articolato la sua voce, dandomi appuntamento il sabato mattina
alle 11.00, per l'appunto a Napoli, nelle immediate vicinanze del tempio
dell'opera lirica.
Sulle prime pensai ad uno scherzo; successivamente provai anche un pizzico
di apprensione, ma considerata l'enorme curiosità che l'anonima
telefonatrice aveva suscitato in me, risolsi, con una decisione che sapeva
di liberatorio, di recarmi senza meno all'appuntamento.
Il sole cocente di quella mattinata di fine estate lessava la pelle ed i
pensieri, ma la mia voglia di sesso era tanta, e per la somma di questi
motivi desideravo ardentemente che il bus dell'A.T.A.N. potesse volare
sopra la lunga coda di automobili anziché proseguire a passo d'uomo nel
traffico selvaggio che strisciava come un serpente velenoso lungo il
rettifilo di Corso Umberto che mi avrebbe condotto in Via Roma (o Via
Toledo, qual dir si voglia) e da lì, scivolando a sinistra, dalla mia
erotica dama Telecom.
Ammesso, comunque, che non fosse tutto uno scherzo e che al posto della
mysterious lady non trovassi solamente la conferma di quel che
reconditamente, ma neanche tanto, temevo: una burla, cio è, di stampo
goliardico, architettata ai miei danni da parte di qualche amico
buontempone.
Dopo circa mezzora e l'ennesima colata di sudore scesi all'agognata fermata
di Via Roma, di fronte al bar Motta.
Acquistai un pacchetto di Marlboro di contrabbando e proseguii a piedi, con
il cuore in gola per la curiosità e l'emozione, alla volta del San Carlo.
Giunsi all'ingresso del teatro che mancava un quarto alle 11.00.
Entrai in un bar, sorbii lentamente un caffè caldo, accesi una sigaretta e
attesi.
Alle 11.00 e ¼ lei arrivò.
La riconobbi subito poiché al telefono, l'ultima volta, aveva provveduto a
spiegarmi come si sarebbe abbigliata per l'occasione: vestitino lungo,
rosso, di seta leggera a giro maniche, calzature bianche con i tacchi a
spillo, calze rosa a rete e borsetta di pelle nera lucida sotto al braccio.
Era un gran pezzo di f..., non c'era dubbio: 28-29 anni, alta, slanciata,
capelli lunghi biondo platino sciolti sulle spalle, abbronzata, dalle
movenze leggiadre e felpate di un magnifico felino.
Una carica erotica indescrivibile a parole; uno straordinario animale da
letto che sprigionava sesso da ogni centimetro del corpo.
Mentre mi si avvicinava (risultava evidente che mi conoscesse) avevo già
formulato i pensieri più caldi che la mia fantasia avesse mai potuto
partorire.
Provavo un misto di curiosità, soggezione ed eccitazione, ma cercai di
dominarmi, di mantenere il self-control, come si suol dire, anche se al
cospetto di cotanta visione era un'impresa non propriamente agevole.
Quando fu più vicina ebbi modo d'ammirare i suoi splendidi occhi verde
bottiglia, che conferivano allo sguardo una profondità tale che pareva
voler mettere a nudo i pensieri più peccaminosi di chi le stesse accanto.
Aveva, inoltre, la bocca a forma di cuore, con labbra rosso fuoco e carnose
che sembrava promettere chissà quali paradisi in terra.
Si arrestò a mezzo metro da me, scusandosi per il ritardo.
La voce era morbida e ben modulata, ancor più sensuale di quella che avevo
avuto modo di apprezzare al telefono nel corso dell'ultima chiamata.
Il profumo che si sprigionava dalle sue carni emanava un'essenza così aspra
da far girare la testa, quantunque io fossi già abbondantemente inebetito
dal caldo.
Si presentò (anche se la sola presenza fisica bastava ed avanzava alla
bisogna) affermando di chiamarsi Francesca.
Il cognome non lo rammento e non ritengo abbia importanza alcuna ai fini
della vicenda in oggetto.
Entrammo nel bar dove poco prima avevo sorbito il caffè ed ordinammo due
Cynar con ghiaccio.
Mi aveva notato nella piazza della mia piccola città di provincia, che era
solita frequentare con le amiche, mentre passeggiavo, assorto, per i fatti
miei.
L'avevo incuriosita, le ero piaciuto, in altre parole, bontà sua.
Si era procurata il mio numero di telefono svolgendo una piccola indagine
personale.
Il resto lo sapete.
Uscimmo dal locale che erano quasi le 13.00.
I negozi stavano abbassando le saracinesche per la chiusura di mezza
giornata e le strade lentamente andavano svuotandosi per il pranzo.
Eravamo rimasti io e lei, soli, nel deserto urbano della controra
napoletana, alla ricerca di un alberghetto a ore.
Ne trovammo uno dalle parti di Piazza Della Borsa.
Aveva stanze piccole e spartane, pulite, però, e a buon mercato,
soprattutto, considerate le magre finanze personali in quel periodo.
Una volta sistematici ebbe inizio un pomeriggio di fuoco, e non alludo
certo alle condizioni metereologiche.
Francesca si rivelò (semmai ve ne fosse stato dubbio) una belva affamata di
sesso.
Mi scaraventò sul letto avvinghiandosi come una leonessa sulla preda,
slinguazzandomi avidamente il corpo sudato.
Facemmo l'amore svariate volte, in maniera selvaggia, adottando posizioni
oltremodo rocambolesche.
Era lei a guidare con consumato mestiere la tribale danza erotica.
Io la lasciavo giocare, perduto com'ero in quel vortice stordente di sensi
nel quale ero beatamente sprofondato.
Alla fine rimanemmo senza fiato e ci abbandonammo ad un profondo sonno
ristoratore.
Al risveglio saldai il conto dell'albergo e sortii mano nella mano con lei
nella frizzante brezza della sera partenopea.
Mai Napoli era stata per me più bella come in quelle ore.
Passeggiammo allacciati strettamente lungo Via Caracciolo, respirando a
pieni polmoni l'inebriante profumo del mare trasportato da un alito di
vento ruffiano.
I nostri cuori, legati alla stessa cordicella, si libravano alti,
perdendosi raggianti nella notte stellata di Mergellina.
Forse la felicitàè una condizione irraggiungibile, ma in quei momenti
avevo come la netta sensazione di stare sfiorandola.
Poi mi svegliai di colpo, madido di sudore e in stato d'agitazione, nella
penombra della mia stanza da letto.
Compresi in un baleno l'amara verità: Francesca, la mia adorata musa, non
esisteva.
La donna che mi aveva ridato la vita e la fiducia in me stesso non era
reale, bensì impastata con la materia evanescente dei sogni e destinata,
pertanto, a confondersi e a dissolversi nell'accecante luce del giorno che
tutto si porta via, inghiottendo, famelica, la notte ed i suoi fantasmi.
Questo era stato, dunque, per me Francesca: un bellissimo, eroticissimo,
ammaliante fantasma d'amore.
Mi sollevai dal letto con un forte mal di schiena, inforcai le pantofole e
mi avviai con calma verso la cucina per prepararmi il caffè.
Poi ci sarebbe stata la vita reale, con altri tipi di ombre e con un'altra
dura giornata di lavoro in fabbrica ad attendermi.
Era un mondo
Era un mondo dove il fragore delle bombe aveva coperto il canto dei poeti e
le macerie ancora fumanti delle città mutilate davano la sensazione di
essere nell'anticamera dell'inferno.
Era un'umanità dolente che si muoveva veloce per avere l'illusione di
vivere la vita con pienezza, bluffando con il tempo e con se stessa, in
attesa dell'ineluttabile EVENTO.
Le città erano diventate alveari immensi e brulicanti di persone che
avevano smesso di guardare al passato e che rivolgevano ora i propri
sguardi confusi e impauriti alla nera maschera del futuro, insondabile
baratro nel cui fondo si celavano chissà quali misteri e magie.
La paura e la speranza indissolubilmente legate a un pensiero e rivolte
come una strana preghiera verso i più bui spazi siderali.
Era un'umanità che non aveva avuto orecchi per nessun poeta, ma che aveva
accolto tripudiante le parole di morte di Giulio Cesare, Napoleone,
Francisco Franco, Hitler, Mussolini, Stalin…
Era un mondo di ricchi senza più possedimenti e di poveri che, per ovvia
conseguenza, non erano più tali.
Era avvenuta l'uguaglianza nella disperazione.
Era un'umanità isterica che all'ennesimo strattone si ritrovava con la
corda spezzata fra le mani.
Orde affamate di asiatici e africani avevano invaso l'Occidente: il TERZO
MONDO si scannava per il pane con il PRIMO e con il SECONDO, mentre la
natura ruggiva di dolore e rabbia per le tante ferite subite.
Il cielo improvvisamente si capovolse, rovesciando sulla terra un nuovo
diluvio universale ed il sole, approfittando del buco nell'ozono, scappo
via a raggi levati.
Mari, fiumi e laghi s'ingrossarono a dismisura, sommergendo intere città
frutto delle più vergognose speculazioni edilizie.
Gli alberi si sradicarono e, marciando compatti come un esercito in guerra,
schiaffeggiarono con i rami fronzuti i mercanti di mobili senza scrupoli.
L'Amazzonia applaudì tirando un profondo sospiro di sollievo all'ossigeno
puro.
Le terre si rifiutarono di partorire i frutti, stanche e incazzate dai
criminali prodotti chimici costrette ad assorbire per produrre di più.
Il ferro non volle più obbedire ai fabbricanti d'armi e si ribellò in un
harakiri liquido per non essere più trasformato in strumenti di morte e
distruzione.
L'oro si nascose per non farsi più trovare e diventare, così, oggetto di
dispute e di odii.
Gli animali si liberarono dalle gabbie e corsero liberi e felici attraverso
il caos del nuovo mondo.
Le montagne sprofondarono a imbuto nelle viscere della terra e, con il
risucchio provocato, trascinarono giù tutti i televisori del pianeta e, con
essi, i presentatori, le vallette e gli autori dei programmi di prima
serata.
Stava prendendo forma un principio diverso, senza più capi né generali,
senza più ricchi né poveri, senza più confini né bandiere.
Un pianeta terra dall'aria più respirabile, senza più politici né usurai,
senza più mafia né Stato, senza più re né regine, senza più signori né
mendicanti.
Un mondo più giusto e più umano, in cui si sarebbe potuti ripartire da zero
dopo che un grigio burocrate avesse impartito l'ordine di mettere fine al
DISORDINE.
Poi, un bel dì, l'ineluttabile EVENTO, palingenesi inconsapevole di futuri
assetti libertari, arrivò con tutto il suo carico di tragedia e speranza.
Un impiegatuccio ministeriale dallo sguardo spento e lo stipendio risicato
si recò, con andatura e atteggiamento da automa programmato, nella famosa
stanza dei bottoni e, ricevuto dentro ad una cuffia a infrarossi l'ordine,
pigiò freddamente "quel bottone".
In pochi secondi tutto ebbe fine.
Ma poi tutto ebbe ancora inizio.
Con la costruzione di nuove e più moderne palafitte, aspettando fiduciosi
il Cristo che sarebbe ritornato.
Crepuscolo di un amore
Era lì, di fronte a me, con aria interrogativa.
Il suo volto, dai lineamenti solitamente distesi e rassicuranti, si era
modellato stavolta in un'espressione che non avevo mai visto prima e che mi
metteva addosso un indicibile senso d'angoscia e un cupo presentimento di
sventura.
La panchina di quel parco pubblico stava trasformandosi in una trappola
dalla quale non avrei avuto molte possibilità di salvezza.
Lei era lì, fasciata nei suoi vent'anni che usava come un'arma magnifica e
terribile; sguainava una bellezza abbacinante al cui cospetto non avevo
altra via d'uscita che non fosse quella di soccombere, perduto com'ero nei
troppi angusti vicoli di una vita dalla smarrita strada principale.
Non parlò.
Magari l'avesse fatto, usando anche parole dure, accusatorie, lame
taglienti ad entrar nelle carni così a fondo da lacerare l'anima e ridurla
a brandelli.
Lo meritavo.
Ma lei tacque, e quel silenzio terribilmente rumoroso frappose un oceano
fra noi, tramutandoci d'un colpo in naufraghi erranti all'affannosa ricerca
di un'isola dove edificare nuove e più solide capanne d'amore.
A furia di cercarlo spasmodicamente l'avevo perduto questo sentimento che
muove il mondo, attraccando troppe volte nei porti d'illusione delle
braccia di tante altre.
Lei sapeva.
Da sempre.
Ma questa volta non era disposta a perdonare.
Eravamo giunti alla resa dei conti: l'uno di fronte all'altra, muti e
immobili come guerrieri antichi in attesa del segnale di battaglia.
Quegli istanti si trasformarono in un'eternità verniciata di piombo.
Lei, scura in viso, si girò senza dire nulla e a passi lenti e capo chino
si allontanò per sempre da quella panchina.
Sul parco aleggiavano le prime ombre di una tiepida sera di quasi
primavera; sulla mia vita si stagliavano superbi nuvoloni carichi di
pioggia.
Avevo cementato l'ultimo mattone nell'edificazione del futuro castello di
solitudine.
Questa volta sarei rimasto davvero solo; con gli sbagli, la presunzione, il
cinismo e la voglia insopprimibile d'amore.
Solo, seduto con la testa fra le mani su una fredda panchina di un parco
pubblico.
Tra le fogne e le stelle
Anche oggi niente di nuovo nello spazio vitale che separa le fogne dalle
stelle.
In questa dimensione enorme, abissale, imperscrutabile, dentro la quale ci
siamo tutti noi, uomini e donne, vecchi e bambini, poeti e assassini, si
fluttua avendo l'impressione di stare con i piedi per terra; si muore
credendo d'esser vivi, si vive mentre si è già morti.
Tra le fogne e le stelle abitiamo noi due: due cuori, un sorriso, una
folata di vento, una corsa selvaggia, una porta che sbatte, quattro parole
cialtrone schiacciate in fretta su un foglio di carta in un pomeriggio
d'estate.
Isolato zero
L'elemento naturale che amo di piùè l'acqua, perché ha il potere di
arrugginire le catene.
E intanto il rubinetto in cucina perde e non ho soldi per chiamare
l'idraulico.
Sorbisco una tazza di caffè e mi chiudo al cesso a scrivere.
Dal registratore mezzo scassato s'inseguono, liquide e struggenti, le note
dell'ultima meraviglia jazz di Jimmy-tutto androgino-Scott.
Fuori fa ancora caldo, nonostante l'estate sia praticamente finita.
Al solito il mio umore è ballerino.
Non capisco la gente ed essa non capisce me.
Mi sono allontanato troppo e non me l'ha mai perdonato.
Vuole cose rassicuranti, io mi sento sempre più scazzato.
Abito all'isolato zero e picchietto con le dita sul tavolo del soggiorno,
scandendo il ritmo degli anni che volano via.
La mia vita non si è incendiata, nonostante i tanti fiammiferi accesi
lanciati sulla benzina dei giorni.
Isolato zero.
Tiro lo sciacquone e ripongo i fogli nel cassetto della scrivania.
Spengo Jimmy e scendo al bar a consumare l'ennesimo caffè.
Giorgio P.
Giorgio P. lavora fuori.
Ha vinto un concorso statale e adesso è un uomo al servizio della
Repubblica.
Nella città dove è stato chiamato a prestare i suoi servigi ha conosciuto
una ragazza e si è fidanzato.
Logico, perché adesso vive fuori e fuori mangia, beve, sogna, caga, piscia,
scopa, ama.
Si è sistemato Giorgio P., e quindi può finalmente pensare a metter su
famiglia.
A scopare, cio è, con il beneplacito delle istituzioni.
Di tanto in tanto viene giù al sud a trovare familiari e amici, riempiendo
i pochi giorni di ferie con argomentate dissertazioni sul come al nord sia
tutta un'altra cosa.
E' un tutore della legge Giorgio P.; un inappuntabile appuntato della
Benemerita.
Il sogno della sua vita fare il carabiniere, sgominare il male che s'annida
in questa marcia società.
Un compito da paladino della giustizia, da strenuo difensore delle libertà
democratiche.
Un eroe Giorgio P., originario di un paesino calabro di campagna, ultimo di
nove fratelli, figlio di una terra aspra ed ostile, laddove anche il sole è
imbarazzato di illuminare il niente sottostante.
E' infervorato, Giorgio P., da principi quali obbedienza e disciplina;
investito di grandi responsabilità e preoccupazioni, con in testa un chiodo
fisso: scalare i vertici, far carriera, riempire l'onorata divisa di ogni
medaglia possibile.
Diventare qualcuno è il suo imperativo categorico.
Ma Giorgio P. qualcuno lo è già: commettendo un illecito è riuscito a farsi
assumere nell'Arma ed oggi è un guardiano riconosciuto della legalità.
E' quel qualcuno, somma di tanti, che per malinteso senso delle cose nonché
smania di potere ha mandato a gambe all'aria tutti i diritti e le libertà
di questo paese di Pulcinella.
Gina
Gina non voleva darmela.
Non c'era verso.
Diceva che non le garantivo le necessarie sicurezze.
E le sicurezze nella vita sono tutto.
Io ero solamente uno scribacchino; fossi stato almeno…che so…direttore di
banca forse la previdente pulzella avrebbe considerato il tutto da un'altra
prospettiva.
Ma lei cercava quelle di cui sopra, ed io non ero direttore nemmeno del mio
portafogli.
Però ero arrapato.
Lei, con chiara gestualità, mostrava di non voler prendere minimamente in
considerazione neppure quell'aspetto puramente e, considerata la
situazione, inattuabilmente fisiologico.
Affermò che sarebbe invero stata cosa migliore il non complicare
ulteriormente la faccenda e restare soltanto buoni amici.
Le replicai, con aria innocente, che qualche volta anche gli amici scopano
fra loro.
In amicizia, s'intende, senza dover dar corso necessariamente a questioni
di sentimenti, scomodando di fatto la chimica interna.
Lei controbattè utilizzando una frase da consegnare senz'altro ai posteri:
-"io non posso fare sesso senza essere innamorata, sarebbe immorale, pura
pornografia."-.
A quel punto dovetti arrangiarmi da solo, come sempre.
Ero, con gli anni e l'esperienza, diventato un perfetto self made man, come
dicono quelli che parlano bene; uno che si è fatto da solo, cio è, e che da
solo continua a fare tutto.
