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2018

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18 Dicembre

I romanzi (Matti beati e Gli ubbidienti)

di Giovanni Piubello

a cura di Mario Artioli e Vladimiro Bertazzoni

Sometti Editoriale

www.sometti.it

Narrativa romanzi 

Per conoscere Piubello

Che Giovanni Piubello sia stato un uomo di riferimento per i mantovani amanti della cultura é fuor di dubbio; sostava con la sua bancarella di libri per lo più usati all’inizio di quei portici che da piazza Andrea Mantegna, impreziosita dalla Basilica di Sant’Andrea, portano alla storica piazza Sordello ed era lì con il preciso scopo di conversare di letteratura con chi lo avvicinava e magari di riuscire a vendergli qualche volume, visto che di qualcosa doveva pur vivere. Spirito acuto, grande osservatore, si dilettava pure di scrittura, con una produzione multiforme che va dalla prosa alla poesia, lavori quasi sempre auto pubblicati e venduti in loco, come anche una rivista, La Bancarella, ben 64 numeri usciti dal 1955 al 1966. Andò oltre la notorietà cittadina quando Rizzoli gli pubblicò il primo romanzo, Matti beati, che ricevette anche il prestigioso premio Duomo. Per lui, comunque, non cambiò nulla e non cercò di cavalcare l’onda del successo, rinchiudendosi nel suo piccolo mondo, rappresentato dalla bancarella. Restò sempre conosciuto in Mantova, mentre poco a poco la fama si mostrò effimera a livello nazionale e dopo la sua prematura scomparsa si corse anche il rischio che perfino nella sua città ci si dimenticasse di lui. Ampio merito va dato quindi  all’Amministrazione Provinciale di Mantova, al Comune di Mantova e alla Fondazione Banca Agricola Mantovana che nel 2003, nel ventennale della scomparsa di Piubello, hanno inteso ricordarlo provvedendo alla ristampa di tutti i suoi scritti, che erano ormai diventati di difficile, e in non pochi casi di impossibile reperibilità. I curatori Mario Artioli e Vladimiro Bertazzoni idearono così un cofanetto di quattro volumi, di cui il primo è relativo ai romanzi, a Matti beati e a Gli ubbidienti, quest’ultimo in precedenza mai dato alle stampe.

Mi scuso per questa lunga premessa che però è indispensabile per avere almeno un’idea, per quanto approssimativa, di Giovanni Piubello, un uomo dimesso, umile (però con quella grandezza tipica degli umili che improntano la loro vita alla conoscenza), ma di grande spessore umano e letterario.

Quindi, Matti beati e Gli ubbidienti sono i due romanzi riuniti in questo unico volume, con il secondo che è la naturale prosecuzione del primo, di quell’unico finito negli occhi interessati della grande editoria e che, al di là del fatto che sia stato pubblicato da Rizzoli e abbia avuto il premio Duomo, è veramente un’opera di grande bellezza. Si dice che quando si invecchia si perda la memoria dei fatti più recenti, mentre riaffiorino eventi di un lontano passato, di quando si era bambini. Infatti,  in Matti beati l’io narrante, Nani, diminutivo e vezzeggiativo di Giovanni, cioè dell’autore, parla dell’infanzia trascorsa a San Bonifacio, il paese veronese di origine, e lo fa con un garbo, con una freschezza che fanno apparire gli episodi  accaduti un bel po’ di anni prima come se fossero successi da pochissimo. Questo bambino si comporta come uno della sua età, anche se a volte ci sono delle timide proiezioni verso il dopo, verso gli anni di un Giovanni più maturo, ma si ritrova sempre quella beata innocenza che porta l’adulto a perdonare quasi sempre il comportamento di un infante. Come tutti i paesi San Bonifacio ha i suoi personaggi, delle vere e proprie icone, che Piubello descrive con arguzia e anche con tanto affetto. Sono storie normalissime, ma la penna dell’autore è così puntuale e lieve che riesce a farcele sembrare straordinarie; brevi capitoli, un non infrequente tono poetico, anche una misurata ironia accompagnano il lettore nella scoperta di questo grande scrittore, a cui giustamente ora sono tributati quegli onori che da vivo non aveva avuto.

E vengo ora a Gli ubbidienti che, come ho precisato, è la naturale continuazione di Matti beati; anche in questo romanzo Piubello esalta i ricordi della fanciullezza con una serie di episodi che non hanno nulla di sensazionale, ma raccontati con garbo, con un senso della misura che finisce con il rendere il lettore se non partecipe, almeno presente. Così ci sono figure, come la maestra con gli occhiali in punta di naso, il parroco che non disdegna di insegnare ai bambini ricorrendo a una bella tirata di orecchie o a uno scapaccione, oppure ancora  l’imbroglione da due soldi, una volta travestito da frate, un’altra finto cieco, che non possono non attirare l’attenzione, descritti così bene da sembrare vivi, in procinto lì lì di uscire dalle pagine. E poi c’è una mitizzazione quasi sempre presente, quell’innocente innamoramento che è quasi un gioco, frutto di una innata reciproca simpatia, incarnata da una figura femminile azzeccatissima, Natalina, la bimbetta compagna dei suoi giochi e delle sue piccole avventure; a lei è riservata la tenerezza  per un affetto che ogni tanto riemerge dalla nebbia del tempo, l’emblema di un’età felice e irripetibile. 

La lettura di entrambi i romanzi diventa quindi, oltre che un piacevole passatempo, l’occasione per una riflessione sull’evolversi della vita, magari con il tentativo di ripescare quei ricordi dell’infanzia che fanno sentire meno greve la vecchiaia  e che aiutano a dare un senso a questo cammino che ognuno di noi fa dall’alba al tramonto.

Matti beati e Gli ubbidienti sono pertanto senz’altro da leggere.

Giovanni Piubello (San Bonifacio, 24 giugno 1921 – Mantova, 16 giugno 1983) trascorse l'infanzia nel paese natale, e si trasferì a Mantova nel 1928 dove conseguì il diploma di perito industriale, ma volle diventare scrittore, libraio ed editore.

La sua prima opera, pubblicata in proprio, fu Zingara e poi diede alle stampe numerosi volumetti di racconti, prose, lettere in piazza e A proposito di gobbi, in versi.

Nel 1967 l'editore Rizzoli pubblicò il romanzo Matti beati, con il quale vinse il premio nazionale Duomo. Il romanzo è autobiografico e racconta l'infanzia dello scrittore nel paese di San Bonifacio (Sambonifacio), descrivendo un quadro suggestivo della vita contadina e di paese negli anni Venti, in un contesto di sostanziale povertà vissuto tuttavia con allegria.

Il successo fu di breve durata e Piubello continuò a stampare in proprio, nelle Edizioni di Bancarella, le sue storie, le sue lettere e i suoi dialoghi con lettori veri o presunti.

Fu straordinario osservatore della vita cittadina nella sua patria d'adozione, e fu amato dai mantovani che trovavano nella bancarella sotto i portici Broletto un dimesso ma profondo uomo di cultura.
Renzo Montagnoli 

 

13 Dicembre

Kaputt Mundi

di Ben Pastor

Sellerio Editore Palermo

www.sellerio.it

Narrativa romanzo giallo

 

Roma città aperta

La morte violenta, spiaccicata sul selciato davanti la casa in cui abitava, di Magda Reiner, impiegata all’ambasciata tedesca a Roma, e l’avvio delle indagini da parte di Sandro Guidi, ispettore della polizia italiana, e dell’ufficiale della Wehrmacht Martin Bora sono solo un pretesto per parlare dei circa nove mesi di occupazione nazista della nostra capitale. E’ vero che poi, non collegato al primo, ci sarà il duplice omicidio di un alto prelato e di una nobildonna romana, ma questo evento è inserito ad arte per fornire una visione storica più approfondita della tragedia di un lungo periodo in cui accadde di tutto, ma in cui soprattutto ci fu l’atroce eccidio delle Fosse Ardeatine. E’ brava Ben Pastor perché riesce a ricreare in modo quasi incredibile l’atmosfera di giorni di terrore, di un luogo in cui tutto poteva accadere, come infatti avvenne, di una città che avrebbe dovuto essere “aperta”, cioè ceduta, a seguito di un accordo espresso o tacito fra le parti belligeranti, alle forze nemiche onde evitare distruzioni e uccisioni fra la popolazione, ma che aperta fu solo nel significato della cessione, perché non mancarono bombardamenti aerei delle forze alleate e rastrellamenti ed esecuzioni da parte nazista. I personaggi di questo romanzo sono quasi tutti reali, come il feldmaresciallo Kesserling, il generale Maelzer, comandante della guarnigione di Roma, il generale Westphal della Wehrmacht, il colonnello delle SS Eugene Dollmann, il colonnello della Gestapo Herbert Kappler, il questore di Roma Caruso, il sostituto della Segreteria di Stato della Santa Sede Giovanni Battista Montini, il che imprime all’opera una valenza che va oltre quella di un semplice giallo storico, perché l’autore ha tratteggiato le caratteristiche di ognuno in modo encomiabile, così che, nel pieno rispetto delle azioni che misero in pratica e pur con gli sviluppi inevitabili della creatività, ritornano in queste pagine a essere vivi. In particolare  Dollmann, uomo di fiducia di Himmler, stimato da Hitler, nella sua complessità di abile diplomatico, capace di fare il doppio gioco, perfettamente informato delle trame, spesso oscure, che nascevano e si sviluppavano a Roma, è descritto con una precisione stupefacente, frutto probabilmente anche del fatto che, a guerra conclusa, il colonnello delle SS si prestò volentieri, e dietro congrua remunerazione, a diverse interviste televisive con argomento la seconda guerra mondiale e in particolare il massacro delle Fosse Ardeatine.

Ma se l’atmosfera opprimente della capitale occupata, il fragore delle cannonate alleate che piano piano si avvicinano, il dolore lancinante che incide l’animo del lettore con la descrizione del massacro delle Fosse Ardeatine, le tante tragedie di una guerra che coinvolge anche i civili non bastassero, Ben Pastor offre un’ulteriore prova della sua abilità scavando sempre più a fondo nell’animo di un personaggio così complesso come il maggiore von Bora, che è quello che si potrebbe definire un bel tenebroso, ma che in effetti è l’uomo combattuto fra il senso del dovere proprio del militare e l’essere in cui pulsa un cuore che non può lasciarlo indifferente di fronte alla violenza cieca e inutile. Questo militare, capace anche di opporsi alla Gestapo, determinato, stoico, è tuttavia un debole quando si cala nei panni affettivi, quando cioè vuole portare alla luce quell’amore che tiene segregato in una cassaforte fatta di pudore e di timidezza; persa la moglie, che lo pianta, cercherà invano di concretizzare il suo sentimento per un’americana, moglie di un diplomatico presso la Santa Sede. Quanto a Guidi, trasferito a Roma, con la mamma rimasta al Nord, qui appare un po’ in ombra, quasi travolto dagli eventi (rischierà perfino di finire fra i martiri delle Fosse Ardeatine), ma è sempre il poliziotto ligio al dovere, deciso ad andare fino in fondo, costi quel che costi, e mentre von Bora lascerà Roma, ultimo fra i tedeschi che si ritirano più a nord, lui rimarrà ad aspettare gli alleati, pronto ad offrire i suoi servigi, perché, se i governi cambiano, la polizia resta, sempre. 

Kaputt Mundi è un romanzo di cui mi sento di consigliare caldamente la lettura.
Ben Pastor, nata a Roma, docente di scienze sociali nelle università americane, ha scritto narrativa di generi diversi con particolare impegno nel poliziesco storico. Della serie di Martin Bora Sellerio ha già pubblicato Il Signore delle cento ossa (2011), Lumen (2012), Il cielo di stagno (2013), Luna bugiarda (2013), La strada per Itaca (2014), Kaputt Mundi(2015), I piccoli fuochi (2016), Il morto in piazza (2017) e La notte delle stelle cadenti (2018).
Premio Flaiano 2018

Renzo Montagnoli 
 

 

9 Dicembre

Il signore della paura

di Franco Cardini

Giunti Editore

Narrativa romanzo storico

 

Destinazione Samarcanda

Siamo nel XV secolo, nell’anno del Signore 1403, all’incirca alla fine di quell’era chiamata Medioevo e quindi prossimi all’avvento del Rinascimento, un periodo di transizione, si potrebbe dire. L’Europa è ben diversa dall’attuale, così come tutto il mondo conosciuto e, nonostante le frequenti guerre che insanguinano il continente un pericolo assai consistente si sta affacciando dall’Asia, dove un esercito di grandi dimensioni e ben addestrato va conquistando territori su territori, sotto la guida energica ed esperta di un mongolo di nome Timur Beg, italianizzato in Tamerlano. Per motivi diversi, di carattere diplomatico o personale, tre uomini si mettono in viaggio per andare a conoscere il nuovo Gengis Khan. Sono il nobile  Don Ruy  de Clavijo, camarero del re Enrico di Castiglia, il fiorentino Vieri, figlio di Rinaldo del casato di Buondelmonti, e Arrigo, un uomo misterioso che ha lasciato precipitosamente l’Italia per trovare rifugio nell’ordine francescano di Gerusalemme. Tutti e tre, partendo dalle rispettive sedi, si mettono in cammino per Samarcanda, con itinerari diversi che finiranno poi per incrociarsi. Sono viaggi di altri tempi che attraversano terre oggetto di continue guerre, fra paesaggi incantevoli e altri che invece sgomentano, un’avventura nel vero e proprio senso della parola le cui difficoltà non fermeranno nessuno dei tre uomini, inconsapevoli esploratori e testimoni di un’epoca. I riferimenti storici sono puntuali, e d’altra parte non si deve dimenticare che l’autore è uno storico di valore, ma in questo contesto non si può non apprezzare la creatività di Franco Cardini, capace di servire al lettore un testo che nel renderci edotti di una situazione geo-politica così lontana nel tempo ci allieta anche con una trama ben congegnata, ci stupisce con descrizioni da Mille e una notte, stimola il nostro intelletto con profonde riflessioni sul senso della vita. Credo che anche chi non è avvezzo ai testi storici, spesso purtroppo noiosi, in questo caso risulterà avvinto da trame, ambienti e personaggi che riescono a proporre in modo notevolmente gradevole i fatti di un lontano periodo. Potrà apprendere così che sotto l’aspetto religioso le analogie fra mussulmani e cristiani non sono dovute al caso, si renderà conto che la storia è un percorso inconsapevole della vita di ognuno di noi, avrà la certezza di imparare qualcosa di nuovo ritraendone un grande piacere. E tutto questo non solo non è poco, ma è tanto, a patto però che la lettura sia attenta, perché con tre trame che procedono parallelamente è un momento fare confusione ed è questo forse l’unico appunto che muovo all’opera, difficoltà peraltro che può essere agevolmente superata a condizione  di ricorrere a un po’ più di impegno nella lettura.

Questo è il secondo lavoro di Franco Cardini che ho occasione di leggere, di questo storico che è presente di frequente nei servizi di Rai Storia, dove si fa apprezzare per chiarezza e capacità di sintesi. Sono più che determinato, dopo la lettura di questo romanzo e di L’avventura di un povero crociato, di estendere la mia conoscenza dell’autore ad altre sue opere, perché apprendere, divertendosi, è quanto di meglio ci possa essere.

Franco Cardini è professore ordinario di Storia medievale presso l'Università di Firenze, e come giornalista collabora alle pagine culturali di vari quotidiani. Professore Emerito dell'Istituto Italiano di Scienze Umane alla Scuola Normale Superiore di Pisa, da mezzo secolo si occupa di crociate, pellegrinaggi, rapporti tra Europa cristiana e Islam, anche trascorrendo lunghi periodi di studio e insegnamento all'estero.

Ha fatto parte dei consigli d'amministrazione di Cinecittà e della Rai. 
La sua produzione di saggi storici, sia specialistici che divulgativi, è copiosissima. Tra questi ricordiamo L'avventura di un povero crociato(Mondadori, 1998), Giovanna D'Arco (Mondadori, 1999), I Re Magi. Storia e leggende (Marsilio, 2000), Il Medioevo (Giunti Junior, 2001), Carlo Magno. Un padre della patria europea (Laterza, 2002), Europa e Islam. Storia di un malinteso (Laterza, 2002), Astrea e i Titani. Le lobbies americane alla conquista del mondo (Laterza, 2003), Il Barbarossa (Mondadori, 2006), Lawrence d'Arabia (Sellerio, 2006), La vera storia della Lega Lombarda(Mondadori, 2008), I templari (Giunti, 2011), GerusalemmeUna storia (Il Mulino, 2012) Alle origini della cavalleria medievale (Il Mulino, 2014), L'appetito dell'Imperatore. Storie e sapori segreti della Storia (Mondadori, 2014), Il califfato e l'Europa. Dalle crociate all'ISIS: mille anni di paci e guerre, scambi, alleanze e massacri (UTET, 2015), Un uomo di nome Francesco. La proposta cristiana del frate di Assisi e la risposta rivoluzionaria del papa che viene dalla fine del mondo (Mondadori, 2015), Onore (Il Mulino, 2016), I Re Magi (Marsilio 2017).
Firma inoltre molti libri di storia per i licei e numerose monografie sulla sua città natale, Firenze.
Renzo Montagnoli 
 

 

7 Dicembre

La notte di Lisbona

di Erich Maria Remarque

Neri Pozza Editore

Narrativa romanzo storico

 

Una stupenda storia d’amore

L’anno è il 1942, il luogo è Lisbona, capitale del Portogallo, ultima striscia di terra in Europa dove ancora non sono arrivati gli scherani nazisti e dove una varia e povera umanità che ha avuto la fortuna di giungere lì, dopo una serie di innumerevoli traversie, cerca disperatamente di trovare un passaggio e un visto per gli Stati Uniti. Uno di questi profughi è Joseph Schwarz, che da qualche giorno ha ottenuto, per lui e la moglie Helen, i visti per arrivare nel nuovo Mondo e due posti su una nave in procinto di partire.  Tuttavia, l’uomo non ha nessuna intenzione di salire su quel bastimento e ha l’occasione di trovare un altro fuoruscito che ormai ha perso ogni speranza di raggiungere l’America; senza tanti preamboli gli propone di cedergli i passaporti, il suo e quello della moglie, con tanto di visti e due biglietti per la traversata, a patto che ascolti la storia che ha intenzione di raccontare. Quello naturalmente accetta e nel corso di una lunga notte al lettore sarà data la possibilità, o meglio ancora il privilegio, di leggere un romanzo che è perfino riduttivo definire un capolavoro. Peraltro, Erich Maria Remarque, l’autore del celeberrimo Niente di nuovo sul fronte occidentale, mi ha abituato all’elevata qualità della sua produzione, sempre impegnata a combattere qualsiasi guerra, a difendere il singolo uomo vittima di immani catastrofi, a parlare del dramma dei fuoriusciti durante il regime nazista, con trame appassionanti e senza mai una caduta di ritmo o di stile. Non avrei però mai immaginato che fosse capace di costruire una stupenda storia d’amore che ha sullo sfondo l’umanità dolente in fuga dalle barbarie. Può forse sembrare un’esagerazione, ma l’amore descritto da Remarque non è quello mitizzato, è un sentimento fatto anche di gelosie, di assenze, di improvvise e rapide presenze, insomma è un qualcosa che è possibile riscontrare normalmente. Tuttavia, il rapporto fra  Helen e il marito è quello che si accompagna a due esseri in fuga, costretti dalle circostanze a un sostegno reciproco e se in un passato più quieto  la relazione si trascinava stancamente, ora invece poco a poco divampa, concretizzando quella reciproca intima e forte passione che è propria dell’attrazione. Per la prima volta, fra mille pericoli, vivono veramente la loro unione, riscoprono quella scintilla amorosa da tempo assopita; sono pagine dense e pregne di significato, soprattutto dove lui cerca di capire quella situazione intima che si è venuta a creare, ma sono anche pagine che fanno fremere chi legge, che lo rendono partecipe a questo grande sentimento e alle vicissitudini che sembrano non scalfirlo. Ci sono dei momenti che si viene colti da una autentica commozione per le vette sublimi raggiunte dalla narrazione, per quel limbo di umanità che splende in un mondo sconvolto dalla guerra e dal terrore.  La notte di Lisbona, pur con le sue 269 pagine che ne fanno un romanzo non certo breve, è uno di quei libri da cui, una volta iniziata la lettura, è difficile staccarsi sia perché si è naturalmente curiosi di sapere come andrà a finire, sia perché i fatti, i sentimenti sono autentico cibo per l’anima.

Personalmente, quando sono arrivato all’ultima pagina, ho stentato a chiudere il libro, perché il fremito che mi aveva invaso non accennava a diminuire, un’emozione intensa, una commozione sincera nel mentre mi sforzavo di immaginare come fossero i volti di Helen e del marito, due esseri umani nella bufera della tempesta nazista.

Erich Maria Remarque, combattente nella prima guerra mondiale, fu più volte ferito. Giornalista a Berlino, lasciò la Germania all’avvento del nazismo e nel 1939 si stabilì a New York, dove prese la cittadinanza americana. Raggiunse un vasto successo con il romanzo Niente di nuovo sul fronte occidentale (Im Westen nichts Neues, 1929), radicale condanna della guerra e amara analisi delle sue spaventose distruzioni materiali e spirituali. Seguirono, sempre ispirati a ideali pacifisti e di solidarietà umana, Tre camerati (Drei Kameraden, 1938), Ama il prossimo tuo (Liebe deinen Nächsten, 1941), Arco di trionfo (Arc de Triomphe, 1947), Tempo di vivere, tempo di morire (Zeit zu leben und Zeit zu sterben, 1954), La notte di Lisbona (Die Nacht von Lissabon, 1963) e Ombre in paradiso (Schatten im Paradies, postumo, 1971). Numerosi romanzi di R. sono stati ridotti per il cinema.
Renzo Montagnoli 

 

 

4 Dicembre

La Resistenza perfetta

di Giovanni De Luna

Feltrinelli Editore

Saggistica storica

 

Un sogno fatto insieme

Il rischio che prima o poi si presenta nel caso di un mito - e la Resistenza può essere considerata un mito - è che nel trascorrere nel tempo ci sia chi vuole sgretolarne le immagine, per non parlare di molti più altri che, senza arrivare a ciò, pur tuttavia nutrono dubbi su ciò che è accaduto e che viene tramandato. Senza tenere conto dell’atteggiamento negazionista dei seguaci dei vinti di quell’epoca il problema reale è che i più quasi sempre ignorano che cosa sia stata la resistenza, oppure ne hanno una visione ristretta di carattere politico. Credo che se uno vuole comprendere il significato di quel grande movimento che interessò l’Italia più o meno dal settembre del 1943 all’aprile del 1945 dovrebbe leggersi questo interessante saggio di Giovanni De Luna, noto storico salernitano. L’autore parte da un diario, quello di Leletta d’Isola (1926 – 1993), figlia del barone Vittorio Oreglia d’Isola e della contessa Caterina Malingri; la ragazza, con i genitori, altri, parenti, amici e domestici viveva nel Palas avito a Vilar, una frazione di Bagnolo Piemonte. Acuta osservatrice riportava su questo testimone giornaliero le impressioni e le riflessioni che nascevano in un periodo particolarmente travagliato per l’Italia, nato col l’armistizio dell’8 settembre 1943, periodo complesso e confuso tanto che la pagina del 30 settembre riporta questa dicitura: “Il nucleo del chaos è l’Italia”.  Nelle valli piemontesi la resistenza sorse per prima per diversi motivi, ma soprattutto perché lì era confluita dalla Francia un’intera armata e anche perché meno difficile che in pianura si presentava una difesa dalle incursioni delle truppe nazifasciste. Al Palas arrivarono così gli embrioni di quello che diventerà la Resistenza e in particolare una figura che poco a poco diventerà leggendaria, il comandante delle Brigate Garibaldi Nicola Barbato, nome di battaglia, giacché in effetti si chiamava Pompeo Colajanni. In quella dimora vennero a trovarsi contemporaneamente monarchici, repubblicani del Partito d’Azione, comunisti, cattolici, correnti che, pur ovviamente con proprie idee, riuscirono a cementare un’unione volta al supremo sforzo non solo di liberare l’Italia dal giogo nazista e dalla dittatura fascista, ma vennero anche a gettare le basi ideali per un Italia nuova, un accordo che sarebbe parso in altri momenti impossibile. Come poté avvenire un tale miracolo? Accadde perché quei combattenti per la libertà riuscirono a mettere da parte in quei giorni gli anacronistici confini ideologici e di classe che li dividevano,  e ciò per un comune scopo; avevano capito che il male era il passato, gli anni bui della dittatura e delle guerre, e il male veniva perpetuato dai nazisti e dai fascisti, mentre il bene si sarebbe trovato nel futuro da costruire insieme. Fu un sogno, quindi, perché già dopo il 25 aprile, senza più il male in contrapposizione venne a perdere evidenza e forza anche il bene.

La Resistenza quindi fu per la prima e forse unica volta un sogno fatto insieme, per cui si combatté e si morì anche, una magia oserei dire di cui nel tempo si è perso il significato, lasciando anzi spazio a pericolose e becere tendenze revisioniste. Certo, non furono tutte rose e fiori, ci furono anche atti esecrabili, ma nel suo insieme la Resistenza è quanto di meglio si sia fatto dopo l’Unità d’Italia. Lo stile di De Luna è gradevole, senza inutili appesantimenti, e la narrazione procede con linearità, poi però, verso la fine, l’autore si lascia prendere dall’entusiasmo e s’incrina un po’ l’obiettività ammirata in precedenza; niente di grave, anche se si avverte chiaramente che lo storico, pur basandosi su fatti e dati concreti, si lascia prendere volentieri la mano.

Giovanni De Luna è docente di Storia contemporanea all'Università di Torino. Ha collaborato alla «Stampa» e a «Tuttolibri» ed è autore di varie trasmissioni radiofoniche e televisive. Tra i suoi titoli ricordiamo: Donne in oggetto. L'antifascismo nella società italiana (1995), La passione e la ragione. Il mestiere dello storico contemporaneo (2004), Storia del Partito d'Azione (2006), Il corpo del nemico ucciso (2006), Le ragioni di un decennio (1969-1979) (2009), La repubblica del dolore (2011), Una politica senza religione (2013), La Resistenza perfetta (2015). Per Einaudi ha inoltre curato L'Italia del Novecento. Le fotografie e la storia (2005-2006).
Renzo Montagnoli 

 

 

1 Dicembre

La baronessa dell’Olivento

di Raffaele Nigro

Camunia Edizioni

Narrativa romanzo storico

Creatività al massimo

Ambientato nella seconda metà del XV secolo La baronessa dell’Olivento è ancora una volta l’occasione per dare libero sfogo all’innata corposa creatività dell’autore. Un romanzo d’avventure si potrebbe definire, ma anche un’opera che strizza l’occhio all’epico Orlando furioso, visti i toni ariosteschi e le situazioni profuse in questo suo lavoro da Raffaele Nigro. I due protagonisti sono essi stessi emblemi di un’epoca e di una certa letteratura che vede negli estremi i soggetti adatti a rappresentare una trama, spesso aggrovigliata, ai limiti quasi del parossismo; abbiamo così la storia dei due fratelli Brentano, Stanislao e Vlaika, governatori del castello di Lagopesole edificato da Federico II di Svevia; Stanislao è un cavaliere più desideroso della pace che della guerra, e sua sorella Vlaika è una disabile, che vive in una cesta, perché è nata priva degli arti, inferma di corpo quindi, ma non di mente. In breve ci troviamo di fronte a una saga familiare, ambientata in Schiavonia, in Albania, in Campania, in Basilicata e in Puglia, le zone percorse dai nostri protagonisti in un crescendo di battaglie, di amori, di conflitti non solo politici, ma anche intellettuali, con gli scontri fra cristiani e turchi, le ribellioni dei baroni del Regno di Napoli, le dispute, non sempre pacate, fra platonici e aristotelici, ma soprattutto fra scienziati ed ecclesiastici, con l’Inquisizione che non si limita a guardare. Insomma, Nigro ha messo tanta carne al fuoco, ha scritturato tanti personaggi storici come Scanderbeg, Murad Han, il principe Caracciolo, Ferrante e Alfonso d’Aragona, in un intreccio spumeggiante che se da un lato affascina il lettore, dall’altro lo porta a un certo disorientamento perché tanta è la commistione fra realtà e fantasia che alla fine diventa difficile capire ciò che è storia e ciò che è inventiva. In questo senso La baronessa dell’Olivento mi pare meno riuscito  di Santa Maria delle Battaglie, dove è presente un maggiore equilibrio strutturale e c’è più linearità nella narrazione; senza voler andare a cercare a tutti i costi il pelo nell’uovo direi che ciò che nuoce  a questo romanzo è proprio l’eccesso di creatività, come se l’autore, immedesimatosi nei panni di Ludovico Ariosto, avesse voluto creare, relativamente a un’epoca successiva, un dramma antico scritto con gli occhi rivolti ai nostri tempi, un’opera senza tempo quindi, ma credo che, se questa era la sua intenzione, non abbia raggiunto lo scopo. 

Da leggere, comunque.

Raffaele Nigro (Melfi, Potenza, 1947) scrittore e saggista italiano. La ricca produzione saggistica riguarda soprattutto la storia e la cultura di Basilicata e Puglia (Basilicata tra Umanesimo e Barocco, 1981). I toni dell’epopea popolare si affermano nel romanzo storico I fuochi del Basento (1987, premio Campiello); mafia e corruzione sono invece i temi di Ombre sull’Ofanto (1992, premio Grinzane); corposo romanzo che rivisita i «cunti» fantastici seicenteschi è Dio di Levante (1994); Diario mediterraneo (2000) affronta il tema dell’incontro-scontro tra le culture che si affacciano sul «mare nostrum»; Malvarosa (2005) dipinge un meridione nel difficile passaggio alla modernità. È autore anche della raccolta di racconti I piantatori di Lune (1991).
Renzo Montagnoli 

 

 

28 Novembre

La visitatrice

di Fulvio Tomizza

Arnoldo Mondadori Editore S.p.A.

Narrativa romanzo

 

Un testamento umano e letterario

Fulvio Tomizza venne a mancare nel 1999 e le sue ultime due opere La visitatrice e Il sogno dalmata vennero pubblicate postume, rispettivamente nel 2000 e nel 2001. Entrambe, pertanto, costituisco l’ultima fatica letteraria dell’autore e sono quindi frutto della sua consapevolezza dei traguardi già raggiunti, allorché, avanti con gli anni, è quasi un destino narrare i propri ricordi. In particolare La visitatrice sembra maggiormente il romanzo con cui Tomizza si è interrogato sul suo passato, in cui mi pare  spicchi quel naturale rimpianto per le occasioni sfumate, per le opportunità lasciate sfuggire, con la consapevolezza che quella stagione è ormai del tutto andata. Non si tratta di una vera e propria autobiografia, ma di tracce di memoria che vengono a comporre nel loro insieme una vicenda probabilmente di fantasia, ma con un fondo di verità. Il protagonista è un anziano commerciante, assai malato, ma della cui gravità la moglie e la figlia non sono del tutto coscienti; Emilio, così si chiama l’uomo, accompagna le due donne alla stazione ferroviaria da cui prenderanno il treno per Bologna per andare da dei parenti e per fare acquisti legati alle imminenti nozze della giovane. Una volta partite, l’uomo tornerà a casa con l’autobus, seguito da una donna che sembra voler fare la stessa strada, e che in effetti farà, accompagnandolo fin dentro al suo appartamento e rivelandogli di essere sua figlia. Lo sarà? Poco importa nell’economia del racconto, perché questa rivelazione è l’occasione per riscoprire i fantasmi della propria gioventù, è l’innesco per l’esplosiva rivelazione a se stesso che altro e più appagante era un certo amore, forse non piatto come quello derivante dall’attuale matrimonio. E’ tutto un mondo che riemerge dalle nebbie, una testimonianza di una vita un tempo veramente vissuta che solo nella mente di un uomo stanco e ammalato, prossimo alla sua fine, può dare un senso a un’intera esistenza.

La visitatrice è un romanzo malinconico, scritto con un tono distaccato che gli fa assumere  un desiderio di imparzialità che commuove, ma che al tempo stesso finisce con il diventare il testamento umano e letterario di un grande scrittore.

Fulvio Tomizza (Giurizzani di Materada, Umago, 26 gennaio 1935 – Trieste, 21 maggio 1999). Figlio di piccoli proprietari agricoli, dediti anche a varie attività commerciali, ottenuta la maturità classica, si trasferì temporaneamente a Belgrado e a Lubiana, dove iniziò a lavorare occupandosi di teatro e di cinema.

Ma nel 1955, quando l’Istria passò sotto l’amministrazione jugoslava,  Tomizza, benché legato visceralmente alla sua terra, si trasferì a Trieste, dove rimase fino alla morte, tranne che negli ultimi anni trascorsi nella natia Materada.   

Scrittore di frontiera, riscosse ampi consensi di pubblico e di critica (al riguardo basti pensare ai numerosi premi vinti: nel 1965 Selezione Campiello per La quinta stagione, nel 1969 il Viareggio per L’albero dei sogni, nel 1974, nel 1986 e nel 1992 ancora Selezione Campiello rispettivamente per Dove tornare, per Gli sposi di via Rossetti e per I rapporti colpevoli, nel 1977 e nel 1979 lo Strega e quello del Governo Austriaco per la letteratura Europea per La miglior vita).

Ha pubblicato: Materada (1960), La ragazza di Petrovia (1963), La quinta stagione (1965), Il bosco di acacie (1966), L’albero dei sogni (1969), La torre capovolta (1971), La città di Miriam (1972), Dove tornare (1974), Trick, storia di un cane (1975), La miglior vita (1977), L’amicizia (1980), La finzione di Maria (1981), Il male viene dal Nord  (1984), Ieri, un secolo fa (1985), Gli sposi di via Rossetti (1986), Quando Dio uscì di chiesa (1987), Poi venne Cernobyl (1989), L’ereditiera veneziana (1989), Fughe incrociate (1990), I rapporti colpevoli (1993), L’abate Roys e il fatto innominabile (1994), Alle spalle di Trieste (1995), Dal luogo del sequestro (1996), Franziska (1997), Nel chiaro della notte (1999).
Renzo Montagnoli 


 

25 Novembre

Luna bugiarda

di Ben Pastor

Sellerio Editore Palermo

Narrativa romanzo

 

La strana coppia

Confesso che il motivo per cui ho deciso di leggere Luna bugiarda risiedeva unicamente nella curiosità di come una donna (nonostante il nome l’autore è femmina) scrivesse un giallo con protagonista un militare, per di più in epoca bellica (la seconda guerra mondiale); in particolare immaginavo che il maggiore della Wermacht Martin von Bora fosse un uomo di particolare fascino, tutto il contrario per intenderci di un commissario come Maigret, e devo ammettere che avevo visto giusto, nel senso che questo ufficiale può essere definito un “bel tenebroso”, una figura che suscita interesse in non poche donne e non è forse un caso se Ben Pastor dice che al riguardo la sua fonte d’ispirazione è stata il colonnello von Stauffenberg.

Ciò premesso, c’è da precisare che nel romanzo c’è anche un altro personaggio, lui sì di professione investigatore, ed è l’ispettore della polizia italiana Sandro Guidi. Entrambi congiuntamente (anche se le divergenze sono frequenti) conducono le indagini sull’omicidio di un alto papavero fascista in un torbido inverno del 1943, facendo la spola fra Verona e il lago di Garda. Ovviamente arrivano a una conclusione, nel senso che trovano il reo, di cui non anticipo nulla, onde non togliere il piacere della scoperta. Mi soffermo invece sulla struttura dell’opera e soprattutto sulle figure dei due investigatori che sembrano muoversi tutto sommato ordinatamente sul palcoscenico di questo dramma, e dico dramma perché, oltre all’omicidio, ci sono le presenze incombenti, oppressive, dei bombardamenti, dei partigiani, delle famigerate SS sempre a caccia di ebrei, in poche parole la tragedia collettiva di una guerra. Se Martin von Bora è uomo dai contrasti, cioè dalle tensioni esistenti fra il senso del dovere e il rispetto della propria coscienza, un personaggio complesso, che riesce a volte ad attirare, mentre altre appare repellente,  l’ispettore Guidi può sembrare tutto sommato più semplice, e forse lo è, un po’ mammone, senz’altro più estroverso, appassionato del suo lavoro, ma anche disilluso, come può esserlo un uomo che rappresenta un’autorità in un paese in sfacelo.

Per queste caratteristiche all’opposto formano una bella coppia, anche se la complessità di von Bora e la semplicità di Guidi risentono di certi stereotipi che da un lato vedono il tipico prussiano nobile ligio al senso dell’onore, ma fortemente critico di un sistema politico, e dall’altro l’italiano più disposto a tirare a campare che a porsi profondi problemi esistenziali.  Proprio per questo direi che quelle caratteristiche che ne fanno una coppia interessante per il lettore costituiscono anche i limiti della stessa, tanto più che l’autore non è stato capace o non ha voluto provvedere a maggiori approfondimenti, rivoltando come un calzino l’animo dei due protagonisti.

Peraltro, la lettura è gradevole, la curiosità e la tensione non vengono mai meno e quindi il romanzo può essere considerato un giallo di ottima fattura.

Ben Pastor, scrittrice italoamericana, all'anagrafe Maria Verbena Volpi, nata a Roma ma trasferitasi ben presto negli Stati Uniti, ha insegnato Scienze sociali presso le università dell'Ohio, dell'Illinois e del Vermont. Oltre a Lumen, Luna bugiarda, Kaputt Mundi, La canzone del cavaliere, Il morto in piazza, La Venere di Salò,  Il cielo di stagno, - ovvero il ciclo del soldato-detective Martin Bora (pubblicati da Hobby&Work a partire dal 2001 e poi da Sellerio) - è autrice di I misteri di Praga (2002), La camera dello scirocco, omaggi in giallo alla cultura mitteleuropea di Kafka e Roth (Hobby &Work), nonché de Il ladro d'acqua (Frassinelli 2007), La voce del fuoco (Frassinelli 2008), Le vergini di pietra La traccia del vento (Hobby & Work 2012), una serie di quattro thriller ambientata nel IV secolo dopo Cristo. 
Nel 2006 ha vinto il Premio Internazionale Saturno d'oro come migliore scrittrice di romanzi storici. Le sue opere sono pubblicate negli Stati Uniti e in numerosi Paesi europei.
Un suo racconto è incluso nell'antologia Un Natale in giallo (Sellerio 2011).
Nel 2014 esce La strada per Itaca.
Renzo Montagnoli   


 

22 Novembre

Il lupo

di David King

Edizioni Piemme

Narrativa romanzo storico

 

Il medico criminale

La Francia vanta un buon numero di assassini seriali e se Martin Dumollard e Joseph Vacher sono certamente meno noti, assai più conosciuti sono Henri Landru e Marcel Petiot. A quest’ultimo David King ha dedicato un’opera monumentale (454 pagine) con cui, mescolando la creatività propria del romanzo e la puntigliosità del ricercatore storico,  ci fornisce il ritratto di un personaggio di particolare interesse, in cui il male sembra innato e prevale comunque sempre sul bene. Petiot, che a seguito dello stress patito durante la Grande Guerra fu riconosciuto totalmente insano di mente e che ciò nonostante riuscì a laurearsi in medicina con ottime votazioni, successivamente, in occasione del processo contro di lui tenutosi nel 1946, fu invece definito da un collegio di psichiatri perfettamente in grado di intendere e di volere, e proprio per questo motivo fu riconosciuto colpevole di 27 omicidi e condannato a morte, sentenza eseguita il 25 maggio 1946 ricorrendo alla ghigliottina. Il personaggio, che cercò di difendersi attribuendosi molti più delitti, ma perpetrati nei confronti di nazisti e di loro collaboratori, e non di innocenti ebrei come invece asserito dall’autorità inquirente e appurato, pur con non pochi punti oscuri, nel corso del processo, è indubbiamente uno di quelli in grado di calamitare l’attenzione della folla, per una innata capacità di apparire tutt’altro che sanguinario, insomma un vero e proprio mostro dalla doppia personalità. L’autore, secondo me, avrebbe dovuto approfondire maggiormente questa caratteristica, invece di dedicare troppe pagine alla ricerca, in corso di guerra, di quello che ormai era considerato dalla polizia un nemico pubblico di notevole giustificata pericolosità. Fra false segnalazioni, non poche illazioni e anche alcune tracce possibili si sprecano non poche pagine che appesantiscono inutilmente l’opera, come anche alcune digressioni dedicate a uomini della cultura dell’epoca (Sartre, Camus, Picasso e altri) che non trovano una ragione logica per il loro inserimento. Dato che ritengo che l’intenzione di King fosse quella di scrivere un thriller ad alta tensione tutti questi elementi dispersivi finiscono invece per afflosciare il ritmo, per trasformare l’iniziale attrazione  in un sempre più accentuato senso di noia. Ed è un peccato, perché Marcel Petiot ha tutte le caratteristiche del delinquente in grado di polarizzare su di lui l’attenzione del lettore, meravigliato per la sua non comune intelligenza e inorridito per l’efferatezza dei suoi delitti.

Resta comunque un romanzo leggibile, anche se si è persa l’occasione per lasciare un segno, ovviamente positivo, nel vasto panorama letterario.

David King si è laureato a Cambridge e ha a lungo insegnato all’università del Kentucky. Vive a Lexington con sua moglie e i suoi figli. Segnalato con il massimo riconoscimento dalle più importanti riviste letterarie, che lo hanno salutato come un capolavoro capace di fondere brillantemente accurate ricerche, storia popolare e la tensione del thriller, Il Lupo (Piemme, 2012) è stato accolto con straordinarie recensioni dalla stampa americana ed è in corso di traduzione in dodici paesi.
Renzo Montagnoli 
 

 

19 Novembre

Resto qui

di Marco Balzano

Edizioni Einaudi

Narrativa romanzo

 

Heimat

Chi percorre la val Venosta, diretto al passo Resia, a un certo punto, all’incirca a 1.500 m. s.l.m., si imbatte in un grosso lago, il più grande della provincia di Bolzano, un lago alpino ottenuto con uno sbarramento artificiale.  Fin qui niente di strano, se non si notasse un campanile che emerge dalle acque, meta di tanti fotografi. Quella guglia aguzza risale al 1357 ed era la caratteristica preponderante della parrocchiale di Curon; intorno e sommerso c’è un paese, Curon Venosta, 163 case e 523 ettari di terreno che era adibito soprattutto a frutteto. Gli abitanti ingaggiarono una battaglia per conservare intatto il loro luogo, ma fu tutto inutile. Ed è di questo, o meglio anche di questo che parla il bel romanzo (Resto qui) di Marco Balzano, finalista al premio Strega 2018. Con l’escamotage di una lettera che una madre (Trina) intende inviare  alla figlia, scomparsa durante il famigerato ventennio senza lasciare traccia, ci viene raccontata la storia di un periodo particolarmente fosco per il Sud Tirolo che va grosso modo dall’avvento del fascismo agli anni dell’immediato dopo guerra. Si tratta indubbiamente di una serie di memorie di famiglia, ma soprattutto del ricordo del paese in cui Trina è vissuta, ora purtroppo sommerso dalle acque.  In queste pagine scritte con uno stile asciutto, per nulla ridondante e con una particolare attenzione a non cadere nella retorica, si snodano l’illogicità di un regime che pretende di italianizzare a manganellate e a somministrazioni di olio di ricino, l’immigrazione di massa di tanti italiani, soprattutto del sud, per occupare i posti pubblici che prima erano dei tirolesi, le persecuzioni a cui fu soggetta la popolazione che a un certo punto, in base agli accordi fra Mussolini e Hitler, ebbe l’opportunità di trasferirsi in Germania (opportunità sfruttata solo da una parte degli interessati con l’unico scopo di fuggire dall’oppressione italiana), gli anni dolorosi della guerra, la dura e feroce occupazione nazista e infine l’insensibilità dello stato italiano repubblicano di comprendere le ragioni di quella gente, legata atavicamente alla propria terra,  quella che si potrebbe definire con un termine tedesco Heimat, ossia il luogo nativo, non una mera espressione geografica, ma la propria identità.

Per quanto possa sembrar strano, il sacrosanto diritto dei tirolesi di non vedere calpestata la loro cultura non poteva trovare miglior difensore di un italiano, cioè Marco Balzano.

Si arguisce fra le righe l’intenso lavoro di ricerca effettuato, di cui l’autore parla nella Nota finale, con l’aiuto anche di alcuni sud tirolesi, come si evince dai ringraziamenti che chiudono il libro.

La serietà con cui sono state esaminate le fonti, la presenza frequente in loco di Balzano finiscono con il dare a quest’opera una struttura propria del romanzo storico, ma con un calibrato ricorso alla fantasia, perchè  se Trina, suo marito Erich e altri sono frutto di creatività, non è così per padre Alfred, intorno alla cui figura si raccolgono le istanze di sopravvivenza del suo gregge; infatti questo personaggio è ispirato al pastore Alfred Rieper, parroco di Curon per circa cinquant’anni, un uomo che si è battuto con tutte le sue forze, ma invano.

Resto qui, capace di avvincere dalla prima all’ultima riga, è un gran bel romanzo.

Marco Balzano è nato a Milano nel 1978, dove vive e lavora come insegnante di liceo. Ha esordito nel 2007 con la raccolta di poesie Particolari in controsenso (Lieto Colle, Premio Gozzano). Nel 2008 è uscito il saggio I confini del sole. Leopardi e il Nuovo Mondo (Marsilio, Premio Centro Nazionale di Studi Leopardiani). Il suo primo romanzo è Il figlio del figlio (Avagliano 2010, finalista Premio Dessì 2010, menzione speciale della giuria Premio Brancati-Zafferana 2011, Premio Corrado Alvaro Opera prima 2012), tradotto in Germania presso l’editore Kunstmann.
A questo primo romanzo hanno fatto seguito Pronti a tutte le partenze (Sellerio 2013), L'ultimo arrivato (Sellerio 2014), con il quale vince nel 2015 il premio Campiello.
Renzo Montagnoli 
 

 

16 Novembre

I gas di Mussolini.

