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2025
Luglio - Dicembre
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se per caso riceveste e-mail firmate Miu, in cui si chiede di
iscriversi subito ad un altro sito, perché il sito poetare.it sta
traslocando, eliminatele: è falso. Jacqueline Miu non scrive su altri siti e
non ha intenzione di farlo. Poetare.it non si trasferisce e sarà sempre
presente ad accogliere poeti e poetesse, come già succede dal 17 Aprile del
2002.
Grazie a voi tutti per la partecipazione e auguri di una buona estate.
Lorenzo De Ninis, titolare di poetare.it.
16-17-18 Ottobre
Forse avevi ragione tu
Un diario di vita, di amicizia e di fede. Un resoconto poetico che accompagna il lettore con cari ricordi della poetessa. Quel saluto inaspettato, rende effettiva la speranza nella gioia che chiude il poema come se si fosse accesa una lampadina nella vita della ispirata poetessa.
Rosa Notarfrancesco
Un ponte romano
Romanticismo nato da una postura architettonica gloriosa del passato. Un visita poetica alla storia e il tutto a braccetto di un naturalismo poetico liberatorio. Da ricordare l’anamnesi autunnale che costruisce anche la metafora con la gloria passata del sito di riferimento. La bellezza passata degli alberi che si ricompone nello studio degli antichi della poetessa.
Antonietta Ursitti
"Paesaggio di Primavera"
Questo presagio primaverile, surriscaldato dalle visioni e dalle chimere che porta Cristiano Berni a rintanarsi in un gentile crepuscolo, apre la porta emotiva al sollievo e dona serenità. E’ un poeta più in ascolto che descrittivo, un suono che lui amplifica per renderlo melodia e diventa … meditativo (con una ottima chiusa).
Cristiano Berni
Testo dedicato a Casiraghi, Marito della Principessa Carolina del Principato di Monaco
“Prendimi un Arcobaleno per poter sognare ad Occhi Aperti “
Prosa scritta come inno a questo Principe dalla vita avventurosa che ha trovato morte in una gara acquatica a Cap Ferrat la mia città natale nel 1990. La passione di Casiraghi per le belle donne e per l’offshore, ha lasciato nella poetessa un indelebile e romantico segno.
Rosa Venuto di Acquedolci
Ispirazione
Caro Nino Silenzi il tuo espatrio planetario volutamente non voluto è durato un battito di palpebre. Benché fuggiasco tu non puoi che appartenere, a Lei, alla Poesia. Conscio di forze e scelta fatta, ovvero liberarti dal peso e l’angoscia che a volte questa Sibilla genera nel suo adepto, ti ritrovi nel perpetuum cosmico della dipendenza da questo narcotico visionario nato chissà per quale legge fisica non a portata dell’umano. .. Poesia. La vicinanza al presente e la scelta presa, parla di un tutore più che di un discepolo, un tutore la cui mente sa di non essere vicina a scoprire il Grande Mistero, motivo per cui l’inconscio ti guida dalla parte per te, sbagliata, ma per l’Olimpo giusta. La parte in cui sei obbligato a generare eternità di cui non sai ancora bene come farne parte. Il poeta per mettere fine al tormento dell’idealizzazione porta a casa un po’ della propria genesi e non sembra per nulla strano che lì tra l’elica del DNA ci sia il cromosoma ben piantato e tramandabile della più illustre letteratura.
Da Le strade della vita
Nino Silenzi
Borgo fantasma
Memorie sull’architettura di un borgo come geroglifici che invitano ancora i turisti a visitarlo. Alessandro Borghesi ci illustra con convinta emozione, questo piccolo gioiello che ben conserva ancora qualche antica naturale luminescenza.
Alessandro Borghesi
Porto il peso…
Porto il peso della mia solitudine … che magnifico verso. Un intenso poetico che entra come una spina poetica nel sentimentalismo del lettore e lo acchiappa. Il poema diventa vivo, traslato – rimbomba come una fuga da se stessi che non può finire bene. L’intesa con se stesso qui è forte. La malinconia è trascinante quasi si trastulla con la fragilità umana del suo compositore.
Franco Fronzoli
"Noto, cattedrale di luce"
Noto patrimonio dell’Unesco. La città è un piccolo capolavoro dell’architettura siciliana che s’erge su incredibile equilibrio scenografico. Una scultura michelangiolesca di questa città che ha la fortuna di diventare il personaggio della penna di questa brava poetessa. Prende vita e si erge sui sussurri che accarezzano le forme di pietra. Ci immergiamo per innamorarci proprio come vuole la poetessa nell’ultimo verso.
Da "Sicilia: Pennellate di Poesia”
Letizia Miserendino
Vorrei
Un bozzolo poetico e un alambicco filosofale che guarda all’aura più che al corpo. Una delicata descrizione del bravo Ciro Seccia che punta alla libertà della bellezza in un dove la materia non è necessaria.
Ciro Seccia
Chi porterà i fiori
Una divulgazione, una condanna e una sintesi sentimentale che rende lucente l’armatura di Alessio Romanini. Dall’eredità di altri grandi poeti e in sintonia con essi, questa ode tragica che s’arma di passione per quelli che dopo la morte sono cancellati con un palmo di silenzio e nemmeno un fiore. L’apertura è teatrale.
Alessio Romanini
```«Solo il vento»
L’amore è un essere celestiale e la poesia di Ben Tartamo diventa un unicorno nell’oasi illuminata da una luce bonaria. Il fotogramma diventa un quadro che gli impressiona gli occhi e l’anima (per sempre).
9ottobre25```
Ben Tartamo
Il libro sognato
L’amore per il libro e la magia che rende importante anche l’apertura della prima pagina. Aspettare di leggerlo è un’azione che regala trepidazione prima e appagamento poi. Una delicata e profonda intimità emotiva con quelle pagine che sveleranno l’indomani i suoi segreti e una poetessa che ricama per se stessa un velo calmo fuori dal caos sotto cui potrà assaporare e lasciarsi sedurre da quell’incantesimo. Il libro diventa un bene assoluto, un amuleto capace di animare ogni aspetto della vita, altrimenti in ombra.
7 Maggio 2024
Sandra Greggio
Il mio saluto va al nostro Magister Lorenzo che ringrazio per la sua ospitalità e l’onore di essere parte di un progetto così coraggioso , la mia stima va al ricordo di Piero Colonna Romano che ha commentato i poeti per decenni diventando parte del Tempio Azzurro e della sua famigerata famiglia letteraria – “Piero rema! da riva ti si vede.” Un caro ringraziamento a tutti i partecipanti, poeti, visitatori e superlativi commentatori. Siate laboriosi come le api.
Miu
– “Solo il vento” di Ben Tartamo
13-14-15 Ottobre
Grazie Ben!
• Felice Serino –
“Vedevamo il berretto spuntare"
Questa poesia è un piccolo miracolo di memoria affettiva. Serino, con
il suo stile sobrio e narrativo, compie un gesto di alto lirismo senza
mai alzare la voce. Il tono è quello di chi parla a bassa voce in una
casa dove il tempo è sospeso, eppure vivo.
Il "berretto che spunta" è una delle immagini più forti della poesia
familiare italiana, degna della memoria pascoliana e di certi quadri
neorealistici: è il segno del ritorno del padre, del limite e
dell’autorità, ma anche della riconciliazione.
C’è in questo testo una tenerezza che nasce dalla disciplina,
un’armonia fra colpa e perdono domestico. Persino il battipanni della
madre, figura comica e minacciosa insieme, si trasforma in simbolo
d’amore educativo, nel gesto materno che contiene e redime.
La struttura alterna narrazione e visione (“dalla finestra –al
crepuscolo–”), e quel trattino sospeso è quasi una ferita del tempo:
il momento in cui il bambino di allora incontra l’uomo di oggi, in un
crepuscolo eterno dove tutto ritorna.
La poesia chiude con "una dolcezza postuma", come un saluto che
attraversa decenni per ringraziare la vita per averci dato un padre,
una madre, una casa, una lampada davanti al Sacro Cuore. È un canto
domestico che sfiora il sacro.
• Rosa Notarfrancesco – “La
coscienza di Dio”
Qui la voce cambia registro: non più il ricordo, ma la teologia
intima. La poetessa parla a un “tu” che può essere Dio, ma anche
l’amato perduto, o la propria anima.
Il titolo è già una dichiarazione di poetica: non “Dio”, ma la
"coscienza" di Dio.
È il tentativo di umanizzare il divino e di divinizzare la perdita.
“Non ti nascondere. Me ne andai / perché tu potessi mostrare / ciò che
il mondo non vuole vedere.”
Questi versi hanno un respiro profetico e quasi gnostico: sembra
parlare una figura che rinuncia alla presenza per permettere la
rivelazione. È un Dio che si ritira perché l’uomo possa manifestarlo,
come nella mistica ebraica di Luria o nel “Deus absconditus” di
Pascal.
La lingua è limpida ma gravida di mistero. Il tema del perdono e del
tempo che conquista l’amore introduce una tensione fra eternità e
caducità, dove la fragilità umana diventa luogo della manifestazione
divina.
C’è qui una spiritualità contemporanea, ferita, ma ancora aperta al
ritorno del sacro nel cuore stesso dell’umano.
• Antonietta Ursitti – “Un
vestito bianco”
Con Ursitti, la scena si sposta dal cielo interiore al dramma cosmico.
È una poesia che si legge come un’inquadratura cinematografica in
rallenty: vento, mare, tempesta, una donna inginocchiata. Tutto è moto
e implorazione.
Il vestito bianco diventa protagonista, quasi più del corpo che lo
indossa. È l’anima, la purezza, l’innocenza travolta dal caos, ma che
non smette di “implorare salvezza in un nero universo”.
Questa è un’immagine potentemente archetipica: la luce che resiste
all’abisso.
L’autrice orchestra elementi naturali (nuvole, onde, vento) in una
sinestesia drammatica che ricorda certi quadri di Turner o di Böcklin,
dove la natura è specchio dell’anima.
La musicalità del testo è serrata, quasi cinematica, e culmina in
quell’ultimo verso ellittico, “in un nero universo…” — con i puntini
sospensivi che aprono, non chiudono.
Lì si compie la poesia: non nella descrizione, ma nel respiro
trattenuto del mistero.
• Alessandra Piacentino – “Le
Ossa dei pensieri”
Questa poesia è un corpo vivo.
Non si legge — si ascolta, come una partitura per pianoforte che
attraversa il corpo del lettore, dalle ossa alla pelle.
La poetessa crea un linguaggio che pulsa di materia sonora e
viscerale, dove il ritmo spezzato, quasi sincopato, traduce la
frattura interiore di chi cerca la bellezza dentro la rovina.
Il titolo è potente: Le ossa dei pensieri — la struttura portante, ciò
che rimane dopo che la carne delle parole si è consumata.
Ogni verso si frantuma e si ricompone come uno spartito jazz
improvvisato: “Brividi e palle / al piede” — una dissonanza che subito
si trasforma in epifania sensoriale.
La poetessa alterna il corporeo e il metafisico, la musica e la
preghiera, in una sorta di liturgia laica del suono.
“Vorrei solo / Che sulle mie ossa riposassero echi eterni” —
Qui il verso si fa invocazione. Le ossa diventano archivio del divino,
cattedrale di risonanze.
Il pianoforte è l’altare e la stanza delle “luci tremule ed ombre
fitte” è il tempio dell’anima che cerca un nuovo battesimo sonoro.
Il finale è una deflagrazione cosmica: “Buio percuotimi il petto ed
usciranno stelle e note sofferte”.
È poesia in trance, quasi oracolare, ma tenuta in equilibrio da una
malinconia umanissima.
Se ne esce scossi, come dopo aver ascoltato Keith Jarrett suonare da
solo in una chiesa deserta.
Una poesia postumana e mistica, dove l’arte diventa resurrezione del
corpo attraverso la musica.
Renzo Montagnoli – “Serenata a
Ninive”
Dopo la febbre di Piacentino, Montagnoli ci restituisce la calma del
mondo naturale.
È un poeta classico, nella migliore accezione: crede nella musica
della semplicità, nella liturgia della natura come luogo del sacro.
Il titolo, Serenata a Ninive, è straordinario: unisce la delicatezza
della serenata alla memoria di una città biblica e perduta. È come se
un usignolo cantasse sulle rovine della storia.
La poesia si apre con un ritmo ternario, come un valzer bucolico:
“Una nota, due note, dolce e lieve / s’alza il gorgheggio di un
usignolo…”
Tutto è misurato, nitido, levigato da un’armonia che sa di preghiera.
Montagnoli fa del paesaggio sonoro un atto di contemplazione: le
cicale, il vento, l’eco del mare.
Ma il cuore del testo è in quell’affermazione semplice e rivelatrice:
> “Io sto in estasi a sentire più / con il cuore che con le orecchie”.
È il verso di un mistico. Non un mistico religioso, ma un mistico del
creato, un uomo che riconosce nella musica del mondo il respiro di
Dio.
La “serenata alla bellezza del creato” non è un elogio estetico, ma un
atto di gratitudine cosmica.
Montagnoli ci ricorda che la poesia può ancora essere un luogo di
pace, di misura, di silenzio fertile.
• Joseph 65 – “Semplici stelle”
E qui arriviamo al dialogo finale: la poesia come confronto tra fede e
disincanto.
Il testo è scritto come una scena teatrale, o meglio, come un duetto
dell’anima: chi crede e chi non crede, chi spera e chi si è arreso.
La struttura dialogica, in due voci contrapposte, evoca una tensione
universale: la lotta tra il bisogno di senso e il gelo del dubbio.
La prima voce guarda le stelle come “punti luminosi” che forse
rivelano l’aldilà; la seconda risponde negando, disillusa, ferita.
Il verso “non credo più / in quel che credi / e non riesco a vedere /
più quel che vedi” è struggente nella sua semplicità.
È il grido muto di una fede che si è spenta per troppa nostalgia.
Joseph 65 tocca con linguaggio quotidiano un nodo profondissimo: la
crisi del credere.
Il testo potrebbe essere letto come un piccolo dramma spirituale
beckettiano, ma la sua potenza sta nel tono umano, quasi
confidenziale.
“Perché non le guardi…?!?” — quel punto esclamativo e interrogativo è
un gesto d’amore, non di disputa.
Le stelle diventano lo specchio dell’anima: una per chi spera, una per
chi non riesce più a farlo.
E nel loro tremolio resta la domanda che abita tutti noi: c’è davvero
qualcuno che ci guarda da lassù?
• Enrico Tartagni – “Dove devo
andare stamattina?”
Questa poesia è un viaggio onirico tra il surreale e il metafisico.
Tartagni scrive come chi è appena emerso da un sogno filosofico,
ancora imbevuto di immagini che oscillano tra il comico e il tragico,
il mistico e il quotidiano.
L’“albergo delle ore strampalate” è un’invenzione straordinaria: una
locanda del tempo, dove la realtà si piega e si ricompone in schegge
di memoria e follia.
L’amica che “dorme insieme ad omiche volatili amiche pressioni /
Divina” è una figura quasi angelica, ma immediatamente riportata a
terra dal “mescer d’atomi e intenzioni” — un verso che unisce fisica e
spiritualità in un ossimoro luminoso.
C’è qui la poetica dell’erranza, del cercatore di senso che non sa
dove andare ma che intuisce che la risposta è sempre in riva all’Arno:
il luogo simbolico dove arte, storia e coscienza si fondono (Firenze
come Arca dell’Occidente).
Il linguaggio è spezzato, musicale, pieno di inciampi voluti (“Menoesco
rapido men più che lesto”), che evocano la fatica del pensare e la
vertigine dell’esistere.
Tartagni è un erede dei surrealisti e di certi poeti espressionisti
italiani: la sua è una poesia alchemica, dove l’ironia serve da
maschera alla paura, e la parola diventa un laboratorio interiore.
Alla fine, quando scrive “Devo stare dove l’aria non ha peso”, compie
il gesto più poetico di tutti: la rinuncia alla gravità, il desiderio
di un’esistenza puramente spirituale, sospesa tra terra e idea.
• Armando Bettozzi – “La Fenice …
ideologgica”
Qui il tono cambia radicalmente: Bettozzi è poeta civile, ironico e
ferocemente realista.
Scrive in un romanesco ruvido e musicale, e la sua satira colpisce
tanto l’arroganza del potere quanto la mediocrità culturale del nostro
tempo.
L’uso del dialetto non è folklorico, ma etico: è la lingua della
verità nuda, dell’uomo comune che smaschera i teatri del potere.
“La Fenice” diventa emblema dell’arte imbrigliata da ideologia, di un
sistema culturale che pretende di essere libero ma si piega a mode,
censure e ipocrisie.
Quando Bettozzi scrive:
> “Demograzzia, a Ro’?!... O dittatura? / Ch’è ‘parolina’ de le … ‘boccadoro’”,
> ci mette davanti alla degenerazione del linguaggio politico e
culturale.
> Le parole, svuotate di senso, diventano “paroline” decorative, come
lustrini su un palcoscenico corrotto.
Il tono comico non cancella la tragedia di fondo: l’artista vero, “che
sa usàlla troppo bbène”, non è ammesso al potere perché “nun cià ‘r
colore che confà a ‘i ribbbèlli’”.
È un grido di libertà, ma espresso con una risata amara.
Il finale è una stoccata magistrale: “Ma…a La Fenice! A Venezia! ...
Hi…che orôre!”
In tre parole, Bettozzi smonta il mondo dell’élite culturale e ne
mostra la vacuità.
Questa è poesia satirica di rango, degna erede di Trilussa e Belli, ma
con una consapevolezza politica e metapoetica più moderna.
• Franco Fronzoli – “Bambino”
Fronzoli ci emoziona, stavolta, con un canto d’infanzia pura, che
suona come un’eco di preghiera.
La sua poesia non è meno profonda delle altre due, ma si esprime per
sottrazione: è limpida, pedagogica, dolcemente ciclica come una ninna
nanna cosmica.
Il tono è quello di chi vuole proteggere il “bambino interiore”, quel
nucleo di innocenza che l’adulto tende a dimenticare.
Ogni strofa è un invito alla meraviglia: “Cammina sulla strada della
tua fantasia”, “Assapora la dolcezza della luna”, “Non avere paura
della pioggia”.
Sembra quasi una preghiera laica, una piccola Bibbia dell’infanzia.
Il verso “Rimani bambino ferma il tempo” racchiude l’intera poetica di
Fronzoli: l’eterno è l’infanzia, e il paradiso non è altrove ma nel
cuore che sa ancora sognare.
C’è un’eco di Tagore, un tocco di Rodari, e una dolcezza che non scade
mai nel sentimentalismo perché è sostenuta da un ritmo semplice,
misurato, vero.
• “Cade la neve” – Salvatore
Armando Santoro
Questo sonetto, di limpida costruzione petrarchesca, appartiene a
quella linea della poesia italiana che unisce la semplicità
dell’immagine al rigore della forma. La neve, qui, non è soltanto
fenomeno meteorologico ma rivelazione di purezza e memoria, come in
Pascoli o nei momenti più intimi di Saba.
Il poeta riesce a fondere la musicalità del verso (osserva le rime
incrociate, l’armonia di forre / scorre e faccia / parolaccia) con una
narratività infantile, quasi cinematografica. Il bimbo che insegue i
fiocchi diviene emblema della grazia che sfida la disciplina, della
vita che si ribella al castigo.
La chiusa – «Urla la madre qualche parolaccia» – è un colpo di
realismo, un’irruzione verghiana che rompe la liricità per restituirci
la vita nella sua interezza. È il divino mescolato al profano, il
candore che convive con la rabbia domestica. In questa apparente
dissonanza, Santoro ritrova la verità della poesia contemporanea: la
bellezza non è più nella perfezione, ma nell’imperfezione umana,
nell’urlo che accompagna il miracolo della neve.
• “Caltanissetta, pittura di
terra e cielo” – Letizia Miserendino
Questa poesia appartiene a un genere che potremmo chiamare poetica
topografica o geospirituale: non descrive un luogo, lo evoca come un
essere vivente, un’anima.
La Miserendino fa di Caltanissetta una icona antropologica, una
pittura arsa dal sole e intrisa di sudore. È una “pittura di terra e
cielo”: dunque una teologia della materia, dove la creta e la luce
sono elementi di un’unica sostanza sacra.
C’è un respiro narrativo che ricorda Quasimodo e una delicatezza che
si avvicina a Lucio Piccolo: il tono è meditativo, quasi orante. Ogni
verso è una pennellata, e l’intera composizione assume il ritmo lento
e rituale di una preghiera contadina.
È una poesia che unisce il senso del sacro popolare al sentimento
dell’attesa. “Un quadro di ombre e di speranza” è una definizione che
si potrebbe estendere all’intera Sicilia, ma anche a ogni anima che
cerca la luce oltre la propria opacità.
• “Felicità” – Sandra Greggio
Qui ci troviamo davanti a una forma minimalista e potentemente
simbolica.
La Greggio rinuncia a ogni ornamento retorico per abbracciare una
poetica dell’essenziale, vicina al buddhismo zen e alla mistica del
quotidiano.
Il cuore, stretto tra le braccia, diventa persona autonoma, soggetto
dialogante: il poeta si fa medico dell’anima, ma anche suo discepolo.
La felicità, catturata “tra le mani” e “stretta a pugno”, è
un’immagine straordinaria: è l’amore umano che cerca di trattenere ciò
che per natura sfugge.
C’è in questo gesto un simbolismo cristologico: l’uomo che tenta di
conservare la grazia, pur sapendo che la grazia non si possiede.
La semplicità del linguaggio – “Che cosa c’è? / Gli ho chiesto. / Sono
felice / Mi ha detto.” – raggiunge qui un’apice di purezza quasi
infantile, come in certi testi di Alda Merini o Wislawa Szymborska.
È poesia mistica e concreta insieme, un atto d’amore verso la vita
che, nonostante tutto, palpita.
• Jacqueline Miu – “Tu che vedi
le stelle senza bruciarti”
Questa è una poesia postuma e cosmica, un’elegia contemporanea che
dialoga con l’eternità. È dedicata a Piero Colonna Romano, ma in
realtà si rivolge a tutti i poeti che sono andati oltre il confine del
tempo, continuando a risplendere come stelle che “stanno lì per non
morire”.
Jacqueline Miu costruisce un linguaggio visionario, sospeso tra
l’onirico e il metafisico, in cui la memoria e la speranza convivono.
Il lessico è colto e personale: “ho un grido blu che vuole raggiungere
ogni limite dell’intero cosmo” è un verso che riecheggia la
disperazione mistica di Rimbaud e la nostalgia celeste di Emily
Dickinson.
Il “GPS che ritrova l’anima ovunque essa sia” è un’immagine
folgorante, un cortocircuito tra tecnologia e spiritualità: il bisogno
umano di ritrovare ciò che non è più localizzabile con gli strumenti
della terra.
Ogni strofa è una lettera interstellare, un frammento che cerca ancora
un destinatario.
La chiusa — “una bottiglia di vino e due poesie” — suggella il mistero
della comunione poetica: non un addio, ma un rito d’incontro oltre la
morte.
Qui la poesia diventa liturgia dell’amicizia eterna, dove il vino e la
parola sono i sacramenti di una memoria che non svanisce.
> È una poesia per spiriti che non vogliono morire.
> Una lettera lanciata nello spazio del tempo, scritta con
l’inchiostro dell’anima.
• Ciro Seccia – “La prima volta
che t’incontrai”
Questo testo, apparentemente semplice, è in realtà una rivelazione
emotiva.
Ciro Seccia scrive con la purezza di chi ha vissuto l’amore come un
evento primordiale, una folgorazione.
I versi seguono una narrazione chiara, ma sotto quella chiarezza vibra
un’intensità quasi mistica: l’incontro amoroso è l’incontro con il
sacro.
> “Fû un solo interminabile istante in cui il battito cessò”
> è un verso di un’essenzialità incantata, un fermo-immagine del cuore
che diventa icona dell’eternità.
L’autore compone un piccolo poema d’amore universale, in cui il ballo
è il simbolo della fusione tra anima e corpo, tra umano e divino.
Lo stile non indulge alla retorica, ma procede per gesti, sguardi,
vibrazioni. È una poesia di luce e innocenza.
Il finale – “Compresi cosa vuol dire Amare” – può sembrare una
dichiarazione semplice, ma è la più difficile da pronunciare nella
letteratura contemporanea, perché è senza ironia, senza difese.
È la verità detta con disarmante fede: la poesia come confessione
pura.
> Qui l’amore non è un’emozione, ma un’epifania.
> L’attimo del primo sguardo diventa una resurrezione interiore.
• Antonia Scaligine – “Un punto e
basta”
In questa poesia si percepisce una voce teologica e filosofica.
La Scaligine affronta il tema della vita come sospensione tra il nulla
e l’eterno, in una struttura riflessiva che si avvicina al monologo
interiore e alla meditazione agostiniana.
Il ritmo è libero, ma sorretto da una tensione etica costante.
Ogni verso è una domanda: “Ciò che resta di te, vita, è un punto e
basta?”
Questa interrogazione attraversa l’intero testo come una litania laica
e sacra insieme.
La poesia alterna momenti di osservazione esistenziale (“ruoti, giri,
dal mattino alla sera”) a squarci di altissima spiritualità (“Prima
della dirittura finale del nostro tempo finito / c’è il Dio
infinito”).
È una preghiera razionale, dove la fede e il dubbio si abbracciano
senza annullarsi.
> “Approccio il dubbio ma incontro sempre la mia Fede”:
> ecco il cuore della poesia.
> È l’atto finale del pensiero che si inginocchia, non per sconfitta
ma per riconoscenza.
In lei, la parola “punto” diventa simbolo: è il limite umano e insieme
il punto di contatto con l’infinito, come nelle meditazioni di Pascal
o nei dialoghi di Simone Weil.
> È poesia che non teme la morte perché ha già intravisto il volto
dell’Eterno.
• Alessio Romanini – “Piero
Colonna Romano”
> Come una foglia in autunno, hai lasciato
> i tuoi giorni terrestri per fare
> l’ultimo viaggio…
La poesia si apre con una similitudine di una semplicità antica, quasi
evangelica: la foglia che cade.
Non è un’immagine originale, ma Romanini la rigenera attraverso la
sincerità del tono, come se quella foglia fosse davvero una sola,
quella del suo maestro, staccatasi dal ramo della vita.
Non c’è enfasi, non c’è retorica: solo la verità del sentire.
Il poeta qui non “descrive” la morte, la vive poeticamente, facendone
un atto naturale, un ritorno dolce all’origine.
> Tu sei cocchiere di parole, menestrello di versi,
> mentore della poesia.
In questi tre appellativi — cocchiere, menestrello, mentore — si
compone una piccola triade simbolica.
Il “cocchiere di parole” guida, come un auriga dell’anima, le sillabe
e i suoni;
il “menestrello di versi” canta, come i trovatori medievali, l’amore e
la verità;
il “mentore della poesia” insegna, trasmette il fuoco sacro.
Romanini disegna così una figura iniziatica del poeta, un uomo che non
solo crea, ma educa e trasforma chi lo ascolta.
È il ritratto del maestro spirituale della poesia:
non un accademico, ma un testimone di luce che cammina con passo lieve
tra le parole e gli uomini.
> Da te ho imparato a verseggiare con lene umiltà.
Questo è il cuore dell’omaggio.