Una micidiale macchina da sesso.
Un campione dell'onanismo…Onan il barbaro!
Mentre mi "amavo" pensai, non senza un pizzico di malinconia, a quel
concorso in banca che avrei dovuto fare e che non ho mai fatto.
Eclissi di sole
Il tanto atteso giorno del verificarsi dell'eclissi solare finalmente era
giunto.
La gente correva spasmodicamente ad accaparrarsi gli speciali occhialini
filtranti per poter gustare al meglio il raro fenomeno astronomico, catarsi
di ancestrali paure ed oggetto di animate discussioni circa significati di
oscuri presagi da interpretare.
A me dell'eclissi non fregava un cazzo.
Avevo da anni la mia personale che mi offuscava già abbastanza.
Mentre una gran fetta di umanità si apprestava a spostare il naso all'insù
la mia principale preoccupazione era quella di regalare un po' di ossigeno
alle mie tasche boccheggianti ed un po' di concime al fagiolo da troppo
tempo in stand-by.
Faceva un caldo terribile in quello stronzo agosto di fine millennio.
Al solito trascorrevo le mie giornate al bar sotto casa, destreggiandomi
tra fiumi di caffè e le chiacchiere oziose di qualche altro sfaccendato che
cianciava di vacanze esotiche da fare anche se non possedeva nemmeno la
carta igienica per pulirsi il culo.
D'altronde neanch'io potevo provvedere all'igiene dei paesi bassi in quel
periodo, quindi lo lasciavo senz'altro sognare evitando d'avanzare
obiezioni di sorta in merito alla faccenda.
Dunque, si diceva, il giorno dell'eclissi aveva terminato il count-down ed
aveva prepotentemente calato la sua tela sul versante occidentale del
pianeta.
L'homo-sapiens era pronto e fremente di curiosità per quel che si
annunciava come uno spettacolo fantasmagorico offerto dalla natura, signora
e padrona di tutto quanto, per poter dire, un giorno: -" c'ero anch'io!"-.
Ed eclissi fu.
L'evento durò all'incirca una mezz'oretta, giusto il tempo che mi
occorreva, da stitico che si rispetti, per espellere un problematico
stronzo che soggiornava indesiderato, da cinque-sei giorni, nei più recessi
anfratti del mio essere.
Quand'ebbi terminato la santa funzione corporale al fresco del mio
home-bath cercai, da persona civile e responsabile nonché da buon cittadino
della nuova Europa, la carta igienica con i dieci piani di morbidezza.
Dopo qualche minuto, oramai in preda ai sudori freddi, avevo pienamente
preso coscienza della terribile situazione: la carta igienica mancava…avrei
dovuto dire anch'io addio al sudamerica. Viaggio al termine della notte
La partenza era concordata per quella sera stessa dalla minuscola stazione
di Alveerd.
Un vento gelido mi sferzava la faccia.
La wodka che avevo mandato giù in quell’equivoca e semideserta osteria non
era riuscita a scaldarmi granchè.
Mi strinsi nel cappotto e accelerai il passo.
Ero in lieve ma sostanziale ritardo.
Dovevo a tutti i costi recuperare tempo e metri di strada, si sa che i
treni non aspettano.
Quella città mi metteva da sempre addosso un senso inenarrabile d’angoscia
e percorrerla così, di notte, udendo solamente il tonfo sordo degli stivali
sull’asfalto dei marciapiedi illuminati da una sinistra luce giallognola
proveniente da antichi lampioni ad olio, mi dava un’impressione di
precarietà, come se da un momento all’altro mi fosse potuta arrivare,
fredda e silenziosa, una coltellata dritto nella schiena.
Cercai di non pensare.
Di non pensare a niente.
Il ritmo aumentato della mia camminatura mi aveva rimesso in pari con
l’orologio.
La stazione ormai era vicina.
Un centinaio di metri ancora e finalmente avrei rivisto Sara, la mia
piccola, dolce, disarmata Sara.
E’ curioso come il tempo possa avere il potere di cancellare immagini, nomi
e volti dalla memoria e, poi, circoscrivendo il tutto in segni di
parentesi, far ritornare come d’incanto antichi brividi sopiti.
Sara…Sara…che tempesta nei nostri cuori, che casino nelle nostre vite.
Ma quanto tempo è passato?
Quasi sei anni.
Sei anni…com’è potuto accadere?
Quando noi esseri umani ci mettiamo d’impegno siamo capaci di farci del
male davvero.
Una figura esile, all’esterno della sala d’attesa della stazione, andava
avanti e indietro nervosamente, come se aspettasse con impazienza l’arrivo
imminente di qualcuno.
Ero ancora alquanto distante ma non nutrivo dubbi: non poteva essere che
lei.
Sara aveva trascorso tutti quegli anni vivendo e lavorando in quel piccolo
centro minerario di poche anime alle porte della steppa siberiana, Alveerd,
come segretaria in un’azienda di prodotti siderurgici.
Non aveva più coltivato amori, tranne qualche raro e casuale incontro di
natura puramente fisica con qualcuno degli operai o con qualche altro
conosciuto durante le sue frequenti passeggiate nel parco cittadino dopo
l’orario di lavoro.
Era, ovviamente, cambiata, sia nell’aspetto che nel carattere.
Gli anni passano per tutti, d’altronde, e se sei possono sembrare pochi a
quell’età, aveva senz’altro provveduto l’atmosfera algida, anonima e
vagamente disumana di quell’avamposto dimenticato da Dio e dal resto del
mondo a moltiplicarli concretamente.
Una cosa, però, aveva conservato intatta: la luce nello sguardo; quei
magnifici occhi verdi profondamente velati di malinconia che irradiavano
nello spazio circostante una forza magnetica capace di attrarre a sé ogni
cosa o essere vivente.
Ritrovare quello sguardo, a distanza di anni, fu per me un’emozione così
intensa che quasi mi piegò le ginocchia.
Farfugliai qualche parola.
Lei non disse nulla.
Indicò soltanto, con ampio gesto della mano, l’enorme orologio a muro della
stazione che annunciava l’ormai imminente arrivo del convoglio.
Le stelle del cielo di Alveerd illuminavano a giorno e assistevano
indifferenti alla nostra partenza.
Il viaggio trascorse tra lunghi silenzi imbarazzati e goffi tentativi di
spiegazione.
Ogni tanto Sara apriva la sua borsetta di pelle nera facendone sortire un
fazzoletto spiegazzato con il quale si asciugava le lacrime che le
solcavano i regolari letti del viso come un fiume chimico placidamente
proiettato verso il salto della cascata.
Io stavo lì, di fronte, con la testa reclinata di lato, ad osservare il
panorama notturno che scorreva veloce dai finestrini chiusi.
Le avevo fatto del male, e quel viaggio assieme rappresentava la mia giusta
espiazione.
Di tanto in tanto il treno s’arrestava nei pressi di qualche stazioncina,
dalla quale salivano ogni sorta di persone: contadini, pescatori,
cacciatori, massaie con bambini attaccati ai fianchi, mezzi addormentati ma
felici di recarsi ai mercati della mattina successiva.
Li guardavo mentre discutevano dei posti a sedere, i prezzi delle merci, le
condizioni metereologiche, il raccolto andato a male, i figli che venivano
su forti e sani…un’umanità vasta e colorata, povera economicamente ma
pregna di serenità e voglia di fare nonostante le avversità della vita
rendessero difficile la pratica quotidiana dell’esistenza.
Li spiavo e mi sentivo come l’ultimo e più infelice uomo della terra.
Arrivammo a destinazione che già la potente luce del giorno aveva
provveduto a ridare forma e significato ad ogni cosa.
Avevamo viaggiato tutta la notte, penetrandone le più oscure profondità;
interrogando a lungo noi stessi, in un estenuante esercizio di maieutica,
alla ricerca di risposte che non erano venute.
Sara sembrava più distesa, mi auguravo fosse riuscita a trovare dentro di
sé una pur minima giustificazione a quel che le avevo fatto.
Camminammo per circa un’ora nella pianura brulla che costeggiava la
ferrovia, fermandoci di tanto in tanto per levare qualche pietruzza che,
considerato il terreno sassoso, entrava subdolamente nelle scarpe
producendoci fastidio nel movimento.
Sara aveva acquistato una borraccia da un venditore ambulante all’interno
della stazione e, dopo averla riempita d’acqua presso una fontanella
all’uscita, ogni manciata di minuti la portava alla bocca suggendone un po’
del suo fresco contenuto.
Anche io avevo sete ma non glielo facevo notare, tanto da lì a poco saremmo
giunti alla fine del nostro viaggio.
La guardavo camminare a passo spedito, fiera, sicura di sé, altera e
superba come una regina che non intende praticare più nessuno sconto morale
ai propri sudditi.
Mi sopravanzava di qualche metro a destra, ed io sentivo crescere dentro un
potente desiderio di abbracciarla, baciare quelle labbra rosse e carnose,
affondare la testa nella sua soffice chioma corvina, stringerle quei seni
bianchi, gonfi e turgidi, infilare le mani avide sotto quella veste nera
che nascondeva paradisi che già avevo conosciuto ed assaporato in passato.
Ma non feci niente.
La stanchezza e l’arsura mi avevano gettato in uno stato di semi
incoscienza.
Arrancavo dietro di lei come farebbe un cane affezionato al padrone.
Sara non mi aveva perdonato.
Non avrebbe mai creduto al mio pentimento ed a tutto l’amore che provavo
per lei ora.
Un amore devastante che mi scavava dentro succhiandomi tutta la linfa
vitale, rendendomi simile ad un burattino disarticolato nelle sue mani.
Finalmente arrivammo al termine del viaggio.
In perfetto orario.
Il plotone di esecuzione era già sul posto, immobile e pronto aspettando
l’oggetto del proprio lavoro.
L’oggetto ero io, ma ormai non mi importava più di niente.
Era stata una mia scelta, ponderata e serena.
Lo sapevo, l’avevo sempre saputo.
Fin da quando mi arrivò a casa la sua lettera.
La lettera di Sara che scriveva di volermi rivedere.
La fine era giunta.
A mezzo posta.
Potevo tentare di sottrarmi, certo, scappare lontano, ma non sarebbe
servito a nulla.
Non si può sfuggire alla propria coscienza.
Forse il finale della vicenda era, ragionevolmente, il migliore possibile.
Per tutti.
In quel momento grave e doloroso mi bastava sapere che lei fosse lì, vicino
a me, l’ultima immagine che i miei occhi avrebbero visto prima del grande
nulla.
Tutto era pronto, il plotone in posa aspettava il segnale convenuto.
Sara era lì, immobile, con lo sguardo assente, sembrando indifferente a
quel che stava per compiersi.
La mia fine, la sua liberazione.
Poi, nel silenzio ovattato di quella calda mattinata di fine primavera, un
urlo di donna risuonò sordo e lacerante nell’aria stagnante.
Prima di cadere sulle ginocchia la cercai con lo sguardo, e mi parve che
dai suoi magnifici smeraldi incastonati sotto il cielo scuro del viso
scivolasse una lacrima, ma forse mi stavo sbagliando. Al solito L'ennesimo Natale, giunto improrogabile ed esclamativo come l'urgenza di una cambiale in protesto. Mi alzo più tardi del solito. Lentamente mi vesto. La porta alle spalle, esco in strada. Il freddo pungente incontra il viso non rasato; abbraccio fra pelle e dita che tirano, pizzico urticante, balsamo tonificante per gli "esterni". Niente cravatta, né abito buono, nonostante la ricorrenza li richieda a gran voce. Spero di non incontrare nessun conoscente lungo il tragitto che mi separa dal solito bar per il solito caffè. La dea bendata, però, mi abbandona a pochi metri dal locale. Ricevo e ricambio, senza entusiasmo, gli usuali auguri farciti con abbondanti dosi di rituali frasi fatte. Dopo la bevanda aromatica mi stringo ulteriormente nel cappotto e penso a come impiegare il tempo intercorrente fra il caffè tardo mattutino ed il pranzo casalingo. Mi guardo un po' attorno: tutto è al solito posto. Solita gente che affolla chiese e pasticcerie, soliti sguardi finto lieti, solita carità pelosa, soliti finti propositi buonisti, solita fretta per i regali ancora da fare, da riciclare, da cambiare. Rientro a casa. Mentre attendo sconsolato che la tradizione culinaria del sacro periodo sconfigga una volta di più il desiderio di mangiare quel che si gradirebbe, mi produco in un tentativo inconcludente di zapping nel deserto dell'etere. E' parecchio che non guardo la tele. La spengo quasi subito. La solita tv con idee, ideali, ideologie, culi, tette, fighe, detersivo per piatti e creme antirughe mescolati assieme, in un melting - pot stordente e indigeribile. Si pranza. Tubo catodico di nuovo in funzione,è lui che la fa da padrone nelle case degli italiani moderni. Mi concentro a capo chino sul cibo sperando, in siffatta maniera, di potermi distrarre dalle mostruosità colanti dal tg come un vomito inarrestabile a rovinare i sani appetiti che l'ora normalmente reclamerebbe. Più tardi leggerò, guarderò un film, ascolterò musica…qualcosa farò; in un modo o nell'altro bisognerà pur traghettarsi verso i lidi della normalità ripristinata del dopo Epifania. Meglio la sana cattiveria dei feriali che l'ipocrisia festaiola generalizzata. Sono piuttosto di malumore. Al solito. Per chi ci crede Auguri di Buone Feste. Mare e sabbia Mare e sabbia. Luna soprastante ad accendere abbacinanti riflettori sull'urgenza impetuosa di maree a lungo attese e salutate con giubilo da solitari pescatori in nervosa attesa di poter riempire reti di futuro. Il respiro pesante del vento a scompigliare capelli, a compenetrarsi, stuprandoli, annullandoli, spazzandoli via come uno schiaffo di gelosia inferto dall'amante tradito mette punto e parola fine, aliti vicini. La tenevo per mano, lontano dai rumori del mondo, a distanza di sicurezza dalla gente comune. La Spirale mi aveva avvolto e risucchiato completamente al suo interno; percepivo con nettezza la sostanza solida del vuoto, l'acre sapore dello smarrimento definitivo, la vertigine stordente della rovinosa caduta a precipizio dentro un pozzo senza fondo. Lei m'interrogava con i suoi sguardi muti, io rispondevo, al solito, con sorrisi evasivi appena abbozzati. Eravamo fuori sincrono con il mondo; lo eravamo sempre stati fin dal momento dell'incontro, sommatoria di solitudini scontrose diventate col tempo sentimento disperato, alla ricerca d'identità dimenticate ai tavolini di piccoli bar dei giorni andati; osmosi d'inquietudini ed inadeguatezze avevano fatto di noi una sorta d'impasto chimico di elementi non più separabili dopo il processo di fusione. Alla quinta banca di quell'anno qualcosa non era andata per il verso giusto. La chiazza rossa allargatasi sul ventre del vigilantes disegnava con netta chiarezza lo scenario che da lì a poco si sarebbe delineato nella mia esistenza. I tutori della legalità erano già sul posto con le sirene spente ad aspettare. Tante volte ero riuscito a sottrarmi all'abbraccio soffocante della legge, ma in quest'occasione era diverso; non potevo, non volevo. Mi sollevai dalla sabbia e con un gesto lento e studiato della mano li rassicurai di non essere più armato. Si avvicinarono con circospezione, io mi allontanavo in fretta da tutto quanto. Cercai di non guardare le lacrime di lei che certamente stavano sgorgando copiose fra le pieghe del bel viso precocemente invecchiato, e con l'anima gocciolante attesi che il simbolo ferrato ai polsi sancisse ufficialmente la mia uscita di scena dal consorzio civile. Mi voltai appena un attimo alle spalle, giusto il tempo di poterla guardare un'ultima volta, nel goffo tentativo del congedo finale. Dietro la sua figura esile ed inconsapevole facevano da cornice mare e sabbia. L'alta marea era arrivata. Corto, lungo, viaggio sentimentale Al dondolare ritmico del treno si addizionano chiassose voci d'improvvisati giocatori di carte dell'ammazzar attese. Di fronte a me una coppia statunitense di mezz'età; fuori dai finestrini un tiepido sole novembrino a riscaldare il viso tirato dall'usuale ansia del viaggiare. Il tragitto è ancora piuttosto lungo. Un po' leggo, un po' giocherello con il cellulare. Stavolta non trattasi di confluenza di finalità: Roma non rappresenterà scenario d'incontro bensì tappa intermedia per raggiungerti nella tua città natale. Un fine settimana atipico per chi accantona assai di rado radicate abitudini. La donna d'oltreoceano continua imperterrita a picchiettare sul palmare; lui sonnecchia a capo basso, placidamente crogiolato dal tepore dell'astro giallo che illumina timidamente le verdi campagne del basso Lazio. Alla mia destra una splendida ragazza bruna osserva, perduta nei propri pensieri, l'incantevole paesaggio esterno. Scrivo queste righe per annullare il più in fretta possibile lo spazio ed il tempo che ancora mi separano dalle tue morbide labbra. La giornata è serena dal punto di vista meteorologico; spero vivamente lo sia anche per l'indomani…lo stadio, la partita, la mia squadra del cuore, l'incontro, forse, con una nipote adolescente mai conosciuta di persona. Roma Termini, cambio di treno. Trenitalia per metropolitana: destinazione Tiburtina. Snervante attesa del pullman di linea extraregionale. Ne perdo un paio per distrazione ed inesperienza e sono costretto a fare scalo a L'Aquila. Un incidente mortale lungo l'A24 dirotta il normale percorso, allungando di parecchie ore la tabella di marcia. Finalmente si arriva a destinazione. Ti riabbraccio in una piazza deserta e piovosa. Poi la Pensione, il sonno che sopraggiunge pesante come un sasso. Indi domenica mattina, con pioggia incessante ed affannosa nonché vana ricerca di un locale aperto per poter mangiare un boccone. Alla fine si opta per dei sacchetti di popcorn e patatine acquistati presso un ambulante nelle vicinanze dello stadio. Partita. Pioggia battente. Freddo nelle ossa. Ti riscaldo le mani con le mie. Pareggio con reti. I tuoi brividi di freddo nel letto della Pensione valgono tutto il viaggio. Attimi d'amore dolcissimo a compendio di un'intera esistenza votata alla solitudine. Sera. Tardi per il cinema che avevamo già programmato. Passeggiamo con piccoli ombrelli, accogliendo con senso d'ineluttabilità le fredde lacrime degli angeli malinconici che popolano, inquieti, il Firmamento di Teramo. Pensione, sonno che arriva ancora una volta con l'inevitabile urto piomboso dello stress accumulato. Lunedì mattina scevro d'acqua ci consente di percorrere a mani libere il tratto di strada fino a quello che è diventato "il solito bar". Caffè per me, tu prendi un thè bollente, poi in giro per il centro senza meta. Librerie, edicole, cartoline per gli amici, foto e videoriprese con il cellulare nella villa comunale; mattinata da respirare abbracciati stretti. Baci appassionati sotto un cielo plumbeo. Pizza al trancio consumata in fretta nel locale che aspetta soltanto noi per serrare saracinesche di mezza giornata già sfangata. Attesa del pullman che mi porterà via. Salpo dal mare che ho appena navigato, ma una parte di me resta a fissarne il moto increspato delle onde e quel molo che s'allontana piano procurandomi squarci profondi nell'anima, sdoppiamento ubriacante d'amore una volta tanto. Viaggio di ritorno qualsiasi, incolore come tutti i rientri nelle proprie scialbe quotidianità. Spossatezza che cola prepotente. Casa, cena frugale, sortita al solito bar per il solito caffè serale. Il mio letto e le immagini del fine settimana che sfilano in rapido susseguirsi nella sala cinematografica della memoria. Infine il sonno, titoli di coda alla straordinaria pellicola che abbiamo vissuto da protagonisti. Cosa aggiungere? Nulla, credo. Soltanto che ti amo, Marianna. Collage Scrive per sopravvivere a se stesso. L'arte serve ad attraversare la vita attenuandone il dolore. E' uno scrittore e, come il Danubio, trasporta imparzialmente cadaveri e fiori. Ha abbastanza musica nel cuore per far danzare la vita. C'è chi corre dietro alle cose, lui, invece, rincorre le emozioni. Per realizzarsi ha dovuto rintracciare le proprie melodie; d'altronde vola soltanto chi osa farlo. Con l'eleganza sinuosa e insinuante di un pitone albino ha raggiunto le eclissi che riempiono la vita, e con il suo sorriso aperto ha spalancato porte nel cosmo, creato soli fra le ombre, acceso tutti gli schermi del sogno. Il successo, il lavoro ed i soldi non l'hanno brutalizzato; nel suo piccolo è un grande. Ha vissuto una giovinezza grigia alla quale, ogni tanto, ha provveduto a passare qualche pennellata di colore. Non vuole ubbidire perché non ama comandare; con la precisione e la sicurezza di un anarchico solitario,è già deciso, semmai avrà una figlia la chiamerà Eleuthera. Viene da