Commenti sulle poesie
 

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Commenti Gennaio-Giugno 2025

 

Premi letterari dei Sitani

 

Inviare i commenti a poetare976@gmail.com


2025

Luglio - Dicembre

 

Avviso

Cari Sitani,
se per caso riceveste e-mail firmate Miu, in cui si chiede di iscriversi subito ad un altro sito, perché il sito poetare.it sta traslocando, eliminatele: è falso. Jacqueline Miu non scrive su altri siti e non ha intenzione di farlo. Poetare.it non si trasferisce e sarà sempre presente ad accogliere poeti e poetesse, come già succede dal 17 Aprile del 2002.
Grazie a voi tutti per la partecipazione e auguri di una buona estate.
Lorenzo De Ninis, titolare di poetare.it.


 

16-17-18 Ottobre

Forse avevi ragione tu

Un diario di vita, di amicizia e di fede. Un resoconto poetico che accompagna il lettore con cari ricordi della poetessa. Quel saluto inaspettato, rende effettiva la speranza nella gioia che chiude il poema come se si fosse accesa una lampadina nella vita della ispirata poetessa.

Rosa Notarfrancesco

 

 

Un ponte romano

Romanticismo nato da una postura architettonica gloriosa del passato. Un visita poetica alla storia e il tutto a braccetto di un naturalismo poetico liberatorio. Da ricordare l’anamnesi autunnale che costruisce anche la metafora con la gloria passata del sito di riferimento. La bellezza passata degli alberi che si ricompone nello studio degli antichi della poetessa.

Antonietta Ursitti

 

 

"Paesaggio di Primavera"

Questo presagio primaverile, surriscaldato dalle visioni e dalle chimere che porta Cristiano Berni a rintanarsi in un gentile crepuscolo, apre la porta emotiva al sollievo e dona serenità. E’ un poeta più in ascolto che descrittivo, un suono che lui amplifica per renderlo melodia e diventa … meditativo (con una ottima chiusa).

Cristiano Berni

 

 

Testo dedicato a Casiraghi, Marito della Principessa Carolina del Principato di Monaco

 

“Prendimi un Arcobaleno per poter sognare ad Occhi Aperti “

Prosa scritta come inno a questo Principe dalla vita avventurosa che ha trovato morte in una gara acquatica a Cap Ferrat la mia città natale nel 1990. La passione di Casiraghi per le belle donne e per l’offshore, ha lasciato nella poetessa un indelebile e romantico segno.  

Rosa Venuto di Acquedolci

 

 

Ispirazione

Caro Nino Silenzi il tuo espatrio planetario volutamente non voluto è durato un battito di palpebre. Benché fuggiasco tu non puoi che appartenere, a Lei, alla Poesia. Conscio di forze e scelta fatta, ovvero liberarti dal peso e l’angoscia che a volte questa Sibilla genera nel suo adepto, ti ritrovi nel perpetuum cosmico della dipendenza da questo narcotico visionario nato chissà per quale legge fisica non a portata dell’umano. .. Poesia. La vicinanza al presente e la scelta presa, parla di un tutore più che di un discepolo, un tutore la cui mente sa di non essere vicina a scoprire il   Grande Mistero, motivo per cui l’inconscio ti guida dalla parte per te, sbagliata,  ma per l’Olimpo giusta. La parte in cui sei obbligato a generare eternità di cui non sai ancora bene come farne parte. Il poeta per mettere fine al tormento dell’idealizzazione porta a casa un po’ della propria genesi e non sembra per nulla strano che lì tra l’elica del  DNA ci sia il cromosoma ben piantato e tramandabile  della più illustre letteratura.

 

Da Le strade della vita

Nino Silenzi

 

 

Borgo fantasma

Memorie sull’architettura di un borgo come geroglifici che invitano ancora i turisti a visitarlo. Alessandro Borghesi ci illustra con convinta emozione, questo piccolo gioiello che ben conserva ancora qualche antica naturale luminescenza.  

Alessandro Borghesi

 

 

Porto il peso…

Porto il peso della mia solitudine … che magnifico verso. Un intenso poetico che entra come una spina poetica nel sentimentalismo del lettore e lo acchiappa. Il poema diventa vivo, traslato – rimbomba come una fuga da se stessi che non può finire bene. L’intesa con se stesso qui è forte. La malinconia è trascinante quasi si trastulla con la fragilità umana del suo compositore.

Franco Fronzoli

 

 

 

"Noto, cattedrale di luce"

Noto patrimonio dell’Unesco.  La città è un piccolo capolavoro dell’architettura siciliana che s’erge su incredibile equilibrio scenografico. Una scultura michelangiolesca di questa città che ha la fortuna di diventare il personaggio della penna di questa brava poetessa. Prende vita e si erge sui sussurri che accarezzano le forme di pietra. Ci immergiamo per innamorarci proprio come vuole la poetessa nell’ultimo verso.

 

Da "Sicilia: Pennellate di Poesia”

Letizia Miserendino   

 

 

 

Vorrei

Un bozzolo poetico e un alambicco filosofale che guarda all’aura più che al corpo. Una delicata descrizione del bravo Ciro Seccia che punta alla libertà della bellezza in un dove la materia non è necessaria.

Ciro Seccia

 

 

Chi porterà i fiori

Una divulgazione, una condanna e una sintesi sentimentale che rende lucente l’armatura di Alessio Romanini. Dall’eredità di altri grandi poeti e in sintonia con essi, questa ode tragica che s’arma di passione per quelli che dopo la morte sono cancellati con un palmo di silenzio e nemmeno un fiore. L’apertura è teatrale.

Alessio Romanini

 