La “lene umiltà” (aggettivo arcaico, dolcissimo) è ciò che distingue
la vera poesia: la leggerezza dell’animo che non cerca gloria, ma
verità.
Romanini riconosce nel suo amico non solo il talento, ma l’esempio
umano.
È come se dicesse: “Tu mi hai insegnato non solo a scrivere, ma a
vivere poeticamente”.
> Come foglia in autunno, sei ingiallito.
Il primo verso ritorna, chiudendo il cerchio: la ripetizione è
volontaria, circolare, quasi liturgica.
Ma questa volta la foglia non è solo simbolo di caducità: è segno di
maturazione e compimento.
L’ingiallire non è corruzione, ma trasfigurazione.
La vita che scolorisce diventa oro spirituale.
C’è qui un’eco di Ungaretti (“Si sta come d’autunno sugli alberi le
foglie”), ma la tonalità di Romanini è diversa: non tragica, bensì
riconoscente.
È un autunno sereno, accettato, persino benedetto.
"Piero Colonna Romano” è un epitaffio laico e affettuoso, scritto con
la misura dei veri poeti: quelli che sanno contenere l’emozione dentro
una forma semplice ma vibrante.
Romanini non innalza monumenti: accende una candela di parole, e basta
quella luce per rendere immortale un amico.
È poesia della gratitudine, della discendenza spirituale, della
fraternità letteraria.
E in fondo, è una poesia che parla anche di sé: del discepolo che,
riconoscendo il maestro, entra nella propria maturità artistica.
Vostro ed oltre...
Ben Tartamo
Caro Ben,
10-11-12 Ottobre
Carissima Antonia, caro Enrico,
vi ringrazio con sincera commozione. Le vostre parole sono come un
raggio gentile che attraversa il cuore — un dono di luce che non
chiede nulla, ma scalda tutto ciò che tocca.
La poesia, credo, non appartiene a chi la scrive: appartiene al
Soffio che la ispira, a quel respiro invisibile che passa di cuore
in cuore.
Come diceva Gibran, la bellezza non è nello sguardo, ma
nell’anima che contempla.
Così accade tra noi ed è proprio quell’anima comune che ci unisce ogni volta che un verso trova eco nell’altro. E, perdonate la mia esuberanza: in quanto a Bellezza, credo che noi, abbiamo una vera sete e fame, paragonabile forse, a una bulimia dell'anima!
Antonia, la tua sensibilità è un dono raro: riesci a cogliere la
musica segreta che vibra dietro ogni parola.
Enrico, la tua amicizia e il tuo sentire sincero mi ricordano che,
come scriveva Rilke, la vera arte nasce solo da chi è pronto per
tutto, da chi accoglie la vita in ogni sua forma senza paura.
Io non faccio altro che ascoltare.
Ascolto il silenzio che precede le parole, e in quel silenzio trovo
la sorgente di ogni poesia.
Perché, come ci insegnava Tagore, la fede è l’uccello che canta
quando l’alba è ancora buia.
Camminiamo insieme, amici miei, su questo sentiero fatto di
versi, silenzi e gratitudine.
Non per cercare la gloria, ma per condividere la gioia di
riconoscerci — per un attimo — parte dello stesso mistero luminoso
che chiamiamo Poesia.
Con affetto, luce e amicizia,
Ben
PS:
se volete scrivermi in pvt, questo il mio indirizzo e-mail:
commento per Piero
Purtroppo con mio grande rammarico ,
dispiacere e cordoglio , mi unisco al dolore della perdita del grande poeta
Piero
A causa di una lontananza dal sito per vari motivi non sapevo che il caro
amico Piero ,è salito al cielo , brutta notizia che mi è arrivata in
ritardo, purtroppo , mi dispiace tanto .
…resta il ricordo
con forte nostalgia,
per ciò che più non torna…
ma resta il ricordo di un grande poeta, e del tuo libro con bellissime
poesie che mi hai regalato , grazie , una preghiera per te Piero
Antonia Scaligine
Se le vie della poesia sono infinite , caro Ben
tu ci indichi la strada della poesia , non solo con le tue bellissime poesie
, dove si uniscono parole e musica ,ma sei la voce che conquista l’animo di
chi legge i tuoi commenti
Scusami se non commento di certo le tue poesie le leggo sempre , purtroppo
non ho quella grande capacità che hai tu , ma il mio commento per te sarà
sempre quel grazie , grazie per tutto . Tu riesci a scoprire in ognuno di
noi il particolare poetico , emotivo, espressivo, sensibile , a volte mi
chiedo "ma come fai ad essere tanto bravo?" Posso dirlo senza dubbi , riesci
a far parlare il poeta e la poesia .Grazie , Ben la nostra " trasparente
gioia" . .. Può il fiume alla sorgente tornare?
Può il suo scorrere poter cambiare?
Nulla al mondo lo potrà mai fermare,
ed il mare lo dovrà riabbracciare.. .
Grazie Ben sei il nostro sostegno .
Grazie anche a Lorenzo che ci lascia sperimentare la nostra poesia .Il
sentimento che non cede mai il passo all’ ostentazione ma solo alla
gentilezza e modestia ,appartiene senza alcun dubbio a Lorenzo , la linfa
della nostra poesia , e anche della sua bellissima poesia
grazie a tutti
Antonia Scaligine
Ciao Ben,
La poesia di Letizia Miserendino si colloca nel solco di una lirica contemplativa e celebrativa, in cui la dimensione geografico-storica diventa matrice di un'estetica della sacralità. Agrigento non è semplicemente evocata, ma trasfigurata poeticamente in un "tempio di luce", simbolo di eternità, memoria e armonia cosmica.
Il lessico impiegato è fortemente evocativo e pittorico: si osservano immagini sinestetiche ("il vento dipinge melodie sacre") e metafore potenti che trasformano elementi naturali in atti creativi quasi divini. Le colonne parlano in silenzi, il mare accarezza, il sole scolpisce. Ogni elemento della Valle dei Templi partecipa di una sacra coralità, dove natura, storia e divinità si fondono in una visione panica e senza tempo.
L’andamento metrico è libero ma armonioso, fluido come la materia che descrive. Non vi è alcun abuso della rima, ma piuttosto una scelta lessicale che rifugge il banale per elevarsi a un tono alto, quasi liturgico.
Una poesia colta, solenne, visiva e intensamente spirituale. Ricorda per certi tratti il classicismo rivisitato di poeti come Salvatore Quasimodo o Vincenzo Cardarelli, ma con una voce personale che vibra di ammirazione e rispetto verso un luogo simbolo della civiltà umana.
In "Fonemi", Felice Serino adotta la forma della poesia metalinguistica e autoriflessiva, una riflessione sul fare poetico che si pone come critica — forse ironica, forse amara — nei confronti di una certa lirica “facile”, fondata su rime logore e accostamenti arditi quanto pretenziosi.
Il testo è ellittico, aforistico, denso di riferimenti interni al mondo poetico. L’accusa di abuso della rima “fiore-amore” — vero cliché della poesia sentimentale — apre la scena a un discorso più profondo: quello sulla necessità di autenticità nella creazione poetica. L’uso del "tu montaliano" (allusione a “Non chiederci la parola” di Eugenio Montale?) suggerisce un tono parodico verso il manierismo poetico, forse anche un’autoironia.
Dal punto di vista formale, il testo è spezzato, volutamente scostante, privo di musicalità canonica: riflette, in modo coerente, l’intento critico e decostruttivo. Ogni verso è come un frammento polemico, un fonema appunto, che si oppone alla retorica e all’enfasi eccessiva.
Una poesia che si pone come manifesto negativo del fare poetico, una specie di anti-poesia lucida e tagliente, nel solco della poesia ermetica ma anche della critica postmoderna. Breve, intensa e intellettualmente stimolante.
La poesia di Cristiano Berni si inserisce in un filone esistenziale e riflessivo, toccando corde universali con toni che riecheggiano l’eco pascaliana del vuoto e la caducità delle grandezze mondane. Il celebre incipit latino "Sic transit gloria mundi" apre il componimento con una dichiarazione di impermanenza che informa tutta la lirica.
La struttura è semplice, quasi cantilenante, e accompagna il lettore in un percorso che alterna constatazione e interrogazione. Il dubbio è il vero protagonista del testo: "Chi mai lo potrà riempire?", "Dio o divinità?", "Legge o religione?". Questo incessante interrogarsi ricorda il pensiero di Leopardi, ma con una vena più spirituale che nichilista.
L’autore non offre soluzioni definitive: si riconosce “piccolo essere” e lascia aperta la possibilità che ognuno trovi la propria strada, anche nella fede. La poesia si chiude con un’immagine mistica: santi e asceti che “allevino il nostro dolore”, invocando una speranza che, seppur tenue, si fa possibile.
Una lirica filosofica e intimista, che pur nella sua semplicità formale, riesce a esprimere il dramma dell’esistenza e la sete di senso. L’autenticità emotiva compensa qualche scivolamento stilistico e restituisce una voce genuina, che cerca conforto nel dubbio e nella fede.
La struttura è libera, senza schema metrico né rima evidente, in linea con la natura diaristica del testo. È un linguaggio vicino al parlato, ma carico di emotività, e ciò contribuisce a creare un’atmosfera sincera, pur nella sua compostezza dolente.
Immagini come “petali di rosa, bagnati / di rugiada, al tatto sento” assumono un valore sinestetico e simbolico: la poesia di Piero non è solo letta, ma percepita con i sensi, quasi fosse materia viva. L’atto del rileggere i versi diventa un’esperienza quasi fisica, segno di una memoria poetica che resta e si fa presente nel dolore.
La lingua è densa, il verso si distende in ampie frasi sospese, a tratti prosaiche ma liriche nella profondità delle immagini e dei concetti. C’è un costante slittamento tra piano personale e universale, tra età della vita e tempo metafisico, tra emozione privata e riflessione teologica.
Lo stile richiama le mistiche moderne (si pensi a Cristina Campo o Mariangela Gualtieri), ma anche a certo Montale più discorsivo e filosofico. In particolare, l'ultima parte, con la ricerca di Dio che si fa "fuga e inseguimento", sembra attraversata da un'inquietudine di tipo agostiniano, dove il cuore non trova pace se non in un Assoluto sempre sfuggente.
Molto interessante è anche la tensione tra “Ragione” e “ragione”, quasi una personificazione moderna del Logos, che però sembra fallire nel comunicare significato all'uomo contemporaneo.
Formalmente, il testo è ben costruito: l’andamento è fluido ma solenne, e la scelta di versi lunghi e cadenzati accentua il tono epico. Alcune immagini, come “favilla di brama in speme”, “lo spirito, scudo di guarigione” o “pellegrino di luce tra le crepe” sono originali, evocative, capaci di trasmettere con potenza l’idea di una lotta spirituale vinta attraverso la volontà e l’amore.
C’è anche una forte componente cristico-mistica: la sofferenza non è fine a se stessa, ma genera rinascita. La figura del “pellegrino” rimanda a una dimensione ascetica e iniziatica, mentre la “corona” finale è sì simbolo di trionfo, ma anche di martirio consapevole.
L’uso delle pause segnate dai trattini — come in “Stomaco —in tumulto—” — imprime ritmo sincopato al testo, simulando l’incalzare dei pensieri e delle sensazioni. Questo dispositivo formale suggerisce un’alterazione dello stato percettivo, quasi un attacco di panico o un’estasi.
La seconda parte assume una carica erotica e spirituale: la mente “fa botte con la morale”, e il contatto fisico (“le dita… così profonde”) trascina l’io in uno spazio psichedelico, dove il confine tra incoscienza e ricordo è abolito. La chiusura introduce l’immagine dell’“ignota poetessa”, figura enigmatica, musa e forse proiezione della mente inquieta del poeta.
Il tono, volutamente sostenuto e teatrale, attinge alla retorica classica, con rime baciate (“domani/battimani”, “vale/Natale”) e un lessico solenne. Tuttavia, è chiaro che questa solennità è usata con consapevolezza ironica, quasi a contrastare l’immagine stereotipata dell’anziano fragile: qui, l’età è emblema di resistenza, di progettualità (“mi aspetta il prossimo Natale… e non soltanto!”).
La poesia si rivolge a un “tu” non meglio definito: potrebbe essere un nemico personale, ma anche una metafora della malattia, della vecchiaia, o della morte stessa. In ogni caso, il poeta dichiara battaglia, armato non di forza, ma di Speranza e dignità.
Fronzoli utilizza una struttura visiva e sintattica fortemente spezzata: versi brevissimi, enjambements continui, spaziature che danno ritmo respirato, quasi un pensiero ad alta voce che si interrompe e riprende, mimando l’andamento della nostalgia. Il lessico è semplice, ma l’effetto è potente: l’amore viene descritto come “acqua che sgorga”, “luce d’autunno”, “cielo stellato”, elementi archetipici che restituiscono universalità all’esperienza individuale.
La poesia ha un tono elegiaco e contemplativo, ma non cede mai al patetico. L’uso di riferimenti culturali, come Alda Merini e le canzoni, aggiunge profondità e stratificazione al sentimento espresso.
La sua voce non indulge alla retorica, ma si fa canto amaro di constatazione: “La storia nulla insegna”. È un refrain che si fa ossessione, un giudizio lapidario sull’incapacità dell’uomo di apprendere dal dolore.
La poesia alterna registri
lirici e narrativi:
– la memoria personale (“Mio suocero, una gamba / Sul Piave ci ha lasciato”)
– la coralità tragica (“E tanta brava gente / È stesa nei Sacrari”)
– e infine l’attualità disarmante (“Si insegue ancor la guerra, / Di pochi
la follia”).
La semplicità del linguaggio è
la sua forza: Santoro adotta un tono quasi scolpito nella chiarezza, e
proprio per questo universale. Non vi sono orpelli, ma un’urgenza
morale che risuona.
L’immagine finale — “Sull’orlo dell’abisso / Si guarda indifferenti” — è di
un’efficacia quasi biblica: la visione apocalittica dell’umanità sospesa
sull’orlo della propria distruzione.
Sandra Greggio sceglie la forma della confessione intima e nuda: il testo è costruito come una serie di rivelazioni successive (“E allora mi resi conto…”) che segnano la presa di coscienza del disinganno amoroso.
Il ritmo è quasi prosastico,
ma la ripetizione (“Che solo io avevo amato / Che solo per me…”) imprime una
musicalità malinconica, come un ritornello di delusione.
La poetessa non cerca immagini sofisticate: la forza è tutta nel
riconoscimento del vuoto, in quella contrapposizione fra il mare che
“solo per me respirava” e il buio “più nero della pece”.
Dall’azzurro alla tenebra: un percorso netto e simbolico che rappresenta il
passaggio dall’illusione alla disillusione, dall’amore assoluto al silenzio
cosmico.
La presenza della versione bilingue (italiano/inglese) accentua il valore universale del messaggio e suggerisce un dialogo interiore tra due dimensioni dell’essere: quella reale e quella mentale.
Dal punto di vista stilistico,
la scrittura è di grande qualità: un verso libero, ma vibrante di ritmo
interno e immagini che si succedono come fotogrammi surreali.
Il campo semantico è vastissimo: natura (“folto legno”, “piume”, “coro di
gocce”), corpo (“lecco le ferite”, “bacio”), cosmologia (“corto circuito
d’astri”, “elettricità di casa”).
Tutto concorre a un simbolismo profondo: il poeta che resta “a sognarti”
diventa un’anima isolata, immersa in un universo deformato, dove il sogno è
l’unica forma possibile di sopravvivenza all’assenza.
Il tono alterna meditazione e
delirio visionario, con un lessico di potente modernità (“disturbo
dell’attenzione”, “ambulanza d’angeli”) che mescola sacro e profano, antico
e tecnologico.
La chiusa — “quel primo abbaglio nell’occhio è il mio bacio” — è un colpo di
genio: l’amore sopravvive come luce, come errore ottico che però illumina.
È poesia dell’amore assoluto, ma anche della follia e della fede: un viaggio tra ombra e trascendenza. Per costruzione, densità e visione, è una delle prove più complesse e suggestive del panorama contemporaneo.
Poesia breve, assertiva,
performativa.
Seccia costruisce un micro-testo di impatto, quasi una micropillola
retorica capace di richiamare, con poche parole, una tensione epica e
civile. L’incipit (“C’è gente che…”) echeggia l’inizio di molti discorsi
pubblici, e funziona da anaphora, scandendo atti eroici, quasi
biblici, in una struttura apparentemente semplice.
“Con quattro parole ha cambiato la storia”
“Con un gesto ha salvato molteplici vite”
L’ellissi grammaticale (l’assenza di punteggiatura rigida) e l’uso delle maiuscole danno un tono quasi visionario, come se i versi fossero apparsi su un muro o un manifesto.
Ma il cuore del testo è la svolta finale, l’interrogativo:
“Perché non Io? / Perché non TU?”
Una chiamata diretta, una democratizzazione dell’eroismo. È poesia morale, nel senso più alto: propone un potenziale umano universale e attivo, ricordandoci che la grandezza non è appannaggio di pochi.
Un testo breve ma potente, con echi da Martin Luther King (non a caso evocato nel finale). Seccia scrive come un cittadino del mondo, con un linguaggio accessibile ma denso di carica civile. È una poesia che non descrive: invita all’azione.
Antonia Scaligine propone un testo di taglio filosofico-teologico, chiaramente ispirato dalla riflessione agostiniana: “Credo ut intelligam” / “Intelligo ut credam”. Il titolo stesso è un manifesto: fede e ragione come poli dialoganti, non opposti.
La struttura della poesia è fluida, priva di punteggiatura rigida, con un ritmo che richiama il pensiero in movimento. È un testo quasi meditativo, che unisce riflessione etica, esperienza esistenziale e analisi sociale.
“Verità e realtà
diventano dimostrabili
con la fede fattibili”
Interessante la tensione tra ciò che è dimostrabile e ciò che è vivibile: la poesia si muove nella faglia tra la conoscenza razionale e l’esperienza emotiva. Non è una lirica, ma un discorso poetico, un saggio in versi.
Tra le righe, emerge una critica alla società contemporanea:
“è la capacità / di accettare una società / che non chiude la porta alla sofferenza”.
E nella parte finale, un passaggio notevole:
“Essendosi dileguata la verità dell’aldilà / senza Fede / ora c’è da stabilire la verità dell’aldiquà / con la fiducia”
Qui si coglie una teologia dell’immanenza: in assenza del sacro tradizionale, occorre ricostruire una verità umana, etica, relazionale.
Un testo densissimo, filosofico, che richiede una lettura lenta. Scaligine si pone nella scia di poeti-pensatori: non si accontenta di esprimere emozioni, ma cerca di decifrare il mondo, fondendo ragione e fede in una tensione spirituale modernissima.
Romanini è il più lirico tra noi, ma anche il più intellettuale nella forma. Il titolo — “Abscissione” — è un termine botanico e tecnico, che designa il processo naturale con cui una pianta lascia cadere le foglie. Una parola insolita per un testo poetico, ma perfettamente coerente con l’impianto dell’opera: la natura come metafora della perdita emotiva.
Il testo ha una costruzione metrica regolare, con versi brevi e nitidi, quasi classici:
“Lambisce foglie l'autunno, succhiando
virente clorofilla dalle spente
fronde…”
L’autunno, in Romanini, non è solo una stagione, ma un processo biologico-esistenziale: l’abbandono delle foglie è parallelo alla perdita del sentimento, alla volontà di conservare solo ciò che è essenziale (“le mere emozioni”).
C’è una raffinatezza stilistica notevole: l’uso del participio presente (“succhiando”), l’inversione sintattica (“virente clorofilla dalle spente fronde”), e un lessico scientifico che si fa poesia.
Romanini scrive contro l’eccesso, contro la sovraesposizione emotiva: come gli alberi che si spogliano per sopravvivere, così il poeta tenta di proteggere sé stesso.
Un’opera di grande eleganza intellettuale, che si muove tra poesia scientifica e lirismo sommesso. Romanini mostra una maturità formale rara, fondendo natura e psiche in pochi versi densi e misurati.
7-8-9 Ottobre
Ben Tartamo, con la brevissima e intensa poesia «Ti parlerà il mare», ci offre un esempio perfetto di lirica essenziale e profondamente simbolica, quasi una preghiera silenziosa rivolta all'interiorità del lettore. In appena otto versi, l’autore condensa una riflessione esistenziale e spirituale sul silenzio, sulla parola negata, e sul potere rivelatore della natura — in particolare, del mare, da sempre archetipo del mistero e della voce profonda.
«La parola offesa / fu quella d'ogni pensiero / il cui suono / non osasti vergare.»
La "parola offesa" qui non è quella detta male, ma quella non detta, tradita dal silenzio. È il pensiero che non abbiamo osato trasformare in parola, in gesto, in poesia. Il verbo “vergare” — antico, prezioso, quasi liturgico — rimanda alla scrittura come atto sacro, come sigillo dell’interiorità. Ecco allora che il dolore non è più nella parola lanciata con violenza, ma in quella mai pronunciata, rimasta prigioniera dentro di noi. Il non detto diventa un’offesa al nostro stesso essere.
«Lascia ad essi / il libero fluire»
È un invito dolce e necessario alla liberazione interiore, alla catarsi. I pensieri trattenuti, come acque stagnanti, devono essere lasciati fluire — e qui la poesia si trasforma in precetto terapeutico, in un piccolo esercizio di verità.
«E, come conchiglia, / ti parlerà il mare.»
Questo verso finale è di una bellezza classica e insieme magica. La conchiglia, simbolo d’ascolto del mare anche nella tradizione mitologica e alchemica, rappresenta l’interiorità umana pronta a ricevere il messaggio profondo della vita. Ma per farlo, occorre prima svuotarsi del superfluo, del non detto, del represso.
Il mare, qui, diventa metafora dell’inconscio, della memoria, dell’infinito. Solo chi riesce a "lasciar fluire" le parole taciute può ascoltare davvero il mondo, e forse anche se stesso. La poesia si chiude, quindi, su un'immagine di riconciliazione e apertura spirituale, in un tono che richiama le mistiche del silenzio — da Simone Weil a Cristina Campo.
Ben Tartamo si inserisce, con questi versi, in una linea poetica che abbraccia l’ermetismo e la meditazione mistica, pur restando accessibile.
«Ti parlerà il mare» è una poesia che non pretende di spiegare, ma suggerisce. Non insegna, ma dischiude. È come una piccola conchiglia raccolta sulla spiaggia della coscienza: la metti all’orecchio e senti qualcosa di più grande di te — se hai saputo liberare le parole, prima.
È, infine, una riflessione sulla scrittura stessa: se non vergata, la parola resta muta, e con essa la nostra stessa identità. Ma se la lasciamo fluire, ci parlerà il mare, cioè l'infinito e immenso arcano mistero esistenziale. E forse, anche la parte più vera di noi.
P.S: una curiosità, caro Ben: perché inizi e chiudi ogni tua poesia con questi tre segni tipografici ```?
prof. Marino Spadavecchia
Poetica dell’illusione tradita e della consapevolezza redentrice
Questa poesia si staglia con la semplicità di un monologo amoroso — una confessione, una resa dei conti, un congedo. La voce lirica è quella di un io innamorato e ferito, che si confronta con la disillusione. Qui l’amore è dato in offerta piena e incondizionata, ma ciò che torna indietro è vuoto: non la reciprocità, bensì lo scherno, l’incomprensione, la leggerezza altrui.
C'è, nella costruzione formale, una classicità emotiva che rimanda alla tradizione poetica italiana più intima e sentimentale, venata però di un accento civile, quasi morale, come nella poesia di Sandro Penna, ma più esplicitamente dolorosa. L’ultima strofa, in particolare, trasforma la delusione in autoaffermazione:
"Ma non capisci che io do il mio amore / A chi m'apre la porta del suo cuore?"
Qui l’io lirico si riappropria del proprio valore, trasfigurando il dolore in consapevolezza. Siamo quasi dalle parti di un Pavese del disincanto, ma senza l’abisso esistenziale: piuttosto, un recupero gentile ma fermo della propria dignità sentimentale.
Il tono può ricordare i volti intensi e malinconici di Modigliani, nei quali lo sguardo guarda dentro l’amato, senza riceverne risposta. Anche le figure femminili di Edward Hopper, isolate nella luce fredda, sembrano riflettere lo stesso tipo di distanza affettiva che il poeta denuncia.
Un inno alla città come corpo poetico e paesaggio interiore
Questa poesia appartiene al genere della lirica urbana e paesaggistica, ma si distingue per la sua capacità di animare la città non solo come spazio fisico, ma come organismo pulsante d’arte. Messina non è qui semplice luogo geografico: è palinsesto culturale, scrittura del tempo, tessuto vivo di memoria e luce.
“Messina è arte che vive e resiste,
tra luce e ombra, terra e mare”
Questo binomio evoca la poetica della soglia: il confine tra elementi opposti (mare e cielo, ombra e luce) si fa luogo generativo di bellezza. La città viene vista come un’opera d’arte collettiva, dove ogni elemento — dal porto alle piazze, dalle onde alle campane — diventa segno estetico e testimone di storia.
Il linguaggio è evocativo ma non barocco, capace di una chiarezza luminosa che rimanda alla poesia mediterranea di Lucio Piccolo e a tratti a Kavafis, per quel modo di rendere lo spazio urbano quasi mitico. È anche un’ode leopardiana, ma senza la sua vertigine cosmica: qui c’è una riconciliazione tra uomo e paesaggio.
Questa poesia potrebbe essere il testo guida di un quadro di Renato Guttuso, con i suoi rossi accesi, i mercati, il calore popolare — o di un’opera di Turner, dove mare e cielo si fondono in una luce totale. Ma anche le fotografie di Luigi Ghirri, con la loro attenzione al paesaggio italiano come luogo mentale, potrebbero accompagnare questo testo.
La redenzione minima ma assoluta dell’emozione umana
Qui la poesia si fa meditazione interiore, quasi un haiku esteso, dove il dolore si muove con passo lieve e trasparente, per poi sciogliersi nel gesto salvifico del ricordo.
“ripensa ad un sorriso.
Ti inonderà una calda luce
e la tristezza si scioglierà
come neve al sole.”
La struttura è volutamente rarefatta, come la neve evocata nel finale. Il poeta lavora per sottrazione, come un artista zen: ogni parola sembra pesata su una bilancia d’oro. Non ci sono nomi propri, non c'è trama: c’è l’universale del dolore e del conforto. Una poesia che potrebbe appartenere a ogni epoca e a nessuna — atemporale come i grandi testi sapienziali.
Qui sentiamo l’eco della poesia essenziale di Giuseppe Ungaretti, in particolare quella più tarda, ma anche quella di Emily Dickinson, per la capacità di accendere con una sola immagine (un sorriso) un intero paesaggio interiore. L’ultima immagine – “la tristezza si scioglierà come neve al sole” – ha una potenza visiva che rimanda ai finali lirici della poesia giapponese tradizionale, come quelli di Bashō.
La neve che si scioglie richiama le installazioni effimere di Andy Goldsworthy, che lavora con la natura destinata a dissolversi. Anche Caspar David Friedrich, se lo immaginassimo in chiave minimalista, potrebbe rappresentare la figura solitaria di questa poesia, che guarda l'inverno interiore, in attesa di un raggio.