un altro mondo, da un altro quartiere, da un'altra solitudine ed oggi come oggi si crea scorciatoie. Nato nudo, per anni solo perle ai porci; il sole silenzioso di chi disubbidirà, maestro di volo non ci volteremo indietro mai. Non ha perché non chiede, ragazzo con le ali; la solitudine ha bisogno di voci; i sentimenti che si provano valgono sempre le pene che alla fine fanno soffrire. Ha fatto il signore e poi il mendicante: una ricca povertà prima che tutto diventasse poesia; come di uno che si è dato ed ha dato tutto alla vita, ruzzolando, alla fine, giù per le scale senza contarne i gradini. E' un sognatore perché non sa fare altro. Airone con le ali sudice, dagli occhi più belli degli umori del tempo che segnano le stagioni, ha sparato alzo zero perché il segreto è nuotare verso la luna, cercando un nuovo sogno per il cacciatore, trasformarsi in azione… Spacciatore di parole, hasta sempre, comandante, senza vino niente canzoni. Scusi…lei dove va? Vado via… E musica sia questo rumore. In viaggio Resoconto semiserio di una giornata fuori casa In viaggio verso la capitale. Mezzo di locomozione adottato: il treno. Dopo quattro mesi esatti dall'ultima volta finalmente la riabbraccerò. Il tragitto da percorrere, al solito, mi crea qualche tensione, ma la finalità dello stesso andrà, invero ed anzichenò, a compensare abbondantemente tutto lo stress che certamente mi assalirà nel mentre. All'interno del vagone una ragazza seduta di fronte sbadiglia annoiata; al lato tre donne di differenti età conversano fittamente ed a voce alta sulle proprie problematiche interpersonali; un anziano guarda fuori dai finestrini; un uomo di mezza età provvede con le dita alla manutenzione dei personali condotti respiratori. Io un po' scrivo qualche nota sul taccuino, un po' digito sms da inviare alle personali conoscenze. Il convoglio arriva a Napoli Centrale; devo prenderne un altro per raggiungere la capitale. Nell'affollata stazione m'imbuco in un bar a sorbire un caffè, poi faccio qualche telefonata onde trascorrere ulteriore tempo in attesa della nuova partenza, indi mi soffermo a rimirare i titoli letterari in bella mostra sopra il banchetto di un'edicola, infine salgo in vettura e mi sistemo sulla poltroncina finale della fila attendendo il fischio di avvio corsa nell'attenta osservazione dei gesti teatrali di un sottostante venditore ambulante di panini e bibite. Sono capitato su un treno di cobas della scuola, recantisi a Roma per manifestare contro le riforme della ministra della Pubblica Istruzione, onorevole Letizia Moratti; rivendicazioni di categoria ammantati dal sacro fuoco della giustizia sociale; "intellighenzia" campana, sinistra borghese perennemente perdente, con l'insopportabile "birignao", gli immancabili occhialini tondi ed una chiacchiera petulantemente bellicosa; d'altronde marciano su Roma per battagliare e non già in gita di piacere fuori porta. La componente femminile è la più sconcertante: essa principia il forum, di rito in siffatti happening, discettando forbita sui massimi sistemi, scivolando, poi, dopo poche battute infarcite di ovvietà e luoghi comuni, immancabilmente sulla cacca dallo strano colore delle rispettive pargolanze. Successivamente scopro, in un rigurgito di lucidità rimastomi dal bombardamento ciarliero, che la carrozza è da e per loro riservata, ma "l'indignato" personale scolastico docente è collegialmente d'accordo nel farmi rimanere in loco; si sa che la sinistra è proverbialmente proiettata verso le masse diseredate, con abbondante profusione d'aperture morali tese a sollevarne i di essa gravosi pesi comprimenti ed infelicitanti l'anima. Tento d'inviare qualche sms, ma non c'è campo e desisto. Guardo un po' fuori dai finestrini, la chiacchera della gauche da salotto diventa davvero insostenibile. Lo sventolìo dei vari: Il Manifesto, La Repubblica, L'Unità, Liberazione, La Rinascita della sinistra regala un po' di ventilazione alla vettura surriscaldata dall'affollamento intellettuale e dai finestrini inspiegabilmente serrati. Finalmente si scende; calpesto con emozione il suolo della capitale, la città eterna, Roma kaput mundi…edè uno straordinario, tenero, pomeriggio con Marianna, srotolato lungo Piazza della Repubblica, Via Veneto, Villa Borghese e ritorno. La parte centrale del dì in questione costituisce affare invero strettamente privato e lo scrivente non ne darà conto alcuno in questa sede. Durante il viaggio ferrato a ritroso vengo beccato dall'addetto al controllo biglietti con la sigaretta accesa: scampo la salata oblazione soltanto grazie alla mia innata faccia di bronzo nel simulare contrizione in situazioni di palese contravvenzione delle regole costituite. Squilla il cellulare: un amico mi chiede dove mi trovi, lo rendo edotto in merito e lui si offre per venirmi a prelevare alla stazione. Poi il mio apparecchio si scarica lasciandomi isolato alla ricerca dell'amico di poc'anzi all'esterno dell'edificio ferroviario. Non trovo schede per telefonargli da qualche cabina, e in ragion di quanto sopra illustrato decido di saltare senza meno sull'ultimo regionale dall'orario decente che avrebbe provveduto a riportarmi sano e salvo fra le mura, se non propriamente amiche, almeno domestiche. Perso il suddetto sarei stato, di contro, costretto ad attendere il successivo a notte fonda e, considerate le "gentili presenze" popolanti e allietanti quella sorta di altrove metafisico che è Piazza Garibaldi al calar delle prime ombre della sera, la qual cosa mi sarebbe parsa da considerare un'opzione fuor di dubbio da scartare a priori. Dunque ultimo convoglio della giornata, poi finalmente di nuovo a casa a riposar membra stanche e psiche stressata dalle tante contingenze proprie del ruolo di viaggiatore in pubblico. Non appena sistematomi sulla comoda poltroncina del diretto Napoli-Sapri, con fermata a Pompei, noto un ragazzotto che tiene appesa ed in bella evidenza alla cintura dei pantaloni un magnifico modello di pistolone all'ultima moda in dotazione: probabilmente trattasi di carabiniere in licenza premio oppure guardaspalla facente da cane da guardia al politico o all'imprenditor tal de' tali. Ei adocchia una ragazza nel vagone e principia a smaniare: si gira, rigira, telefona chissà a chi, si sbatte, si specchia… La dolce pulzella non lo fila alcunché, almeno fino a quanto io possa saperne…magari termineranno la serata a letto, ma questo aspetto della vicenda in oggetto non rappresenta sicuramente affare di mia pertinenza. Appena toccato il suolo natìo provvedo ad avvisare il "povero" amico di cui precedentemente narrato, il quale mi confessa, con tono disarmante, che sta ancora girovagando allucinato nei dintorni della stazione, nel reiterato nonché frustrato tentativo di scorgere la mia figura. In pantofole mi dedico alle usuali focacce del sabato sera e, a conclusione della giornata trascorsa fuori casa, immantinentemente, mi ficco a letto e ripenso a tutto quanto. Semplicemente così Le note blu di Jamie Cullum sgorgano fluide dal lettore cd collocato nel salone di casa. Seduto all'abituale tavolo schiaccio sul notebook un flusso di pensieri. Fuori il tempo volge al brutto; nel cortile scolastico di fronte ragazzi delle medie, nell'ora di educazione fisica, si producono, con malcelato tedio, in svariati esercizi sotto lo sguardo vagamente annoiato del professore. Sogni bagnati; scrosci d'acqua gelida venuta giù ad inzuppare anime un tempo sognatrici. Succede. Spesso. Più tardi uscirò: alcune commissioni da svolgere immerso nella familiare ridda di volti, voci, passi e sguardi fugaci che fan da cornice all'esistenza urbanamente stanziale. Né bene, né male, non saprei dire; non ho esatta cognizione in materia. Mi alzo dalla sedia spostandomi in cucina a sorbire un caffè perennemente freddo; poi sollevo le tapparelle- domestico sipario omertosamente calato sulla notte ruvida -, spalanco la finestra, mi affaccio qualche secondo per poter respirare aria di vicolo, indi richiudo, srotolando sipari anche di giorno. Nell'atrio allungo la mano sull'appendiabiti, inforco l'impermeabile nero con annesso cappuccio, mi tiro la porta alle spalle, faccio le scale condominiali senza incontrare nessuno, apro il cancelletto della palazzina - un'ondata d'aria fredda m'investe sferzandomi il viso -, lascio che lo stesso, tramite la molla automatica, torni, indefesso, a serrarsi, riassumendo il compiaciuto ruolo di difensore delle borghesi sicurezze, m'incammino lentamente tra le pieghe della quotidianità. Né bene, né male, semplicemente così. Serata di gala Presentazione ufficiale alla cittadinanza riunita di un gruppo sportivo indigeno. Madrina della serata una procace soubrettina della televisione. Vengo invitato in qualità di giornalista della carta stampata locale (bontà sua) dal mega presidente della società in oggetto. La prima fila di poltroncine della discoteca all'ultimo grido è riservata, appunto, agli operatori della comunicazione. Nella stessa, risponde all'appello solamente il sottoscritto, con di fronte, a distanza di pochi metri, l'interessante visuale della bionda nazional-pop che accavalla ad intervalli ravvicinati gambe da peccato mortale. L'happening si consuma farcito di banalità variegate e proclami sgocciolanti retorica a basso costo, il tutto ad uso e consumo del vil volgo accorso a frotte per testimoniare la propria presenza in quella data che s'avviava, in pompa magna, a far il suo ingresso nella storia della giovane, ma già antica nei millenni srotolati dal Dio del Tempo, comunità di Civili Intenti. Resto seduto in attesa di poter formulare qualche domanda compiacente al reggente le redini del soggetto agonistico. Penso a cosa chiedere, mentre tutt'attorno si canta e si danza nel corso di una pausa "artistica" concessa dal Magnanimo, Sommo Proferitore. Decido che non ho proprio nulla da questionare, indi sollevo le "mollezze" dal sofà e mi accingo a guadagnare la toilette. Al rientro in sala il fracasso è stato sostituito dal brusìo animoso dei miei esimi concittadini, fiondatisi sul buffet a spazzolare tutto il commestibile in tempi invero da record mondiale. Sopportare un paio d'ore le menate di un megalomane varrà bene il risparmio di una cena a casa propria. Addento qualcosina anch'io, giusto per non sentirmi al solito inadeguato. Poi sortisco dal locale post moderno per accogliere sulla cute la fresca e rigenerante brezza serale. Sbircio l'orologio: si è fatto tardi, devo ancora desinare. Mi persuado sia senz'altro cosa buona e giusta il chiudere lì l'avventura. Rinuncio all'intervista finale al Grande Capo,allo sponsor che ne deriverebbe, alla registrazione televisiva che si sta effettuando e mi avvio lentamente verso le mura amiche. Ancora una volta ho disertato il banchetto degli dei; di nuovo dovrò principiare tutto daccapo. Per l'ennesima volta mi si presenterà il salato conto, che salderò alla mia maniera, come sempre. Ottobre Ottobre. Mattinata fredda. Una pioggerellina insistente lava strade, automobili e case. Prendo un caffè al solito bar; qualche battuta sportiva con il cassiere. Esco alzando il cappuccio del montgomery e mi avvio a passo spedito verso le mura amiche. Inforco le pantofole, accendo il pc e comincio a picchiettare sulla tastiera. La voce vellutata di Silije Neergaard diffonde calore nella stanza. Vado avanti per un paio d'ore. Pranzo e mi distendo sul letto, dopo aver afferrato dal comodino l'ultimo noir di Massimo Carlotto, per sprofondare nelle sue righe. Nel tardo pomeriggio passo in redazione a consegnare il floppy con l'elaborato. Deambulo un po' per le vie del centro, soffermandomi a guardare le vetrine dei negozi, senza fretta, non c'è niente e nessuno che mi attende, tranne, da lì a qualche ora, una cena fredda, un film in tv ed un'altra notte insonne. La matematica dei sentimenti Per anni mi ero esercitato a scopare utilizzando esclusivamente bambole di gomma giapponesi. Poi, allorquando mi si presentò l'opportunità del primo, vero, tete à tete con una donna in carne ed ossa, fui assalito dal timore che, in conseguenza dei miei poderosi colpi di bacino, ella si potesse miseramente sgonfiare. Ma ciò non avvenne, mi afflosciai io, anzichenò, appena qualche minuto dopo la tanto attesa osmosi corporale. Solo per un trascurabile lasso di tempo il mio cardellino aveva svolazzato liberamente nelle aiuole fiorite del suo giardino delle meraviglie. Elena, il nome della pulzella in questione, lo rammento ancor oggi : una prelibata pietanza, arricchita di spezie, servita alla sontuosa tavola della mia ridicola maestà. Donna da soggezione, chic & charme a profusione; fra di noi era scoccata, fin dal primo, casuale, incontro ad una festa di amici comuni, la scintilla perturbante degli amorosi sensi; una sorta di magia simpatetica che ci teneva legati a doppio filo; uniti in un legame simbiotico che assumeva, in certi casi e per certi aspetti, dei connotati invero parossistici. Sembravamo, a detta delle moltitudini, i novelli Romeo & Giulietta del XXI secolo. A scanso di equivoci è opportuno chiarire che all'epoca degli accadimenti il sottoscritto non era affatto detentore di alcunché ricchezza materiale( nemmeno spirituale, se è per questo, sibillerebbe sibillino qualche detrattore a oltranza di vecchia data e conoscenza, ma tant'è…n.d.a.) e lo stesso dicasi di lei. In parole povere nè io, nè la mia amata pulzella possedevamo cose che potessero interessare la bramosia dell'altro. Avevamo soltanto noi stessi, i nostri anni vestiti di stracci e una miriade di sogni da spolverare. Io, inoltre, ero attanagliato da drammi interni che mi laceravano l'esistenza, impedendomi, di fatto, il normale corso di una vita regolare. Oltretutto non ero stato mai veramente innamorato prima, ed ora questa persona capitata improvvisamente fra capo e collo, mi aveva letteralmente scombussolato le coordinate. Dall'istante in cui aveva fatto il suo ingresso nelle mie stanze private avevo assunto, soprattutto quando avevamo appuntamento, i tipici atteggiamenti di una piccola tartaruga nelle sue prime corse verso il mare. Dai tempi dell'adolescenza cercavo un quid che avesse potuto rivitalizzare la mia scialba collezione di giorni; adesso lei, armata della sua allegria e vitalità, aveva provveduto, con gesto perentorio, a scipparmi la maschera, obbligandomi ad alzare lo sguardo verso lo specchio dell'anima: finalmente mi vedevo; comprendevo con la massima lucidità del momento quel che ero sempre stato e rifiutavo di confessare a me stesso: un adulto con nessuna voglia di crescere. Se ciò costituisse un bene non so renderlo in termini di morale corrente. Fatto sta che la rivelazione di cui sopra non mi creava particolari turbamenti. Avevo scoperto d'esser nato nudo e mi andava bene così. Elena aveva provveduto a vivificare le mie ore, i minuti, gli attimi,. Era amore. Vero,sublime, disintossicante, senza scopo di lucro. Non riuscivo, per quanto ci rimuginassi sopra, a capire dove fosse insito il trucco. Possibile che avessi azzeccato sul serio la combinazione superenalottante della felicità? Anche sul piano sessuale le cose sembravano essersi incanalate sul binario giusto; erano lontani i tempi difficoltosi degli esordi. Riuscivo a tenere salda la situazione per un buon numero di giri della lancetta grande dell'orologio a muro della camera da letto, e questo rappresentava una rassicurante soddisfazione per entrambi. Insomma avevo la netta sensazione che i miei cavalli stessero principiando finalmente a sciogliere l'andatura. Ma la frode c'era, eccome. Il finale del film non prevedeva assolutamente l'happy end, nonostante che il susseguirsi degli eventi sembrasse portare proprio in quella direzione. La morale della favola era sempre la stessa: la realtà si presentava spesso con molteplici facce; le cose non erano mai come sembravano. Imparai il teorema a mie spese e fu una terribile scudisciata sull'anima, un'infernale lingua di fuoco che attraversò da un capo all'altro tutte le mie illusioni, lasciandone solamente mucchietti di cenere buoni per affinare il fiuto dei cani da spiaggia. Accusavo il colpo dell'ennesima fregatura. Il bluff di Elena era stato sapientemente studiato a tavolino e destinato a durare. L'avevo impalmata, con tutti i sacramenti. La ragazza dolce, premurosa e sognatrice che avevo conosciuto non esisteva più, aveva mutato pelle come i serpenti, che cambiano d'abito ma restano ugualmente viscidi. Elena si era trasformata semplicemente in una moglie. Come tante. Come troppe. Nel periodo successivo alla genesi e durante la crescita dei bambini, tre per la precisione, si era svaccata, impigrita, inacidita oltre ogni limite. Come una mercanzia da alienare che, prima si mostra nel suo intero valore di scambio e poi, a transazione avvenuta, si lascia avariare, chè tanto il dado è tratto. Di riflesso, ovviamente, ero diventato un marito. Come tanti. Come troppi. Una larva d'uomo; annichilito dalle responsabilità e dagli impegni, schiavo di orari e abitudini. In altri termini ero stato preso nell'ingranaggio, e più mi debilitavo nel corpo e nella mente, più ella brandiva nel pugno lo scettro di tutte le decisioni familiari. Compresi, in un momento di rara forma psicofisica, d'aver sposato un'ape regina. Sì, questo era Elena; questo era sempre stata - me tapino - : una raziocinante, efficiente, spietata ape regina. Non gli servivo più, era l'amara conclusione che traevo, con malinconia, dalla sconcertante scoperta. Oramai aveva provveduto a completare il puzzle della sua vita, incastonandovi, con freddo calcolo, tutti i tasselli mancanti. Si era realizzata a tutto tondo come donna, moglie, madre e, parimenti, non nutriva più l'esigenza di accompagnarsi ad un consorte, considerato, per giunta con buona dose di fastidio, alla stregua di un semplice contenitore di sperma, utile, in passato, alla sua causa ed al momento rappresentante non più di un pesante ingombro di cui disfarsi nel miglior modo possibile. Fui io a raccogliere le mie cose e ad abbandonare il focolare domestico. Feci tesoro, comunque, del teorema femmineo, quello che una volta posta la parola fine al giochino fa dell'uomo ( ma sarebbe meglio, forse, usare il termine maschio ) appena una variabile legata ai propri intendimenti. Un'ape regina, per l'appunto, che dopo aver conferito un senso alla propria esistenza si sbarazza fisicamente del fuco. Per fortuna ( o per caso, chi può dire la piega che avrebbero potuto prendere gli accadimenti se non avessi maturato la sana decisione di togliere le tende in tempi brevi dalla presa di coscienza della mutata realtà coniugale? ) almeno a cotanto segno non eravamo arrivati. Gloriosamente salva era stata fatta la mia già precaria incolumità fisica; con sommo gaudio conservavo intatta la pellaccia, già duramente provata da anni di urticante convivenza, e consideravo la faccenda sotto un aspetto senz'ombra di dubbio positivo. Mi restava, alla fine della storia, l'amara consapevolezza di quanto sia arduo coprire un percorso di vita senza perdere pezzi d'anima lungo la strada. E' la matematica dei sentimenti, ho ripetuto a me stesso durante tutti questi anni. Peraltro senza convincermi più di tanto. Grazie per l'attenzione. Granelli di letteratura Alcuni mesi or sono, nel corso di una delle usuali navigazioni senza precisa meta in internet, scopro una rubrica titolata: - Granelli di letteratura -, riservata a prose da risolversi in 120 battute massimo, spazi compresi. Però, mi dico, intrigante 'sta cosa... Decido seduta stante di provarci. Invio, dunque, il mio racconto minimo: Vorrei piangere, ma non ci riesco, e allora rido, rido, rido a crepapelle fino alle lacrime. *** Gli autori degli scritti che, ad insindacabile giudizio del comitato di lettura, otterranno l'investitura della pubblicazione in rete, saranno avvisati tramite l'invio di una mail sulla personale casella, specifica, senza possibilità di equivoco, il regolamento ufficiale.