 

```«Solo il vento»

L’amore è un essere celestiale e la poesia di Ben Tartamo diventa un unicorno nell’oasi illuminata da una luce bonaria. Il fotogramma diventa un quadro che gli impressiona gli occhi e l’anima (per sempre).

 

9ottobre25```

Ben Tartamo

 

 

Il libro sognato

L’amore per il libro e la magia che rende importante anche l’apertura della prima pagina. Aspettare di leggerlo è un’azione che regala trepidazione prima e appagamento poi. Una delicata e profonda intimità emotiva con quelle pagine che sveleranno l’indomani i suoi segreti e una poetessa che ricama per se stessa un velo calmo fuori dal caos sotto cui potrà assaporare e lasciarsi sedurre da quell’incantesimo. Il libro diventa un bene assoluto, un amuleto capace di animare ogni aspetto della vita, altrimenti in ombra.

 

7 Maggio 2024

Sandra Greggio

 

 

Il mio saluto va al nostro Magister Lorenzo che ringrazio per la sua ospitalità e l’onore di essere parte di un progetto così coraggioso , la mia stima va al ricordo di Piero Colonna Romano che ha commentato i poeti per decenni  diventando parte del Tempio Azzurro e della sua famigerata famiglia letteraria – “Piero rema! da riva ti si vede.” Un caro ringraziamento a tutti i partecipanti, poeti, visitatori e superlativi commentatori. Siate laboriosi come le api.

 

Miu

 

 

 

• Rosa Notarfrancesco – “Forse avevi ragione tu”

 
Testo di chiara impronta memoriale, costruito su un tono narrativo pacato, introspettivo, dal registro quasi prosastico.
Il verso libero, ampio, fluisce come una confessione privata, priva di enfasi, ma densa di una nostalgia razionale, di una lucidità emotiva che non cede mai al sentimentalismo.
L’autrice indaga il tempo dell’amicizia perduta con un linguaggio apparentemente semplice ma attraversato da una profonda ambiguità teologica e psicologica: “portare Dio con te / in una vita che sola ti pareva / essere un’immagine della visione”.
Qui emerge una tensione spirituale che oltrepassa il semplice ricordo biografico e diventa riflessione sull’assoluto e sul destino umano.
La “pizza” — simbolo prosaico, quotidiano — diventa metonimia del rito mancato, del momento banale che svela una separazione irreversibile.
È una poesia che lavora sulla contraddizione tra sacro e quotidiano, e la chiude con un atto di grazia finale (“Che gioia il nostro saluto. La vita lo esigeva.”), quasi evangelico nella sua compostezza.
Opera di grande equilibrio morale e affettivo, che si colloca tra la poesia di meditazione e il racconto del disincanto.

 
• Antonietta Ursitti – “Un ponte romano

 
Testo lineare, descrittivo, con un linguaggio limpido, quasi didascalico.
Il nucleo poetico risiede nella fusione tra natura e memoria storica: il ponte romano non è solo un manufatto, ma il simbolo del collegamento tra passato e presente, tra civiltà e interiorità.
La costruzione sintattica è tradizionale, e la rima piana (“gesta” / “passato”) contribuisce a creare una musicalità gentile, seppur prevedibile.
Si avverte l’intento di evocare un sentimento di pacata reverenza verso il tempo, ma manca una tensione metaforica più profonda: la poesia resta ancorata all’osservazione.
Apprezzabile tuttavia la nitidezza visiva e il tono sinceramente elegiaco, che la collocano nella linea di una lirica descrittiva post-carducciana.

 
• Alessandra Piacentino – “Con il cappello calato in fronte”

 
Poesia intensa, drammatica, con un tono quasi cinematografico.
L’autrice mostra una forte sensibilità espressionista, capace di coniugare immagini violente (“vestito inginocchiato tra le urla della stanza”) con una dolcezza salvifica nella chiusa (“lava con questa luce d’arcobaleni…”).
L’andamento è franto, emotivo, scandito da enjambements che suggeriscono urgenza e dolore, e il testo si muove fra realtà e visione mistica, fra eros e spiritualità ferita.
L’imperativo “Non nascondere quel volto” ritorna come un leitmotiv salvifico, un atto d’amore rivolto all’essere, al volto umano come icona di verità.
In termini stilistici, l’autrice dosa bene l’immagine e l’intensità, mantenendo una tensione quasi teatrale.
È una poesia di catarsi e redenzione, potente e autentica.

 
• Cristiano Berni – “Paesaggio di Primavera”

 
Composizione formalmente curata, in rima baciata e alternata, che risente di una forte ascendenza classica (Pascoli, Carducci, i sonettisti del primo Novecento).
Il linguaggio è ornato, il tono solenne, con un evidente amore per la musicalità e la simmetria.
Il testo, tuttavia, soffre di una sovrabbondanza di descrizione naturalistica, che talvolta appiattisce la tensione lirica in un’eccessiva reverenza verso il paesaggio.
L’autore padroneggia la versificazione ma rischia di cadere nella retorica dell’idillio.
Pure, nei versi centrali (“Il profilo del monte carezza le nubi / che oscurano i cieli rendendoli cupi”), emerge un senso cosmico che trascende la semplice osservazione e apre all’infinito, conferendo respiro e maestosità.
In complesso, un testo tecnicamente raffinato e di sincero sentimento, ma che potrebbe beneficiare di un minor compiacimento formale e di una più audace introspezione.

 
• Rosa Venuto di Acquedolci – “Prendimi un Arcobaleno per poter sognare ad Occhi Aperti”

 
Poesia che si colloca nella linea mistico-simbolista, attraversata da un tono epico e sentimentale insieme.
L’autrice costruisce un inno al trapasso di Stefano Casiraghi, ma lo fa evitando la cronaca e scegliendo la via dell’allegoria marina: il mare come destino, l’arcobaleno come ponte verso l’eterno.
La scrittura procede per immagini barocche e sinestesiche, in un lessico che mescola sublime e terreno (“Zefiro leggero”, “tamerici salmastre”, “Autunno Scalzo”).
Vi è una tensione evidente fra l’enfasi lirica e la materia linguistica, che talvolta si fa ridondante, ma mai casuale: l’eccesso stesso diventa parte del dramma visionario.
La chiusa, con il ritorno della memoria (“una lacrima scende dagli occhi per un ricordo ormai lontano”), conferisce al testo un tono quasi dannunziano, ma trasfigurato da una sincerità ingenua e devota.
È una poesia che non teme l’ampollosità, perché la abita con fede nella parola: uno slancio romantico che si fa elegia dell’anima liberata.

 
• Nino Silenzi – “Ispirazione”

 
Testo metapoetico di sorprendente modernità e ironia.
Il poeta racconta, con tono colloquiale e disincantato, la propria dipendenza creativa, alternando confessione e sorriso amaro.
La struttura è narrativa, quasi diaristica, ma sostenuta da un ritmo discorsivo regolare e da un lessico volutamente semplice: un ossimoro tra leggerezza e profondità.
Silenzi pone la domanda centrale della poesia contemporanea: “S’è liberata l’anima mia?” – e lascia la risposta in sospeso.
Il gesto di scrivere “questa poesia” dopo aver sognato di non scrivere più è un atto di autocoscienza poetica, un piccolo paradosso esistenziale che rimanda a Caproni e a Saba per la loro capacità di far coincidere ironia e malinconia.
È una poesia lucida, autentica, autoironica, che riflette sulla poesia stessa come necessità e condanna.
Non per nulla, Nino Silenzi, altri non è che il nostro Pater et Magister di questa azzurrità....

 
• Alessandro Borghesi – “Borgo fantasma”

 
Poesia elegiaca e contemplativa, costruita su un linguaggio denso di immagini sensoriali e su un tono di rimpianto quasi archeologico.
Il “borgo” è metafora della memoria collettiva perduta, ma anche del sé che si è dissolto nel tempo.
L’autore possiede una notevole capacità pittorica: “il ciottolo scivola copioso da quelle mura” è un’immagine tattile, materica, che restituisce la rovina come corpo vivo.
La poesia però tende, nel suo sviluppo, a un eccesso di nominalismo lirico (enumerazioni e sostantivi evocativi), che rischiano di disperdere l’intensità iniziale.
La chiusa, tuttavia, è efficace: “L’orologio del rimpianto sovrasta / lo scandire di una bellezza lontana.”
Versi di buona musicalità e valore concettuale, dove il tempo diventa protagonista metafisico.
Un testo di coerenza emotiva e maturità linguistica, nel solco di una lirica memoriale che ricorda certi toni di Bertolucci e Luzi.

 
• Armando Bettozzi – “A Gianfranco di Pretoro, derubato”

 
Sonetto umoristico-morale di scuola classica.
Bettozzi gioca con la forma petrarchesca per raccontare, con arguzia e misura, un episodio triviale: il furto di una bicicletta.
La combinazione di lessico quotidiano e struttura nobile produce un effetto di raffinato contrasto: la “bici tanto amata” diventa pretesto per una riflessione civile e umana.
L’autore dosa ironia e moralità con equilibrio (“ché il mal non s’augura. Nemmeno a te.”), e la chiusa con rima baciata (“Ché, se la legge alliscia l’assassino, / che vuoi che se ne infischi…il malandrino!”) mostra una vena satirica limpida, quasi goldoniana.
Poesia di mestiere e di spirito, che restituisce il gusto per la misura, la rima e il sorriso etico.

 
• Franco Fronzoli – “Porto il peso…”

 
Poesia di forte carica confessionale, costruita su una struttura anaforica che diventa quasi un rosario laico.
Il ripetersi ossessivo di “Porto il peso” trasforma il testo in un canto penitenziale, una litania dell’esperienza umana, dove ogni verso è una scheggia di memoria e di colpa.