Il fascismo e la guerra d’Etiopia

di Angelo Del Boca

con contributi di Giorgio Rochat, Ferdinando Pedriali e Roberto Gentili

Editori Riuniti

Storia

 

La verità negata

Che in epoca fascista sia stata stesa una pesante coltre sulle nostre operazioni coloniali in Etiopia e in particolare sull’uso, non sporadico, che si fece dei gas asfissianti e urticanti è comprensibile, anche se ovviamente non giustificabile; che poi nel dopo guerra, quindi in periodo repubblicano, ci sia stato un netto ostracismo per quanto concerne appunto la questione del nostro ricorso a queste armi, messe al bando nella Convenzione di Ginevra, peraltro da noi sottoscritta, appare del tutto illogico; approfondendo l’argomento, si viene fin da quasi subito a scoprire che questa atroce verità cozzerebbe con l’immagine, che ci siamo attribuiti, di italiani sempre brava gente e della vulgata secondo la quale in occasione delle guerre coloniali adottammo in ogni circostanza un comportamento umano, perfino quasi amichevole. E’ vero che in alcuni teatri di guerra ci comportammo in modo civile e onorevole, ma è altrettanto vero che in altri fummo dei massacratori, né più né meno dei famigerati tedeschi. In questo contesto trova quindi una spiegazione  il comportamento tenuto a livello governativo e militare nei confronti dello storico Angelo Del Boca, che pur in possesso di scarse e scarne notizie che parlavano dell’uso da parte nostra dei gas chiedeva invano con insistenza e a gran voce che fosse possibile accedere ad archivi altrimenti riservati. Nonostante l’evidente ostracismo, le minacce, la chiusura netta, poco a poco si alzò questo pesante velo di omertà e così non solo trovò conferma il nostro metodico utilizzo di iprite e di fosgene, oltre che di arsina, ma anche la preponderanza di tali mezzi di distruzione in una guerra che, almeno sulla carta, avremmo dovuto vincere nel giro massimo di un mese. Questo saggio storico, a cui hanno contribuito, oltre ad Angelo Del Boca, Giorgio Rochat, Ferdinando Pedriali e  Roberto Gentili, è frutto di un articolato e complesso lavoro svolto negli archivi militari, ricerche che, pur nella loro incompletezza, hanno evidenziato una precisa volontà di Mussolini di arrivare alla vittoria con qualsiasi mezzo, ivi compresi i gas, di cui, in più di un telegramma, di volta in volta autorizzò l’uso a Badoglio quando questi, motu proprio, già li aveva impiegati in battaglia. Sebbene il ricorso a tali armi fosse coperto da segreto, la loro diffusione, soprattutto nel bombardamento aereo, era tale che non pochi dovevano esserne a conoscenza; fra chi ignorava c’è anche il famoso storico e giornalista Indro Montanelli che avviò una querelle pesantissima nei confronti di Angelo Del Boca, un conflitto durato anni, fino a quando il giornalista toscano  si convinse e decise di smettere, riconoscendo la validità delle asserzioni sull’impiego dei gas e adducendo la scusa che quando lui era là al fronte non ne aveva mai avuto sentore.

Le pagine di questo saggio, a volte poco avvincenti nella cruda elencazione delle azioni condotte con queste armi, del loro quantitativo impiegato, distinte per tipologia, è in grado però di offrire un quadro d’insieme tale da poter smentire più d’uno che, messo alle strette, ne ammettesse un uso esclusivamente sporadico (e infatti ci fu chi ebbe questa infelice idea).

Si tratta di ben altro, quindi,  della semplice contestazione della diversità del nostro colonialismo, intriso di tolleranza, di umanità, e che è servito a rimuovere il senso di colpa; praticammo invece scientemente una guerra di sterminio nei confronti di esseri umani che il regime, e non pochi italiani, consideravano inferiori, bestie o anche peggio.

Il saggio è pertanto da leggere, perché solo avendo una esatta e completa conoscenza del nostro passato possiamo sperare di costruire un futuro migliore.

Angelo del Boca è nato a Novara nel 1925.
È saggista e storico del colonialismo italiano ed è stato docente di Storia Contemporanea all'Università di Torino.
È stato insignito di tre lauree honoris causa dalle università di Torino (2000), Lucerna (2002) e Addis Abeba (2014). 
Tra le sue numerose opere ricordiamo: L'altra Spagna (1961), I figli del sole (1965), Giornali in crisi (1968), Gli italiani in Africa Orientale (1992-1996), Gli italiani in Libia (1993-1994), I gas di Mussolini. Il fascismo e la guerra d'Etiopia (1996), L'Africa nella coscienza degli italiani. Miti, memorie, errori,sconfitte (2002), Il mio Novecento (2008), La guerra d'Etiopia. L'ultima impresa del colonialismo (2010), Da Mussolini a Gheddafi: quaranta incontri(2012), Gheddafi. Una sfida dal deserto (2014), Nella notte ci guidano le stelle. La mia storia partigiana (2015).
Renzo Montagnoli 
 

 

12 Novembre

U-Boot.

Storie di uomini e sommergibili nella seconda guerra mondiale

di Sergio Valzania

Arnoldo Mondadori Editore S.p.A.

Storia


“Voi siete qui per imparare come morire”

Karl Donitz, già comandante di sommergibile nel corso della Grande Guerra, ritenne, non a torto, che il metodo applicato in quel conflitto per ridurre i rifornimenti alla Gran Bretagna potesse essere usato con maggior successo nella seconda guerra mondiale, ricorrendo ad attacchi di massa in superficie. In effetti gli eventi, più o meno fino alla fine del 1942, sembrarono dargli ragione con un’entità di affondamenti considerevole, contro perdite tutto sommato contenute. Tuttavia, gli affinamenti dei sistemi che gli alleati utilizzarono per sventare la minaccia (impianto di localizzazione ASDIC, copertura aerea dei convogli, bombe di profondità più potenti e precise) finirono per ribaltare la situazione, perché a fronte di un marcato calo di navi affondate vi fu un consistente aumento dei sommergibili che non tornarono alle basi. Cosa era accaduto per determinare questa inversione di tendenza? A parte il miglioramento dei sistemi di difesa degli alleati, non si verificarono sostanziali migliorie dei mezzi subacquei tedeschi, divenuti facili prede nel caso di azioni in superficie e impossibilitati a effettuare lunghe percorrenze in profondità per la limitata autonomia delle batterie che dovevano fornire la propulsione elettrica; inoltre, proprio perché le possibilità di maggior successo con minori perdite erano quelle di restare immersi in agguato, si sarebbe dovuto stravolgere la tattica con cui tanti marinai e comandanti erano stati addestrati. Vi è da dire che Donitz, accortosi del problema, cercò di correre ai ripari, promuovendo la costruzione di quelli che si sarebbero poi definiti a ragione sottomarini, e non sommergibili, e in effetti ne furono realizzati non pochi, pur fra le mille difficoltà di una guerra che volgeva al termine con la chiara e ormai inevitabile sconfitta della Germania; fatti i nuovi U-Boot occorreva tuttavia riaddestrare gli equipaggi agli stessi, il che non poteva avvenire in tempi brevi, tanto che la fine del conflitto venne senza che si potessero impegnare in combattimento un numero adeguato di battelli, insomma un po’ come nel caso del Messerschmitt 262, il primo aereo a reazione del mondo, giunto troppo tardi.

Il libro di Sergio Valzania è un interessante saggio di storia militare che affronta il tema della guerra condotta dai sommergibili tedeschi nel secondo conflitto mondiale. L’autore ha la capacità di offrirci una visione completa di ciò che accadde, rispondendo inconsciamente alle classiche domande “come, quando, perché”. In tal modo il lettore riesce a comprendere il motivi degli eventi, riesce a capire come mai a un certo punto della guerra navale nell’Atlantico i battelli tedeschi riuscirono ad affondare mercantili degli alleati in numero elevatissimo, perdite a cui all’inizio, prima di affinare i sistemi di difesa, gli americani risposero costruendo, quasi a catena, un numero spropositato di navi, le cosiddette Liberty, in modo da compensare così i vuoti  creati nella flotta. Saranno ben comprensibili, inoltre, le cause che portarono all’inversione di tendenza in questa feroce e lunga battaglia, si sarà in grado di sapere come si viveva, si combatteva e si moriva sugli U-Boot, anche attraverso la narrazione di episodi di particolare risonanza; apparirà così giustificata, nella sua drammaticità, la rilevante entità di marinai sommergibilisti morti, una vera e propria mattanza, tale da far apparire premonitrici le parole del discorso di presentazione ai cadetti della scuola sommergibili tedesca tenuto nel 1918: “Voi avete scelto la più bella professione del mondo. Davanti ai vostri occhi sta l’obiettivo più alto che si possa raggiungere. Qui vi insegneremo a raggiungerlo. Voi siete qui per imparare ciò che dà alle vostre vite il significato definitivo. Voi siete qui per imparare come morire.”.

Lo stile è snello, il ritmo non è blando, ma nemmeno troppo veloce, l’approfondimento è sempre pertinente e mai greve, insomma U-Boot è un libro istruttivo e di gradevole lettura.

Sergio Valzania, storico e studioso della comunicazione, autore radiofonico e televisivo, dal 2002 al 2009 ha diretto i programmi radiofonici della Rai.

Dal 2001 insegna all'Università di Genova e dal 2010 alla Luiss di Roma. Ha scritto su «La Nazione», «Avvenire», «la Repubblica», «il Giornale», «L'Indipendente», «Liberal». 
Fra le sue opere di storia militare pubblicate con Mondadori ricordiamo: Jutland (2004), Austerlitz (2005), Le radici perdute dell'Europa (con Franco Cardini, 2006), Wallenstein (2007), I dieci errori di Napoleone (2012), U-Boot. Storie di uomini e sommergibili nella seconda guerra mondiale (2011), I dieci errori di Napoleone. Sconfitte, cadute e illusioni dell'uomo che voleva cambiare la storia (2012), La scintilla. Da Tripoli a Sarajevo: come l'Italia provocò la prima guerra mondiale (2014, scritto con Franco Cardini) e Cento giorni da imperatore (2015). Per Sellerio esce nel 2006 Sparta e Atene. Il racconto di una guerra, nel 2011 Napoleone e nel 2012 La bolla d'oro. Nel 2008 esce per Longanesi La via Lattea, scritto con Piergiorgio Odifreddi, mentre nel 2015  Il Mulino pubblica Andar per le cattedrali di Puglia.
Renzo Montagnoli 

 

8 Novembre

Tre camerati

di Erich Maria Remarque

Neri Pozza Editore

Narrativa romanzo storico

 

Per l’amore si può vivere

Ultimo romanzo della trilogia dedicata alla prima guerra mondiale (il primo, Niente di nuovo sul fronte occidentale, è un capolavoro assoluto e si svolge al fronte, il secondo, La via del ritorno, è una grande opera che parla del ritorno a casa dei reduci e del loro difficile reinserimento), Tre camerati si svolge in un’epoca già lontana dagli anni del conflitto, all’incirca alla fine degli anni ‘20, un periodo turbolento e di grande crisi per la Germania, in cui cominciano a prendere sempre più piede i nazisti. L’inflazione è spaventosa, la disoccupazione cresce quasi in modo esponenziale, e poi ci sono i disordini quotidiani, alimentati soprattutto dai seguaci di un ometto dall’apparenza insignificante, un reduce pure lui, pittore fallito, che di nome fa Adolf Hitler. In questo contesto tre amici, scampati alla guerra sul fronte occidentale, riescono a campare con la gestione di un’autofficina; a prima vista sembra un trio felice, di compagni bevitori e pronti agli scherzi, ma sotto sotto si scopre che indossano una maschera di cinismo, per cercare di nascondere, nell’impossibilità di cancellarli, i segni lasciati dalla terribile esperienza in guerra. Si chiamano Otto, Goffredo e Roberto, Roby per gli amici, e quest’ultimo finisce con il diventare il protagonista principale. Solo, senza un’idea del futuro, conosce casualmente una ragazza e il suo mondo di grigiore e di cinismo si rischiara di una nuova luce. Quell’amore ricambiato infonde in Roby fiducia nella vita, gli prospetta quel futuro che nemmeno si sarebbe sognato, ma  se l’amore è qualcosa per cui si può vivere, tanto più lancinante è perdere la persona amata. E’ forse dei tre il romanzo più disperato, perché non c’è di peggio che trovare un’ancora di salvezza, uno sbocco concreto alla propria esistenza, e poi vedere sfumare tutto. Per quanto bello, lo strazio che percorre non poche pagine dell’opera finisce con il provocare l’accostamento con i giorni di trincea di Niente di nuovo sul fronte occidentale, con l’anormalità di tante morti di giovani che ancora non si erano affacciati alla vita, e la normalità invece di un decesso per cause naturali. Non dico che Remarque abbia pigiato sull’acceleratore per portare a una forte commozione, ma senz’altro la sua partecipazione al romanzo mi pare qui assai più presente che in altri casi. Bello è bello, non ci piove, ma, sempre secondo me, non raggiunge l’elevata valutazione dei primi due della trilogia. Forse i tempi diversi, l’omologazione ormai definitiva dell’orrore del grande conflitto hanno inciso sulla creatività dell’autore, del resto ormai proteso a rappresentare, in un secondo ciclo di opere, l’immane tragedia del periodo nazista, con la nuova guerra mondiale e le atrocità dell’olocausto.

Erich Maria Remarque, combattente nella prima guerra mondiale, fu più volte ferito. Giornalista a Berlino, lasciò la Germania all’avvento del nazismo e nel 1939 si stabilì a New York, dove prese la cittadinanza americana. Raggiunse un vasto successo con il romanzo Niente di nuovo sul fronte occidentale (Im Westen nichts Neues, 1929), radicale condanna della guerra e amara analisi delle sue spaventose distruzioni materiali e spirituali. Seguirono, sempre ispirati a ideali pacifisti e di solidarietà umana, Tre camerati (Drei Kameraden, 1938), Ama il prossimo tuo (Liebe deinen Nächsten, 1941), Arco di trionfo (Arc de Triomphe, 1947), Tempo di vivere, tempo di morire (Zeit zu leben und Zeit zu sterben, 1954), La notte di Lisbona (Die Nacht von Lissabon, 1963) e Ombre in paradiso (Schatten im Paradies, postumo, 1971). Numerosi romanzi di R. sono stati ridotti per il cinema.
Renzo Montagnoli 

 

 

29 Ottobre

1918: la fine della Grande Guerra.

Altipiani, Grappa, Piave, Vittorio Veneto

di Antonio Badolato e Armando Rati

Presentazione di Giuseppe Montecchio

Sometti Editoriale

www.sometti.it

Storia

 

L’anno del riscatto

Nei giorni caotici della nostra ritirata di Caporetto erano ben pochi quelli disposti a scommettere su una rivincita dell’esercito italiano: troppi i nostri militari caduti prigionieri, notevoli le perdite negli armamenti, in particolare nelle artiglierie, consistenti, per non chiamarle cospicue, le quantità dei generi alimentari cadute in mano al nemico. Soprattutto, i timori maggiori venivano dal profondo stato di sconcerto e di sconforto delle nostre truppe. Arretrarono fino al Piave, la linea di estrema difesa, ma sarebbero riusciti i nostri militi a fermare  il nemico incalzante? Contrariamente a tante paure, a una quasi rassegnazione all’inevitabile, avvenne il miracolo. Quei soldati, fino a pochi giorni prima demotivati, stanchi, affranti, strinsero i denti e si batterono come leoni, inchiodando gli austriaci sulla sponda sinistra. Più che da un desiderio di riscatto erano mossi dalla certezza che senza uno sforzo immane il nostro paese, e così le loro case, i loro familiari, le loro attività sarebbero cadute in mano al nemico. A ciò aggiungasi che un previdente intuito del generale Cadorna, sorto dopo l’arresto nel 1916 della famosa Strafexpedition, aveva portato a fortificare quel bastione naturale che era il Monte Grappa, con la costruzione anche di una strada lunga una trentina di chilometri, sebbene larga solo tre metri. In quei primi giorni del novembre 2017 e fino a tutto il dicembre dello stesso anno lì si decisero le sorti della guerra, che nel 1918 fu ancora sanguinosa, soprattutto nella famosa battaglia del solstizio, l’ultimo disperato tentativo degli austriaci di sfondare le nostre linee e di dare una svolta al conflitto. Non ci riuscirono, li respingemmo e quindi la vittoria arrise a noi. Seguirono giorni di preparazione alla nostra stoccata definitiva che avvenne con la celebre battaglia di Vittorio Veneto, decisiva per le sorti della guerra. Antonio Badolato e Armando Rati hanno voluto parlarci di questo 1918 in un bellissimo saggio storico intitolato appunto 1918: la fine della Grande Guerra. Giorno per giorno ci fanno rivivere le grandi battaglie, i piccoli scontri che ci portarono dall’inferno al paradiso, con una scrittura lineare e notevolmente avvincente. L’opera è divisa in otto capitoli, ognuno dei quali stilati dall’uno o dall’altro storico (per l’esattezza tre da Armando Rati e cinque da Antonio Badolato), e affronta tanti temi, alcuni dei quali spesso trascurati da altri saggisti, come nel caso del sesto capitolo in cui Antonio Badolato ci parla dell’attività di spionaggio, del movimento di resistenza nelle province invase e delle difficili condizioni di vita della popolazione civile. Ma se l’anno chiave è il 1918 il libro va oltre perché nell’ottavo capitolo redatto da Armando Rati si parla dell’esercito italiano dall’armistizio alla pace, con riferimento a quasi tre anni, cioè fino al 1920, relazionando dettagliatamente sulla smobilitazione, sul ritorno dei prigionieri, sull’occupazione dell’Alto Adige e sulle nostre operazioni militari all’estero, fino alla conclusione dell’avventura fiumana. Si tratta quindi di un’opera di estremo interesse e di grande valore, con il supporto di una bibliografia di storici di comprovata capacità e serietà. Appare evidente, quindi, che la lettura è senz’altro consigliata.

Antonio Badolato è nato a Guastalla nel 1951; proviene dagli studi di giurisprudenza e da una lunga esperienza professionale nel ruolo di direttore di risorse umane e organizzazione, maturata in noti istituti di credito. Badolato è giornalista pubblicista, ha pubblicato diversi saggi di argomento storico, ed è inoltre Maggiore di complemento del Genio Alpino. 

Armando Rati è un generale dell’esercito originario di Acquanegra sul Chiese in provincia di Mantova.  Laureato in pedagogia, a indirizzo storico, ormai congedato, si occupa di storia, prevalentemente militare. Ha così pubblicato numerosi saggi, fra i quali 1918: la fine della Grande Guerra4° Reggimento artiglieria contraerei 1926-2003CaporettoI bersaglieri nel Risorgimento (1848-1870)L'80° Fanteria - La lunga storia eroica di un Reggimento mantovano diventata leggenda , La fulgida epopea della Divisione PasubioGiacomo Desenzani un generale castiglionese nella Grande Guerra, tutti editi da Sometti.
Renzo Montagnoli 

 

 

27 Ottobre

Dimentica chi sono

di Griselda Doka

Fara Editore

www.faraeditore.it

Poesia 

La speranza degli ultimi

Ritorna in libreria, dopo un periodo di tre anni (la precedente silloge Solo brevi domande esiliate risale al 2015) , Griselda Doka con una nuova raccolta che non è una prosecuzione della precedente, ma presenta caratteristiche del tutto autonome.  In Solo brevi domande esiliate c’era l’evidente necessità di riproporre il proprio passato e con esso di dare voce e vita a quel paese, l’Albania, da cui un giorno la poetessa è partita alla ricerca di un avvenire migliore. In Dimentica chi sono, ormai integrata nella nuova realtà e nel nuovo paese, il nostro, la tematica non cerca più di far riaffiorare le radici di un tempo che mai si dimenticherà, ma che piano piano funge da esperienza, da un periodo di vita diverso, con tutti i suoi pregi e tutti i suoi difetti; Griselda invece questa volta parla di amore, ma non è un sussurro, non è un dolce conversare,  bensì è una ricerca di ciò che manca, vale a dire l’amore ( Dimentica chi sono dimentica chi sei  tu, mia costante evasione /che percorri il mio Sud, tortuoso / cercami / nei campi di zagara bianca /colmi di nettare pregnante / che ti scorre nelle vene / quando l’odore del mio sesso /è la sinfonia che ti accoglie). E come tutte le ricerche si prevede un’occorrenza di tempo, ma anche di spazio e così la poetessa affronta un viaggio, inizia un percorso all’interno di se stessa, ma anche al di fuori, in cui i versi sono gridati, per un senso di ribellione intima, che pur tuttavia talora trovano una pace, un momentaneo appagamento che smussa i toni, lenisce il dolore, fa sorgere un esile filo di speranza che finisce con lo spezzarsi nella cognizione di essere disperatamente sola. E ciò nonostante, proprio perché tutti siamo figli della terra che ci ha generato, a tratti ritorna il pensiero a quel mondo di montagne e di aquile lasciato anni fa, a quel ricordo di prime migrazioni dove già allora l’Italia si dimostrò impreparata, e in questi frangenti la poesia si fa verbo, il verbo si fa azione, l’azione diventa un lacerante urlo muto.

Silloge indubbiamente di maggiore complessità della precedente appare avvolta nella nebbia del detto non detto, cioè assume caratteristiche marcatamente ermetiche, ma a tratti si estrinseca in un sillabo di tutte le migrazioni, passate, presenti e future, un accorato appello, e forse una speranza, che quell’unico Dio, se c’è e se vede, stenda la sua mano pietosa a soccorrere gli ultimi degli ultimi, e perché no, anche la migrante del cuore, anche chi è alla disperata ricerca d’amore.   

Griselda Doka  (Tërpan Berat, Albania, 1984) è Dottore di ricerca in Studi letterari, linguistici, filologici e traduttologici all’Università della Calabria. I suoi interessi scientifici si basano sulla lingua e la letteratura albanese, sulle scienze traduttologiche e sulla letteratura della migrazione. Attiva come operatrice culturale, organizza eventi sul territorio ed è membro di varie giurie letterarie. L’unica e instancabile utopia è la poesia: nel 2015 ha pubblicato Soglie (Aletti) e Solo brevi domande esiliate (Fara, premio della critica al Poem Award Academy, Napoli, 2016). Oltre alla sua lingua madre, scrive anche in italiano. Collabora con riviste e blog. Vive e lavora in Calabria nell’ambito dell’Istruzione e dell’accoglienza ai migranti.
Renzo Montagnoli 

 

 

20 Ottobre

Il Teutone. La setta dei mantelli neri

di Guido Cervo

Edizioni Piemme

Narrativa romanzo storico 

 

L’ultima battaglia di Eustachius von Felben

Iniziata con La Croce perduta, seguita da La battaglia sul lago ghiacciato, la trilogia del cavaliere dell’Ordine Teutonico Eustachius von Felben si conclude con La setta dei mantelli neri. E’ una saga avvincente, ambientata nel XIII secolo, in cui rifulge la figura di questo monaco guerriero alle prese dapprima con i mongoli, poi con i russi di Alexander Nevsky e ora con la rivolta dei già assoggettati e convertiti al cristianesimo Galindi, con l’aggiunta di una terribile setta, quella dei Mantelli neri, che ha la sua base in un’isola di uno dei laghi Masuri, dove uno sciamano compie rituali arcaici e sacrifici umani. Per riassoggettare i Galindi occorre eliminare questa entità del male, impresa ardua, difficilissima, ma se l’incarico di una missione quasi impossibile viene affidato a Eustachius von Felben si può essere certi che i risultati non potranno che essere positivi. Fra battaglie all’ultimo sangue, fughe nella foresta, marce negli acquitrini dei laghi Masuri si sviluppa questa nuova storia che completa e segna l’epilogo appunto della trilogia, perché  Eustachius riuscirà nell’impresa, pur restando gravemente ferito, al punto da formulare un voto nel caso di sua sopravvivenza e cioè basta sangue e battaglie, ma l’inderogabile necessità di trascorrere gli ultimi anni di un’esistenza bellicosa nel silenzio e nella preghiera. E dato che il nostro eroe si salverà, appare ovvio che non ci saranno altri romanzi con lui protagonista. Ce ne duole, perché il personaggio è riuscito, desta simpatia e rispetto, è in grado di esercitare un ascendente non solo sui confratelli, ma anche sul lettore, pagina dopo pagina sempre più avvinto dal protagonista e dalla storia narrata. Guido Cervo ha indubbiamente una grande inventiva, ma non gli difettano altre doti, perché riesce a ricreare perfettamente ambiente e atmosfera e, attento anche ai particolari, affianca a Eustachius figure perfettamente delineate che suscitano immediate simpatie, oppure un vivo sdegno, a seconda che si tratti di amici e alleati, oppure di nemici. Se al romanzo non si può chiedere troppo, perché in presenza di una storia avvincente non c’è molto spazio per contenuti rilevanti, senza che però vi sia banalità e anzi troviamo una generica ma ferma condanna della guerra, è altrettanto vero che le ore scorrono veloci, come la lettura, senza che ci sia un momento di affaticamento, e che alla fine ci si senta appagati, consapevoli di aver trascorso piacevolmente un po’ del nostro tempo.

Guido Cervo vive e lavora a Bergamo. È autore di romanzi di successo, tutti pubblicati da Piemme, tra cui "La trilogia del Legato romano", che ora viene riproposta, nel suo primo volume, in una nuova versione, la serie Il Teutone e due romanzi che affrontano i tragici conflitti mondiali del Novecento: Via dalla trincea e Bandiere rosse, aquile nere.
Renzo Montagnoli 

 

14 Ottobre

Garibaldi.

Battaglie, amori, ideali di un cittadino del mondo

di Alfonso Scirocco

Laterza Editori

Saggistica  biografia

 

Un grande eroe romantico

Il nostro è uno strano paese, in cui imperano i controsensi, come nel caso di Garibaldi, conosciuto e ammirato in tutto il mondo come pochi altri nostri connazionali, quali Dante e Leonardo; da noi invece sono pochi quelli che hanno un’idea precisa del valore di quest’uomo, perché i più o hanno una conoscenza superficiale o più facilmente un totale disinteresse, per non parlare di una certa corrente, cresciuta negli ultimi anni in meridione, che contestando in toto la storia del nostro risorgimento finisce con l’attribuire al nostro buon Giuseppe mancanze che proprio non aveva, dipingendolo come un feroce criminale. Indubbiamente il fatto che il suo difetto più grande fosse quello di essere onesto non è sopportabile per chi è disonesto almeno intellettualmente e che, anziché cercare di arrivare alla verità, magari anche  facendo passare pagliuzze per travi, preferisce denigrare senza il benché minimo straccio di prova un personaggio che tanti storici italiani e stranieri, seri, cioè non improvvisati, invece descrivono in modo ampiamente positivo. Ed è questo il caso del napoletano Alfonso Scirocco, professore emerito dell’Università di Napoli Federico II, con questa biografia, rigorosamente documentata, e raccontata con lo scopo di farne un’ampia divulgazione e nel complesso di piacevole lettura. Credevo di sapere quasi tutto di Giuseppe Garibaldi, ma mi sono dovuto ricredere, perché le mie conoscenze erano e sono soprattutto quelle legate al risorgimento italiano, mentre del Garibaldi che si batté per la libertà di altri popoli nell’America Meridionale  sapevo qualcosa, ma comunque non in misura tale da poter inquadrare in modo compiuto il nostro generale, nella circostanza più che altro ammiraglio, avendo condotto, e in ciò regolarmente dotato di apposita patente, la guerra di “corsa”. Chi lo denigra dice a sproposito che era un bandito, un pirata, ma non è assolutamente vero, perché depredava i mercantili nemici, consegnando la merce al governo che gli aveva dato l’incarico e non tenendo certo nulla per sé, visto che sovente gli capitò di vivere in stato di notevole indigenza. Eroe dei due mondi è quindi un epiteto perfettamente adeguato al personaggio, un vero e proprio eroe senza ideologie, ma animato solo da ciò che sentiva naturalmente dentro se stesso, finendo così per rappresentare in modo esemplare il mito romantico. Brasile, Uruguay, Argentina, Europa, ovunque andasse era un uomo ammirato anche dai nemici, ma forse non sapeva che i peggiori nemici sarebbero venuti soprattutto un po’ più di un secolo dopo e nella sua amata Italia. Scirocco ha un alto concetto dell’uomo e del militare e riesce bene a darne una raffigurazione che può sembrare quella edificante di certi dipinti che lo ritraggono, ma non è per niente falsa, perché l’uomo riesce a essere protagonista sempre, nella buona e nella cattiva sorte, un esempio luminoso che desta immediata simpatia in tutti o quasi…, non dimenticando pertanto i cennati mestatori incapaci di dare sfogo in altro modo a delle latenti frustrazioni.

L’autore  sa essere storico preciso, corretto e puntuale, ma sa anche narrare, è in grado di avvincere dalla prima all’ultima pagina, cioè è in grado di istruire divertendo, e quindi la lettura di questo libro, più che consigliata, è raccomandata.

Alfonso Scirocco (Napoli, 1924 – Napoli, 22 settembre 2009) è stato uno storico italiano, grande studioso del nostro Risorgimento e professore emerito dell’università di Napoli Federico II.
Renzo Montagnoli 
 

 

6 Ottobre

Ama il prossimo tuo

di Erich Maria Remarque

Arnoldo Mondadori Editore S.p.A.

Narrativa romanzo storico

 

Una vita da migranti irregolari

Negli anni che di poco precedono lo scoppio della seconda guerra mondiale una variegata umanità è alla disperata ricerca di un luogo in cui sostare, liberi e senza timori; respinti da ogni paese, vivono quasi sulle frontiere gli ebrei tedeschi e gli oppositori del regime nazista, di volta in volta espulsi da Cecoslovacchia, Austria, Svizzera e Francia e sempre pronti a ripassare i confini degli stati, impauriti, impoveriti e privi di speranza, in una sorta di girone infernale. E’ di questi che parla Ama il prossimo tuo e in particolare di Kern, mezzo ariano e mezzo ebreo, di Ruth, solo ebrea, e di Steiner, un antinazista. Cacciati senza documenti dalla Germania non fanno altro che passare da Stato a Stato alla vana ricerca di un visto di soggiorno e di un permesso di lavoro; sopravvivono con il poco che hanno, si adattano ai lavori più umili e ognuno ha lasciato qualcosa in Germania, un familiare, un amico, il ricordo di tempi migliori. Kern e Ruth sono molto giovani e diventano amanti, un tenero e dolce amore che riesce a far apparire l’esistenza meno grama, Steiner, che è più anziano e che ha dovuto lasciare in patria l’amata moglie, uomo navigato e d’esperienza diventa il padre putativo di loro due. Le vicende della vita ogni tanto li allontanano, li separano, ma poi finiranno sempre con il ricongiungersi, come una famiglia i cui componenti, fuori casa per motivi di lavoro, si ritrovano la sera. Sono momenti di autentica gioia quando si rivedono e sempre Steiner stende le sue ali protettrici su quei due ragazzi, su quei compagni di sventura che ha entusiasticamente adottato. Dentro e fuori dalle prigioni dei vari stati  i periodi di detenzione sono l’occasione per conoscere altri sventurati come loro, ognuno con una sua storia ben definita; sarà tuttavia a Parigi, in una Parigi fervente di lavoro per l’Esposizione Universale che finiranno tutti quasi per darsi appuntamento e sarà così l’occasione per fare conoscenza di altri personaggi, come Moriz Rosenthal, per tutti Papà Moritz, anziano e malato, il simbolo dell’ebreo errante. Si vive alla giornata, qualche volta c’è anche un po’ di allegria, ma più spesso regna la malinconia, per quell’impossibilità di essere cittadini normali, per la condizione di essere migranti eternamente. A volte, però, può capitare che il cielo scenda sulla terra e che avvenga un autentico miracolo e così accade; infatti Kern e Ruth, grazie anche alla disponibilità di Steiner, potranno finalmente andare dove nessuno più li caccerà, una nota di speranza in un romanzo che ancora una volta testimonia le grandi qualità di scrittore di Erich Maria Remarque.

Erich Maria Remarque, combattente nella prima guerra mondiale, fu più volte ferito. Giornalista a Berlino, lasciò la Germania all’avvento del nazismo e nel 1939 si stabilì a New York, dove prese la cittadinanza americana. Raggiunse un vasto successo con il romanzo Niente di nuovo sul fronte occidentale (Im Westen nichts Neues, 1929), radicale condanna della guerra e amara analisi delle sue spaventose distruzioni materiali e spirituali. Seguirono, sempre ispirati a ideali pacifisti e di solidarietà umana, Tre camerati (Drei Kameraden, 1938), Ama il prossimo tuo (Liebe deinen Nächsten, 1941), Arco di trionfo (Arc de Triomphe, 1947), Tempo di vivere, tempo di morire (Zeit zu leben und Zeit zu sterben, 1954), La notte di Lisbona (Die Nacht von Lissabon, 1963) e Ombre in paradiso (Schatten im Paradies, postumo, 1971). Numerosi romanzi di R. sono stati ridotti per il cinema.
Renzo Montagnoli 
 

 

3 Ottobre

L’Agnese va a morire

di Renata Viganò

Edizioni Einaudi

Narrativa romanzo storico

 

Che cosa è stata la Resistenza

Nella sua introduzione Sebastiano Vassalli scrive fra l’altro: “L'Agnese va a morire è una delle opere letterarie più limpide e convincenti che siano uscite dall'esperienza storica e umana della Resistenza. Un documento prezioso per far capire che cosa è stata la Resistenza [...]”. Sono d’accordo, tanto più che in copertina, se pur a caratteri ridotti, c’è una frase che ritengo determinante per comprendere la portata di questo libro: “Per non dimenticare che cosa è stata la Resistenza”. Sì, perché al di là della purtroppo ricorrente retorica con cui ai giorni nostri viene commemorato questo vasto movimento di popolo i giovani non sanno che cosa sia stata la Resistenza e, francamente occorre ammetterlo, questa lacuna è spesso presente non solo nella precedente generazione, peraltro nata nell’immediato dopo guerra, ma anche chi per età anagrafica è stato testimone della stessa. E così libri come “La messa dell’uomo disarmato” di Luisito Bianchi e questo L’Agnese va a morire di Renata Viganò, rappresentano due scrigni preziosi il cui contenuto è da assaporare con lentezza, quasi centellinandolo, ma alla fine le idee saranno più chiare e sarà possibile comprendere veramente ciò che è stata e ciò che ha rappresentato la Resistenza. Agnese, un’umile lavandaia, che lavora anche per il marito Palita, impossibilitato a sostenere il lavoro dei campi in quanto di salute cagionevole, è un essere umano, anche poco istruito, ma che è in grado di comprendere ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, ciò che è bene e ciò che è male, per puro istinto. Indifferente alla guerra, all’occupazione tedesca, quando i nazisti le strapperanno il marito, comunista, per avviarlo al lager (morirà nel corso del viaggio) si trasforma e adesso che sa da che parte sta il bene e da che parte sta il male inizierà a sconvolgere la sua esistenza nella consapevolezza di essere nel giusto. Non è un’idea politica che la guida, è molto di più, è la ribellione della sua coscienza che le impone di dedicarsi anima e corpo alla lotta partigiana, che la porta a considerare quei ragazzi che così tanto rischiano come i figli che non ha mai avuto; il suo istinto, al riguardo, è come quello del contadino che sa quando è l’ora di procedere all’aratura o di seminare. Massiccia, con il cuore affaticato, Agnese è uno di quei personaggi che incontrati per strada paiono insignificanti, ma che conosciuti bene si rivelano straordinari, gente che non esita a sacrificarsi per qualcosa che sentono molto al di sopra di loro. La sua morte non ha nulla di eroico (di lei rimane solo un mucchio di stracci neri sulla neve), non si è immolata in un’azione disperata, non ci saranno medaglie alla memoria, eppure quella morte vale più di una battaglia vinta, perché in quella conclusione a cui eravamo preparati c’è tutto lo spirito di sacrificio di una donna che ha anteposto la libertà alla sua vita.

L’Agnese va a morire è semplicemente un romanzo stupendo che resta nel cuore.

Renata Viganò (Bologna, 17 giugno 1900 – Bologna, 23 aprile 1976), non potendo terminare gli studi di medicina per difficoltà economiche, lavorò a lungo come infermiera, dedicando il tempo libero alla stesura di poesie e racconti. L'esperienza partigiana, vissuta in prima linea assieme al marito, le ispirò il romanzo per cui è divenuta celebre nel mondo: L'Agnese va a morire.
Renzo Montagnoli 

 

28 Settembre

L’avventura di un povero crociato

di Franco Cardini

Arnoldo Mondadori Editore S.p.A.

Narrativa romanzo storico

 

Deus lo volt

L’autore si è premurato di stilare una Nota per il lettore che, anziché essere riportata inizio dell’opera, si trova inspiegabilmente alla fine della stessa, un’allocazione che impedisce a chi si accinge a iniziare la lettura di comprendere di cosa si parlerà. Per brevità ne riporto uno stralcio.”La chiave di questo libro sta in un documento. Non si tratta della solita invenzione letteraria, il manoscritto dell’anonimo cui si sono in tempi diversi riferiti Chrétien de Troyes, Alessandro Manzoni e Umberto Eco. No. Qui il documento è autentico, e conservato nell’Archivio di Stato di Firenze. Parla di un viaggio alla fine dell’XI secolo – la prima crociata? - compiuto verso la Terrasanta dal conte Guido, antenato di quella gran dinastia  dei Guidi di Casentino che avrebbe offerto, due secoli dopo, generosa ospitalità a Dante. Conosciamo anche il nome di un accompagnatore del conte alla crociata: Rimondino di Donnuccio. Solo un nome, nient’altro”. Ora, un narratore che avesse per le mani una simile opportunità finirebbe inevitabilmente per dare spazio alla migliore e più ampia fantasia, dando vita a un romanzo epico, magari avvincente, anche se poco credibile, impregnato di tutti gli stereotipi propri delle guerre in nome della religione. Cardini, però, è innanzitutto uno storico che insegna all’Università di Firenze, abituato a cercare di avvicinarsi il più possibile alla verità, lasciando poco spazio all’inventiva e allora ha pensato di utilizzare lo spunto del manoscritto in una chiave del tutto diversa, volta a erudirci sulla storia in modo piacevole, e così anziché scrivere un saggio storico, oppure un romanzo storico, ha di fatto confezionato un riuscitissimo romanzo fedele alla storia. Le lotte nel papato, con la contemporanea presenza di due pontefici, le torme di pellegrini che anelano di recarsi a Gerusalemme, irretiti dalle predicazioni di Pietro l’Eremita (quello famoso per il suo motto Deus lo volt, cioè Dio lo vuole), i signori, con i loro armati, mossi, tranne pochi casi, più dal desidero di conquista che da un autentico spirito religioso, il lungo viaggio da Clermont Ferrand, attraverso l’Italia, l’imbarco a Bari e a Brindisi, dopo la sosta a Roma, l’incontro con l’imperatore bizantino Alessio I Comneno, il passaggio in Anatolia, le mille battaglie per andare avanti, i sotterfugi, i tradimenti,le violenze e il sangue profuso si snodano nelle numerose pagine del libro, dandoci una miriade di notizie, relative anche a come si viveva in una certa epoca e in determinati luoghi, insomma per farla breve L’avventura di un povero crociato è una miniera di informazioni che si assimilano facilmente avvinti dagli eventi che si susseguono.

La figura dell’accompagnatore del conte Guido, cioè Rimondino di Donnuccio, è una presenza non ingombrante, ma essenziale all’opera. E’ con abilità che l’autore ci tratteggia questo giovane suddito,  circondandolo anche di un alone di mistero a tutto beneficio della narrazione. Con Rimondino il romanzo inizia e con lui finisce; è un personaggio a suo modo semplice e complesso, un testimone imparziale di un grande evento quale fu quella prima crociata. Sappiamo anche che era luparo, cioè di professione cacciatore di lupi,  e illibato fino a Bari, ove, prima di imbarcarsi, ebbe una prima esperienza sessuale; di poche parole, osservava e registrava, imparava ascoltando e vedendo; invecchiò precocemente per gli stenti e  i tormenti delle battaglie, un uomo alla fine consapevole di aver vissuto l’avventura più grande della sua vita, quella che di per se stessa sintetizza un’esistenza, tanto che dopo tutto apparirà diverso, grigio e senza stimoli. Le ultime pagine sono dedicate a lui e sono di sublime bellezza.

Da leggere? Certamente, perché si tratta di un’opera stupenda.

Franco Cardini è professore ordinario di Storia medievale presso l'Università di Firenze, e come giornalista collabora alle pagine culturali di vari quotidiani. Professore Emerito dell'Istituto Italiano di Scienze Umane alla Scuola Normale Superiore di Pisa, da mezzo secolo si occupa di crociate, pellegrinaggi, rapporti tra Europa cristiana e Islam, anche trascorrendo lunghi periodi di studio e insegnamento all'estero.

Ha fatto parte dei consigli d'amministrazione di Cinecittà e della Rai. 
La sua produzione di saggi storici, sia specialistici che divulgativi, è copiosissima. Tra questi ricordiamo L'avventura di un povero crociato(Mondadori, 1998), Giovanna D'Arco (Mondadori, 1999), I Re Magi. Storia e leggende (Marsilio, 2000), Il Medioevo (Giunti Junior, 2001), Carlo Magno. Un padre della patria europea (Laterza, 2002), Europa e Islam. Storia
di un malinteso (Laterza, 2002), Astrea e i Titani. Le lobbies americane alla conquista del mondo (Laterza, 2003), Il Barbarossa (Mondadori, 2006), Lawrence d'Arabia (Sellerio, 2006), La vera storia della Lega Lombarda(Mondadori, 2008), I templari (Giunti, 2011), GerusalemmeUna storia (Il Mulino, 2012) Alle origini della cavalleria medievale (Il Mulino, 2014), L'appetito dell'Imperatore. Storie e sapori segreti della Storia (Mondadori, 2014), Il califfato e l'Europa. Dalle crociate all'ISIS: mille anni di paci e guerre, scambi, alleanze e massacri (UTET, 2015), Un uomo di nome Francesco. La proposta cristiana del frate di Assisi e la risposta rivoluzionaria del papa che viene dalla fine del mondo (Mondadori, 2015), Onore (Il Mulino, 2016), I Re Magi (Marsilio 2017).
Firma inoltre molti libri di storia per i licei e numerose monografie sulla sua città natale, Firenze.
Renzo Montagnoli 

 

25 Settembre

Il Sorcio

di Georges Simenon

Traduzione di Simona Mambrini

Edizioni Adelphi

www.adelphi.it

Narrativa romanzo giallo

 

C’è Lucas, ma non Maigret

Pare incredibile, ma in questo romanzo c’è un’indagine del Quai des Orfèvres che non è condotta da Maigret, ma dai suoi ben noti aiutanti, Lucas in primis. Probabilmente Simenon ha voluto concedere un indispensabile periodo di riposo al suo ben noto commissario e si è inventato questo giallo che, prima ancora di stupire per l’assenza di colui che ha costituito un’autentica fortuna per il suo creatore, si presenta come un frizzante gioco a incastri con un personaggio del tutto particolare e, a suo modo, simpatico. Sì, perché quel vagabondo sempre in movimento trascinando una gamba e che è conosciuto con il nomignolo di “Sorcio” è  un individuo che, per quanto respinto ai limiti della società, ha una personalità che non può che renderlo interessante. Gli altri protagonisti del corpo di polizia ci sono ben noti, dall’ora commissario Lucas a quel testone di Lorgnon e quindi la novità è rappresentata appunto dal Sorcio che nel suo peregrinare e mendicare si imbatte in un portafoglio ben fornito, con una somma tale da costituire una garanzia per un’agiata vecchiaia.  L’averlo rinvenuto sembrerebbe quindi una fortuna se non ci fosse un piccolo particolare e cioè che accanto a quell’oggetto così prezioso c’era un cadavere, anzi un morto ammazzato. Il Sorcio non si perde d’animo e mette in atto un piano assai articolato in base al quale quella somma che ora porta alla polizia, senza ovviamente far menzione del cadavere, da lì a un anno ritornerebbe nelle sue mani. Inizia così una storia ricca di colpi di scienza, di ipotesi che nascono nella mente del lettore e che vengono puntualmente disattese, una vicenda che sale agli ultimi piani dell’alta finanza per scendere anche ai bassifondi della città, in un susseguirsi di sorprese che riescono a mantenere alta la tensione, almeno fino alla soluzione finale, non campata in aria, ma, secondo me, non all’altezza dell’intrigo impostato. Comunque il divertimento è assicurato e quindi la lettura è senz’altro consigliata.

Georges Simenon, romanziere francese di origine belga. La sua vastissima produzione (circa 500 romanzi) occupa un posto di primo piano nella narrativa europea. 
Grande importanza ha poi all'interno del genere poliziesco, grazie soprattutto al celebre personaggio del commissario Maigret. 
La tiratura complessiva delle sue opere, tradotte in oltre cinquanta lingue e pubblicate in più di quaranta paesi, supera i settecento milioni di copie. Secondo l'Index Translationum, un database curato dall'UNESCO, Georges Simenon è il quindicesimo autore più tradotto di sempre. 
Grande lettore fin da ragazzo in particolare di Dumas, Dickens, Balzac, Stendhal, Conrad e Stevenson, e dei classici. Nel 1919 entra come cronista alla «Gazette de Liège», dove rimane per oltre tre anni firmando con lo pseudonimo di Georges Sim. 
Contemporaneamente collabora con altre riviste e all'età di diciotto anni pubblica il suo primo romanzo. 
Dopo la morte del padre, nel 1922, si trasferisce a Parigi dove inizia a scrivere utilizzando vari pseudonimi; già nel 1923 collabora con una serie di riviste pubblicando racconti settimanali: la sua produzione è notevole e nell'arco di 3 anni scrive oltre 750 racconti. Intraprende poi la strada del romanzo popolare e tra il 1925 e il 1930 pubblica oltre 170 romanzi sotto vari pseudonimi e con vari editori: anni di apprendistato prima di dedicarsi a una letteratura di maggior impegno. 
Nel 1929, in una serie di novelle scritte per la rivista «Détective», appare per la prima volta il personaggio del Commissario Maigret. 
Nel 1931, si avvicina al mondo del cinema: Jean Renoir e Jean Tarride producono i primi due film tratti da sue opere. 
Con la prima moglie Régine Renchon, intraprende lunghi viaggi per tutti gli anni trenta. Nel 1939 nasce il primo figlio, Marc. 
Nel 1940 si trasferisce a Fontenay-le-Comte in Vandea: durante la guerra si occupa dell'assistenza dei rifugiati belgi e intrattiene una lunga corrispondenza con André Gide. A causa di un'errata diagnosi medica, Simenon si convince di essere gravemente malato e scrive, come testamento, le sue memorie, dedicate al figlio Marc e raccolte nel romanzo autobiografico Pedigree
Accuse di collaborazionismo, poi rivelatesi infondate, lo inducono a trasferirsi negli Stati Uniti, dove conosce Denyse Ouimet che diventerà sua seconda moglie e madre di suoi tre figli. Torna in Europa negli anni Cinquanta, prima in Costa azzurra e poi in Svizzera, a Epalinges nei dintorni di Losanna. 
Nel 1960 presiede la giuria della tredicesima edizione del festival di Cannes: viene assegnata la Palma d'oro a La dolce vita di Federico Fellini con cui avrà una lunga e duratura amicizia. Dopo pochi anni Simenon si separa da Denyse Ouimet. 
Nel 1972 lo scrittore annuncia che non avrebbe mai più scritto, e infatti inizia l'epoca dei dettati: Simenon registra su nastri magnetici le parole che aveva deciso di non scrivere più. Nel 1978 la figlia Marie-Jo muore suicida. Nel 1980 Simenon rompe la promessa fatta otto anni prima e scrive di suo pugno il romanzo autobiografico Memorie intime, dedicato alla figlia. 
Georges Simenon muore a Losanna per un tumore al cervello nel 1989.