*** Passano i giorni. Niente. Ci riprovo con un'altra lirica: Alla finestra, sollevo un po' lo sguardo smarrendo pensieri dietro un transito di nuvole.
*** Passano i giorni. Niente anche stavolta. Ritengo, allora, opportuno effettuare l'ennesimo tentativo; partecipare con più granelli dovrebbe, in teoria, offrire un più ampio ventaglio di possibilità finalizzate al raggiungimento dell'obiettivo prefisso, cogito con discreta convinzione; l'eventuale presenza in rete mi attizza oltremodo; essa costituirebbe, anzichenò, un'esperienza certamente nuova e, nondimeno, memorabile, oltre, poi, all'enorme visibilità derivante a livello nazionale, inviando la seguente: Aisha è venuta in Italia a cercar fortuna. Si è fermata a casa mia.
*** Trascorrono, immarcescibilmente, i dì della ventura, e nella mia casella di posta non c'è la benché minima, pallida, traccia dell'agognato avviso; solo la solita spam e qualche subdolo dialer. I casi, a questo punto, possono essere due: o i racconti da smaltire son davvero tanti oppure il famigerato comitato ha sancito che madame Littèrature può benissimo fare a meno del sottoscritto. Va be', vorrà dire che continuerò ad attendere, fiducioso, il segnale cotanto bramato. Nel frattempo ho vergato il presente, chiamiamolo così, resoconto diaristico del periodo in questione, per, anche se nutro la fondata impressione che non ve ne possa fregare di meno, mettervene a parte. P.s.: se volete, però, conoscere l'epilogo di codesta vicenda, connettetevi, di tanto in tanto, alla home page di Virgilio e ciccate sul link Sapere e libri. E' tutto lì. E se mi trovate vi auguro buona lettura, anche se i testi son già stati svelati. Null'altro da aggiungere. Chat line www.etc, etc, etc, appare l'home page cercata, clicco sul link d'interesse, schermata, registro il nick name, fornisco, poi, l'indirizzo e-mail... tutto svolto in maniera corretta; d'ora in avanti farò parte anch'io di una stanza telematica di chiacchiere con sconosciuti di ogni dove. Sullo screen cominciano a scorrere, dal basso verso l'alto, le righe di dialogo degli utenti collegati...e ora che faccio, anzi che dico, anzi che scrivo? Seguo un po' i discorsi cercando di annodarne i fili del ragionamento; ogni tanto m'intrometto, qualcuno risponde...bene, proseguiamo... Chiamo all'appello le ragazze presenti, abboccano…si…la curiositàè sempre femmina; d'altronde è essa la molla che muove 'sto genere di situazioni… Faccio conoscenza con parecchie, adolescenti in buona parte, ma con numerose presenze più "mature". Io veleggio verso gli "anta", ormai, ma presto attenzione a non sgamarmi, non subito, almeno, e faccio il boy. Riesco simpatico quasi a tutte; in certi giorni divento addirittura il monopolizzatore della session, nella fascia oraria compresa fra le 17.00 e le 18.30. 'Ndo' mi porta 'stà cosa? Boh, non ne ho la più pallida idea, né tantomeno me ne preoccupo più di tanto. Mi diverte, e continuerò a chattare…il resto si vedrà. Storiella sciocca Era sempre stato un eccelso ed infaticabile trombeur de femme. Il gentil sesso gli cadeva ai piedi invero come classica pera cotta. Ed ei non lesinava minimamente disponibilità ed impegno nel tentativo di lenire, al meglio delle proprie possibilità fisiche e chimiche, i fenomeni pruriginosi scaturenti dall' insane voglie delle pulzelle capitate, per caso o per gioco, nel raggio d'azione del suo ludico microcosmo privato. Venerato, ordunque e anzichenò, come una divinità pagana e lasciva, dall'altra metà del cielo e, nondimeno, invidiato fino allo sfociare in forme d'odio vere e proprie in taluni, nient'affatto rari, casi dal sesso cosiddetto forte, il nostro eroe proseguì nella propria particolare missione, se così possiamo dire, per lunghi anni, dividendosi, di fatto, fra pantagrueliche abbuffate di sesso e minuzioso studio di strategie difensive atte ad evitar scontri fisici con mariti e fidanzati cornificati, nonché padri, madri, fratelli e affinità varie imbufaliti oltremodo dal singolare personaggio che amava posarsi di fiore in fiore alla stregua di un'ape (mi si conceda la licenza, considerando che l'insetto di cui sopra è evidentemente di sesso femminile) inverosimilmente arrapata e finanche compiaciuta del ruolo assegnatosi di dispensatrice di carnali, irripetibili (come Nicolò Paganini, che notoriamente non concedeva bis, anch'egli non gradiva ripetere performance con il medesimo soggetto) delizie. Poi qualcosa principiò a non funzionare al solito. L'accadimento sortì l'effetto di una discesa agli inferi, consumatasi in maniera graduale ma inequivocabilmente ed inesorabilmente inarrestabile. La sua "pistola", in pratica, sulle prime cominciò ad accusare qualche giro di tamburo a vuoto, successivamente prese a non funzionare più del tutto, come in una sorta di gioco al massacro in cui la regola principale è sottrarre all'avversario; portargli via, cio è, fase dopo fase, le cose a lui più care, lasciandolo in ultimo con la carta minima al cospetto del mazziere; una cilecca presentatasi con tutti i crismi della "dismissione ufficiale", folata di vento gelido e cattivo a denudare il re di fronte allo specchio delle brame di un orgoglio mascolino da riporre, forse in maniera definitiva, nello scatolone dei ricordi su in soffitta. Dopo l'iniziale e comprensibile sconforto, con la prevedibile, consequenziale trafila di andrologi prima e psicologi poi, che non seppero in alcun modo, però, fornire risposte adeguate in merito all'intera, delicata, senz'ombra di dubbio drammatica faccenda, l'homo-erectio dovette malinconicamente ammainare la bandiera (peraltro già a mezz'asta) e rassegnarsi, ipso facto, al devastante "padre di tutti i flop", che l'avrebbe indotto a deporre, tutto sommato ancora in giovane età, la più dolce (anche tenera, a 'sto punto) arma contundente di cui possa disporre un rappresentante del genere maschile. Ma siccome il sesso, nell'esistenza del nostro, aveva da sempre occupato un ruolo centrale ed ei, di fatto, mostrasse a chiare lettere l'intenzione di non volervi assolutamente rinunciare, meditò, pertanto, una decisione dal sapore clamoroso: passare, senza indugi di sorta, all'altra opzione; quella, per farla breve, femmineamente accoglitiva. "Se non è più possibile dare, almeno si può ricevere, facendo salvo, in siffatto modo, il piacere dei sensi", pensò, oramai persuaso circa la bontà della svolta esistenziale attuata; cucita, adesso, come abito d'alta sartoria sul corpo irriso da un'imprevista e terribile scudisciata del fato crudele. E fu così che per l'homo-erectio si "spalancarono" nuovi orizzonti, buoni a restituirgli, pressoché intatta, la felicità perduta lungo il sentiero dei giorni andati, come il muto grido d'aiuto dei sassolini di Pollicino disseminati sul sentiero, nella notte oscura popolata da streghe e orchi. Ah, dimenticavo…molti dei suoi nuovi amori l'homo li pescò nel vasto pelago di quanti, in passato, avevano trovato da ridire in relazione agli incessanti cicli "d'impollinazione" perpetratisi, in barba a tutto e a tutti, nella piccola comunità posizionata nella famosa valle contornata da mare e montagne. Indecifrabile arcano la vita; struggente come sciabordio di lacrime a cercar quiete lungo l'arenile del viso; strane bestie le parole, che avvelenano le notti di chi spaccia sottocosto bislacche righe che si credon prosa. Null'altro da aggiungere. Questa storiella sciocca è per voi. Ipermercato Famiglie italiane in fila alle casse. Anch'io attendo, pazientemente, il turno per poter pagare gli acquisti effettuati: una biro a tre colori, cinque calepini a righe formato A6 e due correttori a nastro - mini pocket mouse - in confezione unica. Totale: 6 euro e 30 centesimi. Le famiglie spingono carrelli stracolmi di cibarie, capi d'abbigliamento in offerta 3x2, complementi d'arredo di ogni forma, colore e dimensione, elettrodomestici multifunzioni e via così, di mirabilia in mirabilia. Bambini strillano, corrono a destra e a manca, mirano eccitati in ogni anfratto di quel luogo scaturito dalla favola più bella che mente innocente possa mai immaginare, mamme rimproverano, afferrano per mano, strattonano via, papà cercano nei portafogli contanti, carte di credito, blu di sconto fedeltà. Dopo una buona mezzora approdo, snervato, all'agognata meta del registratore di cassa. Appoggio gli articoli alienati sul nastro trasportatore ed aspetto che si dia corso alla transazione commerciale. L'addetta all'operazione solleva leggermente lo sguardo e mi lancia un'occhiata di sbieco, immediatamente seguita dal disegnarsi sul viso di un'espressione mista fra il perplesso e l'ironico, come a significare: " ma non si vergogna...alla sua età acquistare ancora di queste sciocchezze...per fare cosa, poi? scrivere, cancellare, scrivere di nuovo?! tutta 'sta fila per 6 euro e 30 centesimi! perché non ha scelto una cartoleria, dico io, se nutriva queste intenzioni...?" Il sopraindicato atteggiamento del complesso facciale dell'esattrice numero 10, nasconde, ritengo, un retropensiero alquanto profondo e nondimeno corredato da innumerevoli sfaccettature… La nazione, con tutta evidenza, non nutre il bisogno di individui della mia risma; non sa che farsene, in altre parole, di coloro che consumano la preziosa pavimentazione degli shopping-center lasciando in cambio la miseria di 6 euro e 30 centesimi alla Grande Causa del Capitale. Le mie gote avvampano, colorandosi, presumo, di un rosso acceso simil fuoco da girone infernale degli avari. Pago frettolosamente, afferro lo scontrino fiscale, che certifica a mo' di prova documentale la mia vereconda puerilità, e sortisco all'aria aperta. A piedi mi avvio, stavolta senza assilli d'urgenza, in direzione delle mura domestiche. Percorso qualche centinaio di metri, sul marciapiede opposto scorgo un negozio che non avevo mai notato in precedenza. Attraverso, in preda alla concitazione ed ai sudori freddi, la trafficata carreggiata mattutina…si!è proprio una cartoleria! Mi guardo attorno con fare circospetto, alzo immantinentemente il bavero del cappotto, inforco gli anonimi occhiali da sole e mi catapulto all'interno, per quello che si presenta con tutti i crismi dell'ennesima, avvincente, ammaliante navigazione a vista lungo gli arcipelaghi misconosciuti degli scaffali in mogano bianco. Aria d'amore Tirai fuori Carla dal ripostiglio. Dopo una necessaria spolverata principiai a gonfiarla. Era da un pezzo che non ci vedevamo. Avevo in mente grandi progetti per noi due. La sistemai con cura sul sedile anteriore dell'auto e girai la chiave nel cruscotto: un bel giro per la città era quel che ci voleva per tonificare lo spirito in quel periodo successivo ad una fase esistenziale invero travagliata. Carla era troppo importante per il sottoscritto: un'ancora di salvataggio provvidenziale nei momenti bui; sempre pronta, disponibile, totalmente votata alla complessa causa del dipanamento definitivo dei miei conflitti interiori. Era un’amante morbida, adattabile a qualsivoglia geometria erotica, compagnia discreta e affidabile, poco dispendiosa in termini economici: una bucatura dal gommista all’angolo, di tanto in tanto, e via… . Insomma, Carla rappresentava la donna ideale: connubio pressoché perfetto di dolcezza e capacità d’ascolto; saporito impasto di amor sentimentale e pornografia da praticare senza rete. La conobbi, diversi anni addietro, in un sexy shop di una città distante una trentina di chilometri circa dal mio luogo di residenza. Fu amore a prima vista. I languidi sguardi che ella mi lanciava dallo scaffale dei prodotti del mese in offerta erano di quelli ai quali nessun esponente del sesso maschile dotato di un pizzico di sensibilità pruriginosa può in alcun modo sottrarsi, pena la cancellazione dall’albo adamitico e la cacciata, seduta stante e senza possibilità alcuna d’appello, dal paradiso delle sublimi vertigini. Decisi, senza star troppo a rimuginarci sopra, che quella sirena avente il potere di ammaliare uno scapolone incallito come lo scrivente, sarebbe stata senz’altro meglio a casa dello stesso, piuttosto che adagiata su quell’anonima mensola di frassino e fatta nondimeno oggetto di chissà quali attenzioni ed occhiate cariche di velenosa libidine. La mia scialba esistenza s’avviava, così, a colorarsi di una fantasmagorica, esotica anzichenò, femminea presenza, destinata a regalare serate decisamente liete al triste appartamento da uomo in crisi. L’inaspettata situazione sembrava avere tutti i crismi per presentarsi come l’alba di una nuova vita, ripetevo incessantemente a me stesso lungo l’interminabile via del ritorno. Appena guadagnate le mura amiche, provvidi a strappare con foga la confezione cartonata che teneva prigioniera quell’anima supplicante, e ci amammo con furiosa tenerezza, spalmandoci sulla carne urlante di desiderio le reciproche solitudini, in piedi contro lo spazio della parete lasciato libero da cucina e lavatrice. Lei assorbiva senza batter ciglio, alla stregua di un grande pugile incassatore, i miei poderosi colpi di bacino. Contavo parecchi anni d’arretrati ed il mio apparato genitale reclamava l’incasso totale e senza condizioni di sorta. Venimmo simultaneamente: il sincrono dell’universo; l’unico reale incantesimo che conferisce senso definito alle cose, hic et nunc entusiasti beneficiari dei giusti codici d’accesso per dar luogo al raro verificarsi di un fenomeno irrazionalmente osmotico, io con un urlo lancinante di piacere, lei con un leggero sfiato dalla valvola principale; quasi un soffocato lamento proveniente dal pozzo profondo dei rintanati ma sempre scalpitanti folletti dell’eros estremo. I vicini battevano i pugni alle pareti, evidentemente infastiditi dagli imbarazzanti rumori prodotti. Di questo non me ne poteva fregare assolutamente di meno. Facessero, dunque, quel che più si riteneva opportuno. Dal canto mio, mi trovavo al settimo cielo; finalmente avevo facoltà di poter denunciare (e lo stavo facendo, a giudicare dalle inferocite lamentele degli esimi condomini) al consorzio civile la presenza nella mia vita di un’anima gemella, come si suol dire in codesti gioiosi casi; una meravigliosa creatura di origini nipponiche, cio è, alla quale, per comodità di pronuncia, avevo assegnato un nome italiano, che offriva i suoi prelibati frutti senza nulla chiedere in cambio né tantomeno formulare domande o addirittura pretendere pianificazioni progettuali di vita in comune. Ero felice, nell’accezione più completa del termine. Con la modica spesa di 326.000 lire iva compresa avevo provveduto ad edificare il medesimo castello dei sogni che ad altri richiede anni sacrificali di varia natura. Mi ero senz’altro messo in carreggiata con il mondo. Poi, come spesso accade, l’invidia, la maldicenza, la meschinità delle persone, mi fruttò una denuncia per atti osceni in luogo pubblico. Una sera, infatti, che stavo rincasando assieme alla morosa, in un impeto di focosità la baciai nell’androne del condominio, nondimeno palpeggiandole il didietro nell’esatto momento in cui scendeva le scale la signorina Adele Bifulco del 6°piano- interno 12, la quale sortiva dalla propria magione per recarsi in visita ad una vecchia zia ammalata. La meschina, donna in età senza marito né prole, prese ad ingiuriarmi scandalizzata, strillando a più non posso che quello era sempre stato un palazzo rispettabile, abitato da professionisti e da persone di comprovata moralità, fino a quando non ero arrivato io. Rimasi a piede libero, mentre Carla mi fu portata via, rappresentando, essa, il corpo del reato commesso agli occhi pudici di sora Adele. Il dubbio che la mia accusatrice avrebbe un forte nonché impellente bisogno di scaldare i motori con un po’ ( parecchio, a questo punto, N.d.A.) di sano e corroborante sesso mi è rimasto. Freudianamente la mia colpa era stata, con tutta probabilità, quella di non aver incollato le mie labbra alle sue e, nondimeno, manomesso lei, anziché la giovane, bella e procace figlia del Sol Levante. Comunque, transeat, come si suol dire. Carla mi fu restituita dopo alcuni mesi, il tempo necessario a madame burocrazia di tenere alto il vessillo della propria sinistra fama di devastatrice dell’altrui equilibrio psichico. L’adagiai subitaneamente in ripostiglio, ritenendo che per qualche tempo, questa, potesse costituire la