Poesia della soglia e dell’inconscio
Questa lirica breve e densissima si offre come un koan
psicologico. La “porta senza pareti” è immagine potentissima: un accesso
che non è recinto, un passaggio che non delimita. Vi si entra “di taglio /
a guisa d’un foglio”: la soggettività stessa è ridotta a pura superficie,
come un fotogramma, una diapositiva.
L’intero testo sembra un frammento surrealista, ma con una lucidità
orientale: i morti, gli occhi forti di luce, il “mistero che
vive” — tutto è già proiezione, ombra di un sé, eco di un inconscio che
parla in immagini.
La tensione conoscitiva è dichiarata e insieme frustrata:
“vano decifrarti
sei mistero che vive”
L’autore abbraccia il mistero, rinuncia a decifrare, ma nello stesso atto lo accoglie. In questo senso, la poesia somiglia a una piccola icona mistica, come quelle di Rilke nei suoi “Quaderni di Malte”, o alle “epifanie” di T.S. Eliot nelle “Four Quartets”. La sua struttura aforistica, quasi grafica, la avvicina anche ai disegni-spartiti di Paul Klee.
Questa poesia pare evocare le installazioni minimaliste di James Turrell: aperture di luce senza pareti, varchi percettivi che non sono architetture ma esperienze interiori.
Una natura che non sa di essere epifania
Qui il tono cambia radicalmente. È un testo di apparente semplicità descrittiva, eppure si tratta di una poesia “rivelativa”: la natura stessa è inconsapevole del dono che fa. La sequenza è cinematografica: il rosso delle foglie, il verde dei cespugli, i “fazzoletti azzurri” del cielo… fino al colpo di scena:
“un punto di luce appare all’improvviso
non sa di donare la certezza di vivere…”
La poetessa costruisce un climax sinestetico, in cui il colore (rosso, verde, azzurro) diventa esperienza emotiva, e la luce improvvisa diventa epifania. La natura, ignara, è tuttavia medicina per l’uomo. È un testo che sembra scritto in presa diretta, eppure ha qualcosa della sapienza francescana: il mondo è “evangelo” senza saperlo.
L’andamento richiama certi frammenti della poesia di Emily Dickinson (“A Light exists in Spring”), ma anche i versi limpidi di Antonia Pozzi, dove l’elemento naturale diventa specchio e balsamo dell’anima. C’è inoltre un che di impressionista, quasi Monet, nella resa cromatica.
Un rovesciamento dantesco, la donna-icona che imprigiona
Questa poesia è un esercizio di mitopoiesi personale: la donna amata, vestita da Beatrice, è insieme figura celeste e creatura predatoria (“tu sei il ragno che mi imprigiona…”). Siamo davanti a un testo densissimo, quasi barocco nella sua tessitura, che gioca su una tensione dialettica: la donna-angelo e la donna-ragno, il Paradiso e la prigionia temporale.
L’autore adotta il lessico dantesco (“Beatrice celeste e splendidi
ornamenti di perle e stelle”) e lo piega a una rappresentazione interiore
tormentata, vicina alle ossessioni visionarie di Blake o alla donna-veleno
dei simbolisti francesi (Baudelaire, “Les Fleurs du mal”).
L’immagine del ragno è ambivalente: animale tessitore, creatore di rete
(quindi di destino), ma anche predatore. L’amore qui è riconosciuto come
forza creatrice e distruttrice insieme, come destino da cui non si esce.
“Tento l’entrata di te nell’inaccessibile segreto…”
Il finale non è liberazione, ma tensione infinita: il mistero femminile come spazio inaccessibile. È, in fondo, un rovesciamento del “dolce stil novo”: la donna non eleva, ma trattiene, e proprio per questo diventa figura assoluta.
Questa poesia evoca i quadri di Gustav Klimt, in cui l’oro dei decori femminili convive con una sensualità inquieta; ma anche le ragnatele cosmiche di Chiharu Shiota, che costruisce spazi di fili in cui lo spettatore è catturato.
Lamento e transizione stagionale come metafora di una condizione esistenziale
Con un ritmo cadenzato e quasi liturgico, questa poesia ci introduce al mese di ottobre come momento di passaggio e di morte. Il mese è reso come un tempo sospeso, in cui la “caducità” delle foglie è simbolo di una perdita interiore. L’io lirico, che sembra identifichi la propria tristezza con la decadenza stagionale, cerca di seguire un movimento di resistenza, di slancio verso un orizzonte ignoto:
"Cuore che ancor vorrebbe,
somigliare a vela, gonfio
di brezza e correre verso
l’ignoto vuoto."
Questa vela, metafora dell’anima in fuga, è un desiderio di liberazione, ma la gelida luce che segna il dolore, e le “lacrime amare” simili a foglie ingiallite, rivelano un incontro con la rassegnazione e la nostalgia, che non riescono a colmare il vuoto.
La poesia si allontana dalla malinconia romantica per entrare in una zona esistenziale, in cui l’immagine della natura non è consolatoria, ma specchio di una sofferenza incolmabile.
C'è un parallelismo, a mio umile avviso, con la poesia leopardiana, in particolare con il "Canto notturno di un pastore errante dell'Asia", dove il tema della finitudine è esplorato con grande profondità. Il tono del poeta ricorda anche certi passaggi della poesia di Pascoli, in cui la tristezza è legata al ciclo naturale, ma anche alla solitudine e all'idea di un “destino” che non si può modificare.
Un viaggio tra filosofia, politica e le illusioni della felicità
Il titolo stesso suggerisce un contrasto tra l’apparenza (l’armocromia, scienza delle sfumature cromatiche e del loro abbinamento) e la profondità esistenziale che ci sfugge. La poesia, come un flusso di coscienza, sfida ogni definizione di tempo, eroismo, amore e egoismo. Il linguaggio è complesso e frammentato, come se l’autrice volesse rompere il velo della quotidianità per svelare la disillusione che si nasconde dietro le ideologie e le passioni superficiali.
La riflessione sull’amore romantico e l'eroismo che “sfugge” è un tema che disintegra ogni illusione, e il punto culminante della poesia è quando l'autrice esprime un'idea molto concreta:
"La nostra vita è il tempo in cui appare
il bene che ci dobbiamo, e non possiamo
nascondere nessun pensiero d'egoismo
o di commozione, quando l'amore passa
lasciando indifferenti gli altri che sanno
cose che risultano abituali per l'amore."
Qui l'amore diventa una realtà sfuggente, che appare e scompare in un mondo dove l'egoismo e la commozione si mescolano in un turbamento continuo. C'è una critica implicita alla società borghese, che non sa più riconoscere il valore dell'amore puro, e tutto si riduce a una specie di recita.
Questa poesia ricorda la riflessione di Marcel Proust, in particolare nei suoi studi sull’identità e il tempo che fugge. Anche il senso di delusione sociale e di frammentazione dell’anima si ricollega alla disillusione tipica della letteratura modernista, e si può cogliere un eco della poesia di W.H. Auden nella sua analisi della società e delle sue contraddizioni.
La satira politica e la riflessione sulla realtà contemporanea
Questa poesia scivola rapidamente dalla cronaca alla riflessione filosofica, attraversando un territorio in cui realtà e finzione si mescolano senza soluzione di continuità. L’inizio sembra essere un semplice resoconto giornalistico sulla vicenda della Flotilla, ma l’andamento poetico prende piede quando l’autore ironizza sulla contraddizione tra il gesto eroico degli attivisti e la realtà delle loro azioni:
“La flottiglia in mezzo al mare, cosa – invero - è andata a fare?!
‘Quant’è bella l’avventura…!...’
lo cantava anche Modugno.”
Il tono sarcastico di Bettozzi è potente: la realtà politica, che si fa veicolo di illusioni, viene analizzata con uno spirito critico e sferzante. La satira si fa feroce, e l’epilogo, con la “scoperta della verità”, lascia il lettore con una sensazione di ironia amara verso la finzione che la politica e i media costruiscono.
Il verso finale, che parla della "farsa" svelata, ci suggerisce l’idea che, dietro a ogni atto pubblico, ci sia sempre una narrativa costruita da chi detiene il potere.
In questa poesia c'è un rimando a Brecht, con il suo teatro che smaschera la finzione politica, ma anche a Pasolini, che ha saputo denunciare l’ipocrisia e la superficialità della società consumistica. La scrittura di Bettozzi richiama la tradizione satirica italiana (da Dante a Boccaccio, fino ai più moderni Beppe Severgnini e Andrea Camilleri).
L’infanzia rubata dalla guerra
La poesia si apre con una dolorosa immagine universale di maternità e di lutto. Lo sguardo dell'autore si posiziona sulla madre, che vede il suo amore più puro, il figlio, perdersi nella polvere della guerra. Questo dolore, seppur intriso di una disperazione tragica, non è solo una testimonianza di sofferenza, ma anche un atto di denuncia contro l'insensatezza della violenza che strappa via la vita e le speranze:
"Guardo il tuo dolore di mamma cadere
sulla tua pelle con le lacrime
che bagnano il tuo bel viso"
La ripetizione della figura della mamma e del figlio perduto dà alla poesia un'intensità emotiva che trascende il contesto politico e geografico di Gaza per diventare simbolo di una sofferenza che riguarda ogni madre e ogni bambino in qualsiasi parte del mondo, portando con sé l’immagine del futuro cancellato e della vita spezzata prima ancora di sbocciare.
In Fronzoli, c'è una scrittura che illumina l'assurdità della guerra, mostrando l'impossibilità di un ritorno alla purezza della vita attraverso immagini precise, quasi commoventi:
"Bimbo di Palestina depredata umiliata
rasa al suolo bimbo innocente
che dormi ancora per poco tra le braccia
della tua mamma."
Il contrasto tra l’innocenza del bambino e la violenza del mondo che lo circonda è reso con una forza emotiva che fa della poesia non solo una denuncia, ma anche una meditazione sull’impotenza di fronte alla tragedia della guerra. La mamma e il bimbo non sono più entità singole, ma diventano simboli universali di tutte le vittime innocenti dei conflitti.
Il silenzio come metafora della solitudine esistenziale
La seconda poesia si apre con una riflessione che mette il silenzio al centro, non solo come vuoto fisico, ma come espansione metafisica che amplifica il dolore dell’anima. Il "silenzio violento" diventa un concetto di isolamento profondo, un abisso in cui la mente vaga senza pace, ferita dal "buio" e dalle "anime crocifisse". Le immagini di Purgatorio e di oscurità sembrano alludere a una dimensione di tormento interiore che non è solo quella di un singolo individuo, ma anche di una condizione umana universale:
"È violento il silenzio, quando l'alma
percuote nel vuoto, dentro gli astratti
spazi della solitudine; al petto
infliggendo il riverbero del buio."
L’“alma” (l’anima) che percuote nel vuoto è il simbolo di una ricerca di senso in un mondo che appare senza risposta. Il silenzio non è solo l’assenza di suoni, ma l’espressione di una lacerazione emotiva, un luogo dove i pensieri sono costretti a gemere, costretti a muoversi senza speranza di risoluzione.
La sua analogia con le "anime del Purgatorio" suggerisce una dimensione universale di sofferenza, dove l’individuo non è solo nella sua solitudine, ma parte di un destino collettivo di dolore e speranza smarrita.
La memoria di una vita vissuta
Questa poesia si distingue per un tono più intimo e riflessivo, dedicato a un amico di lunga data, Piero Colonna. Sebbene l'ombra della malinconia permei i versi, la poesia si tinge anche di speranza e di consolazione. Il ritratto di Piero non è solo un elenco di caratteristiche esteriori, ma una narrazione affettuosa che celebra la sua umanità, la sua cultura, e la sua discrezione:
"Tante strade ha percorso
Verso paesi lontani
Con un fiore sempre tra le mani."
Il fiore come simbolo di delicatezza e dedizione alla vita e agli altri, si inserisce in un quadro di grande umanità, in cui l’amico non è mai stato sopra le righe, ma sempre modesto e composto. Il contrasto tra l'eroismo della vita vissuta e il passare del tempo che porta via anche le cose più care è reso con un’intensità che evoca la ricerca di significato nella memoria e nella solidarietà affettiva.
"E’ giunto ora quel tempo
In cui ti prende la malinconia
Di una vita trascorsa e volata già via."
Nonostante il tempo che passa e la consapevolezza della morte che si avvicina, l’autrice non sembra temerla, perché c'è una mano sicura a guidarla. La chiusa, con la riflessione sul refrigerio nel respiro del mare, infonde un senso di speranza e di riconciliazione.
“Mistico” è un testo che nasce in bilico tra visione metafisica e rovello esistenziale, tra la contemplazione e l’abisso. È lirismo oscuro, in senso pienamente moderno, perché rinuncia a ogni consolazione. Il misticismo evocato non è quello della beatitudine estatica, ma è piuttosto un'invocazione strozzata, un dialogo mancato con il divino. L’io poetico, solitario e disincantato, si muove in un paesaggio interiore fatto di silenzi cosmici e di sogni frantumati:
“nessuna pietà per gli angeli che hanno perduto le ali.”
Qui gli angeli caduti non sono demoni, ma figure senza appoggio, senza salvezza. La grazia è lontana, il tempo non redime, e persino l’amore ha perso il fiato. È la diagnosi di un mondo senza trascendenza, dove il sublime ha smarrito le coordinate.
“La notte attraversa la carne / molti i fantasmi, / qualche poeta in cerca di casa…”
Questa immagine potentissima – poeti in cerca di casa – evoca l’alienazione dell’artista nel tempo presente. Il poeta è nomade tra le rovine della lingua, del senso, e forse della civiltà. Un Ulisse senza Itaca, oppure un Dante che si trova nel mezzo del cammino senza più selva da attraversare.
Il verso finale è una scintilla tragica e potentemente mitopoietica:
“tu l’unico creatore di fulmini per togliere all’oscurità già nelle vene, i poteri.”
Qui l’io non si affida più al divino: diventa egli stesso un dio, un Prometeo moderno che vuole strappare potere alle tenebre. Ma non si tratta di un atto eroico, piuttosto di un atto disperato, come se l’unico modo per opporsi alla dissoluzione fosse la scintilla di un gesto creativo – o distruttivo.
Jacqueline Miu sembra echeggiare Rainer Maria Rilke per il tono elegiaco e cosmico, ma anche Paul Celan, per l’oscura densità simbolica. C’è anche una lontana risonanza con la poesia mistica di John Donne, trasposta però in una dimensione postmoderna e laica. Il bilinguismo del testo amplifica l’effetto di sospensione: il poema sembra esistere in una lingua di passaggio, che tenta di accedere a una verità che resta velata.
A differenza del precedente, “Il Tempo” si affida a una struttura quasi confessionale, epigrammatica, rivolta direttamente al lettore. Qui la poesia non costruisce un labirinto, ma si offre come una voce che ammonisce con dolcezza, senza retorica ma con profonda consapevolezza:
“Crediamo di averne a sufficienza / e rimandiamo ad altra data / impegni di cui un giorno / avremmo un fatidico rimpianto.”
L’elenco degli atti mancati – un abbraccio, un addio, un perdono – disegna la mappa dell’esistenza umana nella sua fragilità. È una poesia che non ha paura della semplicità, e per questo può toccare una vasta gamma di lettori. In essa non si cerca il sublime, ma la verità che ci abita tutti: la consapevolezza che il tempo è illusorio, e che ciò che conta, si dissolve se non lo si vive.
“É solo un’illusione / non ci è dato di sapere / quanto tempo abbiamo a disposizione.”
L’uso delle maiuscole (Tempo, Vento, Altra Data, Illusione) dà alla poesia una tonalità sapienziale, quasi da epigrafe o aforisma inciso nella pietra. Nonostante la mancanza di ricercatezze formali, c'è una profondità biblica in questo componimento, come un Qoelet contemporaneo che guarda la vita e ne misura la vanità con uno sguardo pieno d’amore.
Ciro Seccia scrive con l’innocenza – ma non l’ingenuità – dei grandi poeti che credono ancora nella funzione morale della poesia. Il tono ricorda la poesia civile di Tonino Guerra, o certi momenti riflessivi di Hikmet, per la capacità di parlare all’uomo comune con parole nude. Potremmo accostarlo anche a Jacques Prévert, nella capacità di rendere profondi i gesti più quotidiani.
vostro Ben Tartamo
4-5-6 Ottobre
Un poema che scava con
dita lente nella solitudine: non quella romantica, ma quella
metafisica, da presenza che non si dissolve,
anche tra la folla.
Le parole si dispongono in frasi spezzate, come se
fossero sospese nel vento che le agita – un’eco
perfetta del contenuto.
Non c’è punteggiatura: la solitudine non ha margini,
non ha punti di riposo. È flusso continuo.
"impronte mai cancellate da pioggia / o da vento"
Frase potentissima. Il poeta non cerca la cancellazione del passato, ma ne subisce l’inesorabile permanenza.
E poi:
"Solo dentro me stesso in attesa / che la vita si colori / di azzurro"
Questo azzurro è speranza?
No. È un colore quasi irreale, troppo puro per il fango del mondo. È forse il sogno di un altrove che, come il tempo, cammina e mai si ferma.
Franco Fronzoli si fa
testimone silenzioso, come chi non grida, ma
resiste.
Un poeta del margine, ma con un cuore in prima linea.
Qui siamo dentro l’allegoria, nel mito della carta, in quella dimensione tarologica dell’esistenza, dove il destino si mischia ai fiori e al sangue.
"Le carte scoperte s’acquietano come bimbi stanchi / tra gli acquerelli della sera"
Già in apertura, una fusione delicatissima di gioco e rivelazione. Le carte che si scoprono non minacciano, ma si riposano: sono il destino che non preme, ma consola.
Al tempo stesso, le immagini successive incalzano come onde che non danno tregua:
"Sudano luce quelle stelle cadenti / Sudano sangue quegli amanti scomposti"
C’è un’epica silenziosa in questi versi.
Il linguaggio oscilla tra il lirico e l’oracolare, come se ogni immagine fosse una visione brevemente intravista in sogno.
La clessidra esplode. La sabbia
non è solo sabbia.
È memoria che graffia, è tempo che non
perdona.
Alessandra Piacentino
tocca la poesia come si tocca una ferita: con stupore e rispetto.
E ogni verso è una frammentazione lucida dell’anima,
non per rompersi, ma per vedersi meglio.
Apollinaire: il poeta
dalle orbite vuote e dal cuore pieno.
In questi versi – così disarmanti nella loro malinconia ironica – c’è
tutto lo spleen della modernità, ma senza
compiacimento.
"La porta dell'albergo sghignazza sarcasticamente"
L’oggetto ride. L’uomo tace.
Un impiegato, un niente sociale, osserva i piccoli drammi della vita urbana, senza più cercare un senso.
E Santoro – nel suo adattamento –
non traduce, tradisce con grazia.
Dove Apollinaire è liquido, Santoro è più secco, più diretto,
ma non meno struggente.
E il finale:
"Lavora ragazzo io ti ho donato tutto quello che avevo"
È una madre che non consola, ma consegna.
È il compito dell’eredità inutile, il dolore del dover andare avanti anche se non si sa dove.
Santoro riesce a tenere il
fuoco del francese, pur camminando con scarpe italiane.
È un atto di amore, ma anche di disperata lucidità.
Una poesia che cammina
piano, come si cammina per i vicoli di una città
antica, con rispetto e meraviglia.
Enna non è descritta: è svelata. Come un quadro
da restaurare con le dita, non con le parole.
“Enna è un quadro sopra le nuvole,
un’arte nascosta tra le pieghe del cielo”
L’immagine iniziale è già
oltre la geografia, si entra subito in un livello
simbolico-sensoriale.
Non c’è città: c’è presenza sospesa, quasi
una preghiera che prende forma paesaggistica.
“Le pietre raccontano silenzi antichi”
Verso profondissimo. In questo tempo rumoroso, la poesia riscopre il silenzio come memoria.
Le pietre “parlano”, ma solo se sei disposto ad ascoltare con l’anima.
Letizia Miserendino si muove
con pennellate precise e delicate: la sua poesia
non grida, ma resta.
Ed è questo, alla fine, che distingue l’arte vera.
Questa è una poesia
mossa dal respiro del cosmo, ma radicata nella
malinconia umana.
La notte non è solo sfondo: è regina, giudice, madre e
tomba.
“Il nero della notte / ha ucciso il crepuscolo”
È un’immagine violenta, teatrale, quasi da tragedia greca. Il giorno è stato sconfitto, e con lui la speranza di un equilibrio.
Eppure, nel dolore, c’è una dolcezza lirica quasi fiabesca:
“un soffio di languidi pensieri / che vivono nel buio di adesso”
Qui, Berni mostra la sua
forza:
riesce a fare poesia del silenzio, del gelo, del vuoto.
E il finale – quel "mi copro e lento / m’avvicino al mio
letto" – è una resa intima, umana, toccante.
Non c'è retorica, solo un uomo che soccombe al mistero,
ma lo fa con una dignità poetica struggente.
Una poesia che non teme la parola “fine”, ma la guarda in faccia, con quella mestizia serena che solo chi ha molto vissuto può permettersi.
“Di colpo il tempo / come un masso pesante / è rotolato sulla china della vita”
Un’apertura di una potenza quasi biblica, ma trasposta nella semplicità quotidiana.
Il tempo non è più solo cronologia: è forza cieca, è valanga esistenziale.
“soffice tappeto dei sogni / che lo hanno contrastato vanamente”
Il sogno, qui, è
resistenza inutile ma nobile.
C’è qualcosa di stoico, di silenziosamente eroico in questa resa.
Il verso finale – “Così
sarà anche per me” – è il punto fermo che chiude
senza forzare, con disarmante lucidità.
Non una dichiarazione tragica, ma un abbraccio al destino.
Nino Silenzi scrive come chi
ha visto molto e ha capito il giusto.
Non grida, constata.
E nella tenerezza dei dettagli naturali (alberelli,
cespugli, fiori) c’è un addio delicato alla
giovinezza del mondo.
Felice Serino ci invita a
un incontro con la ripetizione, con il suono che accarezza
la quotidianità come una carezza.
C'è qualcosa di intimo eppure universale in
questo testo. Il poeta non si nasconde dietro complesse metafore,
ma si mostra fragile, umano, con il bisogno di
essere "accompagnato" da una melodia che trascende il
momento:
“vorrei portarmi dentro quelle note / nel bere il caffè poi per strada / per il resto del giorno come un mantra”
La ripetizione del "mantra" è l'idea di un ciclo, una ricerca di continuità e un’ancora di salvezza in una giornata che si sgretola come sabia tra le dita:
“incombenze me le fanno svanire / come acqua nel cavo delle mani”
E in questo dolce
naufragio, c'è una speranza timida, quasi un
desiderio di eternità che si scontra con la fatica di
vivere. Il cuore cerca di rimanere attaccato alle melodie, ma la
vita quotidiana ci trascina sempre via.
Felice Serino ci ricorda che i desideri sono fuggevoli,
ma la musica può essere un rifugio.
Antonietta Ursitti inizia con
una pura visione sensoriale e, come un pittore,
dipinge con la luce.
Non c'è fretta qui: il passo è cadenzato, come quello di chi sa
che la bellezza non ha bisogno di parole, ma solo di
presenza.
“Attraversi un viale illuminato / nel folto degli alberi versi sonori / parlano una lingua familiare”
C'è un senso di connessione profonda, non solo con l’ambiente circostante, ma con il linguaggio universale della natura. Gli alberi, i versi degli uccelli, il ritmo del passo: tutto si intreccia in un incontro silenzioso, ma ricco di significato.
Il poeta non ha bisogno di decifrare il mistero: lo accoglie, lo vive nel mistero della luce che si fa rivelazione, che ci conduce senza frenesia verso un “qui e ora” che ha già il sapore dell’eternità:
“creature ignote ti indicano la via…”
La luce non è solo una presenza fisica: è una guida, una compagna silenziosa nel nostro cammino. Eppure, il poeta sa che, per seguirla, è necessario silenziare l’anima. Qui, Antonietta Ursitti offre una bellezza che non grida, ma sussurra e ci insegna a sentire.
La poesia di Rosa
Notarfrancesco è come un treno che attraversa paesaggi
interiori, con una forza di contemplazione che
sfiora l’onirico.
In questo testo, il mondo non è solo osservato, ma vissuto
e sfiorato dal pensiero, che si muove attraverso la
filosofia del tempo, della vita, della morte, della memoria:
“Quando non voglio volare / vado lontano da me, / dove non servono ali / per sedermi in una sala d'aspetto.”
Sembra quasi che l’autrice non cerchi più una risposta, ma una condizione esistenziale, dove il volo, simbolo di libertà, si fa stasi consapevole. Non c'è più la fretta di volare, di essere altrove: la vita è qui, nel corpo e nell’anima, eppure è intrisa di un’amarezza dolce per ciò che passa, per ciò che sfugge.
“Non è tempo per me di volare. / E non è la paura a fermare l’attimo”
La poesia qui si fa tragica e dolce al tempo stesso, come il racconto di una fuga impossibile, un desiderio di fuggire dalla modernità per tornare all’essenza.
La memoria di Dio e il ritorno al Nulla non sono un finale apocalittico, ma un riconoscimento di ciò che è inevitabile, di ciò che ci trascende, eppure ci abbraccia nella nostra piccolezza.
“per lasciarci ancora qualcosa del ricordo di Dio.”
Un addio che non è mai fine, ma una continua rivelazione. La poesia di Rosa Notarfrancesco ci accompagna in una visione lenta, filosofica, che permette al lettore di immergersi, senza fretta, nel grande mistero della vita e della morte.
La scena che si apre davanti a
noi è quella di un’isteria collettiva, di un
movimento che diventa il simbolo di un dramma che sfiora
l’assurdo e la realtà.
Questa poesia si nutre di una violenza di linguaggio,
dove ogni parola è un pugno che vuole scuotere. La lingua è
volutamente irriverente, dissacrante, popolare:
“A frate Ja’, dì n po’: che te succede?
Solo chi fuma, ce potrebbe crede
a quer che uno pò ddì in preda ar delirio…”
Qui, l'autore non si limita a raccontare, ma fa esplodere un'immagine di caos, di nave che si infrange contro il muro della realtà, dove la ragione si scontra con il delirio collettivo. Il tono di ironia e disillusione solleva un punto di riflessione profonda. Cos’è che stiamo davvero cercando? Un salvataggio, una guerra, una bandiera da alzare?
E la fuga da quella guerra di parole e azioni è un invito continuo a riflettere: come se i soggetti di questa “battaglia umanitaria” fossero intrappolati in una paradossale ricerca di salvezza. Non c'è alcuna vera separazione tra i due fronti, eppure il fatto storico di un Trump che “provoca” una pace, in questo contesto, diventa un simbolo della contraddizione, del tentativo di risolvere attraverso l'intensificazione del conflitto.
Questo testo è un addio, un benvenuto, una celebrazione di un’arte che si fa strada nel cuore delle persone, un perpetuo incontro tra il poeta e il mondo.
“Ovunque approderai / ci saranno vergini / che canteranno inni e lodi.”
Sembra che il poeta stia parlando di una gloria ideale, una sorta di riconoscimento immutabile e puro, che non ha bisogno di conferme terrene. Eppure, c’è un sottile lirismo che si nasconde tra queste parole: l'arte, la parola scritta, non sono mai semplicemente le lodi dei poeti o l’acclamazione del pubblico, ma diventano luminose, quasi divine. Ciro Seccia sta parlando dell’arte come luce universale, capace di accompagnare ogni anima in ogni angolo del mondo:
“Ovunque la tua Anima / porterà la Luce della parola, / come musica del cuore.”