Le opere:
"Spesso i romanzi di Simenon si discostano dagli schemi dell’inchiesta per tracciare suggestivi ritratti psicologici e per evocare con efficacia l’atmosfera grigia e stagnante della provincia francese. Fra i temi ricorrenti, che danno una singolare unità a una produzione sterminata, il maggiore è quello della solitudine, che si accompagna a quello della suprema stanchezza di fronte al male e alla sconfitta" (Garzantina della Letteratura, 2007). 
Ricordiamo Il caso Saint-Fiacre (Adelphi, 1996), Il testamento Donadieu (Adelphi 1988), Una confidenza di Maigret (Mondadori, 1982), Maigret e il signor Charles (Mondadori, 1994),  La balera da due soldi (Adelphi, 1995), Le signorine di Concarneau (Adelphi, 2013), Faubourg (Adelphi, 2013), L'angioletto (Adelphi, 2013), I fratelli Rico (Adelphi, 2014), I clienti di Avrenos (Adelphi, 2014), Il grande male (Adelphi, 2015), Cargo (Adelphi, 2017).
Renzo Montagnoli 
 

 

21 Settembre

Il nome del padre

di Flavio Villani

Neri Pozza Editore

Narrativa romanzo giallo 

 

Avvincente e di grande qualità

Fa caldo, quel caldo umido opprimente della pianura padana quando mi accingo a iniziare a leggere questo romanzo e subito, già dalle prime pagine, mi trovo in un caldo analogo, asfissiante come può essere quello di un Ferragosto a Milano, quando il cemento dei palazzi e l’asfalto delle strade amplifica la sensazione di mancanza d’aria, quando i miasmi delle fognature si riversano sui marciapiedi, risalgono i muri e penetrano nelle indifese finestre spalancate. Corre l’anno 1972 e nel deposito bagagli della stazione Centrale aleggia un crescente tanfo di putrefazione, tanto che l’impiegato va alla disperata ricerca di quello che ipotizza essere un topo da chiavica morto, ma quella puzza nauseante proviene da una valigia che, una volta aperta, rivela un cadavere a pezzi. Chi sarà mai la vittima, chi sarà l’assassino? Il caso viene affidato al giovane vice ispettore Cavallo, con poca esperienza, ma tanta buona volontà e soprattutto un gran desiderio di giustizia. Nonostante tutto resterà un delitto insoluto fino a quando, una trentina di anni dopo, il vice ispettore, diventato nel frattempo commissario, un uomo disilluso dalla vita, coglie nella vice ispettrice Valeria Salemi, da poco arrivata, quella determinazione e quella volontà di sapere che lo avevano animato quando lui era alle prime armi.  Con il suo aiuto verrà a capo di quell’omicidio irrisolto, il cui colpevole non finirà dietro le sbarre perché morirà per un attacco cardiaco. Si conclude così uno dei più bei gialli che mi sia capitato di leggere e se giungere alla soluzione ha costituito per me una vera e propria attrazione pur tuttavia ha comportato anche un certo dispiacere, perché quando un libro è scritto bene, quando è ricco di contenuti e riesce a far immedesimare il lettore in qualcuno dei suoi protagonisti  non può essere che un’opera di notevole pregio. Arrivati all’ultima pagina e chiudere il libro se da un lato è motivo di soddisfazione per la certezza di aver letto qualcosa di valore, dall’altro è causa di un certo dispiacere, perché allontanarsi da una certa atmosfera, non essere più accanto a protagonisti come Cavallo, ci rende inevitabilmente esangui, come se fossimo privati di colpo di uno dei non certo molti piaceri della nostra vita. Per quanto concerne la trama che si sviluppa in un arco di tempo che addirittura va dagli ultimi anni di guerra all’inizio del secolo corrente non intendo aggiungere altro, sia perché fitta come è di eventi correrei il rischio di disorientare il lettore, sia soprattutto perché non intendo togliere il piacere della scoperta. Fra l’altro questo è uno dei rari libri in cui è difficile trovare un difetto, tanti sono i pregi, a cominciare dallo stile, dall’impostazione della struttura, alla capacità di ricreare con poche misurate parole ambiente e atmosfera, nonché all’indubbia abilità nel sondare l’animo umano, nello scavare nei personaggi, rivoltandoli come un guanto. Il nome del padre, pertanto, non è solo un romanzo riuscito, ma è in grado di andare oltre la tipicità del genere, in perfetto equilibrio fra suspense e indagine intimistica, tanto da poterlo considerare, almeno da parte mia, un vero e proprio capolavoro.   

Flavio Villani è nato a Milano nel 1962. Neurologo, ha lavorato negli Stati Uniti come ricercatore nel settore della neurofisiologia. Come scrittore ha esordito con L’ordine di Babele (2013, Laurana). Il nome del padre è il suo primo romanzo poliziesco.
Renzo Montagnoli 

 

19 Settembre

La bastarda degli Sforza

di Carla Maria Russo

Edizioni Piemme

www.edizpiemme.it

Narrativa romanzo storico

 

Una vera e propria tigre

Figlia naturale del depravato Galeazzo Maria Sforza, duca di Milano, e di Lucrezia Landriani, moglie di un uomo di corte, Caterina Sforza (Milano, 1463 – Firenze, 28 maggio 1509) si fece notare fin da giovane per il suo carattere ribelle e per la sua passione per le armi (quest’ultima verrà poi trasmessa al figlio Ludovico di Giovanni de’ Medici, più conosciuto con il nome di Giovanni dalle Bande Nere). Divenne signora di Imola e contessa di Forlì, dapprima con il marito Girolamo Riario, nipote di Papa Sisto IV, e, dopo l’uccisione di questi in una congiura cittadina, in qualità di reggente del figlio primogenito Ottaviano. Fu proprio nella veste di reggente che di distinse in modo particolare, comandando a tutti gli effetti e dimostrando una fermezza eccezionale. Dopo un secondo matrimonio con il giovane Giacomo Feo, che finì pure lui vittima di una congiura, Caterina sposò l’ambasciatore della Repubblica di Firenze Giovanni de’ Medici, detto il Popolano, membro di una ramo collaterale della nota famiglia fiorentina. Anche il terzo marito, tuttavia, morì, questa volta però per malattia. Divenuta così nuovamente vedova si trovò al centro delle azioni volute da Alessandro VI, il famoso Borgia, per la conquista dell’Italia; in particolare dovette fronteggiare l’alleato esercito francese calato in Italia e che già aveva sottomesso Milano, poi ripresa dagli Sforza grazie agli Austriaci. Lo scontro vero e proprio però avvenne con il figlio del Papa, il Valentino, che, posta sotto assedio e infine occupata Imola, rivolse la sua attenzione a Forlì, dove Caterina, asserragliata nella fortezza di Ravaldino, tenne a lungo testa  agli aggressori, fino alla capitolazione e la successiva prigionia a Roma fino al 30 giugno 1501, quando, liberata dai francesi di passaggio per la conquista del Regno di Napoli, si ritirò a Firenze nelle proprietà del marito Giovanni e lì si spense il 28 maggio 1509. Personaggio indubbiamente interessante, battagliero, in un’epoca densa di avvenimenti come quella del pontificato di Alessandro VI, assunse al ruolo di eroina non solo agli occhi del popolo che le diede il soprannome di Tigre, ma anche di suoi illustri contemporanei, fra i quali il Machiavelli. E proprio Caterina Sforza è la protagonista del bel romanzo storico La bastarda degli Sforza, scritto con felice estro da Carla Maria Russo. La narratrice, che si è avvalsa di ampie e meticolose ricerche storiche, è stata brava nel riproporci un mondo in cui l’essere donna significava normalmente essere schiava dell’uomo, e non importava che si trattasse di una popolana e di una nobile. In particolare il libro riesce a trasmettere l’immagine di un personaggio che, dietro la finezza dei lineamenti e la dolcezza dello sguardo come appare nel suo presunto ritratto “La dama dei gelsomini” di Lorenzo di Credi, cela un carattere indomito, forte e deciso ad affermarsi, un’autentica Signora a tutti gli effetti di uno Stato, anche se piccolo, come infatti ebbe a dimostrare. Ho l’obbligo però di muovere un appunto, perché la narrazione si interrompe improvvisamente quando Caterina riesce a riparare nella fortezza di Ravaldino, lasciando i figli e i familiari alla mercé del Valentino.  E’ vero che in una breve nota Carla Maria Russo si impegna solennemente a scrivere il seguito della storia, ma ho avuto netta l’impressione di una porta che mi fosse stata sbattuta in faccia. Posso comprendere le esigenze dell’editore, ma resta il fatto che questo comportamento è censurabile e che influisce non poco sul giudizio complessivo dell’opera.

Da leggere, comunque.

Carla Maria Russo, vive e lavora a  Milano. È appassionata di ricerca storica e adora le biblioteche, dove trascorre parecchio tempo. Divora libri e fa abuso di cioccolato (fondente). Per Piemme ha pubblicato La sposa NormannaIl cavaliere del giglio, L’amante del dogeLola nascerà a diciott’anni e La regina irriverente.
Renzo Montagnoli 

 

16 Settembre

Il Teutone. La battaglia sul lago ghiacciato

di Guido Cervo

Edizioni Piemme

Narrativa romanzo storico

 

La disfatta dei Teutoni

Secondo romanzo della trilogia dedicata al cavaliere dell’Ordine Teutonico Eustachius Karl Ludvig von Felben, La battaglia sul lago ghiacciato vede questa volta lo scontro non fra religioni diverse, ma fra cristiani cattolici e cristiani ortodossi. Il movente religioso, vale a dire la guerra agli scismatici russi per riportali nell’alveo della Chiesa di Roma è solo l’aspetto ufficiale, perché in realtà si tratta dei soliti giochi di potere e più in particolare di quell’ulteriore espansione a Est che ha sempre animato l’Ordine Teutonico. Stranamente, il protagonista, vale a dire Eustachius, entra in scena a narrazione già avanzata, con il compito di scorta a un diplomatico dell’Ordine nell’intento di stilare la pace con il capo dei Russi, vale a dire con il celebre Aleksandr Jaroslavich Nevskij, principe della Repubblica di Novgorod e da molti di noi ben conosciuto grazie allo stupendo film Aleksandr Nevskij del regista sovietico Ejzenstejn, film noto anche per la grandiosa colonna sonora di Sergej Prokof’ev. La pellicola è fra l’altro caratterizzata da una spettacolare battaglia su un lago ghiacciato, nelle cui acque, al rompersi del ghiaccio stesso, finiranno diversi cavalieri teutonici.

Cervo, come al solito ben documentato e fedele fin dove possibile alla realtà storica, intrattiene il lettore con un’opera in cui grande risalto hanno, oltre alle scene di battaglia, anche il panorama invernale, le atmosfere rarefatte, i dubbi che cominciano ad affiorare nel monaco soldato Eustachius, un insieme di aspetti che caratterizzano positivamente il romanzo che ha il suo indubbio punto di forza nella descrizione della battaglia sul lago ghiacciato. Pur essendo un’opera di svago tuttavia certe riflessioni di carattere religioso, taluni dubbi che sorgono nei protagonisti ne fanno anche un romanzo che si propone di porre in evidenza quanto sia ancor più dissennata una guerra per motivi religiosi e come appaia illogico che in nome della cristianità si possano uccidere altri esseri umani. Se il primo della trilogia (La croce perduta) mi aveva avvinto, questo, oltre ad attrarmi, mi ha convinto sulle qualità indubbie dell’autore, che del resto avevo già sperimentato in altre due sue opere di ambientazione storica assai più recente (I ponti della Delizia e Bandiere rosse, aquile nere).

Il mio consiglio, pertanto, è di leggerlo, più che certo che possa risultare di ampio gradimento.  

Guido Cervo vive e lavora a Bergamo. È autore di romanzi di successo, tutti pubblicati da Piemme, tra cui "La trilogia del Legato romano", che ora viene riproposta, nel suo primo volume, in una nuova versione, la serie Il Teutone e due romanzi che affrontano i tragici conflitti mondiali del Novecento: Via dalla trincea e Bandiere rosse, aquile nere.
Renzo Montagnoli 
 

 

9 Settembre

Alpi di guerra, Alpi di pace.

Luoghi, volti e storie della Grande Guerra sulle Alpi

di Stefano Ardito

Edizioni Corbaccio

Storia

 

Le Alpi in guerra e in pace

Quest’anno ricorre il centenario della fine della Grande Guerra, l’ultima guerra di indipendenza, secondo la tesi di alcuni storici che tuttavia considero semplicistica e volta a sviare l’attenzione da quello che a tutti gli effetti fu un conflitto di aggressione a una nazione ex alleata. Il nostro fronte, all’incirca dal massiccio dell’Ortles fino a poco più a nord della foce del Tagliamento, correva per lo più in montagna, a tratti su rilievi molto alti, altre volte su alture un po’ meno svettanti verso il cielo e se è vero che la maggior parte dei soldati di ambo le parti fu impegnata sul basso e tormentato Carso, resta però il fatto che più di un’armata ebbe a combattere sui monti, spesso a quote elevate.

Di questi scontri su scenari spesso di sconvolgente bellezza ci parla Alpi di guerra, Alpi di pace, un riuscito libro di Stefano Ardito che presenta una particolare caratteristica che non potrà che riuscire gradita ai lettori. Infatti, i vari capitoli in cui si compone l’opera parlano di tratti di particolare interesse del fronte e descrivono ciò che avvenne, le battaglie che si combatterono, per poi, ogni volta, tornare ai giorni nostri sui luoghi della contesa, fornendo preziose indicazioni per mettere i piedi  laddove un centinaio di anni fa italiani e austriaci si combatterono, spesso ferocemente. Se a volte queste località sono difficilmente accessibili a chi non ha pratica di alpinismo a livelli elevati, come nel caso del Corno di Cavento nel Gruppo Adamello-Presanella, altre invece sono raggiungibili anche da anziani e bambini, come Monte Piana, vicino alle Tre cime di Lavaredo. Per chi è appassionato di montagna come me è stato un vero piacere leggere le descrizioni dei posti, dei percorsi, delle viste panoramiche che si possono avere da alcune cime, ma se la montagna è il palcoscenico, gli attori di quella tragedia umana che è la guerra sono presenti sempre in queste pagine, a volte visi anonimi, altre personaggi che loro malgrado sono diventati noti; mi è piaciuto constatare che Ardito guarda questi protagonisti con occhi di pietà, siano essi alpini, siano Kaiserjager, il che non esclude che sappia vedere con realismo e che, libero da qualsiasi tendenza retorica, una volta per tutte dica delle verità che nei libri scolastici non sono presenti, vale a dire la totale incapacità e indifferenza per la vita umana dei nostri comandi superiori che immolarono tante vite inutilmente, così come evidenzia giustamente che a fronte di uno sparuto gruppo di irredenti trentini la stragrande maggioranza degli abitanti del Sud Tirolo di lingua italiana era fedele al suo imperatore e all’Austria.

Alpi di guerra, Alpi di pace è un libro che merita senz’altro di essere letto.  

Stefano Ardito è fotografo, regista di documentari, autore di numerosi libri sulle montagne d’Italia e del mondo, escursionista, alpinista, viaggiatore (ha percorso i sentieri delle montagne di tutto il mondo tra cui Himalaya, Karakorum, Borneo, montagne dell'Africa, Messico, Aconcagua, Patagonia, parchi degli USA e del Canada, massicci del Mediterraneo ecc.). È una delle firme più note del giornalismo di montagna e di viaggi italiano; i suoi reportage e le sue inchieste sono stati pubblicati da «Airone», «Repubblica», «Il Venerdì», «Alp», «Meridiani» e «Specchio», settimanale de «La Stampa». Oggi scrive per «Il Messaggero», «Meridiani Montagne», «Qui Touring», «Plein Air» e altre testate. Ha collaborato come autore a vari programmi Rai (tra questi Wilderness - La nostra Terra, presentato da Reinhold Messner), ha partecipato come ospite o consulente a Linea VerdeTesori di famiglia Senti la montagna e i suoi documentari sono andati in onda per vent’anni nel programma quotidiano Geo&Geo. In seguito all'esperienza di presentatore, si è dedicato alla realizzazione di documentari, prima come consulente e co-autore, e poi come regista.
Tra le sue ultime pubblicazioni ricordiamo: Il gigante sconosciuto. Storie e segreti del Kangchenjunga, il terzo Ottomila (Corbaccio, 2016), Alpi di guerra, Alpi di pace (Corbaccio, 2015), vincitore del Premio Cortina Montagna 2015, Le grandi scalate che hanno cambiato la storia della montagna (Newton Compton, 2014), La grande avventura (Corbaccio, 2013), 101 luoghi archeologici d’Italia dove andare almeno una volta nella vita (Newton Compton, 2013), 101 storie di montagna che non ti hanno mai raccontato (Newton Compton, 2011).
Negli anni ha ideato (o collaborato a ideare) numerosi itinerari di trekking attraverso l’Italia come i quattro percorsi commissionati e pubblicati da «Airone» (Siena-Argentario, Conero-Sibillini, Pavia-Portofino e Roma-Circeo), il tratto laziale del Sentiero Italia e il sentiero Firenze-Roma, inaugurato nel 1996. È stato tra gli ideatori e i promotori del Sentiero Italia, il percorso che attraversa le Alpi, l’Appennino e le isole maggiori, ancora in parte incompiuto.
Renzo Montagnoli 

 

6 Settembre

Le belle Cece

di Andrea Vitali

Garzanti Libri

Narrativa 

 

Una storia di mutande

La presenza del Maresciallo dei Reali Carabinieri Maccadò è una garanzia, nel senso che improntare la narrazione a una sia pur tenue venatura gialla fa sì che il romanzo possieda un fil rouge intorno al quale animare diversi personaggi, ma soprattutto il bonario investigatore. Nella storia di Le belle Cece non ci sono morti ammazzati, né rapine, bensì il furto di mutandine da donna. Già l’indumento può lasciar presagire uno sviluppo erotico, una vicenda di amorazzi carnali che non era rara in Piero Chiara, ma che invece latita nel quasi pudico Andrea Vitali, e se poi si inventa un personaggio come il sottocapo di manipolo Stelio Cerevelli, detto Dolcineo, un po’ effeminato e probabilmente omosessuale, e per non sbagliare gli si affianca un nero africano tale Buluc, tuttofare (forse anche quello...) del predetto Dolcineo, va da sé che quella sfumatura di giallo iniziale si colora di rosa. Gli ingredienti del pastone non sono finiti, perché ci sono anche le belle Cece, quelle del titolo, madre e figlia, due belle donne piuttosto vogliose, e se non bastasse c’è il marito della seconda, un ispettore di produzione del cotonificio, che è l’emblema della classica carogna, altezzoso, cattivo, e perfettamente cornuto, nonché il locale segretario del fascio, uomo che si crede d’azione e invece è un minchione. Carne al fuoco quindi ce n’è in abbondanza, ma quando è tanta si deve stare particolarmente attenti alla cottura, e il tal senso Vitali si impegna con encomiabile dedizione, non riuscendo tuttavia a evitare che qualcosa cuocia troppo e rischi di bruciare, nel senso che fino quasi al termine fila tutto liscio, ma poi si verifica l’intoppo, proprio quando Maccadò convoca in caserma tutti i protagonisti, un po’ come è abituato a fare Poirot. Quello è il momento della verità, è l’ora in cui deve essere fatta chiarezza, ma a dispetto dello scopo il Maresciallo s’improvvisa prestigiatore ed estrae dal cilindro la soluzione, non senza aver fatto un po’ di confusione. Posso dire che forse Vitali si è lasciato prendere la mano,  ha dato troppa corda al suo investigatore e a un certo punto questi, libero dal vincolo del narratore, si è dovuto inventare una soluzione che, guarda caso, ha risvolti boccaceschi, un menage a trois, mamma, figlia e Buluc, ancor più tuttofare del solito. In ogni caso è il Vitali che ben conosciamo e, nonostante i limiti, quell’innesto rosa, con tanto di allusioni, è riuscito bene, ha dato tono e forza a un romanzo che si legge con piacere.    

Dopo aver frequentato «il severissimo liceo Manzoni» di Lecco, Andrea Vitali si laurea in medicina all'Università Statale di Milano ed esercita la professione di medico di base nel suo paese natale. 
Scrittore molto prolifico, ha esordito nel 1990 con il romanzo breve Il procuratore, ispiratogli dai racconti di suo padre; nel 1996 ha vinto il Premio letterario Piero Chiara con L'ombra di Marinetti, ma il grande successo lo ha ottenuto nel 2003 con Una finestra vistalago (Premio Grinzane 2004). 
Nel 2006 ha vinto il Premio Bancarella con il romanzo La figlia del Podestà; nel 2009 il Premio Boccaccio e il Premio Hemingway. 
Tra i numerosi romanzi, ricordiamo: nel 2011 La leggenda del morto contento e Zia Antonia sapeva di menta. Nel 2012 Galeotto fu il collier e Regalo di nozze. L'anno successivo escono Le tre minestre, lungo racconto autobiografico edito da Mondadori-Electa e Di Ilide ce n'è una sola. Nel 2014 Quattro sberle benedettePremiata ditta Sorelle Ficcadenti e Biglietto, signorina!; nel 2015 La ruga del cretino, scritto con Massimo Picozzi, Le belle Cece, La verità della suora storta, Quattro schiaffi benedetti, Un amore di zitella (tutti editi da Garzanti). Nel 2016 Nel mio paese è successo un fatto strano (Salani), Le mele di Kafka (Garzanti) e Viva più che mai (Garzanti).
Da ricordare che con il romanzo Almeno il cappello (edito nel 2009 da Garzanti) Andrea vitali ha vinto il Premio Casanova, il Premio Isola di Arturo Elsa Morante, il Campiello sezione giuria dei letterati ed è stato finalista al Premio Strega.
I suoi libri, pubblicati in Italia da Garzanti, sono stati tradotti in molti paesi, tra cui la Turchia, la Serbia e il Giappone. 
Renzo Montagnoli 

 

3 Settembre

La via del ritorno

di Erich Maria Remarque

Neri Pozza Editore

Narrativa romanzo storico 

 

Così in pace come in guerra

Nel 1931, due anni dopo la pubblicazione di Niente di nuovo sul fronte occidentale, appare in libreria La via del ritorno, il secondo romanzo della trilogia sulla Grande Guerra con cui Erich Maria Remarque si propose di evidenziare l’insensatezza della guerra. Se nel primo, che resta giustamente il più famoso, il teatro sono le trincee sconvolte e insanguinate del fronte occidentale, in questo, dopo un primo piccolo capitolo dedicato agli ultimi giorni del conflitto, si parla invece del dopo, cioè di quanto avviene a ciò che resta di una compagnia (trentadue uomini su un totale originario di cinquecento) nei giorni successivi a quello dell’armistizio, al periodo di pace che li attende. Ma sarà vera pace? Sarà possibile praticare subito una netta cesura fra le ore di tormento del fronte e quelle anonime del proprio paese? Purtroppo questi giovani sono segnati indelebilmente dall’atroce esperienza che ha sconvolto la loro gioventù e avrebbero bisogno di trovare persone comprensive, riconoscenti per quanto da loro fatto, disposte ad aiutarli, e invece percorrono le strade di un paese distrutto, affamato, in preda a un’anarchia perniciosa, con la gente che nel migliore dei casi si palesa indifferente, quando invece per lo più è tesa a incolpare questi soldatini per tutte le nefaste conseguenze della sconfitta. E la loro verde età non è motivo per una possibile rinascita, perché le tragiche esperienze li hanno invecchiati, la guerra è entrata in loro come un male subdolo dal quale è assai difficile liberarsi e inevitabilmente, abituati ad anni di cameratismo di trincea, finiscono con l’essere incapaci di ritornare alla situazione ante guerra, rifugiandosi nel conforto - cercato, ma impossibile da trovare - dell’uno con l’altro. La vita così sembrerà sempre di più senza senso, brancoleranno nel buio incapaci di abituarsi a una realtà che li respinge, così che chi è sopravvissuto alla guerra non sopravviverà alla pace. Piano piano i rapporti camerateschi si sfaldano e restano gli uomini, con le loro paure e le loro tragedie personali; c’è chi con difficoltà riuscirà a emergere dalla melma, ma c’è anche chi non vedrà soluzioni, se non quella di lasciare anzi tempo una vita diventata insopportabile. Remarque, più che in Niente di nuovo sul fronte occidentale, si cimenta in una complessa e approfondita analisi psicologica, denotando un talento non comune, e porta agli occhi del lettore una tragedia non dissimile da quella della guerra vera e propria. Per certi aspetti quest’opera è addirittura migliore della precedente perché l’autore, incidendo con precisione l’animo umano, ci pone di fronte alla chiara insensatezza di ogni conflitto, in cui il perdente è sempre colui che vi partecipa direttamente, mentre nulla hanno da temere i politici superbi, i finanzieri avidi e i generali impazienti di arrivare al successo che sono sempre alla base di ogni guerra, che la cercano, che la provocano, che la pongono in atto. Insomma, ci sono uomini e uomini, uomini già sfruttati in tempo di pace e bestie, tali sempre e che nella guerra trovano la loro più ampia e agognata realizzazione.

Capisci? Nella parola patriottismo hanno pigiato tutte le loro frasi, la loro ambizione, la loro avidità di potenza, il loro romanticismo bugiardo, la loro stupidità, il loro affarismo e ce l’anno poi presentato come un ideale radioso. E noi abbiamo creduto che fosse la fanfara trionfale di un’esistenza nuova, forte, possente.”.

Le pagine di Remarque sono malinconiche, sono quelle di un uomo che ha compreso quanto sia ineluttabile opporsi alla violenza e come la carne da cannone sia sempre tale, in guerra, ma anche in pace.

La via del ritorno è semplicemente un capolavoro.

Erich Maria Remarque, combattente nella prima guerra mondiale, fu più volte ferito. Giornalista a Berlino, lasciò la Germania all’avvento del nazismo e nel 1939 si stabilì a New York, dove prese la cittadinanza americana. Raggiunse un vasto successo con il romanzo Niente di nuovo sul fronte occidentale (Im Westen nichts Neues, 1929), radicale condanna della guerra e amara analisi delle sue spaventose distruzioni materiali e spirituali. Seguirono, sempre ispirati a ideali pacifisti e di solidarietà umana, Tre camerati (Drei Kameraden, 1938), Ama il prossimo tuo (Liebe deinen Nächsten, 1941), Arco di trionfo (Arc de Triomphe, 1947), Tempo di vivere, tempo di morire (Zeit zu leben und Zeit zu sterben, 1954), La notte di Lisbona (Die Nacht von Lissabon, 1963) e Ombre in paradiso (Schatten im Paradies, postumo, 1971). Numerosi romanzi di R. sono stati ridotti per il cinema.
Renzo Montagnoli 

 

30 Agosto

Il tenente del diavolo

di Maria Fagyas

Elliot Edizioni

Narrativa romanzo storico

 

Non solo thriller

Arrivati all’ultima pagina si è portati inevitabilmente a classificare Il tenente del diavolo come un thriller di ambiente militare, un thriller psicologico di notevole interesse, anche se non credo che il principale piano di lettura sia rappresentato dai disperati sforzi del capitano Kunze, magistrato militare, per incastrare il tenente Dorfrichter, sospettato di aver avvelenato con il cianuro un collega, il capitano Mader, nonché di aver tentato di porre in atto la stessa fine per altri nove ufficiali dello stato maggiore austriaco. Maria Fagyas, figlia di un tenente ungherese deceduto nel corso della prima guerra mondiale, è molto abile nell’addentrarsi in un ambiente tutto sommato chiuso alle donne e in cui predomina una morale maschilista, congiunta sovente ad aspirazioni bellicose, a conflitti sognati e facilmente vinti (ma solo sulla carta). La vicenda di questo ufficiale non promosso al rango di capitano, ma soprattutto non assurto alla carica di componente dello stato maggiore, nonostante le sue eccelse capacità,  è veramente riuscita, con un continuo gioco fra il gatto (Kunze) e il topo (Dorfrichter), ma con un non raro scambio di ruoli, perché il presunto reo è dotato di una forte personalità, di un’intelligenza ragguardevole ed è in grado di tenere testa a chi conduce le indagini, rifiutandosi inizialmente di confessare, il che lo porterebbe direttamente al capestro. Peraltro, pur ammettendo che l’accusato sia in grado di esercitare un certo ascendente con il suo fascino su Kunze, che in gioventù non è stato immune da esperienze omosessuali, resta il fatto che l’azione dell’inquisitore è mossa unicamente dal desiderio di pervenire alla verità, verità che nonostante il dissennato sostegno di casta verrà fuori, portando tuttavia, in una sorta di compromesso, a una condanna pesante, ma senza che sia una sentenza di morte. Il conflitto esistente fra accusato e accusatore va ben oltre lo schema dialettico della tenzone fra imputato e magistrato, ma evidenzia un insanabile contraddizione di base che vede da un lato Dorfrichter convinto assertore della guerra che vorrebbe fosse condotta con metodi moderni e il pacifismo, spinto all’antimilitarismo, di Kunze, non tanto un’eterna lotta fra male e bene, quanto invece un concetto di essere umano radicalmente diverso alla radice. Può forse apparire simpatico il personaggio dell’accusato e in fondo detestabile quello del capitano, ma non si deve dimenticare che il primo è nato per fare la guerra, il secondo per perseguire chi delinque, una bella differenza fra chi giustifica in ogni caso l’omicidio per cause di guerra e chi invece cerca, sempre e solo, di pervenire a comprendere ciò che realmente sia accaduto e chi sia il colpevole.

Il tenente del diavolo scorre liscio, le pagine si leggono velocemente, la tensione non viene mai meno in un’opera che non è solo mero motivo di svago, ma che invita a riflettere sul significato delle parole guerra e pace,  su un senso del dovere che nel caso del capitano va oltre ogni lusinga o minaccia dei potenti.

Peraltro la Fagyas è riuscita a descrivere bene l’atmosfera di fine Belle epoque, in un impero asburgico che sta implodendo non solo sotto la spinta dei popoli che chiedono maggiori autonomie, ma anche perché la decadenza si manifesta in tutte le sue caratteristiche, con una società di pubbliche virtù e di vizi privati, in cui puttanieri e puttane trascinano una squallida esistenza  fatta di corna assiduamente reiterate.

Questo romanzo, che trae spunto da un fatto accaduto veramente, merita indubbiamente di essere letto.

Maria Helena Fagyas nacque nel 1905 a Budapest. Suo padre, Géza Fagyas, tenente ungherese, morì durante il primo conflitto mondiale. Nel 1925 Maria si trasferì a Berlino, dove sposò Ladislau BusFekete, drammaturgo e regista viennese. Nel 1937 i due emigrarono negli Sati Uniti, a Hollywood – dove il marito fu assunto dalla MGM come commediografo – e divennero cittadini americani nel '47. Scrisse in quegli anni con i nomi di Mary Helen Fay e Mary BushFekete. Fu, inoltre, autrice di opere teatrali e traduttrice. Nel 1963 uscì il suo primo romanzo, La quinta donna, ambientato durante la rivolta a Budapest del 1956. Alla morte del marito viaggiò in Europa per stabilirsi infine a Palm Springs, dove morì nel 1985. Il tenente del Diavolo è considerato il suo capolavoro.
Renzo Montagnoli 

 

27 Agosto

Aspro e dolce

di Mauro Corona

Arnoldo Mondadori Editore S.p.A.

Narrativa 

 

Una spugna

Che sulle nostre montagne (non solo lì, ma soprattutto lì) si bevano alcolici in quantità non certo modeste penso sia cosa nota e che fra questi amanti di Bacco ci sia stato anche Mauro Corona non fa meraviglia; ciò che stupisce invece è che l’autore ertano si sia dedicato al vino e alla grappa in quantità ragguardevoli, che abbia bevuto smodatamente e che, ubriaco, abbia compiuto atti di cui oggi, più sobrio, ha memoria con vergogna. Ciò che ha scritto potrebbe meglio definirsi le confessioni di un grande bevitore e, francamente, il lettore, a volte un po’ infastidito da una narrazione che non di rado è ripetitiva,  si accorge a poco a poco che un po’ di quelle quantità industriali di vino sembrano uscire dalle pagine, traboccando, per andare a infilarsi nella sua bocca a togliergli una sete che non prova. Personalmente e in tutta sincerità a leggere continuamente di bevute colossali ho corso il rischio di ubriacarmi e spesso ho cercato di leggere in velocità per superare certi periodi che in pratica non dicevano nulla di nuovo, alla ricerca invece di fatti, connessi all’ubriachezza, di cui Corona sembra avere una prodigiosa memoria, assai strana per un ebbro, tanto da pensare che in buona parte siano frutto solo di invenzione. Purtroppo siamo lontanissimi dalla qualità di opere come Storia di Neve, Il canto delle manere, L’ombra del bastone, I fantasmi di pietra e Il volo della martora, tanto da sembrare che questi libri e Aspro e dolce non siano stati scritti dalla stessa mano. E’ da un po’ di tempo però che la vena di Corona sembra essere esaurita e di questo non posso che provare dispiacere, perché conservo sempre dentro di me le emozioni dei suoi libri migliori, di un mondo reale in cui è riuscito a innestare una vena di fantasia che arriva a sfiorare il mito; l’unico vero elemento positivo  di Aspro e dolce è dato dal forte monito ai giovani affinché non percorrano la stessa strada di stravizi, perché bere si può, ma sempre e solo con moderazione. Il libro si può leggere, ma non c’è da avere particolari aspettative, presentandosi talora e per non poche pagine decisamente noioso.

Mauro Corona ha seguito fin da bambino il nonno paterno (intagliatore) in giro per i boschi. Intanto, il padre lo portava a conoscere tutte le montagne della valle. Dal primo ha ereditato la passione per il legno, diventando uno degli scultori lignei più apprezzati d'Europa; dal secondo invece l'amore per la montagna. Alpinista e arrampicatore fortissimo, Mauro Corona ha aperto oltre trecento nuovi itinerari di roccia sulle Dolomiti d'Oltre-Piave.
È autore di, tra gli altri, Il volo della martora (CDA & VIVALDA, 1997, riedito da Mondadori nel 2014), di Finché il cuculo canta (1999), Gocce di resina (2001) e La montagna (2002) per Biblioteca dell'Immagine. Per i tipi Mondadori invece ha scritto Nel legno e nella pietra (2005), Aspro e dolce (2006), Vajont: quelli del dopo (2006), L'ombra del bastone (2007), I fantasmi di pietra (2008), Cani, camosci, cuculi (e un corvo) (2008), Storia di Neve (2008), Le voci del bosco (2009), Il canto delle manére (2009), La ballata della donna ertana (2011), Come sasso nella corrente (2011), La fine del mondo storto (2012, vincitore del premio Bancarella), La voce degli uomini freddi (2013), Una lacrima color turchese (2014) e delle raccolte di fiabe Storie del bosco antico (2007) e Torneranno le quattro stagioni (2010). Altri scritti da citare sono La casa dei sette ponti (Feltrinelli, 2012), Confessioni ultime. una meditazione sulla vita, la natura, il silenzio, la libertà (Chiarelettere, 2013), Favola in bianco e nero (Mondadori, 2015).
Renzo Montagnoli 
 

 

24 Agosto

Il testamento Donadieu

di Georges Simenon

Traduzione di Paola Zallio Messori

Edizioni Adelphi

Narrativa romanzo

Collana Biblioteca Adelphi
 

Il feuilleton di Simenon

Nel 1936 Simenon era già un autore affermato, grazie ai gialli con Maigret e agli indovinati noir e non piaceva solo al lettore medio, ma anche a letterati assai famosi come André Gide. Confortato da questi elementi positivi e indubbiamente consapevole delle sue capacità deve aver pensato che fra tanti successi ne mancava uno relativo a un romanzo di maggior spessore, quale poteva essere costituito dalle vicende di una potente famiglia avviata a un inarrestabile declino. E a passare dall’idea alla realizzazione non ci mise molto, solo i mesi di luglio e agosto del 1936; nacque così Il testamento Donadieu, un romanzo corposo, considerate le sue 393 pagine.

Strano clan, quello dei Donadieu, che vivono fra La Rochelle e Parigi, che conducono una vita ritirata, ma che tutti assieme, come in processione, vanno a messa alla domenica per un rito anziché per una fede; è un’esistenza senza un acuto, monotona, anzi grigia, prigionieri della loro stessa potenza. Un giorno però accade un fatto straordinario: il capostipite, l’armatore Oscar Donadieu scompare, senza lasciare traccia, nemmeno un rigo. E’ l’inizio della fine, perché nonostante la proverbiale meticolosa efficienza e la non scalfibile sicurezza quello che si potrebbe definire l’ordine Donadieu mostra dapprima una crepetta che però in breve si allarga e si dirama fra La Rochelle e Parigi fino ad arrivare al crollo di questa grande famiglia, trascinando nel baratro anche l’arrivista Philippe, inseritosi di soppiatto fra gli apparentemente rigidi legami del clan. Costui, figlio del proprietario di un cinema ridottosi quasi in miseria per operazioni finanziarie sbagliate, circuisce Martine, la figlia dello scomparso Oscar Donadieu, il cui cadavere verrà poi ritrovato nel limo del porto senza che possiamo sapere se si sia trattato di incidente, di suicidio o di omicidio; il suo intento non è nobile, né quello di un vero innamorato, in quanto ha un unico scopo, vale a dire impadronirsi delle fortune dei Donadieu, che ritiene colpevoli delle disgrazie finanziarie del padre. Non vado oltre per quanto concerne la trama di questo lungo romanzo, limitandomi a far presente che la passione dell’autore per il giallo e per il noir qui sembra assente, se pur tuttavia i morti ammazzati non mancano e tutti legati, direttamente o indirettamente, a questa famiglia. Il finale, poi, non potrebbe essere più pirotecnico e a onor del vero mi sembra che in tale circostanza Simenon abbia usato più di una forzatura, travalicando il limite dell’equilibrio per piombare in una specie di tragedia greca. Il romanzo non è certamente un capolavoro, ma ha il sapore di certi drammoni propri dei feuilleton e in effetti è giusto ricordare che Il testamento Donadieu uscì agli inizi a puntate su Les feullets bleus, senza dimenticare che era stato commissionato dal quotidiano Le Petit parisien. A mio parere è uno di quei libri, denso di intrecci, di tresche e di atmosfere grevi, adatti a un lettore che, amante delle tinte forti, desidera un prodotto che gli consenta di trascorrere diverse ore immerso nella realtà fittizia di un mondo in cui amore e morte non solo convivono, ma vanno felicemente a nozze. Per concludere si tratta di un’opera di non grande pregio, la tappa di un percorso che però avrebbe portato George Simenon a scrivere romanzi di notevole valore, quali, e solo a titolo di esempio, La finestra dei Rouet, I fantasmi del cappellaio e L’angioletto.

Georges Simenon, nato a Liegi nel 1903, morto a Losanna nel 1989, ha lasciato centonovantatre romanzi pubblicati sotto il suo nome e un numero imprecisato di romanzi e racconti pubblicati sotto pseudonimi, oltre a volumi di «dettature» e memorie. Il commissario Maigret è protagonista di 75 romanzi e 28 racconti, tutti pubblicati fra il 1931 e il 1972. Celebre in tutto il mondo, innanzitutto per le storie di Maigret, Simenon è anche, paradossalmente, un caso di «scrittore per scrittori». Da Henry Miller a Jean Pauhlan, da Faulkner a Cocteau, molti e disparati sono infatti gli autori che hanno riconosciuto in lui un maestro. Tra questi, André Gide: «Considero Simenon un grande romanziere, forse il più grande e il più autentico che la letteratura francese abbia oggi»; Walter Benjamin: «… leggo ogni nuovo romanzo di Simenon»; Louis-Ferdinand Céline: «Ci sono scrittori che ammiro moltissimo: il Simenon dei Pitard, per esempio, bisognerebbe parlarne tutti i giorni».
Renzo Montagnoli 
 

 

22 Agosto

Olive comprese

di Andrea Vitali

Garzanti Libri

Narrativa romanzo

 

Le cure efficaci del Maresciallo Maccadò

Come in tutti i romanzi di Vitali ci troviamo a Bellano, sul lago di Como, l’epoca è quella ventennio,  l’anno quello della proclamazione dell’Impero; la vita è quella solita del paese con un podestà che ha una moglie che è una povera demente e ritroviamo anche il Maresciallo Maccadò, tutto intento a programmare la messa in cantiere di altri figli per arrivare al numero prefissato dallo stesso, vale a dire sei. L’atmosfera è quella un po’ sonnacchiosa di una piccola realtà, con qualche improvviso sprazzo pirotecnico legato a ricorrenze importanti o a eventi clamorosi. Purtroppo, in questa quiete generale, c’è chi provvede a combinare dei guai, degli scherzi piuttosto pesanti, insomma le tipiche scemenze di una banda di imbecilli ormai oltre il periodo della pubertà, dei vitelloni, senza arte né parte che i genitori non riescono a ricondurre sulla retta via. Per fortuna, però, c’è il nostro Maccadò che si curerà di loro, riuscendo a raddrizzarli con metodi validi, anche se non proprio ortodossi. 

Un po’ commedia degli equivoci, un po’ una spruzzatina di giallo, l’aggiunta di qualche particolare o fatto boccacesco, il tutto ben amalgamato porta a un’opera che risulterà facilmente gradita al lettore, anche perché l’autore infila, nella vicenda principale, delle altre storie che indirettamente si ricollegano e che hanno il pregio, a volte, di mostrare alcuni spaccati di quella che è la vita di un piccolo paese, quale è appunto Bellano. Non manca anche una leggera vena ironica, presente addirittura anche in occasione di dipartite, insomma se le pagine  (448) sono tante, è altrettanto vero che la lettura scorre via veloce e che si arriva alla fine in un “amen”. E’ inutile pretendere di più, è illogico cercare messaggi di alto livello, ma se si vuol trascorrere piacevolmente un po’ di tempo questo libro è l’ideale e perciò è del tutto naturale consigliarlo.

E le olive del titolo, comprese peraltro? Non sono proprio il frutto dell’ulivo, ma...ma la decenza mi impedisce di dire cosa siano; basta leggere il libro e lo saprete.

Dopo aver frequentato «il severissimo liceo Manzoni» di Lecco, Andrea Vitali si laurea in medicina all'Università Statale di Milano ed esercita la professione di medico di base nel suo paese natale. 
Scrittore molto prolifico, ha esordito nel 1990 con il romanzo breve Il procuratore, ispiratogli dai racconti di suo padre; nel 1996 ha vinto il Premio letterario Piero Chiara con L'ombra di Marinetti, ma il grande successo lo ha ottenuto nel 2003 con Una finestra vistalago (Premio Grinzane 2004). 
Nel 2006 ha vinto il Premio Bancarella con il romanzo La figlia del Podestà; nel 2009 il Premio Boccaccio e il Premio Hemingway. 
Tra i numerosi romanzi, ricordiamo: nel 2011 La leggenda del morto contento e Zia Antonia sapeva di menta. Nel 2012 Galeotto fu il collier e Regalo di nozze. L'anno successivo escono Le tre minestre, lungo racconto autobiografico edito da Mondadori-Electa e Di Ilide ce n'è una sola. Nel 2014 Quattro sberle benedettePremiata ditta Sorelle Ficcadenti e Biglietto, signorina!; nel 2015 La ruga del cretino, scritto con Massimo Picozzi, Le belle Cece, La verità della suora storta, Quattro schiaffi benedetti, Un amore di zitella (tutti editi da Garzanti). Nel 2016 Nel mio paese è successo un fatto strano (Salani), Le mele di Kafka (Garzanti) e Viva più che mai (Garzanti).
Da ricordare che con il romanzo Almeno il cappello (edito nel 2009 da Garzanti) Andrea vitali ha vinto il Premio Casanova, il Premio Isola di Arturo Elsa Morante, il Campiello sezione giuria dei letterati ed è stato finalista al Premio Strega.
I suoi libri, pubblicati in Italia da Garzanti, sono stati tradotti in molti paesi, tra cui la Turchia, la Serbia e il Giappone. 
Renzo Montagnoli 
 

 

20 Agosto

Un adulterio mantovano

di Giovanni Nuvoletti

Arnoldo Mondadori Editore S.p.A.

Narrativa romanzo storico

 

Un altro gioiellino

Dopo il forse insperato successo di Un matrimonio mantovano, nel 1981 esce quello che potrebbe apparire un seguito, ma non lo è, vale a dire Un adulterio mantovano.  Non è un seguito, perché i personaggi sono diversi e anche l’ambientazione non è la stessa, non è Gazzuolo, piccolo borgo di campagna, ma la città, vale a dire Mantova, una Mantova colta, raffinata, vista nell’epoca del precedente romanzo, cioè nel 1912. La trama è completamente diversa, non  ci sono strategie e tattiche per convolare a nozze, anzi qui c’è una coppia già unita nel vincolo del matrimonio, lui Ernesto, ingegnere, un po’ sparagnino come tutti i mantovani e in aggiunta fervente cattolico, lei nobile, la bella e irrequieta Francesca, all’apparenza solo soddisfatta della sua vita. Ma, pur nelle convenzioni di un’epoca, l’eterno femminino  che la porta a soddisfare il suo ego facendo di tutto per strappare complimenti sulla sua persona è un diavoletto dietro l’angolo, come un diavoletto è il conte Vezio, fulminato dallo sguardo ammaliante e dalle forme seducenti di Francesca. Insomma, per farla breve, il tradimento viene quasi del tutto naturale e si instaura un rapporto a tre, lei con l’amante, un uomo che incarna gli stilemi della bella epoque, un D’Annunzio meno estroso, ma tutto portato all’autoesaltazione, all’adorazione del proprio “io” , e lei con il marito Ernesto, tutto l’opposto dell’altro, pragmatico, simbolo della nascente nuova borghesia. In questa strana relazione mi pare di aver capito che gli unici capaci veramente di amare sono Ernesto e Vezio, mentre Francesca è nulla più di una civetta, una che in dialetto mantovano definiremmo “na ligera”, una donna che ritrae più piacere dal sentirsi desiderata che dall’essere amata veramente. Il menage non ha una breve durata e se i contatti si interrompono è solo per colpa della guerra, perché i due uomini vanno a combattere. Quindi, non ci sarà dato di sapere se essi torneranno, se tutto andrà avanti come prima, ma Nuvoletti, pur lasciando un finale aperto ha l’abilità di  mostrarci per chi dei due uomini parteggia e lo fa con due lettere, una di Vezio che, di spirito dannunziano, è colma di retorica sulla bellezza della guerra, dimostrando così che sotto le spoglie dell’uomo di vita c’è un immaturo, e l’altra di Ernesto, di tono completamente opposto, Ernesto che sa della tresca, ma tace, perché nonostante tutto è innamorato della sua Francesca. Il primo aspira a essere un superuomo e invece è quasi un guitto, il secondo, semplice, silenzioso, consapevole della tragedia del conflitto, è un piccolo eroe.

Di caratteristiche completamente diverse da Un matrimonio mantovano, Un adulterio mantovano rivela uno scrittore capace - e di questo non si è mai dubitato -, ma soprattutto un attento analista della psicologia umana, sia maschile che femminile, in grado di ricavare da una vicenda tutto sommato quasi banale un’opera di pregevolissima fattura, un altro avvincente gioiellino. 

Giovanni Nuvoletti (Gazzuolo, 16 ottobre 1912 – Abano Terme, 4 aprile 2008) è stato uno scrittore, nonché attore cinematografico e televisivo. Fra le sue opere letterarie famosi sono i romanzi Un matrimonio mantovano (1972) e Un adulterio mantovano (1981), nonché i saggi Vestire una bambina (1997) e Elogio della cravatta (1982).
Renzo Montagnoli 
 

 

29 Luglio

Fiori rossi

di Gabriele Oselini

Prefazione di Alessia Rovina

Fara Editore

www.faraeditore.it

Poesia
 

Lungo il Grande Fiume

Gabriele Oselini è un poeta che non mi è sconosciuto, tanto che l’ho anche intervistato il 12 febbraio 2012 in relazione alla sua silloge Piove da me recensita positivamente. Questo autore, che abita in provincia di Mantova, in un paese rivierasco del Po, come del resto anche il sottoscritto,  trova la sua fonte di ispirazione nella natura, in quel paesaggio piatto, i cui unici rilievi sono dati dagli argini, fra i quali scorre il più grande fiume italiano. Qualcuno potrà obiettare che il tema della natura è assai diffuso, quasi inflazionato, ma è altrettanto vero che il particolare rapportarsi di ognuno di noi con la stessa fa sì che venga vista in un modo del tutto autonomo e personale, e questo vale anche per Gabriele Oselini. Se poi c’è chi manifesta il timore di una serie di quadri idilliaci, nella scia di una magica e irripetibile Arcadia dico subito che non è il caso, perché la natura di Osellini è indubbiamente poetica, ma reale, cioè non ha nulla di mitico  o comunque conforme a canoni arcaici. Ed è per questo che saper cogliere in un mondo, in cui tutto cambia, lo spirito primigenio è un’occasione per riscoprire, in un’altra luce, se stessi. E’ talmente importante che il corso naturale non venga sovvertito che l’autore giunge a ipotizzare, in caso contrario, una caduta in un baratro senza fondo come in Abisso (l’usignolo / non canta / sulla magnolia / i balconi / sono spogli / dei gerani in fiore / profondo / abisso / del nostro tempo).