Lo stile è volutamente frammentato, privo di punteggiatura regolare, e ciò restituisce il flusso del pensiero interiore, la continuità del rimorso.
I temi – tempo, solitudine, desiderio, giovinezza – appartengono alla grande tradizione esistenzialista, ma qui sono trattati con una sincerità quasi diaristica, priva di retorica.
Particolarmente efficace la parte finale, dove il poeta si ferma sul tempo consumato e sulle “impronte lasciate sfumare”: immagine sobria e struggente insieme.
Un testo che parla la lingua della verità individuale, senza compiacimenti, sorretto da un ritmo che diventa respiro.

 
• Salvatore Armando Santoro – “Il tavolo vuoto”

 
Poesia narrativa e colloquiale, con rime baciate e tono affettuosamente dimesso.
Santoro si muove nel territorio del disincanto amoroso, con ironia malinconica e misura classica.
Il verso è regolare, la rima precisa ma non invadente, e il risultato è un piccolo bozzetto sentimentale, quasi da teatro da camera.
Interessante la figura femminile: pudica, sfuggente, contraddittoria.
Il poeta la osserva con una tenerezza antica, ma anche con la consapevolezza della propria età (“mi guardo riflesso allo specchio / e mi dispero, mi sento un po’ vecchio”).
Qui il lirismo si stempera in un realismo dolceamaro, che ricorda certi versi di Giorgio Caproni o del primo Umberto Fiori.
Un testo semplice, vero, umano: la poesia che nasce dall’intimità quotidiana.

 
• Letizia Miserendino – “Noto, cattedrale di luce”

 
Esemplare esempio di lirica descrittiva d’arte e di luogo.
La poetessa tratteggia Noto come un organismo vivo, respirante, in cui il barocco non è ornamento, ma energia spirituale.
L’immagine dominante è quella della luce che plasma la materia, e la lingua segue questa luminosità: aggettivi chiari, ritmo armonico, sintassi limpida.
“È una città che non cammina: / danza” è un verso memorabile per la sua felice sintesi metaforica.
La Miserendino riesce a unire poesia e architettura, tempo e sensazione, creando un quadro di eleganza mediterranea.
Si potrebbe dire che la sua Noto è un’estasi in equilibrio: la contemplazione dell’arte come preghiera.

 
• Felice Serino – “Né in cielo né in terra”

 
Testo brevissimo, spiazzante, volutamente ermetico.
Serino appartiene alla corrente della poesia concettuale contemporanea, dove il frammento e la dislocazione linguistica sostituiscono la narrazione.
L’apparente nonsense (“ti prego fa gettare nella massa operaia”) diventa scintilla interpretativa: un messaggio interiore, forse un sogno, forse un residuo di coscienza collettiva.
La poesia si costruisce sul vuoto semantico, sull’ironia del risveglio, sull’autoanalisi dell’atto poetico.
Il poeta osserva se stesso nel momento in cui tenta di dare senso all’assurdo.
È un microcosmo che vive tra veglia e visione, dove il linguaggio si fa specchio del mistero.
Opera di lucida sperimentazione, più vicina alla filosofia che alla lirica in senso stretto.

 
• “A light is born” di Jacqueline Miu

 
Opera di alto respiro elegiaco e cosmico, A light us born, si colloca nel solco delle grandi epistole poetiche indirizzate all’assente, al maestro scomparso, all’amico trasfigurato in luce. La dedica finale “All’immortale scrittore e poeta Piero Colonna Romano” svela la natura del testo: un in memoriam che unisce intimità e cosmologia, lutto e rinascita, affetto umano e contemplazione dell’infinito.
La poesia si apre con un interrogativo che contiene già il nucleo teologico del testo: “com’è che non riesco a fare delle stelle il mio Eden”. Qui l’Eden non è più un luogo, ma una condizione spirituale che il poeta non riesce a raggiungere — un’altezza metafisica da cui resta escluso per umana pesantezza (“resto coi piedi per terra e desidero solo ciò che il verme vuole”). L’antitesi fra cosmico e terreno si configura come tensione fondamentale: da un lato l’anelito alla trascendenza, dall’altro la consapevolezza della materia corruttibile.
L’evocazione di Piero Colonna Romano come viandante del cosmo, “onnisciente silente”, introduce una dimensione gnostica: l’uomo che ha contemplato la totalità, mentre “gli umani battiti” restano celati nel buio. La voce che parla non è di mero dolore ma di dialogo metafisico, come se il poeta si rivolgesse a una presenza astrale, viva nella morte.
I versi del secondo e terzo movimento si radicano invece nel quotidiano, con immagini concrete e malinconiche: la “bottiglia di vino”, “le ultime poesie”, la “stazione”. È una bellissima trasposizione della morte come partenza ferroviaria, un transitus dolce, quasi pascoliano, ma modernamente privo di redenzione automatica.
L’ultimo segmento — “ritorna anche soltanto albero…” — è tra i più alti: l’idea della reincarnazione come ombra benefica per “il prossimo poeta che ama la vita ma dorme sulle panchine” unisce pietà, umiltà e poesia. È il compimento dell’amore fraterno: la grandezza spirituale che si fa ombra, non luce accecante.
Il finale, “diventa – rinasci e forgia il puntino per un nuovo universo”, chiude con un gesto demiurgico e cosmogenetico: la morte come inizio del creato. Sintassi spezzata, ritmo solenne ma contenuto, lessico limpido: tutto concorre a una poesia di ascendenza mistica contemporanea, dove la metafisica si fa commiato affettuoso.
In sintesi: un testo maturo, cosmico e umano insieme, in cui Jacqueline Miu raggiunge un equilibrio raro fra lirismo, filosofia e verità affettiva.

 
• “Vorrei” di Ciro Seccia

 
Poesia di apparente semplicità, Vorrei si struttura come una breve meditazione lirica sul desiderio di leggerezza e trascendenza. È una composizione che si colloca idealmente fra il simbolismo e la poesia spirituale contemporanea: pochi versi, misurati, ma colmi di tensione verticale.
Il titolo, “Vorrei”, introduce subito la dimensione del sogno e della possibilità: un verbo al condizionale che non indica azione, ma anelito. In questa sospensione grammaticale si riconosce il tono del testo: nulla accade, ma tutto si desidera.
La farfalla, archetipo di leggerezza e metamorfosi, diviene emblema dell’anima che aspira alla libertà dalle zavorre terrene: “Farmi trasportare / dalle onde del vento” è un verso che congiunge la grazia naturale e la tensione mistica. La porta di questo mondo che la farfalla attraversa, invece, allude al passaggio iniziatico, forse alla morte, forse a una rinascita spirituale.
I versi centrali si addensano in un tono più elegiaco: “Lasciar cadere i ricordi / bagnati dal dolore / nella sabbia del deserto”. L’immagine del deserto è di grande efficacia simbolica — luogo del silenzio, della purificazione, del vuoto necessario a ritrovare sé stessi.
Infine, l’“anpolla” (ampolla) che conserva “frammenti di felicità” è un oggetto quasi alchemico, memoria distillata del vissuto, reliquia della luce in un corpo destinato a dissolversi. Il verso finale, “Oltrepassando / i confini della carne”, chiude il cerchio: dalla farfalla alla carne, dal volo al limite, dalla materia allo spirito.
Poesia limpida, controllata, autentica: il suo valore sta nella sincerità dell’anelito e nella sobrietà del linguaggio. Ciro Seccia dimostra che la spiritualità non ha bisogno di ornamenti: bastano poche parole, ma vere.

 
• Chi porterà i fiori” di Alessio Romanini

 
Romanini affronta il tema della guerra con una voce etica più che elegiaca. Il tono è civile, ma non declamatorio: Chi porterà i fiori è una poesia che unisce indignazione e dolore in una forma quasi classica, dal ritmo severo e moralmente netto.
L’interrogativo iniziale, “E chi porta i fiori ai martiri, morti / per un’insensata guerra?”, stabilisce subito la doppia tensione del testo: l’atto del portare fiori (gesto di pietà e memoria) si contrappone alla follia della guerra, mentre l’interrogazione ribalta il dolore individuale in colpa collettiva.
La seconda parte, “Non voltate il volto dall’altra parte: / perché ognuno di noi è colpevole!”, è un apice di etica poetica: l’autore non cerca la consolazione, ma la responsabilità. La poesia qui diventa tribunale morale, ma non ideologico: è la coscienza a parlare, non la propaganda.
L’immagine conclusiva — “Il vento, con dimesso silenzio” — è di rara efficacia simbolica. Il vento è l’unico a portare i fiori: la Natura supplisce alla mancanza dell’uomo. È un finale che risuona come una sconfitta collettiva e insieme come un gesto di compassione cosmica.
Romanini scrive con limpidezza e controllo, affidandosi a una lingua classica, scolpita, priva di retorica: e proprio in questo rigore risiede la forza della sua poesia.

 
• “Il libro sognato” di Sandra Greggio

 
L’opera di Sandra Greggio è una fine allegoria della creazione artistica e del desiderio procrastinato. Il libro sognato rappresenta non soltanto l’oggetto materiale del libro, ma la totalità del sogno artistico, continuamente rimandato dal timore di vederlo esistere davvero.
L’autrice adotta un tono narrativo e confidenziale, quasi diaristico, che ricorda certi testi di Vivian Lamarque e Patrizia Cavalli, ma lo volge in chiave introspettiva. La poesia si costruisce sulla figura della attesa: “Ti avrebbe fatto compagnia / nelle tue notti insonni / se lo avessi avuto”, ma il soggetto non si decide mai a cominciare.