soluzione migliore. Successivamente m’infilai, come affermato precedentemente, in un complicato rendez - vous con le rese dei conti della quotidianità, dal quale son sortito pesantemente debilitato nel credito personale. La cosa, nel frattempo, ha fatto il giro delle conoscenze, e nessuno fra i volti familiari mi rivolge più la parola, evidentemente disgustati dalla penosità dell’intera faccenda. Ma non importa, io ho lei, la dolce fatina delle mie mirabolanti fiabe di bambino; la geisha ferina e instancabile delle mie notti morbosamente insonni. Carla…tutto il resto è rumore di fondo. Con il telecomando azionai l’apertura del pesante cancello che vigilava silenzioso sulla sicurezza delle anime quiete e pacificate del casermone perbene di periferia, denominato, con enorme sciupìo di fantasia ed originalità, Parco Le Ginestre, laddove le stesse, orribilmente abbandonate all’incuria, si potevano contare sulle dita di una mano, e scivolammo liquidi e discreti nella notte elettrica e ruffiana di quel sabato di quasi estate. Io, Carla, i nostri sogni bagnati. Guidai piano, ed a un incrocio particolarmente trafficato accelerai di colpo, decollando verso la luna. E questo è quanto. - Il presente costituisce elaborato frutto di fantasia dell’autore, pertanto ogni riferimento a fatti e/o persone reali è da ritenersi puramente casuale. - I nuovi poveri Circumvesuviana. Sera. In piedi, all'interno di una stazione della linea Poggiomarino-Pompei, attendo il convoglio del ritorno. Pioviggina. Trovo riparo dentro uno spazio adibito al personale viaggiante. Il responsabile della struttura ferroviaria scambia qualche battuta con alcuni nordafricani che trascinano carrozzelle straripanti di cianfrusaglie assortite, compiacendosi di aver imparato frasi della loro lingua. "Ormai sono pressochè gli unici fruitori della Circum"-gli dico-"oltre alle usuali utenze pendolari degli italiani che per ragioni di bilancio privato ne godono la convenienza in termini di risparmio pecuniario". "Sono i nuovi poveri",-mi risponde, con espressione mista di sufficienza e contrizione-. "Già…i nuovi poveri"- penso -, "chissà, se non ci fossero, quale professione andrebbe a svolgere il nostro dirigente dalle grandi aperture morali". Poi, arriva il mio treno, pieno come un uovo di ambulanti delle più svariate nazionalità. Salgo in carrozza, mi guardo un poco attorno alla ricerca di un posto a sedere. Lo guadagno, non senza fatica. Appoggio la testa allo schienale della poltroncina e, lasciandomi cullare dal tonificante massaggio regalato dalla vibrazione ritmica del movimento, osservo, con placido abbandono, il paesaggio pre-autunnale dai finestrini dalle tendine sollevate. La navigazione della quotidianità -"E' un bravo ragazzo, e tale è rimasto negli anni"- queste parole risuonarono alle mie orecchie come una sorta di epitaffio, inciso a lettere cubitali sulla pietra tombale che rappresentava la migliore biografia della mia vita fino a quel momento. -"Un bravo ragazzo"- questa era la valutazione, certo sincera, fatta da una delle figure caposaldo del mio percorso esistenziale. Compresi, in quel preciso momento, in maniera netta e senza possibilità alcuna di equivoco, che qualcosa non stesse procedendo per il verso giusto nella personale navigazione della quotidianità; nelle forme comportamentali, cio è, assunte per relazionarsi agli altri. Nonostante tutti gli sforzi che compissi per darmi un tono risoluto e grintoso, onde affrontare quanto meglio possibile il confronto con il Consorzio Umano, avvertivo la presenza come di un qualcosa di estraneo che non permettesse il funzionamento ottimale della "sala macchine"; una specie, in altre parole, di sassolino che inceppava l'intero ingranaggio. Avevo un carattere che mi portava a parlare poco ed a scrivere molto; a fissare, in sostanza, su carta tutte le sfaccettature dell'Io. Accumulavo, inesorabilmente, quantità industriali di rabbia e dolore, e quando saltava il tappo diventavo come un vulcano in eruzione. Sono del Toro, vi lascio immaginare… Come tutti gli ex-buoni sorprendevo con le mie improvvise sfuriate e cominciavo a stare sui cosiddetti a parecchi. Tutto quel che cercavo era di scaricare in un oceano di risate il pesante fardello di angoscia che portavo dentro. C'era chi mi suggeriva di piangere, ogni tanto, altrimenti il dolore cementifica e diventa disperazione. Ma a piangere non ci riuscivo; elaboravo il malessere principiando a ridere, ridere, ridere a crepapelle fino alle lacrime, fra lo sconcerto dei pochi che ancora riuscivano a starmi accanto. Ero inoccupato da anni e mi rompevano i coglioni (ecco, l'ho detto!) a destra e a manca con domande del tipo:-"ma perché non ti sposi, perché non acquisti un'automobile, perché non accendi un mutuo per possedere una casa tutta tua…? "- e via di questa solfa. Sulle prime accusavo i colpi di questo terribile bombardamento, a metà strada fra il suggerimento peloso e la curiosità di saperne di più su quello strano impasto di atomi che avevano di fronte. Ero inoccupato (come rivelato nella premessa a questo passaggio) , ergo era facilmente deducibile che dalle mie tasche non fiorissero certo boccioli di rosa…e allora che cazzo chiedete, dico io !? Quali risposte vogliono udire le vostre orecchie!? Tacevo, sviavo i discorsi, mi defilavo e la mia gastrite diventava l'unica compagnia nella solitudine galoppante, che stringeva al collo sempre di più, togliendo fiato e voglia di continuare. A poco a poco, però, afferrando il coraggio a due mani, principiai a replicare, in un crescendo di sfrontatezza che produceva ondate colleriche vere e proprie a sommergere in pochi attimi chiunque avesse la ventura di soggiornare sui lidi del mio atollo personale. Mi stavano stressando; rosicchiando con studiata sistematicità il sistema nervoso. Mi fottevano con lenta scientificità. Dovevo difendermi, alzare il ponte levatoio che si frapponeva fra me e loro; rovesciare medievali litri d'olio e di pece bollente sui subdoli aggressori della mia libertà. Cominciai a spaventare i maestri di mediocrità e meschinità che pretendevano di impartirmi la lezioncina su come ci si può trascinare fino alla serena vecchiaia. Rispondevo sempre in malo modo; diventai antipatico; quasi tutti presero ad evitarmi. Mi sentivo splendidamente bene; ero in sincrono con il mondo, gli uccellini cinguettavano, il cielo era blu, la vita mi appariva come un giardino d'infanzia. Sembrava di essere in un Paradiso possibile, ben sapendo che la botola degli inferi era sempre spalancata e attendeva solamente il minimo passo falso per accogliermi in caduta libera nel suo abisso senza fine. Quando accadeva di abbassare un po' la guardia avvertivo subitaneamente il calore delle sue fiamme. In quei frangenti cercavo in me stesso la maniera di elaborare il tutto, affinché le piaghe formatesi sviluppassero un dolore perlomeno sopportabile. Poi tiravo avanti per la mia strada, anche se non comprendevo bene dove mi potesse portare. Le mie giornate trascorrevano pressappoco uguali: scrivendo, leggendo, ascoltando musica, svolgendo qualche lavoretto malpagato…e sognando; sognando ad occhi aperti un'astronave che venisse presto o tardi a condurmi lontano da quella enorme sfera irregolare ruotante,testardamente affezionata alla stessa millenaria orbita ellittica che faceva vento alle stelle, regalandogli, oltretutto, la visione privilegiata del suo bislacco teatrino. Continuavo ad attraversare i giorni dell'esistenza con un fare ringhioso, come di un mastino al quale stanno ispezionando la cuccia. Battagliavo di giorno con le sole armi di cui disponevo: le parole, i gesti, i silenzi rumorosi, gli scatti d'ira e le chiusure improvvise. Di notte, invece, mi assopivo assumendo una posizione di tipo fetale, perché, in fondo, ritenni di aver compreso quel che in realtà ero: un feto adulto, scaraventato troppo presto in un mondo extrauterino che non gli piaceva, e che, risultava evidente, lui non piaceva ad esso. Pugnavo come un cavaliere senza lancia e senza spada, ferito più volte, ma saldamente ancorato alla sella del suo vetusto ronzino, mirando sempre fisso i mulini a vento di fronte. E sì che mi sarebbe piaciuto vivere in simbiosi con un mondo popolato da persone schiette come un buon vino, e non aver a che fare con menti simili a luci di porto malate e avvilite, che rischiaravano in lontananza una città bollente. Stati ansiosi e depressivi si davano il cambio regolarmente; così mi riscoprivo barricato fra le mura domestiche, rimanendo disteso al buio a pensare che, nonostante i miei problemi, la vita fuori proseguiva sui binari soliti: i rubinetti sgorgavano sempre acqua, i postini continuavano a recapitare la corrispondenza, i pendolari proseguivano il tran tran vitale che li avrebbe, giorno dopo giorno, accompagnati beffardamente alla tomba. Ero un marginale, su questo non nutrivo più dubbi ; un outsider, un borderline, un…divertitevi voi ad aggiungere altri termini , se vi va e sempre che non abbiate proprio nient'altro di meglio da fare. Per quanto mi attiene ritengo di esser uscito già fin troppo allo scoperto, ragion per cui ripongo la penna e stacco qui le comunicazioni. Lascio a voi, ordunque, la facoltà di scrivere il finale che più vi faccia piacere. Nel congedarmi, infine, dalla gentile compagnia, non resta altro che formulare a tutti i più distinti saluti ed augurare, nondimeno, un buon divertimento a chi ha già affondato la sua lama nella carne tenera della mia libertà; sperando che stavolta le si spezzi in mano, lasciandolo con un palmo di naso di fronte ad un airone dalle ali sudice che finalmente ha spiccato il suo volo verso il blu. Immensamente vostro Michele Vaccaro Broker Gli assicuratori, in termini anglosassoni, sono definiti - broker -. To broke, nell'idioma dei sudditi di sua maestà d'Albione e dei territori ad esso confinanti, con l'aggiunta delle ex lande d'approdo coloniale seicentesco (mi si perdoni l'eventuale errore storico) nordamericane, significa rompere. Edè precisamente quel che sta facendo, con notevole successo, uno di quei ragazzotti rampanti che bramano una brillante carriera nel ramo - affidami i tuoi sudati risparmi che te li restituisco lievemente aumentati d'importo fra un po' di lustri, il tempo necessario ai dovuti giochini finanziari -. Mi piacerebbe liquidarlo alitandogli sul viso che è un rompi e che io sono un rotto. Dalla vita. E di conseguenza quattrini nemmeno l'ombra. Ma non glielo dico; tento di mandarlo via bluffando di una polizza vita stipulata tempo addietro presso un'altra compagnia. Lo yuppie non ci crede; la parte è stata recitata male. Comunque va via; d'altronde insistere più di tanto proprio non si può, ne risentirebbe pesantemente la professionalità del consulente nonché l'immagine del noto marchio. Rientro in casa (la transazione unilaterale si è svolta sull'uscio), afferro il gilet nero, il mio preferito, mi tiro la porta alle spalle e sortisco dal piccolo condominio nel quale abito da qualche anno. Fuori il mondo segue sempre il solito schema: case, negozi, marciapiedi, automobili, facce che s'incrociano camminando lungo le strade… Sollevo un po' lo sguardo: anche cielo e sole sono indefessamente appesi lassù, come se niente fosse. Va bè, tutto normale, penso, mentre guadagno d'infilata lo stretto passaggio d'accesso all'abituale sala scommesse per tentare ancora una volta il definitivo Allungo. A cerchiata Novembre. In casa. Solo. Senza far nulla di particolare. Pomeriggio decisamente idiota. Pioviggina, poi fa capolino un pallido sole, poi di nuovo acqua, e così via per diverse ore. Sul tardi decido di uscire. Il tempo sembra essersi definitivamente messo al meglio. Qualche stella, timida comparsa a produrre uno squarcio di luce nel manto nero soprastante. Deambulo fiaccamente in centro. Mi adagio su una panchina, la solita. Non l'ho mai fatto prima: estraggo un pennarello nero dalla tasca interna del giubbotto e disegno sulla sua superficie smaltata in giallo una a cerchiata, senza sapere bene il perché; scevro, cio è, dalla piena consapevolezza del gesto, per meglio dire. Mi piace, comunque, che quello che rappresenta il mio angolo pubblico preferito si trasformi in un'isola contrassegnata dal simbolo grafico che testimonia la personale opzione etico-esistenziale assurta a modello relazionale. Resto lì tutta la serata ad osservare i miei concittadini sfilare, presi dalla necessità di inseguire progetti di vita onde conferire senso compiuto alle proprie esistenze. Beati loro che hanno una pulsione nobile da soddisfare, penso, mentre mi avvio lentamente a coprire la breve distanza che mi separa dalle mura amiche. La cena è già pronta in tavola. Consumo sbirciando il tg delle 20.00. Poi un film in cassetta ed alcuni capitoli del libro di turno sul comodino. Successivamente il buio ad ospitare la circolazione dei pensieri. Infine il sonno ad interrompere tutto. Neropioggia Piove, piove, piove. Sopra case, alberi, strade, automobili, ombrelli che offrono riparo a passanti frettolosi e infreddoliti. Acqua su tutto. A pulire infezioni; occultare, dietro il paravento di fitte gocce, cattive coscienze; rimuovere in una metereologica catarsi marciume che appesta. Neropioggia di città. A rabbuiare, sfumare, mondare peccatucci di persone perbene, rispettabili scippatori di sogni altrui. Piove, piove, piove. Accolgo sul viso le gelide lacrime degli angeli in pena. Va bene così. Tutto tornerà come prima, attendendo fiduciosi il prossimo rovescio. Ludovico De Clementis Ludovico De Clementisè un giovane titubante di fronte a scelte e prospettive. Non gli aggrada siffatto Consorzio Civile e conseguenzialmente rifiuta con tutte le forze di farsi coinvolgere e stritolare dai suoi meccanismi. Lo contraddistinguono un insopprimibile anelito alla libertà e la ferma convinzione che la personale felicità non possa in alcun modo prescindere da quella altrui. Non esprime preferenze elettorali, Ludovico, perché non intende delegare a terzi il governo della propria vita. Non ha assolto agli obblighi di leva, in quanto ritiene che un renitente in più costituisca un potenziale assassino in meno. Non ama comandare, poiché non sopporta ubbidire. Aborra ogni forma di gerarchia, sostenendo che gli uomini debbano vivere e cooperare in condizioni di assoluta ed insindacabile eguaglianza. Non riconosce il principio di Autorità, prole degenere del Potere in tutte le sue sfaccettate forme, e fonte primaria di oppressione dell'Uomo sull'Uomo. Considera il concetto di Proprietà Privata un sistema di diritti usurpato, frutto di arcaica violenza perpetrata dal più forte sul più debole, a danno dell'intera collettività. Pensa che l'uso del denaro rappresenti l'esatta misura della schiavitù alla quale è assoggettata l'Umana Gente. Crede che la Disobbedienza a vari livelli sia l'unica via percorribile per il raggiungimento del Riscatto e della Salvezza. Ludovico De Clementis, l'altro giorno,è stato tradotto in un carcere di massima sicurezza a seguito di una denuncia anonima per non meglio specificati motivi di agitazione sociale a fini sovversivi. Proditoriamente è stato selvaggiamente picchiato dai questurini; la faccenda è stata prontamente messa a tacere dalle alte sfere, con tutte le reticenze, ipocrisie ed omissis di rito nei verbali quando è trapelata agli organi d'informazione, che si sono lanciati come avvoltoi sulla preda inerme, indifesa ed oltremodo succulenta in considerazione del fatto che trattavasi di persona nota, appartenente ad una delle famiglie più ricche ed influenti della nazione. La solita storia del rampollo viziato che gioca a fare il rivoluzionario con i soldi di papà ed il posto da dirigente già bello caldo per quando si deciderà a smetterla di fare il bambino ed a mettere la testa a posto, assumendosi tutte le responsabilità che la posizione ed il ruolo che occupa gli attribuiscono. Ed invece no. Ludovico De Clementisè proprio quello di cui sopra. Irrimediabile anomalia nel conformismo stagnante della casata di appartenenza; pecora nera da tempo immemore, marinaio delle stelle in navigazione perennemente ostinata e contraria. Ludovico-etica diversa; un'opzione esistenziale ed un metodo di lotta che è stata scelta difficile, estrema, criticata dai più, ma che lo ha liberato dalle