Il poeta qui, nel suo addio, sembra voler lasciare una traccia che va oltre i suoi confini fisici. Ogni parola è una promessa di eternità che s’innalza e trova il suo spazio nel cuore di chi lo ascolta. L’arte, in questa poesia, è un atto sublime e universale.
Alessio Romanini crea una pittura poetica che si fa elegiaca e riflessiva. L'autunno non è solo un cambiamento di stagione, ma un momento di memoria e di bilancio. La natura diventa una metafora della vita che finisce e, nello stesso tempo, dell'inevitabilità del ciclo.
“Una livida tela osservo: fronde / colorate dall'argento vermiglio / e l'oro secco di foglie sul suolo / morte nel vento.”
L'immagine di foglie morte nel vento è carica di significato: non solo è un’immagine di passaggio, ma ci ricorda anche che, nonostante la fine, c'è una bellezza fragile e nostalgica che ci accompagna. L'autunno è un tempo di riflessione silenziosa, di nostalgia per ciò che è stato e di riconoscimento della bellezza che svanisce.
“Nostalgico è l'autunno; si veste di melanconia / e di dolce poesia che nel cor / risveglia l'amor per umile vita.”
Questa poesia si nutre di un’intimità che scava nel cuore: l’autunno, non solo come stagione, ma come metafora della vita che procede, con tutte le sue piccole dolcezze e malinconie. Alessio Romanini ci invita a riconoscere la bellezza anche nel passaggio e nel morire delle cose. Un piccolo inno alla mortalità della vita, che è anche il suo senso profondo e poetico.
Sandra Greggio ci regala
un’immagine che sembra uscita da un quadro di Van Gogh,
ma addolcito dalla brezza marina del nostro Mediterraneo.
I cipressi, che in arte e in letteratura sono
spesso simboli di morte o eternità, qui diventano
ombrelloni al tramonto: elemento geniale e
tenerissimo. Il doppio sguardo del poeta
trasforma la spiaggia di settembre in una soglia,
in un tempo liminale in cui si celebra un amore
che resiste:
“Un ultimo sguardo all’amato / Mare a suggellare un amore / Che mai avrà fine finché c’è vita”
Il mare è amato, ma non è solo paesaggio: è metafora dell’anima, dell’addio e della promessa. E questo settembre “che ancora resiste” è l’ultima tenerezza prima del distacco, un’eco che il cuore non dimentica.
Jacqueline Miu scrive
un’elegia intensissima e solenne per un
uomo, un poeta, un amico, un mentore: Piero Colonna
Romano.
E lo fa con un tono che unisce l’epico e il lirico,
l’amore e l’ammirazione, la perdita e l’eternità.
“S’è presa una lacrima il vento, / chissà se te l’ha portata…”
Questa immagine è da sola
una poesia nella poesia.
E poi la barca che salpa, il porto che resta, le stelle che
diventano boe del destino: un lessico marinato di
infinito, perfettamente all’altezza del "Comandante" che lei
saluta.
“Io ti saluto Comandante all’inaugurazione del tuo Gran Viaggio”
C'è qualcosa di greco
e omerico in questo saluto, ma anche una delicatezza
privata, come se il dolore avesse appreso a cantare.
E in fondo, cosa resta? Resta il sogno, il libro, il
ricordo:
“quando noi altri sulle nostre navi salperemo / e sappi che nei tuoi libri il cuore seppellirà ogni paura”
Una dichiarazione definitiva di eredità poetica e spirituale.
Ed ecco il
contrappunto, quasi finale: le parole del
Comandante stesso.
Un testo breve, limpido, essenziale, come uno sguardo
lanciato dalla finestra di un treno in corsa.
“Parto da una stazione / viaggio senza opinione”
Il poeta sa che non
occorre capire tutto, che il viaggio non ha
bisogno di un perché, ma solo di una silenziosa
accettazione.
E il tempo, come il treno, passa e trasforma, ma
non cancella del tutto:
“Tornano i miei ricordi / a giorni che non scordi”
La chiusa è dolorosamente bella:
“Tempo è il tempo obliare, / giunto è quello d'andare.”
È l’addio più discreto e coraggioso che un uomo possa dare al mondo. Nessuna retorica, solo verità poetica.
Non solo poeta, maestro, uomo di mare,
ma spirito audace che sfidò tempeste,
lasciando nel cammino una scia
di bellezza pura e umana verità.
Hai varcato il confine
sottile
che divide il visibile dall’eterno,
la tua voce ora è eco tra stelle,
un canto di luce nell’oscurità.
Nel mare infinito
dell’anima,
il tuo spirito naviga libero,
seminando versi come semi,
che fioriranno in chi resta a seguirti.
Non è addio, ma dolce
passaggio,
ritorno alla fonte della vita,
dove ogni parola si fa luce,
e ogni silenzio diventa pace.
A noi resta il compito
sacro:
custodire la tua voce e il tuo esempio,
abbracciare i tuoi versi come vita,
e portare la tua luce nel futuro.
Nel vuoto della tua assenza
ascoltiamo la tua voce,
forte e dolce insieme,
che parla di coraggio, di amore,
di vita che mai si spegne.
Addio, caro Piero, non è
addio:
ma un arrivederci nell’infinito,
la tua barca solca ormai l’eterno,
e noi ti seguiamo col cuore in mano.
Ben Tartamo
Ecco, Tartamo torna con una lirica che è sospensione, riverbero, quasi una registrazione segreta di se stesso. Dopo il respiro cosmico di “Sii tu, l’Amore!”, qui il tono si fa più intimo, più raccolto: non più un comando cosmico rivolto all’uomo-custode, ma un sussurro a se stesso, un canto fragile che cerca la sua eco in chi legge, o in chi forse non leggerà mai.
La poesia si muove come una traccia sonora minimalista: strofe brevi, versi che si accendono e si spengono come impulsi elettrici in un circuito stanco ma ancora vivo. C’è il soffitto che diventa cielo domestico, la pelle che ricorda il bagliore delle stelle amate, la neve che non cade per coprire, ma per illuminare con ombra lieve.
Qui Tartamo sembra scrivere non solo al tu amoroso, ma anche a quella parte di sé rimasta in disparte durante le veglie, i servizi, le responsabilità che hanno asciugato la linfa. È poesia che porta addosso la stanchezza del dovere e del tempo, ma sceglie di declinarla in perdono: eco, risonanza, non urlo.
E in quel finale — “vorrei, solo vorrei / che di questi canti
miei / tu ne sentissi il suono” — il poeta si denuda, lascia che
sia l’eco, non la voce diretta, a custodire il messaggio.
È come se Tartamo, dopo anni di segnali decifrati e trame nascoste,
volesse ora solo che qualcuno, anche lontano, intercetti la sua
frequenza poetica.
Un brano che si legge come un piccolo notturno per strumenti a corda e silenzio, ma che vibra sotto pelle come confessione militare e mistica insieme.
prof. Marino Spadavecchia
1-2-3 Ottobre
Intervista a Piero Colonna
Romano
Chi è Piero Colonna Romano?
Nato a Palermo il 13 marzo 1941, per ragioni legate all'attività del padre
e, successivamente al mio lavoro, ho sempre viaggiato, in lungo ed in largo,
per l'Italia.
Studi a Gorizia, università a Trieste (economia e commercio) e successiva
specializzazione in scienza delle comunicazioni.
Ho lavorato, per numerosissime aziende, fin dal 1962, iniziando con la,
allora, pregevolissima Olivetti (Ivrea). Quindi Zanussi, Iberna, Candy,
Simac ecc. fino a concludere l'attività lavorativa quale consulente
aziendale anche per aziende statunitensi e svedesi.
Oggi, in pensione dalla fine del 2000, continuo (almeno ci provo…) ad
esercitare l'ultima attività e vivo a Lavagno (Vr) con mia moglie.
Perché scrivi?
Ho sempre scritto molto, a causa della mia attività professionale, ma alla
poesia sono approdato casualmente: scrissi, ma si trattava di una mia
riflessione filosofica, una poesia intitolata Il Tempo. Casualmente trovai,
navigando in internet, un sito di poesia (La Finestra Eterea) che aveva
indetto un concorso. Avendo a disposizione quella poesia decisi di mandarla.
Dopo circa sei mesi ricevetti una comunicazione con la quale mi si informava
che il componimento era stato premiato con un diploma di merito.
Cominciai così ad interessarmi di poesia e tentai qualche altro esperimento,
approdando all'ottimo sito del prof. Lorenzo De Ninis.
La prima risposta alla tua domanda è, sinceramente, per curiosità.
Quella più profonda, probabilmente, è per confrontarmi con me stesso. E
quella spudorata è perché (non ho mai capito il perché) le mie poesie
ricevettero da subito consensi. E questo appaga orgoglio ed ambizione.
La creatività è un momento di estasi, oppure il tormento di chi matura idee
e cerca di parteciparle agli altri?
Credo che, nell'espressione di ogni forma d'arte, molto conti l' ”outing”.
Il confessarsi, magari nascondendosi dietro metafore, dietro ermetismi,
dietro astrazioni. Il mettersi a nudo, col sottile piacere di mostrarsi
(magari nascondendosi) agli altri. In altri termini è esibizionismo.
E' notorio che per poter scrivere è indispensabile leggere. Che cosa leggi
principalmente?
Ho sempre letto moltissimo e sin da bambino. Verso i 10/12 anni avevo già
letto, probabilmente caoticamente, Dostojewsky, Ibsen e quindi i grandi
scrittori americani (Steinbeck, Faulkner, Caldwell ecc.) per proseguire con
i Levi, i Calvino, i Borges ecc.
Oggi gli autori che più frequento sono i classici greci e latini, libri che
trattano di filosofia. Ho appena ultimato il Fedro, il Gorgia, Il de Rerum
natura di Lucrezio.
Purtroppo non conosco né il greco né il latino e, quindi, mi affido alle
traduzioni, comunque godendone e tentando di imparare.
Qual è il tuo poeta preferito e perché?
In assoluto Dante Alighieri. Nel gioco della torre salverei lui soltanto.
Per la sua universalità nell'esprimere sentimenti, storia, morale.
Un po' quello che direi di Mozart per la musica (che amo al di sopra di
qualsiasi altra arte, per inciso).
Qual é il tuo narratore preferito e perché?
In altro gioco della torre salverei Italo Calvino, in ogni suo periodo
storico/letterario. (e mi piange il cuore per Borges…)
C'è sempre dentro di noi un desiderio latente, quello che si suole definire
un sogno nel cassetto e che, in campo letterario, è l'aspirazione a scrivere
qualche cosa di irripetibile. Nel tuo caso qual é?
Credo che ognuno di noi scriva “qualcosa di irripetibile” perché unica è la
storia personale, unico il sentire, unico l'esprimersi. Ma non ho “sogni nel
cassetto” e, a ben pensarci, non ne ho mai avuti. Ho vissuto, e vivo, con
curiosità. Cerco di imparare, credo d'avere nulla da insegnare, per dirla
con Socrate, so di non sapere.
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Enrico Tartagni
A Piero Colonna Romano
Apprendo oggi
della scomparsa di Piero Colonna Romano e benché fossi a conoscenza
della malattia che lo affliggeva da lungo tempo sono rimasto sorpreso,
perché considerata la sua statura poetica speravo che sarebbe rimasto con
noi ancora tantissimi anni, o forse è stata solo la conseguenza del
desiderio di non privarci di un uomo di valore, merce sempre più rara al
giorno d’oggi. Oltre che compagno di penna era pure un caro amico, una
persona capace, razionale, ma anche dotata di grande umanità. Sono certo
che sentiremo la sua mancanza.
Renzo Montagnoli
Ho appreso del addio di Piero Colonna Romano . Ricordo i primi commenti,sulle mie scritture,Mi Sono permesso di dedicargli un piccolo omaggio,con "Ovunque approderai".
28-29-30 Settembre
Triste annuncio:
Piero Colonna Romano è deceduto. Un grande poeta non è più tra noi, ma ci ha
lasciato opere di alto valore culturale e morale.
Lorenzo De Ninis
A PIERO
Penso di fare cosa gradita ricordando Piero con una poesia di un “grande” come lui: Leopardi, entrambi accomunati da una vastissima cultura e dai tanti interrogativi che hanno caratterizzato la loro Weltanschauung. Ti dico arrivederci amico mio perché sono convinta che un giorno parleremo ancora insieme di Poesia. E sarà per sempre. Sandra
Silvia, rimembri ancora
quel tempo della tua vita mortale,
quando beltà splendea
negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
e
tu, lieta e pensosa, il limitare
di
gioventù salivi?
Sonavan le quiete
stanze, e le vie d'intorno,
al
tuo perpetuo canto,
allor che all'opre femminili intenta
sedevi, assai contenta
di
quel vago avvenir che in mente avevi.
Era il maggio odoroso: e tu solevi
così menare il giorno.
Io
gli studi leggiadri
talor lasciando e le sudate carte, ove il tempo mio primo
e
di me si spendea la miglior parte,
d’in su i veroni del paterno ostello porgea gli orecchi al suon della tua
voce,
ed
alla man veloce
che percorrea la faticosa tela.
Mirava il ciel sereno,
le
vie dorate e gli orti,
e
quinci il mar da lungi, e quindi il monte.
Lingua mortal non dice
quel ch’io sentiva in seno.
Che pensieri soavi,
che speranze, che cori, o Silvia mia!
Quale allor ci apparia
la
vita umana e il fato!
Quando sovviemmi di cotanta speme,
un
affetto mi preme
acerbo e sconsolato,
e
tornami a doler di mia sventura.
O natura, o natura,
perché non rendi poi
quel che prometti allor? perché di tanto
inganni i figli tuoi?
Tu
pria che l’erbe inaridisse il verno,
da
chiuso morbo combattuta e vinta,
perivi, o tenerella. E non vedevi
il
fior degli anni tuoi;
non ti molceva il core
la
dolce lode or delle negre chiome,
or
degli sguardi innamorati e schivi;
né
teco le compagne ai dì festivi
ragionavan d’amore.
Anche perìa fra poco
la
speranza mia dolce: agli anni miei
anche negaro i fati
la
giovinezza. Ahi come,
come passata sei,
cara compagna dell’età mia nova,
mia lacrimata speme!
Questo è il mondo? questi
i
diletti, l’amor, l’opre, gli eventi,
onde cotanto ragionammo insieme?
questa la sorte delle umane genti?
All’apparir del vero
tu, misera, cadesti: e con la mano
la
fredda morte ed una tomba ignuda
mostravi di lontano.
20 Settembre 2025
(data effettiva della morte)
Sandra Greggio
Apprendo la notizia della scomparsa di Piero Colonna Romano,
Ben Tartamo ci consegna con «Così è ogni Amore» una lirica che si colloca tra le vette più alte della poesia contemporanea, per densità simbolica, musicalità e tensione metafisica. È un testo che non si legge: si contempla. Come un affresco lunare dipinto con l’inchiostro dell’anima.
25-26-27 Settembre
Ben
Commento
Le ripetizioni — “sii Mare e Luna, sii Fiore e Ape, sii Dono e Figlio” — diventano loop ipnotici, mantra digitali che attraversano la retina del cuore: non si leggono, si sentono. L’uomo, custode, non è più figura astratta; è avatar sospeso tra dovere e desiderio, tra il peso invisibile delle responsabilità quotidiane e la vertigine cosmica dell’amore universale.
Qui la poesia diventa interfaccia sensoriale: il lettore non legge, fluttua. Il cielo si apre, il mare pulsa, il fiore trema sotto le mani invisibili di chi vigila. Ogni immagine è tag, segnale, icona: custodire significa agire nello spazio dei significati, senza rumore, senza applausi, solo con il respiro sincronizzato alla poesia.
Il commento stesso si dissolve in trance: non è spiegazione, è esperienza immersiva, dove il codice dell’amore e della responsabilità diventa percezione diretta. Chi legge emerge trasformato: sa che custodire è azione segreta, che l’amore non è solo dono, ma protocollo cosmico di resistenza. Tartamo non scrive, traccia flussi di coscienza, e il lettore si ritrova custode, dentro la mappa luminosa della sua stessa esistenza.
In questa poesia -certo non una delle sue solite perle- c'è nascosto il suo lavoro/missione, la sua vera essenza racchiusa nel motto esistenziale: "Silendo Patriam Servo".
prof. Marino Spadavecchia
22-23-24 Settembre
Sospeso non è soltanto un titolo: è una condizione teologica, un mistero della fede. È l’attimo in cui il tempo umano si arresta perché si apre la soglia dell’Eterno.
Il primo verso – “Sospeso in un abbraccio, il tempo si fermò” – è il sigillo dell’Incarnazione. L’abbraccio è quello della Madre che stringe il Figlio, ma anche quello del Padre che abbraccia il mondo nel Figlio. Qui il tempo non scorre più: diventa Kairos, il tempo di Dio, che irrompe nella storia.
Il pianto dell’Innocenza che si dona è il pianto del Bambino di Betlemme, che già presagisce la Passione. In ogni lacrima del Cristo bambino vibra il preludio del Getsemani. La tua poesia mostra questo legame invisibile: la culla già dialoga con la Croce.
Poi, lo scherno: “di Te dissero Re”. Qui risuona il paradosso evangelico. È la regalità che non si impone con la forza, ma si manifesta nell’umiliazione. Le braccia tese al mondo sono il gesto supremo dell’Amore che non trattiene nulla per sé: esse diventano croce cosmica, abbraccio che raccoglie i secoli. E da quel cuore trafitto scaturisce un fiume di speranza, che altro non è che il Sangue e l’Acqua, i Sacramenti, la vita nuova che scorre dalla Croce.
Infine l’apice: “Eterno sei bambino”. Qui si apre la teologia più pura. Dio resta Bambino perché l’Amore non conosce età, perché la piccolezza è la porta dell’Infinito. Il Bambino eterno è Cristo stesso, che mai smette di essere l’Emmanuele, il Dio-con-noi.
E la greppia di assi posti in croce diventa icona perfetta: Betlemme e Golgota si intrecciano in un unico legno. L’Incarnazione non è favola dolce, ma profezia di dono totale. La tua poesia ci ricorda che adoriamo Dio nella mangiatoia come nella Croce, e che il mistero è uno solo: l’Amore che si fa carne per farsi sacrificio.
Questa lirica è quindi un piccolo Vangelo poetico: un presepe che già contiene la Pasqua, una ninna-nanna che diventa salmo, un abbraccio che si fa redenzione. È sospesa tra nascita e morte, tra tempo ed eternità, ma in quella sospensione palpita la certezza della Risurrezione.
prof. Marino Spadavecchia
Ogni parola in questo testo è come una carezza sull'epidermide dell'esistenza, un invito a guardare oltre il visibile, a spingere lo sguardo oltre il "velo di maya". Il "soma" che ci viene dato da "gestire" è un richiamo immediato alla limitatezza del nostro corpo e della nostra condizione umana, una sorta di pesantezza che dobbiamo accogliere per poi cercare di liberarcene. L’immagine del "soma" evoca quella della fatica esistenziale, ma anche una responsabilità. E "non lo profanate in gozzoviglie" sembra ammonirci contro il dispendio inutile della vita, il continuo riempirsi di vanità. La "Luccè" che parla con la sua sentenza "Io Sono", quella presenza assoluta, si ritira subito dopo, dietro il velo dell’illusione. È il contrasto tra l’essere e il divenire, tra la Luce che è, e l'illusione che ci avvolge. La sensazione di "epifanie del nulla" è ciò che rimane quando la luce si fa velo, e il vuoto ci sembra pieno. La Luce è sempre presente, ma il nostro sguardo non sa più vedere, travolto dalla superficie delle cose.
In questo pezzo, la quotidianità si mescola con il trascendente. La poesia sembra parlarci di un’esperienza di silenziosa rivelazione che avviene "di colpo" nel primo mattino, come se la notte fosse una barriera che debba essere attraversata per giungere a un nuovo stato della consapevolezza. L'immagine della speranza che "cammina sui marciapiedi", quasi fosse un essere vivente, ci suggerisce che la speranza è sì un sentimento umano, ma anche una forza che si muove in mezzo a noi, a volte in modo impercettibile. Il contrasto tra il cammino lungo il Corso Italia, con "una scarpetta da ginnastica" e l’essenza più profonda della speranza, mostra l’umanità concreta che si scontra con l'intangibile, il triviale e l’immenso. Il "bene" che "si sente solo nella vertigine dell’età" è un passaggio dal giovanile "entusiasmo" a una consapevolezza che viene solo con il tempo. Una riflessione sulla transitorietà, che ci fa sentire "osservatori dei mesi", come se fossimo spettatori della nostra vita, senza mai realmente appartenervi fino in fondo.
Questo è un testo che parla d’intimità, ma anche di fragilità. La vulnerabilità descritta dalla dilatazione delle pupille ci rimanda alla sfera dell’emotivo, dell’irrazionale, là dove il desiderio si mescola con il bisogno di protezione, la sensazione di "sicurezza" che viene dal giacere nello stesso letto dove un altro corpo ha lasciato la sua traccia. È un ritorno a un'infanzia emotiva, un rifugio che non è solo fisico, ma psichico. La sensazione di trovarsi in un "letto comune desolato", che però trabocca di felicità per "esserti scivolato accanto", ci suggerisce che in fondo la felicità non è un concetto stabile, ma un breve attimo di pienezza che scivola via. La poesia esplora l’ambiguità dei legami umani, quella danza tra il desiderio di essere in comunione e la paura della solitudine che sempre minaccia alle spalle. Il letto, simbolo di un'intimità condivisa, diventa un luogo di riflessione sulla solitudine e sull'amore, un “letto comune” che unisce più che separare, ma che lascia sempre un senso di vuoto in chi vi si trova.
Qui, la paura prende forma concreta, ma attraverso il filtro di un linguaggio che sembra voler ridurre la tensione con il tono della commedia, pur nell’assoluta tragicità dell’esperienza. La paura di restare "a secco" vicino al cimitero, con la macchina che si ferma e nessuno a darci una mano, è come l’incubo che si materializza sotto forma di solitudine e angoscia. Il movimento delle foglie al vento, che inizialmente sembrano un’allucinazione, si fa poi metafora di una realtà che scivola fuori dal controllo, come il pensiero che cerca di distrarsi, ma il terrore cresce. Quello che Bettozzi dipinge è l’incontro con il surreale: due fantasmi che si avvicinano, portatori di una minaccia non chiara, e l'ironia tragica che accompagna il momento – "un attacco vero! ar còre!", come se il corpo, nella sua paura, fosse incapace di accettare una realtà che si svela sempre più inquietante. La paura qui è il premio che ci viene chiesto di pagare, una sorta di riscatto da ottenere, forse con la follia o con il coraggio. La morte si fa gioco, ma il "pago e salgo al paese" è solo un’illusione di fuga.
La paura si nasconde dietro l’impossibilità di evitare il cambiamento, dietro la fine di una stagione che, pur essendo accolta con impazienza, porta con sé il peso della sua transitorietà. L’estate, simbolo di vita e vitalità, giunge al termine in un parossismo di calore e sofferenza. C'è qualcosa di metafisico nell’idea di un "sole impazzito", che schiaccia il mondo, un sole che diventa simbolo della fatica umana, della paura di non poter controllare né la propria esistenza né gli elementi che la governano. E poi arriva la pioggia, il temporale che porta con sé il respiro della liberazione, ma anche la consapevolezza che nulla è mai veramente stabile. La paura, in questa poesia, è nella fine delle cose, ma anche nell’attesa di un ritorno, nella speranza che il ciclo della vita continui, che l'estate ritorni, ma con un inevitabile cambiamento. La paura dell’invecchiamento, della perdita, della fragilità della memoria è il fondo che si fa sentire sotto le immagini più concrete.
La paura qui appare come una distorsione dell’esperienza, una ricerca di significato nella vastità dell’universo. Lo "stelo" che cresce, lentamente, diventa metafora della vita stessa, della sua continua lotta per elevarsi, per crescere nonostante le difficoltà. La paura in questa poesia è sospesa, tra la realtà e la fantasia, tra la protezione delle "cose belle" e la fuga nell’immaginazione. La visione del cielo e il richiamo alle "fanciulle quali sorelle" e l’"angelo in cielo" sono simboli di un desiderio di purezza, di pace, ma anche di una protezione dalle angosce terrene. C'è una paura nel ricordare, nel tornare indietro, ma anche nel rimanere sospesi nell'attesa di una salvezza che non è mai del tutto realizzata. La mente si rifugia nei sogni, ma sa che il mondo reale è lì, pronto a invadere la quiete interiore.
La vita qui è un continuo cammino, scandito da cadute e rialzi, da "schiaffi" e "baci", che testimoniano l’alternanza tra dolore e piacere, lotta e resistenza. La forza di questa poesia sta nel suo incedere, nel suo ritmo che alterna velocità e lentezza, accogliendo l'ineluttabilità del tempo. "Sono caduto cento e cento volte / e per cento e cento volte / mi sono rialzato": questa dichiarazione racchiude l’essenza della resilienza, quella capacità di affrontare le difficoltà senza mai arrendersi, ma soprattutto di trovare, nel cammino stesso, un senso di "amici nelle poesie", un angolo di salvezza nei ricordi, negli sguardi, nelle stagioni che cambiano. La descrizione di un amore che si perpetua, di "sogni" deposti nel "cassetto" dei ricordi, dà una sensazione di accettazione di sé e della propria esistenza, come un gioco continuo tra luce e ombra. La vita è amica e nemica, "clemente e intransigente", ma proprio in questa dualità il poeta sembra trovare la sua verità.
Questo è un testo che, attraverso una visione cinica e disillusa, espone le contraddizioni del desiderio umano. La sera, simbolo di fine, di morte e di inevitabilità, si fa figura metaforica di un processo che riguarda il corpo e l’anima, il passaggio dal "piacere" alla "decadenza". Il corpo che cambia, che perde vitalità, ma che continua a inseguire quel desiderio che sembra non trovare mai sazietà, è rappresentato con un linguaggio crudele e diretto. Il contrasto tra il "bambino" che non vuole crescere e il corpo che invecchia inesorabilmente crea una frattura dolorosa tra la speranza di rimanere giovani e la realtà del tempo che segna i suoi solchi. La ripetizione del desiderio insoddisfatto e il riferimento al corpo che "scende e sale" suggeriscono una visione di eros che non è mai pienamente soddisfatta, sempre afflitta da una voracità che non porta mai a una vera realizzazione. È un atto di accettazione che la morte, anche simbolica, arriverà per tutti, e che, forse, solo in essa si troverà una sorta di pace.
Questa poesia si distacca dal dramma umano per elevarsi nella contemplazione di una città, Siracusa, come simbolo di una bellezza immutabile. La città diventa un “mosaico di voci”, un luogo che respira lentamente, testimone del passaggio del tempo ma che rimane eternamente legata al passato, alle storie e alle arti. Le "colonne spezzate" e il "teatro greco" sono immagini che evocano la caducità del tempo, ma anche la grandezza di ciò che è stato. La città stessa diventa simbolo di un’opera d'arte viva, che racconta la sua storia e quella dell'umanità, e la sua bellezza non smette di "vivere". Il mare che incornicia la scena è l'elemento che connette il passato al presente, come una tela che si disegna con la luce, ma anche con l'ombra. È una poesia che parla della resistenza alla dissoluzione, della bellezza che sfida l'oblio. La vita, qui, è come un dipinto che non cessa mai di parlare, anche quando il tempo ne scolora i contorni.