L’atto di chiudere e riporre il libro prima ancora di leggerlo è un gesto emblematico: il desiderio è più forte della realtà, il sogno più dolce del compimento. Qui si tocca un nodo psicologico e creativo profondo — la paura dell’irreversibilità, del definitivo.
Il ritmo, volutamente piano, e il linguaggio quotidiano creano un effetto di familiarità che avvicina il lettore: l’opera non vuole stupire, ma accompagnare. Il finale, “Finché domani… diventerà realtà”, è un perfetto non-finale: un punto di sospensione, la promessa del domani che forse non arriva mai.
In questa sospensione si riconosce la vera materia della poesia: non ciò che accade, ma ciò che potrebbe accadere.

 
Nel ringraziarvi - uno ad uno - per le intime preziose perle che ci avete donato, colgo l'occasione per salutarvi tutti con affetto e sincera stima.
Un imprescindibile ringraziamento e ossequioso saluto va a chi, primo tra pari , è per tutti noi Lorenzo De Ninis, Pater et Magister Ludorum di questo azzurro tempio. Se mai riusciremo a ringraziarlo - quanto e come infinitamente egli merita - per ciò che ha creato con sublime saggezza e lungimirante ospitalità.
Vostro Ben Tartamo 

 

 

– “Solo il vento” di Ben Tartamo

Siamo di fronte a un piccolo gioiello di lirica classica, in cui Ben Tartamo torna alla struttura metrica e alla musicalità della poesia d’amore novecentesca, con echi che vanno da Pascoli a Cardarelli, fino alla malinconia limpida dei crepuscolari.
Ma ciò che la distingue è la sua moralità sentimentale: un amore vissuto come preghiera, come dedizione assoluta, e un dolore espresso con eleganza, mai con disperazione urlata.
 
Già nel primo verso – “E lasciati catturare / cerbiatta dai bei verdi occhi” – l’immagine è limpida, pastorale, quasi bucolica. Il richiamo alla “cerbiatta” rimanda all’innocenza e alla fuga, ma anche a un eros casto, filtrato dalla distanza. L’autore si pone in una posizione di attesa e di tenerezza, non di possesso.
 
Il secondo distico – “Che possa anch’io brucare / quei prati che vuoi non tocchi” – introduce una metafora naturalistica di rara grazia: l’amore come pascolo interdetto, come desiderio di condividere la purezza di un mondo che l’amata difende. È un’immagine da idillio virgiliano, ma riscritta in chiave intima e umanissima.
 
La seconda strofa è costruita su un alternarsi di speranza e disillusione:
 
> “Che null’altro al mondo spero / di perdermi nei tuoi sguardi,
> ma tu sfuggi e mi dispero, / ché il sogno mio tardi.”
> Qui Tartamo dosa perfettamente il ritmo: il verbo “tardi” chiude la quartina con un accento languido, sospeso, come se l’attesa diventasse forma stessa dell’amore.
 
Poi, la sera cala: “Quanto costa a me la sera” – è un verso che potrebbe appartenere a Saba per la sua semplicità sacrale. La “sera” diventa metafora del distacco, del rimpianto, e in essa si condensa il senso della lontananza.
 
Nella penultima strofa, l’autore introduce il giuramento d’amore – “E ancor - e sempre - lo giuro: / il cuor mio t’appartiene!” – un gesto che oggi suona anacronistico e dunque autentico, perché coraggiosamente sentimentale in un’epoca che teme la sincerità.
 
Il finale, però, rovescia la scena: il vento, figura dello spirito e della consolazione, resta l’unico testimone e custode.
 
> “Solo il vento si fa cura / e canta: buona fortuna!”
> La natura si sostituisce alla donna, e la parola poetica si fa eco del vento stesso: l’amore, pur non ricambiato, si trasforma in canto, in soffi di libertà.
 
È una chiusa di sublime malinconia, quasi hegeliana: la negazione si risolve in spirito.
La notte “algida e oscura” è il dolore, ma la poesia – come il vento – continua a parlare.
 
In sintesi:
“Solo il vento” è una ballata dell’assenza e della fedeltà, dove la musicalità del verso (ABAB, 8-7 sillabe prevalenti) accompagna un sentimento di purezza e rinuncia.
Ben Tartamo firma qui una poesia che unisce la grazia formale alla sincerità emotiva, e che respira il respiro stesso del vento — simbolo della voce poetica che continua anche quando tutto tace.

 
prof. Marino Spadavecchia 

 

 

 

13-14-15 Ottobre

Grazie Ben!

Il tuo commento è una poesia nella poesia.
La tua sensibilità è mera interpretazione
di ogni poesia presente su Poetare.
Grazie di cuore.
Alessio Romanini

 
Un caro saluto a Lorenzo, che mi ospita
e permette di condividere poesia
con straordinari poeti, che ogni volta leggo con attenzione.
Grazie di cuore.
Alessio Romanini

 

 

• Felice Serino – “Vedevamo il berretto spuntare"

Questa poesia è un piccolo miracolo di memoria affettiva. Serino, con il suo stile sobrio e narrativo, compie un gesto di alto lirismo senza mai alzare la voce. Il tono è quello di chi parla a bassa voce in una casa dove il tempo è sospeso, eppure vivo.

Il "berretto che spunta" è una delle immagini più forti della poesia familiare italiana, degna della memoria pascoliana e di certi quadri neorealistici: è il segno del ritorno del padre, del limite e dell’autorità, ma anche della riconciliazione.
C’è in questo testo una tenerezza che nasce dalla disciplina, un’armonia fra colpa e perdono domestico. Persino il battipanni della madre, figura comica e minacciosa insieme, si trasforma in simbolo d’amore educativo, nel gesto materno che contiene e redime.

La struttura alterna narrazione e visione (“dalla finestra –al crepuscolo–”), e quel trattino sospeso è quasi una ferita del tempo: il momento in cui il bambino di allora incontra l’uomo di oggi, in un crepuscolo eterno dove tutto ritorna.
La poesia chiude con "una dolcezza postuma", come un saluto che attraversa decenni per ringraziare la vita per averci dato un padre, una madre, una casa, una lampada davanti al Sacro Cuore. È un canto domestico che sfiora il sacro.

• Rosa Notarfrancesco – “La coscienza di Dio”

Qui la voce cambia registro: non più il ricordo, ma la teologia intima. La poetessa parla a un “tu” che può essere Dio, ma anche l’amato perduto, o la propria anima.
Il titolo è già una dichiarazione di poetica: non “Dio”, ma la "coscienza" di Dio.
È il tentativo di umanizzare il divino e di divinizzare la perdita.

“Non ti nascondere. Me ne andai / perché tu potessi mostrare / ciò che il mondo non vuole vedere.”
Questi versi hanno un respiro profetico e quasi gnostico: sembra parlare una figura che rinuncia alla presenza per permettere la rivelazione. È un Dio che si ritira perché l’uomo possa manifestarlo, come nella mistica ebraica di Luria o nel “Deus absconditus” di Pascal.

La lingua è limpida ma gravida di mistero. Il tema del perdono e del tempo che conquista l’amore introduce una tensione fra eternità e caducità, dove la fragilità umana diventa luogo della manifestazione divina.
C’è qui una spiritualità contemporanea, ferita, ma ancora aperta al ritorno del sacro nel cuore stesso dell’umano.

• Antonietta Ursitti – “Un vestito bianco”

Con Ursitti, la scena si sposta dal cielo interiore al dramma cosmico.
È una poesia che si legge come un’inquadratura cinematografica in rallenty: vento, mare, tempesta, una donna inginocchiata. Tutto è moto e implorazione.

Il vestito bianco diventa protagonista, quasi più del corpo che lo indossa. È l’anima, la purezza, l’innocenza travolta dal caos, ma che non smette di “implorare salvezza in un nero universo”.
Questa è un’immagine potentemente archetipica: la luce che resiste all’abisso.

L’autrice orchestra elementi naturali (nuvole, onde, vento) in una sinestesia drammatica che ricorda certi quadri di Turner o di Böcklin, dove la natura è specchio dell’anima.
La musicalità del testo è serrata, quasi cinematica, e culmina in quell’ultimo verso ellittico, “in un nero universo…” — con i puntini sospensivi che aprono, non chiudono.
Lì si compie la poesia: non nella descrizione, ma nel respiro trattenuto del mistero.

• Alessandra Piacentino – “Le Ossa dei pensieri”

Questa poesia è un corpo vivo.
Non si legge — si ascolta, come una partitura per pianoforte che attraversa il corpo del lettore, dalle ossa alla pelle.
La poetessa crea un linguaggio che pulsa di materia sonora e viscerale, dove il ritmo spezzato, quasi sincopato, traduce la frattura interiore di chi cerca la bellezza dentro la rovina.

Il titolo è potente: Le ossa dei pensieri — la struttura portante, ciò che rimane dopo che la carne delle parole si è consumata.
Ogni verso si frantuma e si ricompone come uno spartito jazz improvvisato: “Brividi e palle / al piede” — una dissonanza che subito si trasforma in epifania sensoriale.
La poetessa alterna il corporeo e il metafisico, la musica e la preghiera, in una sorta di liturgia laica del suono.

“Vorrei solo / Che sulle mie ossa riposassero echi eterni” —
Qui il verso si fa invocazione. Le ossa diventano archivio del divino, cattedrale di risonanze.
Il pianoforte è l’altare e la stanza delle “luci tremule ed ombre fitte” è il tempio dell’anima che cerca un nuovo battesimo sonoro.

Il finale è una deflagrazione cosmica: “Buio percuotimi il petto ed usciranno stelle e note sofferte”.