catene insegnandogli a volare alto. E poco importa se resterà solo e isolato, con unica compagna l'Utopia…Ludovico non ha bisogno d'altro per scaldare mente e cuore ed intraprendere il cammino. Né più re, né regine; santi e peccatori; niente Stato, solo libere associazioni di persone; il vil denaro carta straccia; io do a te, tu dai a me, tutto a tutti, tutti per tutto. Ludovico De Clementis…ce ne fossero di più. Questa è per te. Marron glacé Sotto, il fiume scivola lento giocando con i neon del parco in un'apoteosi di luci e colori. Una chiatta straripante di turisti sbuffa al largo, trasportando esistenze satolle da dopocena. Un alito di brezza smuove i capelli ad un bimbo mentre lascia andare un aquilone. Sembrano immagini rubate ad una tela di Matisse. Appoggiato alla balaustra penso un po' ai fatti miei, poi m'incammino senza fretta incespicando qua e la nelle macerie disseminate lungo la via del ritorno. Sotto, il fiume continua la sua placida corsa senza ostacoli, trascinando imparzialmente cadaveri e fiori. Fuori Fuori c'è una moltitudine di persone che si affanna per guadagnare un posto in Paradiso mentre io me ne resto stravaccato sul letto ad ascoltare la radio. Ci trovo un senso; un qualcosa di profondamente ieratico nel farmi scivolare sulle pieghe della pelle le ore, i giorni, i mesi, nel tentativo di raggiungere l'inedia più completa possibile. A continuare la Storia ci penserà il mio prossimo, lavorando, producendo, riproducendosi, perpetrandosi nei millenni a venire. Tutto questo non è affar mio. Io sono solo un rottame alla deriva; un sognatore scippato di tutto e scaraventato via. Livello zero Vigilia di Natale. Tardo pomeriggio. In stand-by postprandiale. Solo. Nella mia stanza 4x4. Adagiato sul letto, con le mani intrecciate dietro la nuca, fumo lentamente e guardo le figure d'ombra proiettate dal riverbero dei raggi di un sole pallido contro il soffitto basso. Alla radio un programma di dediche e auguri. Nelle altre stanze rumore di piatti, vociare indistinto di commensali e odore acre di caffè che sale. Un altro anno sta scivolando via come un'anguilla terrorizzata dai preparativi per il Cenone. Undici mesi trascorsi dal clamoroso trasloco dal vecchio appartamento del palazzo natale: nella memoria un ricordo cristallizzato; nell'anima una nuova, terribile scudisciata. Ancora tempo prima del round culinario serale. Giocherello un pò con il kit di euro acquistato alle Poste. Curioso scambiare soldi con altri soldi. La lira passa il testimone alla valuta della cosiddetta Eurolandia, epocale passaggio di consegne tra un dio che va al macero ed un nuovo cocchiere che monta a cassetta su una diligenza dai cavalli a briglie sciolte che ci condurrà alla fermata del futuro possibile. Uno sberleffo l'esistenza, che prima ci provoca un moto di sorpresa e poi ci inchioda al muro delle nostre miserie. Ecco la quotidianità: un incedere claudicante di realtà educate nell'obliquità del dolore; pagate ad attimi, e salate, come le prestazioni di una squillo d'alto bordo, sempre acquattate ad ogni angolo di strada pronte a saltarci alla gola con i loro ground zero affilati, una volta di più caldi, polverosi e fumanti. Ancora tempo: leggo qualche poesia di Leo Ferrè;è vero, Leo, veniamo da un altro mondo, da un altro quartiere, da un'altra solitudine. Oggi come oggi ci creiamo solamente delle scorciatoie. Passo, poi, a Cesare Pavese ed al suo diario, a quel mestiere di vivere che non imparò mai, dolce Cesare quando non serri le mascelle,sincero come i filari d'uva delle tue amate Langhe. La logica delle cose...ed io sono semplicemente un pazzo o un assassino. Auguri di Buone Feste. Cortocircuito Centinaia di donne sono passate sotto il mio ventre. Di tante non ricordo neanche il nome, di qualcuna addirittura il viso. Edè questa la mia maledizione, non riuscire ad innamorarmi mai, e, forse, a non amare niente e nessuno. Due ore fa ho ammazzato un uomo. Non sapevo nulla di lui, non lo conoscevo, mai l'avevo visto prima. Ma l'ho fatto. Freddamente, spietatamente. Per soldi. Tanti soldi. E non provo niente, adesso che un altro miracolo alla rovescia è avvenuto. Nella testa pensieri si schiantano impazziti contro la scatola cranica producendo un rumore assordante. Spalanco la finestra ed osservo il nero della notte, versato sul mondo come un inchiostro lasciato cadere ad arte per azzerare tutte le prove. Silenzio. Stormire di fronde. Aliti di vento fresco accarezzano la pelle tirata del viso. Socchiudo le palpebre e rifletto su cosa non abbia potuto funzionare; su cosa non funzioni mai veramente nella vita di ognuno. Dura poco, stacco bruscamente l'onda dei pensieri, come la spina di una radio improvvisamente andata in corto. Poi apro il taccuino rivestito in pelle marrone e principio a leggere, a studiare con calma il mio prossimo uomo. Yasmina Arenata sul lungomare del Torrione, a Salerno. Già da qualche mese, atteggiata ad un'immobilità inerte, risultanza di sorpresa poco gradita ed oltremodo incresciosa. Proveniente da Singapore, recante uno splendido nome di donna a caratteri cubitali bianchi su entrambe le fiancate impresso, parvente senz'altro esotica promessa d'amor fiabesco. Non si conosce il di essa contenuto reale. Qualcuno formula ipotesi circa eventuali carichi non propriamente graditi alle leggi dell'italico stato. Il comandante che rifiuta aiuti durante la tempestosa fase critica e che vieta, successivamente, la discesa a terra dei marinai,è interpretato, certamente quale evidente segnale indicante livelli oscuri di malaffare. Forse è così, o forse no. I tg nazionali e regionali le han dedicato, nel corso dei loro epilettici ballettini-bollettini informativi, parecchi preziosi minuti, sottratti, per malinconico dovere di cronaca, alla pubblicità editrice. In questa gelida serata di metà inverno ci sono anch'io, estaticamente appoggiato alla balaustra del fronte terrestre, assieme ad altri cento, a respirare con lo sguardo la sua inebriante essenza d'orientali lontananze. Promesse mai fatte, comunque. Ma è bello sapere che esista e possa portarmi via. Yasmina…sarà sciocco innamorarsi di un mercantile, asiatico cargo dei sogni porta chissà cosa. Incoerente, soprattutto, per chi non ha quasi mai navigato né amato particolarmente l'elemento salato, ma tu (repentino passaggio al tono confidenziale, indice inequivocabile di passion pura che non può più ragionevolmente attendere l'oggetto del personale desìo) rappresenti l'ancora di salvataggio; amante discreta dal corpo ferrato e bullonato, con cui fuggire senza meno da un'esistenza scevra di sbocchi sostenibili, a macchine avanti tutta in direzione utopia possibile. Oggi ho inteso dire che stanno scaricando il contenuto onde alleggerire il peso e provare, quindi, per l'ennesima volta, a strapparti al soffocante abbraccio di sabbia non cercata. Qualche giorno ancora e sarai pronta a puntare la prua verso il mare aperto e, sbuffando felicità fumosa al cielo stolido di questo febbraio indifferente al magico unguento dei sentimenti, riprendere, altera e noncurante, l'interrotta rotta. Ed io resterò qui, mani nelle tasche del cappotto, dietro la grata della balaustra a rimirare il dipinto senza cornice che ti contiene mentre scivoli via sulle spume trascinando a mò di sci d'acqua brandelli della mia anima lacerata. Addio, Yasmina, hanno blaterato potessi rappresentare un serio pericolo ambientale. E cosìè stato. Senza nulla inquinare ti sei fatta ugualmente ricordare. Un post-it sul note pad Un post-it sul note pad:-telefonare a Jessica-. Cazzo, mi era proprio passato di mente. Com'è possibile sia potuta accadere una cosa simile? Di un uomo, cio è, che dimentichi di chiamare la donna della propria vita? L'appunto giaceva schiacciato ed inane sulla liscia superficie di cellulosa lavorata già da diversi giorni. Sicuramente l'amata era incazzata nera, ma vuoi per orgoglio, vuoi per spirito di rivalsa, non aveva sollevato la cornetta per chiedere spiegazioni in merito al mancato contatto. Era un luglio torrido, dal sole incazzatissimo e picchiettante a martello sui milioni di teste sottostanti. Avevo problemi di soldi, come sempre, d'altronde, e mi arrabattavo alla ben e meglio onde riuscire a mettere assieme il pranzo con la cena. Da giovanissimo mi ero affannato per troppo tempo nella vana rincorsa alle chimere trasudanti libertà, perdendo pressoché totalmente il sacro senso del reale…che stronzo, quanta confusione in testa alla verde età. Avessi operato come la stragrande maggioranza di persone dal buon senso morale! Un buon impiego fisso, magari di tipo impiegatizio e statale, poi fidanzamento (non importa molto con chi, l'importante era fosse una brava ragazza di famiglia perbene), matrimonio- preferibilmente religioso- (la gente, si sa,è molto attenta a questi particolari), figli, mutuo per la casa, per lo chalet al mare e le domeniche mattina irrinunciabile messa nella chiesa principale della cittadina con successivo pranzo dai suoceri seguito improcastinabilmente dall'intramontabile e glorioso vassoio di paste finali ad affogare in un'apoteosi di cioccolata e crema tutta la malinconia che sciabordava nell'anima come le onde di un mare inquieto per le troppe fasi lunari che sconvolgevano l'equilibrio naturale delle cose; insomma, fossi diventato uno regolare, senza tanti grilli per la testa, come si conviene ad un onesto e indefesso lavoratore, ad un marito fedele e pieno di attenzioni nei riguardi della legittima consorte, ad un padre presente e prodigo di buoni consigli alla figliolanza da tirare su secondo i precetti formulati da persone savie e mirati alla formazione del perfetto cittadino ossequiente e rispettoso dell'Autorità Costituita, non avrei vissuto la terribile disavventura che mi accingo modestamente a narrare, sperando di catturare almeno un briciolo di attenzione da parte del lettore, e, nondimeno, confidando vivamente nella di lui capacità di sopportazione di queste, peraltro, non molte e per certi aspetti ardue al conseguimento del giusto credito, righe nere, maleodoranti di fumo, acre odore di bruciato, incendi risolutivi di cose, persone, spallate decisive al passato impastato con la materia dei sogni, affrontando un presente da seminar macerie e non voltarsi indietro mai, per un definitivo slancio in un futuro tutto nuovo e dove tutto è da dimenticare. Ed invece no! Volevo fare questo, volevo fare quello…sempre ad inseguire con caparbietà la classica linea dell'orizzonte, che più ti muovevi verso di essa, tanto più la stessa si allontanava, lasciandoti con un palmo di naso ed un sordo rancore ad accompagnare i solitari passi notturni lungo il sentiero concettualmente ostile del mesto ritorno alla natìa magione. Ma tant'è…ed ecce homo! Molti miei amici, nei dì festivi, srotolavano lungo la piazza principale della città la famigliola felice, girando con le dolci metà a braccetto e le chiassose propaggini biologiche sciolte a guisa di cani da caccia liberati dopo lungo tempo dalle catene della colpa, con l'aria soddisfatta e vagamente pretenziosa di chi ritiene di star dando il suo contributo; l'assolvimento in corso d'opera, cio è, dei personali obblighi nei confronti della società civile edificata sulla base di leggi, precetti e morali tesi al conseguimento del miglior status quo collettivo possibile e, parimenti, alla continuazione sine die, in pace e prosperità, delle umane genti. In genere, quando il caso (o chi ne muove le leve) faceva in modo che le nostre strade s'incrociassero, provvedevo a porgergli il mio saluto con notevole sforzo di cordialità, ma, allo stesso tempo, studiavo rapidamente la maniera più adatta per sgattaiolare dalla palese contraffazione di quei baci e abbracci di una volta tanto, così, quando capitava. Non riuscivo a reggere la commedia della decantazione magnificata delle gioie coniugali, subitaneamente seguita dalla classica espressione di commiserazione rivolta dai coniugati agli ancora tristemente privi delle beate fiammelle del crepitante focolare domestico. Sopportavo ancor meno le occhiate scrutatorie e intrise di velenosa diffidenza delle mogli di costoro, le quali vedevano come una sorta di insidia alla loro stabilità coniugale il fatto che i maritini si fermassero a discorrere con chi sembrava non aver troppa voglia di mandare avanti l'umanità scegliendo la strada maestra della santa e benedetta proliferazione, unica garanzia di continuazione della specie. Jessica principiava ad accusare qualche annetto di troppo, e non si può dire nemmeno che fosse una bellezza da strapparsi i capelli, però sperava sempre che presto o tardi il sottoscritto maturasse la sospirata decisione d'impalmarla, trasformando, di fatto, la semi-clandestina corrispondenza di amorosi sensi in qualcosa che avesse una pur minima parvenza di normalità. Per il motivo soprindicato, principalmente, ella non mi aveva ancora mandato a quel paese. Altri si potevano certamente ricercare nel fatto che risiedessi in una splendida e famosa cittadina, teatro di un'immane tragedia del passato, e che per lei, proveniente da un paesello sconosciuto anche alle carte geografiche, costituiva faccenda dal significato tutt'altro che trascurabile.
*** Avevo problemi di soldi, come accennato poc'anzi; diverse scadenze improrogabili minavano le fondamenta del mio quieto vivere; i quattrini in quel particolare momento rappresentavano una fonte ben più vitale della stessa acqua. Mi ero recato per un prestito presso una persona di mia conoscenza. Questi mi aveva fornito un indirizzo al quale avrei ottenuto senza indugio tutta la somma necessaria. Onorata la scadenza il problema adesso era restituire il prestito. Ben presto, però, mi resi conto di come la cosa rappresentasse tutt'altro che una semplice passeggiata di salute; man mano che versavo le singole quote, infatti, mi accorsi che l'interesse galoppava come un puledro di razza in libertà dopo lunga prigionia. Il capitale era già abbondantemente coperto, il vero cruccio era il cavallo, troppo veloce per me che iniziavo ad accusare il fiato corto. Non lasciavo nulla alle spalle: zero moglie, figli, e proprietà varie; soltanto libretti di risparmio senza più cedoline da staccare. Unicamente Jessica, cazzo, mi era proprio passato di mente. Riflettei sulla possibilità, invero poco remota, che potesse avere il telefono sotto controllo: sarebbe stato assai imprudente contattarla spiegandole i motivi della valigia pronta sul letto. Avrebbe supplicato di seguirmi, ma questa costituiva una soluzione da non prendere minimamente in considerazione: in due il bersaglio era certamente più grande ed agevole da centrare. Non chiamai. Sollevai la valigia dal talamo abusivamente nuziale e sortii con fare guardingo dall'arredato bilocale sottotetto con cucinino, bagno e ripostiglio. Feci le scale del condominio lentamente, e non appena all'aperto respirai a pieni polmoni l'aria calda e satura di umidità presente in quella cittadina non troppo distante dal sole. Poi, lesto, raggiunsi il vicino posteggio dei tassì.
*** L'asfalto scivolava veloce e bollente sotto i pneumatici; il paesaggio dai finestrini spalancati sembrava un nastro di videocassetta in avanzamento rapido; sul sediolino posteriore il silenzio e la preoccupazione di un uomo in grave pericolo di vita. Mi feci fermare a parecchie centinaia di chilometri più a nord. Salutai le ultime banconote che possedevo e mi avviai senza fretta, con le mani nelle tasche dei pantaloni di lino leggero, incontro ad una realtà che si schiudeva nuova e carica d'incognite da decifrare per poter riuscire a riportare, un giorno, la pellaccia tutta intera a casa.
*** La prima tappa fu un bar-tabacchi: caffè freddo ed un pacchetto di sigarette. Il caldo soffocante di quel luglio livoroso annebbiava idee e pensieri. Notai un parco pubblico, varcai l'ingresso principale e mi abbandonai, esausto, su una panchina all'ombra di una quercia dall'espressione sufficiente,tipica di chi ne ha viste troppe e crede che altri secoli non aggiungano né tolgano più nulla al proprio disgusto nei riguardi degli umani. Nutrivo la necessità di pensare. Nonostante l'afa sforzarmi di escogitare una soluzione, una via d'uscita, seppur angusta, da quel tunnel disseminato di insidie dentro al quale mi ero stupidamente cacciato.