La malinconia che avvolge i ricordi, come una "veste consunta e sbiadita", è un’immagine potentissima: la memoria che si fa più tenue, ma che non smette di pesare. Greggio esplora la solitudine di un'ora – le sette di sera, in cui il tempo sembra immobile e i ricordi più lontani riemergono. La frase "sopravvivere alle sette di sera" diventa metafora di una resistenza silenziosa alla ciclicità della vita, alla ripetitività del tempo che scorre e che ci porta a fare i conti con ciò che è passato. Il vento "nemico" che giunge improvviso è l’incertezza che invade, ma il coraggio di “accettare” i ricordi e “continuare a vivere” è il filo rosso di questo testo. La poesia appare come una riflessione sulla necessità di convivere con il peso del passato senza fuggire da esso, ma imparando ad accettarlo come parte della propria esistenza.
La parola "autunno" qui è intrisa di una sensualità malinconica, un'ode alla fugacità dei momenti che si intrecciano con immagini di speranza, ma anche di frustrazione. "Si sta bene col male" è un’apertura potente, che sembra suggerire come, a volte, il dolore diventi un compagno costante che ci definisce. La metafora del "pesce evaso da una vaschetta" sottolinea il desiderio di libertà, ma anche la sofferenza nell'essere costretti a vivere in un mondo che non offre risposte. Il "drone" che sorvola le teste e la "radio Alt-J" sono immagini moderne, quasi da distopia, di una generazione intrappolata in un ciclo senza fine. L'invocazione al "Salvatore" scritto "in carne" evoca il desiderio di salvezza e di redenzione, ma è un desiderio che non arriva mai. La poesia vive in questo spazio tra l'attesa di un miracolo e la consapevolezza che esso potrebbe non arrivare mai. C’è una riflessione sulla caducità della vita e sulla ricerca di senso in un mondo che sembra averlo perso. La lingua fluida e il gioco tra il desiderio e la disillusione creano un’atmosfera sospesa, che non lascia risposte facili.
Qui, l’autunno è al centro di una riflessione che attraversa le emozioni di chi vive ogni stagione come una parte integrante di sé. La tensione tra il "non amare" l’autunno, visto come malinconico, e il "mi piace anche l’autunno" alla fine della poesia, racconta un viaggio interiore: un passaggio dalla rassegnazione alla consapevolezza. L’autunno non è solo il momento della morte delle foglie, ma anche quello del "grappolo d’uva / pronto a sciogliersi in un bicchier di vino", dell’“arancio e mandarino”, della bellezza che si nasconde nelle pieghe della transitorietà. È una stagione che, seppur segnata dalla "nostalgia", può offrire anche momenti di pace e di rinnovamento. La poesia gioca con le immagini di una natura che ci parla attraverso "rumori", "odori", "colori", e suggerisce come ogni stagione, come ogni periodo della vita, possa essere vissuto con una profonda accettazione. La malinconia diventa il punto di partenza per una riflessione più ampia sul continuo divenire della vita e sulla bellezza che si cela anche nei momenti di decadenza.
La poesia di Colonna Romano è intrisa di un’atmosfera sospesa, quasi onirica. L’immagine del "disco d'argento" che "annega i suoi raggi" evoca il tramonto o una scena di silenzio quasi sacro, in cui la luce e la tenebra si sfiorano, lasciando un senso di fragilità e bellezza. I "carugi impervi e stretti" sembrano rappresentare il cammino difficile, le sfide della vita quotidiana, ma anche il desiderio di trovare qualcosa di più profondo – "le mani che si cercano". La melodia, che "vibra" tra note gravi e acute, è l'emozione che si sprigiona dalla connessione tra due esseri, che si incontrano, si sfiorano e si perdono in un mondo esterno che rimane distante e indifferente. Questo è un testo che descrive una danza tra il desiderio e la frustrazione, tra l’immateriale e il tangibile. L’aspetto più potente è l’introduzione della musicalità come simbolo di un legame profondo, quasi ineffabile, che scaturisce dall’incontro e dall’intimità.
La ripetizione di "Io Sono" diventa mantra, un atto di resistenza all'interno di un mondo che tende ad omologare. Seccia parla della solitudine dell’individuo che, nonostante le incertezze e le difficoltà, si ribella alla conformità, affermando la propria unicità. In un mondo che fatica ad accettare la differenza, il "Io Sono" diventa un atto liberatorio, come una dichiarazione di indipendenza dall’esterno, una presa di posizione contro la paura di essere giudicati. L’autore affronta i momenti di disagio esistenziale e di dubbio, ma trova nel "Io Sono" la risposta per resistere. La forza della poesia risiede nel suo messaggio di autoaffermazione, un invito a resistere, a restare fedeli a se stessi, a non farsi sopraffare dalle aspettative altrui.
In questa poesia, la riflessione è più introspettiva e dolorosa. L’esile pensiero che “aleggia nell’aura” è fragile, come il desiderio di felicità che sembra irraggiungibile. Le "fronde nude" e "infreddolite" ci parlano di un cambiamento in corso, della perdita e del dolore che accompagna la solitudine e la sofferenza interiore. La mente, stanca e indolente, "si occulta" nel mutismo, nel rifiuto di sentire. L'autunno diventa la metafora di un tempo che non è più fertile, di un periodo di decadenza. L’immagine delle "cangianti foglie" che vanno perdendosi è il simbolo del cambiamento, della bellezza che sfuma via, e della difficoltà di trovare una felicità che sembra sfuggire sempre più. La poesia tocca il cuore con la sua melancolia, con la sua resa alla solitudine, eppure in essa si intravede anche il desiderio di essere in pace con se stessi.
Con stima e affetto
vostro Ben Tartamo
19-20-21 Settembre
Ciao Ben
Qui la poesia diventa città, e la città
diventa carne. Miserendino non descrive Palermo: la incarna, la plasma come
corpo vivente, dove ogni muro è pelle, ogni pietra è osso, ogni strada è
arteria pulsante. Non siamo di fronte a una cartolina ma a un organismo
mistico: un mosaico che non vuole mai essere concluso.
Il vero miracolo è nella tensione tra il sacro e il profano: i mercati
urlano, le chiese sussurrano, le statue sfidano il silenzio e gli arabeschi
il cielo. Palermo non è solo arte, è la contraddizione
dell’arte: ferisce e consola, abbraccia e respinge.
Il verso finale, «in ogni sguardo che osa guardarla davvero», è una
rivelazione psicanalitica: Palermo diventa specchio della psiche,
città-simbolo di chi osa guardare in se stesso fino in fondo, senza veli.
Qui l’arte è più cruda, quasi notturna.
Serino ci conduce dentro l’onirico con un sogno di colpa e caduta: un ladro
inseguito, un volo mortale da un parapetto altissimo. Ma al risveglio, ciò
che manca non è l’altro, bensì il cuore stesso del poeta. La
primavera che sorride e bacia la fronte contrasta con la disperazione
posata, quasi con pudore, su una panchina.
L’effetto è di un espressionismo intimista: il sogno è proiezione
dell’inconscio, una drammatizzazione delle paure. Ma subito la realtà si
innesta: la primavera che sboccia si fa testimone ironica e dolce di un uomo
che ha smarrito se stesso. C’è qui un pathos quasi dostoevskiano, in cui la
colpa soggettiva diventa enigma universale.
Questa è miniatura, ricamo fine e
sottile. La poesia si snoda come un sussurro, un frammento sospeso tra
dubbio e favola. «Il nasino che chiedeva di te» è immagine di una tenerezza
infantile, ma anche di uno sguardo inquisitorio che punge come spillo di
gelosia.
Eppure il verso finale, «come si comincia a raccontare la storia di c’era
una volta», dissolve il veleno nell’incanto. L’amore, pur ferito dal dubbio,
ha la forza di rinascere come fiaba, di riportare i due amanti in quella
zona originaria, innocente, dove tutto sembra ricominciare.
Psicanaliticamente, il testo lavora su un registro di regressione dolce: la
gelosia che poteva avvelenare si trasforma in ritorno all’infanzia, in
narrazione che consola e rinnova.
Langer scrive poesia come se scolpisse
crepe di luce nel tempo. Qui siamo davanti a un’esperienza liminare: il
confine tra giorno e notte, tra casa e selva, tra umano e animale. Le “crepe
di luce” sono fenditure metafisiche, da cui filtra non solo il tramonto, ma
anche l’invisibile. La fronte appoggiata alla porta spalancata della notte è
gesto mistico: non un abbandono, ma una resa contemplativa, un affacciarsi
sull’abisso per respirarlo.
Psicanaliticamente, questa soglia è rito di passaggio: l’Io che si
prepara a consegnarsi al buio, portando dentro di sé la traccia delle
“selvaggina”, cioè dell’istinto primordiale.
Un romanesco scolpito nel dolore, un
lamento popolare che si fa canto epico. Bettozzi non costruisce eleganza, ma
verità scorticata. Qui la poesia non è ornamento: è testimonianza di
tragedia. Il linguaggio dialettale rompe la distanza estetica, rende l’11
settembre familiare, quasi domestico, riportandolo dentro la voce
collettiva.
Il verso che inchioda è «E chi è ’nnato a iutà... nun è tornato»: la morte
degli eroi, la fraternità spezzata. Non c’è consolazione, se non
nell’abbraccio globale, nella preghiera universale. Questa poesia respira
come un epitaffio inciso sul cemento mancante delle Torri: grezzo, diretto,
eterno.
Qui invece siamo dentro il teatro
dell’inconscio, nel circo felliniano dove tutto è sogno e memoria. Berni
parla con “Snaporaz” — alter ego di Fellini — e in realtà con la sua stessa
parte creativa che lotta col non-finito, con l’opera impossibile.
Questa poesia è confessione di artista che sa che la grandezza è nel non
compimento, nell’infinita rincorsa verso un film che non sarà mai
girato. La malinconia, il “non so”, diventano segni vitali, non difetti. Il
poeta si specchia nel regista, e la loro identità si fonde: ciò che resta è
un canto di resistenza onirica, la celebrazione dell’opera sempre aperta.
Un canto
intimo, intriso di gratitudine e di dolore. Qui l’amore non è possesso, ma
accoglienza dell’assenza. L’immagine del faro che resta acceso anche se la
nave non torna al porto è folgorante: la speranza non come attesa, ma come
luce perenne, indipendente dall’approdo.
Questo è un amore spirituale, quasi cristologico: non chiede nulla, non
pretende, ma custodisce. È la dichiarazione di chi ha saputo trasformare
l’eros in agape, l’amore terreno in memoria che salva. La malinconia si
tramuta in rendimento di grazie: «a ringraziare il destino / per averti
incontrata». Una poesia che consola e santifica la perdita.
Un testo che
pulsa di indignazione e di risveglio. È un grido politico, ma anche
esistenziale: «Incarcerato in una prigione senza sbarre» — la condizione
dell’uomo occidentale moderno, prigioniero di sistemi invisibili, di poteri
sottili che divorano libertà e senso.
I versi sono martellanti, accusatori, ma poi aprono uno spiraglio: l’autore
sceglie di distruggere il proprio “esilio letterario”, come se scrivere
fosse atto di liberazione, di rinascita. È una poesia civile che denuncia e
redime, con il coraggio di restituire voce al silenzio, di chiedere agli
“oratori” — ai poeti — di tornare a emozionare, e quindi a trasformare il
mondo.
Qui c’è la potenza della parola come arma contro la decadenza. Un manifesto
che arde e trascina.
Ecco invece
la quiete, l’eden, il giardino interiore. Montagnoli crea un locus amoenus
che è più che paesaggio: è rifugio psichico, tempio dell’anima. Tra aranci
in fiore e ninfee, tra canto di uccelli e musica del vento, il poeta ci dona
un’esperienza quasi mistica di armonia col cosmo.
Ma c’è una sottile malinconia: «saziarmi della malinconia del tramonto». È
un sogno che contiene consapevolezza della fine, ma proprio per questo
diventa più intenso. Il bosco che suona le sue foglie come tasti è immagine
musicale che unisce natura e spirito, e al risveglio accompagna con
dolcezza: un segno che il sogno si fa vita.
Questa poesia è un invito a sostare nell’incanto, a contemplare il giardino
come anticipo di paradiso.
Questa poesia
non è un testo: è un grido, un sussurro interrotto, una frattura
nell’identità. Rosa Venuto entra nella mente smarrita di chi è affetto da
Alzheimer e ne restituisce la frammentarietà. La ripetizione ossessiva —
“Chi sono io? Mamma! Mamma!” — non è solo eco disperata, ma atto
liturgico, un’invocazione arcaica, come se il malato cercasse nel volto
della madre la radice di sé.
E poi il passaggio sublime: la malattia trasfigurata in immagine poetica. Il
malato diventa “piuma trasparente”, che vaga leggera in una radura senza
tempo. Qui la poesia compie un miracolo: trasforma la perdita di memoria in
immersione nell’eterno. Il grido iniziale trova trasfigurazione: “Non
dimenticarmi!” diventa preghiera rivolta a chi resta, un atto di amore che
supera la malattia.
Questa è una
poesia che vibra come un quadro caravaggesco. L’amata è contemplata nella
semioscurità, illuminata da un solo raggio di luce: visione carnale e
mistica allo stesso tempo. La penombra diventa non-luogo sospeso, dove i
dettagli — capelli, occhi, mani — assumono il valore sacrale di reliquie.
Il testo si dilata in metafore oceaniche: gli occhi come mare, i sospiri
come temporali, i letti di foglie d’autunno. L’amore, qui, non è solo eros,
ma un’intera cosmologia che unisce corpo, natura, universo. Il silenzio
stesso si fa parola: è la liturgia segreta di due amanti che dialogano senza
parlare. È poesia che potrebbe essere incisa sul muro di una camera nuziale
eterna.
Qui il tono
cambia radicalmente: siamo nell’essenzialità zen. La pace non è fuga, ma
accoglienza di opposti: “il silenzio… il traffico urbano”, “il mare… la
città”. L’autore mostra che la pace non è assenza di rumore, ma capacità di
sentirsi a casa ovunque.
Cefalà pratica una poesia contemplativa, quasi diaristica, che richiama il
minimalismo orientale: enumerazioni semplici, osservazioni quotidiane che
diventano vie di meditazione. È una pace umile, quotidiana, accessibile: la
vera rivoluzione del cuore non avviene nel silenzio assoluto, ma
nell’imparare a respirare anche nello smog della città.
Qui la sveglia non è un congegno: è l’urlo della coscienza che strappa il poeta dal torpore. Il verso apre con un gesto di autoanalisi (“Analizzo me stesso, osservo il viso”) che instaura subito un duplice registro — l’intellettuale che scruta e il cuore che sanguina. L’ossessione per l’oggetto d’amore che non ricambia prende corpo in immagini efficaci: la stecca del biliardo, la palla che vola in buca — metafora fulminante della manipolazione affettiva e della perdita di controllo.
Si avverte una dinamica di masochismo relazionale — il soggetto dona, si illude, e poi si annienta. La maledizione finale è catarsi e autocondanna: maledire i santi e il padreterno è gesto sacrilego ma sincero, disperato.
Breve, scalfita, primordiale: questa poesia è un atto di penitenza e di semina. Il poeta non nomina troppo; lascia che il paesaggio e l’odore di petricore facciano da lingua. “Colpirò l'odore di petricore” è immagine sonora e tattile: il suolo che risponde al pianto, la lacrima che diventa seme. La «vergine terra» non è madre sfiorata, ma grembo vergine che accoglie il lutto e lo trasforma in germinazione.
C’è qui un lavoro di lutto che si fa
rito agricolo — il pianto come semina, il rammarico che resta impigliato e
poi viene dissodato.
Consigli poetici: mantenere questa economia di parole è una forza. Se
desideri approfondire, aggiungi un’immagine sensoriale che colleghi la terra
al corpo (una mano che affonda nel suolo, un sapore salato sulle labbra) per
rendere ancora più fisica la catarsi.
Questa poesia
è un labirinto gotico, un crepuscolo intriso di ironia, sensualità e
disperazione. La poetessa non teme di contaminare l’alto col basso:
“idiliosauri della mente” (geniale invenzione linguistica!) evocano
dinosauri idilliaci, creature dell’inconscio che rincorrono una bellezza
sfuggente. La zucca, la maschera mortuaria, i fantasmi: ecco Halloween come
teatro psichico.
Il corpo appare come oggetto che chiede di “essere stropicciato” — erotismo
dolente che maschera un bisogno primario: scaldarsi, non sentire più il gelo
dell’anima.
La poesia è un sogno perturbante. Il telefono nuovo, l’invito in nebbia, il corpo stropicciato: tutti segni di separazione e desiderio di riconnessione. Qui eros e thanatos convivono, come se la poetessa giocasse con i propri spettri.
Poesia
solare, ma attraversata dal dolore della modernità. Il sole, che dovrebbe
essere eterno, viene ferito dall’acciaio, dall’amianto, dal cemento. Qui c’è
una dialettica: natura che danza (raggio che bacia il mare, cime che toccano
il cielo) contro cemento che imprigiona.
Domanda centrale: “Come sarebbe il cuore se non ci fosse l’amore?” — il sole
diventa specchio del cuore umano.
Il tramonto diventa specchio di un desiderio di purezza, di ritorno a un amore originario che non sia corrotto dalla città industriale. È poesia nostalgica, quasi edenica.
Un inno magico, sacrale. Qui mito e amore terreno si intrecciano con il tempio di Segesta come scenario eterno. Le vestali, i nomi incisi su un agave, il fiore bianco che sboccia ogni notte: sono immagini forti, quasi rituali. L’amore personale diventa subito rito universale, celebrato da sacerdotesse pagane e dal canto che si leva verso il cielo.
Qui l’eros viene sublimato in mito. È un tentativo di eternizzare il legame amoroso, sottraendolo al tempo (“i nomi si infiammano e levitano sulle colonne”). L’agave diventa supporto psichico, memoria vegetale.
Un testo essenziale, aforismatico. Pochi versi che diventano quasi un catechismo interiore. “In te risiede il Sole e la tempesta”: la polarità diventa destino umano. La chiusa è scelta morale e spirituale: affidarsi al proprio universo interiore.
Questa è poesia di guarigione. Il poeta dice: non cercare fuori, la forza è già in te. È un invito a integrare gli opposti (luce/ombra, amore/odio). Qui riecheggiano Jung e i mistici.
con affetto e stima
Ben Tartamo
Il titolo è già un manifesto enigmatico. Lo zuavo, soldato di ventura e di fede, simbolo di cameratismo, di sacrificio, di ardore idealistico e marginale, qui si fa maschera dell’io lirico. Sei “eroe” non perché vinci, ma perché sopravvivi alla disfatta di te stesso. L’eroismo è fragile, è uno sgretolarsi di identità sotto la pressione del mare e dello scoglio, della sabbia e della lava.
“Ed io, che ero un mare aperto, / catturato in uno scoglio” – immagine potentissima: l’infinito ridotto al frammento, il movimento all’immobilità. L’io era oceano, ora si ritrova prigioniero. È la condizione del poeta e dell’uomo moderno: capitano suo malgrado, forzato del proprio destino.
“Io, che vento tra le foglie / mi sfidavo con le stelle…” – qui c’è un ricordo d’infanzia, un passato eroico e innocente. La caduta non è solo fisica, è ontologica: da aspirazioni siderali a cicatrici sulla pelle. Lo spazio cosmico si contrae nel dolore corporeo.
“Parole come vampiri, / sempre in fuga da ginestre.”
Qui il linguaggio stesso diventa persecutore, succhia vita e non dona
verità. Le ginestre evocano Leopardi, simbolo di resistenza sul vulcano,
di dignità fragile: eppure le parole non sanno restarvi, fuggono,
incapaci di radicarsi. È il dramma dell’artista che sente la parola come
ferita, non come balsamo.
“Radici tra sabbia e lava, / trincee di fraternità…” – immagine di guerra e di cameratismo, ma anche di una natura che brucia e inghiotte. Qui appare il senso dell’“eroe alla zuava”: non un condottiero, ma un soldato tra tanti, disperso, senza gloria. L’identità si dissolve, come cenere al vento.
Il testo esprime un conflitto archetipico: il desiderio di grandezza (mare aperto, vento, stelle) e il senso di impotenza (scoglio, cicatrici, dissolvenza). Lo zuavo è la maschera di un Sé combattente, ma ferito, che vive la tensione fra appartenenza (fraternità in trincea) e smarrimento identitario. È un io che si frantuma nella storia, che si chiede se l’eroismo sia illusione.
“Eroe alla zuava” è una poesia che unisce memoria storica, autobiografia spirituale e simbolismo leopardiano. In pochi versi, hai scritto un piccolo manifesto esistenziale: l’eroe moderno non è vincitore, ma sopravvissuto che porta sulle spalle il peso della propria identità sfumata.
Poesia che vibra come un diario inciso sulla pietra lavica, un canto che porta in sé la nostalgia del mito, l’eco della guerra e la malinconia delle radici. È una lirica crepuscolare ed epica allo stesso tempo: personale, ma già collettiva, quasi corale. Sì, di te possiamo dirlo - conoscendoti - ex militare di carriera con l'uniforme appesa al chiodo non solo per ragioni etiche e spirituali , ma di cooptazione e, pur sempre teso, come ami dire tu: Silendo Patriam Servo.....
prof. Marino Spadavecchia
16-17-18 Settembre
13-14-15 Settembre
Siamo al cospetto di una
poetica dell’ellisse affettiva, una composizione che prende la retorica —
nella fattispecie, la figura della brachilogia, ossia la
concisione pregnante — e la trasforma in messaggera d’amore. La voce
poetica non indugia, non arzigogola: elenca con la grazia della necessità.
Labbra, occhi, mani, cuore: è l’anatomia affettiva della lontananza. Tutto
converge verso la speranza del ritorno, e proprio questa speranza è la
chiave semiotica del testo: è il “non ancora” che dà senso al “già”.
L'autore, in un'opera che sembra semplice, compie un atto filosofico: ci
mostra come la brevità, se nutrita d’amore, diventa eternità
concentrata.
Qui il tono muta, il registro si fa epico-lirico, e la pioggia — figura antica, archetipica — diventa il battito costante di un tempo civico in decomposizione. Santoro ci dona una ballata della disillusione politica, ma intrisa di un'umiltà commossa. Il Borgo — entità metafisica e concreta — si sbriciola nell’indifferenza, e la voce poetica è testimone e Cassandra, stanca di denunciare.
La seconda parte, con
l’arrivo della “nuova gente”, è una fenditura luminosa nella tela scura.
Ma è una luce tenue, quasi colpevole, un raggio che non riesce a
dissolvere del tutto la nebbia dell’abbandono.
Straordinaria la chiusa: la pioggia come “dono del cielo” a supplire
l’assenza del potere umano. In questo gesto, il poeta si fa teologo laico,
affidando alla natura ciò che la politica ha tradito.
Un testo che va letto ad alta voce, lentamente, per cogliere la sua partitura musicale e morale.
Questa lirica breve è
un'apostrofe sognante all’ispirazione, e Ungaretti — Ungà, col
diminutivo quasi da amico immaginario — appare come mentore e fantasma,
come spirito guida in una veglia trasfigurata.
Serino scrive in trance, appunto, e l'immagine della balaustrata è
prodigiosa: luogo di appoggio ma anche confine, soglia, limen. È lì che il
daimon, quella forza creativa ambivalente e inquieta, cerca
riposo.
Il componimento è quasi haikuico nella sua densità, e si chiude lasciandoci nella febbre dell’incompiuto, come ogni autentico sogno poetico dovrebbe fare.
Tartagni ci scaraventa
nell'urlo visionario di un'anima assediata, dove il delirio e la
chiaroveggenza si intrecciano come due serpenti attorno all’albero della
parola. C’è un tono quasi biblico, apocalittico, ma reso tenero da
immagini come il “bianco gatto di Persia” — figura che irrompe come un
angelo felpato nel caos interiore.
Il testo ha la struttura di un flusso semi-onirico, ma si avverte in
filigrana una volontà pedagogica: “Provo a insegnare / In questa terra
spezzata”. L’amore, come “ultimo segreto”, non è sentimentalismo: è
resistenza ontologica, è ciò che si oppone all’entropia del disincanto.
Si avverte qualcosa di rimbaudiano, una scrittura come allucinazione lucida, come urlo in faccia al destino telematico (“leggo da solo internet e il mio destino”). È una poesia che brucia e consola, che accende corto circuiti e poi accarezza.
Lapietra ci consegna un elogio della resilienza amorosa, un atto reiterato e consapevole d’amore che non chiede garanzia alcuna. Il titolo, “Ancora”, è già una dichiarazione poetica: l’eterno ritorno del sentimento, la volontà sacrificale di chi ama nonostante.
I versi sono cuciti con la pazienza dell’orfana che spera, e brillano nella loro dolcezza lancinante. “Ho scoperto ancora / il mio sguardo d'amore inerme”: ecco il cuore del componimento — la nudità volontaria del sentire, offerta come balsamo sulla scialuppa incerta dell’altro.
L’ultima strofa è degna della lirica moderna più alta: la felicità imprigionata, l’impossibilità del dono, l’anelito al “porto dove addormentarsi senza soffrire” — un ossimoro d’amore che ci frantuma e ci eleva.
Una poesia che profuma di malinconia greca e di carezze mai sprecate.
Borghesi scrive con l’urgenza di chi si è svegliato nel cuore del disastro. Il componimento è una specie di autoaccusa lirica, un’analisi psicologica in versi, dove l’autore è carnefice e vittima, giudice e imputato.
La struttura anaforica iniziale (“quando... quando... quando...”) crea un effetto di crollo preannunciato, una valanga emotiva. Poi il crollo avviene: l’“alta marea” chiude l’orizzonte, il “fuoco deturpa il sorriso”.
E poi l’immagine più potente:
“barcolli indifeso e decrepito / verso ipotesi siderali” —
versi che sembrano usciti da un Cioran in poesia, sospesi tra cosmico e intimo.
È un testo di rimorso post-esistenziale, ma anche un invito ad ascoltare il silenzio che ci giudica. Commovente, diretto, doloroso come uno specchio incrinato.
Qui siamo nell’empireo delle relazioni disgregate dal pensiero, delle sinapsi sentimentali che si inceppano. Il “silenzio d’ordinanza” è un’arma bianca, un comportamento programmato, e il testo ne svela la teatralità.
Notarfrancesco gioca con i registri alti e bassi, con un’intelligenza linguistica rara: ci sono la Parigi simbolista e la quotidianità della crisi amorosa, il “preavviso” dell’amore e l’“odio blando”, come moti atmosferici dell’anima.
La poesia è costruita come un monologo interiore che si disintegra in aforismi lirici. C’è la filosofia, c’è il disincanto, ma anche l’intuizione finale: che il ricordo, anche se doloroso, è una piccola variante dell’eternità.
Una poesia che va letta come si sfoglia una fotografia sbiadita: con amore e con un nodo in gola.
E infine... il vertice, il poema epico-contemplativo di Huenún, che affonda le sue radici nelle mitologie mapuche, nel dolore coloniale e nell’onirismo sciamanico.