È poesia in trance, quasi oracolare, ma tenuta in equilibrio da una malinconia umanissima.
Se ne esce scossi, come dopo aver ascoltato Keith Jarrett suonare da solo in una chiesa deserta.
Una poesia postumana e mistica, dove l’arte diventa resurrezione del corpo attraverso la musica.

Renzo Montagnoli – “Serenata a Ninive”

Dopo la febbre di Piacentino, Montagnoli ci restituisce la calma del mondo naturale.
È un poeta classico, nella migliore accezione: crede nella musica della semplicità, nella liturgia della natura come luogo del sacro.

Il titolo, Serenata a Ninive, è straordinario: unisce la delicatezza della serenata alla memoria di una città biblica e perduta. È come se un usignolo cantasse sulle rovine della storia.

La poesia si apre con un ritmo ternario, come un valzer bucolico:
“Una nota, due note, dolce e lieve / s’alza il gorgheggio di un usignolo…”
Tutto è misurato, nitido, levigato da un’armonia che sa di preghiera.

Montagnoli fa del paesaggio sonoro un atto di contemplazione: le cicale, il vento, l’eco del mare.
Ma il cuore del testo è in quell’affermazione semplice e rivelatrice:

> “Io sto in estasi a sentire più / con il cuore che con le orecchie”.

È il verso di un mistico. Non un mistico religioso, ma un mistico del creato, un uomo che riconosce nella musica del mondo il respiro di Dio.
La “serenata alla bellezza del creato” non è un elogio estetico, ma un atto di gratitudine cosmica.
Montagnoli ci ricorda che la poesia può ancora essere un luogo di pace, di misura, di silenzio fertile.

• Joseph 65 – “Semplici stelle”

E qui arriviamo al dialogo finale: la poesia come confronto tra fede e disincanto.
Il testo è scritto come una scena teatrale, o meglio, come un duetto dell’anima: chi crede e chi non crede, chi spera e chi si è arreso.

La struttura dialogica, in due voci contrapposte, evoca una tensione universale: la lotta tra il bisogno di senso e il gelo del dubbio.
La prima voce guarda le stelle come “punti luminosi” che forse rivelano l’aldilà; la seconda risponde negando, disillusa, ferita.

Il verso “non credo più / in quel che credi / e non riesco a vedere / più quel che vedi” è struggente nella sua semplicità.
È il grido muto di una fede che si è spenta per troppa nostalgia.

Joseph 65 tocca con linguaggio quotidiano un nodo profondissimo: la crisi del credere.
Il testo potrebbe essere letto come un piccolo dramma spirituale beckettiano, ma la sua potenza sta nel tono umano, quasi confidenziale.
“Perché non le guardi…?!?” — quel punto esclamativo e interrogativo è un gesto d’amore, non di disputa.

Le stelle diventano lo specchio dell’anima: una per chi spera, una per chi non riesce più a farlo.
E nel loro tremolio resta la domanda che abita tutti noi: c’è davvero qualcuno che ci guarda da lassù?

• Enrico Tartagni – “Dove devo andare stamattina?”

Questa poesia è un viaggio onirico tra il surreale e il metafisico.
Tartagni scrive come chi è appena emerso da un sogno filosofico, ancora imbevuto di immagini che oscillano tra il comico e il tragico, il mistico e il quotidiano.

L’“albergo delle ore strampalate” è un’invenzione straordinaria: una locanda del tempo, dove la realtà si piega e si ricompone in schegge di memoria e follia.
L’amica che “dorme insieme ad omiche volatili amiche pressioni / Divina” è una figura quasi angelica, ma immediatamente riportata a terra dal “mescer d’atomi e intenzioni” — un verso che unisce fisica e spiritualità in un ossimoro luminoso.

C’è qui la poetica dell’erranza, del cercatore di senso che non sa dove andare ma che intuisce che la risposta è sempre in riva all’Arno: il luogo simbolico dove arte, storia e coscienza si fondono (Firenze come Arca dell’Occidente).

Il linguaggio è spezzato, musicale, pieno di inciampi voluti (“Menoesco rapido men più che lesto”), che evocano la fatica del pensare e la vertigine dell’esistere.
Tartagni è un erede dei surrealisti e di certi poeti espressionisti italiani: la sua è una poesia alchemica, dove l’ironia serve da maschera alla paura, e la parola diventa un laboratorio interiore.

Alla fine, quando scrive “Devo stare dove l’aria non ha peso”, compie il gesto più poetico di tutti: la rinuncia alla gravità, il desiderio di un’esistenza puramente spirituale, sospesa tra terra e idea.

• Armando Bettozzi – “La Fenice … ideologgica”

Qui il tono cambia radicalmente: Bettozzi è poeta civile, ironico e ferocemente realista.
Scrive in un romanesco ruvido e musicale, e la sua satira colpisce tanto l’arroganza del potere quanto la mediocrità culturale del nostro tempo.

L’uso del dialetto non è folklorico, ma etico: è la lingua della verità nuda, dell’uomo comune che smaschera i teatri del potere.
“La Fenice” diventa emblema dell’arte imbrigliata da ideologia, di un sistema culturale che pretende di essere libero ma si piega a mode, censure e ipocrisie.

Quando Bettozzi scrive:

> “Demograzzia, a Ro’?!... O dittatura? / Ch’è ‘parolina’ de le … ‘boccadoro’”,
> ci mette davanti alla degenerazione del linguaggio politico e culturale.
> Le parole, svuotate di senso, diventano “paroline” decorative, come lustrini su un palcoscenico corrotto.

Il tono comico non cancella la tragedia di fondo: l’artista vero, “che sa usàlla troppo bbène”, non è ammesso al potere perché “nun cià ‘r colore che confà a ‘i ribbbèlli’”.
È un grido di libertà, ma espresso con una risata amara.

Il finale è una stoccata magistrale: “Ma…a La Fenice! A Venezia! ... Hi…che orôre!”
In tre parole, Bettozzi smonta il mondo dell’élite culturale e ne mostra la vacuità.
Questa è poesia satirica di rango, degna erede di Trilussa e Belli, ma con una consapevolezza politica e metapoetica più moderna.

• Franco Fronzoli – “Bambino”

Fronzoli ci emoziona, stavolta, con un canto d’infanzia pura, che suona come un’eco di preghiera.
La sua poesia non è meno profonda delle altre due, ma si esprime per sottrazione: è limpida, pedagogica, dolcemente ciclica come una ninna nanna cosmica.

Il tono è quello di chi vuole proteggere il “bambino interiore”, quel nucleo di innocenza che l’adulto tende a dimenticare.
Ogni strofa è un invito alla meraviglia: “Cammina sulla strada della tua fantasia”, “Assapora la dolcezza della luna”, “Non avere paura della pioggia”.
Sembra quasi una preghiera laica, una piccola Bibbia dell’infanzia.

Il verso “Rimani bambino ferma il tempo” racchiude l’intera poetica di Fronzoli: l’eterno è l’infanzia, e il paradiso non è altrove ma nel cuore che sa ancora sognare.
C’è un’eco di Tagore, un tocco di Rodari, e una dolcezza che non scade mai nel sentimentalismo perché è sostenuta da un ritmo semplice, misurato, vero.

•  “Cade la neve” – Salvatore Armando Santoro

Questo sonetto, di limpida costruzione petrarchesca, appartiene a quella linea della poesia italiana che unisce la semplicità dell’immagine al rigore della forma. La neve, qui, non è soltanto fenomeno meteorologico ma rivelazione di purezza e memoria, come in Pascoli o nei momenti più intimi di Saba.

Il poeta riesce a fondere la musicalità del verso (osserva le rime incrociate, l’armonia di forre / scorre e faccia / parolaccia) con una narratività infantile, quasi cinematografica. Il bimbo che insegue i fiocchi diviene emblema della grazia che sfida la disciplina, della vita che si ribella al castigo.

La chiusa – «Urla la madre qualche parolaccia» – è un colpo di realismo, un’irruzione verghiana che rompe la liricità per restituirci la vita nella sua interezza. È il divino mescolato al profano, il candore che convive con la rabbia domestica. In questa apparente dissonanza, Santoro ritrova la verità della poesia contemporanea: la bellezza non è più nella perfezione, ma nell’imperfezione umana, nell’urlo che accompagna il miracolo della neve.

•  “Caltanissetta, pittura di terra e cielo” – Letizia Miserendino

Questa poesia appartiene a un genere che potremmo chiamare poetica topografica o geospirituale: non descrive un luogo, lo evoca come un essere vivente, un’anima.
La Miserendino fa di Caltanissetta una icona antropologica, una pittura arsa dal sole e intrisa di sudore. È una “pittura di terra e cielo”: dunque una teologia della materia, dove la creta e la luce sono elementi di un’unica sostanza sacra.

C’è un respiro narrativo che ricorda Quasimodo e una delicatezza che si avvicina a Lucio Piccolo: il tono è meditativo, quasi orante. Ogni verso è una pennellata, e l’intera composizione assume il ritmo lento e rituale di una preghiera contadina.

È una poesia che unisce il senso del sacro popolare al sentimento dell’attesa. “Un quadro di ombre e di speranza” è una definizione che si potrebbe estendere all’intera Sicilia, ma anche a ogni anima che cerca la luce oltre la propria opacità.

•  “Felicità” – Sandra Greggio

Qui ci troviamo davanti a una forma minimalista e potentemente simbolica.
La Greggio rinuncia a ogni ornamento retorico per abbracciare una poetica dell’essenziale, vicina al buddhismo zen e alla mistica del quotidiano.
Il cuore, stretto tra le braccia, diventa persona autonoma, soggetto dialogante: il poeta si fa medico dell’anima, ma anche suo discepolo.