Dato che noi inevitabilmente cambiamo con il trascorrere del tempo l’unica certezza, forse ancora per poco, è che la natura segue sempre il suo corso, così che l’estate, che dopo ferragosto in pratica finisce, è l’occasione per pescare nell’antro della memoria i ricordi da bambino; altre volte invece la natura è evocativa del ciclo della vita che nell’ultimo temporale si chiude per un vecchio porcospino. Non poteva altresì mancare un riferimento al grande fiume, alle sue piene che incuriosiscono, pur incutendo tanto timore (improvvisa corre / in golena / l’acqua gonfia / del fiume in piena / grigia / increspata / affamata di terra /nel tempo negata / e lepri / e corvi / e ramarri impauriti / si confondono / con bici curiose / bimbi / cani felici / e guardiani della notte / sui fratelli argini / custodi delle nostre radici). In queste poesie ci sono il sole estivo che dardeggia e incendia la pianura, l’incedere lento dell’autunno nebbioso che annuncia il gelo e a volte la neve dell’inverno che qui in queste terre pare più riposare che dominare e infine l’annuncio della primavera, il verde nei campi, l’aria nuova che inebria e rivitalizza l’amore con la bella stagione che arriva al galoppo, insomma c’è lo spirito di questa pianura e delle sue genti, tutte raccolte intorno a questo grande e maestoso fiume. Leggere questa silloge sarà un po’ come ripensare al proprio passato e al proprio presente per chi, come me, è di questi luoghi; per gli altri, invece sarà l’occasione per apprezzare posti che occhi  disattenti potrebbero definire monotoni e piatti, ma non è così, perché la natura è una continua scoperta, basta saperla osservare, come ha fatto appunto Gabriele Oselini.

Gabriele Oselini (1953) è nato e risiede a Viadana (MN).

Ha conosciuto negli anni ‘70 Daniele Ponchiroli, caporedattore della casa editrice Einaudi, col quale ha intessuto un rapporto di profonda amicizia e dal quale ha ricevuto numerosi stimoli culturali e umani.
Ha partecipato a diversi concorsi nazionali di poesia: segnalato alla III edizione del concorso “Pubblica con noi” di Fara Editore, con cui ha pubblicato (2005) una selezione di versi all’interno di 
Antologia pubblica, e successivamente le sillogi Specchio (2006), Finito(2008), Piove (2011) e La mia casa (2014). Ha collaborato con l’editore Afro Somenzari di Fuoco fuochino. Recentemente è stato premiato (2° classificato) al VII Concorso di poesia Roberto Fertonani di Rivarolo Mantovano (2017).
Renzo Montagnoli 

 

25 Luglio

Lettere d’amore

di AA. VV.

a cura di Aurelio Caliri

disegni di Maria Leone

Edizioni Arte e Musica

Narrativa lettere

 

Amore in parole

Per quanto l’umanità sia percorsa da ondate di odio il mondo non è ancora distrutto e si può continuare a sperare poiché a trionfare è l’amore, in tutte le sue variegate forme, che va da quello per l‘altro sesso (ma anche per lo stesso sesso) a quell’affetto che ci lega ai familiari più stretti, in primis la madre, poi a seguire il padre, i fratelli e le sorelle. Trattasi di un sentimento del tutto naturale di cui prima o poi l’individuo cerca di trovare una spiegazione logica, ricerca che spesso si rivela vana. E quello che non si riesce a dire a voce, un po’ per incompletezza, un po’ per ritrosia, per quel senso di vergogna che tutti proviamo nell’aprire agli altri la nostra sfera intima, lo si partecipa con una lettera, a volte anche non spedita.  Questo libro è una raccolta di queste lettere d’amore, alcune di autori famosi, le altre più spesso di meno noti, ma ugualmente valide.

Ora sarebbe d’obbligo che io parlassi di queste lettere, ma sono tante, sono troppe e allora dovrei fare una difficile cernita per esaminarne solo alcune, ma la cosa non è possibile, perché per quanto diverse sono tutte ugualmente belle e farne una scelta diventerebbe francamente un’impresa improba. Mi limiterò pertanto solo a dei brevi cenni, principiando in questa sede che, a puro e solo titolo di notizia, ce n’è anche una scritta da me. I destinatari sono i più disparati, come la nonna di un testo onirico, un pianista a cui tributa il suo affetto un musicista, il padre in uno struggente ricordo della figlia, la madre nei malinconici, ma non tristi versi del figlio, la gioventù che appare lontana e irripetibile nel sentito rimpianto di una donna, il teatro, peraltro greco (quello di Taormina), da parte di un attore, un uomo nelle accorate parole di una sirena, le due figlie nella delicata prosa del padre. E poi ancora altre indirizzate a figli, a mogli, ad amanti e perfino alla poesia. E’ bello vedere persone diverse esprimere il loro amore: uomini, donne, poeti, insegnanti, scrittori, musicisti, perfino un vescovo e questo dà l’idea della grande, grandissima forza dell’amore che, se si riuscisse a convogliare in un unico binario, in un unico afflato, consentirebbe un mondo senz’altro migliore dell’attuale. 

Questo è decisamente un bel libro e presenta anche altri aspetti di pregio, visto che ogni tanto una pagina riporta un disegno di Maria Leone, un’artista con uno stile del tutto personale che può ricordare un certo classicismo, con immagini tuttavia a linee decise che proiettano più avanti nel tempo, insomma una moderna reinterpretazione dell’Arcàdia di antica memoria; si tratta di figure, evocatrici di personaggi femminili, che hanno anche il pregio di interrompere la lettura di quel tanto da consentire riflessioni. Non è finita, però, in quanto il curatore Aurelio Caliri, oltre a riportare lo spartito musicale ispirato da qualche lettera ivi contenuta,  offre un saggio delle sue qualità musicali come autore ed esecutore di alcuni dei brani sul tema dell’amore in un CD allegato che invito ad ascoltare, magari mentre si leggono le lettere del libro. E’ anche questa un’esperienza, senz’altro positiva, un invito a reperire il volume e il CD (venduti congiuntamente), convinto che la soddisfazione sia assicurata.   

Gli autori

Dato che sono molti, è un momento dimenticarne qualcuno, ma se il nome può essere una sicurezza, sappia il lettore che tutte le lettere sono egualmente interessanti, sia che siano state stilate da un quasi sconosciuto che da un autore assai noto. Per quanto ovvio, sono indicati nell’opera accanto alla loro lettera.
Renzo Montagnoli 
 

 

20 Luglio

Racconti di Provincia

di Vincenzo D’Alessio

Copertina di Giacomo Ramberti

Fara Editore

www.faraeditore.it

Narrativa racconti

 

Le prose del cantore del Sud

Vincenzo D’Alessio è nato a Solofra in provincia di Avellino, un paese, non una grande città, e come tale è in grado di parlare di una piccola realtà più a misura d’uomo, dove ancora i rapporti e le conoscenze hanno il sapore delle relazioni non impersonali di un’antica comunità. Ma Vincenzo è anche uomo del Sud, che osserva, che cerca di capire e che lancia il suo, se pur sommesso, grido di dolore per una condizione sociale che da anni cerca inutilmente il suo riscatto. Non a caso ha scritto una silloge poetica come La valigia del meridionale e altri viaggi, nonché la successiva Dopo l’inverno, raccolte indubbiamente tipiche di un poeta stanziale, ma anche veri e propri atti di accusa a un sistema che condanna il meridione a un perenne immobilismo.  D’Alessio, però, non è solo poeta, ma è anche capace di misurarsi positivamente con la narrativa, come dimostra questa raccolta intitolata Racconti di Provincia. Si tratta di storie di epoche diverse, che l’autore ha opportunamente suddiviso in due parti, di cui la prima ha chiamato Scritti su carta di Amalfi. Al riguardo è apprezzabile l’escamotage adottato per parlarci di fatti di moltissimi anni fa, presumibilmente del XVIII secolo, inventando il reperimento di alcuni articoli scritti da un anonimo cronista dell’epoca sulla pregiata e ormai quasi introvabile carta di Amalfi. Sono storie sapientemente strutturate con un linguaggio arcaico tanto che il lettore si convince che possano essere vere. Di epoca più recente e anche quasi attuale sono le prose della seconda parte intitolata Nei paesi del sud; cambia lo stile, cambia il periodo, ma sempre rimane un atto di accusa per quanto nei secoli ha dovuto patire la povera gente, una dolorosa rivelazione di un cristiano che cerca per i suoi conterranei la possibilità di un Paradiso anche in terra, integrando così perfettamente le già succitate sillogi. In ogni caso da questi racconti emerge il Sud che un osservatore non superficiale ben conosce, fatto di tribolazione quotidiana, ma con latente o anche esplicita voglia di riscatto, di ingiustizie che fanno piegare il capo, ma non spezzano la schiena, di un mondo che, nonostante tutto, si affanna non solo per non restare troppo indietro, ma per portarsi alla pari con la parte dell’Italia più avanzata, di un sogno per un mondo più giusto e più equo che non muore mai, perché il Meridione è così, un insieme di superstizioni e di genialità, di miseria e di nobiltà.

Da leggere, pertanto.

Vincenzo D’Alessio è nato a Solofra nel 1950. Laureato in Lettere all’Università di Salerno è stato l’ideatore del Premio Città di Solofra, nonché il fondatore del Gruppo Culturale “Francesco Guarini” e dell’omonima casa editrice. Acuto e attento critico letterario, ha pubblicato anche saggi di archeologia e storia (v. bibliografia Polo SBN di Napoli). Diverse le raccolte poetiche che hanno ricevuto premi e riconoscimenti, fra le più recenti: La valigia del meridionale ed altri viaggi (Fara 2012, seconda edizione 2016). Nel 2014 con Il passo verde si classifica II al concorso Pubblica con noiLa tristezza del tempo è inserita nell’antologia Emozioni in marcia (Fara 2015). Con Alfabeto per sordi è tra i vincitori del concorso Rapida.mente ed è stato inserito nell’omonimo volume (Fara 2015). Queste ultime sillogi sono riproposte anche in appendice alla raccolta Immagine convessa(Fara 2017), opera finalista al concorso Versi con-giurati. A fine 2017, sempre con Fara, è uscita la raccolta premio Dopo l’inverno, II classificata al concorso Faraexcelsior, che ha già ricevuto nel 2018 il III premio del Concorso Terra d’Agavi(Gela, AG), la segnalazione al Premio Civetta di Minerva (Summonte, AV) ed è risutata finalista al Premio Tra Secchia e Panaro (Modena).
Renzo Montagnoli 
 

 

14 Luglio

Il Teutone. La croce perduta

di Guido Cervo

Edizioni Piemme

Narrativa romanzo storico

 

Con la spada e con la preghiera

L’espansione mongola a occidente degli Urali iniziò nel 1236, abilmente condotta da Batu, nipote del grande Gengis Khan. Dopo aver soggiogato la Russa e l’Ucraina le orde selvagge si riversarono nel centro dell’Europa, sconfiggendo eserciti, saccheggiando e compiendo ogni genere di nefandezze.

Queste tribù di guerrieri nomadi, che i Cristiani chiamarono tartari, sembrò non avessero ostacoli e che per loro tutto fosse possibile, perfino la conquista dell’intera Europa. In questo contesto si narra la vicenda che vede protagonista Eustachius von Felben, monaco guerriero dell’ordine dei cavalieri teutonici che ritorna dalla Terrasanta con pochi compagni, scortando altresì un mercante veneziano, latore di un importante messaggio del Doge per il Gran Maestro dell’ordine in Prussia, nonché, di un dono di inestimabile valore religioso, oltre che intrinseco, rappresentato da una  croce ricoperta di gemme, già di proprietà di Sant’Elena, madre dell’imperatore Costantino. Il viaggio, di per sé non facile in periodo di pace, diventerà quasi un incubo a causa delle continue incursioni dei cavalieri tartari che arriveranno anche a sottrarre il prezioso carico del mercante veneziano.  Fra combattimenti all’ultimo sangue, battaglie che registrano le sconfitte dei cristiani, in un turbinio di eccidi, di crudeli torture e anche di sorprese, spesso gradite, la missione di von Felben arriverà a felice conclusione, con il recupero peraltro della preziosa reliquia. Guido Cervo ha fatto del romanzo storico la massima espressione del suo talento artistico, ambientando vicende in epoche diverse, ma sempre supportate da preziose ricerche storiche che danno alle opere la parvenza di veridicità, come se questo Eustachius von Felben fosse esistito veramente, e forse può esserci stato un personaggio con caratteristiche simili, visto che i cavalieri dell’Ordine Teutonico, dei veri e propri monaci guerrieri, presentavano la particolarità di una totale dedizione alla causa comune, simili ai Templari, ma per lo più di origine tedesca. E’ un romanzo in cui è preponderante  la trama, ma molto curata appare sia la caratterizzazione dei personaggi, che l’atmosfera, ricreata sapientemente; se pur inferiore a mio giudizio a I ponti della Delizia e a Bandiere rosse, aquile nere, opere ambientate in epoca assai più recente, è in grado di essere apprezzato dal lettore per la continua tensione e l’indubbio coinvolgimento, che avviene fin quasi da subito. In buona sostanza, invito a leggere Il Teutone. La croce perduta, perché sono sicuro che non potrete che esserne  soddisfatti.

Guido Cervo vive e lavora a Bergamo. È autore di romanzi di successo, tutti pubblicati da Piemme, tra cui "La trilogia del Legato romano", che ora viene riproposta, nel suo primo volume, in una nuova versione, la serie Il Teutone e due romanzi che affrontano i tragici conflitti mondiali del Novecento: Via dalla trincea e Bandiere rosse, aquile nere...
Renzo Montagnoli 

 

11 Luglio

Almeno il cappello

di Andrea Vitali

Garzanti Libri

Narrativa romanzo

 

L’affabulatore

Sono tentato di aprire e, contemporaneamente, chiudere il discorso a proposito di questo Almeno il cappello scrivendo semplicemente che si tratta del solito Andrea Vitali, cioè che presenta le caratteristiche di tutti i suoi numerosi romanzi, non pochi e forse anche troppi, che hanno una trama che si svolge prevalentemente a Bellano, sul lago di Como, con tanti personaggi tipici di una piccola realtà sempre meno evidente in una società impersonale come la nostra. Sono tentato anche per pigrizia perché in fin dei conti le opere di questo autore lasciano ben poca traccia nell’animo del lettore, ma sono un ottimo mezzo per trascorrere piacevolmente alcune ore. Però, se mi astenessi dal comprendere il perché del successo di Vitali, di questa smania che prende chi legge a passare da un suo romanzo all’altro benché consapevole del modesto spessore letterario, non tributerei all’autore il giusto risalto che dovrebbe avere. Questa sua innata capacità di tessere una tela principale, non evanescente, anzi fitta, in cui confluiscono altre storie, semplici, ma non banali, con personaggi caratterizzati da una ben precisa personalità non è cosa che si possa incontrare facilmente, così come l’indubbio talento di narrare in modo convincente, per non dire affascinante, storie inventate e in fondo poco dotate di credibilità, sono tutti elementi per un giudizio che non deve essere superficiale. Certo in Almeno il cappello questo ragionier Geminazzi, in preda al sacro furore della musica, che fra mille difficoltà vuole trasformare una semplice fanfara in una banda di paese, sembrerebbe di primo acchito un protagonista un po’ sciapo, se Vitali non avesse l’abilità di porgli accanto delle spalle ancor più interessanti e interpreti di storie proprie. E’ forse questo il segreto del narratore comasco, cioè percorrere un sentiero principale, con brevi e rapide variazioni di percorso, che procedono quasi in parallelo, per poi confluire in un’unica strada a conclusione di un lavoro che forse non è convincente, ma è capace di attrarre in modo continuativo. 

Credo che Vitali più che essere definito un romanziere possa essere soprattutto considerato un affabulatore, peraltro un abile affabulatore, qualità che fra alti e bassi, ma con un livello complessivamente più che discreto caratterizza tutta la sua produzione, pure per questo Almeno il cappello, capace di strappare qualche risata, ma anche di commuovere, insomma un libro senz’altro da leggere.

Dopo aver frequentato «il severissimo liceo Manzoni» di Lecco, Andrea Vitali si laurea in medicina all'Università Statale di Milano ed esercita la professione di medico di base nel suo paese natale. 
Scrittore molto prolifico, ha esordito nel 1990 con il romanzo breve Il procuratore, ispiratogli dai racconti di suo padre; nel 1996 ha vinto il Premio letterario Piero Chiara con L'ombra di Marinetti, ma il grande successo lo ha ottenuto nel 2003 con Una finestra vistalago (Premio Grinzane 2004). 
Nel 2006 ha vinto il Premio Bancarella con il romanzo La figlia del Podestà; nel 2009 il Premio Boccaccio e il Premio Hemingway. 
Tra i numerosi romanzi, ricordiamo: nel 2011 La leggenda del morto contento e Zia Antonia sapeva di menta. Nel 2012 Galeotto fu il collier e Regalo di nozze. L'anno successivo escono Le tre minestre, lungo racconto autobiografico edito da Mondadori-Electa e Di Ilide ce n'è una sola. Nel 2014 Quattro sberle benedettePremiata ditta Sorelle Ficcadenti e Biglietto, signorina!; nel 2015 La ruga del cretino, scritto con Massimo Picozzi, Le belle Cece, La verità della suora storta, Quattro schiaffi benedetti, Un amore di zitella (tutti editi da Garzanti). Nel 2016 Nel mio paese è successo un fatto strano (Salani), Le mele di Kafka (Garzanti) e Viva più che mai (Garzanti).
Da ricordare che con il romanzo Almeno il cappello (edito nel 2009 da Garzanti) Andrea vitali ha vinto il Premio Casanova, il Premio Isola di Arturo Elsa Morante, il Campiello sezione giuria dei letterati ed è stato finalista al Premio Strega.
I suoi libri, pubblicati in Italia da Garzanti, sono stati tradotti in molti paesi, tra cui la Turchia, la Serbia e il Giappone. 
Renzo Montagnoli 

 

8 Luglio

La vita davanti a sé

di Romain Gary

Neri Pozza Editore

Narrativa romanzo

Più forte di un legame di sangue

Che cosa abbia spinto Romain Gary a scrivere La vita davanti a sé (e non solo questa, ma altri tre romanzi) con lo pseudonimo di Emile Ajar non è ben chiaro, tanto più che di questa attribuzione effettiva siamo venuti a conoscenza solo dopo il suicidio dello scrittore. Infatti, in forza della pubblicazione postuma di Vita e morte di Emile Ajar, si venne a sapere che quell’Emile Ajar vincitore cinque anni prima del prestigioso Premio Goncourt con La vita davanti a sé altri non era se non Romain Gary.  A onor del vero, se pur la psiche di Gary fosse particolarmente complessa, non è improbabile che la scelta di un altro nome da dare come paternità della sua produzione fosse anche dovuta al fatto che, in parte a ragione, si riteneva perseguitato dalla critica letteraria, che dopo  l’attribuzione del Premio Goncourt 1956 con Le radici del cielo  lo incolpava  di non essere stato capace di ripetersi con libri di eguale valore. Per ironia della sorte anche La vita davanti a sé ottenne, come ho già scritto,  il prestigioso premio Goncourt e la cosa più strabiliante è che riviste di critica letteraria che avevano bersagliato Gary si dimostrarono entusiaste per Ajar. A parziale giustificazione di questo comportamento incongruente devo dire che per stile e argomenti il romanzo in questione sembra effettivamente scritto da un autore diverso, anche se alcuni aspetti tipici di Gary, come per esempio una certa vena poetica, ogni tanto affiorano, nonostante un linguaggio meno ricercato e più crudo.  

Ciò premesso, è arrivato il momento di una disamina di quest’opera che, a onor del vero, alla sua uscita ha suscitato opinioni contrastanti e anch’io, benché mi sia piaciuta, ho comunque formulato delle riserve perché in bocca a un bambino certe frasi e certe riflessioni a volte sembrano artificiose,  trattandosi di discorsi propri di uomini maturi. Però devo ammettere che il piccolo Momò ha una sua naturale simpatia, una tenerezza nella sua fanciullesca innocenza che coinvolge emotivamente. Periferie squallide dove vivono emarginati gli immigrati, le famose banlieues sono lo scenario, il palcoscenico su cui si svolge una vicenda tutto sommato semplice ma che è un grande romanzo d’amore, non dell’amore fra un uomo e una donna, ma del forte legame affettivo fra il bambino e la donna ebrea a cui è stato affidato, a dimostrazione che non esistono solo i vincoli di sangue e che nel bene e nel male l’esistenza può essere anche motivo di gioia, purché si abbia il desiderio di vivere, concetto molto bello, ma strano in un uomo che poi si suiciderà.

Non era facile da scrivere, era anzi difficile proprio per l’ambientazione, per i personaggi, rappresentanti di un mondo di reietti in cui abbondano protettori, drogati, prostitute, e far uscire da quel letamaio un giglio come Momò per dimostrare che in qualsiasi circostanza la vita comunque vale pena di essere vissuta deve avere quasi provocato nell’autore un’ossessiva ricerca del suo originario e ormai trascorso spirito infantile.

La vita davanti a sé non è un capolavoro come Educazione europea, benché toccato dalla grazia, incline però un po’ troppo, nonostante la rudezza dell’esposizione, a un sentimentalismo neppure tanto velato; è però quel che si dice un romanzo eccellente, dalla gradevole lettura e che lascia un’intensa commozione, facendo nascere un istintivo desiderio di protezione, la voglia di stendere una mano per carezzare il viso piangente di Momò. 

Romain Gary (Pseudonimo di Romain Kacev) nacque nel 1914. Lituano di nascita, nel 1928 si trasferì a Parigi. A trent'anni, Gary è un eroe di guerra (gli viene conferita la Legion d'honneur) e scrive il suo primo romanzo, Formiche a Stalingrado (1945), ispirato alla resistenza polacca contro i tedeschi, e che Sartre giudica il miglior testo sulla resistenza; comincia a lavorare come diplomatico per la Francia. Nel 1956 vince il Gouncourt con Le radici del cielo, ambientato in Africa, sulla lotta generosa di pochi volonterosi contro la decimazione degli elefanti, cui seguono, tra gli altri: La promessa dell’alba (1959), dedicato alla memoria della madre; Cane bianco (1970), di contenuto antirazzista; La vita davanti a sé (con lo pseudonimo di Émile Ajar, 1975, Premio Goncourt); Gli aquiloni (1980). 
Fu il marito della scrittrice Lesley Blanch e dell'attrice americana Jean Seberg, dalla quale divorziò. Poco più di un anno dopo il suicidio di questa (settembre 1979, per ingestione di barbiturici), si diede la morte nella sua casa a Parigi. In Italia i suoi romanzi sono pubblicati da Neri Pozza.
Renzo Montagnoli 

 

5 Luglio

Dal Monte Nero a Caporetto

Le dodici battaglie dell’Isonzo 1915 - 1917

di Fritz Weber

Ugo Mursia Editore

Storia

 

La guerra sull’Isonzo vista dall’altra parte

Undici grandi battaglie sull’Isonzo si conclusero con un quasi nulla di fatto, se si eccettua la presa di Gorizia, ma con gravissime perdite e, soprattutto, con pesanti strascichi sul morale delle nostre truppe, i cui effetti negativi, unitamente a gravi responsabilità dei comandanti, si sarebbero visti in occasione della dodicesima battaglia, quella nata dall’offensiva austriaco-tedesca e che si concretizzò nella disfatta di Caporetto. Fritz Weber che durante la Grande Guerra era tenente d’artiglieria sul fronte italiano, autore di altre celebri opere come  Guerra sulle Alpi (1915-1917) e Tappe della disfatta, con questo volume in cui predomina l’aspetto storico sulle vicende personali parla appunto delle dodici battaglie dell’Isonzo e lo fa con quella sostanziale imparzialità presente anche negli altri suoi due libri. Certo ha un occhio di riguardo per l’esercito imperiale, di cui faceva parte, ma non lesina giudizi negativi sulla condotta delle operazioni, né si esime da apprezzamenti sul valore del nemico; in ogni caso la sua penna è guidata da un profondo senso di pietà per chi combatté disperatamente, morendo o restando gravemente ferito, lungo quel fiumiciattolo che risponde al nome di Isonzo e che negli intendimenti del nostro Stato Maggiore avrebbe dovuto rappresentare il punto di partenza per l’invasione dell’impero asburgico. Da un lato Cadorna mandava all’attacco frontale i suoi soldati, con conseguenti immani perdite, dall’altro Borojevic imponeva alle sue truppe di resistere a oltranza, contrattaccando ove era possibile. Questa tattica militare spiega pertanto l’elevato numero di caduti sugli opposti fronti, e senza che ci potesse essere una soluzione definitiva, perché se gli italiani non sfondavano, era altrettanto vero che gli austriaci, peraltro inferiori di numero, non potevano sperare in una vittoria determinante con una tattica d’arresto. Era una situazione di stallo, imposta dal terreno e dagli elementi contingenti, ma le cose avrebbero potuto essere molto diverse se, nei primi giorni di guerra, Cadorna avesse osato un po’, visto che il fronte austriaco era difeso da un velo di truppe; né mai al generale italiano venne in mente una mossa geniale come quella inventata da Conrad von Hotzendorf nella primavera del 1916 con la famosa Strafexpedition, fermata sì dall’eroismo dalle nostre truppe, ma soprattutto dal ritiro di numerosi reparti imperiali per essere avviati al fronte orientale onde contrastare una profonda offensiva russa, peraltro reclamata a gran voce dal nostro Stato Maggiore, messo alle strette dalla dirompente avanzata nemica sugli altipiani. Non dico che Cadorna avrebbe dovuto necessariamente attaccare sulla direttrice Asiago – Lavarone, ma ci fu più di un’occasione in cui un’azione ben congegnata in Valsugana avrebbe potuto portarci rapidamente a Bolzano e da lì al Brennero, minacciando di avvolgimento lo schieramento austriaco postato lungo l’Isonzo.

In Dal Monte Nero a Caporetto l’esperienza bellica di Fritz Weber ha un peso piuttosto modesto e a prevalere è invece la ricerca storica, a tutto beneficio della comprensione di certi eventi, fra i quali appunto lo sbandamento del nostro esercito in occasione della dodicesima battaglia, ed è importante sentire il suono dell’altra campana, la quale ribadisce l’incapacità dei nostri comandi a comprendere il senso di un’azione congiunta e manovrata di ampio respiro, che avrebbe potuto giustificare le grandi perdite con la conquista di vaste zone e con la minaccia non certo velata di puntare su Vienna. Quindi rispetto e onore per i nostri soldati e critiche, non infondate, per i nostri comandanti; per quanto concerne poi l’esercito austriaco c’è una partecipata commozione alla sorte di tanti militari di diversa nazionalità, ma tuttavia fedeli a un impero agonizzante ancor prima dell’inizio del conflitto; per i comandanti imperiali in genere c’è rispetto e anche stima, pure loro vittime di un regime morente. Per chi vuole conoscere un po’ di più la storia della nostra Grande Guerra Dal Monte Nero a Caporetto rappresenta un saggio utile e per niente greve, un’opera quindi che mi sento di consigliare anche perché dalla lettura di fatti che ci riguardano scritti da un ex nemico si possono solo trarre apprezzabili insegnamenti e ragionevoli metri di giudizio.

Fritz Weber, ufficiale dell’esercito austro-ungarico durante la Prima guerra mondiale, ha raccolto la sua testimonianza sul conflitto in memoriali che rappresentano uno dei punti di riferimento della storiografia militare. Ricordiamo Guerra sulle Alpi (1915-1917) e Tappe della disfatta, entrambi editi da Mursia.
Renzo Montagnoli 

 

30 Giugno

Un matrimonio mantovano

di Giovanni Nuvoletti

Arnoldo Mondadori Editore S.p.A.

Narrativa romanzo storico

 

I maneggi per arrivare all’altare

C’è qualcuno che ha voluto vedere dei richiami manzoniani in quest’opera che si può tranquillamente definire un romanzo storico, ma mi sembra francamente eccessivo e, soprattutto, non corretto, giacché del lavoro del grande Manzoni non ha assolutamente nulla, nemmeno, magari anche solo in parte, la trama. Un matrimonio mantovano è invece una testimonianza storica di quella che è stata la civiltà contadina, con i suoi riti e le sue superstizioni, emblemi probabilmente indispensabili in un mondo legato alla terra a tal punto da esserne parte, soggetto ai capricci del tempo e all’oneroso lavoro proprio del contadino.

La vicenda è quella relativa al matrimonio di Felicita, figlia di un coltivatore della terra che è riuscito a elevarsi al rango di padrone. Ma, prima dello sposalizio, c’è tutto un periodo di tempo necessario per la ricerca del futuro sposo e, una volta trovato, per riuscire ad accalappiarlo.

I maneggi, gli artifici, le piccole trappole poste in essere sono la parte migliore di un libro che si fa anche apprezzare per la capacità dell’autore di descrivere un piccolo borgo e i suoi abitanti. Il paese, sito nel mantovano, si chiama Gazzuolo, dove appunto Nuvoletti è nato e dove il padre, ingegnere, nonché conte, aveva diversi fondi agricoli. I nuovi Renzo e Lucia come potremmo definire, sono figli del popolo, per quanto diventati abbienti in forza del duro lavoro dei genitori, e sugli stessi è imbastita l’intera struttura, con il corollario di una serie di personaggi che si possono trovare solo nelle piccole realtà. Dunque, in questa Italia del 1912, epoca della storia, l’autore, ovviamente conte pure lui come il padre, preferisce rendere protagonisti due individui che si potrebbero definire della nuova borghesia, non omettendo però la peculiarità dei nobili e quindi inserendo nella vicenda le figure di una vecchia marchesa vedova e di un conte avanti con gli anni, smaliziato per i trascorsi giovanili, ma paternamente benevolo. E se da un lato l’attribuzione di una certa benevolenza alle figure degli aristocratici rientra in un comprensibile desiderio dell’autore di farli apparire  diversi, protettivi, autorevolmente presenti, dall’altro sembra volerci dire che si tratta delle ultime figure di una classe sociale in decadenza e che il turbine della seconda guerra mondiale avrebbe spazzato via.

La mano dell’autore è leggera, la lingua italiana è utilizzata come si deve, la trama è avvincente e la lettura, sempre gradevole, corre veloce, pur necessitando di qualche sosta per opportune riflessioni, per un tentativo di paragone fra un mondo così lontano e il nostro, fra un’epoca in cui il tempo pareva scorrere lento e la nostra in cui le lancette girano troppo velocemente.  Quello era un mondo in cui i contatti fra giovani degli opposti sessi dovevano seguire un rigido cerimoniale, fatto agli inizi di occhiate, di pudici e brevissimi sorrisi, per arrivare con gradualità al fatidico giorno del matrimonio, dopo il quale tutto era concesso.

Un matrimonio mantovano, la cui lettura all’inizio incuriosisce, ma che poi, procedendo sempre più celermente, appassiona è quello che si potrebbe definire un autentico gioiellino.

Giovanni Nuvoletti (Gazzuolo, 16 ottobre 1912 – Abano Terme, 4 aprile 2008) è stato uno scrittore, nonché attore cinematografico e televisivo. Fra le sue opere letterarie famosi sono i romanzi Un matrimonio mantovano (1972) e Un adulterio mantovano (1981), nonché i saggi Vestire una bambina (1997) e Elogio della cravatta (1982).
Renzo Montagnoli 

 

25 Giugno

Il fuoco e il gelo.

La grande guerra sulle montagne

di Enrico Camanni

Laterza Editore

Storia 

 

Montagne insanguinate

Prima guerra mondiale, la Grande Guerra: il fronte italo-austriaco va grosso modo dallo Stelvio all’Adriatico, un po’ prima di Trieste. Di questa linea irregolare ben 640 chilometri sono in montagna, corrono su ghiacciai, su creste, su cenge, su altipiani, su brevi tratti di pianura. Ci sono rilievi notevoli, che si avvicinano ai 4.000 metri e ci sono le più belle montagne del mondo, le Dolomiti. Gli scenari sono incantevoli, ma anche mozzafiato, con guglie che si inerpicano verso il cielo e altissime colonne di giaccio. In questo ambiente, estremo, surreale, ma anche di sublime bellezza combatterono per tre anni e tre terribili inverni i nostri Alpini da una parte, i Kaiserjager dall’altra, nemici, ma accomunati dal fatto di essere appassionati di questo mondo, tanto bello e incantato, ma anche capace di essere crudele con i suoi rigidissimi inverni, con le valanghe che seppelliscono interi reparti, provocando morti in larga misura, quasi e forse di più di quelli degli scontri veri e propri che, per la natura del terreno, non videro mai impegnate grandi masse di combattenti come invece accadeva a est sul Carso.  Di questi eroi ci parla Enrico Camanni; sulla base di diari e di testimonianze, riferisce di episodi che hanno visto protagonisti sia dell’una che dell’altra parte, senza mai enfasi, ma soprattutto riesce a non cadere mai nella retorica, pregio non indifferente, data la materia trattata. L’autore non toglie nulla all’aureola dei protagonisti, ma è chiaramente un pacifista, come traspare non poche volte. Fra gli Alpini e i Kaiserjager Camanni non sceglie nessuno, ma parlando di alcuni di loro sceglie la pace, in una narrazione che anche per gli scenari magistralmente descritti si rileva estremamente affascinante, riuscendo a cogliere, accanto all’orrore di un conflitto, la sublime emozione della natura. Non tutti sono personaggi come Damiano Chiesa e Cesare Battisti, o come Sepp Innerkofler, ma sono protagonisti di storie, vere, che restano indimenticabili, e non solo per le azioni belliche vere e proprie, ma per le capacità alpinistiche che dimostrarono nell’adempimento del loro dovere, arrivando al punto di inaugurare nuove, spericolate vie. Ci si può commuovere di fronte alla vicenda dell’ufficiale mantovano Arnaldo Berni, tanto coraggioso quanto sfortunato, e il cui corpo non verrà mai ritrovato, imprigionato sotto tonnellate di ghiaccio, o a quella del sergente Sepp Innerkofler, nota guida, che si immola per difendere il suo paese, ma ciò che resta è l’immagine di uomini che, pur essendo contro, non furono mai effettivamente nemici, troppo uniti dal comune amore per quella montagna che li volle con sé per sempre. Furono a lungo vicini agli angeli e angeli stessi divennero; combattevano per pochi sassi, per speroni di roccia così scoscesi che non di rado lasciavano cadere, travolgendo chi stava sotto, gigantesche valanghe. Se nella guerra ci può anche essere un barlume di logica, lì mancava del tutto, perché si soffriva, si moriva, ci si disperava in  uno dei posti più belli del mondo.

Il fuoco e il gelo è un rigoroso libro di storia, ma ha il sapore di un romanzo, di un racconto irripetibile e avvincente come pochi.

Enrico Camanni, nato a Torino nel 1957, ha conseguito il diploma di maturità scientifica al liceo Gobetti in clima post sessantottino e ha frequentato il corso di indirizzo storico alla facoltà di Scienze Politiche.Alpinista molto attivo sulle Alpi, dove ha aperto una decina di vie nuove e ripetuto circa cinquecento itinerari di roccia e ghiaccio, è stato membro del Gruppo Alta Montagna, istruttore della Scuola nazionale di Alpinismo Giusto Gervasutti e direttore della Scuola nazionale di Scialpinismo della Sucai Torino. Attraverso la passione per l’alpinismo, è approdato al giornalismo di montagna, alternando lo studio con il lavoro di redazione. È stato redattore capo della “Rivista della Montagna” dal 1977 al 1984. Nel 1985 ha fondato il mensile “Alp”, che ha diretto per tredici anni. Dal 1999 al 2008 ha diretto la rivista internazionale di cultura alpina “L'Alpe” (edizione italiana), nata da un accordo di cooperazione con il Musée Dauphinois di Grenoble. Dal 1999 collabora con il quotidiano “La Stampa”, nelle pagine culturali e in cronaca. Dal 2008 al 2011 ha diretto il mensile “Piemonte Parchi” della Regione Piemonte. Ha scritto circa mille articoli, commenti, saggi, introduzioni sulla storia dell’alpinismo, l’ambiente e le tematiche alpine, collaborando con numerosi giornali quotidiani e periodici tra cui “Airone”, “Il Sole 24 ore”, “La Stampa”, “L’Unit à”, “Meridiani”, “Specchio”, “L’Indice”,"Giornale dell'Architettura". In trent’anni di attività pubblicistica e di ricerca, ha gradualmente allargato i suoi studi dall’alpinismo alla storia delle Alpi e alle problematiche dell’ambiente alpino, in particolare dal punto di vista umano, unendo più discipline e una vasta gamma di competenze. Si è contemporaneamente dedicato alla narrativa, pubblicando cinque romanzi ambientati in diversi periodi storici. Ha diretto e curato l’edizione italiana del Grande Dizionario Enciclopedico delle Alpi (2007). Ha affrontato il problema della museografia alpina contemporanea, curando la progettazione scientifica del Museo della Montagna di Torino, del Museo delle Alpi al Forte di Bard (Opera Carlo Alberto) e delle Alpi dei Ragazzi al Forte di Bard (Opera Vittorio). Ha collaborato alla progettazione e alla realizzazione dell’esposizione permanente “Montagna in movimento” al Forte di Vinadio (Valle Stura). È stato progettista e direttore culturale di “Alpi 365 Expo”, il rinnovato salone della montagna di Torino (2007). Dal 2009 è vicepresidente dell’associazione “Dislivelli, ricerca e comunicazione sulla montagna”. 
fonte: www.enricocamanni.it
Renzo Montagnoli 
 

 

22 Giugno

Il segreto di Ortelia

di Andrea Vitali

Garzanti Libri

Narrativa romanzo 

 

Un’insperabile ironia

Si è spesso detto che Andrea Vitali per certi aspetti è il successore di quel grande narratore che è stato Piero Chiara; personalmente non sono d’accordo, perché troppa è la differenza di classe artistica fra l’uno e l’altro, e non basta certo la medesima ambientazione di piccolo paese della provincia per colmarla.  Tuttavia, almeno in questo Il segreto di Ortelia, il romanziere di Bellano si avvicina a quello di Luino, in una prova dall’esito felice e in cui si narra di una sorta di piccola “Dynasty”.  La vicenda di Amleto Serva, giovane garzone senza arte né parte di un commerciante di bestiame che grazie a un matrimonio intraprende una carriera senz’altro rilevante è di per sé motivo d’interesse, ma se a ciò aggiungiamo il carattere sanguigno del soggetto, la voglia smodata di prestazioni sessuali che la moglie, purtroppo, per un difetto fisico non può soddisfare si comprende come la creatività questa volta abbia messo in campo più di un argomento a favore di un’opera attraente.  E’ necessario anche precisare che l’unica volta che Amleto è riuscito a congiungersi con la moglie Cirene, nonostante i dolori indicibili della stessa, c’è stato il concepimento di una figlia, Ortelia appunto. L’ambizione dell’uomo, succeduto nel negozio di macelleria del suocero, lo porta a raggiungere traguardi sempre più alti, ma gli rende anche la vita quasi intollerabile al punto che, su consiglio del medico di famiglia, decide di entrare a far parte di una congrega di crapuloni e puttanieri, altro argomento di potenziale interesse.   E in effetti, vuoi per il dipanarsi senza intoppi della vicenda, vuoi per un’insperata ironia che accompagna la narrazione, Il segreto di Ortelia è uno di quei libri che paiono ispirati a una delle opere di Piero Chiara, e non solo per le caratteristiche della trama. In queste pagine Vitali ha forse profuso il meglio di stesso, in un particolare momento di grazia, con una pacatezza, e senza mai un eccesso, che sono assai probabilmente le grandi qualità del romanzo. Inoltre, a differenza di altre sue opere, non è lunga, direi anzi che è breve, così che tutta la storia è un riuscito concentrato che non potrà che risultare gradito al lettore.

Dopo aver frequentato «il severissimo liceo Manzoni» di Lecco, Andrea Vitali si laurea in medicina all'Università Statale di Milano ed esercita la professione di medico di base nel suo paese natale. 
Scrittore molto prolifico, ha esordito nel 1990 con il romanzo breve Il procuratore, ispiratogli dai racconti di suo padre; nel 1996 ha vinto il Premio letterario Piero Chiara con L'ombra di Marinetti, ma il grande successo lo ha ottenuto nel 2003 con Una finestra vistalago (Premio Grinzane 2004). 
Nel 2006 ha vinto il Premio Bancarella con il romanzo La figlia del Podestà; nel 2009 il Premio Boccaccio e il Premio Hemingway. 
Tra i numerosi romanzi, ricordiamo: nel 2011 La leggenda del morto contento e Zia Antonia sapeva di menta. Nel 2012 Galeotto fu il collier e Regalo di nozze. L'anno successivo escono Le tre minestre, lungo racconto autobiografico edito da Mondadori-Electa e Di Ilide ce n'è una sola. Nel 2014 Quattro sberle benedettePremiata ditta Sorelle Ficcadenti e Biglietto, signorina!; nel 2015 La ruga del cretino, scritto con Massimo Picozzi, Le belle Cece, La verità della suora storta, Quattro schiaffi benedetti, Un amore di zitella (tutti editi da Garzanti). Nel 2016 Nel mio paese è successo un fatto strano (Salani), Le mele di Kafka (Garzanti) e Viva più che mai (Garzanti).
Da ricordare che con il romanzo Almeno il cappello (edito nel 2009 da Garzanti) Andrea vitali ha vinto il Premio Casanova, il Premio Isola di Arturo Elsa Morante, il Campiello sezione giuria dei letterati ed è stato finalista al Premio Strega.
I suoi libri, pubblicati in Italia da Garzanti, sono stati tradotti in molti paesi, tra cui la Turchia, la Serbia e il Giappone. 
Renzo Montagnoli 
 

 

16 Giugno

Bandiere rosse, aquile nere

di Guido Cervo

Edizioni Piemme

Narrativa romanzo storico

 

Senza retorica, solo pietà

E’ passato ormai ben più di mezzo secolo da quei quasi 4 anni (1942 – 1945) così gravidi di eventi e di sofferenze per il nostro paese, in pratica dalla sconfitta delle truppe dell’Asse a El Alamein, all’invasione della Sicilia, alla defenestrazione di Mussolini nel corso della seduta del Gran Consiglio del 25 luglio 1943, all’armistizio dell’8 settembre 1943 con conseguente occupazione tedesca del nostro suolo, alla nascita della Repubblica Sociale Italiana, ai lunghi mesi di una guerra civile che finì solo con la liberazione degli alleati il 25 aprile 1945. Più trascorre il tempo da un periodo storico, più si raffreddano gli animi, più il raziocinio prende il sopravvento sulla passione e quindi meno difficile, ma ancora tutt’altro che facile, è imbastire un romanzo storico ambientato in un periodo così travagliato. Guido Cervo ha voluto cimentarsi in proposito e mi sento di dire che il risultato è ampiamente positivo. Questo narratore ha capacità di profonde analisi storiche, sa sapientemente accostare personaggi realmente esistiti a frutti della sua creatività, è in grado sempre di trasmettere al lettore la sensazione che quanto scritto sia una cronaca reale, e questo grazie a uno stile non ridondante e all’abilità di descrivere i protagonisti con pochi e sicuri tratti di penna. Bandiere rosse, aquile nere si riallaccia, idealmente, a I ponti della Delizia, stupendo romanzo di Cervo sulla ritirata di Caporetto nella Grande Guerra. Infatti troviamo tre dei protagonisti di quell’opera, la maestra Ersilia che si è sposata con l’ex tenente degli arditi Ferruccio Martinelli, pure lui presente e diventato seniore della milizia fascista, nonché l’allora piccola Anna, dagli stessi adottata, ma cresciuta con idee politiche totalmente contrapposte a quelle dei genitori, fuggita da casa seguendo il sogno comunista. La famiglia Martinelli è composta anche dai figli avuti dopo il matrimonio, un’altra femmina, molto giovane e che nel romanzo è quasi una comparsa, due maschi, Alberto tenente dei bersaglieri che ritornerà dall’Africa gravemente ferito e menomato, ed Eugenio, impulsivo, desideroso di battersi e che aderirà fra i primi alla X Mas. Il lungo e tormentato periodo dalla guerra darà luogo a tante vicende in cui oltre a vedere come attori principali i membri della famiglia Martinelli registrerà la partecipazione di tanti personaggi, alcuni dei quali di grande spessore, come il terrorista dei Gap Stefano Zanderighi, una figura apparentemente minore, ma a cui viene demandato il compito, non certo facile, di precipitare nella disumanizzazione per poi tentare con fatica di riemergere, di cercare una vita propria lontana da tensioni adrenaliniche e da ogni violenza.

Ci siamo sempre chiesti il perché, dopo l’8 settembre 1943, ci siano state scelte così contrastanti e che portarono alla guerra civile. Indubbiamente, in un frangente come quello dell’improvviso armistizio, non fu facile prendere una decisione, anche se fu certamente più difficile quella di prendere la via della montagna per combattere gli occupanti tedeschi e poco dopo anche i Repubblichini. Privi di organizzazione all’inizio, quasi disarmati, con pochi viveri non fu certamente una scelta a cuor leggero quella di diventare partigiani, anche perché si trattava di sconvolgere un modo di vita instillato da anni di dittatura, in un regime progressivamente inviso con il progredire di una guerra sanguinosa. Dall’altro lato, posso capire chi accampò motivi di onore, di  coerenza di comportamenti, decisioni forse rispettabili, tanto più che ben si sapeva, o comunque si intuiva, che la guerra era persa. Questi dilemmi, queste lacerazioni interiori sono parte della narrazione e non potrebbe essere diversamente, perché a parte i fanatici, gli approfittatori, coloro che vedevano una possibilità per esprimere il loro animo criminale, gli altri si trovarono di fronte a una scelta assai difficile. Il romanzo non fa sconti a nessuno, né alle violenze della Guardia Nazionale Repubblicana, né a quelle dei partigiani che soprattutto a guerra finita insanguinarono il paese. Cervo però ha un pregio, racconta, non prende le parti di nessuno, ci mostra così come è stato un lungo orrore e lo fa senza enfasi, così come da cronista attento e indipendente descrive con grande abilità i bombardamenti aerei su Milano, con una prosa talmente realistica che si avverte la tensione, sembra di udire il suono della sirena d’allarme, si avverte il crescente sibilo delle bombe che cadono, si assiste impotenti alle distruzioni.  Devo dire che francamente questo romanzo mi ha stupito per la capacità di comprendere e di far comprendere le opposte motivazioni, perché non c’è odio, ma solo tanta pietà per un dolore immenso che ha sconvolto l’Italia più di mezzo secolo fa.