*** Sortii dall'oasi pubblica a sera inoltrata. La brezza di Ponente si strusciava morbida sul viso come la carezza sincera di una tenera amante, regalandomi un po' di sollievo, tregua fondamentale per affrontare al meglio le battaglie future. Deambulavo per le strade di quella città, nota eppure sconosciuta ai miei sensi, con passo lento ed aria ostentatamente indifferente. La soluzione ai problemi non l'avevo ancora trovata. Ed il denaro, adesso, era veramente, inappellabilmente, ridotto al lumicino. La spia della riserva filigranata mi concedeva a malapena una cifra bastante a coprire il conto per la cena ed il pranzo del giorno dopo. Dopo di che solamente un orologio da pochi euro ed un cellulare scarico di batteria e di credito. Poi, all'improvviso, folgorante e diabolica come in un noir americano anni '40, l'idea forse risolutrice; la trama sottile e sfaccettata capace di azzerare tutti gli affanni del presente. Dovevo farmi credere morto! Avrei in questo modo fregato i creditori, liberandomi allo stesso tempo, di quell'altra rompicoglioni di Jessica. Il classico due piccioni con una fava. Sarebbe stato un bel colpo, non c'è che dire. Dovevo ingegnarmi ad individuare una persona la cui scomparsa non avrebbe allarmato praticamente nessuno. Qualcuno che non sarebbe stato reclamato tanto facilmente. Un clochard, era in quel mondo che dovevo indirizzare la ricerca. Non fu difficile scovarne uno che facesse alla bisogna. La stazione, di notte, costituiva l'ideale riserva di caccia. Ovviamente la scelta ricadde su un soggetto che possedeva grossomodo le mie caratteristiche fisiche. Per il volto non ci sarebbero stati problemi; dopo averlo ucciso, infatti, avrei provveduto a mettergli addosso i miei indumenti, io i suoi, e successivamente a sfigurarlo.
*** Il cadavere giaceva in posizione supina. Un violento colpo alla testa, con lo spigolo di un mattone raccolto in un cantiere poco distante dal sottopassaggio del binario morto dove era avvenuta l'aggressione, al buio e senza occhi indiscreti, era stata la pratica adottata. La notte, complice. La vittima designata implosa, scivolata giù come una pera secca dimenticata sull'albero, senza produrre rumore alcuno. Nessuno mi aveva notato, di questo ero, con ottima percentuale, persuaso. Avevo sottratto un'auto, caricato il gravoso fagotto a bordo e raggiunto la cima di una scogliera a strapiombo sul mare stupendo di quella città che, forse, mi stava gettando un'ancora per la definitiva salvezza. Da lassù, poi, con lo stesso mattone, ripetutamente infierito sul volto; colpi inferti con studiata precisione, al punto di trasformarglielo in una poltiglia sanguinolenta. Irriconoscibile anche alla madre. Ancora, riportandolo sulla vettura, una spinta ed un salto di circa trecento metri nel precipizio ad ultimare l'opera. Gli inquirenti avrebbero ritrovato il sottoscritto, a bordo di una macchina trafugata, con evidenti tracce di alcool nel sangue. La successiva inchiesta rivelato tutti i dettagli del tragico incidente, anche se sarebbe rimasta in piedi l'ipotesi del suicidio, considerate le rilevanti difficoltà finanziarie del defunto. I media liquidato l'intera faccenda in poche battute:-"Rinvenuto il cadavere di un uomo precipitato con un'auto risultata rubata, da uno strapiombo sul mare della città di Ferzero, comune di 27.000 abitanti in provincia di Nippoli. Dai documenti trovati addosso alla vittima sono state rese note le generalità: corrispondono a quelle di tal Anaclerio Giovannini, trentacinque anni, agente di commercio, stato civile libero. Dalle indagini degli inquirenti è emerso che il Giovannini stesse fuggendo da un giro di usura contratto nella propria città. Il volto, orrendamente sfigurato, ha reso impossibile l'identificazione anche da parte dei parenti più stretti. Fanno testo, ai fini dell'archiviazione legale, i documenti in possesso della magistratura -". Era fatta. Ufficialmente trapassato. Liberato dal nodo scorsoio dei cravattari. L'oblio successivo avrebbe provveduto a spalmare su tutta la scottante vicenda un unguento dolce a lenire le piaghe rimaste in superficie. Adesso premeva l'urgenza di architettare qualche stratagemma per poter lasciare definitivamente il patrio suolo, con tutto il suo carico di macerie e stabilirsi in qualche sperduta landa del sudamerica a sperimentare nuovi metodi di vita. Lontano da tutto e da tutti; con un passato pesante come un macigno da scaricare in fretta nella valle del privato dimenticatoio.
*** Mi imbarcai clandestinamente (ovvio, considerata la mia situazione) su un cargo battente bandiera portoghese. Destinazione Manaus, Brasile. Trasportava un'ingente partita di vino che, nei lunghi giorni di navigazione, mi tenne buona compagnia assieme a delle gallette di formaggio bavarese scovate, con enorme sollievo dello stomaco, in una cassa semiaperta in fondo alla stiva. In Italia, però, le indagini erano proseguite. Leggevo su un giornale patriota, regolarmente distribuito a Manaus, che la fidanzata dell'uomo ritrovato sfigurato in un burrone aveva pubblicamente dichiarato che il cadavere in oggetto non appartenesse certamente al compagno. Infatti, lo stesso, accusava l'assenza di una piccola cicatrice sulla coscia sinistra, ricordo indelebile di una vecchia partita di calcio tra scapoli ed ammogliati disputatasi sul campo sportivo della di lui cittadina.
*** Maledizione! La cicatrice…come avevo fatto a dimenticare quel particolare all'apparenza piccolo e insignificante ma che alla lunga avrebbe potuto costarmi l'ergastolo o, addirittura, una raffica di mitra, a seconda di chi mi avesse acciuffato per primo!? Jessica, avendo, grazie al suo spiccato intuito, probabilmente subodorato la verità, ed essendo a conoscenza della mia passione per un celebre personaggio dei fumetti, poteva aver maturato la decisione di venirmi a cercare proprio dove mi trovassi in quel momento.
*** Proprio così, stramaledizione! Ed ancora più al fatto che anche i cravattari, allertati da quell'infausta dichiarazione alla stampa, avevano principiato a studiarne i movimenti, fino al punto di scoprire la prenotazione del volo Alitalia.
*** Erano qui, ora, accidenti a loro, in tre, di fronte all'inebetito sottoscritto, in un meriggio torrido e polveroso di quel fazzoletto di terra dimenticato da Dio ma non dagli uomini, da quegli uomini.
*** Il tipo alto con il pizzetto ed i capelli raccolti all'indietro a coda di cavallo mi fissava con un ghigno stampato sul viso olivastro da uomo del profondo sud italico. Allo scomparire di esso prese posto, nell'alone sinistro della sua smilza figura, l'accecante riflesso di una lucida canna Smith & Wesson. Sul volto gli si era dipinta, successivamente, un'espressione di rabbia sorda, definitiva, da ultima parola e… bum!!!-fine del discorso. L'astro rovente, affacciato all'immenso balcone panoramico del cielo dipinto con i colori pastello del samba e della saudade, accarezzava, ruvido, i contorni di quegli attimi similar-western. Il carrello dell'automatica scivolava all'indietro con cinica lentezza a farsi beffe del mio sguardo atterrito e paralizzato. In un rapido flashback ripassava davanti agli occhi strabuzzati e quasi fuori dalle orbite intera la mia esistenza, alla stregua di un nastro di videocassetta in arretramento veloce con immagini. Stupida, cretina, pezzo d'idiota Jessica…è proprio vero che le donne fanno male alla salute.
*** Cazzo, cazzo, cazzo, fanculo sveglia della malora che di nuovo mi scaraventi nella realtà quotidiana fatta di impegni e di scadenze, di orari e responsabilità. Ma stavolta devo salutare il tuo trillo isterico e sgarbato con sommo giubilo. Il sogno era più brutto della realtà! Mi asciugo le perline di sudore che scivolano lungo i sentieri della fronte, metto il caffè sul fuoco, faccio le mie cose in bagno, sorbisco bestemmiando il liquido nero bollente, mi vesto, tiro la porta alle spalle ed eccomi ancora una volta, con profusione di sentimenti, sulle tavole traballanti del palcoscenico dei figuranti.
- Qualsiasi riferimento a fatti, luoghi o persone reali è da ritenersi puramente casuale - Un incontro Ti rivedo. Quanti anni… Beffardi giochi del Fato. Nella piazza principale della città, dove si provava ad incendiare esistenze scialbe; quotidianità deserte di prospettive. Fermo, in piedi, osservo oziosamente la porzione di umanità indaffarata a riempire il vuoto che li separa dal Grande Sonno. A lato, di qualche metro, mi hai notato, mi saluti con un largo sorriso, volo planare di gabbiani incontro al mare aperto. Rispondo fingendo il piacere della sorpresa. Con te un marito, dei figli, un lavoro gratificante, fianchi diventati troppo larghi, un microcosmo privato del quale non faccio parte. Le solite frasi di circostanza, prammatica del bon ton: come stai, da quanto tempo, come te la passi, di cosa ti occupi, ti sei sposato, figli, residenza, vacanze fatte o da fare, dove e quando… Assolvo il questionario adottando le usuali banalità a mo' di schermo difensivo dell'ammaccata sfera privata. Non vedo l'ora di sortire dalla claustrofobica geometria di questo disagio. Nei tuoi occhi azzurri scorgo il quasi impercettibile transito di una nuvola gonfia di pioggia. La solita storia, sempre quella, eternamente uguale a se stessa e moltiplicata per milioni. Poi, come la stragrande maggioranza di situazioni del genere, anche questa, finalmente, imbocca la curva conclusiva. La fretta, l'esaurimento naturale degli argomenti ed il conseguenziale imbarazzo… Di nuovo saluti, strette di mano, proponimenti in divenire…e via, ognuno ad avviarsi al rispettivo cancello d'imbarco. Sbircio l'orologio, si è fatto un po' tardi; tiro su il bavero del giubbino da mezza stagione e mi avvio verso casa, accogliendo con voluttà sul viso la brezza tonificante alzatasi a ricordare che la bella stagione sta per levare l'ancora e salpare in ubbidienza alle successive, prestabilite, coordinate. E' stato un incontro, considero, solo un semplice, inaspettato rendez-vous ; due asteroidi fuori orbita che per diversi minuti si sono sfiorati rischiando la collisione. Senza indizio alcuno Non avevo ancora ben compreso se mi trovassi al cospetto di una santa o di una puttana. C'era un qualcosa di profondamente ambiguo in lei, come una sorta di segnale criptato che non riuscivo a decodificare e che mi incuriosiva e turbava al tempo stesso. Preso da un moto irrazionale e vorticante di sensi, sentimenti e paure che non sapevo spiegare, così aggrovigliato da sembrare una matassa di filo spinato della quale non si riesce a trovare il bandolo, decisi che era giunto il momento di cercare risposte a tutti gli interrogativi che mi affollavano la mente. Dovevo capire. Cosa, non ne avevo la più pallida idea. Ero consapevole, però, che per battere al meglio le piste della ricerca occorreva individuare il sistema più adatto per studiare la sua vita. Per fare questo, comunque, necessitava tempo, molto tempo. Bisognava scandagliarle le pieghe più segrete della anima, quotidianamente, con metodo e scientifico raziocinio. Fu per questo che la sposai. Obbligatorio era trovare i codici di accesso per potersi introdurre nei file dei suoi segreti più reconditi. Dovevo disporre della sua presenza quanto più possibile, onde osservarla, talora spiarla, analizzarne i comportamenti, i tic, le manie, le frasi smozzicate nel sonno. In altre parole sapere tutto di lei. Era diventata la mia ossessione. Non riuscivo più a tener fede a nessuno degli impegni verso la società. In pratica non lavoravo quasi più. Avevo preso un periodo di aspettativa dall'azienda presso la quale prestavo opera, rischiando seriamente il licenziamento anche per via di precedenti episodi di assenteismo non giustificato per i motivi di cui sopra. Ma capire, comunque, a qualsiasi costo era l'imperativo categorico balzato prepotentemente alla ribalta delle mie giornate. Sentivo chiaramente, dentro i meandri della percezione, come una sorta di misterioso richiamo; un mellifluo, insinuante canto di sirene che mi obbligava alla pratica dell'indagine. Principiai, così, a pedinarla serratamente. La braccavo come un segugio quando usciva in macchina, a piedi, in bici, in bus. Registravo ed analizzavo le sue telefonate, interrogavo, sforzandomi di non destare sospetti, le amiche del cuore, alla ricerca di un qualsiasi appiglio, anche minuscolo, che potesse chiarire tutto quanto. Niente. Dal quadro che ne veniva fuori risultava in maniera inoppugnabile che la mia consorte adottasse un contegno improntato sempre e comunque alla massima irreprensibilità. Almeno questo era quanto emerso da mesi di sfiancante nonché oneroso lavoro investigativo. Cos'era, allora, quel tarlo che mi rodeva la mente, impedendomi di fatto un normale corso esistenziale? Il mistero s'infittiva. Oramai brancolavo nel buio più completo e stavo maturando sempre con maggiore convinzione l'idea di abbandonare il campo e dichiararmi vinto. Ma, come in ogni romanzo giallo che si rispetti, la soluzione di tutto appariva più vicina di quanto potessi ragionevolmente sperare. Ecco il fatto: un sabato mattina di inizio primavera, dalla porta del bagno di casa, lasciata inavvertitamente semiaperta, scoccò il fulmine che squarciò le tenebre dell'arcano, disvelando ai miei occhi increduli la scena che rappresentava, a tutti gli effetti e senza possibilità alcuna di equivoco, tutta la cruda e sconvolgente verità. Faceva la pipì in piedi…la mia signora f-a-c-e-v-a l-a p-i-p-ì i-n p-i-e-d-i !!! Proprio così, ritta di fronte al water con la padronanza e la fierezza di un Bronzo di Riace. La mia lei, un tempo, dunque, era stato un lui. Che situazione del cacchio ( eh,si,è proprio il caso di dire )… che grave imbarazzo da fronteggiare per entrambi. Adesso come avrei fatto a dirle che in passato ero stata una donna!? Questione di vita Polacca, Ucraina, Russa... non so. Da diversi anni risiedi in città, ti ho notata spesso. Tempo addietro lavoravi da barista in un Cinema, poi di te si persero le tracce per mesi. Negli ultimi tempi sei stata solita accompagnarti a numerosi uomini; salire e scendere dalle auto, assumere atteggiamenti inequivocabili, almeno secondo certi criteri di decodificazione. Credo che tu faccia la meretrice; non ne sono sicuro ma è un'impressione piuttosto forte. Quando talvolta è capitato d'incrociarci per le vie del centro cittadino ti ho lanciato occhiate fugaci e furtive, alle quali hai sempre risposto con sguardi aperti che non ho mai saputo (o voluto ) interpretare. L'altro giorno sono entrato nel solito bar per il solito caffè. Eri lì, in piedi davanti al bancone a sorbire, credo, un cappuccino, un caffè macchiato o qualcosa di simile. Notato il mio ingresso hai preso a fissarmi con un'espressione, ritengo, ammiccante. Devo ammettere, francamente, che un certo turbamento mi ha pervaso da capo a piedi; ho atteso il caffè e sono sortito. Non so onestamente spiegare se lo sguardo di poco prima fosse finalizzato all'adescamento oppure a qualcos'altro. A guardarti bene non ti si può esattamente definire quel che si dice una Venere di Milo; sei di una magrezza ossuta e malinconica, probabilmente specchio di passati stenti nel tuo paese d'origine. L'altra sera ti ho rivista nelle vicinanze della mia abitazione. Stavo rincasando e, nella penombra, ti ho scorta. Lo stesso anche tu. Hai sollevato lo sguardo verso di me, poi, proseguendo sui tuoi passi, più di una volta ti sei voltata indietro. Io non sono attrezzato per queste situazioni, ma desidero affondare il viso nei tuoi lunghi capelli color del grano maturo; respirare con voluttà l'odore della tua pelle bianca come questa pallida ed inutile luna d'aprile; assaggiare a morsettini il sapore delle tue labbra schiuse alla passione…farti mia per l'eternità di qualche giro di lancette sul comodino. Non è una questione di soldi, né di sentimenti. E' solo vita. Forse la stessa che ci ha sconfitto entrambi. Novella minimale Appena sceso dal direttissimo Napoli-Milano. Mi guardo attorno con aria spaesata, tipica di chi si ritrova improvvisamente catapultato in una realtà che fino al giorno precedente non immaginava neppure che forma potesse avere. Sono obbligato a soggiornare da queste parti almeno qualche anno. Successivamente, allorquando le acque si saranno definitivamente calmate, avrò la possibilità di far ritorno nei luoghi familiari. Dalla tasca interna del soprabito estraggo il foglietto con l'indirizzo fornitomi da Francesco, presso cui, ha affermato senza accusare dubbio alcuno, troverai accoglienza, sistemazione e riparo per tutto il tempo occorrente. Fermo un taxi, pronuncio l'indirizzo in questione e partiamo alla volta di coloro che rappresenteranno i miei benefattori per un bel pezzo. Troppi anni senza lavoro né prospettive hanno concorso a farmi commettere una grossa sciocchezza, purtroppo senza possibilità sensata di potervi porre rimedio.