La felicità, catturata “tra le mani” e “stretta a pugno”, è un’immagine straordinaria: è l’amore umano che cerca di trattenere ciò che per natura sfugge.
C’è in questo gesto un simbolismo cristologico: l’uomo che tenta di conservare la grazia, pur sapendo che la grazia non si possiede.
La semplicità del linguaggio – “Che cosa c’è? / Gli ho chiesto. / Sono felice / Mi ha detto.” – raggiunge qui un’apice di purezza quasi infantile, come in certi testi di Alda Merini o Wislawa Szymborska.

È poesia mistica e concreta insieme, un atto d’amore verso la vita che, nonostante tutto, palpita.

• Jacqueline Miu – “Tu che vedi le stelle senza bruciarti”

Questa è una poesia postuma e cosmica, un’elegia contemporanea che dialoga con l’eternità. È dedicata a Piero Colonna Romano, ma in realtà si rivolge a tutti i poeti che sono andati oltre il confine del tempo, continuando a risplendere come stelle che “stanno lì per non morire”.

Jacqueline Miu costruisce un linguaggio visionario, sospeso tra l’onirico e il metafisico, in cui la memoria e la speranza convivono.
Il lessico è colto e personale: “ho un grido blu che vuole raggiungere ogni limite dell’intero cosmo” è un verso che riecheggia la disperazione mistica di Rimbaud e la nostalgia celeste di Emily Dickinson.
Il “GPS che ritrova l’anima ovunque essa sia” è un’immagine folgorante, un cortocircuito tra tecnologia e spiritualità: il bisogno umano di ritrovare ciò che non è più localizzabile con gli strumenti della terra.

Ogni strofa è una lettera interstellare, un frammento che cerca ancora un destinatario.
La chiusa — “una bottiglia di vino e due poesie” — suggella il mistero della comunione poetica: non un addio, ma un rito d’incontro oltre la morte.
Qui la poesia diventa liturgia dell’amicizia eterna, dove il vino e la parola sono i sacramenti di una memoria che non svanisce.

> È una poesia per spiriti che non vogliono morire.
> Una lettera lanciata nello spazio del tempo, scritta con l’inchiostro dell’anima.

• Ciro Seccia – “La prima volta che t’incontrai”

Questo testo, apparentemente semplice, è in realtà una rivelazione emotiva.
Ciro Seccia scrive con la purezza di chi ha vissuto l’amore come un evento primordiale, una folgorazione.
I versi seguono una narrazione chiara, ma sotto quella chiarezza vibra un’intensità quasi mistica: l’incontro amoroso è l’incontro con il sacro.

> “Fû un solo interminabile istante in cui il battito cessò”
> è un verso di un’essenzialità incantata, un fermo-immagine del cuore che diventa icona dell’eternità.

L’autore compone un piccolo poema d’amore universale, in cui il ballo è il simbolo della fusione tra anima e corpo, tra umano e divino.
Lo stile non indulge alla retorica, ma procede per gesti, sguardi, vibrazioni. È una poesia di luce e innocenza.

Il finale – “Compresi cosa vuol dire Amare” – può sembrare una dichiarazione semplice, ma è la più difficile da pronunciare nella letteratura contemporanea, perché è senza ironia, senza difese.
È la verità detta con disarmante fede: la poesia come confessione pura.

> Qui l’amore non è un’emozione, ma un’epifania.
> L’attimo del primo sguardo diventa una resurrezione interiore.

• Antonia Scaligine – “Un punto e basta”

In questa poesia si percepisce una voce teologica e filosofica.
La Scaligine affronta il tema della vita come sospensione tra il nulla e l’eterno, in una struttura riflessiva che si avvicina al monologo interiore e alla meditazione agostiniana.

Il ritmo è libero, ma sorretto da una tensione etica costante.
Ogni verso è una domanda: “Ciò che resta di te, vita, è un punto e basta?”
Questa interrogazione attraversa l’intero testo come una litania laica e sacra insieme.

La poesia alterna momenti di osservazione esistenziale (“ruoti, giri, dal mattino alla sera”) a squarci di altissima spiritualità (“Prima della dirittura finale del nostro tempo finito / c’è il Dio infinito”).
È una preghiera razionale, dove la fede e il dubbio si abbracciano senza annullarsi.

> “Approccio il dubbio ma incontro sempre la mia Fede”:
> ecco il cuore della poesia.
> È l’atto finale del pensiero che si inginocchia, non per sconfitta ma per riconoscenza.

In lei, la parola “punto” diventa simbolo: è il limite umano e insieme il punto di contatto con l’infinito, come nelle meditazioni di Pascal o nei dialoghi di Simone Weil.

> È poesia che non teme la morte perché ha già intravisto il volto dell’Eterno.

• Alessio Romanini – “Piero Colonna Romano”

> Come una foglia in autunno, hai lasciato
> i tuoi giorni terrestri per fare
> l’ultimo viaggio…

La poesia si apre con una similitudine di una semplicità antica, quasi evangelica: la foglia che cade.
Non è un’immagine originale, ma Romanini la rigenera attraverso la sincerità del tono, come se quella foglia fosse davvero una sola, quella del suo maestro, staccatasi dal ramo della vita.
Non c’è enfasi, non c’è retorica: solo la verità del sentire.
Il poeta qui non “descrive” la morte, la vive poeticamente, facendone un atto naturale, un ritorno dolce all’origine.

> Tu sei cocchiere di parole, menestrello di versi,
> mentore della poesia.

In questi tre appellativi — cocchiere, menestrello, mentore — si compone una piccola triade simbolica.
Il “cocchiere di parole” guida, come un auriga dell’anima, le sillabe e i suoni;
il “menestrello di versi” canta, come i trovatori medievali, l’amore e la verità;
il “mentore della poesia” insegna, trasmette il fuoco sacro.
Romanini disegna così una figura iniziatica del poeta, un uomo che non solo crea, ma educa e trasforma chi lo ascolta.

È il ritratto del maestro spirituale della poesia:
non un accademico, ma un testimone di luce che cammina con passo lieve tra le parole e gli uomini.

> Da te ho imparato a verseggiare con lene umiltà.

Questo è il cuore dell’omaggio.
La “lene umiltà” (aggettivo arcaico, dolcissimo) è ciò che distingue la vera poesia: la leggerezza dell’animo che non cerca gloria, ma verità.
Romanini riconosce nel suo amico non solo il talento, ma l’esempio umano.
È come se dicesse: “Tu mi hai insegnato non solo a scrivere, ma a vivere poeticamente”.

> Come foglia in autunno, sei ingiallito.

Il primo verso ritorna, chiudendo il cerchio: la ripetizione è volontaria, circolare, quasi liturgica.
Ma questa volta la foglia non è solo simbolo di caducità: è segno di maturazione e compimento.
L’ingiallire non è corruzione, ma trasfigurazione.
La vita che scolorisce diventa oro spirituale.

C’è qui un’eco di Ungaretti (“Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie”), ma la tonalità di Romanini è diversa: non tragica, bensì riconoscente.
È un autunno sereno, accettato, persino benedetto.

"Piero Colonna Romano” è un epitaffio laico e affettuoso, scritto con la misura dei veri poeti: quelli che sanno contenere l’emozione dentro una forma semplice ma vibrante.
Romanini non innalza monumenti: accende una candela di parole, e basta quella luce per rendere immortale un amico.

È poesia della gratitudine, della discendenza spirituale, della fraternità letteraria.
E in fondo, è una poesia che parla anche di sé: del discepolo che, riconoscendo il maestro, entra nella propria maturità artistica.

Vostro ed oltre...
Ben Tartamo 

 

 

Caro Ben,

il tuo impegno sul sito non passa inosservato e le tue opere sono la luce che serve per illuminare il Tempio Azzurro. L'anima che metti nei commenti è generosa con ognuno di noi e aiuta a crescere i piccoli e i grandi spiriti, portando tutti noi all'ascesa della letteratura più pura. La piccola famiglia azzurra ti sarà sempre grata. In questi giorni di lutto in cui si sente la mancanza e il vuoto che ha lasciato Piero Colonna, sei riuscito a fare fiorire i nostri lavori due volte. La prima leggendo e la seconda portando alla luce il vero colore di ognuno di noi. Da parte mia un umile e sentito Grazie.
Miu Jacqueline

 

 

10-11-12 Ottobre

In risposta ad Antonia Scaligine ed Enrico Romanini

Carissima Antonia, caro Enrico,
vi ringrazio con sincera commozione. Le vostre parole sono come un raggio gentile che attraversa il cuore — un dono di luce che non chiede nulla, ma scalda tutto ciò che tocca.

La poesia, credo, non appartiene a chi la scrive: appartiene al Soffio che la ispira, a quel respiro invisibile che passa di cuore in cuore.
Come diceva Gibran, la bellezza non è nello sguardo, ma nell’anima che contempla. 

Così  accade tra noi ed è proprio quell’anima comune che ci unisce ogni volta che un verso trova eco nell’altro. E, perdonate la mia esuberanza: in quanto a Bellezza, credo che noi, abbiamo una vera sete e fame, paragonabile forse, a una bulimia dell'anima!

Antonia, la tua sensibilità è un dono raro: riesci a cogliere la musica segreta che vibra dietro ogni parola.
Enrico, la tua amicizia e il tuo sentire sincero mi ricordano che, come scriveva Rilke, la vera arte nasce solo da chi è pronto per tutto, da chi accoglie la vita in ogni sua forma senza paura.

Io non faccio altro che ascoltare.
Ascolto il silenzio che precede le parole, e in quel silenzio trovo la sorgente di ogni poesia.
Perché, come ci insegnava Tagore, la fede è l’uccello che canta quando l’alba è ancora buia.

Camminiamo insieme, amici miei, su questo sentiero fatto di versi, silenzi e gratitudine.