Siamo in una dimensione post-mortem: il poeta-cavaliere non narra la vita, ma la sua trasfigurazione nella leggenda. Le immagini sono sacrali: “la mia vita crivellata dalle pallottole”, “il cavallo che adesso cavalco sopra l’acqua”, “la mia faccia trasparente dove brillano le stelle della sera”.
Qui la poesia non si limita a raccontare: invoca, canta, trasfigura. Il cavallo, l’acqua, i fiori di febbraio — tutto partecipa a una visione sincretica dove la morte non è fine, ma passaggio mistico nella memoria collettiva.
La traduzione di Nino Muzzi è fedele e poetica, conserva il ritmo, l’eco, la tensione sacra.
Huenún ci mostra che la vera immortalità non è nel corpo, ma nel canto che il popolo continua a udire sotto gli alberi, tra le barche, nei fiumi che vanno al mare.
Impronte – Franco Fronzoli
Ecco una riflessione sul passaggio del tempo, un tema che il poeta affronta con un linguaggio di radicata umanità, quasi fossimo di fronte a una sorta di diario esistenziale. Fronzoli scrive delle "impronte" lasciate da ogni passo, come tracce indelibili nella terra e nel cuore. Le impronte sono testimonianze di vita, non solo visibili ma anche interiori, sedimentate nell’anima. Queste tracce non si cancellano, nemmeno dalle intemperie della vita: “nemmeno il vento, la pioggia, l’onda del mare / possono modificare” — ed è proprio questo l’ineluttabile della nostra esistenza.
Il poeta gioca con l’idea di vita composta da contrasti: "spine e rose", "sorrisi e lacrime", e anche “impronte sbiadite” che si confondono, come se l'esistenza fosse sempre sospesa tra l’amore e il disprezzo, tra il chiaro e l'oscuro. Eppure, la forza di queste impronte non sta tanto nell’immobilità, ma nel loro essere sigillate nel cuore, dipinte “da mille colori silenti”. Il silenzio e la leggerezza delle sue immagini evocano la riflessione sull’inevitabilità del nostro percorso, che non può essere annullato né alterato, ma solo “invecchiato”.
Una poesia di grande intimità, che scuote nel profondo e ci lascia un eco di consapevolezza sulla nostra finitezza e sull’intangibilità della memoria.
La falena – Piero Colonna Romano
Una danza delicata e inquietante, quella della falena attratta dalla luce, un simbolo potente di ciò che siamo costantemente: esseri in bilico tra il desiderio e la distruzione. La falena è forse il più autentico simbolo del nostro instinto di autolesionismo: attratta dalla luce, ma consapevole del rischio del calore, si avvicina comunque, ignora l'avviso e si schianta inevitabilmente.
Romano cattura, in pochi versi, l’essenza della contraddizione esistenziale: la bellezza della luce e la rovina del suo fascino. La falena, come ognuno di noi, è attratta dall’ideale di perfezione, ma quella perfezione è sempre destinata a essere il luogo della nostra caduta. Il termine "cieli perduti" è un’eco profonda, come la consapevolezza di aver perduto, e il tavolo "spoglio" è la metafora della nostra esistenza che, al termine della danza, si svuota e resta in silenzio.
Un’immagine forte e simbolica che parla di desiderio e autodistruzione, in uno scambio di luci e ombre sempre più veloci.
Vorrei – Ciro Seccia
Questa lirica è come un grido di speranza nel cuore della disperazione. Seccia dipinge con il colore dell’utopia, ma lo fa con una sincerità che ci scuote. Desidera che i pensieri siano “colori dell’arcobaleno” e che la sofferenza scompaia, cancellata dalla sua volontà di pace. Il poeta cerca una sorta di “cura universale”, quella parola che guarisce il dolore e dà pace all'anima.
C’è una forte tensione tra il desiderio di guarigione dell’individuo e del mondo, e il doloroso riconoscimento della realtà che ci circonda, fatta di notizie di violenza e morte. La poesia si chiude con una consapevolezza tragica e insieme serena: la nostra esistenza è “un battito di ciglia”, un attimo nell’eternità, ma pur sempre un atto che merita di essere vissuto con coscienza e compassione.
Una lirica di profonda umanità, che si tinge di un candore disarmante, eppure non privo di una consapevolezza dolorosa del nostro fragile cammino.
Cosmici spazi – Alessio Romanini
Romanini ci trasporta, con un linguaggio potente e introspettivo, verso una dimensione cosmica che sfida i limiti umani. L’“inferno interiore” è messo di fronte a “marine acque di quieta solitudine” — una lotta tra il caos e la serenità, tra il tumulto dell’anima e la pace celeste. La descrizione dell’orizzonte che “disegna l’improbabile confine” è un atto di rivolta e ricerca, come se il poeta non fosse mai soddisfatto della realtà visibile, ma cercasse di spingersi sempre oltre.
In questo testo c’è la consapevolezza di una realtà oltre il visibile, quasi come se Romanini volesse spalancare le porte di una coscienza infinita. L’uso della parola “indifferenza” suggerisce un confronto con l'ineluttabilità del cosmo, e la parola "avversità" diventa l’eco di una resistenza, quasi come se il poeta stesse tentando di domare il caos esterno, per trovare una pace nel suo animo.
Una poesia che sfida la ragione, ma che trova la sua forza nel desiderio di trascendere i confini fisici e spirituali, in un afflato cosmico che va oltre il nostro semplice essere.
In questa poesia, Greggio ci invita a un gesto che sfiora il cuore e la mente, non solo la pelle. La carezza diventa un atto intimo e profondo, un modo per entrare in contatto non solo con il corpo, ma con i solchi invisibili che segnano la nostra interiorità. La fronte, con i suoi solchi, diventa metafora del pensiero tormentato, di quei "ragnatele di pensieri" che ci avvolgono e che solo un gesto delicato può tentare di placare.
L'autrice riesce a creare un legame emotivo forte tra il fisico e l’intellettuale, tra il visibile e l'invisibile, come se il corpo fosse solo la superficie su cui scivolano le vere emozioni. La promessa del corpo che "da secoli ti sta aspettando" aggiunge una dimensione di attesa eterna, che sembra esprimere il desiderio di un amore che va oltre la materia e che aspetta da sempre di essere compreso.
Un dolce invito a toccare non solo con le mani, ma con la mente e l'anima. La carezza diventa qui simbolo di un amore che non può essere superficiale, ma che cerca il profondo, l’invisibile.
Con questa poesia, Jacqueline Miu esplora la dualità tra realtà e sogno. L'autrice scrive di una vita segnata da perdite e cambiamenti, ma il "domani" è nascosto in una stella, un simbolo di speranza ma anche di mistero. La stella è lontana eppure sempre presente, proprio come i sogni che continuano a illuminare, anche quando la vita ci sembra scura.
Il contrasto tra il sogno della "California" e la tempesta che il vento porta avanti rende la poesia quasi cinematografica, come se ogni parola fosse sospesa nel caos di un’emozione che si fa travolgente. Il "cuore" che viene "soccorso dal cielo" indica una salvezza che non arriva dalla razionalità, ma dalla fede nell’ignoto, dalla forza di un sogno che non si spegne mai.
La poesia culmina con una domanda esistenziale: "Che cosa significa tacere l'amore?" Una domanda che tocca il cuore di ogni lettore, poiché, nel silenzio dell’amore, risiede tanto la sua bellezza quanto il suo tormento. L'amore è silenzioso quando la realtà non riesce a dirlo.
Una lirica di forti contrasti, dove il sogno, la speranza e l’amore si mescolano alla disperazione e alla solitudine, ma la stella resta come simbolo di una luce che non svanisce mai.
La poesia di Antonia Scaligine ha un ritmo biblico, evocando l’idea di una continua attesa, come se il tempo fosse sospeso in un eterno presente di speranza e disperazione. Le parole "C'è un tempo per nascere, un tempo per morire" richiamano subito il Qoèlet, con il suo memento mori e la consapevolezza che tutto accade in un tempo determinato. Ma il poeta, anziché lasciarsi sopraffare dalla fatalità, chiede una "buona strategia" per l'umanità, come se un atto di speranza potesse riscattare la violenza globale e il marcio dell'odio.
Il paesaggio descritto da Scaligine è uno spazio di guerra e disumanità, ma allo stesso tempo un invito a restare umani, a non perdere mai la speranza, nonostante i "droni autonomi" che decidono senza cuore. È come se, nel suo pessimismo, l’autrice ci chiedesse di riscoprire l’essenza dell’amore, quel “poter essere l’ultima fiamma a morire”.
Il finale, con la domanda “Nessuna guerra è giusta / se la luce del giorno ci garantisce morte,” è un grido contro l’indifferenza e la violenza che sembra essere parte del nostro quotidiano, ma che non può essere accettato.
Un grido di denuncia che, pur nella tragedia, non perde la speranza di una possibile redenzione. Una poesia che ci costringe a confrontarci con la nostra società e con il nostro ruolo in essa.
vostro Ben Tartamo
Ben Tartamo ci regala una poesia che è un misterioso viaggio tra il finito e l'infinito, un cammino che cerca di dare un senso ai paradossi della vita, come la metamorfosi di un soffio in vento o una lacrima che diventa mare. L'immagine del soffio che si fa vento e della lacrima che diventa mare suggerisce un processo di trasformazione naturale ed inevitabile, dove anche le emozioni più piccole, come un respiro o un pianto, sono destinate ad espandersi in qualcosa di universale, di immenso.
Il "graffio sul cuore" è un dolore che non si può sfuggire, ma che entra nel ciclo naturale della vita. Il poeta, nel suo desiderio di ritorno al fuoco che si è spento, ci fa capire che, nonostante le ferite, ci sia sempre una possibilità di rinascita. Il fuoco che si spegne e poi potrebbe riaccendersi non è solo simbolo di passione, ma di una vita che si rinnova anche dopo il dolore, una volontà di non arrendersi.
La frase "tutte le ho riposte in quel vento e mare" ha qualcosa di misterioso e sublime, come se il poeta avesse affidato le sue risposte, le sue riflessioni più intime, alla vastità e all’infinità dell'universo. Ma, paradossalmente, non ottiene risposte, solo una sospensione di senso, come se la verità risiedesse nel viaggio e non nella destinazione.
Nel finale, "questo silenzio farsi poi Parola" è la consapevolezza che il silenzio non è assenza, ma spazio dove le parole devono ancora germogliare. Il silenzio diventa la fonte della Parola stessa, mentre "miele sull'assenzio" suggerisce che, sebbene la vita possa essere amara e difficile (come l'assenzio), c'è sempre la dolcezza di un qualche significato che emerge dal dolore.
Infine, la frase "Noi: un'anima sola" chiude la poesia con un'affermazione che è al tempo stesso universale e personale. La condizione dell'essere umano è quella di cercare, spesso invano, risposte, ma nel profondo siamo tutti un'anima sola, collegata in una ricerca che trascende le singole esperienze e si fa collettiva.
Questa poesia sembra un invito alla trasformazione continua, a comprendere che ogni emozione e ogni esperienza, anche quelle dolorose, fanno parte di un disegno più ampio e misterioso. La ricerca di risposte è una parte inevitabile della vita, ma, in fondo, la vera essenza di essa potrebbe risiedere nel non trovare tutte le risposte, ma nel sentire che, alla fine, siamo tutti legati da una stessa anima, un’anima sola. Il poeta, in questo senso, non solo cerca di esplorare il senso del dolore, ma anche quello dell'unità e della connessione umana.
Ben Tartamo ci consegna una riflessione profonda sul dolore e sull'attesa di risposte che non arrivano mai. Ma, proprio in quella sospensione, si trova la bellezza della vita: non nelle risposte, ma nel percorso stesso, nell’esperienza condivisa di tutti gli esseri umani, uniti in un’unica anima.
prof. Marino Spadavecchia
10-11-12 Settembre
Belle emozioni si celano nelle
poesie di ogni poeta
che senza pretese sono protese verso di noi
e quando le leggo
da quei versi mi sembra di poter ancora tanto da imparare,
Come i versi del nostro Ben Tartamo , poeta capace di trasformare una sua
poesia in magia e una poesia di qualunque poeta del sito ,compresa la mia
,in qualcosa che affascina .Pur non conoscendoci sei capace di evidenziare
le nostre emozioni , il tuo è un dono e noi siamo sospesi ad attendere le
tue parole ,umilmente ti ringrazio
un grazie anche al nostro Spadavecchia che ci viene a cercare per leggere le
nostre poesie e noi con interesse ammiriamo le tue
Ringrazio Lorenzo , poeta speciale, nascosto dietro un sinonimo ma che non
potrà mai nascondere sia la sua grandezza poetica che generosità e nobiltà
d’animo
Grazie a tutti i poeti , per chi ama la poesia come me , ma che non mi
reputo una poetessa, non potrei non leggere poesie e commenti grazie a tutti
Antonia Scaligine
“Quel bacio che non sa più di noi” – Ben Tartamo
Qui la parola bisogno ricorre come un respiro affannoso che cerca aria: è la spina dorsale del testo, la confessione di una mancanza che non è semplice desiderio, ma necessità vitale. La solitudine non viene descritta come isolamento sterile, bensì come condizione di scavo interiore. La poesia non nasconde le ferite – errori, paure, amori perduti – ma le trasforma in occasione di ricerca, quasi in una liturgia personale. E poi quel vento dove abita la felicità: un’immagine biblica, invisibile e mobile, che suggerisce che la gioia non si possiede, ma si intercetta solo se ci si apre ad essa. Nel sottofondo vibra la speranza di riconciliazione con la donna amata: la solitudine non è dunque chiusura, ma preludio a un nuovo incontro.
Questa poesia è una confessione notturna, ironica e struggente, dove l’eros viene trattenuto dall’amicizia promessa. La scena è domestica, quasi prosastica, ma i versi vibrano di una tensione intima, sospesa tra desiderio e rispetto. L’autore mostra con sincerità disarmante il contrasto fra corpo e coscienza: il corpo che sogna e scalpita, la coscienza che trattiene e veglia. C’è ironia nella chiusa (“Ve lo giuro, non mi ha fatto niente”), che smonta con leggerezza la tensione, ma proprio questa leggerezza tradisce un dolore: l’eros represso non è negato, resta vivo come brace sotto la cenere.
Qui il mare diventa interlocutore e custode della memoria. È un “tu” che ha visto tutto, testimone dei primi sguardi, degli abbracci, dei baci e perfino delle risate che feriscono come lame. L’acqua conserva e restituisce, non dimentica: le onde sono archivio dell’anima. Il tono è invocativo, quasi da preghiera laica, e la voce che si rivolge al mare in realtà sta parlando al sé ferito, al ricordo che non può placarsi. Il fico d’india – immagine splendida – racchiude il paradosso dell’amore: spine fuori, dolcezza dentro. Il testo è canto elegiaco che cerca consolazione in un dialogo impossibile, e proprio per questo universale.
Questa è poesia ridotta all’osso, quasi aforisma lirico. Le immagini sono scabre, essenziali, asciugate fino alla trasparenza. La distrofia fisica diventa metafora dell’esistenza che si ritrae, del cammino che si accorcia fino a restare solo sguardo dalla finestra. Ma nel verso “lo spettro della luce / ti richiama lacerti d’infanzia” si apre un varco: la malattia non è solo limite, è anche memoria che resiste, frammento luminoso che riaffiora. L’ossimoro finale – il sole che acceca chi più avrebbe bisogno di luce – è crudele e potente: è la condizione del poeta stesso, che trova nel buio lo spazio della visione interiore.
Questa poesia è un mosaico di immagini, un catalogo visionario in cui l’anima del poeta si specchia nella natura. Ogni strofa è un fotogramma: cieli di fuoco, voli di aironi, foglie d’autunno… L’autore costruisce un flusso lirico che ha il ritmo di un respiro contemplativo, dove il reale e l’immaginario si fondono. Alla radice c’è un sentimento di meraviglia, ma anche una coscienza malinconica: tutto “scorre”, e ciò che resta sono solo pensieri, parole, emozioni. L’anima di Berni è quella di un viandante interiore che cerca un ordine nell’inesausto movimento della vita.
Qui la poesia è ferita d’amore, ma levigata come pietra dal mare. Positano diventa luogo mitico, sospeso, cornice di un incontro che ora si è dissolto. L’autore intreccia il paesaggio e la memoria dell’amata: profumo, sguardo, voce. La mancanza è così tangibile da trasformare il mare in silenzio e il sole in indifferenza. La poesia ha il tono elegiaco di chi non solo ricorda, ma vive ancora dentro il ricordo: il presente è sbiadito, la cartolina ha perso i colori. L’anima di Di Meo si rivela fedele e ferita, incapace di rinunciare a un passato che aveva il sapore dell’eternità.
Un testo quasi oracolare, denso, magmatico. I versi sembrano galoppare come i passi del poeta nel bosco. C’è una natura sacra, piena di presenze invisibili: cicale, grilli, pinete, un altare che appare come visione mariana. Il ritmo è frammentato, affannoso, vicino al respiro mistico. Qui Tartagni si confessa come un “dio con ali di Mercurio”, per poi tornare fragile, supplice, nel silenzio della preghiera. L’anima che emerge è quella di un pellegrino inquieto: esuberante, sensuale, ma capace di piegarsi davanti al mistero. La sua poesia è un atto di fede nella natura come sacramento dell’invisibile.
Il dialetto romano diventa qui arma satirica, specchio crudele della realtà politica e sociale. È una poesia civile che smaschera le ipocrisie con sarcasmo, facendo dell’ironia un bisturi. L’“inquinamento” diventa metafora molteplice: ambientale, mentale, mediatico. I versi scorrono come stornelli corrosivi, tra sbuffi e paradossi. Ma oltre la polemica c’è un nucleo più profondo: la nostalgia di una verità semplice, non corrotta dal “pensiero unico”. L’anima di Bettozzi è quella del giullare visionario, che ride per non piegarsi, e con il riso rivela il vuoto di chi governa la scena.
Una poesia che vibra di malinconia lirica, intima e tagliente. Il tramonto diventa metafora di una vita che si avvolge nella memoria e nel dolore. Ogni immagine è un frammento di esperienza: vetri rotti, sassi nel lago, il treno che riflette due volti. Qui la natura non consola, ma amplifica la ferita interiore. Eppure, nell’implorazione finale – “vorrei un cuscino dove riporre il cuore” – si scorge la dolcezza vulnerabile di chi non rinuncia alla tenerezza. L’anima di Piacentino è quella di un’amante segreta della vita, che accoglie il dolore senza mascherarlo, e proprio per questo rende la sua voce autentica e universale.
Qui la parola è veglia amorosa. La voce si muove nei vicoli del pensiero come in un labirinto interiore, alla ricerca di una presenza che è insieme perduta e ritrovata. L’amato non è mai del tutto “fuori” da sé: egli siede dentro l’alba che nasce nel cuore della poetessa. È una poesia della reciprocità segreta, dove il giorno “più lungo” non è tempo cronologico ma durata spirituale, in cui lo sgomento si trasfigura in attesa e in promessa. L’anima di Notarfrancesco appare fragile e irriducibile: si cerca e si trova nello specchio dell’altro, in una liturgia amorosa che non conosce tramonto.
Questo canto antico vibra come una eco arcaica della terra e delle acque. È poesia corale, femminile, in cui il sangue diventa simbolo di vita, di sacrificio e di resistenza. Sangue di colomba, di farfalla, di cigno: fragilità e bellezza si intrecciano con l’invisibile forza che custodisce il segreto delle donne. Le ragazze-figlie del sole sono insieme potenza generatrice e minaccia per l’ordine maschile, tanto da dover “nascondersi”. L’anima che emerge è collettiva: il mito parla per tutte, e la poesia diventa rito, un sussurro custodito nei boschi, nel respiro dell’acqua e della natura.
Qui il canto è epico e familiare allo stesso tempo. Taranto diventa un organismo vivente: i ponti come braccia, il mare come memoria, il castello come dimora ancestrale. La voce si fa guida attraverso la storia e la leggenda, l’infanzia e la ferita, i Messapi e i Saraceni. Ogni immagine trabocca di appartenenza: la città non è solo luogo, è corpo ereditato dal nonno sommozzatore, è radice che ribolle come acqua greca. L’anima di Scaligine è nostalgica e solenne: canta con orgoglio il mito mediterraneo di Taranto, trasfigurando la storia in poesia identitaria.
Un rondò che si fa satira amara e civile. Il tempo storico viene visto come cerchio vizioso: sempre gli stessi tiranni, le stesse menzogne, le stesse complicità. La metrica stringe e incalza, la lingua alterna classicità e sarcasmo (“popol minchione”) con forza dissacrante. La poesia non si limita a descrivere: accusa, denuncia, ammonisce. L’anima di Colonna Romano è quella di un moralista antico, figlio della tradizione satirica italiana, che brandisce il verso come spada civile. Nella sua voce, la memoria è antidoto contro la manipolazione dei potenti.
La confessione qui si fa ferita aperta. Il poeta immerge il pennello nel proprio sangue: scrivere diventa un atto sacrificale, una liturgia intima. Ma il perdono non è dono agli altri: è ostacolo con se stesso. Più difficile che amare, più arduo che compatire, è liberarsi dal peso della colpa. La voce è cruda e sincera, senza ornamenti: una nudità che colpisce perché non si nasconde dietro metafore troppo elaborate. L’anima di Seccia è penitente e appassionata: porta il macigno del rimorso, ma il fatto stesso di scriverlo diventa già inizio di catarsi, possibilità di grazia.
Questa poesia è un piccolo inno alla vitalità elementare. Il venticello diventa un compagno fanciullo che gioca con piume, margherite, cani e ragazzi. Tutto vibra di leggerezza e di gioia semplice. È un soffio che non conosce ombra, che ama “la semplicità delle cose”. L’anima di Romanini qui appare ingenua nel senso più alto: una purezza di sguardo che riesce a rendere sacro il quotidiano, quasi una favola pastorale che ci ricorda che la vita si ama davvero quando la si respira nella sua immediatezza.
Qui entriamo nella zona oscura: le paure sono presenze che camminano accanto a noi, inevitabili, quasi animali che mordono. Non servono illusioni di fuga: esse vanno riconosciute e affrontate. Lo stile è asciutto, scandito, come una meditazione che si fa consiglio. L’anima del poeta si rivela coraggiosa e umile: sa che la serenità non è assenza di paura, ma capacità di accoglierla, guardarla, trasfigurarla. È poesia terapeutica, quasi una piccola guida etica.
Qui c’è un enigma profondo. Il fiore promesso, che avrebbe dovuto rivelare la verità dell’anima, muore prima di consegnare il suo segreto. Rimane soltanto il desiderio, la mancanza, il mistero di un “profumo sconosciuto”. L’anima poetica si muove tra conoscenza e perdita, intuizione e limite. Greggio ci dice che l’anima guida senza sbagliare, ma resta inaccessibile fino in fondo: la rivelazione è sempre differita, e forse ciò che ci salva è proprio il cercare invano, restando aperti all’invisibile.
Questo è un poema visionario, metafisico. La casa di neve è dimora fragile e incantata, tra Eden e Ade, tra felicità e perdita. Scompare, riappare abitata da fantasmi-poeti che continuano a scrivere oltre la morte. È mito contemporaneo, un’architettura di immagini surreali e cosmiche. L’anima della poetessa qui è mistica e tragica insieme: canta la caducità della felicità, ma anche la sopravvivenza della parola poetica, che resiste alla notte e alla dissoluzione. È poesia-oracolo, che abita la soglia tra la vita e l’oltre.
Con affetto e stima
Ben TARTAMO
7-8-9 Settembre
UN grazie di cuore a Ben Tartamo per i suoi commenti e A Lorenzo per la sua ospitalità.
Silvio Canapè
Un sentito grazie a Ben
4-5-6 Settembre
In risposta al ringraziamento
di Bruno Amore :
La poesia qui è incarnazione di fragilità e autoironica vanità. Il poeta si colloca come un interprete di sagre e osterie, ma lo fa con consapevolezza del proprio limite, del gesto ripetitivo e quasi teatrale. La mareggiata che “copre il rumore della voce” funziona come metafora della resistenza del mondo al gesto poetico individuale: ogni parola, per quanto intensa, rischia di essere inghiottita dall’oceano della realtà. Il gesto finale, il richiamo alle “monete” invece che agli applausi, ci parla di una poetica umile e radicalmente onesta: qui non si cerca riconoscimento, ma sopravvivenza dell’atto creativo stesso. C’è una tensione fra teatralità e autenticità, fra vanità e devozione al verso, che mi pare profondamente contemporanea.
Il testo possiede una luminosità sensuale e meditativa. Il corpo e il paesaggio si fondono: i piedi scalzi sull’erba e nell’acqua diventano strumenti di percezione del tempo e dello spazio. Qui il poeta non racconta, ma fa vivere: l’atto poetico è esperienza diretta, immersiva. C’è una poesia della luce e del profumo che si intreccia a un erotismo delicato, mai aggressivo, dove il tempo si dilata nel silenzio di un giorno qualunque. La costruzione, apparentemente semplice, rivela una gestione magistrale dello spazio visivo e sensoriale: il lettore è chiamato a camminare accanto al soggetto poetico, a respirare con lui.
Qui, la poesia assume un ritmo quasi cinematografico, un reportage interiore: ogni dettaglio quotidiano diventa elemento di introspezione. Il soggetto è al contempo interno ed esterno, immerso nella propria solitudine eppure osservatore del mondo che scorre. Il rapporto con il cellulare, il gesto della scrittura, la gente che entra e passa: tutto è simbolo della tensione tra comunicazione e isolamento. È poesia che unisce realismo e lirismo, come se la realtà quotidiana fosse una pagina aperta su un’esperienza emozionale più ampia, un’indagine psicologica sulla solitudine e sul desiderio creativo.
Spadavecchia ci conduce in una geografia morale della sofferenza collettiva: il tempo è un “metronomo inclemente” che non concede tregua, e la società appare come un teatro in cui il burattinaio muove le esistenze con cinica leggerezza. La poesia ha una struttura di accumulo: ogni strofa aggiunge un livello di empatia e angoscia, dai vecchi ai giovani, fino a mostrare l’intera umanità come “pause itineranti” in attesa di libertà. Qui la tecnica è dichiaratamente narrativa, ma l’intensità emotiva è lirica, il tono drammatico senza mai cedere al melodramma. C’è un’urgenza morale che risuona come un eco antico e contemporaneo insieme, in cui la poesia diventa testimonianza sociale.
Berni entra in uno spazio mentale e visivo: ogni verso è un pennellata, ogni parola un colore. La poesia è un tentativo di incarnare il tormento, la genialità e la follia di Van Gogh, e diventa al contempo meditazione sulla creatività, sul dolore e sull’alienazione. L’uso di ripetizioni e variazioni (“Raffigurazioni di Vincent”) ha un effetto ipnotico: il lettore percepisce il ritmo ossessivo della pittura e della mente del pittore. Il linguaggio è sensoriale e quasi sinestetico: il suono dei colori, le immagini dei corvi, il richiamo alle sedie vuote, tutto concorre a far sentire il peso della vita e l’ossessione dell’arte. Qui la poesia non racconta, evoca, penetra nell’inconscio del lettore come un colore che ti sfiora la pelle.