Da ultimo, ho ritratto l’impressione che giunto all’ultima pagina sia rimasta una certa sospensione, quasi che possa essere sottesa l’ipotesi di un terzo romanzo, che credo potrebbe andare dal dopo guerra fino al termine del secolo scorso, un periodo di estremo interesse per tutti, ma soprattutto per chi come me l’ha vissuto.

Da leggere, mi sembra ovvio. 

Guido Cervo vive e lavora a Bergamo. È autore di romanzi di successo, tutti pubblicati da Piemme, tra cui "La trilogia del Legato romano", che ora viene riproposta, nel suo primo volume, in una nuova versione, la serie Il Teutone e due romanzi che affrontano i tragici conflitti mondiali del Novecento: Via dalla trincea e Bandiere rosse, aquile nere...
Renzo Montagnoli 
 

 

13 Giugno

A cantare fu il cane

di Andrea Vitali

Garzanti Libri

Narrativa romanzo

 

Nulla è ciò che sembra

Quando un romanzo di Vitali, che è sostanzialmente una commedia degli equivoci, parte bene si può essere certi che l’autore riesce a condurlo con mano sicura fino all’ultima pagina. Se poi alla consueta ambientazione (il grazioso paese di Bellano) e a personaggi che sembrano delle caricature si accompagna la figura del maresciallo dei Regi Carabinieri Maccadò, dando una punta di giallo all’intera trama, si può star sicuri che il divertimento è assicurato. In A cantare fu il cane accade di tutto, con un tentativo di furto che serve però a coprire ben altre cose e che fa da fil rouge, e con la ricerca di un rampollo di una famiglia borghese che pare sia fuggito con l’ammaliante Omosupe, illusionista ed escapologa, l’effettiva grande attrazione del circo Astra, famosa per l’esibizione del suo ombelico che tanto fa eccitare i maschi del paese.

Tutto quanto è non ciò che sembra e Maccadò avrà il suo bel da fare per venire a capo delle sue indagini, coadiuvato dai suoi due carabinieri dai nomi indovinatissimi (Grafico e Virgola) e dall’appuntato Misfatti che incapperà in una disavventura da far sbellicare dalle risate.

Di più non posso dire, o meglio non riesco a dire, perché il romanzo non vive su un unico equivoco, ma su molti altri che nascono pagina dopo pagina grazie all’inesauribile vena dell’autore.

A Vitali qualche volta la torta non riesce bene, nel senso che l’opera, fragile sin dall’inizio, si ammoscia pagina dopo pagina, ma in questo caso, con A cantare fu il cane, non è così e assicuro che il libro consente di trascorrere alcune ore di sereno svago.

Dopo aver frequentato «il severissimo liceo Manzoni» di Lecco, Andrea Vitali si laurea in medicina all'Università Statale di Milano ed esercita la professione di medico di base nel suo paese natale. 
Scrittore molto prolifico, ha esordito nel 1990 con il romanzo breve Il procuratore, ispiratogli dai racconti di suo padre; nel 1996 ha vinto il Premio letterario Piero Chiara con L'ombra di Marinetti, ma il grande successo lo ha ottenuto nel 2003 con Una finestra vistalago (Premio Grinzane 2004). 
Nel 2006 ha vinto il Premio Bancarella con il romanzo La figlia del Podestà; nel 2009 il Premio Boccaccio e il Premio Hemingway. 
Tra i numerosi romanzi, ricordiamo: nel 2011 La leggenda del morto contento e Zia Antonia sapeva di menta. Nel 2012 Galeotto fu il collier e Regalo di nozze. L'anno successivo escono Le tre minestre, lungo racconto autobiografico edito da Mondadori-Electa e Di Ilide ce n'è una sola. Nel 2014 Quattro sberle benedettePremiata ditta Sorelle Ficcadenti e Biglietto, signorina!; nel 2015 La ruga del cretino, scritto con Massimo Picozzi, Le belle Cece, La verità della suora storta, Quattro schiaffi benedetti, Un amore di zitella (tutti editi da Garzanti). Nel 2016 Nel mio paese è successo un fatto strano (Salani), Le mele di Kafka (Garzanti) e Viva più che mai (Garzanti).
Da ricordare che con il romanzo Almeno il cappello (edito nel 2009 da Garzanti) Andrea vitali ha vinto il Premio Casanova, il Premio Isola di Arturo Elsa Morante, il Campiello sezione giuria dei letterati ed è stato finalista al Premio Strega.
I suoi libri, pubblicati in Italia da Garzanti, sono stati tradotti in molti paesi, tra cui la Turchia, la Serbia e il Giappone. 
Renzo Montagnoli 
 

 

10 Giugno

Santa Maria delle Battaglie

di Raffaele Nigro

Rizzoli Editore

Narrativa romanzo storico

 

Il miracolo delle parole

Fra i soppalchi di una libreria c’è una statua lignea del XVI secolo raffigurante la Madonna, e per la precisione Santa Maria delle Battaglie. In quella camera c’è anche un letto dove dorme, in attesa di un quasi impossibile, ma tanto bramato risveglio Federica, una ragazza vittima di un incidente stradale che l’ha ridotta in quello stato comatoso. Tutto si fa perché esca da quell’immutabile torpore: la televisione sempre accesa, l’infermiera che continua a parlarle, ma c’è anche chi comunica con lei in silenzio, in ciò pregata dalla madre dell’inferma: è quella statua che le narra dei suoi avi, una storia stupenda che ha appreso dai versi del cantastorie Colantonio Occhiostracciato.  Quella camera fa parte di una villa in cui vivono, separati dalle loro passioni, i genitori di Federica, lui un filosofo, per sua natura portato a una vita quieta e riflessiva, lei una giornalista, continuamente in prima linea.

In pratica là si consumano due drammi: quello di una giovane bellissima che ormai vegeta e quello di un uomo e una donna uniti solo dall’incomunicabilità.

Per quanto diverse le cause, uguali sono gli effetti; il silenzio fra i coniugi si intuisce, pare un fatto ormai assodato e assolutamente impossibile da sanare; poca speranza c’è per il risveglio di Federica, ma nondimeno la Madonna delle Battaglie continua a parlarle, perché in ciò è stata pregata da Magdalena, la madre della ragazza. Le vicende degli avi, di quel figlio, che da scapestrato diventerà un difensore della cristianità, figlio nato da una relazione pressoché incestuosa fra zio e nipote, gli scontri inevitabili fra gli spagnoli che comandano in meridione e i francesi che vorrebbero soppiantarli con l’aiuto dei Turchi, hanno un ritmo incalzante, proprio dei romanzi d’avventura, ma non tralasciano tuttavia di soffermarsi sul senso della vita, su quella ricerca affannosa che anima e divora non pochi uomini. E in questo contesto prende corpo una tenzone fra Braccio Cacciante (questo è il nome del figlio del peccato) e il famoso pirata Khair ed-Din, il Barbarossa, dapprima per una donna, ma poi per dare un senso alle loro esistenze. La sfida continuerà, una volta morto Braccio, con suo figlio Belisario, diventato un virtuoso dei fuochi pirotecnici, ma anche in questo caso senza che uno prevalga sull’altro, perché è troppo importante avere nella vita qualcuno con cui misurarsi.

Se I fuochi del Basento mi aveva impressionato, entusiasmandomi, questo Santa Maria delle Battaglie é stata un’emozione continua e crescente, perché, al di là della vicenda narrata, non si può restare indifferenti alla creatività visionaria di Raffaele Nigro che porta perfino davanti agli occhi del lettore lo spettacolo mozzafiato dei fuochi d’artificio, grazie a uno stile di rara efficacia, con una scrittura che sembra scivolare sul foglio. La capacità descrittiva è quasi incredibile, tanto che le scene si susseguono come in una pellicola cinematografica. Ci sarebbe da dire che a ogni pagina si attende il miracolo della Madonna, ma il miracolo, così come auspicato, cioè la guarigione non ci sarà, eppure possiamo parlare tuttavia di miracolo, di un qualcosa di speciale che risiede nella forza delle parole, capaci di far ricordare il passato e quindi  di consentire agli uomini di essere artefici del proprio presente e del futuro.

Mi piacerebbe aggiungere qualche altra considerazione, perché il romanzo merita tanto, ma per quanto cerchi dentro di me sono sopraffatto da un’emozione intensa, da quel senso di entusiastico appagamento che mi coglie quando ho la certezza di aver letto un capolavoro.

Raffaele Nigro (Melfi, Potenza, 1947) scrittore e saggista italiano. La ricca produzione saggistica riguarda soprattutto la storia e la cultura di Basilicata e Puglia (Basilicata tra Umanesimo e Barocco, 1981). I toni dell’epopea popolare si affermano nel romanzo storico I fuochi del Basento (1987, premio Campiello); mafia e corruzione sono invece i temi di Ombre sull’Ofanto (1992, premio Grinzane); corposo romanzo che rivisita i «cunti» fantastici seicenteschi è Dio di Levante (1994); Diario mediterraneo (2000) affronta il tema dell’incontro-scontro tra le culture che si affacciano sul «mare nostrum»; Malvarosa (2005) dipinge un meridione nel difficile passaggio alla modernità. È autore anche della raccolta di racconti I piantatori di Lune (1991).
Renzo Montagnoli 

 

6 Giugno

Il comunista in camicia nera

Nicola Bombacci tra Lenin e Mussolini

di Arrigo Petacco

Arnoldo Mondadori Editore S.p.A.

Biografia 

 

Un socialista particolare

Soprattutto dopo aver letto questa interessante biografia sono più che mai convinto che certi personaggi possano nascere solo in Italia. Perché? Basta leggere la vita di Nicola Bombacci, romagnolo purosangue, amico fraterno di Mussolini, prima fervente socialista, poi fondatore del partito comunista italiano, da cui fu espulso per il suo non allineamento alle direttive della segreteria, non perseguitato durante il ventennio e che addirittura, all’indomani della liberazione di Mussolini dalla sua prigione sul Gran Sasso e successiva fondazione della Repubblica Sociale Italiana, si fiondò a Gargnano, dove dimorava il duce e si mise a sua disposizione. Credo che una vita così avventurosa e anche piena di controsensi sia pressoché unica, vita che come sappiamo si conclude il 28 aprile 1945 sul lungolago di Dongo con la morte per fucilazione, unitamente ad altri gerarchi fascisti, fra i quali Pavolini. Il libro di Petacco è ben scritto e ben documentato, finisce inoltre con il ripercorrere la storia del partito socialista italiano dagli anni antecedenti la Grande guerra fino a quello in cui si conclude la seconda guerra mondiale. Non c’è la pretesa di dire tutto e di parlare di tutto, resta però il fatto che con un personaggio come il mite Bombacci è impossibile esaurire il tema in poche pagine, perché ci troviamo di fronte a un uomo che, oltre a provocare la famosa scissione di Livorno nel partito socialista con la fondazione del partito comunista,  è stato un testimone d’eccezione dei primi anni anni della Russia sovietica, frequentando a Mosca Lenin  e costituendo un ponte ideale fra la rivoluzione russa e quella fascista, in ciò stimolato dalla dirigenza del Comintern e con il compiaciuto assenso di Mussolini. Oratore di indubbie capacità (i suoi comizi erano sempre un successo e lo furono anche nel breve periodo della Repubblica Sociale Italiana), un po’ narcisista, era uomo politico più teorico che pratico e ciò lo si nota anche negli articoli della Carta di Verona, le cui basi, strutture e indirizzi  furono senz’altro sue e approvate da Mussolini; questo manifesto della RSI è sostanzialmente socialista, ma, se gli intenti sono ottimi, le modalità per raggiungere uno stato che vedesse paritetici capitale e lavoro nel comune interesse sono alquanto fumose e di difficile realizzazione, soprattutto in un periodo come quello, con l’Italia invasa e la guerra civile in corso. Prima di cadere sotto i colpi del plotone di esecuzione pare abbia gridato “Viva Mussolini! Viva il socialismo!” e c’è da credere che sia vero, perché l’uomo, pur non avendo dei concetti ben precisi di quello che dovrebbe essere una democrazia socialista, tuttavia intimamente apprezzava e desiderava un mondo in cui il lavoro e i lavoratori potessero trovare dignità di protagonisti non subordinati. Il suo corpo, come quelli degli altri fascisti giustiziati a Dongo e di Mussolini e della Petacci, eliminati a Giulino di Mezzegra, finì appeso a Milano a Piazzale Loreto e nel documento che attestava la fucilazione sotto il suo nome c’era scritto “Supertraditore”, perché tale era considerato dai suoi ex compagni comunisti.

Da leggere.

Arrigo Petacco (Castelnuovo Magra, 7 agosto 1929 – Portovenere, 3 aprile 2018). Giornalista, inviato speciale, è stato direttore della «Nazione» e di «Storia illustrata », ha sceneggiato film e realizzato programmi televisivi di successo. Nei suoi libri affronta i grandi misteri della storia, ribaltando spesso verità giudicate incontestabili. Fra gli altri ricordiamo, pubblicati da Mondadori:Dear Benito, caro Winston, I ragazzi del '44, La regina del Sud, Il Prefetto di ferro, La principessa del Nord, La Signora della Vandea, La nostra guerra. 1940-1945, Il comunista in camicia nera, L'archivio segreto di Mussolini, Regina. La vita e i segreti di Maria José, Il Superfascista, L'armata scomparsa, L'esodo, L'anarchico che venne dall'America, L'amante dell'imperatore, Joe Petrosino, L'armata nel deserto, Ammazzate quel fascista!, Il Cristo dell'Amiata, Faccetta nera, L'uomo della Provvidenza, La Croce e la Mezzaluna, ¡Viva la muerte!, L'ultima crociata, La strana guerra, Il Regno del Nord, O Roma o morte, Quelli che dissero no, Eva e Claretta, A Mosca, solo andataNazisti in fugaLa storia ci ha mentito e Ho sparato a Garibaldi.
Renzo Montagnoli 

 

3 Giugno

Banda randagia

di Vincenzo Pardini

Fandango Libri

www.fandangoeditore.it

Narrativa racconti noir

 

Bestie, e non animali

Pardini ci ha abituato, con i suoi romanzi e con i suoi racconti, a descrivere un tempo in cui uomini e natura, ma soprattutto uomini e animali erano capaci di interagire, di convivere in una posizione sostanzialmente paritaria; non è un’Arcadia di cui ci parla, ma è una realtà che attualmente, presi da interessi secondari che riteniamo invece primari, ci sfugge e non vedendola ci priviamo della facoltà di essere liberi in un mondo di liberi. E’ stato quindi con un certo stupore che, leggendo i racconti di questa raccolta intitolata Banda randagia,  ho trovato argomenti ben diversi e soprattutto svolgimenti di temi che non ricordano lo stile di scrittura tipica dell’autore lucchese. Si è infatti in presenza di noir, che non di rado sfiorano l’horror, ma soprattutto c’è una violenza sotto tutti gli aspetti che mi ha invero sconcertato. Il Pardini misurato di Il postale, tanto per citare una sua opera, lascia spazio qui a una inusuale tensione emotiva che esplode in una aggressività rabbiosa, in un eccesso che probabilmente si ritrova nei delinquenti psicopatici o paranoici, quali sono quasi tutti i protagonisti dei racconti. E questo eccesso è presente pure sotto l’aspetto sessuale, in cui i rapporti non sono per niente sfumati, ma sbattuti sotto gli occhi di tutti con descrizioni che non sono proprie della scrittura erotica, ma vanno oltre, sfiorando la pornografia. Mi riferisco in tal caso a due racconti, La moglie del serpente, con rapporti saffici, e Lo chiamavano orso, intriso di passioni omosessuali. Questione di gusti, ma questi due non mi sono piaciuti, a differenza di altri due che da soli valgono la pena di acquistare questo libro. Mi riferisco a Banda randagia, che dà il titolo all’opera, e che è tutto sommato un normale noir con la figura di uno psicopatico che diventa un serial killer, uccidendo a destra e a manca, ma il crescente disagio psichico è descritto felicemente, tanto che l’attesa nel lettore di arrivare alla fine cresce di pari passo con il delirio di onnipotenza tipico di questi soggetti; ed è l’unico racconto in cui ritrovo il Pardini capace di far parlare gli animali, di dare loro una personalità quasi da homo sapiens che così tanto ho apprezzato in altri suoi lavori; è un racconto bellissimo, quasi un piccolo romanzo breve, da cui ho ritratto impressioni positive su un senso di giustizia universale che non è dell’uomo, ma della natura. L’altra prosa che ha incontrato i miei favori è Ferrovia parallela, un viaggio da incubo in un incubo, la parabola di un uomo che si accorge di non poter definire la propria esistenza, perché altri, dal volto ignoto, decidono per lui senza che possa interloquire; in questo treno che viaggia senza mai fermarsi c’è tutta la vita di ognuno di noi, c’è il nostro destino che non possiamo cambiare. Mi è piaciuto, ma in misura minore, anche Il Roero, con un altro viaggio in treno, dove un uomo che rincorre il suo psicanalista si trova in una situazione di pericolo allucinante, partecipe di un giallo breve di cui non intendo dire altro per non anticipare troppo.

Mi sono chiesto il perché di questi racconti così diversi dalla consueta produzione dell’autore e non ho trovata altra risposta se non nell’attività svolta in precedenza; forse l’essere stato guardia giurata e magari qualche esperienza legata a questa professione hanno fatto scattare la molla della creatività, anche se credo – la mia però è un’ipotesi – che Pardini, uso a parlare di rapporti fra uomini e animali,  abbia inteso questa volta narrare di bestie, cioè di quel che diventa l’uomo quando delinque. 

Sono dell’opinione che, per quanto Banda randagia mi sia sembrata un’opera minore nella eccellente produzione di Pardini, sia comunque meritevole di lettura per le motivazioni che ho sopra esposto, nonché per la capacità di sondare l’animo umano, scoprendo il suo lato più oscuro.

Vincenzo Pardini è nato a Fabbriche di Vallico (Lucca) nel 1950. Collabora al Quotidiano Nazionale e alle riviste Nuovi Argomenti e Paragone. Tra le sue opere ricordiamo Jodo Cartamigli (Mondadori, 1989), Giovale(Bompiani, 1993), Rasoio di guerra (Giunti, 1995), Tra uomini e lupi (peQuod, 2005, premio Viareggio-Rèpaci), Il postale (Fandango, 2012) e Grande secolo d’oro e di dolore (Il Saggiatore, 2017)
Renzo Montagnoli 

 

27 Maggio

L’Italia invasa

1943 – 1945

di Gianni Rocca

Arnoldo Mondadori Editore S.p.A.

Storia

 

La Campagna d’Italia degli Anglo-americani

Nel corso della seconda guerra mondiale gli alleati sbarcarono in Sicilia il 10 luglio 1943, prima indispensabile fase dell’operazione Husky e che segnò l’inizio della Campagna d’Italia, una vera e propria invasione che avrebbe portato gli angloamericani, risalendo la penisola, alla completa conquista del nostro paese, con la resa delle truppe tedesche avvenuta formalmente il 29 aprile 1945. Si trattò quindi di ben ventidue mesi di battaglie cruente con inevitabili ripercussioni sulla popolazione civile, già stremata da una guerra che ci aveva visto sempre in estrema difficoltà. Peraltro, ad aggravare situazione, dopo l’armistizio italiano dell’8 settembre 1943 ci fu la pesante occupazione tedesca e la nascita della Repubblica Sociale Italiana che diede l’avvio a una crudele e sanguinosa guerra civile. Se è indubbio che il fronte italico era da considerarsi secondario nell’ottica del grande sbarco preparato e poi realizzato in Normandia, e che quindi le truppe alleate impegnate nello stivale non erano né particolarmente consistenti, né di rilevante qualità, fatte salve alcune divisioni, non si trovano giustificazioni logiche per un così lungo periodo di combattimenti, se non in due aspetti che possono ben spiegare la circostanza: il comandante tedesco, il maresciallo Albert Kesserling, riuscì, con notevole abilità, a ritardare l’avanzata alleata, nonché a contrastare efficacemente le due operazioni di sbarco, la prima nel golfo di Salerno, la seconda ad Anzio; contro un simile avversario i comandanti dei corpi di spedizione americano e inglese, rispettivamente i generali Mark Ckark e Harold Alexander (quest’ultimo responsabile delle operazioni), pur di capacità non inferiori e con mezzi senz’altro superiori, mostrarono ampie carenze dovute soprattutto alla rivalità esistente fra di loro. Per spiegare quanto di negativo abbia comportato la litigiosità fra i comandanti alleati basta ricordare che Clark venne meno all’incarico ricevuto nell’ambito del grande attacco alle linee tedesche imperniate su Cassino solo per arrivare primo a Roma, impedendo così l’accerchiamento di una rilevante entità delle forze nemiche. Comunque vi furono anche errori involontari, ma indubbiamente assai perniciosi, come quello, una volta sbarcati ad Anzio, di non procedere celermente verso l’interno, attesa l’assenza di tedeschi, ai quali fu lasciato tutto il tempo necessario per organizzarsi e intervenire.

Purtroppo, la guerra, che è già un’orrenda realtà, è fatta dagli uomini e quando  i capi di questi non sono adeguati, oppure non vanno d’accordo, inevitabilmente se ne pagano le conseguenze, conseguenze che si tradussero in grosse perdite degli alleati e nelle migliaia di vittime della popolazione civile.

Il saggio storico di Gianni Rocca parla appunto di questa invasione, del lento progredire dell’avanzata alleata, delle sofferenze degli italiani che si accentuarono  indicando eventi, personaggi, cause, risultati. Si tratta di uno dei periodi più tragici della nostra storia che i giovani oggi sovente non conoscono e di cui invece dovrebbero essere resi edotti, perché il nostro cammino verso la libertà non fu una passeggiata, fu un percorso di lacrime e sangue.

Gianni Rocca (Torino22 ottobre 1927 – Roma20 febbraio 2006) è stato un  giornalista italiano, fra i fondatori del quotidiano La Repubblica. A partire dagli anni ottanta si è dedicato anche a scrivere opere di riflessione storica che hanno avuto grande successo. Al riguardo, fra le più note, si ricordano Cadorna, il generalissimo di Caporetto; Fucilate gli ammiragli. La tragedia della Marina italiana nella seconda guerra mondiale; L’Italia invasa: 1943 – 1945; Stalin: quel “meraviglioso georgiano”; Caro revisionista, ti scrivo….
Renzo Montagnoli 
 

 

25 Maggio

Le Case del malcontento

di Sacha Naspini

Edizioni e/o

Narrativa romanzo
 

Un grande piccolo borgo

Mi corre l’obbligo di effettuare una doverosa premessa relativa all’autore, da me conosciuto una decina di anni fa in occasione della pubblicazione di un mio libro con un comune editore, Il Foglio Letterario, piccola, ma solo a dimensioni, realtà imprenditoriale; in quella circostanza, oltre a conversare piacevolmente con Naspini, ho ritratto la sensazione di trovarmi di fronte a un narratore di grandi speranze, sensazione che ha trovato poi una conferma nella lettura delle sue prime opere, vale a dire I sassi, un noir che privilegia gli approfondimenti di carattere psicologico, e L’ingrato, una storia di paese che è il pretesto per una spietata denuncia della maldicenza. Soprattutto quest’ultimo presenta caratteristiche e peculiarità proprie di un artista esperto e consumato, elementi positivi che si ritrovano in genere al culmine di una lunga carriera letteraria e non certo ai suoi inizi, a inequivocabile prova che in Naspini non c’è solo talento, ma quello stato di grazia proprio dell’artista a tutto tondo. Sono seguite poi altre opere, di cui l’ultima, Il gran diavolo, è un romanzo storico incentrato sulla figura di Giovanni dalle Bande Nere, un genere che non è peculiare del narratore toscano, ma il cui risultato è stato tuttavia ampiamente soddisfacente. Ritorna ora, in un certo senso sulle orme dell’Ingrato, questo  Le case del malcontento, un’opera di per sé quasi ciclopica con le sue 464 pagine (romanzi così corposi non frequenti al giorno d’oggi), ma non gli si può certo imputare di aver voluto tirare in lungo o di essere stato dispersivo, anzi ho l’impressione che si sia frenato, perché avrebbe potuto scrivere ancora di più.

Le Case è un paese, un borgo della Maremma toscana, un insieme di abitazioni e di rocce, di cave, di strade con grandi curve, insomma una piccola realtà talmente a sé stante da considerarla quasi un enclave nell’ambito di uno stato assai più esteso; eppure, riflette, nei suoi personaggi, e pur con le tipicità di un mondo provinciale, le presenze quotidiane in cui normalmente ci imbattiamo e di cui noi stessi siamo parte. E di questo agglomerato Naspini narra una storia, o meglio racconta tante piccole storie che finiscono con il fondersi in un racconto assai più grande, un racconto corale che porta il lettore da casa in casa, dal termine della guerra alla fine del secolo scorso. Peraltro l‘impostazione strutturale è di una originalità particolare, perché l’opera inizia con la pianta del borgo e ogni casa ha il suo nome e ognuno di questi nomi, congiuntamente ad altri, è uno dei narratori, così che ogni capitolo comincia con un nome che racconta, che spazia dal passato al presente; ogni nome è protagonista, racconta di sé, ma anche di sprazzi della vita di altri, che possono benissimo essere smentiti o visti in altro modo, insomma una complessa realtà in cui tutti sono dipendenti l’uno dall’altro, e ognuno è tutto e il contrario di tutto. Ciò che in realtà Naspini narra è un mondo che sta in piedi con fragili puntelli, caratterizzato da inganni e da segreti, destinato, e non potrebbe essere altrimenti, prima o poi a implodere. Mi pare evidente che se si pensa all’attuale realtà non è difficile comprendere che è tutta la nostra Società a dare vita alle case del malcontento.

Le Case è pertanto una metafora di un realtà che non vogliamo vedere, come se a nascondere la verità la menzogna potesse diventare verità, atteggiamento che inevitabilmente prima o poi finirà con il travolgerci.  

Lo stile è fresco, scorrevole, la tensione è in costante crescita, pagina dopo pagina, così da risultare il romanzo piano piano avvincente, avviluppando il lettore in una rete in cui la commistione di diversi generi, anziché risultare sgradita, affascina, convince ed è un altro dei motivi di pregio del libro. A voler cercare un difetto è un po’ difficile trovarlo, anche se c’è il rischio concreto, di perdersi, di fare confusione con tanti personaggi che quasi si spintonano per mettersi in luce, ma è un peccato da poco, quello che si potrebbe definire veniale, perché in fondo che sfugga un nome, o si confonda l’uno con un altro poco importa, perché determinante è l’immagine che viene a crearsi di una piccola e chiusa realtà, coincidente però con il mondo intero di cui essa stessa è parte. Forse gridare al capolavoro può sembrare eccessivo, ma se non è tale, e al riguardo ho più di un dubbio,  Le case del malcontento è almeno di un elevato livello di eccellenza. 

Sacha Naspini è nato a Grosseto nel 1976. Collabora come editor e art director con diverse realtà editoriali. È autore di numerosi racconti e romanzi, tra i quali ricordiamo L’ingrato (2006), I sassi (2007), I Cariolanti(2009), Le nostre assenze (2012), Il gran diavolo (2014). Scrive per il cinema.
Renzo Montagnoli 
 

 

23 Maggio

I fuochi del Basento

di Raffaele Nigro

BUR Biblioteca Universale Rizzoli

Narrativa romanzo storico 

 

Un grandioso affresco

Scrivere un romanzo storico riguardante l’ultimo travagliato periodo del regno borbonico, mostrando attraverso le vicende di una famiglia, i Nigro, le lotte aspre e sanguinose volte al riscatto dei cafoni, in un contesto di profonda miseria per la stragrande maggioranza della popolazione del Regno di Napoli e delle Due Sicilie, non deve essere stato facile, perché si apprezzano la minuziosa ricerca delle fonti e le descrizioni dei personaggi, pressoché tutti realmente esistiti.  Grosso modo il periodo in questione va dall’imminenza della rivoluzione francese alla spedizione dei Mille, un lasso di tempo non breve, caratterizzato da turbolenze, da confusi moti popolari in cui era difficile distinguere i rivoltosi dai briganti e dove sovente le parti finivano per invertirsi, generando un caos in cui era difficile comprendere i ruoli dei protagonisti. Furono le idee liberali che accesero la miccia e che fecero pressioni affinché il Borbone concedesse almeno una costituzione e brigasse per non far morir di fame i suoi sudditi, ponendo fine a contrasti, a epidemie, a un banditismo che nasceva e si sviluppava in un tessuto di particolare miseria, in cui era più facile morire che vivere. Non si trattava quindi del Regno ricco tanto osannato dai neo borbonici, era un regime assolutista che assai probabilmente, anche senza la spedizione di Garibaldi e il soccorso dei piemontesi, avrebbe finito per dissolversi.

Raffaele Nigro narra le vicende dei suoi avi, le racconta come fosse una saga nordica, in cui tuttavia la predominante epica viene smussata da un verismo simile, anche se non uguale, a quello di Giovanni Verga. Ne nasce un’opera che affascina e stupisce, un grande affresco di un Meridione che ancor oggi è in attesa del suo riscatto, un romanzo corale con tanti protagonisti, ognuno ben inserito nel contesto, e di questi vorrei ricordarne qualcuno, perché si tratta di individui dotati di forte personalità, che si affacciano prepotenti sulla scena e che se ne vanno, mestamente, in punta di piedi.  

Francesco Nigro, un povero bracciante analfabeta, ma con un naturale talento per la poesia, costretto dalle circostanze a diventare brigante, abbraccia la causa della povera gente, dei contadini, diventando generale e morendo per sostenere quell’idea di riscatto che accompagna la ribellione dei cafoni; Concetta Libera Palombo, moglie di Francesco, donna devota e fedele alle tradizioni, sarà un giunco nella tempesta, con i figli che le daranno non pochi grattacapi, tranne uno, Raffaele Arcangelo Nigro che, avviato alla vita monacale, combatterà una sua personale guerra, del tutto pacifica, per soccorrere i miseri e i deboli, forte delle sue convinzioni e toccato dalla grazia divina, da cui tuttavia riuscirà a non essere schiacciato, a non vivere dell’aureola di santo che tanti gli vogliono porre sul capo; Padre Ferdinando Paolino Tortorelli, un sacerdote che non si chiude nelle mura della chiesa, ma che è sempre in giro, a proprio agio fra i contadini, uomo saggio e studioso, uno scienziato con la tonaca; Don Tommaso Maria Bindi, un liberale, un avvocato, che sostiene la causa dei contadini, pagandone le conseguenze, un puro e disinteressato, pacifico e tuttavia coinvolto in una guerra di cui non riuscirà a vedere la fine. Ambientato tra Puglia e Lucania, in terre per lo più aride, ma in cui sono presenti due fiumi ricorrenti nella narrazione, il Basento e l’Ofanto, è un romanzo in cui cruda realtà e utopia, speranze spezzate, solitudini e rassegnazioni si alternano in una narrazione che avvince, che rende partecipi delle tragedie e delle poche effimere gioie, un quadro che la mano dell’autore ha saputo dipingere con rara abilità, tanto che, giunti alla fine, è impossibile non essere travolti dalla commozione.

Raffaele Nigro (Melfi, Potenza, 1947) scrittore e saggista italiano. La ricca produzione saggistica riguarda soprattutto la storia e la cultura di Basilicata e Puglia (Basilicata tra Umanesimo e Barocco, 1981). I toni dell’epopea popolare si affermano nel romanzo storico I fuochi del Basento (1987, premio Campiello); mafia e corruzione sono invece i temi di Ombre sull’Ofanto (1992, premio Grinzane); corposo romanzo che rivisita i «cunti» fantastici seicenteschi è Dio di Levante (1994); Diario mediterraneo (2000) affronta il tema dell’incontro-scontro tra le culture che si affacciano sul «mare nostrum»; Malvarosa (2005) dipinge un meridione nel difficile passaggio alla modernità. È autore anche della raccolta di racconti I piantatori di Lune (1991).
Renzo Montagnoli 
 

 

21 Maggio

Il meccanico Landru

di Andrea Vitali

Garzanti Libri

Narrativa romanzo 

 

Tutto ebbe inizio con i telai

Corre l’anno 1930 quando un pomeriggio di un freddo gennaio scendono alla stazione di Bellano sei uomini, vestiti poveramente e con la barba lunga, lì convocati per montare una linea di telai elettrici del cotonificio. E’ un periodo di crisi e la proprietà, per contenere i costi, non trova di meglio che procedere a una parziale automazione che però comporterà il licenziamento di una ottantina di dipendenti. Da quell’arrivo di un campionario umano tipico del sottoproletariato di cui fa parte anche un giovante prestante dal nome famigerato di Landru Angelici, non certamente un assassino, ma nemmeno uno stinco di santo, nasce un’intricata vicenda in cui Vitali si butta a capofitto, muovendo pedine e incastri, tutti direttamente o indirettamente collegati al cotonificio. Il direttore dello stabilimento, il competente e umano ing. Galimberti, la sua impeccabile e desiderabile  segretaria Emilia Personnini, il capostazione e confidente dei carabinieri Amedeo Musante, la bella e astuta Mirandola Gilardoni, il segretario del locale fascio Aurelio Pasta, tanto intraprendente quanto facile agli smacchi, Eumeo Pennati, fascista con non nascoste mire di prendere il posto di Pasta, il buon parroco Don Ascani – tanto per citare i personaggi almeno più importanti del romanzo, ma ne ve sono molti altri in veste di comprimari – si agitano, in verità ben diretti da quell’abile burattinaio che è Andrea Vitali e che sembra divertirsi nel proporre continuamente nuovi inserimenti, nuove vicende nell’ambito di quella originaria della famosa installazione dei telai che non avverrà mai e non vado oltre. Spasimi d’amore, più o meno ricambiati, screzi, vecchie rivalità, piccinerie di una piccola realtà come Bellano, ma che assumono generali caratteristiche di un popolo che da sempre sembra vivere alla giornata sono il companatico di questo racconto, che presenta talmente tanti spunti che un altro autore, invece di scrivere un solo romanzo, probabilmente ne avrebbe stilati almeno due. E del resto sono 370 pagine, non certo poche, ma che si leggono, se non proprio d’un fiato, comunque alla svelta, soprattutto per la curiosità di sapere come verrà sbrogliato il nodo di tanti gomitoli. E’ ovvio che tutto finirà per aggiustarsi, anche per il contributo, del tutto involontario, di Landru. Il romanzo si chiude il giorno dopo dell’avvenuta liberazione, in cui già i fascisti si sono abilmente riciclati con un veloce cambio di camicia, da nera a rossa, facendo così venire in mente l’insegnamento del Gattopardo, e cioè che da noi tutto cambia per ritornare poi sempre uguale.

Da leggere, anche per trascorrere gradevolmente alcune ore.    

Dopo aver frequentato «il severissimo liceo Manzoni» di Lecco, Andrea Vitali si laurea in medicina all'Università Statale di Milano ed esercita la professione di medico di base nel suo paese natale. 
Scrittore molto prolifico, ha esordito nel 1990 con il romanzo breve Il procuratore, ispiratogli dai racconti di suo padre; nel 1996 ha vinto il Premio letterario Piero Chiara con L'ombra di Marinetti, ma il grande successo lo ha ottenuto nel 2003 con Una finestra vistalago (Premio Grinzane 2004). 
Nel 2006 ha vinto il Premio Bancarella con il romanzo La figlia del Podestà; nel 2009 il Premio Boccaccio e il Premio Hemingway. 
Tra i numerosi romanzi, ricordiamo: nel 2011 La leggenda del morto contento e Zia Antonia sapeva di menta. Nel 2012 Galeotto fu il collier e Regalo di nozze. L'anno successivo escono Le tre minestre, lungo racconto autobiografico edito da Mondadori-Electa e Di Ilide ce n'è una sola. Nel 2014 Quattro sberle benedettePremiata ditta Sorelle Ficcadenti e Biglietto, signorina!; nel 2015 La ruga del cretino, scritto con Massimo Picozzi, Le belle Cece, La verità della suora storta, Quattro schiaffi benedetti, Un amore di zitella (tutti editi da Garzanti). Nel 2016 Nel mio paese è successo un fatto strano (Salani), Le mele di Kafka (Garzanti) e Viva più che mai (Garzanti).
Da ricordare che con il romanzo Almeno il cappello (edito nel 2009 da Garzanti) Andrea vitali ha vinto il Premio Casanova, il Premio Isola di Arturo Elsa Morante, il Campiello sezione giuria dei letterati ed è stato finalista al Premio Strega.
I suoi libri, pubblicati in Italia da Garzanti, sono stati tradotti in molti paesi, tra cui la Turchia, la Serbia e il Giappone. 
Renzo Montagnoli 

 

 

19 Maggio

Educazione europea

di Romain Gary

Neri Pozza Editore

Narrativa romanzo 

Un pacifismo non di maniera

Educazione europea è il romanzo con cui ha esordito nel 1945 Romain Gary, dopo l’esperienza bellica come aviatore della Francia libera e nel corso della quale si meritò la Legion d’Onore. Dunque ci troviamo di fronte a un eroe di guerra che scrive una storia di guerra finalizzata però a un pacifismo non di maniera. Gary racconta le vicende di un gruppo di partigiani polacchi assillati dalla fame e dal freddo, oltre che dalla crudele e sempre presente repressione nazista. Fra questi il personaggio di primo piano è Janek, un ragazzino che ha già perso i fratelli e che perderà anche il padre, strappato troppo presto alle fantasie di una gioventù e precipitato nel baratro della violenza e dell’orrore, in una serie di esperienze in cui apprende che gli uomini hanno due facce, che se c’è il tradimento ci può anche essere l’altruismo, che se c’è l’odio può esserci anche l’amore. Così la sua maturazione, il passaggio dall’età della pubertà a quella adulta avverrà in brevissimo tempo, durante il quale tuttavia apprenderà l’autentico significato della parola libertà e nascerà in lui la speranza per un mondo migliore, per un’Europa unita e pacifica. Dopo due lunghi, interminabili inverni di fame e di freddo, dopo aver visto morire tanti compagni, dopo avere avuto l’orrore e la necessità di uccidere Janek fa il conto di quell’esperienza con queste semplici parole, che tuttavia sono stilettate nell’animo di chi legge: “In Europa abbiamo le cattedrali più antiche, le più vecchie e celebri università, le più grandi biblioteche, ed è qui che si riceve l’educazione migliore, sembra che vengano in Europa da tutti gli angoli del mondo per istruirsi. Ma alla fine, quel che ti insegna tutta questa famosa educazione europea è come trovare il coraggio e delle buone ragioni, valide e convenienti, per ammazzare un uomo che non ti ha fatto nulla e che se ne sta seduto sul ghiaccio a testa china, ad aspettare la fine”.

Sinceramente il nome di Romain Gary non mi diceva niente fino a quando mi sono imbattuto in un suo romanzo, Gli aquiloni; si è trattato di un’autentica scoperta, l’opera mi è piaciuta moltissimo, così ho voluto leggere qualcosa d’altro, soprattutto questo Educazione europea che mi è stato consigliato da un’amica. Aveva ragione a dirmi che era qualcosa di straordinario, quasi di indescrivibile, tanto le era piaciuto; concordo pienamente con quel giudizio, perché difficilmente ci si può imbattere in un’opera in cui la cruda e tragica realtà e la purezza dell’animo convivono sullo stesso piano, in cui è possibile verificare come in ogni uomo sia presente il male e il bene, ma senza condannarlo definitivamente e senza appello se prevale il primo, perché basta spesso poco perché quel buio che è dentro possa essere rischiarato dalla limpida luce di un umano sentimento.

Romain Gary (Pseudonimo di Romain Kacev) nacque nel 1914. Lituano di nascita, nel 1928 si trasferì a Parigi. A trent'anni, Gary è un eroe di guerra (gli viene conferita la Legion d'honneur) e scrive il suo primo romanzo, Formiche a Stalingrado (1945), ispirato alla resistenza polacca contro i tedeschi, e che Sartre giudica il miglior testo sulla resistenza; comincia a lavorare come diplomatico per la Francia. Nel 1956 vince il Gouncourt con Le radici del cielo, ambientato in Africa, sulla lotta generosa di pochi volonterosi contro la decimazione degli elefanti, cui seguono, tra gli altri: La promessa dell’alba (1959), dedicato alla memoria della madre; Cane bianco (1970), di contenuto antirazzista; La vita davanti a sé (con lo pseudonimo di Émile Ajar, 1975, Premio Goncourt); Gli aquiloni (1980). 
Fu il marito della scrittrice Lesley Blanch e dell'attrice americana Jean Seberg, dalla quale divorziò. Poco più di un anno dopo il suicidio di questa (settembre 1979, per ingestione di barbiturici), si diede la morte nella sua casa a Parigi. In Italia i suoi romanzi sono pubblicati da Neri Pozza.

Renzo Montagnoli 

 

17 Maggio

La figlia del podestà

di Andrea Vitali

Garzanti Libri

Narrativa romanzo

 

Oggi come ieri

Il romanzo è ambientato a Bellano nel ventennio, ma per certe sue caratteristiche è senz’altro attuale in una provincia che, ampliata al quadro nazionale, evidenzia vizi (molti) e virtù (poche).  Si deve dare atto a Vitali che, senza scrivere opere di grandissimo pregio, riesce ad avvincere il lettore come pochi autori sanno fare, tanto che  i suoi libri, come le droghe, finiscono con il creare dipendenza e io stesso, benché scettico agli inizi, ne sono la prova. Sarà per la sua abilità nel congegnare una commedia degli equivoci, sarà per la sua fantasia, che sembra non avere limiti, ma sta di fatto che una volta preso in mano un suo libro è difficile staccarsene. In questo La figlia del podestà accade di tutto: un matrimonio in cui, al momento della domanda di rito, anziché sillabare il fatidico “sì”  la sposina pronuncia un laconico “no” , il testimone dello sposo che, dopo un po’ di tempo, impalma la fanciulla che aveva così impedito la cerimonia, il figlio di loro due che si innamora della figlia del podestà (che altri non è se non lo sposo del matrimonio andato in fumo), il podestà stesso che briga per un colossale affare (una linea di idrovolanti per collegare alcuni paesi del lago) che si rivelerà una truffa,  insomma un’Italia in miniatura, tale e quale doveva essere all’epoca il nostro paese e come è anche adesso. Se a volte ho imputato a Vitali una mancanza di coraggio per non aver colto occasioni per una satira, limitandosi al più a una bonaria ironia, con questo romanzo e, almeno limitatamente allo stesso, mi devo ricredere. La figura del podestà, del politico fascista tronfio, abituato a essere obbedito, con la naturale inclinazione a far ciò che torna gradito senza porsi tante remore è disegnata in modo perfetto e assomiglia tanto a non pochi politicanti del giorno d’oggi.  Insomma, da qualsiasi lato lo si voglia vedere, sotto tutti i piani di lettura, La figlia del podestà avvince e diverte e soprattutto nei trascorsi giorni di tempo pessimo ha rappresentato per me un eccellente mezzo di svago.

Dopo aver frequentato «il severissimo liceo Manzoni» di Lecco, Andrea Vitali si laurea in medicina all'Università Statale di Milano ed esercita la professione di medico di base nel suo paese natale. 
Scrittore molto prolifico, ha esordito nel 1990 con il romanzo breve Il procuratore, ispiratogli dai racconti di suo padre; nel 1996 ha vinto il Premio letterario Piero Chiara con L'ombra di Marinetti, ma il grande successo lo ha ottenuto nel 2003 con Una finestra vistalago (Premio Grinzane 2004). 
Nel 2006 ha vinto il Premio Bancarella con il romanzo La figlia del Podestà; nel 2009 il Premio Boccaccio e il Premio Hemingway. 
Tra i numerosi romanzi, ricordiamo: nel 2011 La leggenda del morto contento e Zia Antonia sapeva di menta. Nel 2012 Galeotto fu il collier e Regalo di nozze. L'anno successivo escono Le tre minestre, lungo racconto autobiografico edito da Mondadori-Electa e Di Ilide ce n'è una sola. Nel 2014 Quattro sberle benedettePremiata ditta Sorelle Ficcadenti e Biglietto, signorina!; nel 2015 La ruga del cretino, scritto con Massimo Picozzi, Le belle Cece, La verità della suora storta, Quattro schiaffi benedetti, Un amore di zitella (tutti editi da Garzanti). Nel 2016 Nel mio paese è successo un fatto strano (Salani), Le mele di Kafka (Garzanti) e Viva più che mai (Garzanti).
Da ricordare che con il romanzo Almeno il cappello (edito nel 2009 da Garzanti) Andrea vitali ha vinto il Premio Casanova, il Premio Isola di Arturo Elsa Morante, il Campiello sezione giuria dei letterati ed è stato finalista al Premio Strega.
I suoi libri, pubblicati in Italia da Garzanti, sono stati tradotti in molti paesi, tra cui la Turchia, la Serbia e il Giappone. 
Renzo Montagnoli 

 

15 Maggio

La macchina divina

Storia di Federica e altri

di Luigi Panzardi

Nulla Die Edizioni

www.nulladie.com

Narrativa raccolta di racconti

 

Predestinati

Non è possibile di certo affermare che Luigi Panzardi sia un ottimista, ma d’altra parte, di questi tempi, in cui economia, politica e finanza sembrano complottare contro le misurate aspirazioni di gran parte degli individui, non è  strano che in ognuno di noi prevalga un più o meno accentuato pessimismo. L’autore, in verità, in un racconto (Il mio medico) sembrerebbe lasciare spazio a una certa vena di speranza, con la vicenda grottesca, ma a lieto fine dei coniugi Saposdelli, ma a ben guardare lo scopo non è quello di narrare di una storia in sé e per sé, bensì  di porre in risalto i pericoli insiti in una società ipertecnologica, in cui l’uomo e il suo intelletto sono soffocati da un razionalismo, ma sarebbe meglio dire irrazionalismo, di tipo meccanico, accompagnato non di rado da un approccio deontologico piuttosto carente.  

Il fil rouge che unisce le altre sei prose è la predestinazione, cioè l’impossibilità per molti esseri umani di reagire a quelli che sono gli eventi più importanti del loro destino, è quell’inerzia, quell’abbandono al vento della vita da cui, più che lasciarsi trasportare, si viene travolti. E’ cosi che la giovane Federica di La ragazza del mercato non riuscirà mai a uscire dal mondo della malavita, alle cui regole ferree non ci si può ribellare se non a patto di pagare pesanti conseguenze, e in un mondo chiuso l’aver subito una violenza carnale (Lucia di La pecora) non solo non dà diritto di protezione, ma finirebbe, nel caso il fatto fosse risaputo, con il provocare l’emarginazione sociale della vittima.

Non è immune da questo fato, anzi è il primo a sperimentarlo dalla nascita Corrado, il down di Il custode del canile; in questo caso non c’è l’emarginazione da parte di quelli del paese, che anzi gli vogliono bene, ma c’è la perdita di un animale, una cagnetta, a cui si è affezionato in modo quasi morboso; invece per Fiore (Il gemello virtuale) la fermata in cui ogni mattina attende l’autobus per andare al lavoro diventa l’occasione per un autoritratto, impietoso, prima del salto nel buio; in un periodo di profonda crisi economica la vicenda di Dino (La recessione per Dino), appena promosso capo reparto e subito licenziato per la chiusura della fabbrica dove lavora, porta all’eterno dilemma fra lo stare al proprio paese, dove non c’è lavoro e facendo quindi la miseria,  e andare invece dove c’è la richiesta, in una storia kafkiana in cui chi si lascia travolgere dal vento dell’avversità sarà ormai senza speranza.