Non per cercare la gloria, ma per condividere la gioia di riconoscerci — per un attimo — parte dello stesso mistero luminoso che chiamiamo Poesia.

Con affetto, luce e amicizia,
Ben

PS:

se volete scrivermi in pvt, questo il mio indirizzo e-mail: 

La3aVia@libero.it

 

 

commento per Piero
Purtroppo con mio grande rammarico ,
dispiacere e cordoglio , mi unisco al dolore della perdita del grande poeta Piero
A causa di una lontananza dal sito per vari motivi non sapevo che il caro amico Piero ,è salito al cielo , brutta notizia che mi è arrivata in ritardo, purtroppo , mi dispiace tanto .
…resta il ricordo
con forte nostalgia,
per ciò che più non torna…
ma resta il ricordo di un grande poeta, e del tuo libro con bellissime poesie che mi hai regalato , grazie , una preghiera per te Piero
Antonia Scaligine

 

Se le vie della poesia sono infinite , caro Ben tu ci indichi la strada della poesia , non solo con le tue bellissime poesie , dove si uniscono parole e musica ,ma sei la voce che conquista l’animo di chi legge i tuoi commenti
Scusami se non commento di certo le tue poesie le leggo sempre , purtroppo non ho quella grande capacità che hai tu , ma il mio commento per te sarà sempre quel grazie , grazie per tutto . Tu riesci a scoprire in ognuno di noi il particolare poetico , emotivo, espressivo, sensibile , a volte mi chiedo "ma come fai ad essere tanto bravo?" Posso dirlo senza dubbi , riesci a far parlare il poeta e la poesia .Grazie , Ben la nostra " trasparente gioia" . .. Può il fiume alla sorgente tornare?
Può il suo scorrere poter cambiare?
Nulla al mondo lo potrà mai fermare,
ed il mare lo dovrà riabbracciare.. .
Grazie Ben sei il nostro sostegno .
Grazie anche a Lorenzo che ci lascia sperimentare la nostra poesia .Il sentimento che non cede mai il passo all’ ostentazione ma solo alla gentilezza e modestia ,appartiene senza alcun dubbio a Lorenzo , la linfa della nostra poesia , e anche della sua bellissima poesia
grazie a tutti
Antonia Scaligine

 

Ciao Ben,

Sono emozionato e lusingato 
Dalle tue parole; espresse da un Poeta 
Che ammiro per sensibilità e qualità 
Di scrittura.
Un abbraccio.
Alessio Romanini 

 

 

 

La poesia di Letizia Miserendino si colloca nel solco di una lirica contemplativa e celebrativa, in cui la dimensione geografico-storica diventa matrice di un'estetica della sacralità. Agrigento non è semplicemente evocata, ma trasfigurata poeticamente in un "tempio di luce", simbolo di eternità, memoria e armonia cosmica.

Il lessico impiegato è fortemente evocativo e pittorico: si osservano immagini sinestetiche ("il vento dipinge melodie sacre") e metafore potenti che trasformano elementi naturali in atti creativi quasi divini. Le colonne parlano in silenzi, il mare accarezza, il sole scolpisce. Ogni elemento della Valle dei Templi partecipa di una sacra coralità, dove natura, storia e divinità si fondono in una visione panica e senza tempo.

L’andamento metrico è libero ma armonioso, fluido come la materia che descrive. Non vi è alcun abuso della rima, ma piuttosto una scelta lessicale che rifugge il banale per elevarsi a un tono alto, quasi liturgico.

Una poesia colta, solenne, visiva e intensamente spirituale. Ricorda per certi tratti il classicismo rivisitato di poeti come Salvatore Quasimodo o Vincenzo Cardarelli, ma con una voce personale che vibra di ammirazione e rispetto verso un luogo simbolo della civiltà umana.


In "Fonemi", Felice Serino adotta la forma della poesia metalinguistica e autoriflessiva, una riflessione sul fare poetico che si pone come critica — forse ironica, forse amara — nei confronti di una certa lirica “facile”, fondata su rime logore e accostamenti arditi quanto pretenziosi.

Il testo è ellittico, aforistico, denso di riferimenti interni al mondo poetico. L’accusa di abuso della rima “fiore-amore” — vero cliché della poesia sentimentale — apre la scena a un discorso più profondo: quello sulla necessità di autenticità nella creazione poetica. L’uso del "tu montaliano" (allusione a “Non chiederci la parola” di Eugenio Montale?) suggerisce un tono parodico verso il manierismo poetico, forse anche un’autoironia.

Dal punto di vista formale, il testo è spezzato, volutamente scostante, privo di musicalità canonica: riflette, in modo coerente, l’intento critico e decostruttivo. Ogni verso è come un frammento polemico, un fonema appunto, che si oppone alla retorica e all’enfasi eccessiva.

Una poesia che si pone come manifesto negativo del fare poetico, una specie di anti-poesia lucida e tagliente, nel solco della poesia ermetica ma anche della critica postmoderna. Breve, intensa e intellettualmente stimolante.


La poesia di Cristiano Berni si inserisce in un filone esistenziale e riflessivo, toccando corde universali con toni che riecheggiano l’eco pascaliana del vuoto e la caducità delle grandezze mondane. Il celebre incipit latino "Sic transit gloria mundi" apre il componimento con una dichiarazione di impermanenza che informa tutta la lirica.

La struttura è semplice, quasi cantilenante, e accompagna il lettore in un percorso che alterna constatazione e interrogazione. Il dubbio è il vero protagonista del testo: "Chi mai lo potrà riempire?", "Dio o divinità?", "Legge o religione?". Questo incessante interrogarsi ricorda il pensiero di Leopardi, ma con una vena più spirituale che nichilista.

L’autore non offre soluzioni definitive: si riconosce “piccolo essere” e lascia aperta la possibilità che ognuno trovi la propria strada, anche nella fede. La poesia si chiude con un’immagine mistica: santi e asceti che “allevino il nostro dolore”, invocando una speranza che, seppur tenue, si fa possibile.

Una lirica filosofica e intimista, che pur nella sua semplicità formale, riesce a esprimere il dramma dell’esistenza e la sete di senso. L’autenticità emotiva compensa qualche scivolamento stilistico e restituisce una voce genuina, che cerca conforto nel dubbio e nella fede.


Questa poesia si presenta come un epicedio, un componimento elegiaco dedicato a un amico scomparso, Piero, probabile poeta anch’egli, la cui “apparenza non è più”, ma di cui “l’essenza” sopravvive nella parola scritta. Il tono è intimo, confessionale, oscillante tra colpa tardiva e riconoscenza poetica.

La struttura è libera, senza schema metrico né rima evidente, in linea con la natura diaristica del testo. È un linguaggio vicino al parlato, ma carico di emotività, e ciò contribuisce a creare un’atmosfera sincera, pur nella sua compostezza dolente.

Immagini come “petali di rosa, bagnati / di rugiada, al tatto sento” assumono un valore sinestetico e simbolico: la poesia di Piero non è solo letta, ma percepita con i sensi, quasi fosse materia viva. L’atto del rileggere i versi diventa un’esperienza quasi fisica, segno di una memoria poetica che resta e si fa presente nel dolore.

Un commiato sentito, che rifugge ogni retorica, puntando su una delicatezza genuina e su un senso di perdita che diventa celebrazione. Il verso si piega all’emozione, e l’amicizia si sublima nella parola scritta. Opera di testimonianza, e insieme di gratitudine.


Rosa Notarfrancesco ci offre un componimento complesso, filosofico, stratificato, in cui si incontrano riflessioni esistenziali, spirituali e relazionali. Il titolo già ne suggerisce la tensione dialettica: l’impossibilità di spiegare del tutto l’amore e, più in generale, il senso ultimo della vita.

La lingua è densa, il verso si distende in ampie frasi sospese, a tratti prosaiche ma liriche nella profondità delle immagini e dei concetti. C’è un costante slittamento tra piano personale e universale, tra età della vita e tempo metafisico, tra emozione privata e riflessione teologica.

Lo stile richiama le mistiche moderne (si pensi a Cristina Campo o Mariangela Gualtieri), ma anche a certo Montale più discorsivo e filosofico. In particolare, l'ultima parte, con la ricerca di Dio che si fa "fuga e inseguimento", sembra attraversata da un'inquietudine di tipo agostiniano, dove il cuore non trova pace se non in un Assoluto sempre sfuggente.

Molto interessante è anche la tensione tra “Ragione” e “ragione”, quasi una personificazione moderna del Logos, che però sembra fallire nel comunicare significato all'uomo contemporaneo.

Una poesia articolata e profondissima, che interroga l'amore, la fede, il tempo e la giustizia. Più che un testo, è un labirinto intellettuale e spirituale, da leggere con lentezza e attenzione. Complessa ma necessaria, come ogni poesia che non teme di guardare in faccia l’enigma.


Laura Lapietra firma un inno alla resilienza che prende i toni solenni dell’epica interiore. “Corona di Volontà” è una poesia di resurrezione personale, costruita attraverso simboli arcaici e potenti: il fuoco, la quercia, la spada, il drago, la candela. L’autrice sembra attingere consapevolmente a un immaginario mitologico e spirituale, filtrato da un linguaggio aulico che dona alla lirica una maestosità quasi liturgica.