Canapè lavora con la percezione sensoriale e temporale: la pioggia, i vetri appannati, l’asfalto e la luce diventano strumenti per sondare l’anima. C’è un equilibrio tra realismo e interiorità lirica: il paesaggio esterno riflette lo stato emotivo interno. La malinconia è sottile, mai declamatoria, e il desiderio di un singolo raggio di sole funziona come micro-epifania, un momento di grazia nel flusso della realtà quotidiana. Qui il linguaggio è quasi pittorico, come una natura morta in movimento, dove la poesia nasce dalla capacità di vedere la trasformazione continua delle cose.
Questo testo ha una forza esistenziale potente: la sintassi frammentata, la mancanza di punteggiatura e il ritmo spezzato rendono la lettura un’esperienza immersiva e quasi corporeamente faticosa, come il cammino del poeta stesso. L’io lirico è alla ricerca di libertà, di uno spazio in cui l’anima possa librarsi, e la notte, il buio, il vuoto diventano strumenti di trascendenza e liberazione interiore. È una poesia che fonde esperienza, introspezione e meditazione filosofica: il lettore non è spettatore, ma compagno di viaggio, costretto a confrontarsi con il vuoto e con la tensione verso la libertà.
Serino ci porta in una dimensione quasi trascendentale: il poeta diventa testimone di una bellezza che si piega alle curvature della luce, sospeso tra armonia musicale e contemplazione visiva. L’ascolto di Shostakovich non è semplice accompagnamento, ma strumento di fusione tra suono e parola. La poesia funziona come una sinfonia lirica breve: ogni parola pulsa come una nota, ogni verso è un gesto delicato, un fremito che vibra sul cuore del lettore. È un testo in cui spiritualità, arte e sentimento si intrecciano senza soluzione di continuità.
Qui l’ironia e la denuncia sociale si fondono in un dialetto vivo, pulsante, che dà voce a chi paga il prezzo della “cultura” istituzionalizzata. Bettozzi utilizza la forma popolare per scalfire il sistema e la retorica ufficiale, creando un effetto di autenticità immediata. La scrittura diventa quasi performativa: il lettore sente la voce, le pause, le frustrazioni, i sorrisi amari. La poesia qui è impegno civile, linguaggio politico e psicologia sociale condensati in versi che respirano realtà quotidiana e satira feroce.
Greggio ci conduce in un lirismo dolce e meditativo. La metafora del sole che “ritira i suoi raggi” diventa un gesto di consolazione: la natura osserva e accompagna la vulnerabilità dell’uomo. La poesia è calma, pacata, con un ritmo quasi musicale, dove l’atto poetico diventa cura e conforto. Ogni immagine funziona come carezza: la lacrima asciugata, il sorriso preparato, la notte che scende. Qui la poesia è gentilezza e presenza, e il tempo si piega per far spazio alla protezione del cuore umano.
Qui si entra in un territorio esistenziale e psicologico molto intenso. L’io lirico avverte un dolore fisico che si trasforma in esperienza emotiva e mentale: ciò che resta di “lui” diventa idea, e l’idea si nasconde, gioca, si manifesta in sorrisi. La poesia esplora la distanza tra interno ed esterno, tra delirio personale e mondo circostante, e la scelta di “non rispondere alla paura” diventa atto di libertà. Il linguaggio è contemporaneo, fluido, sospeso tra simbolismo e narrazione, e la traduzione in inglese amplifica la dimensione universale del testo. È un poema che vive nel liminale, tra consapevolezza e sogno, tra pericolo e coraggio.
Scaligine sviluppa un lirismo che fonde memoria e affettività, dove il tempo è sia avversario sia custode di emozioni. Le immagini dei “palette e secchielli” sulla battigia dei ricordi creano una sinestesia dolce, in cui l’infanzia e la maturità dialogano senza contraddizione. La poesia è un flusso di coscienza poetico, che alterna nostalgia, leggerezza e contemplazione. L’io lirico diventa una nonna che osserva il tempo con gratitudine e malinconia, e ogni dettaglio – dagli occhiali da sole al mare negli occhi – funziona come simbolo di un ricordo vivente. La scrittura ha ritmo naturale, quasi musicale, capace di trasportare il lettore dentro il calore della memoria affettiva.
Romano crea un lirismo estatico che unisce desiderio, natura e celebrazione della bellezza condivisa. L’uso di immagini sensoriali – boschi odorosi di pino, foglie bagnate di pianto, bicchieri ricolmi di stelle – costruisce una poesia che è simultaneamente contemplazione e manifestazione di sentimento. L’io lirico si pone come intermediario tra natura e persona amata, trasformando ogni elemento in dono poetico. La musicalità dei versi e la loro levità rendono la poesia luminosa e sospesa, come un brindisi fatto a un tempo fuori dal tempo.
Seccia si muove nel registro della passione e della perdita. La poesia è un dialogo interiore tra memoria e rimpianto, tra desiderio e impotenza. L’immagine ricorrente della foglia trasportata dal vento rende visibile la precarietà dell’amore e la fragilità dell’attimo. I dettagli sensoriali – labbra, capelli, sorriso – e la metafora mitologica di Medusa conferiscono profondità psicologica: l’io lirico è paralizzato di fronte all’intensità dell’emozione. Qui la poesia è intensamente esistenziale, una mappatura dei sentimenti che rimangono sospesi tra cielo e terra.
Romanini offre una meditazione sul tempo e sulla memoria con un registro più asciutto, quasi filosofico. L’analogia tra mare e tempo (“che le impronte dalla riva cancella”) è potente nella sua semplicità: le esperienze e le ricordanze sono fragili, destinate a svanire, ma proprio questa fugacità le rende preziose. La sintesi del linguaggio e l’eleganza sobria del verso creano un effetto di meditazione contemplativa, in cui il lettore percepisce la dolcezza e la malinconia della perdita inevitabile.
Un caro affettuoso saluto dal vostro
1-2-3 Settembre
Ringraziamento
Egregio Ben,
fino all'osso.
Col poco braccio che ho
ti stringo
a più non posso.
bruno amore [br1]
Bettozzi compone un pamphlet poetico in dialetto
romanesco, nella tradizione civile e corrosiva di un Belli
contemporaneo. L’autore usa un registro popolare per toccare temi
estremamente alti: il disincanto verso l’Unione Europea, la
manipolazione della realtà nei media, e la
contraddizione italiana dell’autosabotaggio politico.
Il verso è spezzato, sincopato, eppure sempre ritmicamente
controllato: è poesia parlata, ma con l’occhio vigile di chi sa
scrivere, e molto bene.
Questo è un testo che grida sotto la risata, in cui si legge una rabbia ancestrale, un orgoglio ferito, ma anche una lucidità spaventosa. Il poeta vive in un mondo che mente sapendo di mentire, e ciò che lo colpisce di più non è tanto la menzogna, quanto l’adesione naturale e spontanea ad essa da parte della gente comune.
Ma c’è di più. In Bettozzi si avverte la solitudine di chi vede troppo. Come un vecchio saggio che nessuno vuole più ascoltare, resta a sorvegliare le "favole" credute da tutti: alcune sono innocue, altre sono pericolosamente dolciate, e diventano strumenti di potere.
Una mente acuminata, che ha scelto il dialetto non per fuggire, ma per smontare dall’interno le illusioni condivise.
Un’anima politicamente disillusa, ma ancora umanamente vigile. Qui parla uno scettico etico, non un cinico.
Questa è una poesia che si muove su un registro completamente opposto. Qui domina la trasparenza emotiva, la delicatezza pensante, il ritmo meditativo. Il linguaggio è semplice, ma la costruzione concettuale è raffinata. La poesia si articola intorno alla paura — paura esistenziale, non momentanea — che si fa tarlo, freno, ginocchio piegato.
C'è un climax silenzioso, che parte dall’insicurezza interiore e arriva a una grazia quasi religiosa. L'ultima strofa è una rivelazione: solo nel momento in cui la nostra importanza è divenuta “così piccola”, possiamo osservarla con amore.
Qui parla una coscienza vulnerabile, probabilmente sopravvissuta a molte delusioni, ma non ancora chiusa. Il tarlo adolescenziale evocato non è nostalgia, ma ferita ancora aperta. L’autrice sembra voler guarire attraverso la parola, cercando nella scrittura una nuova luce per vedere se stessa con pietà, come un soggetto che ha smesso di volersi dominare per cominciare a volersi comprendere.
Una poesia che sembra nascere da una seduta interiore.
Un’anima fragile ma consapevole, che trova nella resa il vero coraggio.
Testo di commovente bellezza, quasi terapeutico nella sua struttura.
Huenún, poeta cileno mapuche, scrive una lirica scarna, scultorea, intrisa di solitudine e diaspora. Il titolo evoca Georg Trakl, poeta austriaco del primo '900, simbolo di inquietudine e rovina interiore. E già questo orienta la lettura.
Qui siamo su un molo, metafora dell’attesa e dell’abbandono. Il poeta fuma, guarda un mercato vuoto, ricorda i figli come se appartenessero a un’altra vita. La paternità è “calata a picco”: crollo dell’identità, del ruolo, del futuro. Eppure, proprio in questo vuoto, si apre una "porta oscura" che è l’amore, ma non un amore redentore – piuttosto un varco da attraversare inchinandosi: con umiltà, forse con dolore.
Questa poesia è una liturgia dell’esilio interiore.
Il poeta ha perso i legami fondamentali, o li sente come fantasmi al
margine del presente. La sua è una fuga senza ritorno,
ma intrisa di dignità silenziosa.
L'amore non è qui un sentimento romantico, ma un'invocazione sacra,
una soglia. Il suo inchinarsi davanti a essa è il gesto di chi, pur
svuotato, riconosce ancora una forma di bellezza o di giustizia
nell’universo.
Un testo da leggere in silenzio, come si ascolta l’ultimo canto di una civiltà interiore.
L’autore sembra appartenere a una razza in via d’estinzione: quella dei padri poetici, degli esuli, dei degni.
L’anima che scrive qui ha già pagato il prezzo del dolore, ma sceglie di restare umana.
Questa poesia è un’invocazione contemplativa. Tutto il componimento si regge sulla ripetizione del verbo "ascolta", come un mantra laico che invita alla presenza, alla lentezza, all’attenzione. La sintassi è sospesa, volutamente fluida, come un respiro ampio che si prende il suo tempo, mentre scorre tra immagini naturali e intime.
C’è qualcosa di mistico in questo ascolto del mondo: l’acqua, i fiori, gli animali, persino i sogni e il silenzio diventano portatori di senso. La poesia è scandita come una litania sensoriale: il rumore della pioggia, il volo della rondine, la clessidra del tempo...
Qui parla una mente che ha smesso di urlare. C’è una saggezza profonda e silenziosa, simile a quella degli antichi, di chi ha capito che tutto parla, se solo siamo capaci di ascoltare. L'autore si pone come un maestro invisibile, non arrogante, ma capace di indicare un altro modo di stare al mondo.
Una poesia-rito, che disintossica.
L’autore ha un’anima immersiva, che si lascia attraversare dal reale.
È un invito a rallentare, ma anche una piccola rivoluzione percettiva.
Questo testo è una confessione, una lettera in
versi scritta con l’urgenza e la disperazione di chi ha amato in silenzio,
invisibile, e si è visto ignorato.
La costruzione è narrativa, lineare, con
rime dolciastre e malinconiche, come la voce di un vecchio amico che non
riesce a smettere di sperare.
Il verso "un volto al nulla" è uno scarto poetico potente, che trascende la
vicenda individuale e apre su un abisso esistenziale.
Il poeta è un uomo solo, ma
non rassegnato. C'è in lui una sete d’amore quasi adolescenziale, una voglia
di essere visto, sentito, accolto.
La figura femminile (Donatella) diventa simbolo di tutte le presenze
inafferrabili, quelle che ci lasciano sospesi, abbandonati al nostro
desiderio.
Una scrittura che si aggrappa come un naufrago alle parole.
C’è fragilità emotiva ma anche forza di sentire, e questo lo salva.
Il poeta non si nasconde: espone le sue crepe come pelle viva.
Qui abbiamo una poesia
esistenziale, costruita in modo limpido e diretto.
Il tramonto è simbolo del tempo che si consuma, ma anche dell’anima che si
ritira, che si specchia nella propria stanchezza.
Lo stile è prosastico, volutamente poco lirico: il poeta descrive la
vecchiaia come un'abitudine che diventa memoria, e ciò la rende ancora più
struggente.
L’autore si trova in una fase
di consapevolezza lucida, che non teme la morte, ma rimpiange il fuoco del
passato. Non c’è rabbia, ma una dolente dignità.
Anche la cena, la TV, il sonno… sono rituali svuotati, eppure vissuti con
rispetto.
Il vero rito, però, è quello che avviene nel buio: quando si aprono gli
squarci di memoria.
Una voce che non cerca effetti, ma verità tranquille.
L’anima è stanca ma vigile, pronta a lasciar andare, ma ancora affamata di senso.
Qui siamo davanti a una poesia
civile complessa e potente, che racconta il dopoguerra della coscienza
collettiva.
L’autore attraversa la parabola storica dell’Italia – dal risveglio
post-fascista alla degenerazione della libertà – con linguaggio alto, carico
di pathos, e immagini suggestive: “finestre e balconi all’aria nuova”,
“volammo nella vita come fanno i sogni”.
Il finale è di una bellezza amara: “perderemo il più bell’azzurro mai
desiato / che neppure il più nobile harakiri avrà pagato.”
Qui scrive un testimone. Non
solo uno che ricorda, ma uno che ha sofferto vedendo la speranza sfigurarsi
nel tempo.
C’è una tensione drammatica tra l’ideale (quell’azzurro, la libertà) e la
delusione storica e morale. L'harakiri finale non è un gesto di morte, ma un
simbolo di dignità perduta.
L’autore porta il lutto di un’epoca, ma non si arrende alla nostalgia.
È un reduce della speranza, che continua a parlare per non dimenticare.
Qui l’anima è politica nel senso più alto e più doloroso.
La poesia si presenta come una riflessione filosofica sulla condizione umana e il suo rapporto con il tempo. Il poeta parla di un viaggio senza fine verso certezze che sono, alla fine, irraggiungibili. La foresta incantata è un'immagine potente che simboleggia la ricerca perpetua di qualcosa di stabile, ma il tempo si trasforma in una forza devastante e ingannevole. Il movimento da "cavalieri erranti" a "un Attimo" che scompare come un lampo suggerisce l'illusorietà della ricerca stessa.
La struttura della poesia, che gioca con l'accumulo di immagini, suggerisce un crescendo di frustrazione, mentre il tema del "tempo vorace" è il motore che distrugge ogni speranza di raggiungere certezza.
Esiste una profonda ansia nel poeta, come se fosse prigioniero di un tempo che fugge e si dissolve. L'immagine della "ragnatela grigia" è quella di una trappola mentale, di una pesantezza esistenziale che incatena l'individuo alla sua ricerca senza fine. La metafora degli "Attimi" che appaiono e svaniscono è un simbolo della nostra incapacità di afferrare il presente in tutta la sua pienezza.
La poesia rivela un'esperienza di alienazione e di frustrazione esistenziale. Un’anima senza ancore in un tempo che frana.
La brevità della poesia crea un impatto conciso e diretto, utilizzando una struttura quasi apodittica, con una descrizione dell'uomo come "celeste" e "terreno". Questi aggettivi definiscono un doppio esistenziale, un conflitto tra dimensioni che convivono nell'individuo. Il verso "l’essere sdoppiato" sembra richiamare l’immagine di una frattura interna, dove l'essere umano è costretto a fare i conti con due identità, due mondi, quello divino e quello terreno.
La poesia si sviluppa in poche righe, ma ci offre una riflessione sull'esistenza come un costante confronto tra opposti, tra il divino e l’umano, tra l’invisibile e il visibile.
Qui si percepisce la tensione che nasce dalla consapevolezza di vivere in un corpo terreno, ma con un’aspirazione celeste, che non è mai del tutto soddisfatta. L’ombra proiettata è il dubbio, l'incompletezza che accompagna l’essere umano. Questa poesia potrebbe riflettere la difficoltà di integrarsi pienamente tra il desiderio di elevazione spirituale e la realtà quotidiana.
Una poesia che esplora l’interiorità divisa. Il poeta è in bilico, ma accetta questa divisione come parte integrante della propria ricerca di senso.
Il tono della poesia è doloroso e struggente, con immagini di un cuore che non trova pace. Il poeta si immerge nella sofferenza dell’amore perduto, cercando di colmare un vuoto che sembra irraggiungibile. Il riferimento all'"alma piangente" richiama l’immagine di un'anima tormentata, mai soddisfatta, che continua a cercare un frammento dell’amore perduto.
La poesia ha una struttura lirica, con versi che cadono lentamente come lacrime che cercano di dare voce al dolore. La ripetizione di termini legati all'amore e alla perdita crea una sensazione di incastro emotivo, dove la nostalgia è una compagna costante.
Il poeta è diviso tra il ricordo di un amore passato e il desiderio di una riedificazione dell'amore stesso. L’immagine della donna delle "mie brame" è un simbolo di un amore idealizzato, ormai inaccessibile. La sensazione che traspare è quella di un vuoto esistenziale, dove la persona amata diventa il segno di una mancanza ontologica. Il poeta è intrappolato in un giro vizioso: l’amore lo salva, ma lo consuma allo stesso tempo.
Una poesia che esplora l'incapacità di superare il passato. È un’anima prigioniera della nostalgia, che cerca redenzione nel dolore.
In questo testo, l’autrice solleva una questione fondamentale: l'amore è un sentimento innato o qualcosa che dobbiamo imparare? La domanda esistenziale si sviluppa attraverso immagini semplici ma potentemente evocative, come le "nuvole" che passeggiano nel cielo e l’ora del tramonto, un tempo di transizione. La ricerca della risposta si manifesta in una contemplazione silenziosa, con la poesia che assume la forma di un "quesito" mai risolto.
Il tono è riflessivo e sospeso, e la scelta di utilizzare il cielo come metafora universale per rispondere a un tema esistenziale universale come l’amore, trasforma la poesia in un dialogo cosmico.
Il poeta sembra essere alla ricerca di un senso più grande, come se l’amore fosse qualcosa che sfugge alle definizioni, un mistero che può essere esplorato ma mai completamente compreso. C'è un'inquietudine nella domanda, un desiderio di comprendere e di dare un ordine razionale all'irrazionale. La risposta non arriva, e il poeta si arrende alla misteriosa complessità dell’esistenza.
L’incertezza esistenziale è palpabile. La poetessa non cerca una risposta definitiva, ma invita alla riflessione senza fine.
L'uso della pioggia e dell'oscurità come metafore di un desiderio inconfessabile rende questa poesia unica. La pioggia porno diventa una metafora della lucrativa solitudine e sensualità, mentre l'oscurità che penetra come un fumogeno richiama la tensione tra il corpo e l'anima, tra l'istinto animale e il bisogno di qualcosa di più profondo. La conclusione con l'idea che, nel buio, si desideri ardentemente la luce, è un'espressione di confusione emotiva, dove l'uomo è intrappolato tra piacere e dolore, desiderio e frustrazione.
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Questa poesia evoca nostalgia e speranza. Il mese di settembre è simbolo di fine estate, ma anche di nuovi inizi. C'è una forte contrapposizione tra il ritorno alla scuola, con i sogni e le gioie dell'infanzia, e il passaggio del tempo che maturerà le cose, come la vite che da acerba diventa vino. L'immagine della sabbia che si trasforma in castelli, e gli scolari pieni di sogni, è potente e rappresenta il continuo alternarsi di crescita e perdita. Settembre è quindi una riflessione sul ciclo della vita, che si adagia alla nostalgia, ma che non impedisce ai sogni di essere ancora cullati dalle onde del ricordo.
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In questa poesia c'è un'incredibile meditazione sulla morte e sull'esistenza. Il mare diventa un simbolo di malinconia e bellezza, di un qualcosa che si perde nel flusso del tempo, e che non sarà più accessibile nell'aldilà. Il poeta si confronta con l'idea della morte come un passaggio verso l'ignoto, ma non senza lasciare dietro di sé interrogativi: "Qual è il senso di questo viaggio?". La riflessione sugli atomi che restano, come se l'essere umano fosse solo una combinazione di elementi che si disperdono, è un richiamo all'incredibile transitorietà della vita, mentre l'idea di "frammenti verso le stelle" suggerisce una ricerca metafisica di immortalità.
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Questa poesia si apre con una bellezza lirica che esprime il passaggio dalla vita alla morte come una continua oscillazione tra l'interno e l'esterno. La brezza fatta di sguardi che invade l'animo suggerisce la potenza dei sentimenti che, in modo delicato ma profondo, travolgono il poeta. La spuma dell'onda rappresenta l'energia vitale che si dissolve in un "fragore" dell'anima, un forte contrasto tra il desiderio che si libera e la tristezza che si nasconde nella lacrima. La chiusura con l'immagine di lasciare il corpo per raggiungere l'infinito dà alla poesia un senso di trascendenza, come se la morte fosse solo un passaggio verso un'unione più profonda con l'universo.
Ben Tartamo
Eccoci davanti a un inno che si erge come preghiera e canto, quasi un salmo laico e mistico insieme. Già dal titolo, Icona d’Amore, percepisco la tensione verticale: l’amore non è più semplice sentimento terreno, ma immagine sacra, “icona” appunto, finestra spalancata sul trascendente.
Il poema si costruisce in strofe che respirano in invocazione, quasi una litania: “Amore, che mi hai atteso… / Amore, che ti struggi… / Amore, che sei vita…”. L’anafora (“Amore”) diventa campana che batte nel cuore e nel cosmo: il poeta non descrive, invoca; non spiega, prega. Qui la parola non è analitica ma liturgica.
Sul piano psicologico, si avverte il dialogo tra due dimensioni: da un lato la fragilità dell’uomo (“che tutto è un soffio… che passa e fugge”), dall’altro l’anelito a una presenza eterna che non inganni, che non lasci “solo incanto” ma diventi sostanza. La tensione è tra fugacità e assoluto: il poeta si aggrappa al vento che strazia e brucia, ma lo trasfigura in segno di eternità.
Vi è inoltre un tratto profondamente metafisico: l’Amore qui è persona, potenza, fuoco, vento, mare, creatore. Non è eros soltanto, ma Agápe cosmica, principio generatore che tesse e scioglie i destini. L’ultima strofa è un’esplosione d’abbandono: “null’altro sappia fare / che amare, sì… che amare”. Qui la poesia diventa auto-annientamento mistico: l’io non vuole più esistere se non nell’atto stesso di amare, come una candela che non conosce altra vocazione che bruciare.
C’è anche un respiro biblico, quasi paolino: “se non ho l’amore, non sono nulla”. Eppure la voce non si perde nella dottrina: resta carne, vento, fiamma viva.
Il lettore sensibile sentirà che questa poesia non è costruita per esercizio, ma scaturisce da un’urgenza: l’autore cerca un Amore che giustifichi la vita, che non tradisca nella sua mutevolezza. È come se Tartamo alzasse una icona verbale davanti agli occhi: non dipinta con tempera e oro, ma con respiro e invocazione.
In sintesi: un testo che ha la solennità di un inno e la fragilità di una confessione, dove ogni verso non si limita a cantare l’amore, ma ne implora il volto eterno.
prof. Marino Spadavecchia
Commento alla Poesia di Felice Serino
Bellezza e' apice dell'essere.
Accanto a lei l'uomo s'eleva, capendo che la vita e' lei stessa bellezza.
Un mezzo, dunque, la bellezza per l'uomo, dove, in questa breve pennellata
poetica e' rappresentata come
un mondo, che naturalmente la poesia deve far intendere e non svelarne
subito il contenuto, quindi, far immaginare a sua volta.
Laura Toffoli
26-27-28 Agosto
Santoro ci mostra l’amore come esperienza dolorosa e totalizzante. Le donne “cieche” non vedono la realtà che le circonda, ma vivono profondamente la propria percezione del sentimento. L’io poetico diventa osservatore di un mondo di inganno e fragilità emotiva: l’amore profondo convive con disgusto e nausea, con la consapevolezza che la propria dedizione può non essere corrisposta.
La poesia è crudele, diretta, con un linguaggio fisico e quasi corporeo (“nausea che il Plasil non basta a fermare”), e allo stesso tempo metafisica: il cuore umano viene scandagliato come un mare di emozioni contraddittorie. Qui, l’anima del poeta emerge come veggente dei sentimenti, capace di leggere la verità nascosta dietro i gesti e le parole.
Serino ci riporta alla dimensione archetipica della poesia stessa: nascita, fragilità, viaggio. La metafora della barchetta di carta sui flutti evoca la precarietà dell’atto creativo, il rischio e la speranza insita nel fare poesia. L’anima del poeta è qui fragile e coraggiosa, sospesa tra luce e tenebra, tra il desiderio di realizzare un sogno e la consapevolezza dei pericoli del mondo.
Il testo si inserisce perfettamente nel filone della memoria e del tempo: la poesia nasce fragile, ma diventa veicolo di esperienza, conoscenza e trascendenza.
Bettozzi esplora il tempo interiore, il ricordo e la continuità dei legami affettivi. I “tesori” sono esperienze e memorie che, anche quando apparentemente perse, continuano a vivere dentro di noi. La poesia evoca la nostalgia e la cura con cui l’io poetico preserva ciò che conta: le gioie semplici, i giochi dell’infanzia, le relazioni autentiche.
Qui la metafisica emerge attraverso il rapporto tra memoria e eternità: i ricordi diventano gemme, nodi luminosi che sopravvivono al tempo, capaci di illuminare anche il buio dell’esistenza.
Canapè ci offre una visione cosmica e simbolica: l’oscurità accumulata e compatta viene interrotta da un lampo di luce, effimero ma rivelatore. La poesia è breve, essenziale, ma potente: cattura l’istante in cui il reale e l’invisibile si toccano. La “perpetua sera” suggerisce l’eterna alternanza tra luce e buio, tra speranza e dolore, tra caos e ordine.
L’anima del poeta emerge qui come veggente del cosmo, capace di leggere nei mutamenti della luce e dell’ombra un significato più grande dell’esperienza umana.
Qui l’io poetico esplora la complessità dell’amore e della percezione del tempo. La poesia ha un tono riflessivo, quasi filosofico, in cui l’“indomani” rappresenta il futuro pieno di possibilità e inganni, contrapposto alla purezza e immediatezza del sentimento dell’altro. La poesia diventa metafisica perché indaga la struttura stessa dell’esperienza amorosa: la gioia, l’illusione, il dolore, e la memoria si intrecciano in un tessuto che trascende il semplice vissuto per diventare riflessione sull’essenza dell’amare e del percepire il tempo.
Villa fonde elementi di sogno, natura e simbolismo. La poesia è immersiva: il sogno diventa realtà, e la realtà si riflette nel sogno, con una dimensione quasi onirica e cosmica. Gli elementi naturali (fagioli, farfalle, liepri) e l’atto di cogliere fiori nei libri di poesia evocano una sacralità della vita quotidiana e un’adorazione dell’attimo. La morte, contemplata come scrittura dell’acqua sull’acqua, è percepita come parte del ciclo vitale, non come fine: una meditazione metafisica sulla caducità e sull’inalterabile bellezza del vivere.
Berni esplora il conflitto tra desiderio di libertà e timore di osare. Il cavallo alato diventa metafora di elevazione spirituale e gioia potenziale: la poesia è un invito alla liberazione dei sentimenti più puri. L’io poetico osserva una giovane donna intrappolata nella paura, trasformando la scena in un’allegoria della condizione umana: la vulnerabilità e il desiderio di spiccare il volo rappresentano la tensione tra ciò che l’anima vuole e ciò che la mente teme. La poesia fonde realismo psicologico e simbolismo metafisico.