Ho lasciato per ultimo La macchina divina, da cui il titolo all’intera opera, poiché di tratta di un racconto piuttosto lungo (65 pagine)  e anche perché il dramma che coinvolge il protagonista, Silvestro, dirigente d’azienda stimatissimo e che d’improvviso perde la memoria, ha un’origine diversa dalle altre prose: non si tratta di ambiente, di recessione, ma dell’insorgenza di una malattia di carattere cerebrale, peraltro inguaribile. Panzardi è bravo nel descrivere i sintomi, le reazioni, l’angoscia che piano piano prende il sopravvento e la conclusione, per quanto logica e auspicabile, è un colpo da maestro.

So per esperienza che i racconti non sono molto appetiti dai lettori italiani, che però sbagliano, perché quando la prosa breve ha un inizio e una fine, quando i personaggi sono ben delineati e la loro analisi psicologica risulta approfondita, tutti elementi positivi riscontrabili in questa raccolta di Luigi Panzardi, meritano senz’altro di essere letti; se poi aggiungiamo lo stile non ridondante, ma nemmeno scarno, la capacità di ricreare ambientazioni del tutto plausibili, direi che ce n’è più che a sufficienza per caldeggiare quest’opera. 

Luigi Panzardi vive a Taranto, per Nulla Die ha pubblicato la silloge Passioni e poesie.
Renzo Montagnoli 

 

13 Maggio

La leggenda del morto contento

di Andrea Vitali

Garzanti Libri

Narrativa romanzo

 

Contento il morto, contento il lettore

Per Vitali aver abbandonato per la sua narrazione il periodo del “ventennio” per  inventare una storia datata circa un secolo prima deve essere stato quasi un trauma, ma, ciò nonostante, i risultati sono stati più che positivi.  Bellano in piena dominazione austriaca (ma del periodo asburgico si ha solo un vago sentore) è sempre il ridente paesino che si affaccia sul lago di Como, uno specchio d’acqua questa volta traditore, visto che imprudentemente vi si avventurano con una barca il figlio dell’uomo più ricco del paese in compagnia di un giovane milanese, unico rampollo di un ingegnere dell’Alto Adige.  La giornata sembra propizia per una gita, vista la calma piatta, ma c’è chi, appassionato di meteorologia e presente al molo per caso, è quasi certo di un prossimo e improvviso cambiamento del tempo, con vento forte, anzi fortissimo. Cerca di dissuadere i due giovani, ma si sa che a quell’età poco si ascoltano quelli un poco più in là con gli anni e così partono per quello che sarà il loro ultimo viaggio. Questo potrebbe essere definito l’antefatto perché la storia vera, la trama avvincente comincia lì ed è una di quelle narrazioni in cui Andrea Vitali pare divertirsi, quasi fosse partecipe della vicenda e forse con la non recondita intenzione di rendere tale anche il lettore. Così ci troviamo di fronte a un campionario di varia umanità che finisce con il rappresentare gli emblemi della società, personaggi pennellati, descritti una volta tanto con dovizia, curando perfino una certa analisi psicologica. La descrizione del paesaggio e la riproduzione di certe atmosfere sono già qualità innegabili dell’autore e così  poco a poco, pagina dopo pagina si sviluppa una storia allettante, perché con quel titolo si è desiderosi di sapere come andrà a finire, che sorprese ci saranno riservate. E Vitali non delude, è capace di far stare sulle corde chi ha gli occhi incollati alle pagine, strappando di tanto in tanto ben più di un sorriso.

Insomma, La leggenda del morto contento mi è piaciuto, anche perché, a differenza di altri romanzi dell’autore comasco, mi è rimasto dentro qualcosa, c’è una morale perseguita fin dall’inizio e che dimostra che passano i secoli, cambiano gli amministratori degli stati, ma l’animo umano è cristallizzato dalle origini e che la ricerca del proprio tornaconto prevale sempre su tutto.

Dopo aver frequentato «il severissimo liceo Manzoni» di Lecco, Andrea Vitali si laurea in medicina all'Università Statale di Milano ed esercita la professione di medico di base nel suo paese natale. 
Scrittore molto prolifico, ha esordito nel 1990 con il romanzo breve Il procuratore, ispiratogli dai racconti di suo padre; nel 1996 ha vinto il Premio letterario Piero Chiara con L'ombra di Marinetti, ma il grande successo lo ha ottenuto nel 2003 con Una finestra vistalago (Premio Grinzane 2004). 
Nel 2006 ha vinto il Premio Bancarella con il romanzo La figlia del Podestà; nel 2009 il Premio Boccaccio e il Premio Hemingway. 
Tra i numerosi romanzi, ricordiamo: nel 2011 La leggenda del morto contento e Zia Antonia sapeva di menta. Nel 2012 Galeotto fu il collier e Regalo di nozze. L'anno successivo escono Le tre minestre, lungo racconto autobiografico edito da Mondadori-Electa e Di Ilide ce n'è una sola. Nel 2014 Quattro sberle benedettePremiata ditta Sorelle Ficcadenti e Biglietto, signorina!; nel 2015 La ruga del cretino, scritto con Massimo Picozzi, Le belle Cece, La verità della suora storta, Quattro schiaffi benedetti, Un amore di zitella (tutti editi da Garzanti). Nel 2016 Nel mio paese è successo un fatto strano (Salani), Le mele di Kafka (Garzanti) e Viva più che mai (Garzanti).
Da ricordare che con il romanzo Almeno il cappello (edito nel 2009 da Garzanti) Andrea vitali ha vinto il Premio Casanova, il Premio Isola di Arturo Elsa Morante, il Campiello sezione giuria dei letterati ed è stato finalista al Premio Strega.
I suoi libri, pubblicati in Italia da Garzanti, sono stati tradotti in molti paesi, tra cui la Turchia, la Serbia e il Giappone. 
Renzo Montagnoli 
 

 

11 Maggio

I ponti della Delizia

di Guido Cervo

Edizioni Piemme

Narrativa romanzo  

Non tutto è perduto

Nelle ultime pagine del libro c’è una nota dell’autore, unitamente ai ringraziamenti, che a mio parere meriterebbe di essere visionata prima di procedere alla lettura del romanzo vero e proprio. Cosa dice in pratica Guido Cervo? Parla delle difficoltà di scrivere un’opera avente per tema la tragica vicenda di Caporetto, il che giustifica la poca narrativa al riguardo, mentre invece, pur non molta, ma comunque di discreta entità sono la saggistica e la memorialistica; in effetti la ritirata dell’esercito italiano dalle posizioni dell’Isonzo, avvenuta per la quasi totalità dell’evento in modo disordinato, perché si trattò di una vera e propria rotta, si è  concretizzata in un numero piuttosto rilevante di episodi, di atti di eroismo, in alcuni casi di viltà, e che non potendo essere descritti tutti possono falsare la visione d’insieme. Aggiungo poi, e questa è una mia opinione, che c’è una naturale ritrosia ad affondare il bisturi in una ferita che, a distanza di un secolo, se non ancora viva, risulta però sempre bruciante. Al di là delle difficoltà oggettive e soggettive Cervo, con questa sua opera, è riuscito nell’intento di far conoscere al lettore quel tragico evento, con una prosa asciutta, per nulla retorica e scegliendo di privilegiare, pur senza trascurarne altre, due vicende con dei protagonisti azzeccati che destano immediata simpatia. Troviamo così la giovane e graziosa maestra Ersilia, vedova di guerra, che nella fuga da Udine prossima a essere occupata dagli austriaci si lega e si accompagna ad Anita, una bimba del locale brefotrofio. E’ una vera e propria odissea, sotto la pioggia incessante, con presente sempre la fame e in cui si fanno tanti incontri, fra cui uno con un tenente degli arditi che lascia sperare che possa aver un seguito di natura sentimentale. L’altro protagonista è un sergente, Tarcisio, un contadino bergamasco, pure lui in fuga con alcuni soldati del suo reparto. Anche qui  pioggia a catinelle e tanta fame, a cui si aggiungono frequenti scontri con un nemico incalzante (a proposito, molto belle sono le pagine in cui si descrivono i fatti bellici). L’obiettivo per i soldati in rotta e per i civili in fuga è il fiume Tagliamento e i suoi ponti, per passare dall’altra parte, certi che il corso d’acqua sarà una difesa naturale (sappiamo che poi invece si dovette arretrare fino al Piave, peraltro meglio difendibile). E in prossimità di uno di questi ponti le vicende di Ersilia e di Tarcisio si incroceranno, anche se per pochissimo tempo in quelle che sono le pagine più toccanti del romanzo, che stempera la tensione del lettore in vera e propria commozione. Non aggiungo altro, il libro mi è piaciuto  molto perché l’autore non si limita alle sole vicende vere e proprie, ma tenacemente, pagina dopo pagina, lancia un sincero messaggio di pace, che senza essere urlato, entra piano piano nei nostri cuori, perché in fondo le storie di Ersilia e di Tarcisio, due persone del tutto normali, ma nel loro piccolo autentici eroi, sono la ragione e l’amore che prevalgono sull’insensatezza e sulla ferocia.

Da leggere, pertanto.    

Guido Cervo vive e lavora a Bergamo. È autore di romanzi di successo, tutti pubblicati da Piemme, tra cui "La trilogia del Legato romano", che ora viene riproposta, nel suo primo volume, in una nuova versione, la serie Il Teutone e due romanzi che affrontano i tragici conflitti mondiali del Novecento: Via dalla trincea e Bandiere rosse, aquile nere...
Renzo Montagnoli 

 

10 Maggio

Gli alunni del sole

di Giuseppe Marotta

BUR Biblioteca Universale Rizzoli

Narrativa romanzo 

La forza del mito

Dopo due volumi (L’oro di Napoli e San Gennaro non dice mai no) con cui Giuseppe Marotta è riuscito a mostrare al lettore l’autentico spirito di Napoli  e più ancora il carattere peculiare e unico dei suoi abitanti, pagine che in alcuni casi possono anche strappare più di un sorriso, ma che in ogni caso sono venate da una malinconia di fondo, ecco un’opera la cui finalità, pur restando sempre nell’ambito partenopeo, è umoristica. 

Federico Sòrice, per ben trent’anni bidello del liceo di Piazza Dante, da cui in seguito era stato forzatamente allontanato a causa di un suo particolare vezzo che consisteva nel ritocco con tenui inchiostri dei disegni della stoffa dei logori soprabiti degli insegnanti, forte delle conoscenze acquisite ascoltando sui malgrado, o anche per suo piacere, le lezioni, partecipa la cultura così conquistata a un eterogeneo pubblico. E’ così che ogni giorno raduna intorno a sé, dove capita, e sempre per la strada, il fattorino telegrafico Vincenzo Aurispa, il barbiere don Antonio Pagliarulo, il calzolaio don Catello Debbiase, il  gobbo don Rosario Nèpeta e il fruttivendolo guappo e becco Salvatore Cademartori.

Di che parla Federico Sòrice?  Racconta, in forma colorata, la mitologia greca e romana, dalle origini del tutto, cioè da Saturno in avanti. E non è un caso se si ride, sia per degli ameni accostamenti che per gli interventi degli alunni, interessati alla narrazione forse più dei liceali, ma che di tanto in tanto trovano che c’è qualcosa che non quadra, qualcosa che sfugge alla logica.  A ben guardare è proprio questo l’insegnamento del libro, vale a dire che per la comprensione della mitologia occorre ricordare che la logica corrente del mondo non è l’unica esistente, perché con la mitologia appunto è ancora possibile credere che un toro rapisca una fanciulla e che attraversi tutto il mar Mediterraneo per poi giacere con lei. E don Federico racconta, come in preda a un’ossessione, fino all’ultimo giorno, quando muore, con gli amici-alunni intorno al suo letto che s’aspetterebbero una sorta di miracolo, magari che un cocchio celeste irrompa dal soffitto e se lo porti via. Ovviamente non accade nulla di tutto questo, ma “ e il Tondo di Capodimonte, poi il suo guanciale, come la sfera di cristallo dei negromanti, si screzia di varie immagini che sembrano navigarvi. Don Federico, è Napoli. Sono via Cagnazzi e il Tondo di Capodimonte, Piazza Dante e il Carmine, San Ferdinando e Santa Lucia, ...”. La mitologia, il sogno che ci permette di volare, ma sempre con i piedi per terra, non abbandona mai il mondo reale.

Grazie, don Federico Sòrice, per averci portato un po’ con te nei tuoi sogni a occhi aperti.

Giuseppe Marotta (1902-1963) nasce a Napoli, che rimane l’eldorado del suo immaginario, e si trasferisce a Milano a 25 anni. È un’epoca di boom giornalistico e culturale, che frutta a Marotta una prestigiosa collaborazione al «Corriere della Sera», mentre scrive anche sulle testate satiriche più celebri del tempo, il «Bertoldo» e il «Guerin Meschino». Fluviale nell’invenzione narrativa, è autore di romanzi memorabili (tra cui A Milano non fa freddo e Gli alunni del sole) e di raccolte di racconti che sfiorano la leggenda, come appunto L’oro di Napoli, traslata su grande schermo dal genio cinematografico di Vittorio De Sica.
Renzo Montagnoli 
 

 

18 Aprile

1913. L’anno prima della tempesta

di Florian Illies

Marsilio Editori

Storia 

L’ultimo anno della Belle Époque

Il 1913 è l’anno che precede quello dello scoppio del primo conflitto mondiale ed è anche l’anno in cui finisce la Belle Époque, quel periodo  di inebriante vivacità in cui tutto sembrava possibile e che sarà spazzato via dalla Grande Guerra. Florian Illies, un giovane storico dell’arte tedesco, ha voluto ripercorrere il 1913 dal primo gennaio al 31 dicembre, elencando, in ordine cronologico (l’opera è divisa in tanti capitoli quanti sono i mesi) vicende, notizie, anche chiacchiere che si susseguono, soprattutto in Europa, e che hanno come protagonisti artisti, letterati e scienziati. Ci sono personaggi dall’improvvisa ed effimera apparizione e altri invece che l’autore seguirà per tutto l’anno, in un turbine, peraltro ben ordinato, di accadimenti anche di modesta rilevanza, ma che sono utili per comprendere meglio il carattere di chi ne è parte. Se l’aspetto storico è predominante, ciò non evita di lasciare spazio a una innocente fantasia e che vuole essere anche tale nelle intenzioni di Illies, come quando lancia l’ipotesi che Stalin e Hitler, entrambi presenti a Vienna in quel periodo e amanti di lunghe passeggiate al parco di  Schönbrunn abbiano avuto magari l’opportunità di incrociare i loro passi, in pratica di vedersi, proprio loro protagonisti e nemici nella storia del secondo ventennio del secolo scorso.  Sono tanti i personaggi che si affacciano sulla scena e del resto non si deve dimenticare che la Belle Epoque fu un periodo proficuo per le arti e per la scienza e così sul palcoscenico si affacciano Freud perennemente in lite con Jung, il timido Franz Kafka, uno scrittore che scopre una sua naturale inclinazione sessuale, vale a dire Thomas Mann, uno spiantato irlandese che vive dando lezioni di inglese a Trieste e che risponde al nome di James Joyce, Robert Musil, che perde il posto da bibliotecario per un accertato disturbo mentale, ma che così avrà tanto tempo a disposizione per poter scrivere “L’uomo senza qualità”, Gabriele D’annunzio, in perenne fuga in quanto inseguito dai creditori, e una miriade di artisti, di intellettuali che qui sarebbe impossibile anche solo nominare. Gli episodi, gli aneddoti sono innumerevoli e hanno il pregio di essere descritti dall’autore con leggerezza e ironia, il che rende la lettura per nulla affaticante e particolarmente gradevole. Si potrebbe anche dire che Illies mescola abilmente il sacro al profano, arte e pettegolezzi salottieri, grande storia e particolari di miserie vissute da grandi protagonisti del secolo nel bene e nel male. Ne esce un campionario di varia umanità, capace di far rivivere un’epoca, anzi la Bella Epoca, quella che da lì a poco, nel corso dell’anno successivo si sfalderà con le prime carneficine sui fronti occidentale e orientale,  con quella tempesta di fuoco e di acciaio che strapperà le illusioni dell’umanità, richiamandola brutalmente a una realtà di lacrime e sangue.

Ci si domanda solo se il 1913 sia stato un anno particolare, un anno da ricordare per qualche cosa di eccezionale e la risposta è che fu solo l’anno prima della tempesta, l’ultimo anno della Belle Époque .

Da leggere, ne vale la pena.

Florian Illies (1971) è storico dell'arte. Editorialista della «Frankfurter Allgemeine Zeitung», è stato anche direttore delle pagine culturali della «Zeit» ed è tra i fondatori della rivista d'arte «Monopol». I suoi libri, tradotti in tutto il mondo, hanno venduto più di un milione di copie.
Renzo Montagnoli 

 

15 Aprile

Pablo

Storie di Sicilia

di Aurelio Caliri

Edizioni Arte e Musica

Narrativa racconti 

Sogni di gioventù

Tipo strano questo Aurelio Caliri, e non solo perché si cimenta nella letteratura, nella musica e nel disegno, in ogni caso con risultati di eccellenza, ma soprattutto perché, nonostante non sia più giovane, affronta la vita con l’entusiasmo e l’ingenuità di un bambino. E’ un vulcano di idee e non fa in tempo a tradurne in pratica una che già si danna per un’altra maturata all’improvviso. Come ho già avuto modo di scrivere di lui, in un articolo che nelle mie intenzioni tendeva a delinearne l’aspetto psicologico, Caliri vive perennemente in un sogno che gli offre gli spunti per mettere in pratica le sue tendenze artistiche e se la musica resta la principale e il disegno una piacevole variante, la letteratura e in particolare la narrativa finiscono con il diventare una testimonianza di questa vita in sogno. E’ anche questo il caso di Pablo Storie di Sicilia, una raccolta di racconti che potremmo definire i risultati dei flussi di memoria dell’autore e che se letti e osservati con particolare attenzione rivelano nei protagonisti le caratteristiche salienti del loro ideatore. Si tratta per lo più di persone che cercano di dare un senso alla propria vita, che tentano di percorrere una strada e quando questa viene interrotta non demordono, perché sembrano dire, pur provati dalla delusione, che domani è un altro giorno e che perciò si deve ricominciare. Tuttavia, se qualcuno pensa che si tratti di confessioni, con l’inevitabile pathos intimistico, si sbaglia, perché sono storie che forse, partendo magari da una minuzia, si sviluppano sull’onda della creatività in una narrazione che ha il pregio di essere agile e leggera, e quindi mai stancante. In questi racconti non pochi sono quelli in cui si parla di una ricerca dell’amore da parte di protagonisti giovani, il che mi fa supporre che il tema, più o meno sentito da tutti, abbia avuto un peso particolare nella vita  di Caliri, né una mania, né un’ossessione, ma comunque un argomento di grande rilevanza che viene trasfuso in tutte le sue implicazioni nei personaggi, che, guarda caso, spesso e volentieri maturano un sogno d’amore. Non mancano comunque altre tematiche e in proposito credo che qualcuno, speranzoso di trovare le classiche storie siciliane (indicate nel sottotitolo) di passioni, di drammi, di infruttuose ribellioni resterà deluso, perché della Sicilia abbiamo poche tracce, delineate dai paesaggi ben descritti e da rari spunti di classica atmosfera locale, in quanto l’autore non solo ha privilegiato l’aspetto intimistico degli attori, ma ci ha mostrato una Sicilia in divenire, già lontana dagli stereotipi, in buona parte fondati, degli anni ante 1968. Si assiste così a una carrellata di protagonisti, per lo più timidi e speranzosi, che in non pochi casi destano tenerezza per i loro insuccessi amorosi e per gli atteggiamenti impacciati con i quali cercano di contattare il soggetto del desiderio. Se esce un’immagine della Sicilia non è pertanto quella classica, di cui ho prima cennato, ma di un luogo che va superando ristrette mentalità per cercare di stare al passo con i tempi o comunque di rincorrere l’evoluzione dei costumi.

Alla formazione di questa immagine non poco concorrono i disegni dell’autore che rappresentano invece una Sicilia antica, un contrasto che accentua lo spirito moderno della parte narrativa, circostanza che risulta  ancora più evidente per il fatto che Caliri ha riportato anche gli spartiti delle musiche create nel tentativo di far rivivere atmosfere lontane nel tempo, di quando per le strade girava il pianino a manovella; comunque, per chi, come me e penso molti altri, non è in grado di leggere la musica non c’è da avere paura, perché l’autore ha pensato anche a questo, allegando al libro il cd con la sua esecuzione personale, tranne per il brano La danza del tuono, eseguito dal figlio Federico e dal noto pianista Bruno Canino.

Sono dell’idea che Pablo Storie di Sicilia meriti di essere letto, specialmente se qualche volta sorge il desiderio di abbandonarsi al sogno, quando la vita si fa più dura o comunque quando si avverte venir meno la speranza di un cambiamento.

Nativo di Buscemi (SR),  Aurelio Caliri si è laureato in Filosofia all’Università di Messina ed ha insegnato materie letterarie nelle scuole Medie. Nell’86 ha lasciato l’insegnamento per dedicarsi a tempo pieno all’attività musicale e al disegno, con particolare attenzione ai paesaggi siciliani. Prima dell’avvento del cd, ha pubblicato quattro album; quindi il libro “Sicilia ieri e oggi”, una storia inusuale dell’Isola vista attraverso testi, musiche, immagini e racconti, tradotto in lingua tedesca e diffuso dalla Società Italiana “Dante Alighieri” in Germania.
Le sue molteplici composizioni sono state eseguite in Italia e all’estero e illustri interpreti, tra cui il tenore Giuseppe Di Stefano, hanno cantato le sue canzoni. Ha tenuto concerti per le reti Rai ed ha composto dei brani strumentali che hanno fatto parte delle colonne sonore di diverse trasmissioni televisive e dei film “Nerolio” e “Il macellaio”, per la regia di Aurelio Grimaldi.
Ha collaborato per molti anni col pittore-poeta Salvatore Fiume di cui ha musicato alcune poesie d’amore. Questo lavoro ha dato vita ad un concerto e a un cd, “Ballate d’amore”, di prossima pubblicazione.
Nel 96 ha conosciuto la poetessa Alda Merini e da questo incontro è nato un sodalizio artistico che si è concretizzato in una rappresentazione teatrale molto delicata e intensa. Proprio in questo periodo sta per essere pubblicato il cd “Canto alla luna”, che contiene 13 poesie d’amore, musicate da Caliri e interpretate da Gabriella Rolandi, la quale per anni ha collaborato con il pianista Giorgio Gaslini.

Artista eclettico, scrive anche poesie e racconti, presenti, oltre che in antologie collettive, anche in La voce del vento, un’autobiografia, e appunto in Pablo Storie di Sicilia.
Renzo Montagnoli 

 

13 Aprile

La verità su Bébé Donge

di Georges Simenon

Traduzione di Marco Bevilacqua

Edizio Adelphi

www.adelphi.it

Narrativa romanzo

Collana gli Adelphi 
 

Il rimorso

E’ una domenica d’estate, si pranza e i commensali sono i due fratelli Donge con le rispettive famiglie. La moglie di Francois Donge, Bébé versa i caffè per tutti, compreso quello per il marito che, appena l’ha bevuto, si precipita fra le mura domestiche in preda a violenti dolori. Si tratta di avvelenamento, con l’arsenico, e la vittima la scampa per miracolo; fin da subito è evidente che l’avvelenatrice è la moglie che, tradotta in carcere, rende ampia confessione, senza tuttavia spiegare i motivi del suo gesto. Del resto, anche Francois, mentre è ricoverato in ospedale, si arrovella per comprendere cosa possa aver scatenato la furia omicida della moglie e anticipo che troverà la risposta alle sue domande, al punto da perdonare la consorte, condannata a cinque anni di lavoro forzati, di cui lui attenderà con ansia la fine, sempre più convinto che l’insano gesto sia da attribuire al suo comportamento, in un matrimonio da subito fatto di abitudini, di gesti ripetuti con una passione solo iniziale.

Con queste premesse definire un giallo La verità su Bébé Donge mi appare inappropriato, perché in effetti ciò che interessa all’autore è di far capire al lettore il perché del tentato omicidio e così pagina dopo pagina, con ricorrenti flashback sul passato della coppia, emerge una storia di profonda solitudine, quella di una donna ridottasi ormai a essere un soprammobile e di un marito che non è mai riuscito a comprenderla perché non si è mai comportato da marito, né ha mai cercato di appurare i motivi della sua ritrosia nei rapporti sessuali. Solo dopo il tentato omicidio, casualmente, appurerà dalla sorella di lei di un fatto traumatizzante per Bébé quando era ancora bambina che da solo può spiegare tante cose e in primis la sua frigidità.  La capacità di Simenon di sondare l’animo femminile trova anche in questo romanzo conferma, mentre la figura del protagonista, che disperatamente cerca di rimediare agli errori passati, può sembrare per certi versi una sorta di pubblica confessione. É noto, infatti, che l’autore è sempre stato un impenitente donnaiolo, incapace di un legame affettivo completo. In ogni caso, su qualsiasi piano di lettura la si voglia vedere, è un’opera di indubbio valore, forse non uno dei molti capolavori a cui Simenon ci ha abituato, ma comunque valida e a un livello, se non di assoluta eccellenza, di ampia e riscontrabile qualità.

Georges Simenon, nato a Liegi nel 1903, morto a Losanna nel 1989, ha lasciato centonovantatre romanzi pubblicati sotto il suo nome e un numero imprecisato di romanzi e racconti pubblicati sotto pseudonimi, oltre a volumi di «dettature» e memorie. Il commissario Maigret è protagonista di 75 romanzi e 28 racconti, tutti pubblicati fra il 1931 e il 1972. Celebre in tutto il mondo, innanzitutto per le storie di Maigret, Simenon è anche, paradossalmente, un caso di «scrittore per scrittori». Da Henry Miller a Jean Pauhlan, da Faulkner a Cocteau, molti e disparati sono infatti gli autori che hanno riconosciuto in lui un maestro. Tra questi, André Gide: «Considero Simenon un grande romanziere, forse il più grande e il più autentico che la letteratura francese abbia oggi»; Walter Benjamin: «… leggo ogni nuovo romanzo di Simenon»; Louis-Ferdinand Céline: «Ci sono scrittori che ammiro moltissimo: il Simenon dei Pitard, per esempio, bisognerebbe parlarne tutti i giorni».
Renzo Montagnoli 

 

10 Aprile

Processo a Rolandina

La storia vera di una transgender condannata al rogo

nella Venezia del XIV secolo

di Marco Salvador

Fernandel Editore

www.fernandel.it

Narrativa romanzo storico 

Processo alla diversità

Essere diversi ha sempre comportato una serie di svantaggi, di cui il principale è senza dubbio l’emarginazione, la cosiddetta morte civile, ma in passato, complice anche una distorta morale religiosa che non riusciva ad ammettere che ci potessero essere individui al di fuori della norma per quanto attiene l’inclinazione sessuale, la morte non era solo l’isolamento individuale, ma poteva anche essere fisica, con la condanna al rogo per il reato di sodomia. Di questo e di un fatto accaduto veramente ci parla Marco Salvador con la consueta precisione storica, non disgiunta da un umano senso di pietà, in questo  Processo a Rolandina, pubblicato da una una piccola, ma dinamica e competente casa editrice, Fernandel.  L’autore, basandosi sugli atti del processo, ci narra la vicenda accaduta nel lontano 1353 a Venezia e di cui protagonista e vittima è un transessuale, tale Rolandino Roncaglia, più conosciuto come Rolandina, che di giorno vive a stento vendendo uova e alla sera si prostituisce facendo intendere d’essere donna, atteggiamento che gli riesce con facilità, alla luce dei tratti fisici, della voce e delle movenze che sono proprie di una femmina. Nel segreto dell’alcova, poi, con vari artifici vede di soddisfare i clienti in modo che gli stessi continuino a credere di avere a che fare con una donna. L’implacabile giustizia di Venezia, forte con i poveri diavoli e benevola con i nobili, non si lascia scappare l’occasione per imbastire un processo per sodomia, che prevede una condanna con un supplizio feroce che si conclude con la morte fra le fiamme del rogo. Rolandina forse potrebbe salvarsi facendo i nomi dei clienti, passibili di condanna per lo stesso reato, ma non lo fa e allora è il tribunale che cerca di conoscerli in altro modo e tutto ancora non sarebbe perduto se non emergessero fra i frequentatori dei nobili influenti, fra cui un figlio del Doge. Occorre allora mettere tutto a tacere e l’unico modo di farlo è sopprimendo il soggetto più debole, cioè Rolandina.

La penna di Salvador, come sempre, descrive in modo perfetto l’ambiente, i calli sporchi e puzzolenti, i bordelli dove consumano le loro esistenze le prostitute, il clima di continuo sospetto tipico della Repubblica di Venezia, la sventura di un individuo nato anagraficamente maschio, ma che psicologicamente e anche in parte anatomicamente è femmina, una doppia identità a cui ha cercato invano di sfuggire con un matrimonio giovanile non consumato.

La vicenda di Rolandina è una storia triste, di dolore, di sopraffazione, di ricerca di una propria identità che avrà termine solo fra le fiamme del supplizio, una storia antica, ma che, per certi aspetti, presenta caratteristiche di attualità. Sì, certo al giorno d’oggi i transgender non hanno paura di finire sul rogo, sono anche legalmente presenti, ma  accettarli senza remore, come fatti naturali non è ancora pratica diffusa, così che in effetti c’è una emarginazione, meno evidente che in passato, ma esiste, è lì che sta a ricordare a questi diversi la loro differenza, una pregiudiziale tale da condizionare tutta una vita.

La lettura di Processo a Rolandina è quindi senz’altro consigliata.

Marco Salvador, oltre a essere scrittore tradotto in varie lingue, è uno studioso del medioevo. Per Piemme ha pubblicato sette opere che sono uno specchio lontano del presente e che, dietro la facciata del romanzo storico, nascondono un feroce attacco al potere. 
Per Fernandel ha già pubblicato 
La casa del quarto comandamento (2004), un romanzo dedicato alla condizione degli anziani costretti in case di riposo, e Il maestro di giustizia(2007), romanzo d’amore e di spionaggio che affronta in modo anticonformista il tema dell’eutanasia. 
Wikipedia gli dedica una pagina.
Renzo Montagnoli 

 

7 Aprile

Il viaggio dell’orsa

di Vincenzo Pardini

Edizioni Fandango Libri

Narrativa raccolta di racconti

 

Uomini o bestie?

Animali o bestie, anzi animali e bestie è quello che viene da chiedersi leggendo questi racconti da cui l’homo sapiens, per lo più, non esce bene, vera bestia in un campionario di esseri viventi in cui gli animali rappresentano un’atavica purezza, nell’uomo ormai da tempo definitivamente dimenticata. Tuttavia sono attribuiti a quattro zampe e anche a bipedi reazioni che sono tipicamente nostre, ma che hanno origini diverse, nel senso che le nostre sono quasi sempre frutto di un’azione in cui c’è un do ut des, una volontarietà che implica una relativa reazione. Anche noi ci vendichiamo per i torti subiti, dimenticando però che sovente ci macchiamo della stessa colpa; nell’animale questo non accade, perché nel suo comportamento non ci sono secondi fini. Ecco allora che la vendetta, per esempio dell’orsa, ha connotazioni diverse, è la reazione del tutto naturale di una madre a cui hanno sottratto il cucciolo ed è proprio l’orsa che dà il nome all’intera raccolta, questo vecchio plantigrado che fa un lungo viaggio per ritrovare il suo piccolo e per vendicarlo, in una battaglia finale che ha un dono cinematografico, nel senso che si materializzano le immagini davanti agli occhi del lettore. Di diversa tematica, ma non per questo meno bello è il commovente Serague, la storia di una mula bianca che lavora tutta una vita, cambiando più volte padrone, e che quando è ormai vecchia e inadatta a faticare viene venduta a dei macellai per una fine impietosa, quasi la metafora di alcuni anziani che quando non sono più in grado di dare vengono di fatto scaricati.

E’ indubbio che il rapporto con la natura di Pardini sia paritario, nel senso che lui sia convinto, e mi trova d’accordo, di essere solo una parte dell’immensità del creato, in cui ogni essere vivente ha una sua funzione, ben delineata e insostituibile; in quest’ottica pertanto noi non siamo né più né meno degli animali, con questi però che, a differenza dell’uomo, non vengono mai meno al loro ruolo. Sta nel reciproco rispetto delle parti il segreto affinché l’equilibrio naturale non venga sconvolto, sta nella consapevolezza della precisa identità del proprio ruolo la chiave per interpretare e dare un senso alla vita, parti di un universo a cui noi siamo indispensabili, come indispensabili sono gli altri esseri viventi. Sotto questo aspetto Pardini ha pertanto una sua visione che non trova riscontro in nessun altro autore e che, partendo da un microcosmo dimensionalmente ridotto, è però estensibile all’intero pianeta, con un proprio  messaggio non legato a qualche cosa di ristretto, a un fenomeno endemico, ma  ben più ampio nella sua universalità. Se nel leggere questi racconti, tutto preso dalle vicende notevolmente avvincenti, non me ne ero accorto, adesso, a mente lucida e a libro chiuso mi rendo conto di quanto pregnante sia l’insegnamento dell’autore, per nulla retorico, ma capace di scuotere la coscienza, di mostrarci come la nostra incrollabile fede di sentirci superiori a tutto e a tutti sia un vuoto atto di vanità, il risultato di un’inconscia frustrazione che ci porta a non rispettare nulla e men che meno noi stessi, fragili parti di una natura che ci illudiamo di soggiogare, venendo però inevitabilmente puniti per quest’atto di superbia.

Il viaggio dell’orsa e gli altri sette racconti (per me il migliore è Il fratello del lupo, relativamente corto, ma dalla preziosa atmosfera crepuscolare) che compongono questa raccolta sono quindi senz’altro meritevoli di lettura.

Vincenzo Pardini è nato a Fabbriche di Vallico (Lucca) nel 1950. Collabora al Quotidiano Nazionale e alle riviste Nuovi Argomenti e Paragone. Tra le sue opere ricordiamo Jodo Cartamigli (Mondadori, 1989), Giovale(Bompiani, 1993), Rasoio di guerra (Giunti, 1995), Tra uomini e lupi (peQuod, 2005, premio Viareggio-Rèpaci), Il postale (Fandango, 2012) e Grande secolo d’oro e di dolore (Il Saggiatore, 2017)
Renzo Montagnoli 

 

5 Aprile

Il procuratore

di Andrea Vitali

Garzanti Libri

Narrativa

 

Un lenone non spregevole

Il termine procuratore potrebbe far intendere che si tratta del magistrato inquirente che perseguita i criminali o al massimo che è riferito alla figura di una persona che agisce in nome e per conto di un’altra sulla base di un preciso mandato scritto; non è così, perché Marco Perini, il personaggio principale di questo romanzo, procura ragazze giovani e molto disponibili sia per le case chiuse che per l’esercizio del meretricio in proprio. Un tipo così potrebbe essere definito giuridicamente come un protettore, un lenone, un magnaccia;  la differenza è che lui non rischia di essere incriminato, perché siamo nel ventennio virile del fascismo in cui il perfetto italiano doveva essere considerato come un toro da monta e quindi qualsiasi attività volta al raggiungimento dello scopo non poteva essere considerata illecita. Il romanzo, il primo dell’autore comasco, trae origine, come specificato dallo stesso nella prefazione, da un episodio raccontatogli dal padre e da lui, grazie alla innata creatività, ampliato con soluzioni, situazioni ed eventi volti a descrivere un certo mondo in una ben precisa epoca. In effetti, di tutte le opere di Vitali che ho fino a ora letto, questa, pur con certe carenze rivenienti da una naturale inesperienza, mi sembra forse la migliore, perché ha il pregio di soffermarsi sulle caratteristiche dei protagonisti, descrivendoli in modo chiaro con semplici e concise parole, tutti attori ben inseriti in una vicenda tutto sommato non trascendentale, ma che è proprio nella riproduzione dell’ambiente e dell’atmosfera che trae il maggior pregio. Intendiamoci, se è vero che si sorride, anche perché la satira politica non è nelle corde dell’autore, non è che a lettura ultimata ci si lasci trascinare dall’entusiasmo per i particolari contenuti, o per il messaggio portato, no, sarebbe pretendere troppo, mentre invece la valenza va cercata nella capacità di far trascorrere piacevolmente alcune ore, che è poi la caratteristica dei lavori di questo autore, un buon artigiano della penna, ma non di certo un artista di particolare spessore.  Del resto, costretto in casa da una fastidiosa bronchite, ho trovato una via di fuga al tedio giornaliero proprio in questo romanzo, ripromettendomi di leggerne altri dello stesso autore quando avrò la necessità di staccare, quando riterrò opportuno non impegnarmi in letture difficili, bensì di abbandonarmi al puro e semplice piacere di un teatrino frivolo e rasserenante. 

Dopo aver frequentato «il severissimo liceo Manzoni» di Lecco, Andrea Vitali si laurea in medicina all'Università Statale di Milano ed esercita la professione di medico di base nel suo paese natale. 
Scrittore molto prolifico, ha esordito nel 1990 con il romanzo breve Il procuratore, ispiratogli dai racconti di suo padre; nel 1996 ha vinto il Premio letterario Piero Chiara con L'ombra di Marinetti, ma il grande successo lo ha ottenuto nel 2003 con Una finestra vistalago (Premio Grinzane 2004). 
Nel 2006 ha vinto il Premio Bancarella con il romanzo La figlia del Podestà; nel 2009 il Premio Boccaccio e il Premio Hemingway. 
Tra i numerosi romanzi, ricordiamo: nel 2011 La leggenda del morto contento e Zia Antonia sapeva di menta. Nel 2012 Galeotto fu il collier e Regalo di nozze. L'anno successivo escono Le tre minestre, lungo racconto autobiografico edito da Mondadori-Electa e Di Ilide ce n'è una sola. Nel 2014 Quattro sberle benedettePremiata ditta Sorelle Ficcadenti e Biglietto, signorina!; nel 2015 La ruga del cretino, scritto con Massimo Picozzi, Le belle Cece, La verità della suora storta, Quattro schiaffi benedetti, Un amore di zitella (tutti editi da Garzanti). Nel 2016 Nel mio paese è successo un fatto strano (Salani), Le mele di Kafka (Garzanti) e Viva più che mai (Garzanti).
Da ricordare che con il romanzo Almeno il cappello (edito nel 2009 da Garzanti) Andrea vitali ha vinto il Premio Casanova, il Premio Isola di Arturo Elsa Morante, il Campiello sezione giuria dei letterati ed è stato finalista al Premio Strega.
I suoi libri, pubblicati in Italia da Garzanti, sono stati tradotti in molti paesi, tra cui la Turchia, la Serbia e il Giappone. 
Renzo Montagnoli 

 

28 Marzo

Sul Grappa dopo la vittoria

di Paolo Malaguti

Santi Quaranta Editrice

www.santiquaranta.com

Narrativa romanzo

Un piccolo “grande” libro

Delle volte credo di essere proprio strano, talmente pregno di soddisfazione da essere quasi incapace di spiegarne la ragione; non accade di frequente, ma capita ed è successo proprio nel momento in cui, arrivato all’ultima pagina, ho chiuso il libro. Il cuore palpitava, davanti a me si succedevano, nitide, le immagini dei protagonisti, con sullo sfondo Lui, il monte sacro, l’ultimo baluardo della patria, il Grappa.  A ripensare a quel momento mi emoziono ancora, il mio corpo è percorso da un fremito lieve che sembra irradiarsi dal cuore, una sensazione unica che solo un libro così bello come questo è stato capace di darmi. E pensare che il mio primo contatto con questo autore non era stato per nulla soddisfacente, poiché La reliquia di Costantinopoli, di cui avevo lamentato l’eccessiva verbosità, non mi era piaciuto. Ma questo libro è tutta un’altra cosa, è una di quelle opere che presenta più di un piano di lettura, ma tutti egualmente validi e confezionati in modo impeccabile. L’esodo delle famiglie di Bassano a seguito della ritirata di Caporetto, la provvisoria residenza nel ferrarese, il ritorno alla propria casa alla fine della guerra, la miseria opprimente, il padre che scampa al conflitto, torna alla sua famiglia profondamente ferito nell’animo, il figlio che gli chiede notizie di quella guerra, lui che non risponde per non soffrire ulteriormente, ma anche perché non ci sono parole che possano spiegare l’orrore, il padre che, con la scusa di recuperare quanto di possibilmente utile,  accompagna il figlio fino alle prime balze del Grappa, invitandolo a proseguire da solo, sono tutte immagini in bianco e nero, virato seppia, che scorrono implacabili davanti agli occhi.  Ma queste pagine non potrebbero ancora spiegare  il pathos che creano nel lettore; è invece il percorso in solitario del giovane sulla montagna che si incide profondamente nell’animo, con le trincee divelte, il puzzo nauseabondo e dolciastro dei cadaveri in putrefazione, i corpi, spesso smembrati, raggruppati quasi in cataste, il dramma che, nella tensione del combattimento non si svela in pieno, assume ora, nel silenzio di una pace ritrovata, l’aspetto di un’ecatombe. Girare in un terreno martoriato, dove non cresce più nemmeno un filo d’erba, imbattersi in crani dalle occhiaie vuote, ma che ancora conservano qualche ciuffo di capelli, quella natura così violata da apparire per sempre distrutta mi hanno fatto venire in mente un grande capolavoro della cinematografia, il giapponese L’arpa birmana.  Ci si commuove, ci si emoziona, ma Malaguti è abile nel non tirare troppo la corda e quindi passa a epoche, anche se di poco, successive, a quella descrizione del mondo contadino di cui il giovane protagonista, benchè studente, è intima parte.  E così ci vengono mostrati il difficile periodo del dopo guerra, l’avvento del fascismo con una felice annotazione, in una delle poche e opportune digressioni (Il nostro modo di essere fascisti, perché lo eravamo, era essenzialmente formale. L’Italia era fascista, il paese era fascista, noi eravamo fascisti. Non esserlo significava porsi al di fuori di una condizione forse non condivisa, ma accettata da tutti, almeno in superficie.), i primi turbamenti amorosi e infine l’amore vero e proprio. Tutto procede secondo un ordine logico, gli avvenimenti si susseguono, il mondo cambia, tranne Lui, il monte sullo sfondo, il Grappa, ritornato a verdeggiare e ad accogliere mandrie sui suoi pascoli. 

Paolo Malaguti ha una mano sicura, procede per gradi senza incertezze, è capace perfino di interessare quel lettore che non conosce il dialetto veneto (non è il mio caso, ma penso che qualcuno avrà difficoltà a comprendere dei colloqui in volgare, beninteso più che mai opportuni in un ambiente rurale dove l’analfabetismo era assai diffuso), insomma riesce a completare un’opera che nelle sue 168 pagine dice tanto e lo dice bene.

Di conseguenza, reputo che la lettura sia non solo consigliata, ma anche raccomandata, visto che ci si trova di fronte a un autentico capolavoro.

Paolo Malaguti è nato a Monselice (Padova) nel 1978. Attualmente vive ad Asolo e lavora come docente di Lettere a Bassano del Grappa. Con Neri Pozza ha pubblicato La reliquia di Costantinopoli (2015), finalista al Premio Strega 2016. Tra le sue opere Nuovo sillabario veneto (BEAT, 2016) e Prima dell'alba (Neri Pozza, 2017).
Renzo Montagnoli 

 

25 Marzo

Caporetto

di Alessandro Barbero

Editori Laterza

Saggistica storica 

Una disfatta non inattesa

Credo che sia difficile trovare un evento nella ancor pur breve storia dell’Italia che abbia colpito il nostro popolo in modo così evidente, al punto di definire ogni risultato particolarmente negativo come “una Caporetto”. Del resto, in quelle giornate di fine ottobre del 1917 poco ci mancò perché le truppe tedesche e austriache arrivassero a dilagare nella pianura padana, determinando di fatto la fine del nostro stato.

Ma come è potuto accadere che un esercito come il nostro, quasi sempre in numero ben superiore all’avversario e dotato di moltissime artiglierie venisse di fatto ridicolizzato da un nemico che dopo undici battaglie sull’Isonzo si riteneva incapace di sostenerne una dodicesima? Proprio per questo motivo, nel timore di un crollo con un altro scontro diretto,  l’alto comando austriaco si risolse di chiedere aiuto all’alleato tedesco e insieme elaborarono un piano che, se nelle intenzioni era volto ad alleggerire la tensione sul fronte, di fatto arrivò quasi a ottenere una nostra irreparabile sconfitta, insomma una Waterloo o una Stalingrado. Data la tematica non pochi storici hanno provato a dare una risposta, più o meno convincente, ma comunque non così attentamente elaborata come ha invece fatto il prof. Alessandro Barbero. L’impegno nell’opera è stato notevole, se si considera che il volume, edito da Laterza,  consta di ben 645 pagine, ivi comprese quelle dedicate alle carte geografiche, poche in verità, ma utilissime; non mancano poi alla fine corpose parti dedicate alle indispensabili note e alla ragguardevole e ben scelta bibliografia. Il lavoro è stato ben strutturato in XIII capitoli, che vanno dall’ideazione dell’offensiva alla nostra ritirata in Friuli, affrontando tutta una specificità di aspetti che se non riescono a dare una risposta certa al 100% su chi fu colpevole del disastro, chiariscono però non poche cose. In particolare, e qui Barbero è piuttosto esplicito, ritiene che la colpa non può essere attribuita solo a Cadorna, a Badoglio o al suo comandante dell’artiglieria colonnello Cannoniere, perché la responsabilità, come esposto nel saggio storico, è condivida da tantissimi altri. Lo sfacelo del fronte, con il collasso del nostro esercito, fu il fallimento di un’organizzazione posticcia,  in cui le direttive erano a dir poco nebulose, le decisioni importanti erano prese in modo intempestivo, la professionalità latitava, la paura di assumere provvedimenti, con l’assunzione quindi di responsabilità, era la norma, la stanchezza di quasi tutti i soldati era giunta a un punto tale da far preferire loro la fuga o la resa. Inoltre, il distacco fra comandanti e militari semplici era tale da lasciar chiaramente intendere che i primi costituivano una casta, mentre i secondi erano solo carne da macello, e del resto in quest’ottica si preferiva nominare ufficiali, dopo un corso affrettato, giovani inesperti, ma figli della borghesia, invece di ricorrere ai subalterni (sottufficiali) che avevano maturato una grande esperienza in anni di guerra. Cadorna, che non era uno stratega scadente, anzi era un buon comandante sotto questo aspetto, aveva poi il difetto di considerare i componenti del suo esercito come semplici strumenti in mano a lui, artigiano della guerra, strumenti da spremere senza alcun riguardo. E pensare che aveva avuto a portata di mano la possibilità di vincere  la battaglia risolutiva, se avesse preceduto, di poco, l’offensiva nemica, cogliendola nella fase di attesa, quella più delicata, con tutte le truppe in prima linea. Il nostro Servizio informazioni gli aveva detto dove sarebbero avvenuti  gli attacchi, le forze utilizzate, i mezzi che sarebbero stati impiegati, il giorno e l’ora, ma come già accaduto in passato il comandante supremo non si fidò del nostro spionaggio, con le conseguenze che tutti conosciamo.