*** I mesi trascorrono veloci, le domande di chi mi ha offerto ospitalità sono invero molto poche; d'altronde non poteva essere altrimenti… Tante, invece, le risposte che cerco di dare a me stesso. *** Il periodo d'inattività forzata, se così vogliamo dire,è quasi giunto a conclusione. Al paese, sembra siano riusciti ad appianare completamente la faccenda. Non saprei dire in che modo, o meglio, lo posso immaginare, e non mi piace affatto. Fra qualche giorno rifarò la valigia e risalirò sullo stesso treno, a direzione invertita. Mi aiuteranno ancora, come hanno fatto sempre. Solo che, stavolta, la questione è grossa davvero. Esigeranno una forte contropartita, di natura non certamente economica: sanno bene che mi trovo, al momento attuale, con le ruote praticamente a terra. Chiederanno qualcos'altro; qualcosa che, purtroppo, temo d'intuire con ridotti margini di concessione al dubbio. Non potrò rifiutarmi, in nessuna maniera, edè questo che mi preoccupa maggiormente. Mi vedrò costretto ad ubbidire e ad esaudire. Dopodiché sarò come loro, per molti versi addirittura peggiore. Scappare non si può: troppi affetti in paese minano alle fondamenta la possibilità di scegliere quest'opzione. L'unica strada percorribile resta quella, oltremodo impervia, di andare incontro al destino fino in fondo, costi quel che costi. *** Dietro la curva nascosta dal gigantesco condominio affacciato sui binari della stazione centrale, sento il fischio inconfondibile del serpente d'acciaio che mi riporterà alle personali incombenze. Salgo in carrozza, sistemo il bagaglio, abbasso di qualche centimetro il finestrino e mi adagio sulla poltroncina. Lo sferragliare ritmico del convoglio mi regala una sorta di trance ipnotica; giro lo sguardo di lato, verso l'esterno della carrozza: la boscaglia brianzola sfila davanti ai miei occhi come immagini da videoregistratore in avanzamento veloce. Mi sento vuoto, inutile, con l'anima bagnata dal latte della luna di questa notte stellata e bastarda. Il viaggio sarà lungo. Appoggio il capo allo schienale e provo ad assopirmi un po'. La notte e la città I passi risuonano sordi sull'asfalto del marciapiede. La notte cala il suo manto nero sulla città umiliando i colori di strade, case, negozi, alberi. Dal lato opposto al quale deambulo scorgo l'insegna al neon di un bar e decido di concedermi un caffè. Nel locale una moltitudine di persone e una pesante aria di fumo ed alcolici di vario genere. In fondo, vicino all'ingresso del servizio igienico, un uomo di mezza età, evidentemente afflitto dalla risultanza di una pesante sbornia, se la dorme della grossa, tenendo la testa adagiata sulle braccia posizionate a mo' di guanciale sul bancone. -"Buonasera, cosa prende?"- -"Un caffè, grazie"-. Mentre il barman, che ha accolto la richiesta, girato di spalle armeggia sulla macchina espresso, tento di individuare con lo sguardo un tavolino su cui accomodarmi un quarto d'ora. Con un cenno della mano indico allo stesso, adesso voltato, di portarmi quanto richiesto al posto scelto, a ridosso della vetrina d'ingresso. -"Ecco il suo caffè, signore. Desidera altro?"- mi fa il factotum con un sorriso funzionale. -"No, grazie, va bene così"-, rispondo, abbozzando a mia volta un sorrisetto di circostanza. Mentre sorbisco la nera bevanda aromatica ritornano a galla dal pelago inquinato della memoria le parole di Giulia, proferite quello stesso pomeriggio: -"Ele, mi dispiace, ti lascio, non è più possibile proseguire in questo modo…comincio ad accusare gli anni che passano…una donna ha bisogno di certezze, di stabilità affettiva ed economica, di un figlio…tutte cose che, al momento, credo tu non sia in grado di offrirmi"-. -"Giulia, non dire così, non essere sempre irrimediabilmente drastica…lo sai che ho attraversato un momento difficile; che sto tentando con tutti i mezzi a disposizione di venire a capo delle situazioni di cui sei, peraltro, perfettamente a conoscenza…le risorse non mi mancano di certo…appena possibile sarò in grado di darti quanto giustamente desideri…ti chiedo di portar pazienza ancora un po' "-. -"No, Ele, non ti credo più…ti ho già accordato fin troppo credito che, con sistematica e scientifica coerenza, hai provveduto puntualmente a disattendere. Mi dispiace sul serio, ora è davvero finita"-. -"Se non esiste altra maniera di convincerti e se queste rappresentano realmente le tue ultime parole…bè…cosa vuoi che aggiunga…addio, Giulia, vai per la tua strada e che possa incontrare presto qualcuno migliore di me a garanzia di ciò che brami per la tua felicità"-. Le parole di Giulia erano risultate taglienti come lame di rasoio; avevo l'impressione come di un'anima fatta a fettine…rimuginavo su tutta la faccenda continuando a rigirare fra le dita la tazzina vuota. Effettivamente non potevo darle tutti i torti: ero sempre stato un sognatore; un amante sperticato delle utopie, dei grandi ideali. Nell'affanno di rincorrer chimere avevo smarrito il contatto con la realtà quotidiana, quasi scollandomi da essa e facendomi scivolare addosso giorni, mesi, anni, senza riuscire a pianificare il benché minimo progetto di vita. Lei si era, in ogni frangente, rivelata assai più concreta; comprendeva, cio è, lucidamente quello di cui necessitava e conosceva a menadito le strategie più idonee ad ottenerlo. Aveva, però, commesso un unico errore: mettersi con il sottoscritto; articolo fuori catalogo per i suoi mirati acquisti. Strano che una donna siffatto pragmatica fosse inciampata a pi è pari in una specie di albatro dalle ali spiegazzate. Mi piaceva pensare che la scelta fosse stata dettata dall'amore; autenticamente pulita come solo un sincero sentimento sa essere. Il tempo, poi, con tutta probabilità, aveva provveduto a corroderne le fondamenta, denunciando, impietosamente, l'estrema fragilità dell'intera struttura e determinando di colpo il cedimento. I rapporti di coppia sono fatti così; nutrono l'esigenza d'ottenere iniezioni di certezze, garanzie, continue aperture di credito. Il solo feeling non può bastare, e forse è giusto sia così, perché la quotidianità si nutre continuamente d'impegni, obblighi, scadenze; ha bisogno, in altre parole, di soldi per essere circumnavigata decorosamente, e di prospettive solide per oliare al meglio l'ingranaggio principale. Tutte cose che a Giulia non potevo o non volevo, chi può dirlo, offrire al momento presente. Il flusso di pensieri aveva provveduto a privarmi della cognizione temporale. Assiso al tavolino, oltre al caffè denunciavo la consumazione di parecchi quarti d'ora, sempre girando e rigirando la tazzina fra le dita. -"Qualcosa non va, signore"?-, mi fa l'one man band con aria mista fra il perplesso ed il preoccupato. -"No, no…tutto bene…mi ero perduto dietro un flusso di pensieri…". -"Si, me ne ero accorto. E' rimasto parecchio tempo a fissare il vuoto…sinceramente non sapevo se preoccuparmi o meno…sa, in questo locale non è affatto raro aver a che fare con drogati e balordi d'ogni risma"-, prosegue il mio interlocutore, con atteggiamento stavolta più sciolto, evidentemente rassicurato dal fatto che non fossi, almeno all'apparenza, un qualche squinternato di turno. -"Mi scusi, lei ha perfettamente ragione -, replico, raccogliendo in fretta le mie cose dal tavolino ed accennando ad alzarmi. -"Con i tempi che corrono risulta invero operazione ardua comprendere bene con chi si ha a che fare"-. Nel frattempo entra un cliente ed egli si appresta senza indugi dietro al bancone per accogliere e, parimenti, esaudire la nuova ordinazione. Mi avvicino alla cassa e pago, sempre alla stessa persona, il caffè, aggiungendo al costo anche un pacchetto di caramelle balsamiche e uno di fazzolettini di carta. Saluto ed esco. Non c'è anima viva in giro; nella notte ancora giovane regnano il silenzio e un velo di umidità che cala come un sudario ad avvolgere questa città immobile, posizionata a mo' di cadavere sul lettino dell'obitorio. Alzo il bavero del Loden e mi avvio verso casa. Unica compagnia lungo il tragitto lo scalpiccio sordo dei miei passi, regolare, ritmico, assordante. La notte, la città, il viaggio senza bagaglio attorno alla geografia di una ferita, libertario letto di fiume in secca nella valle sperduta dell'anima. Giorno di primavera Cronaca semiseria di una mattinata difficile Giorno di primavera. La stagione delle dolci mitezze dà fiato alle trombe, annunciando, tramite una gran bella giornata di sole, il suo ingresso in pompa magna nella nostra quotidianità lungamente provata dai rigori invernali. Un' arietta pregna di tepore invita senza dubbio alcuno a fare quattro passi in centro. Sortisco da casa, al solito bar sorbisco il primo di una lunga teoria di caffè e punto dritto all' edicola per acquistare un quotidiano. Indi decido di recarmi in piazza alla ricerca di una panchina libera onde dedicarmi in santa pace alla presa d'atto delle odierne brutture. Appoggio l'auricolare del telefonino all'orecchio sinistro, così da avere le mani libere in caso di chiamata, e principio a sfogliare l'album di parole. Nell'aiuola (?) alle mie spalle alcuni extracomunitari in preda ai fumi dell'alcool eruttano e battibeccano fra loro ad alta intensità di decibel; un ragazzino sfreccia a tutta birra con la bicicletta rischiando di investire i passanti. Va bè, penso, la solita inciviltà. Ripiombo nella lettura udendo di tanto in tanto l'allegro squittio di un topino che esce allo scoperto per godere anch'esso la fragranza di questa gioiosa mattinata. Ne ha il diritto, credo, dopo un intero inverno trascorso al buio ed all'umido degli anfratti verdi. Abbasso lo sguardo sul giornale. Dopo un po' s'avvicina un tizio chiedendomi di offrirgli una sigaretta.- Prego-, gli rispondo, e porgo il pacchetto aperto. Lui ringrazia, visibilmente soddisfatto del piccolo risparmio realizzato, e si allontana alla ricerca, presumo, di qualche altro malcapitato. Forse è questo il modo con cui si costruiscono le grandi nazioni, edificando, cio è, pazientemente, mattone su mattone, la grande casa comune dove abitare il sogno collettivo del benessere stratificato. Mi rituffo nella lettura. Qualche manciata di secondi e si fa sotto un altro che mi chiede ancora una sigaretta. Sfilo ed allungo di buon grado. Tempo pochi attimi e si fionda un terzo con la medesima richiesta. Giustifico il rifiuto adducendo il motivo (vero, peraltro) della scarsa quantità disponibile al momento. Questi mi rivolge uno sguardo di commiserazione come per dire: -"ma guarda tu 'sto pidocchioso…quante storie per una cicca!"-, poi si gira e s'allontana in cerca di qualche fumatore più generoso. Riprendo la lettura, poco convinto, ormai, di riuscire a terminare l'agognato articolo in tempi ragionevolmente brevi. -"Scusa, puoi darmi 62 centesimi, vorrei prendere un caffè"-, echeggia una vocina implorante di fronte alla mia panchina. Volgo lo sguardo un po' attorno cercando di cogliere le fattezze del destinatario della supplica, ma non noto nessuno. Risolvo, allora, d'esser io il fortunato oggetto del desiderio. Apro il borsellino e porgo la somma all'amante dell'esotica bevanda. Nutro forti dubbi, giunti a questo segno, circa la possibilità di riuscire, non dico più a leggere l'intero pezzo, ma almeno a voltare, se non altro, solamente pagina. Comunque proseguo stoicamente in quello che oramai da proposito si è trasformato in tentativo di trascorrere la mattinata in maniera serena. Passano alcuni minuti durante i quali sembra che le cose del mondo abbiano trovato il proprio naturale ordine. Ma è soltanto un'impressione mediata dal troppo ottimismo. Infatti sulla parte libera della panchina ove sono assiso si sistemano un arzillo vecchietto ed una prosperosa ucraina di mezz'età, i quali, fregandosene completamente della mia presenza, danno corso ad una serie di frasi infarcite di doppi sensi a sfondo erotico, seguite a breve distanza da ardite geometrie palpeggiatorie. A 'sto punto risulta chiaro che la mia lettura all'aria aperta è seriamente compromessa. Ma perdersi d'animo non è nelle corde di chi scrive: senz'indugio mi sollevo e mi dirigo verso la piazza. Proverò perlomeno a leggere in piedi, dico a me stesso, cercando di vedere il bicchiere mezzo pieno. L'impresa, però, si rivela subito ardua per via di alcuni ragazzotti in gita scolastica che praticamente hanno scambiato l'area comunale per lo stadio Olimpico. Il timore di ricevere pallonate in pieno viso mi fa desistere anche da questa soluzione. Mi sistemo, speranzoso, ai tavolini di un bar. Almeno lì potrò stare tranquillo, penso, con un moto ormai crescente di stizza che sale dal profondo. Invece no. Una processione di ambulanti cinesi vuole rifilarmi a tutti i costi ogni genere di cianfrusaglia. Via anche dal bar. L'ultimo tentativo è quello di cercare un posto nei giardini di Babilonia seminascosto alla vista. Lo trovo, e con gran sospiro di sollievo riapro il quotidiano. Appena qualche minuto e si avvicina una donna in abiti decisamente succinti, informandomi, untuosa, che con la modica spesa di 25,82 euro mi offrirebbe l'opportunità di trascorrere qualche oretta di fuoco e fiamme. Replico, con sorrisetto ebete e leggero movimento ondulatorio del capo in segno di diniego che la faccenda non è di mio interesse. La gaia desnuda gira i tacchi (a spillo, n.d.a.) con un'espressione di disgusto dipinta sul viso inceronato che, presumo, stia a significare: -"ma che, oggi becco tutti omosessuali?!"-. Ancora qualche giro di lancetta lunga edè la volta di un giovane con barba incolta ed abiti lisi che tenta di appiopparmi 5 euro d'erba, assicurando trattasi di roba speciale. Mi basta così. Ne ho piene le tasche (di fastidio, non di erba, n.d.a.). Decido senza indugio di prendere la via del ritorno a casa perché oggi non è proprio cosa. Calpesto le strisce pedonali e son costretto a produrmi in un salto acrobatico per non esser investito da un pazzo che tenta d'imboccarsi in un divieto d'accesso. Guadagno, con il cuore in gola, il marciapiede e m'incammino con fare spedito verso le mura amiche. Percorro poche decine di metri e sono avvicinato da due figuri in scooter che mi chiedono del fuoco. Mentre frugo nella tasca interna della giacca alla ricerca dell'accendino ricevo un pugno allo stomaco che mi piega in due; un successivo e pressoché immediato spintone mi scaraventa a terra gambe all'aria. I due scendono dalla moto e s'avventano sui miei portafogli e cellulare. Poi saltano sul veicolo e, prima di ripartire, ad un velato cenno d'intesa, il più grosso si avvicina di nuovo fregandomi anche il giornale. Giorno di primavera. Questa grande sfera irregolare continua sempre imperterrita a ruotare, il sole ad illuminare, l'umanità indefessa a camminare. Nel mio piccolo, non me la prendo più di tanto, si sa che marzo è pazzo. Il suggerimento è: armarsi di pazienza e navigare. Alla prossima. Sud chiama Nord Gli Uffici del Lavoro e della Massima Occupazione di Napoli, Secondigliano, Marano, Cicciano, Brusciano, Volla, Pianura, Arzano, Casoria...erano stracolmi di gente dalla provenienza più disparata: Bologna, Torino, Milano, Firenze, Treviso, Belluno, Verona, Bolzano, Pordenone...anime in pena, disoccupati di lunga data che dal misero nord del paese calavano a frotte nel ricco ed opulento sud in cerca di fortuna; all'affannosa,cio è, e spesso vana nel luogo d'origine, rincorsa al famigerato posto fisso; alla sistemazione stabile e definitiva, allo stipendio sicuro a fine mese senza tanti patemi d'animo. La meta preferita di questi, chiamiamoli così pellegrinaggi del lavoro era senza dubbio alcuno individuabile, per quantità di presenze, nella zona sud-ovest della penisola, in particolare nella cintura di comuni che abbracciava il capoluogo campano, area geografica che si distingueva agli occhi della nazione per l’alto grado di civiltà, compostezza, rispetto delle leggi e totale assenza di criminalità piccola o grande. Nelle città di questa terra felice spuntavano come funghi ogni sorta di aziende, piccole, medie, grandi; fiorenti attività di artigianato e di commercio; libere iniziative private che senza particolari difficoltà in breve tempo riuscivano a spiccare magnifici voli planari; servizi urbani che funzionavano con la precisione di un meccanismo ad orologeria di elvetica concezione; treni puntuali, autobus, tram e navette di collegamento rigorosamente ecologici, comodi e capillari all’interno di un sistema viario fluido e scevro da ogni congestionamento da traffico. E poi ospedali ultramoderni, farmacie aperte 24 ore su 24, biblioteche fornite, sale cinematografiche e teatrali in abbondanza, discoteche senza sballi, strutture sportive all’avanguardia, strade perfettamente asfaltate, barriere architettoniche abbattute dappertutto…e dulcis in fundo…la gente..la gente sempre sorridente, cordiale, onesta; insomma il Meridione fiore all’occhiello della nazione, con Napoli eletta capitale morale di questa meraviglia. Tutto il mondo guardava al Mezzogiorno Italico quale esempio da additare e seguire. I politici campani rappresentavano, poi, quanto di più ci fosse da elogiare e stimare: sempre disponibili al dialogo, totalmente al servizio dei cittadini, mai uno scandalo, una bustarella, una promessa disattesa…insomma il meglio del meglio, era lì la festa. Da sottolineare ancora, ad ulteriore loro plauso, il fatto che quando si verificasse una qualche calamità naturale facevano a gara nel prodigarsi a far elargire dallo Stato quanti più aiuti economici e supporti logistici possibile ai disagiati. Il Vesuvio dal canto suo, da lassù, di tanto in tanto dava una sbirciatina al tutto e sorrideva bonario, tornandosene poi a sonnecchiare placido come un feto adulto nel tranquillizzante liquido amniotico della placenta di madre terra. Poi, gradualmente ma con un senso di ineluttabilità, i settentrionali immigrati principiarono a segnalarsi per casi, dapprincipio isolati, poi via via sempre più frequenti , di furti, rapine, estorsioni…minando alla base la serenità ed il benessere meridionale. Seguirono episodi d’intolleranza e di razzismo vero e proprio da parte degli indigeni; si avvertiva palpabile nell’aria una forte tensione sociale che conseguentemente diede corpo alla nascita ed alla crescita esponenziale e vertiginosa di un movimento politico separatista sudista, espressione rivolta al governo centrale di una volontà chiara e netta di scollamento economico, fiscale e addirittura sociale dal resto del paese. Ne risultò un odio xenofobo che schierò su posizioni radicalmente opposte, tranne la rara eccezione di qualche mente un po’ più illuminata, i sudisti ed i nordisti. I primi accusavano con toni aspri i secondi di aver guastato la propria terra; i secondi replicavano con astio facendogli notare il grado d’ignoranza, rozzezza e razzismo che scaturiva dal loro finto benessere. Ne sortì una guerra civile combattuta a suon di pernacchie: fratelli d’Italia gli uni contro gli altri. Povero Peppino Garibaldi, ci aveva profuso sì tanto impegno per unire questi martoriati lembi di terra…Stufo di assistere a siffatte beghe invero da vecchie zitelle inacidite, il Gigante Addormentato dall’alto della sua possanza naturale emise un poderoso rutto di avvertimento, monito ed invito per quella e per le future generazioni a darsi una buona e definitiva calmata, nell’interesse generale. Poi riprese lentamente e con un gran senso di delusione e spossatezza psicologica il suo millenario dormiveglia. |