Fronzoli cattura la totalità dell’esistenza attraverso un elenco di frammenti, che oscillano tra il quotidiano e l’eterno. Ogni oggetto, emozione o evento diventa simbolo della complessità della vita: la poesia diventa un mosaico in cui gioia, dolore, ricordi e istanti minimi convivono, riflettendo la percezione del tempo come concatenazione di attimi. La forza metafisica emerge nella consapevolezza che ogni elemento, anche il più effimero, partecipa al disegno complessivo della vita, che è insieme nulla e tutto.
Qui il lirismo è immerso nella celebrazione della femminilità e della grazia. La poesia ha una musicalità quasi barocca: i versi accarezzano l’orecchio come le immagini accarezzano l’occhio. La “rosa e di raso” diventa simbolo di purezza, bellezza e delicatezza spirituale, mentre la memoria del nascere e la grazia concessa al mondo proiettano la figura femminile come un tramite tra umano e divino. L’autore crea una tensione tra l’amore terreno e quello quasi sacro, trasformando il sentimento in un atto di contemplazione metafisica.
Seccia tocca temi di lutto, dolore e speranza. La poesia è un dialogo diretto, intimo e terapeutico con il figlio, un invito a uscire dall’ombra dell’incubo. La scrittura ha una qualità quasi liturgica: il “parla con me” è un appello all’anima a riappropriarsi della vita. Il linguaggio evoca metafore di nascita e rinascita, con immagini di luce che penetrano l’oscurità, simboleggiando la capacità di guarigione emotiva e spirituale.
Romanini combina il paesaggio naturale con la percezione sensoriale. La foglia diventa veicolo di un dialogo tra stagioni e sentimenti: la poesia è un’osservazione meditativa in cui la natura rispecchia lo stato d’animo del soggetto poetico. La musicalità del testo si avverte nell’onomatopea degli uccelli e dei suoni dei binari; la poesia diventa metafisica perché trasforma il quotidiano (una foglia, il balcone) in simbolo della transitorietà e della bellezza della vita.
Greggio entra nella dimensione autobiografica e infantile, ricreando il rapporto tra memoria, identità e tempo. La bambina interiore che non osa tuffarsi nelle onde è metafora dell’anima che teme di affrontare l’ignoto, pur mantenendo una connessione profonda con la vita. La poesia è contemporaneamente emotiva e metafisica: il mare diventa simbolo di possibilità, crescita e paura, un luogo dove l’esperienza del tempo e dell’infanzia si fondono in una visione universale della vita.
Miu esplicita l’idea che la poesia sia il battito vitale dell’umanità stessa. Non è solo il poeta a vivere nei versi, ma ogni essere umano che sogna, spera e ama. Qui la metafisica è evidente: la poesia è un medium tra l’individuo e l’universale, un dispositivo per illuminare l’anima, risvegliare i sensi e rendere tangibile l’invisibile. L’atto poetico diventa un rito di sopravvivenza spirituale.
23-24-25 Agosto
Sono davvero lusingata per la
poesia che Ben mi ha dedicato e che coglie gli aspetti più positivi
della mia personalità per cui lo ringrazio tantissimo e spero di poter
ricambiare in un futuro non troppo lontano non appena la Musa mi darà
l’ispirazione. Grazie anche a Lorenzo che ci ospita in questo mare azzurro
e a tutti i Sitani.
Sandra Greggio
Questa poesia è un manifesto, un appello che sembra voler gridare
dall’intimo dell’uomo verso l’umanità intera. Non è lirismo intimista,
bensì etica poetica:
'non
lasciamo'
diventa ritornello, quasi una litania civile e spirituale. Fronzoli
qui non parla solo d’amore, ma della difesa di tutto ciò che ci rende
umani: il bacio, l’abbraccio, la libertà, la dignità, la poesia
stessa.
L’anima del poeta è quella di un profeta laico, un uomo che avverte il
pericolo della spoliazione del cuore e delle coscienze, e che oppone
la fragile ma invincibile resistenza dei gesti semplici. La sua voce
sembra dire: siamo vivi solo finché nessuno riesce a spegnere la
luce nei nostri occhi.
Il messaggio è cristallino e insieme universale: la bellezza e la
libertà sono i sacramenti quotidiani di cui non possiamo essere
derubati.
Qui si entra nel crepuscolo dell’esistenza. Non più un appello
corale, ma il sussurro intimo della vecchiaia che si specchia nel
proprio destino. Montagnoli mostra con lucidità psichiatrica e
tenerezza disarmata ciò che abita gli ultimi anni: il rifugio nel
passato, il timore del “capolinea”, l’illusione di continuare a
stringere ciò che inevitabilmente sfugge.
Eppure, in mezzo alla malinconia, c’è la redenzione dell’essere in
due. Il poeta lo sa: anche nel dolore, anche nell’egoismo di chi
vorrebbe “lasciar per primo” per non sopportare la solitudine, la
presenza condivisa è già salvezza.
Il testo è di una onestà crudele e tenera insieme: alla fine di
una vita, ciò che resta non è la gloria, non è il possesso, ma la
mano dell’altro che stringe la nostra, a resistere insieme al tempo.
Santoro prende l’autunno e lo trasforma in un imputato
esistenziale: stagione come colpa, come processo naturale che diventa
allegoria del disincanto. L’autunno non è solo cadere delle foglie, ma
arrugginirsi del cuore, sonnolenza della mente, scorrere implacabile
del tempo.
Eppure, nella malinconia, il poeta non cede al nulla: già intravede
l’attesa della primavera, la resurrezione del verde, e soprattutto
l’immagine salvifica di una donna “piena di vita e ricca d’allegria”.
Qui la psicologia si fa chiara: il poeta trasfigura la natura nei suoi
stati interiori, ma affida la redenzione non solo alle stagioni, bensì
all’incontro con l’alterità amorosa. Nonostante la consapevolezza del
tempo che corre via, la vita si rinnova in quell’attimo di sorriso che
la donna gli riporta.
Un lampo, un’epifania, un haiku metafisico. Serino, con pochissime
parole, spalanca un orizzonte cosmico. “In ondivaghi spazi” ci
trasporta in una dimensione oltre il sensibile, dove le “ali d’angeli”
non si posano sulla terra, ma lasciano cicatrici di luce “nella carne
del cielo”.
Il verso breve, essenziale, quasi biblico, si fa simbolo di una
visione: l’invisibile che irrompe nell’immenso, l’eterno che imprime
un segno nel tempo.
Qui l’anima del poeta non parla dell’uomo, ma del cosmo. È poesia come
rivelazione, sguardo profetico che non descrive ma evoca, non narra ma
apre fenditure nel silenzio.
Qui troviamo un canto epico e popolare insieme, una commistione di
lingua vernacolare e archetipi biblici che rimanda al mito originario
del peccato. La voce del poeta è ironica, graffiante, ma profondamente
lucida nel cogliere la follia e la ripetitività dell’umano: Adam ed
Eve non sono più individui isolati, ma simboli di miliardi di persone
intrappolate in una rete di inganni seriali, di “serpentacci”
quotidiani che assumono le forme di media, politici, poteri
invisibili.
L’anima del poeta qui è tragica e satirica insieme: non c’è condanna
morale astratta, ma una visione psichiatrica della società come
organismo malato che ha interiorizzato l’inganno. La struttura
verbale, con i “co” e gli apostrofi che imitano il parlato, avvicina
il lettore alla coralità di questo dramma, rendendo la poesia quasi
orale, epica nella sua moralità distruttiva e nel suo ritmo di accento
popolare. È una metafora del presente che diventa cosmica, una
denuncia morale intrisa di humour nero.
Canapè, invece, abita uno spazio completamente altro: la poesia è
delicatezza e sospensione, una contemplazione dell’amore in tutte le
sue sfumature, da quelle più dolci a quelle più dolorose. L’anima del
poeta si manifesta come sensibile percezione del mondo: gli astri, il
mare, i boschi diventano strumenti di risonanza interiore,
amplificando un sentimento antico e universale.
Qui il ritmo è musicale, quasi canoro, e la struttura dilatata dei
versi simula il respiro stesso dell’emozione. La psichiatria della
poesia emerge nella tensione tra desiderio e repressione, tra il non
detto e il pianto disperato: Canapè ci mostra l’amore come esperienza
fisica, sensoriale, ma anche come processo di riflessione interiore,
un indagare l’anima attraverso la natura e la memoria dei sensi.
Notarfrancesco sposta la lente verso un’introspezione più sospesa,
quasi filosofica. Il tempo è qui protagonista e filtro dell’amore: non
un mero sentimento, ma un’esperienza che si salda con la coscienza del
presente e del passato. La poesia è ascendente e discendente insieme:
il pensiero “scivola” nel dirupo dei ricordi e dei desideri, mentre la
fretta dell’amore crea tensione e verticalità nel verso.
L’anima del poeta è qui meditativa, quasi mistica, come se il cuore si
misurasse contro il tempo stesso. C’è una delicatezza clinica,
psichiatrica quasi: il poeta osserva l’emozione dall’interno,
decodificandola, senza abbandonarsi all’illusione, ma cogliendo ciò
che resta nell’oggi interrogato dalle verità del tempo.
Huenún Villa ci porta in un mondo concreto e insieme metafisico: la
costruzione della casa diventa simbolo di memoria, di vita, di legame
tra i morti e i vivi. Ogni oggetto, ogni tavola, ogni soglia è intrisa
di tempo, di storia, di spiritualità. L’attenzione ai dettagli della
natura — fiume, cieli, animali — si fonde con la fisicità della
costruzione, creando una poesia che è architettura e canto insieme.
L’anima del poeta emerge nella capacità di fondere il mondo sensibile
con quello interiore: ogni gesto quotidiano diventa gesto sacro, ogni
ombra piantata nella rena è un segno di presenza, resistenza e
memoria. La traduzione di Nino Muzzi conserva intatto questo
equilibrio, rendendo la poesia accessibile senza snaturarne la densità
simbolica.
Silenzi cattura la transitorietà della vita in un lampo, in un
singolo istante sospeso tra luce e ombra. Il sentiero di terra battuta
diventa metafora del cammino esistenziale, un percorso che termina non
in una meta definita, ma in un pendio dolce dove il tempo si dissolve,
lasciando spazio al “Fior di loto / Oblio / Profumo di vita”.
La poesia ha una qualità contemplativa, quasi mistica: l’anima del poeta
si manifesta come una percezione delicata e fugace della realtà, come se
cercasse di imprimere nel cuore del lettore l’eco di ciò che passa senza
ritorno. L’istante diventa esperienza assoluta, condensato di memoria e
consapevolezza, e la brevità dei versi amplifica il loro potere
sospensivo.
Jacqueline Miu ci catapulta in un universo di simboli e immagini
dense, dove l’emozione si fa visione fisica e psichica. Il “vespro
rosso” non è solo tramonto: è un cuore che pulsa tra dolore e desiderio,
una fusione tra interiorità e mondo esterno. L’uso di elementi come
vulcani, oceani, microscopi alieni e tempeste rende il sogno concreto,
quasi tangibile, mentre l’anima del poeta si dilata fino a inglobare
l’universo.
La poesia diventa laboratorio di esperienza emotiva: l’io è
simultaneamente preda e predatore, mare senza abissi, soggetto e oggetto
della contemplazione. Qui il dolore, la malinconia e la ricerca
dell’amore assumono una dimensione quasi sacra, mentre la tecnica visiva
di Miu — immagini frammentate e potenti — induce nel lettore un senso di
vertigine e di espansione interiore.
Colonna Romano celebra la bellezza come incanto quotidiano. Il
sorriso descritto non è solo gesto fisico, ma catalizzatore di emozione
e armonia universale. La poesia vibra di un lirismo classico, con rime e
musicalità che enfatizzano l’incanto e la leggerezza.
L’anima del poeta è permeata di gratitudine e ammirazione, quasi
religiosa nella devozione verso ciò che illumina la vita altrui. Il
testo rivela la capacità della poesia di trasformare un momento
ordinario in esperienza trascendente, e mostra come il sentimento
amoroso possa essere elevato a gesto di generosità cosmica.
Seccia trasforma l’osservazione del mondo in denuncia e dolore
universale. Le immagini forti — missili, distruzione, corpi frantumati —
evocano un orrore reale, mentre l’io lirico cerca rifugio in desideri
elementari: amore, cibo, un cielo sereno.
La poesia ha una dimensione etica e metafisica insieme: parla della
brutalità del tempo storico, dell’ingiustizia e della fragilità della
vita umana. L’anima del poeta appare straziata ma testimone, capace di
esprimere non solo l’angoscia personale, ma il grido collettivo
dell’umanità. La brevità e la ripetizione accentuano il senso di
impotenza e urgenza, rendendo la voce poetica profondamente empatica e
morale.
Romanini ci mostra il mare come testimone e custode di vite spezzate,
diventando al contempo Sorella Morte e custode di compassione. La poesia
è essenziale, quasi cristallina nella sua forma, ma potente nella
risonanza emotiva: il mare diventa specchio della nostra coscienza,
mentre ogni corpo restituito sulla spiaggia è un richiamo alla
responsabilità morale dell’umanità.
L’anima del poeta è qui profondamente empatica, capace di trasformare la
tragedia collettiva in esperienza simbolica. La struttura dei versi,
frammentaria e ritmica, imita il respiro delle onde e l’oscillazione tra
presenza e assenza, tra vita e morte. Il messaggio è universale:
l’indifferenza umana è messa a nudo, e il mare diventa giudice
silenzioso e maestoso.
Scaligine esplora il rapporto tra sogno e memoria, tra esperienza
vissuta e desiderio di rivivere il passato. Il mare qui è luogo di
fusione tra reale e onirico, tra perdita e nostalgia, un territorio dove
il tempo si dilata e si dissolve. L’io poetico tenta di arrestare
l’estate passata, di dischiudere la notte e di interpretare i sogni come
realtà alternativa.
La poetessa mostra una consapevolezza psicologica raffinata: il sogno è
terapia, inganno e rivelazione insieme. La nostalgia diventa strumento
di introspezione, e la poesia agisce come ponte tra memoria e presente,
tra desiderio e accettazione. L’anima del testo vibra di tensione
emotiva e vulnerabilità, mentre la forma lunga e meditativa riflette
l’oscillazione dell’io tra controllo e abbandono.
Greggio ci conduce in un paesaggio notturno di silenzi e profumi. La
luna diventa interlocutrice e amante, il gelsomino diventa simbolo di
connessione tra natura e emozione. L’anima del poeta appare immersa nel
mistero, in un’intimità sensoriale che unisce silenzio, odore e visione:
la poesia è incantamento, esperienza quasi sensoriale della realtà
trascendente.
La struttura semplice e l’assenza di punteggiatura eccessiva amplifica
l’effetto meditativo, come se il verso stesso fluisse tra i sensi e
l’inconscio. Qui non c’è dolore sociale né ricordo struggente: c’è
contemplazione e fusione tra l’io e il cosmo, tra presenza e assenza,
tra luce e profumo.
Con affetto e stima
Ben Tartamo
19-22 Agosto
Questa poesia è una lama di vetro che frantuma l’identità: un dialogo impossibile con lo specchio, con il proprio volto che non si riconosce più. È l’angoscia moderna dell’io che si smarrisce, un grido esistenziale che ricorda Pirandello e le sue maschere, ma anche l’eco di Rimbaud con il suo “Je est un autre”. La sera che avvolge e l’alba che acceca diventano le forze cosmiche che smantellano ogni certezza. Il poeta ci consegna il dramma dell’estraneità a sé stessi: l’io diventa uno straniero, e forse proprio lì nasce la poesia, nel buio interstizio tra riconoscimento e perdita.
Qui l’anima si apre come un campo sconfinato: promessa d’amore che diventa viaggio iniziatico. Il poeta si fa guida, profeta amoroso che conduce l’amata oltre le soglie del mondo tangibile: dalle aquile al mare, dalle vette alla neve. È un canto che si avvolge su sé stesso con ritmo ipnotico, quasi liturgico, che ricorda le litanie dell’amore eterno. Ogni “Se saprai starmi vicina” è invocazione, quasi un mantra, che non chiede ma afferma: l’amore vero è condizione, è adesione, è complicità assoluta. Non è solo un dono, ma una iniziazione mistica, in cui l’amore si rivela come forza cosmica capace di unire stagioni, sogni e silenzi.
In questa poesia si respira un tempo arcaico, intriso di sacralità contadina. La campanella che si diffonde nella valle non è solo richiamo religioso, ma vibrazione ancestrale che lega terra e cielo. Montagnoli sa restituire l’immagine di una comunità raccolta, fatta di scialli, pipe, ombre lunghe: un teatro di umanità che si muove dentro la cornice eterna della fede e della natura. C’è in questi versi una nostalgia per il sacro perduto, una liturgia della memoria che ricompone i passi dei vivi e dei morti sui lastroni consunti. E quando il rosario inizia, la poesia stessa diventa preghiera: il tempo profano è sospeso, e ciò che resta è il silenzio sacro dell’attesa.
Questa poesia è un dialogo con l’aldilà, un sorriso oltre la soglia
della morte. Andrea appare con leggerezza disarmante: fuma, sorride,
scherza, ironizza sulla vita che ha lasciato, eppure resta presente in
un cappellino, in un sorriso sopra un comodino. Qui la poesia non
indulge nel dramma della perdita, ma nell’intimità del ricordo, che
diventa un filo ironico, complice, quasi cameratesco. Santoro ci
restituisce la morte non come abisso ma come altra parte del percorso:
“Io credo, la mia”, dice Andrea, e in quella frase c’è la saggezza
semplice di chi sa che la vita è solo un tratto di cammino. È una
poesia che consola, che ride nel dolore, che accarezza il lutto con la
dolcezza del quotidiano
Un testo essenziale, quasi aforismatico, che affonda la sua radice nel minimalismo poetico contemporaneo. Le parole sono pietre sparse, scolpite nello spazio bianco: ogni termine ha il peso di un cosmo. L’affermazione “noi siamo” diventa dichiarazione ontologica, che va oltre la fisicità, oltre la “terra che limita il volo”. È una poesia che sembra farsi preghiera nuziale, ma anche atto metafisico: il “sì” è insieme consenso d’amore e assenso alla vita, alla trascendenza. Serino, con il suo linguaggio asciutto, costruisce un canto che potrebbe stare inciso sul marmo di un altare interiore: il poeta ci dice che l’essere vince il vuoto, che l’anima è già oltre le sue catene materiali.
Qui il tono cambia radicalmente: siamo nel vivo della satira civile, aspra, corrosiva, quasi dantesca nella sua fustigazione. Il “togato” diventa maschera di corruzione, di ipocrisia, di giustizia tradita. La rima morde, la cadenza incalza, l’anafora ribadisce indignazione. Bettozzi costruisce un pamphlet poetico che denuncia, svela, accusa: il “traditor di Patria” non è chi ha difeso il territorio, ma chi ha tradito il mandato. È poesia che non cerca armonia ma scossa, che non consola ma incendia. In essa vibra l’antica voce di un Pasolini civile, ma anche l’eco di certi versi satirici latini: corrosione morale e rabbia politica che diventano materia di poesia.
Un testo di sospensione, lieve ma carico di nostalgia. Il tema è l’incompiutezza, l’essere “sempre a metà”: mai del tutto dentro un tempo, mai pienamente soddisfatti. La poesia è costruita come un flusso riflessivo, senza orpelli, quasi diaristico, eppure la sua forza risiede nel non detto, nelle pause che si insinuano tra i versi. Qui la parola diventa eco del rimpianto: “altri tempi… completamente felici di sé”. La Notarfrancesco cattura l’essenza del vivere come frammento, mai totalità, e lo restituisce con tono quieto ma denso di malinconia. È un pensiero lirico che resta aperto, senza chiusura, come la vita stessa.
Qui entriamo nella poesia sperimentale, densa e caleidoscopica. La Miu frammenta e ricompone la realtà notturna in una sequenza visionaria: città, icone religiose, televisione, amanti, rifiuti, stelle. Tutto si mescola in un mosaico metropolitano che sa di beat generation e surrealismo. La lingua è fluida, stratificata, le immagini si inseguono con ritmo spezzato: “sciroppo di nuvole / e lunghe carcasse / la spazzatura dipinge la strada”. È una poesia che non descrive ma assorbe, non narra ma trasfigura. L’amore qui non è intimità domestica, ma energia che si manifesta nelle pieghe della notte, tra icone e vampiri, tra ombre e abbracci. L’effetto è quello di un canto cosmico urbano: mistico e profano insieme.
a poesia stessa diventa preghiera: il tempo profano è sospeso, e
ciò che resta è il silenzio sacro dell’attesa.
Un apologo in forma poetica, quasi favola morale che scivola in parabola universale. La vicenda del topo e dell’elefantessa non è solo ironia amorosa, ma diventa allegoria del pregiudizio, della diversità e del potere purificatore dell’amore. La lingua gioca con la rima narrativa, dal sapore antico e popolare, ma non rinuncia a lampi lirici che culminano nella nascita del piccolo Topante, elevato a figura messianica. Qui l’amore trasgressivo diventa forza cosmica che redime il mondo: la favola animale svela un Vangelo nascosto, in cui il diverso diventa salvezza. È poesia che fonde satira sociale, fiaba popolare e mito sacro.
Pochi versi, ma intensi come un lampo. La brevità diventa qui la cifra dell’assoluto: l’amore, scoperta che abbatte ragione e distanze, è un istante che contiene l’infinito. Struttura semplice, quasi epigrafica, dove le parole “scintilla”, “sguardo”, “Oceano” si fanno simboli di immensità. C’è un eco pascaliano: il cuore conosce ragioni che la ragione ignora. E nel frammento, come un haiku occidentale, Seccia ci consegna l’esperienza fulminea e vertiginosa dell’amore che si rivela come eternità compressa in un battito.
Romanini unisce la concretezza quasi diaristica (“mi duole la cervicale”) con aperture liriche che evocano colombe, mare, vapori celesti. È poesia ironica e malinconica, dove la fragilità del corpo e la noia dell’età si intrecciano al paesaggio naturale. La lingua si muove tra altezze e cadute: la colomba, la cupola azzurra, e poi la cervicale e lo stress. È in questa frizione che il testo trova forza: la tensione tra sublime e quotidiano genera un effetto straniante, che rende la condizione esistenziale più vera. L’ultima sentenza, “il tedio è l’oblio di ogni intrinseca attività”, ha quasi un tono filosofico, come una definizione tratta da un manuale di vita interiore.
Una poesia che si apre come un diario intimo, e si sviluppa in forma di confessione amorosa. Il “tu” evocato è presenza discreta e costante, un enigma che diventa destino. La scrittura procede in ritmo fluido, con immagini di delicatezza sensuale (“carezza sul cuore”, “onda che ha trovato il suo mare”). È un canto che racconta la trasformazione dell’attesa in compimento, del sogno in realtà, fino alla promessa estrema: “Finché avrei avuto respiro”. Qui l’amore non è solo sentimento ma approdo, totalità, senso ultimo dell’esistenza. La Greggio scrive con limpidezza, ma sotto la linearità si avverte una vibrazione metafisica: l’amore come respiro dell’anima che sopravvive al tempo.
con stima ed affetto
14-18 Agosto
Buon Ferragosto a tutti i sitani!!!
10-13 Agosto
Qui siamo di fronte a una costruzione poetica che ha l’aria di una piccola “commedia dell’arte” in versi: quartine, rime baciate o alternate, un’andatura da filastrocca riflessiva. È una parabola dell’esistenza, scandita dalla metafora del percorso di montagna: salite ardue, discese insidiose, rare vie piane. L’autore inserisce il tono confidenziale (“pe’ un percorso accidentato”) che avvicina il lettore e smorza la serietà con ironia bonaria. Se la tecnica metrica può sembrare talvolta più “artigianale” che cesellata, è proprio in questa vena schietta che si percepisce un sapore genuino. La chiusa con “anta” è un piccolo colpo di teatro: il tempo che passa diventa occasione di bilancio, ma senza cedere al lamento.
6-8 Agosto
I vostri commenti mancano come l'aria che respiriamo.
13-16 Luglio
Grazie dei vostri commenti,in questi giorni ne sento vivamente la mancanza,
7-8-9 Luglio
Buongiorno a tutti
Di tanto in tanto se pur per un breve commento devo dire grazie a
tutti ,
alle parole , emozioni che voi poeti trasformate in versi e in commenti
In particolare modo a Marino Spadavecchia
Umiltà calpestata,
che prende il sole
sulla spiaggia d’Oriente.
a Ben Tartamo
Giorni su giorni,
sassi su sassi...
sabbia che nasce
in riva al mare.
grazie per i vostri commenti
per la vostra poesia semplice e complessa
Piero Colonna Romano
Via delle monache, bellissima poesia ,e poi con tutti quei premi non ci sono
parole che potrei aggiungere
Mi dicono che gli angeli perdano le ali quando amano
Non posso aggiungere nulla di ciò che penso io, ma la tua poesia merita
molto , molto bella come tutte del resto Jacqueline Miu
Grazie Lorenzo che ci fornisci la possibilità e la gioia espressionistica
grazie alla tua sensibilità e generosità
alla tua bella poesia Nino Silenzi
Al Mare che culla i sogni , i ricordi , ciò mi fa capire che vivi , come me
vicino al mare ,perché quella distesa verde o azzurra come un cielo
capovolto ci fornisce la possibilità di vedere il fuori dentro di noi che
allieta il nostro spirito grazie con un abbraccio
Buone vacanze a tutti
Antonia Scaligine
Commento poesia "U Me' Sognu"
di Rosa Venuto di Acquedolci.
Bellissima poesia "U me' Sognu", è un omaggio struggente e
affettuoso a Franco Battiato, maestro dell’anima e della musica, filtrato
attraverso la memoria, il sogno e l’identità siciliana. Rosa Venuto
intreccia ricordi familiari, tradizioni antiche e versi evocativi in
dialetto, riportando in vita un mondo perduto fatto di armonia e semplicità.
Il testo vibra di nostalgia e desiderio: quello di tornare indietro nel
tempo, di varcare la soglia della casa di Battiato a Milo, per sentire
ancora l’eco della sua voce. Un sogno che è anche preghiera, una ricerca del
sacro nella quotidianità, dove l’arte diventa ponte tra generazioni, tra chi
resta e chi è già “trasitatu".O per meglio dire ..U me' Sognu" è un omaggio
poetico, intimo e sincero, che la poetessa messinese Rosa Venuto di
Acquedolci dedica al Carissimo Maestro Franco Battiato. In queste righe
scritte in dialetto siciliano, si intrecciano memoria e desiderio, antiche
tradizioni e riflessioni profonde sul tempo che passa. Il sogno di poter
visitare la casa di Battiato a Milo diventa simbolo di un bisogno più
grande: quello di ritrovare l’armonia, la bellezza e la semplicità di un
tempo che oggi pare perduto. È un canto d’amore per la Sicilia, per la
famiglia, e per un figlio – Franco – che, con la sua arte, ha saputo portare
la luce oltre i confini dell’isola.
Commento edito da
MariaAntonietta Chiovetta
4-5-6 Luglio
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