Quindi, ricapitolando, l’opera di Barbero, ben strutturata organicamente, è in grado di offrire una visione a 360° dell’intero evento, e ciò viene fatto con rigore storico, ma anche con dinamismo e a volte con quelle punte di ironia che sono proprie dell’autore, così che la lettura risulta agevole e anche avvincente, tanto di avere sovente l’impressione di essere presenti, come spettatori, sul palcoscenico che ospita il tragico fatto. Tale coinvolgimento è di particolare rilievo ove si consideri che l’analisi comprende anche la situazione della grande massa di prigionieri che fecero le forze nemiche, nonché gli aspetti, meno strettamente militari, di quella che può essere considerata la più grande ritirata della storia, in cui non pochi soldati in fuga diedero sfogo agli istinti più repressi. Si accenna appena, invece, ai motivi per i quali migliaia di militari sconfitti e demoralizzati riuscirono da subito, giunti sulla linea del Piave, ad arrestare l’offensiva nemica; infatti, e giustamente, Barbero scrive che per far questo occorrerebbe un altro corposo libro.

Mi sembra superfluo aggiungere che la lettura di questo approfondito saggio storico non solo è consigliata, ma è da me vivamente raccomandata per la completezza con cui viene trattato l’argomento e per l’equilibrio dell’autore nella ricerca delle colpe, da cui emerge anche una caratteristica italica, quell’improvvisazione, non disgiunta da menefreghismo, che purtroppo ci portiamo dietro e che nei momenti più delicati emerge chiaramente, come anche avvenne nella seconda guerra mondiale.

Alessandro Barbero, nato a Torino nel 1959, è professore ordinario presso l’Università del Piemonte Orientale a Vercelli. Studioso di storia medievale e di storia militare, ha pubblicato fra l’altro libri su Carlo Magno, sulle invasioni barbariche, sulla battaglia di Waterloo, fino al recente Caporetto  (2017). È autore di diversi romanzi storici, tra cui: Bella vita e guerre altrui di Mr. Pyle gentiluomo (Premio Strega 1996) e Gli occhi di Venezia(2011). 
Renzo Montagnoli 

 

22 Marzo

Maigret e il signor Charles

di Georges Simenon

Trasduzione di Laura Frausin Guarino

Edizioni Adelphi

www.adelphi.it

Narrativa romanzo

Collana gli Adelphi – Le inchieste di Maigret 

 

L’ultimo Maigret

Questo romanzo ha una particolarità: stilato agli inizi del 1972 è l’ultimo in assoluto scritto da Simenon. E che l’ultima fatica dell’autore belga abbia come protagonista il celebre commissario Maigret non penso proprio sia un caso; il personaggio che lo fece conoscere al grande pubblico nel lontano 1931 chiude, nel migliore dei modi, una carriera letteraria ricca di successi e di soddisfazioni. Devo anche dire che il cosiddetto canto del cigno è senza ombra di dubbio uno dei migliori gialli scritti da Simenon, una vicenda strana, una storia di solitudini, con il commissario che, nel consegnare alla giustizia il colpevole di un omicidio non prova soddisfazione, anche per la pietà che ha nei confronti del reo e forse, ipotesi per nulla trascurabile, perché è consapevole che quella che ha appena concluso è stata la sua ultima indagine.

La vicenda, ambientata nei quartieri alti di Parigi, è quella di una coppia che si ignora, lui un ricco e famoso notaio che frequenta assiduamente i locali notturni, assentandosi da casa a volte anche per diversi giorni con una entraineuse che ha rimorchiato, lei, la moglie, una delle sue conquiste notturne, che si stordisce con l’alcool. Il marito non torna da una delle sue avventure, la moglie si preoccupa e interessa la polizia, e infine l’uomo viene ritrovato, morto ammazzato. Non vado oltre per non togliere il piacere della scoperta, ma ho dovuto anticipare questo succinto parziale riassunto per far comprendere l’ambiente e l’atmosfera in cui opera Maigret, un Maigret prossimo alla pensione e che rifiuta l’ambitissimo posto di direttore della polizia giudiziaria, un lavoro più da burocrate  che da investigatore, in cui un peso non trascurabile ha la capacità di saper mediare, di essere diplomatici. Che il nostro commissario non accetti l’offerta mi appare scontato, perché è impossibile figurarselo dietro una scrivania tutto il giorno, a firmare carte, a distribuire incarichi, a tenere i rapporti con il ministro degli Affari interni. No, lui è un uomo d’azione, ama quel piacere perverso che prova chi indaga nel seguire una traccia, nel braccare un delinquente. Poi, come peraltro è accaduto altre volte, è uomo che non solo non ama infierire su chi assicura alla giustizia, ma rivela un profondo senso di pietà che se non ammette la possibilità di ignorare la verità e di lasciare andar libero un colpevole, tuttavia nemmeno lo induce a trarre motivo di soddisfazione dall’esito positivo della sua indagine. Direi, anzi, che questa caratteristica di Maigret lo rende unico fra i tanti investigatori creati dagli autori del genere, un brevetto quasi che gli dona una carica di umana simpatia.

Maigret e il signor Charles è un romanzo molto bello, venato da una malinconia frenata a a stento, la malinconia che può prendere chi sta per lasciare una persona amica, una sua creatura che l’ha accompagnato per una quarantina di anni, meglio di una moglie, assai meglio di un figlio, perché in fondo non è altro che lo specchio dell’anima del suo autore.

Georges Simenon, nato a Liegi nel 1903, morto a Losanna nel 1989, ha lasciato centonovantatre romanzi pubblicati sotto il suo nome e un numero imprecisato di romanzi e racconti pubblicati sotto pseudonimi, oltre a volumi di «dettature» e memorie. Il commissario Maigret è protagonista di 75 romanzi e 28 racconti, tutti pubblicati fra il 1931 e il 1972. Celebre in tutto il mondo, innanzitutto per le storie di Maigret, Simenon è anche, paradossalmente, un caso di «scrittore per scrittori». Da Henry Miller a Jean Pauhlan, da Faulkner a Cocteau, molti e disparati sono infatti gli autori che hanno riconosciuto in lui un maestro. Tra questi, André Gide: «Considero Simenon un grande romanziere, forse il più grande e il più autentico che la letteratura francese abbia oggi»; Walter Benjamin: «… leggo ogni nuovo romanzo di Simenon»; Louis-Ferdinand Céline: «Ci sono scrittori che ammiro moltissimo: il Simenon dei Pitard, per esempio, bisognerebbe parlarne tutti i giorni».
Renzo Montagnoli 
 

 

19 Marzo

L’impero del male

I crimini nascosti da Truman a Trump

di Gianluca Ferrara

Introduzione di Ferdinando Imposimato

Dissensi Edizioni

www.dissensi.it

Storia 

Il volto del potere

Credo che sia opportuna una premessa, onde evitare di cadere in un facile equivoco: l’autore, Gianluca Ferrara, non è un vetero comunista, tanto più che è un senatore fresco di nomina facente parte del movimento 5 stelle; dunque se il titolo può sembrare roboante, tipico di una certa sinistra estremista di diversi anni fa, e l’argomento trattato è scottante, non c’è nulla di strano, non c’è nessun partito preso, perché Ferrara ha scritto numerose opere di rottura con cui ha messo in luce insanabili contrasti di tante istituzioni, da quelle finanziarie a quelle religiose, in ciò perfettamente in linea con le finalità di Dissensi, la casa editrice di cui è il principale esponente e che è nota per pubblicare libri che affrontano in modo serio e organico temi non facili, o addirittura tabù.

Inoltre, credo anche necessario evidenziare che io sono quasi sempre delle stesse opinioni dell’autore; per quanto concerne il saggio in argomento, pur condividendolo in toto nei suoi contenuti, ritengo opportuno fare tuttavia una considerazione: è nell’animo umano la prevaricazione e uno stato, per diventare una potenza, quasi sempre lascia dietro di sé una scia di cadaveri, morti, anche figurate, che continuano per il mantenimento del potere raggiunto, e se un tempo era l’impero romano, oggi c’è quello americano, in futuro, forse, quello cinese, ma nulla cambia nei metodi, se non gli affinamenti dovuti all’esperienza.

Il libro ha una bella introduzione di Ferdinando Imposimato, scomparso agli inizi del corrente anno, e che in poco, cioè in termini succinti, e pur in modo esauriente, dice tutto di questo saggio, ovviamente in quelle che sono le linee generali e che partono dal sanguinoso inizio degli Stati Uniti per arrivare ai giorni nostri, lasciando questo lasso di tempo costellato da innumerevoli tragici eventi, quali guerre, cospirazioni, il tutto in nome della democrazia, parola che non è nemmeno citata nella costituzione americana. Per ironia della sorte il termine Impero del male fu coniato da Ronald Reagan per definire l’Unione Sovietica, che non era certamente il regno del bene, ma che non era al livello di cinismo degli USA  che alla stessa epoca finanziavano in Nicaragua i Contras, famosi terroristi, e in Afganistan i radicali islamici. Fu comunque al termine della seconda guerra mondiale che la vocazione di stato egemone contagiò gli Stati Uniti, tanto che da allora sono intervenuti in una settantina di paesi, condizionandone pesantemente la politica nazionale, come, tanto per citare un caso, il colpo di stato di Pinochet con cui fu rovesciato il legittimo governo di Allende in Cile, ma ce ne sono molti altri, altrettanto eclatanti. Fra l’altro, se per l’espansionismo sovietico si può dire che alla base ci fosse un’ideologia, cioè un’interpretazione sbagliata del marxismo, nel caso americano c’è indubbiamente un fondamento di carattere economico che sta dilagando (il neoliberismo), ma non è estranea a certi comportamenti anche una concezione religiosa calvinista secondo la quale la ricchezza di alcuni è un segno della volontà di Dio; da qui l’assenza, o comunque la limitatezza di uno stato sociale, e il continuo aumento della miseria nel paese, perché è bene precisare che gli americani non sono tutti ricchi, come l’abile propaganda ci ha induce a credere. Con due soli partiti e una élite economico-finanziaria in grado di sconvolgere il mercato non solo nazionale, è evidente che la democrazia piena non esiste e che è una chimera. Secondo i principi neoliberisti un paese “deve” accrescere la propria ricchezza, altrimenti muore (il motivo di questa necessità è in realtà un altro, nel senso che tutta l’economia poggia su una illimitata fiducia dei consumatori, stimolati continuamente ad acquistare; se cade la fiducia, perché per esempio le banche non sono più in grado di erogare ai privati i prestiti necessari per consumare, l’impalcatura crolla); per questo motivo, anche per impedire l’inevitabile caduta della notevole produzione bellica una volta finito il secondo conflitto mondiale, è stato scelto di alimentare nuove guerre esterne, in modo da evitare una consistente riduzione degli ordini alle industrie degli armamenti. Ovviamente sono continue le pressioni affinché i paesi amici, ma è meglio dire sottomessi, acquistino frequentemente nuovi strumenti bellici, magari coinvolgendoli nelle cosiddette missioni di pace volte, ufficialmente, a portare la democrazia dove non c’è, ma dove sono comunque presenti rilevanti interessi economici o geo-politici. Quindi, se pur Abramo Lincoln abolì la schiavitù, gli americani ne hanno imposto un’altra agli europei e comunque a tutti i paesi del globo: o essere in diverse misure asserviti, o diventare teatri di guerre.

E’ un ritratto impietoso quello di Ferrara che magari può anche trovare il lettore non in sintonia, ma è innegabile che correlati tutti gli eventi citati dall’autore, peraltro documentati, la conclusione a cui si arriva è che gli Stati Uniti si comportano come padroni assoluti, quindi dimostrando che la democrazia, più volte dagli stessi osannata, è una vuota parola.

Agli scettici, che non sono pochi, perché siamo cresciuti a pane e America, dico solo che ognuno fa sempre i propri interessi, anche quando dice di fare quelli degli altri; lo stato egemone non è una novità, la novità è che in passato si conquistava solo militarmente, oggi si conquista anche psicologicamente, si indottrina senza che ce ne accorgiamo e quindi siamo in fondo schiavi senza saperlo.

Leggete questo libro, per acquisire un po’ di consapevolezza, per comprendere che il percorso dell’uomo verso un’autentica libertà e una completa democrazia è ancora lungo e ben lontano dall’essere compiuto.

Gianluca Ferrara è nato a Portici in provincia di Napoli nel 1972, ma da circa 20 anni frequenta la Versilia e da quasi 10 risiede a Viareggio. 
Laureato a pieni voti in Scienze Politiche, nel 2005 ha dato vita alla casa editrice Dissensi Edizioni di cui è direttore editoriale, è convinto che la grande sfida da vincere sia quella contro "la fabbrica del consenso" che mira a renderci tutti consumatori obbedienti e disinformati. Il suo obiettivo invece è quello, per tramite dei  libri editi da Dissensi, di creare una coscienza e una consapevolezza critica.
Ha scritto diversi libri, tra cui "99% Banche, multinazionali e Partiti VS cittadini" introdotto da Vandana Shiva, "Nonostante il Vaticano", introdotto da Beppe Grillo, "Derubati di sovranità", "La società del Benessere comune" scritto con Francesco Gesualdi e l'ultimo libro "L'Impero del male" introdotto da Ferdinando Imposimato. 
E’ blogger de Il Fatto Quotidiano che  dicono sia tra i più letti, dove si occupa di politica internazionale.
Renzo Montagnoli 

 

 

15 Marzo

Le otto montagne

di Paolo Cognetti

Edizioni Einaudi

Narrativa

 

Crescere insieme

Ammetto di aver affrontato un po’ prevenuto la lettura di questo libro, a causa delle delusioni che ho provato con non pochi altri testi premiati allo Strega. Prevenuto sì, ma non pregiudizialmente avverso, anche perché l’idea che si parlasse della montagna, che così tanto amo, mi stimolava ed è perciò con interesse che ho proceduto nella lettura, che dopo le prime pagine è divenuta avvincente grazie a un incipit che, pur senza essere trascendentale, già confermava le mie aspettative. Le otto montagne, nonostante il titolo, non è un libro sulla montagna, che peraltro è il palcoscenico in cui si misurano gli attori, è la storia invece di due ragazzi, Pietro il cittadino e Bruno il montanaro, che crescono insieme, così diversi e al tempo stesso così uguali; diversi ho detto, eppure uguali, perché le loro anime denotano un’affinità che quasi li fa sembrare fratelli. Il primo è soggiogato da un padre che vede nelle escursioni in montagna una continua sfida con se stesso, il secondo è già svezzato da una vita dura e di fatica, con un genitore violento e per nulla paterno, in un confronto fra una piccola borghesia che può permettersi anche le vacanze sui monti e un sottoproletariato, in cui ferie è un termine sconosciuto. Finiranno con il crescere insieme, sia pure nel breve periodo delle vacanze estive, in un’amicizia che li cementerà per tutta la vita. Assieme affronteranno le escursioni fra panorami talmente belli e così ben descritti che fanno venire le lacrime agli occhi; non sarà tuttavia sempre così, perché trascorsa la pubertà ognuno andrà per la sua strada, Bruno sempre legato intimamente alla montagna, Pietro a cercare un suo percorso, un senso da dare alla vita. Sarà la morte improvvisa del padre di Pietro a riavvicinarli, a farli sentire un unico individuo e insieme cercheranno di dare una svolta alle loro vite: Bruno sempre legato alla sua montagna, Pietro in giro per altre montagne, nel lontano Nepal; qui gli giungerà una tragica notizia, che preferisco non svelare per rispetto di chi leggerà, ma che è la indovinata conclusione di un’opera senz’altro convincente.  Mi limito, pertanto, a dire che Pietro continuerà a cercare lo scopo della sua esistenza, probabilmente su e giù per altre montagne, quello scopo che Bruno ha da tempo e definitivamente trovato.

Il romanzo è scritto benissimo, con uno stile per niente ampolloso, ma nemmeno scarno, venato sovente  da una malinconica nota poetica; in sé non sembrerebbe particolarmente degno di nota, ma, come mi era capitato per Stoner, tutti gli equilibri strutturali sono stati raggiunti con un’apparente facilità che stupisce ed entusiasma il lettore, ora accompagnato dal sottofondo del rumore di un ruscello alpino, ora immerso nel silenzio delle alte cime.

Le otto montagne è senz’altro un bel romanzo, una di quelle opere che, pur non facendo gridare al capolavoro, lasciano al termine della lettura completamente soddisfatti e, ciò che più conta, pervasi da un grande senso di serenità.

Paolo Cognetti (Milano, 1978) ha realizzato per minimum fax la serie Scrivere / New York, nove puntate su altrettanti scrittori newyorkesi, da cui è tratto il documentario Il lato sbagliato del ponte, viaggio tra gli scrittori di Brooklyn. La sua passione per New York si è concretizzata in due guide: New York è una finestra senza tende(Laterza 2010) e Tutte le mie preghiere guardano verso ovest (edt 2014). Per Einaudi ha curato l'antologia New York Stories (2015) e ha pubblicato il romanzo Le otto montagne (2016).
Il suo blog è 
paolocognetti.blogspot.it. 
Renzo Montagnoli 

 

 

12 Marzo

La mamma del sole

Due donne, due misteri

di Andrea Vitali

Garzanti Libri

Narrativa romanzo

Una piacevole lettura

Da un libro si può pretendere molto o poco, ma in ogni caso quello che gli si richiede è che sia capace di interessare, magari facendo trascorrere piacevolmente alcune ore.

Questo breve preambolo è solo per dire che le opere di Andrea Vitali non saranno di quelle che restano impresse e indelebili nella storia della letteratura, ma che talvolta hanno invece il pregio, mai scontato, di divertire il lettore.

Anche questo La mamma del sole si legge che è un piacere, le pagine scorrono veloci con ambienti e personaggi ben delineati, anche se non è mai presente un particolare approfondimento e l’analisi psicologica è appena abbozzata.

Il paese della storia è sempre quello, Bellano, l’epoca è il Ventennio, i protagonisti principali sono i carabinieri della stazione di paese, la vicenda, o meglio le vicende, perché sono due, hanno solo il sapore del giallo, perché non sono di questa tinta, con due donne al centro dell’attenzione che sembrano personaggi usciti da una pagina di fumetti, ma che pur con le loro caratterizzazioni fin troppo accentuate destano simpatia.

Un’anziana signora che sbarca a Bellano e di cui si perdono le tracce, salvo poi trovarla cadavere nel bagno della motonave Nibbio avviata alla demolizione, un’altra donna più giovane, di conclamata dubbia reputazione, madre di 14 figli che diventa l’attrattiva principale del fascio provinciale, un caldo torrido che implacabile soffoca gli abitanti, un vetraio che muore dalla voglia di lavorare e che quando gli viene l’estro opera a orari impensabili, un sacerdote, ormai anziano, custode di un segreto, il locale federale, uomo tutto d’un pezzo, ma con insospettabili gusti sessuali sono gli attori di una commedia in cui gli equivoci scandiscono gli eventi. Si potrà dire che  i romanzi di Vitali hanno una matrice comune, e anche più di quella, ma è altrettanto vero che questa, se ben lavorata – e non è detto che sempre lo sia, anzi… - può dare i suoi frutti e così è stato, almeno in questo caso, per quanto continui a restare scettico sulle qualità letterarie dell’autore, un po’ troppo frettolosamente definito da certa critica come l’erede di Piero Chiara; infatti, almeno con La mamma del sole, posso dire, senza remore, di essermi divertito, di aver trascorso alcune ore piacevolmente anche se, chiuso il libro, non mi è rimasto nulla dentro, ma questo è un altro discorso, perché se avessi riscontrato un mio accrescimento culturale avrei dovuto, necessariamente, rivedere il mio giudizio sull’autore, di discreto stile, buona fantasia, ma piuttosto superficiale e comunque mai capace di dimostrare di essere un grande della letteratura.

Dopo aver frequentato «il severissimo liceo Manzoni» di Lecco, Andrea Vitali si laurea in medicina all'Università Statale di Milano ed esercita la professione di medico di base nel suo paese natale. 
Scrittore molto prolifico, ha esordito nel 1990 con il romanzo breve Il procuratore, ispiratogli dai racconti di suo padre; nel 1996 ha vinto il Premio letterario Piero Chiara con L'ombra di Marinetti, ma il grande successo lo ha ottenuto nel 2003 con Una finestra vistalago (Premio Grinzane 2004). 
Nel 2006 ha vinto il Premio Bancarella con il romanzo La figlia del Podestà; nel 2009 il Premio Boccaccio e il Premio Hemingway. 
Tra i numerosi romanzi, ricordiamo: nel 2011 La leggenda del morto contento e Zia Antonia sapeva di menta. Nel 2012 Galeotto fu il collier e Regalo di nozze. L'anno successivo escono Le tre minestre, lungo racconto autobiografico edito da Mondadori-Electa e Di Ilide ce n'è una sola. Nel 2014 Quattro sberle benedettePremiata ditta Sorelle Ficcadenti e Biglietto, signorina!; nel 2015 La ruga del cretino, scritto con Massimo Picozzi, Le belle Cece, La verità della suora storta, Quattro schiaffi benedetti, Un amore di zitella (tutti editi da Garzanti). Nel 2016 Nel mio paese è successo un fatto strano (Salani), Le mele di Kafka (Garzanti) e Viva più che mai (Garzanti).
Da ricordare che con il romanzo Almeno il cappello (edito nel 2009 da Garzanti) Andrea vitali ha vinto il Premio Casanova, il Premio Isola di Arturo Elsa Morante, il Campiello sezione giuria dei letterati ed è stato finalista al Premio Strega.
I suoi libri, pubblicati in Italia da Garzanti, sono stati tradotti in molti paesi, tra cui la Turchia, la Serbia e il Giappone. 
Renzo Montagnoli 

 

9 Marzo

San Gennaro non dice mai no

di Giuseppe Marotta

Avagliano Editore

Narrativa raccolta di racconti

 

L’anima di Napoli

E’ l’immediato dopo guerra, in un Italia distrutta, povera e affamata, e Giuseppe Marotta ritorna alla sua Napoli, sconvolta dalle bombe, in attesa di una ricostruzione che non si sa quanto lunga sarà, con la gente che si arrangia con quel poco che ha per sopravvivere, ma sempre con la speranza che possa cambiare.

In questo contesto gli occhi dell’autore colgono realtà disarmanti, ma al tempo stesso uniche, in cui il dramma non arriva mai al suo acme, perché c’è sempre  qualcosa che permette di stemperare l’atmosfera, che consente persino al derubato di accennare a un timido sorriso.  I vetturini, che in mancanza di clienti, si portano a spasso l’un altro, per dare al loro lavoro quella parvenza di normalità che impedisce di arrivare alla disperazione, e che per rimediare ai miseri incassi se trovano un cliente sprovveduto gli fanno pagare per dieci; i borseggiatori di penne stilografiche, quasi sempre cenciosi monelli, imperversano nei vicoli, ma nel caso che la vittima li impietosisca restituiscono il maltolto; il mercato nero domina sovrano, si compra e si vende di tutto, ma in un certo senso non è illegale, perché si svolge alla luce del sole  ed è il toccasana per una città che altrimenti si spegnerebbe. I percorsi per le vie, per i viottoli, lo sfondo del mare, le caratteristiche trattorie, i venditori ambulanti, tutto fa meraviglia in questa città e Marotta ha la straordinaria abilità di renderci in uno stile impeccabile una serie di quadri che uniti consentono di vedere Napoli, ma soprattutto di capire il carattere dei suoi abitanti, di immergerci in un’atmosfera unica che non è possibile trovare in nessun altro agglomerato urbano, quell’atmosfera che ha tanto incantato i turisti nordici, precisi, ordinati, ma privi di fantasia. E’ un microcosmo questo così variegato che credo sia impossibile descriverlo tutto, un microcosmo animato, pieno di vita, in cui l’amarezza di fondo è stemperata da una speranza, dalla speranza che San Gennaro ritorni, un San Gennaro che non può mancare di venire incontro alle preghiere dei suoi fedeli, perché altrimenti non sarebbe un santo.

San Gennaro non dice mai no è una raccolta di racconti di elevata qualità, che si leggono con vero piacere e che lasciano molto dentro, facendoci anche capire che la vita può essere bella, nonostante tutto.

Giuseppe Marotta (1902-1963) nasce a Napoli, che rimane l’eldorado del suo immaginario, e si trasferisce a Milano a 25 anni. È un’epoca di boom giornalistico e culturale, che frutta a Marotta una prestigiosa collaborazione al «Corriere della Sera», mentre scrive anche sulle testate satiriche più celebri del tempo, il «Bertoldo» e il «Guerin Meschino». Fluviale nell’invenzione narrativa, è autore di romanzi memorabili (tra cui A Milano non fa freddo e Gli alunni del sole) e di raccolte di racconti che sfiorano la leggenda, come appunto L’oro di Napoli, traslata su grande schermo dal genio cinematografico di Vittorio De Sica.
Renzo Montagnoli

 

4 Marzo

Gli aquiloni

di Romain Gary

Neri Pozza Editore

www.neripiozza.it

Narrativa romanzo

 

La speranza non deve morire

La prima emozione, quel primo sentimento che è ancora impossibile definire amore, ma semplicemente trasporto verso altri è per un bambino francese di dieci anni un’occasione irripetibile, unica, in cui i suoi turbamenti sono di gioiosa trepidante felicità e di quella sensazione avrà sempre memoria, ma non solo ricordo, perché è in un giorno d’ombra e di sole degli anni ‘30 che Ludo, orfano di entrambi i genitori e che vive con uno zio un po’ picchiatello che si diverte a fabbricare aquiloni, conosce Lila, una biondissima ragazzina polacca.

Non si tratterà di un’infatuazione passeggerà, perché la promessa d’amore di Ludo finirà con il costituire la ragione stessa della sua esistenza, gli imporrà scelte decisive, lo aiuterà a maturare nonostante gli eventi che vedono la Francia occupata e l’assenza di notizie da parte di Lila, ritornata precipitosamente in Polonia a seguito di un tracollo finanziario del padre.

Ludo diventa partigiano e verrà coinvolto nella guerra spietata fra i maquis e i nazisti, ma senza mai perdere quel senso di umanità che gli è proprio, che gli impedisce di odiare e che lo induce a credere fermamente che l’amore non potrà che trionfare. E infatti la Francia tornerà libera, la guerra che ha sconvolto l’Europa finisce, chi era dovuto scappare, chi era stato disperso ritorna e così ritorna anche Lila. Il cerchio si chiude; era tutto iniziato in quel giorno d’ombra e di sole con l’incontro di due bimbi, ora cresciuti, diventati adulti, provati dalla guerra, ma non sconfitti. Gary sembra volerci dire che quando tutto si fa nero, quando il nostro mondo crolla, non si deve mai perdere la speranza, soprattutto se alla base di questa c’è un amore da coltivare, da difendere, da raggiungere.

La mano dell’autore è lieve, muove i personaggi con dolcezza, ma non si creda che sia un romanzo d’amore, perché è un romanzo sull’amore, su quel sentimento che dovrebbe affratellare gli uomini.

Gli aquiloni mi è parso senz’altro meritevole di lettura, anche se un’amica mi ha fatto presente che ha scritto di meglio e considerato il livello di questo romanzo il meglio può essere solo quello del capolavoro.

Romain Gary (pseudonimo di Romain Kacev) nacque nel 1914. A trent’anni, Gary è un eroe di guerra (gli viene conferita la Legion d’honneur), scrive un romanzo, Educazione europea (Neri Pozza, 2006), che Sartre giudica il miglior testo sulla resistenza, gli si aprono le porte della diplomazia. Nel 1956, vince il Goncourt con Le radici del cielo (Neri Pozza, 2009). Nel 1960 pubblica uno dei suoi capolavori La promessa dell’alba (Neri Pozza, 2006). Nel ’62 sposa Jean Seberg, l’attrice americana di Bonjour tristesse, l’interprete di A bout de souffle. Nel 1975 pubblica, con lo pseudonimo di Émile Ajar, La vita davanti a sé (Neri Pozza, 2005) che, nello stesso anno, vince il Prix Goncourt. Il pomeriggio del 2 dicembre 1980, Gary si uccide, nella sua casa di place Vendôme a Parigi. Con un colpo di pistola alla testa.
Renzo Montagnoli

 

1 Marzo

L’uomo di Kiev

di Bernard Malamud

Minimum Fax Edizioni

www.minimumfax.com

Narrativa romanzo

 

L’assurdità del pregiudizio

Fra i difetti degli esseri umani vi è anche il pregiudizio, cioè quel voler etichettare negativamente un altro gruppo di individui sulla base esclusiva dell’appartenenza al gruppo stesso. In proposito, ne sanno qualcosa gli ebrei che nei secoli sono stati quasi sempre discriminati e talvolta massacrati per il solo fatto di essere ebrei. Anche Yakov Bok, il protagonista di L’uomo di Kiev, è un ebreo, un uomo tranquillo, un po’ succube, e che, abbandonato dalla moglie, riesce a trovare lavoro come sorvegliante in una fabbrica di un industriale che lui ha salvato da sicura morte. Nel suo nuovo ruolo viene a inserirsi in uno specifico contesto e ambiente, così che provoca invidia, accentuata dal suo stato di ebreo. Ma ciò sarebbe sopportabile, perché da centinaia di anni gli ebrei, pur non essendo diversi dagli altri, sono emarginati, se non accadesse uno di quegli eventi capaci di scuotere e infiammare l’opinione pubblica: vicino alla fabbrica viene ritrovato  il cadavere dissanguato di un bambino. Da lì ad associare il delitto a un presunto, e mai dimostrato, sacrificio rituale proprio degli ebrei il passo è breve e quale migliore rappresentante degli ebrei si può trovare se non il sorvegliante Yakov Bok, così invidiato e anche temuto dagli operai? Nella Russia zarista del 1911 il colpevole non può essere che lui, perché è il capro espiatorio ideale, l’essere capace di far emergere le pulsioni più sfrenate e inclementi dell’animo umano. Inizia così una vicenda kafkiana, perché da una parte c’è un magistrato, ammiratore di Spinoza come  Bok e perciò improntato al senso della ragione che cerca di contrastare un’accusa impietosa, attirata da un possibile sviluppo di carriera e sostenuta dalla voce stridula del popolo, e dall’altra c’è lui, l’imputato, l’ebreo segnato a dito, colpevole in effetti di aver lasciato il ghetto per immergersi nel mondo dei “gentili”. Ci sarebbe da impazzire, e in effetti poco ci manca, in quella discesa nell’inferno, ma è proprio in questa occasione che Yakov si riscopre ebreo, e trova conforto nella recita dei salmi, ma, soprattutto, nella lettura dei Vangeli, laddove comprende che la sua posizione è come quella del Cristo in croce abbandonato dal suo Dio.  Questa consapevolezza di essere l’ultimo degli uomini, senza l’appiglio di una divinità soccorrente, anziché abbatterlo, gli impone la ricerca di nuovo di Dio e questo gli permette di sopravvivere ad anni di dura detenzione, di isolamento, di sofferenze fisiche e psichiche, fino a quando, venuta meno quella pressione politica che lo spingeva a confessare un delitto non commesso, viene posto in libertà. Da questa esperienza Yakov Bok uscirà senza danni, oppure no? L’autore volutamente non si pronuncia, lasciando al lettore la decisione; per parte mia credo che quella ricerca di Dio che l’ha salvato, che ha rappresentato un lumicino di speranza,  non potrà che essere benefica, perché l’uomo che aveva creduto e auspicato di essere accolto nel mondo degli altri, ha ritrovato se stesso, non in quanto ebreo, ma come essere pensante e dotato di coscienza, il presupposto indispensabile per sentirsi parte non minoritaria del genere umano.

L’uomo di Kiev, premiato fra l’altro con il Pulitzer, è senz’altro un libro da leggere.

Bernard Malamud (1914/1986) è considerato uno dei più grandi narratori del secondo dopoguerra, e un maestro nell'arte del romanzo quanto in quella del racconto. Ha vinto due volte il National Book Award e una volta il Premio Pulitzer.
Renzo Montagnoli

 

25 FEbbraio

Tra uomini e lupi

di Vincenzo Pardini

Edizioni Pequod

Narrativa raccolta di racconti

Un mondo che non c’è più

E con questa sono tre le opere di Vincenzo Pardini che ho letto, il che mi consente anche, in corso di analisi critica della presente, di parlare un po’ di più di questo autore toscano.

In questa raccolta di racconti si respira l’atmosfera di Il postale e di Gran secolo d’oro e di dolore, un’atmosfera che sa di un tempo andato in cui si stava peggio economicamente rispetto a ora, ma anche in cui c’era una diversa tipologia di rapporti fra gli uomini, e soprattutto fra gli uomini e la natura. Un essere umano non più dominante sul mondo che lo circonda, ma capace di interagire con esso, di recepire i messaggi che spesso la natura ci manda, in possesso ancora di una parte di quel sesto senso che nell’evoluzione della specie, con l’accentuazione della conoscenza, si è persa per strada. C’è un aspetto favolistico nelle opere di Pardini, visto il rilievo che assumono gli animali, ma non mi lascerei tentare di pervenire a definizioni avventate, poiché sono dell’opinione che, nonostante una rilevante presenza del mondo animale, nella scrittura dell’autore toscano fulcro centrale sia l’uomo e la sua condizione di essere privilegiato, ma imperfetto, superiore, ma pieno di paure, personaggio, ma anche comparsa che si lascia trascinare dal destino, protagonista di un viaggio sulla terra lungo come un battito dì ali di farfalla se confrontato con l’infinito tempo dell’universo. Sì, Pardini è portatore di un suo pensiero filosofico che si ripete, si evolve, assume forme diverse, ma è sempre lo stesso in tutte le sue opere. Prendiamo questa raccolta di racconti e cerchiamo di comprendere i personaggi di un mondo che emerge a stento dalle nebbie dei ricordi, tanto da apparire fantastico, proprio di una mitologia di un’epoca forse felice che non è solo di qualche anno fa, ma è propria di un periodo ben preciso, e assai lungo, quello che precede la seconda guerra mondiale, quel conflitto dopo il quale il mondo non fu più lo stesso, il modo di pensare cambiò radicalmente, un antica civiltà, quella contadina, venne a sparire.

Il mondo di Pardini è un mondo di montanari, di gente talmente radicata sulla terra da esserne parte, un microcosmo che va dal pastore al tipico balordo di paese, una realtà purtroppo scomparsa in una umanità che corre sempre più veloce senza un perché; il mondo di Pardini ha ritmi lenti, più a misura d’uomo e infatti non emergono nei personaggi problemi psicologici, quali le depressioni; il mondo di Pardini è un mondo che non abbiamo mai conosciuto o che nella migliore delle ipotesi abbiamo dimenticato, un modo di vivere, una civiltà, oserei dire, improntata alla sacralità della natura, scandita dal ritmo delle stagioni.

I racconti sono in tutto sedici, qualcuno breve, altri assai più lunghi, e, come sempre succede in questi casi, pur a fronte di un livello qualitativo di eccellenza ce ne sono che piacciono di più,  o di meno. Dal mio punta di vista dico che se dovessi scegliere mi troverei in imbarazzo anche se, in fondo, preferisco una prosa in cui siano presenti tutte le caratteristiche dell’autore, quel suo fil rouge che ripropone sotto svariate forme, e allora sono dell’opinione che quello che più mi ha colpito sia uno abbastanza breve, Il carrettiere dei monti, che scorre davanti agli occhi come un dipinto sfumato, un qualcosa di semplice, ma al tempo stesso pregno di significato perché, a ben guardare, nella vicenda di Sassie, che da una vita trasporta il carbone con il carro trainato dal cavallo e con la compagnia di un cane, si intromette nel tempo il cosiddetto progresso che lo porterà a concludere, non solo come constatazione, che la sua vita non ha più un senso. Mancherei, tuttavia, di rispetto all’autore se non ponessi in opportuna evidenza l’ultimo racconto del libro, La morte del mulo, poiché questo sancisce in modo inequivocabile il legame con la natura, e in particolare con gli animali, che è sempre presente in ogni opera di Pardini; è una prosa che scandisce l’ultimo periodo di vita di un compagno silenzioso con cui fin dall’origine è stata avviata un’azione  di reciproca comprensione; Giovale, così si chiama il mulo, con il suo silenzio e il suo comportamento parla molto di più di un individuo ciarliero e le pagine dedicate ai suoi ultimi giorni di vita, mai tese a ingenerare commozione, tuttavia lasciano il segno, tanto che, almeno a me, è capitato di affezionarmi quasi che fosse lì davanti a me; Pardini non sollecita lacrime facili, il suo è un dolore intimo, ma è inevitabile che nel vedere spegnersi un amico, un compagno di esistenza, si sia presi da un sentimento non facilmente definibile, un misto di commozione, di pietà e anche un po’ di dolore.

I periodi sembrano scaturire dalla penna dell’autore con assoluta naturalezza, poiché è sua la stessa lingua dei personaggi che popolano i racconti, è suo lo stesso ritmo del tempo che scandisce le loro esistenze, sono suoi gli occhi che si addentrano nella nebbia del tempo  per mostrarci ciò che è stato e che mai ritornerà. Ed è per questo che la lettura, oltre che gradevole, è densa di significati, piano piano coinvolge chi ha la fortuna di scorrere queste pagine, di immergersi in una realtà sconosciuta di cui, giunti a fine libro, non potremo che avere nostalgia.

Vincenzo Pardini è nato a Fabbriche di Vallico (Lucca) nel 1950. Collabora al Quotidiano Nazionale e alle riviste Nuovi Argomenti e Paragone. Tra le sue opere ricordiamo Jodo Cartamigli (Mondadori, 1989), Giovale(Bompiani, 1993), Rasoio di guerra (Giunti, 1995), Tra uomini e lupi (peQuod, 2005, premio Viareggio-Rèpaci), Il postale (Fandango, 2012) e Grande secolo d’oro e di dolore (Il Saggiatore, 2017).
Renzo Montagnoli

 

21 Febbraio

La signorina Tecla Manzi

di Andrea Vitali

Garzanti Libri S.p.A.

Narrativa romanzo

 

Il furto del Sacro cuore

Più volte paragonato a quel gran narratore che è stato Piero Chiara, Andrea Vitali tuttavia non ne è che una pallida imitazione; sì, certo, entrambi scrivono del piccolo mondo della provincia italiana, il primo di Luino sul lago Maggiore, il secondo di Bellano sul lago di Como, ma, a parte questa caratteristica, non c’è nulla che li accomuna. Piero Chiara rivela un acume particolare nel parlare di vizi e virtù di un piccolo mondo, sondando l’animo umano e restituendoci un quadro sovente ilare, ma che viene descritto con affetto, come di un qualcosa che nel tempo si è perso e che mai più ritornerà. Anche Andrea Vitali  descrive personaggi che sono tipici di una realtà circoscritta, ma resta in superficie, non approfondisce, preferendo invece narrarci di fatti e circostanze particolari e cercando di invogliare il lettore al riso. Anche in La signorina Tecla Manzi, una sorta di giallo senza omicidi e assassini, ambientato in epoca fascista, intesse una trama che a tratti scorre liscia, mentre in altri si inceppa. C’è uno spiccato intento di far ridere, ma al più sono arrivato al sorriso, proprio perché la discontinuità del ritmo, i capitoli particolarmente brevi e, se vogliamo dirlo, anche un intreccio non particolarmente avvincente di più non riescono a fare. Con ciò non intendo dire che il romanzo sia mediocre, ma che non ha molte pretese, se non forse quelle di far trascorrere alcune ore senza pensieri, soprattutto se si cerca di arrivare di persona alla soluzione, fra i patemi d’animo di un brigadiere innamorato, l’invidia di un appuntato che si sente vessato dai superiori, la timidezza di un carabiniere semplice che ha sempre paura di sbagliare e lei, il personaggio più riuscito, la signorina Tecla Manzi, la cui descrizione fatta dall’autore merita di essere riportata: “Secca da far paura e non più alta di un metro e cinquanta, stava compostamente seduta sulla sedia, la schiena bella diritta e la borsetta afferrata con due mani. Aveva un leggero tremito del capo e il vezzo di contrarre a intervalli regolari le ali del naso, dopodiché emetteva uno sbuffo, rumoroso e singolare”.

Spero che altri romanzi di Vitali che avrò l’opportunità di leggere possano appassionarmi maggiormente, fermo restando che questo, come ho sopra precisato, consente comunque di essere classificato come un innocuo e tutto sommato gradevole passatempo.

Dopo aver frequentato «il severissimo liceo Manzoni» di Lecco, Andrea Vitali si laurea in medicina all'Università Statale di Milano ed esercita la professione di medico di base nel suo paese natale. 
Scrittore molto prolifico, ha esordito nel 1990 con il romanzo breve Il procuratore, ispiratogli dai racconti di suo padre; nel 1996 ha vinto il Premio letterario Piero Chiara con L'ombra di Marinetti, ma il grande successo lo ha ottenuto nel 2003 con Una finestra vistalago (Premio Grinzane 2004). 
Nel 2006 ha vinto il Premio Bancarella con il romanzo La figlia del Podestà; nel 2009 il Premio Boccaccio e il Premio Hemingway. 
Tra i numerosi romanzi, ricordiamo: nel 2011 La leggenda del morto contento e Zia Antonia sapeva di menta. Nel 2012 Galeotto fu il collier e Regalo di nozze. L'anno successivo escono Le tre minestre, lungo racconto autobiografico edito da Mondadori-Electa e Di Ilide ce n'è una sola. Nel 2014 Quattro sberle benedettePremiata ditta Sorelle Ficcadenti e Biglietto, signorina!; nel 2015 La ruga del cretino, scritto con Massimo Picozzi, Le belle Cece, La verità della suora storta, Quattro schiaffi benedetti, Un amore di zitella (tutti editi da Garzanti). Nel 2016 Nel mio paese è successo un fatto strano (Salani), Le mele di Kafka (Garzanti) e Viva più che mai (Garzanti).
Da ricordare che con il romanzo Almeno il cappello (edito nel 2009 da Garzanti) Andrea vitali ha vinto il Premio Casanova, il Premio Isola di Arturo Elsa Morante, il Campiello sezione giuria dei letterati ed è stato finalista al Premio Strega.
I suoi libri, pubblicati in Italia da Garzanti, sono stati tradotti in molti paesi, tra cui la Turchia, la Serbia e il Giappone. 
Renzo Montagnoli
 

 

18 Febbraio

Il vecchio della montagna

di Grazia Deledda

Ilisso Editore

www.ilisso.it

Narrativa romanzo

 

Sacrificio rituale

Il vecchio della montagna apparve nell’anno 1900 edito da Roux e Viarengo e quindi prima di altre opere che potremmo definire maggiori come Elias Portolu, Cenere, Marianna Sirca e soprattutto Canne al vento. All’epoca Grazia Deledda aveva 29 anni, ma si era già fatta apprezzare per alcune novelle ispirate alla vita solitaria dei pastori e in effetti anche questo romanzo è di ambientazione e di atmosfera pastorale, in una drammatica vicenda di amore e di gelosia, nonché di morte, che si svolge fra Nuoro e le montagne intorno. Pur se è indubbio che l’aspetto folcloristico costituisca un elemento di attrazione dell’opera, delineando un mondo che era sconosciuto senz’altro a chi risiedeva sul continente, tuttavia a partire da questo scritto l’analisi dell’autore va più in profondità, scoprendo i collegamenti esistenti in un particolare contesto sociale con le pulsioni proprie di ogni essere umano. Se i personaggi sono pochi, questo va tutto a vantaggio di una loro più dettagliata descrizione, in uno sviluppo in cui l’eterno contrasto fra Eros e Thanatos raggiunge aspetti simbolici di notevole effetto, come nel caso del vecchio cieco che, per essere utile al figlio e quindi per testimoniare in suo favore per discolparlo dell’accusa di abigeato, si mette in moto da solo per scendere dalle montagne e raggiungere Nuoro. In un ambiente già di per sé ostile a chi vede bene la cecità costituisce un ostacolo insormontabile, tanto che, vagando fra le rocce, precipita in un burrone. Questa morte, normalmente considerata un incidente, assume tuttavia una valenza del tutto particolare, cioè quella di un rito purificatore, come se il vecchio avesse offerto la sua vita affinché le tensioni venissero meno e le passioni, così estreme, finissero con il placarsi. Quindi, in una storia d’amore travolgente, culminata in una tragedia, si passa dal fortunale alla bonaccia, con la tempesta placata da un sublime atto d’amore, quello di un padre per il proprio figlio, disposto a tutto, anche a morire pur di salvarlo.

Il romanzo appare come una linea di demarcazione fra le sperimentazioni precedenti e le strutturazioni successive sempre improntate a tematiche ben precise, quali la fatalità o il destino che regolano ogni evento della vita, la potenza atavica della passione che conduce inevitabilmente alla colpa, il sacrificio estremo, eroico, disinteressato che rimette le cose a posto. Ecco perché Il vecchio della montagna se può essere considerato un romanzo minore di Grazia Deledda è tuttavia importante, costituendo una pietra miliare nella produzione della narratrice sarda.

Il tal senso e anche per meglio comprendere le opere successive la lettura di questo libro è a mio avviso senz’altro consigliata, con l’avvertenza che è inutile attendersi un capolavoro, ma che già è possibile valutare l’opera sulla base di quei criteri che portano a considerare la narrativa di Grazia Deledda di un livello di eccellenza che non a caso ha costituito la prerogativa per il conferimento del premio Nobel per la letteratura, avvenuto nel 1926, e che fino a ora rappresenta l’unico caso dello specifico riconoscimento per una scrittrice italiana. 

Grazia Deledda (Nuoro 1871-Roma 1936), segnata dalla determinante influenza della sua famiglia «un po’ paesana e un po’ borghese», e dalla comunità agro-pastorale del natio borgo barbaricino, frequentò le scuole fino alla quarta elementare per poi dedicarsi ad una appassionata e proficua esperienza di “lettrice autodidatta”. Appena diciassettenne, iniziò a collaborare con le più importanti riviste e periodici dell’epoca. L’11 gennaio del 1900 si sposò con Felice Madesani e, qualche mese dopo, si trasferì a Roma. Nel 1927, il 10 di dicembre, l’Accademia Svedese le conferì il Premio Nobel per la letteratura per l’anno 1926. È considerata una delle più grandi scrittrici del ’900, la cui sterminata produzione letteraria è formata da innumerevoli racconti, romanzi, prove teatrali e da oltre quattrocento testi novellistici.
Renzo Montagnoli
 

 

14 Febbraio

 

Assassinio all’Étoile du Nord

e altri racconti

di Georges Simenon

Traduzione di Marina Di Leo

Edizioni Adelphi

www.adelphi.it

Narrativa racconti

Collana gli Adelphi – Le inchieste di Maigret

 

L’ironia di Maigret

Nel 1933 Georges Simenon, autore ormai noto per sua fortunata serie di polizieschi con protagonista il commissario Maigret, consapevole delle sue qualità di narratore, decide di cimentarsi con altri generi, insomma di diventare uno scrittore più maturo e più autorevole. Per far questo deve sbarazzarsi di quell’ingombrante investigatore non scrivendo più di lui e, dato che il momento delle scelte decisive è arrivato, abbandona addirittura quell’editore che fino ad allora aveva pubblicato i suoi lavori e si affida a un mostro sacro, quale era e quale è ancora, Gallimard. L’abbandono però di un personaggio che gli ha tenuto compagnia e che gli ha dato anche fama deve essere stato tuttavia doloroso, tanto è che decide che è sempre possibile farne ancora oggetto di pubblicazione, però limitatamente a racconti da far apparire sulla stampa periodica. Ed è appunto di quel periodo il fiorire di tante prose brevi che, riunite a gruppi di 4 o 5, a volte anche più, vengono riproposte da Adelphi. Peraltro, questo  taglio non definitivo con Maigret farà sì che in seguito il corpulento commissario ritorni oggetto di produzioni più consistenti, ovvero  di romanzi.

Assassinio all’Etoile du Nord, unitamente ad altre prose brevi, risale appunto a quel periodo di transizione; peraltro tutti e quattro i racconti sono accomunati dal fatto che il commissario è diventato l’ex commissario, essendo andato in pensione. A onor del vero, e mi scuso per l’imprecisione, il primo (Assassinio all’Etoile du Nord) vede ancora Maigret al Quai des Orfèvres, a a 48 ore dal suo definitivo congedo, allorché, nel suo ufficio, ha l’imprudenza di rispondere a una telefonata, avviando e concludendo quella che sarebbe stata la sua ultima indagine ufficiale.

In Tempesta sulla Manica l’ex commissario, in villeggiatura con la moglie in un alberghetto in riva al mare, aiuterà un collega a risolvere un non facile caso di omicidio;  con La signorina Berhte e il suo amante avrà modo di sfoderare ancora una volta la sua fine indagine psicologica e di favorire l’unione fra un uomo e una donna che si amano; infine in Il notaio di Chateauneuf si vedrà costretto, suo malgrado, nelle intricate vicende della famiglia di un notaio.

I quattro racconti sono anche accomunati da una sottile vena di ironia con l’ex commissario che sembra fare la parodia del commissario Maigret, gigioneggiando, ma mettendo in ombra, oltre che altri poliziotti, anche ogni personaggio, fatta eccezione per la moglie, tuttavia sempre disponibile a farsi da parte per accontentare il marito.

La lettura risulta veramente gradevole, anche perché non è raro sorridere,  con questo ingombrante protagonista che non ha nessuna intenzione di fare la vita del pensionato, pronto a cogliere le occasioni che gli si presentano per rientrare, sia pure ufficiosamente, nei panni del grande investigatore.         

Georges Simenon, nato a Liegi nel 1903, morto a Losanna nel 1989, ha lasciato centonovantatre romanzi pubblicati sotto il suo nome e un numero imprecisato di romanzi e racconti pubblicati sotto pseudonimi, oltre a volumi di «dettature» e memorie. Il commissario Maigret è protagonista di 75 romanzi e 28 racconti, tutti pubblicati fra il 1931 e il 1972. Celebre in tutto il mondo, innanzitutto per le storie di Maigret, Simenon è anche, paradossalmente, un caso di «scrittore per scrittori». Da Henry Miller a Jean Pauhlan, da Faulkner a Cocteau, molti e disparati sono infatti gli autori che hanno riconosciuto in lui un maestro. Tra questi, André Gide: «Considero Simenon un grande romanziere, forse il più grande e il più autentico che la letteratura francese abbia oggi»; Walter Benjamin: «… leggo ogni nuovo romanzo di Simenon»; Louis-Ferdinand Céline: «Ci sono scrittori che ammiro moltissimo: il Simenon dei Pitard, per esempio, bisognerebbe parlarne tutti i giorni».
Renzo Montagnoli

 

10 Febbraio

Prima dell’alba

di Paolo Malaguti

Neri Pozza Editore

Narrativa romanzo storico

 

Due eroi piccoli piccoli

In occasione del centenario della ritirata di Caporetto si avvertiva la necessità che qualcuno si prendesse la briga di scrivere un romanzo su questo tragico evento ed era da troppo tempo che durava l’attesa, quasi esistesse un timore reverenziale di ideare una trama che facesse ben comprendere, oltre a quello che fu la realtà storica così ben tracciata in Caporetto di Alessandro Barbero, come accadde e anche perché avvenne. Non nascondo che le difficoltà di realizzare un’opera simile sono notevoli, un po’ per la naturale ritrosia nell’ammettere una nostra sconfitta, un po’ per il rischio di scrivere, anziché un romanzo corale, la massificazione di un evento disperso in tanti rivoli, tali da non consentire al lettore di farsi almeno un’idea.  Bravo è stato Malaguti, anche grazie a un’impostazione che vede in alternanza capitoli ambientati in quei tragici giorni di fine 1917 e altri spostati nel tempo di non pochi anni, addirittura nel 1931, in cui si dipanano le indagini sulla misteriosa morte (incidente o omicidio) di un generale della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, rinvenuto cadavere lungo i binari della linea ferroviaria Firenze – Bologna. L’autentico colpo di genio è però di aver trovato, per ognuno di questi capitoli, un personaggio, un protagonista, il Vecio che è un militare ormai rotto alla guerra e l’ispettore di polizia Ottaviano Malossi, a cui è stato affidato il caso, una patata bollente che può sancire il suo avanzamento di carriera, come può anche travolgerlo. Si tratta di personaggi indovinati, assai ben descritti, con una analisi psicologica fine e approfondita, due individui che si riveleranno, pagina dopo pagina, dei piccoli eroi, gente che compie atti di grande significato in totale silenzio, senza enfasi e che soprattutto non avrà medaglie. Nei capitoli relativi alla ritirata, ognuno dei quali è dedicato a una vittima della repressione poliziesca  che ha rappresentato una delle caratteristiche della Grande Guerra, la figura del Vecio, nel suo silenzio, esprime tutta la sofferenza di chi è rassegnato a morire ogni giorno; ci sono pagine che riescono a trasmettere al lettore, palpabilmente, lo sfacelo di quelle giornate di fine ottobre e inizi novembre, le nefandezze di cui l’uomo può essere capace quando tutto si disgrega, la carne da cannone che si ribella per ridiventare subito di nuovo bestia destinata al macello. Nelle parti invece spostate nel tempo si riesce a percepire tangibilmente l’atmosfera oppressiva di una dittatura, capace di distruggere i suoi strumenti, uno dei quali è appunto l’ispettore, per fini oscuri e comunque non nell’interesse del popolo. Sembra quasi un destino, e infatti lo è, che questi due personaggi vengano a incontrarsi, a trasmettersi i reciproci dolori, lo sdegno per aver compreso che la loro vita è quella di pedine manovrate da altri. Sono pagine stupende, che mi hanno commosso profondamente, e che concludono nel migliore dei modi un romanzo che non ha nulla da invidiare a due capolavori della letteratura sulla prima guerra mondiale: Niente di nuovo sul fronte occidentale e Un anno sull’altipiano.

Non credo sia necessario che aggiunga altro, se non la raccomandazione a leggerlo, per comprendere che in guerra ci sono anche eroi della pace.   

Paolo Malaguti è nato a Monselice (Padova) nel 1978. Attualmente vive ad Asolo e lavora come docente di Lettere a Bassano del Grappa. Con Neri Pozza ha pubblicato La reliquia di Costantinopoli (2015), finalista al Premio Strega 2016. Tra le sue opere Nuovo sillabario veneto (BEAT, 2016) e Prima dell'alba (Neri Pozza, 2017).
Renzo Montagnoli

 

7 Febbraio

Le campagne hanno bocche

di Andrea Biondi

Note critiche dei giurati Antonio Vittorio Guarino, Cesare Davide Cavoni, Germana Duca e Teresa Armenti

Copertina di Giacomo Ramberti

Fara Editore

www.faraeditore.it

Poesia 

Un anelito di speranza

Da sempre convinto assertore della necessità che l’uomo, nella sua sfrenata corsa al progresso, si fermi un attimo per pensare a quanto abbia perso della sua umanità privilegiando la civiltà delle macchine, non potevo restare insensibile a una silloge in cui si vagheggiano i ricordi di un tempo andato, allorché le relazioni con il mondo circostante, soprattutto con la terra, erano alla base di un’esistenza certamente più avara di benessere economico, ma più prodiga di accrescimento spirituale. Ma se è evidente il richiamo bucolico o comunque a una poesia agreste di illustri predecessori quali Pavese e Bertolucci, la visione delle campagne di Biondi non è fine a se stessa, ma è improntata a una più generale stratificazione di una società in cui l’influsso del pensiero religioso cristiano è una determinante per niente secondaria. Al riguardo ci sono simboli che evidenziano quanto ho appena detto e mi riferisco alla poesia L’agnello errante ( / sta l’agnello / col vello sbiancato nel sangue / e canta: consolate l’agnello, consolate il mio popolo” ), agnello che ritorna anche in altre liriche e che, come ben sappiamo, simboleggia il Cristo. Ma la terra non è necessariamente proprietà di una religione o di un’altra, perché proprio essa, nella sua natura primigenia, è stata fonte ispiratrice di diverse fedi, ed è la stessa terra delle Bucoliche di Virgilio e della Sora nostra madre terra di San Francesco. Con questa visione in cui predomina l’attenta analisi, non semplicemente idillica, delle manifestazioni di tutto quanto vive sulla terra e della terra stessa, emergono una serie di immagini che ben possono far comprendere quel Le campagne hanno bocche, titolo della silloge. In realtà, benché l’autore ci venga a proporre il ricordo, magari dilatato nel fantastico, di un mondo che è stato nostro fino a poco tempo fa, lascia trapelare un desiderio inconscio di recupero che prelude a un’attesa che sembra far spazio a una certezza. Sebbene  le visioni prospettate siano intensamente oniriche, con una estensione fantastica di un ricordo sbiadito e ancora velato, non è possibile non notare che questi fantasmi che si agitano sono sì i nostri rimorsi per un mondo perduto, ma anche la base indispensabile per un recupero delle nostre radici e con esso di quel mondo. Quindi la poesia di Biondi non è, come potrebbe invece apparire di primo acchito, la dolorosa testimonianza di uno spasimo lacerante per qualcosa che mai più ritornerà, per un valore così elevato da rendere gramo o addirittura insopportabile il futuro, è invece una presa di coscienza grazie alla quale può nascere una speranza, ma che anche consente di ripescare nel ricordo quanto può essere utile per andare avanti.

La silloge non è certamente di facile comprensione, ma ritengo che ciò che vale possa meritare una più che attenta disamina e quindi non mi resta che augurare una buona e approfondita lettura.

Andrea Biondi (Rimini 1986) si è laureato in Lettere presso l’Università di Urbino nel 2009; nel medesimo anno e presso lo stesso ateneo ha conseguito il diploma in Scienze Religiose. Dal 2011 è docente di religione cattolica nella scuola pubblica italiana. Nel 2014 si trasferisce a Treia (MC) con moglie e figli. Insegna nella diocesi di Macerata. Ha scoperto la poesia leggendo la raccolta poetica Il ramarro di Paolo Volponi. Questa è la sua opera prima.
Renzo Montagnoli

 

4 Febbraio

Le nostre anime di notte

di Kent Haruf

Traduzione di Fabio Cremonesi

Nneditore

www.nneditore.it

Narrativa romanzo 

Voglia di tenerezza

«Mi chiedevo se ti andrebbe qualche volta di venire a dormire da me»

Una donna che propone a un uomo una cosa del genere fa supporre che in caso di accettazione ci si debba imbattere in pagine di erotismo sfrenato. Non è così, però, perché Addie, la donna che fa questa strana proposta, e Louis, il destinatario, sono due vedovi, avanti con gli anni, anzi decisamente anziani, il che non esclude però un risvolto sessuale, ma comunque lo rende poco probabile. In effetti, la solitudine di chi ha raggiunto una certa età impone che si debba trovare una via d’uscita, che si debba porre accanto alla propria persona un’altra, con cui colloquiare, scambiare opinioni, avere un piccolo, ma significativo contatto fisico. Non sarà amore nel senso più ampio del termine, ma di certo è affetto, è convivere i giorni di un’età che non consente di fare programmi a lunga scadenza. Il tema deve essere stato particolarmente sentito da Haruf perché ha scritto l’opera in pochi giorni, prima di morire, dipartita della cui imminenza doveva avere conoscenza, atteso che è riscontrabile nella scrittura una certa fretta che, se nulla toglie al piacere della lettura, però appare inusuale, considerata anche l’età dei protagonisti, più propensi naturalmente a tempi lenti. La stessa sensibilità riscontrata nei tre romanzi del ciclo del Canto della pianura è presente anche in questo testo, un’opera che, per quanto ambientata come le altre nell’immaginaria città di Holt, non può essere assimilata alle stesse, perché nel racconto della breve relazione fra Addie e Louis si avverte l’esigenza di imperniare tutto su di loro, nel senso che non ci sono tante storie parallele, ma un’unica storia, quei giorni, soprattutto quelle notti, trascorse insieme, a dispetto dei pregiudizi degli altri e che verranno interrotte solo dall’esigenza egoista e sciocca di un figlio adulto, ma che non diventerà mai maturo. Può darsi che il libro possa essere più compreso da chi ha una certa età, sta di fatto però che mi è parso che in questo ultimo canto l’autore abbia profuso tutta la sua energia, spremendo fino all’ultima goccia l’estro creativo. Lo stile è quello consueto, sobrio, per certi aspetti distaccato, ma questa volta nei personaggi di Addie e di Louis si avverte un po’ di partecipazione, una più marcata traccia dell’artista che ha vissuto con loro gli ultimi giorni della sua esistenza.

Haruf non vide stampata la sua fatica, perché il libro uscì postumo, e ciò accentua quella sensazione di umana pietà che si prova leggendo quelle pagine, in cui due esseri umani vogliono illuminare l’ultimo tratto di strada, mano nella mano, una voglia di tenerezza che possa dare ancor un senso a quel che resta da vivere.

Indimenticabile. 

Kent Haruf (1943-2014) è stato uno dei più apprezzati scrittori americani, ha ricevuto diversi riconoscimenti, tra cui il Whiting Foundation Award e una menzione speciale dalla PEN/Hemingway Foundation. Con il romanzo Il canto della pianura è stato finalista al National Book Award, al Los Angeles Times Book Prize, e al New Yorker Book Award. Con Crepuscolo, secondo romanzo della Trilogia della Pianura, ha vinto il Colorado Book Award. Benedizione è stato finalista al Folio Prize.
Renzo Montagnoli

 

29 Gennaio

Il pensionante

di Georges Simenon

Traduzione di Laura Frausin Guarino

Edizioni Adelphi

www.adelphi.it

Narrativa romanzo

Collana Biblioteca Adelphi

 

L’apatia dell’omicida 

Elie Nagear, un trentacinquenne di origine turca, arriva a Bruxelles con la speranza di far fortuna, ma gli affari non vanno bene. E’ accompagnato da Sylvie, che fa l’entraineuse, ma fra i due non c’è amore, solo tolleranza. Bisognoso di denaro, nel corso di un viaggio notturno in treno da Bruxelles a Parigi uccide barbaramente un olandese, derubandolo di una ingente somma in franchi francesi. Per mettersi al sicuro, accetta il consiglio di Sylvie e si nasconde in una pensioncina familiare di Charleroi, gestita dalla madre della donna. 

Questo, in breve, è l’antefatto, necessario per costituire il presupposto indispensabile per narrare una storia in cui il protagonista non è solo Elie, ma anche la variegata e variopinta umanità che popola la pensioncina di Charleroi, un rifugio a tutti gli effetti, dove il giovane turco, per sua natura apatico, si crogiola nel calore della stufa, mentre fuori si gela e il paesaggio è monotonamente rappresentato dall’alternarsi del bianco del ghiaccio con il nero della polvere di carbone. In questa tana, perché in effetti di tana si tratta, Elie, la belva, che ha ucciso con freddezza e che non avverte sensi di colpa, si accorgerà ben presto di non essere così al sicuro come crede e spera; intorno a lui il cerchio si stringe e non basterà l’affetto quasi materno che gli mostra la madre di Sylvie per salvarlo dalla giusta punizione. Del resto l’apatia che lo caratterizza, quel lasciarsi trasportare dal vento della vita gli impediranno perfino di trovare soluzioni alternative, di cercare di sfuggire alla cattura. Ma anche gli altri personaggi, i pensionanti così ben descritti da Simenon, sembrano presenze che solo si sfiorano, sanno che il ragazzo si è macchiato di un orrendo delitto, ma continuano nella solita monotona vita quotidiana come se nulla fosse. Questo fa pensare che lo scrittore belga con questo suo romanzo intendesse stilare un preciso atto di accusa verso una società anonima, dominata dall’indifferenza, e forse è anche così, soprattutto se guardiamo ai nostri tempi dove questo disinteresse per ciò e per chi ci circonda  è forse il peggiore dei nostri difetti. Come ho prima accennato l’unica che si dimostra interessata alla sofferenze esistenziale di Elie è la signora Baron, la madre di Sylvie, che è attratta dai racconti del lontano mondo turco fatti dal ragazzo, unica possibilità di evasione dal grigiore opprimente di una vita sempre rinchiusa fra quattro mura, e che testimonierà, a sorpresa, questa specie d’affetto in un finale in cui emergono le grandi capacità descrittive di Simenon.

La trama è quella del noir, ma lo svolgimento rappresenta un tentativo di Simenon, in larga parte riuscito, di cimentarsi non esclusivamente come scrittore di genere e Il pensionante è un po’ il romanzo d’esordio di un autore che non si accontentava più di scrivere di Maigret, che desiderava fare un salto di qualità, lasciando un segno indelebile in campo letterario. Non era ancora il tempo per grandi opere come I fantasmi del Cappellaio o Il Presidente, tanto per citarne solo alcune, ma già si nota che  l’autore è sulla buona strada, che quella capacità incredibile di sondare l’animo umano qui c’è, anche se è solo in nuce. Per concludere sono dell’idea che la lettura di questo romanzo sia senz’altro consigliabile e che anzi rappresenti il presupposto indispensabile per poter passare in seguito alle grandi opere di Georges Simenon. 

Georges Simenon, nato a Liegi nel 1903, morto a Losanna nel 1989, ha lasciato centonovantatre romanzi pubblicati sotto il suo nome e un numero imprecisato di romanzi e racconti pubblicati sotto pseudonimi, oltre a volumi di «dettature» e memorie. Il commissario Maigret è protagonista di 75 romanzi e 28 racconti, tutti pubblicati fra il 1931 e il 1972. Celebre in tutto il mondo, innanzitutto per le storie di Maigret, Simenon è anche, paradossalmente, un caso di «scrittore per scrittori». Da Henry Miller a Jean Pauhlan, da Faulkner a Cocteau, molti e disparati sono infatti gli autori che hanno riconosciuto in lui un maestro. Tra questi, André Gide: «Considero Simenon un grande romanziere, forse il più grande e il più autentico che la letteratura francese abbia oggi»; Walter Benjamin: «… leggo ogni nuovo romanzo di Simenon»; Louis-Ferdinand Céline: «Ci sono scrittori che ammiro moltissimo: il Simenon dei Pitard, per esempio, bisognerebbe parlarne tutti i giorni».
Renzo Montagnoli

 

20 Gennaio

Grande secolo d’oro e di dolore

di Vincenzo Pardini

Edizioni Il Saggiatore

Narrativa romanzo storico 

L’ultima dei Longobardi

All’inizio di questo romanzo l’autore riporta la genealogia di Leonide dei Longobardi, principale personaggio dell’opera stessa; si tratta di un numero rilevante di nomi, alcuni dei quali saranno propri di semplici comparse, ma altri invece corrisponderanno a individui capaci di brillare di una luce propria. Se devo essere sincero tutti questi personaggi mi hanno subito portato a un senso di disorientamento, memore dei racconti che mi faceva ogni tanto mia nonna, membro di una famiglia patriarcale assai numerosa, in cui abbondavano fratelli, sorelle, genitori, zii, nipoti, cugini, un vero e proprio esercito di cui lei ben conosceva i nomi che mi sciorinava e che più delle volte mi lasciavano perplesso per la confusione che mi veniva ingenerata. Poi, pensandoci bene, mi sono tolto ogni remora e mi sono detto di leggere senza preoccuparmi tanto di vedere come si ricollegavano i nomi, ma seguendo puramente e semplicemente le vicende, con particolare attenzione a quelle di Leonide Lusetti, la cui scomparsa avvenuta nel 1983 ha posto fine alla casata dei Longobardi. E’ una scelta di lettura, peraltro, che è quasi imposta perché il personaggio è del tutto particolare e intorno a lui ruotano i fatti, piccoli e grandi, di un secolo, il XX. Non è una novità narrare di un’epoca sulla base delle vicende di una famiglia, ma parlarne  e riuscire a rendere avvincenti fatti in sé normali e non eclatanti non è facile, anzi denota una grande capacità, tanto più che a fronte di queste piccole storie sullo sfondo si muove la grande storia, la Grande guerra, l’avvento del fascismo, la seconda guerra mondiale, il dopoguerra di fame e di speranza, il benessere economico. Però la chiave di lettura dell’opera non è solo questa, perché prevede anche la descrizione della fine di una civiltà che non tornerà più, quella contadina, con quel legame profondo con la terra che fra timori e superstizioni in individui più sensibili, come appunto Leonide, porta a scoprire  facoltà paranormali, ben oltre le asserite capacità di un medium, in quel confine indefinito fra vita e morte in cui tutti si agitano.  La creatività di Pardini è indubbia, perché riesce a raccontare tanti fatti, imprigionandoli in una patina  di tempo andato, una serie di fotogrammi che sollecitano il lettore ad andare avanti, per sapere, per conoscere.  Quella che a un esame superficiale potrebbe sembrare una telenovela, in realtà sono le testimonianze di un’epoca non lontana in termini di tempo, ma ormai antichissima come modo di vita.

Credo che Pardini, con quel suo stile semplice e pur efficace, che definirei da naif, con questo romanzo sia riuscito a dare il meglio di se stesso, realizzando un’opera di sicuro interesse e che merita ampiamente di essere letta, anche perché, nonostante tanti personaggi, è riuscito a differenziarli perfettamente, sempre però facendoli apparire come propri della loro epoca, con i loro difetti, i loro pregi, i loro sogni e le loro speranze.

Per quanto concerne il tema della natura, da sempre ricorrente nelle opere dell’autore, in questa ha assunto un rilievo del tutto particolare, presentata a volte come diabolica, altre come mite e sereno corollario, il tutto solo ed esclusivamente secondo quello che in un determinato momento è lo stato d’animo dei personaggi; in ogni caso la descrizione dei panorami assume toni poetici e le atmosfere sono rese così bene da ottenere la partecipazione del lettore.

Ritornare indietro nel tempo, di cui solo in parte si è avuta esperienza diretta, è un po’ ricercare le proprie radici che non sono dissimili, nella zona toscana in cui è ambientato il romanzo, dalla zona lombarda in cui sono nato e abito. Al riguardo ho notato  che, nel ricordo dei racconti di mia nonna, ci sono tanti punti di contatto, per quanto concerne per esempio la superstizione, ma anche per quanto riguarda certe figure che, in possesso di una vena poetica e di uno spirito acuto di osservazione, tanti anni fa vergavano delle pasquinate riferite per lo più a questioni di corna, operette satiriche anonime, ma di cui era possibile intuire il nome dell’autore; ebbene,  anche nel romanzo ce ne sono diverse, stilate da Pardini,  e devo dire che mi hanno divertito, cogliendo anche il loro scopo o di rafforzare una proposizione, oppure di stemperare la tragicità di certi eventi.

Non aggiungo altro, perché non ce n’è bisogno; l’opera vale molto di per se stessa, come potrà constatare chi avrà il piacere di leggerla.

Vincenzo Pardini è nato a Fabbriche di Vallico (Lucca) nel 1950. Collabora al Quotidiano Nazionale e alle riviste Nuovi Argomenti e Paragone. Tra le sue opere ricordiamo Jodo Cartamigli (Mondadori, 1989), Giovale(Bompiani, 1993), Rasoio di guerra (Giunti, 1995), Tra uomini e lupi (peQuod, 2005, premio Viareggio-Rèpaci) e Il postale (Fandango, 2012).
Renzo Montagnoli

 

16 Gennaio

Dopo l’inverno e altre poesie

di Vincenzo D’Alessio

Copertina di Eliana Petrizzi

Fara Editore

www.faraeditore.it

Poesia 

Sotto la cenere il fuoco arde ancora

E’ da un po’ di tempo ormai che ho l’opportunità di leggere la produzione poetica di Vincenzo D’Alessio, produzione che pur presentando tematiche affini denota una continua ricerca di uno stile che sia definitivo e non in continua, e pur positiva, evoluzione. Direi che ciò tuttavia poco importa poiché il poeta campano, pur senza disprezzare la forma, che anzi a tratti è ricercata, è uno che va alla sostanza, in quei continui strali verso una situazione di immobilismo storico di cui la malavita organizzata ha larghe e preponderanti colpe. La tendenza, quindi, è quella di realizzare una poesia civile, sempre dolente, ma mai arrendevole, ben inserita in un contesto territoriale che senza far identificare l’autore come un poeta stanziale, in ogni caso lo fa apparire come notevolmente influenzato da fatti e da atmosfere locali. E così che ritroviamo questo filo comune anche in questa raccolta (Dopo l’inverno e altre poesie), uscita come sempre per i tipi di Fara, tanto più ove si consideri la circostanza che l’opera si è classificata al secondo posto nel concorso Faraexcelsior 2017.  Non si smentisce anche questa volta Vincenzo D’Aessio che sembra quasi portare sulla schiena l’eterno malanno dell’immobilismo meridionale, con quella rabbia a stento soffocata per i continui tradimenti subiti, per quella sofferenza talmente radicata che sembra escludere ogni speranza di miglioramento. Eppure, D’Alessio ha un sogno che è concretizzabile ed è quello di un mondo in cui ognuno possa essere artefice di se stesso, senza impedimenti, senza imposizioni da parte di chi si arroga il diritto di decidere della vita d’altri. Ed è per questo motivo che in questa raccolta, forse più sofferta di altre, si passa da versi come questi (Ho visto incedere / nelle loro casacche / tronfi i servi dello Stato / hanno lo sguardo / sprezzante di chi è arrivato / non arrossiscono / hanno pane per i figli / vivono giorni sereni / nell’avvenire / hanno potere senza giustizia / odiano i vinti / tolgono loro il respiro.), in cui lo sdegno, più che la rabbia, è a stento trattenuto, a questi altri (L’estate ritorna / nel fresco mattino, / la nebbia che ovatta. / La gente, i passi, / riprende un lavoro. / Vita in campagna. / In città una noia. / In campagna la vita. / Ogni estate più bella. / Tetti, spicchi d’arancio, / aprono fiati di torri. / Lavoro per sopravvivere. / Ogni anno un’ estate. / Vivere una nuova estate.) in cui è presente una situazione di normalità da cui traspare un senso di bucolica serenità. Appare quindi evidente che la speranza, morta ormai in molti, ancora cova sotto la cenere dei sogni infranti di Vincenzo D’Alessio, che continua imperterrito e mai domo nella sua missione volta a impedire che ci si dimentichi di questa terra che potrebbe essere altra cosa con una presenza forte e decisa dello stato, quello stato così lontano da udirne a malapena la voce fatta di vuota e insana retorica.

Da leggere, ovviamente.

Vincenzo D’Alessio è nato a Solofra nel 1950. Laureato in Lettere all’Università di Salerno è stato l’ideatore del Premio Città di Solofra, nonché il fondatore del Gruppo Culturale “Francesco Guarini” e dell’omonima casa editrice. Acuto e attento critico letterario, ha pubblicato anche saggi di archeologia e storia (v. bibliografia Polo SBN di Napoli). Diverse le raccolte poetiche che anno ricevuto premi e riconoscimenti, la più recente è La valigia del meridionale ed altri viaggi (Fara 2012, seconda edizione 2016 ). Nel 2014 vince con Il passo verde la pubblicazione in Opere scelte (Fara 2014). La tristezza del tempo è inserita in Emozioni in marcia(Fara 2015). Con Alfabeto per sordi è tra i vincitori del concorso Rapida.mente ed è stato inserito nell’omonima antologia (Fara 2015). Queste ultime raccolte sono riproposte in appendice a Immagine convessa. (Fara 2017), opera finalista al concorso Versi con-giurati
Renzo Montagnoli

 

13 Gennaio

L’oro di Napoli

di Giuseppe Marotta

BUR Biblioteca Universale Rizzoli

Narrativa racconti 

Un sogno per vivere

Il libro consta di 36 brevi racconti, degli autentici quadri in cui l’autore ritrae splendidamente paesaggi e atmosfere di una città che ogni giorno muore per poi rinascere. Credo che nessun altro libro sia in grado di descrivere così precisamente l’autentico spirito dei napoletani, legati indissolubilmente alla loro città tanto che viene da pensare che Napoli non ci sarebbe se non ci fossero i napoletani. E’ un vincolo talmente stretto che induce la gente a vivere in ristrettezza o quasi di niente per il puro piacere di vivere lì; certo ci sono racconti che sembrano ben poco realistici, tanto dall’indurre a pensare che l’autore se li sia inventati, e invece sono veri, anche laddove possono sembrare falsi, perché in questa eterna città tutto ciò che altrove pare parto di fantasia si realizza sotto gli occhi e se proprio non è esistito l’abitante di una casa bombardata che si è adattato a vivere nella buca provocata dall’esplosione della bomba, si può star certi che nell’arte di arrangiarsi i napoletani sono insuperabili. La Napoli dei miracoli, veri o falsi, in cui tanto la gente vuole credere per fuggire l’amara e dolorosa verità di ogni giorno,  la Napoli delle viuzze, delle piazzette dove il sole con estremo sforzo riesce ad arrivare, questa è Napoli: miseria e splendore, intensa sofferenza interiore che esplode in quelle che riteniamo originalità, ma che di fatto rappresentano uno sfogo, come quella dimestichezza con la morte che, se serve a esorcizzarla, consente comunque di rendersi conto che non è altro che una tappa della vita. In tal senso richiamo l’attenzione su Ninna nanna a una signora, in cui Don Alfonso Corrado Mazzullo conversa con la morte e le dice queste profonde parole:   “Volevo morire quando nacqui, per  avvolgimento del cordone ombelicale intorno al collo, mi fu  concesso? Volevo morire di emottisi a tredici anni, ne ebbi  maniera? Volevo morire cento altre volte. Ora spetta a me  decidere: ora sono io che non voglio.” E’ un capovolgimento dei ruoli, è l’illusione di poter diventare artefici del proprio destino e che nella sofferta condizione di predestinati fa sì che nei napoletani ci sia un filo di speranza, sempre e ovunque presente, con quel  desiderio di potersi rialzare dopo ogni caduta, non disgiunto da una pazienza infinita che consente di sopportare tutto pur di non perdere questa speranza. Sono trentasei racconti, sono pagine che, oltre che appassionare, entusiasmano, anche quando si tratta di ricordi personali dell’infanzia povera dell’autore, come nel caso di I parenti ricchi, parenti serpenti verrebbe da dire nel leggerlo, ma la prosa che più di tutte spiega così bene lo spirito dei napoletani è proprio L’oro di Napoli, con Don Ignazio Ziviello che riesce a rialzarsi dopo ogni caduta della vita, che ogni volta sembra sia quella buona, ultima, definitiva, un’autentica morte morale civile, da cui tuttavia ne esce, risorge, come un’ araba fenice.

Da leggere, è più che consigliato.

Giuseppe Marotta (1902-1963) nasce a Napoli, che rimane l’eldorado del suo immaginario, e si trasferisce a Milano a 25 anni. È un’epoca di boom giornalistico e culturale, che frutta a Marotta una prestigiosa collaborazione al «Corriere della Sera», mentre scrive anche sulle testate satiriche più celebri del tempo, il «Bertoldo» e il «Guerin Meschino». Fluviale nell’invenzione narrativa, è autore di romanzi memorabili (tra cui A Milano non fa freddo e Gli alunni del sole) e di raccolte di racconti che sfiorano la leggenda, come appunto L’oro di Napoli, traslata su grande schermo dal genio cinematografico di Vittorio De Sica.
Renzo Montagnoli

 

10 Gennaio

La Locanda degli Annegati

e altri racconti

di Georges Simenon

Traduzione di Marco Bevilacqua

Edizioni Adelphi

www.adelphi.it

Narrativa racconti

Collana gli Adelphi – Le inchieste di Maigret 

Non solo annegati

A Georges Simenon non si può di certo rimproverare una scarsa creatività, visto che solo per le prose che hanno come protagonista il commissario Maigret ha scritto 75 romanzi e 28 racconti. Questi ultimi non sono delle semplici e succinte narrazioni, bensì sono piuttosto lunghi e completi, poiché sono relativi a indagini complete, tanto che, molto spesso, mi sono chiesto il motivo per cui l’autore belga non abbia ampliato maggiormente il discorso raggiungendo la dimensione   del romanzo vero e proprio. Al riguardo credo che in taluni casi sia subentrata una certa dose di stanchezza, non improbabile in uno scrittore così fecondo. E’ pertanto da affrontare con i soliti criteri di lettura utilizzati per Simenon anche questa raccolta di racconti (in tutto quattro) di cui uno, la Locanda degli Annegati dà il titolo all’intera opera.

Il primo, L’innamorato della signora Maigret è quel che si può definire una spy-story, con il commissario che, quando riesce a trovare il bandolo della matassa, deve passare il caso ai servizi segreti francesi. Si fa apprezzare perché all’indagine partecipa anche la signora Maigret ed è divertente vedere come la collaborazione fra moglie e marito presenti dei risvolti se non proprio comici, almeno ironici.

Nel secondo, La vecchia signora di Bayeux, c’è l’omicidio di un’anziana signora, assai danarosa, con una sostituzione di cadavere, al fine di realizzare un delitto perfetto. E’ ovvio, però, che nulla sfugge al celebre commissario che arriverà pressoché subito alla soluzione del caso.

Il terzo, La Locanda degli Annegati, è un po’ atipico, poiché sotto la parvenza di un incidente automobilistico si cela un efferato delitto. Tutto sembra difficile, per non dire impossibile, e anche Maigret pare annaspare nel vuoto, ma poi lo soccorre la sua straordinaria intuizione e anche questo caso viene risolto.

Il quarto, Stan l’Assassino, conclude malamente una raccolta fin qui di buon livello; in effetti, sembra che in questo racconto Simenon si sia lasciato prendere la mano, esagerando con la fantasia, e presentando personaggi che sono al di fuori di ogni contesto logico.

In conclusione un libro buono per una lettura d’evasione, per essere di compagnia in un viaggio in treno o in aereo, insomma un gradevole passatempo e nulla di più.

Georges Simenon, nato a Liegi nel 1903, morto a Losanna nel 1989, ha lasciato centonovantatre romanzi pubblicati sotto il suo nome e un numero imprecisato di romanzi e racconti pubblicati sotto pseudonimi, oltre a volumi di «dettature» e memorie. Il commissario Maigret è protagonista di 75 romanzi e 28 racconti, tutti pubblicati fra il 1931 e il 1972. Celebre in tutto il mondo, innanzitutto per le storie di Maigret, Simenon è anche, paradossalmente, un caso di «scrittore per scrittori». Da Henry Miller a Jean Pauhlan, da Faulkner a Cocteau, molti e disparati sono infatti gli autori che hanno riconosciuto in lui un maestro. Tra questi, André Gide: «Considero Simenon un grande romanziere, forse il più grande e il più autentico che la letteratura francese abbia oggi»; Walter Benjamin: «… leggo ogni nuovo romanzo di Simenon»; Louis-Ferdinand Céline: «Ci sono scrittori che ammiro moltissimo: il Simenon dei Pitard, per esempio, bisognerebbe parlarne tutti i giorni».
Renzo Montagnoli

 

7 Gennaio

Terre d’acqua

di Donatella Nardin

Nota critica di Annalisa Ciampalini

Postfazione di Nazario Pardini

Fara Editore

www.faraeditore.it

Poesia

Un mondo d’acqua

Confesso che più passa il tempo, e più mi accorgo che il mondo è sommerso da un’ondata di materialismo che soffoca emoziona e sentimenti, sono tentato non solo di non scrivere più poesie, ma addirittura di non leggerne ancora. A che pro aprire il proprio animo? Che senso può avere trasmettere sensazioni e sentimenti? E invece è proprio quando l’umanità viene compressa, appiattita che si avverte maggiormente il bisogno della poesia e allora caccio i cattivi pensieri e cerco di trovare un po’ di serenità con i versi di qualche poeta. Non sempre ci riesco, perché, pur riconoscendo l’impegno che un autore profonde nella sua opera, i risultati non sempre sono corrispondenti; però, quando il lavoro è eccellente si avvera il miracolo, si entra in sintonia con il poeta e ci si immerge in un oceano di trepidanti emozioni, come nel caso di questa raccolta di Donatella Nardin. Terre d’acqua è una silloge stanziale, cioè è in dipendenza del luogo in cui l’autore vive e in questo non c’è nulla di strano, perché l’ispirazione è sempre data dal mondo che ci circonda, l’abilità invece è nel saper cogliere e, soprattutto trasmettere, le emozioni che quel mondo suscita in chi è capace di osservarlo e di coglierne l’essenza. Cavallino Treporti, dove è nata e vive Donatella Nardin, è una lingua di terra bagnata dall’Adriatico e dalla laguna nord veneziana, un dito che emerge dalle acque. Se questa superficie liquida può talora dare l’impressione di in una indeterminazione degli spazi, una distesa che si perde in un orizzonte che appare sempre più lontano, pur tuttavia consente a chi lì vive di cercare spazi più ristretti o anche più ampi, ma comunque non piatti, scavando all’interno di se stessi, in una condizione che si può ritrovare anche negli isolani. In buona sostanza, non distolti da un variegato panorama, c’è più ampio spazio per la fantasia che poi si concretizza nella creatività, con visioni magari oniriche ( Ho passato la notte ad ascoltare / il silenzio. Brillava ai vetri la luna. / Era una giovane luna nata / da una terra d’acqua e di sogni, tangibile emblema d’invisibili / pluralità./...) o comunque in un’osservazione incantata di ciò che gli occhi possono cogliere, soprattutto nelle caratteristiche di certe stagioni  (Beltà dei geli e delle invernali figure: / a passi brinati, leggeri si muove / il pomeriggio invernale / verso tramonti sempre più corti / punteggiati da un’insanabile / inanità. ). La sua è una poesia evocativa, non disgiunta tuttavia da elementi correnti di concretezza che finiscono per dare meglio risalto a una ben precisa tendenza naturalistica, capace di mostrare paesaggio esterno ed interno, il panorama di un istmo, quale è Cavallino Treporti, e ciò che l’autore porta in sé, frutto di un lavorio spesso inconsapevole e che lui stesso scopre nel momento del travaso di una sensazione, di un’emozione in versi. E’ una poesia d’acqua, sempre presente, avvolgente direi, e l’acqua è sempre stata simbolo di purezza, purezza che qui diventa di sentimenti, in un afflato con il liquido elemento che riesce a rendere partecipe il lettore.

Ne consiglio quindi la lettura.

Donatella Nardin è nata e vive a Cavallino Treporti (Venezia). Appassionata da sempre di lettura e scrittura, soprattutto poetica, solo negli ultimi anni ha deciso di dare visibilità ai suoi scritti partecipando a vari concorsi letterari con risultati gratificanti. Le sono stati infatti attribuiti numerosi premi e riconoscimenti – un centinaio – nelle varie graduatorie concorsuali. Nel 2014 ha pubblicato la sua prima silloge poetica In attesa di cielo (Ed. Il Fiorino), nel 2015, con la stessa Casa Editrice, la raccolta di liriche Le ragioni dell’oro. Molte sue poesie e alcuni racconti sono stati inseriti in Antologie di Concorsi Letterari, in raccolte collettanee di Case Editrici come LietoColle e Fara (cfr. la recente antologia dei vincitori del concorso Pubblica con noi 2107 intitolata Gymnopedie, Architetture e altre opere belle in cui si trovano alcune poesie della presente raccolta), in riviste del settore e in siti on line dedicati.
Renzo Montagnoli

 

5 Gennaio

Crepuscolo

di Kent Haruf

Traduzione di Fabio Cremonesi

NNEditore

www.nneditore.it

Narrativa romanzo 

La storia siamo noi

Secondo volume della Trilogia della pianura, Crepuscolo, come per gli altri, è ambientato nel Colorado, a Holt, immaginaria cittadina rurale che, pur tuttavia, appare notevolmente realistica, riassumendo caratteristiche di numerosi analoghi insediamenti americani. Ancora una volta Kent Haruf dimostra le sue straordinarie qualità di narratore, capace di rendere avvincenti fatti che sono per lo più del tutto ordinari. Lo stile asciutto, ma non povero fa sì che il romanzo avvinca il lettore dalla prima all’ultima pagina, grazie a un’ambientazione che si potrebbe definire quasi perfetta e a personaggi, che pur nella loro normalità sono portatori di storie e situazioni di straordinaria umanità. Non c’è un preciso filo conduttore, ma ci sono storie, all’apparenza del tutto autonome, che poi finiscono per l’incrociarsi, una serie di racconti accomunati solo dal luogo, appunto Holt, e dalla volontà dell’autore di farci conoscere personaggi che finiscono con il diventare protagonisti, come è il caso del ragazzino DJ Kephart che vive con l’anziano nonno, unico parente rimastogli, essendo orfano e che ha un disperato bisogno di comunicare con qualcuno della sua età, trovandolo in una coetanea vicina di casa, o i coniugi Luther e Betty Wallace, e i loro due giovani figli, che vivono ai margini della società a carico della pubblica assistenza, o ancora la vicenda dei fratelli anziani e scapoli Harold e Raymond McPheron che un giorno hanno accolto e assistito Victoria Roubideaux, una giovane con la sua bambina piccola.  Sono figure che normalmente potrebbero apparire anonime, ma occorre considerare che ognuno di noi ha una sua storia, unica e irripetibile, che molto probabilmente non sarà mai conosciuta. Ecco, Haruf vuol far conoscere le storie per niente straordinarie di gente come noi e che tuttavia rivela qualità insospettabili, sovente non note agli stessi interessati.  Per lo più aleggia una certa malinconia, ma l’abilità dell’autore sta nello stemperarla, di accennarla e, soprattutto, di lasciare spazi, magari dopo tanto dolore, alla speranza. E’ questo il caso dei McPheron, che, poco dopo che la ragazza che avevano ospitato li ha lasciati, unitamente alla sua bambina, per seguire i corsi universitari, vanno incontro a quello che avevano sempre temuto, cioè l’assoluta solitudine, assoluta perché Harold muore ucciso da un toro e, benché i vicini e anche Victoria Roubideaux  stiano per quanto possibile accanto  al superstite Raymond la vita non è più la stessa e l’uomo ha bisogno di ben altro, non di affetto, ma di amore, ed è bello vedere quanto si presti una famiglia amica affinché ciò avvenga. I primi approcci di un uomo anziano, che mai aveva avuto donne, sono di una bellezza incredibile e inevitabilmente emozionano e commuovono.

A Holt, che a prima vista può sembrare un agglomerato urbano in cui regna la monotonia, invece si nasce, si vive, si ama e si muore, certamente come in tutto il mondo, ma ciò che conta è che la storia di ognuno, con  suoi pregi e con i suoi difetti, è lo specchio di un’umanità di cui siamo parte. Altri luoghi, certo, altre latitudini, ma non c’è nulla di più bello di accorgersi che la storia non è tanto quella scritta sui libri di scuola, non è quella dei personaggi famosi, perché la storia siamo noi.

Un capolavoro.

Kent Haruf (1943-2014) è stato uno dei più apprezzati scrittori americani, ha ricevuto diversi riconoscimenti, tra cui il Whiting Foundation Award e una menzione speciale dalla PEN/Hemingway Foundation. Con il romanzo Il canto della pianura è stato finalista al National Book Award, al Los Angeles Times Book Prize, e al New Yorker Book Award. Con Crepuscolo, secondo romanzo della Trilogia della Pianura, ha vinto il Colorado Book Award. Benedizione è stato finalista al Folio Prize.
Renzo Montagnoli

 

2 Gennaio

Federico il Grande

di Alessandro Barbero

Sellerio Editore Palermo

www.sellerio.it

Storia biografia

 

Una biografia stupenda

Si è abituati al fatto che normalmente i testi di storia sono ponderosi e comunque di non gradevolissima lettura. Questo è in generale, ma se il saggio è scritto da Alessandro Barbero tutto cambia e così, pur nel rigoroso rispetto delle tracce storiche, si innesta uno stile, non privo di una salutare ironia, con il quale personaggi, vicende politiche, fatti militari diventano piacevolissimi da leggere. E’ anche questo il caso di Federico il Grande, una stupenda biografia del Re di Prussia del XVIII secolo che gettò le basi di quella che poi, un centinaio di anni dopo, sarebbe diventata la Germania. E’ indubbio che la politica espansiva di Federico II di Hohenzollern meritasse un’attenta analisi storica, se non altro perché, con il senno di poi, in tutto l’Otto-Novecento si sono confrontate due posizioni diverse, e cioè Federico che ha lasciato un’eredità avvelenata alla Germania con il suo completo assolutismo, il suo militarismo, il suo vero e proprio culto, fanatico, del dovere che sovrasta la questione morale; oppure, all’opposto, Federico è la leggenda intorno alla quale si è costruita l’identità tedesca. Ma al di là di queste posizioni antitetiche che, pur tuttavia, presentano anche dei punti comuni, non mi sembra che a Federico II si abbia da imputare la nascita del nazismo e del terzo Reich; in fondo di monarchi assoluti ce ne sono stati tanti, magari di minor spessore, ma non per questo hanno gettato i semi di quella che sarebbe stata la tragedia del XX secolo. Eventualmente, se di colpe si può parlare, queste dovrebbero essere attribuite al Kaiser Guglielmo, che non contento di aver riunificato i tedeschi in una grande Germania voleva anche espandere in grande i confini della stessa. Ci può essere solo una certa assonanza fra la politica di Federico e quella di Hitler in quella volontà di trovare un nuovo spazio vitale a Est, ma le coincidenze finiscono qui. Quello che è interessante in Federico il Grande è Federico stesso che ci viene mostrato da Barbero nel corso della sua esistenza dall’adolescenza alla morte, un adolescenza che lo vide contrapposto decisamente al padre, salvo poi subentrato lui sul trono adeguarsi a quanto pretendeva il genitore. Era un uomo di controsensi: filosofo, amante dell’illuminismo, ma sovrano assoluto, di un assolutezza completa e rigida, amava leggere e scrivere, era un buon suonatore di flauto e un buon compositore di musica classica, l’altro sesso gli interessava ben poco, ma ciò non significa che fosse un omosessuale, era un gran lavoratore, entrava in ogni questione amministrativa e infine era qualcosa che all’epoca e anche in seguito delineò la sua leggenda, cioè era un grande condottiero. Ma non vinceva sempre, perdeva anche, spesso per ingenuità, e quando vinceva invece rivelava un intuito incredibile. Insomma un personaggio così non può che interessare gli storici, ma anche incuriosire i profani, i lettori alla ricerca di una conoscenza del passato. Barbero, con questo saggio, è in grado di accontentare chiunque voglia sapere chi fosse Federico II, chiamato il Grande, un protagonista assoluto della sua epoca, ma il cui influsso, come ho accennato in precedenza, si è esteso anche ai secoli successivi.

Non mi resta che augurare buona lettura, certo che “buona” lo sarà senz’altro.   

Alessandro Barbero, nato a Torino nel 1959, è professore ordinario presso l’Università del Piemonte Orientale a Vercelli. Studioso di storia medievale e di storia militare, ha pubblicato fra l’altro libri su Carlo Magno, sulle invasioni barbariche, sulla battaglia di Waterloo, fino al recente Lepanto. La battaglia dei tre imperi (2010). È autore di diversi romanzi storici, tra cui: Bella vita e guerre altrui di Mr. Pyle gentiluomo (Premio Strega 1996) e Gli occhi di Venezia(2011).  Con Sellerio ha pubblicato Federico il Grande (2007, 2017) e Il divano di Istanbul (2011).
Renzo Montagnoli

 


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