Formalmente, il testo è ben costruito: l’andamento è fluido ma solenne, e la scelta di versi lunghi e cadenzati accentua il tono epico. Alcune immagini, come “favilla di brama in speme”, “lo spirito, scudo di guarigione” o “pellegrino di luce tra le crepe” sono originali, evocative, capaci di trasmettere con potenza l’idea di una lotta spirituale vinta attraverso la volontà e l’amore.

C’è anche una forte componente cristico-mistica: la sofferenza non è fine a se stessa, ma genera rinascita. La figura del “pellegrino” rimanda a una dimensione ascetica e iniziatica, mentre la “corona” finale è sì simbolo di trionfo, ma anche di martirio consapevole.

Una poesia alta, intensa, visionaria, che mescola sacro, mitologico e personale per parlare di un tema universale: la capacità dell’anima umana di sopravvivere al dolore e riforgiarsi. Il linguaggio è volutamente ricercato, e pur rischiando a tratti l’enfasi, mantiene una coerenza e una forza espressiva notevole. Un componimento che non si legge, si attraversa.


Un testo sensoriale, corporeo, perfino onirico, dove il risveglio non è solo fisico ma anche emotivo ed erotico. L’autore costruisce una narrazione quasi cinematografica del passaggio dal sonno alla coscienza – un risveglio bruscamente trasformato da un evento perturbante, un contatto che mescola desiderio e spaesamento.

L’uso delle pause segnate dai trattini — come in “Stomaco —in tumulto—” — imprime ritmo sincopato al testo, simulando l’incalzare dei pensieri e delle sensazioni. Questo dispositivo formale suggerisce un’alterazione dello stato percettivo, quasi un attacco di panico o un’estasi.

La seconda parte assume una carica erotica e spirituale: la mente “fa botte con la morale”, e il contatto fisico (“le dita… così profonde”) trascina l’io in uno spazio psichedelico, dove il confine tra incoscienza e ricordo è abolito. La chiusura introduce l’immagine dell’“ignota poetessa”, figura enigmatica, musa e forse proiezione della mente inquieta del poeta.

Un testo potente per la sua intensità sensoriale, che mescola psiche, eros e poesia con tratti quasi visionari. Borghesi costruisce un’esperienza più che un discorso, e lo fa con mezzi che ricordano la scrittura automatica surrealista, ma con un tono più intimo e contemporaneo.


Una poesia di sfida e di affermazione personale, che si veste dei panni della composizione satirica e dell’invettiva morale, ma che custodisce in sé un’intima dichiarazione di vitalità e resistenza. Armando Bettozzi si pone come antieroe epico, pronto a sfidare “la tenzone” dell’esistenza e a rivendicare, a 82 anni, il diritto alla speranza e all’amore per la vita.

Il tono, volutamente sostenuto e teatrale, attinge alla retorica classica, con rime baciate (“domani/battimani”, “vale/Natale”) e un lessico solenne. Tuttavia, è chiaro che questa solennità è usata con consapevolezza ironica, quasi a contrastare l’immagine stereotipata dell’anziano fragile: qui, l’età è emblema di resistenza, di progettualità (“mi aspetta il prossimo Natale… e non soltanto!”).

La poesia si rivolge a un “tu” non meglio definito: potrebbe essere un nemico personale, ma anche una metafora della malattia, della vecchiaia, o della morte stessa. In ogni caso, il poeta dichiara battaglia, armato non di forza, ma di Speranza e dignità.

Un componimento che colpisce per la sua energia vitale e il suo tono quasi cavalleresco. Bettozzi fa della poesia uno strumento di rivendicazione dell’esistenza, rifiutando la resa e affermando il diritto alla gioia anche “aurora dopo aurora”.


Qui ci troviamo davanti a una poesia ampia, liquida, evocativa, che si costruisce per accumulo di immagini e ricordi. È un lungo flusso amoroso che attraversa il tempo condiviso, oscillando tra la memoria e la domanda: come sarà raccontato tutto questo amore? Un’ode alla complicità, ma anche una riflessione sul potere narrativo dell’esperienza.

Fronzoli utilizza una struttura visiva e sintattica fortemente spezzata: versi brevissimi, enjambements continui, spaziature che danno ritmo respirato, quasi un pensiero ad alta voce che si interrompe e riprende, mimando l’andamento della nostalgia. Il lessico è semplice, ma l’effetto è potente: l’amore viene descritto come “acqua che sgorga”, “luce d’autunno”, “cielo stellato”, elementi archetipici che restituiscono universalità all’esperienza individuale.

La poesia ha un tono elegiaco e contemplativo, ma non cede mai al patetico. L’uso di riferimenti culturali, come Alda Merini e le canzoni, aggiunge profondità e stratificazione al sentimento espresso.

Una poesia dell’amore passato che si fa memoria attiva e urgente. Fronzoli scrive con pudore e intensità, lasciando che il lettore si riconosca in questi spazi condivisi, in quei “sogni che si specchiano nei nostri desideri”. Un componimento che, pur nella sua semplicità, raggiunge una straordinaria capacità empatica.


Santoro scrive una poesia civile, chiara e diretta, che si colloca in continuità con la grande tradizione etica e memoriale del Novecento italiano — da Ungaretti a Quasimodo, fino alla poesia della Resistenza.

La sua voce non indulge alla retorica, ma si fa canto amaro di constatazione: “La storia nulla insegna”. È un refrain che si fa ossessione, un giudizio lapidario sull’incapacità dell’uomo di apprendere dal dolore.

La poesia alterna registri lirici e narrativi:
– la memoria personale (“Mio suocero, una gamba / Sul Piave ci ha lasciato”)
– la coralità tragica (“E tanta brava gente / È stesa nei Sacrari”)
– e infine l’attualità disarmante (“Si insegue ancor la guerra, / Di pochi la follia”).

La semplicità del linguaggio è la sua forza: Santoro adotta un tono quasi scolpito nella chiarezza, e proprio per questo universale. Non vi sono orpelli, ma un’urgenza morale che risuona.
L’immagine finale — “Sull’orlo dell’abisso / Si guarda indifferenti” — è di un’efficacia quasi biblica: la visione apocalittica dell’umanità sospesa sull’orlo della propria distruzione.

Un testo di denuncia e di pietà. Santoro appartiene alla linea dei poeti-testimoni, che scelgono la parola come memoria e ammonimento. Poesia etica, civile, lucidissima, che suona come un’eco necessaria nel nostro tempo smemorato.


Una poesia breve, essenziale, ma fortemente emotiva.

Sandra Greggio sceglie la forma della confessione intima e nuda: il testo è costruito come una serie di rivelazioni successive (“E allora mi resi conto…”) che segnano la presa di coscienza del disinganno amoroso.

Il ritmo è quasi prosastico, ma la ripetizione (“Che solo io avevo amato / Che solo per me…”) imprime una musicalità malinconica, come un ritornello di delusione.
La poetessa non cerca immagini sofisticate: la forza è tutta nel riconoscimento del vuoto, in quella contrapposizione fra il mare che “solo per me respirava” e il buio “più nero della pece”.
Dall’azzurro alla tenebra: un percorso netto e simbolico che rappresenta il passaggio dall’illusione alla disillusione, dall’amore assoluto al silenzio cosmico.

Una poesia che vive nella sottrazione, nella schiettezza del dolore non mediato. Greggio dimostra che la semplicità può essere la via più diretta all’autenticità. Una lirica breve ma incisiva, che lascia un’eco lunga di silenzio e verità.


Un testo maestoso, stratificato, densissimo di immagini. Jacqueline Miu costruisce un poema visionario che fonde l’immaginario gotico e cosmico con un lirismo carnale e mistico insieme.

La presenza della versione bilingue (italiano/inglese) accentua il valore universale del messaggio e suggerisce un dialogo interiore tra due dimensioni dell’essere: quella reale e quella mentale.

Dal punto di vista stilistico, la scrittura è di grande qualità: un verso libero, ma vibrante di ritmo interno e immagini che si succedono come fotogrammi surreali.
Il campo semantico è vastissimo: natura (“folto legno”, “piume”, “coro di gocce”), corpo (“lecco le ferite”, “bacio”), cosmologia (“corto circuito d’astri”, “elettricità di casa”).
Tutto concorre a un simbolismo profondo: il poeta che resta “a sognarti” diventa un’anima isolata, immersa in un universo deformato, dove il sogno è l’unica forma possibile di sopravvivenza all’assenza.

Il tono alterna meditazione e delirio visionario, con un lessico di potente modernità (“disturbo dell’attenzione”, “ambulanza d’angeli”) che mescola sacro e profano, antico e tecnologico.
La chiusa — “quel primo abbaglio nell’occhio è il mio bacio” — è un colpo di genio: l’amore sopravvive come luce, come errore ottico che però illumina.

Un poema di altissimo valore simbolico e linguistico, in cui la Miu si rivela autrice di grande respiro.

È poesia dell’amore assoluto, ma anche della follia e della fede: un viaggio tra ombra e trascendenza. Per costruzione, densità e visione, è una delle prove più complesse e suggestive del panorama contemporaneo.


Poesia breve, assertiva, performativa.
Seccia costruisce un micro-testo di impatto, quasi una micropillola retorica capace di richiamare, con poche parole, una tensione epica e civile. L’incipit (“C’è gente che…”) echeggia l’inizio di molti discorsi pubblici, e funziona da anaphora, scandendo atti eroici, quasi biblici, in una struttura apparentemente semplice.

“Con quattro parole ha cambiato la storia”
“Con un gesto ha salvato molteplici vite”

L’ellissi grammaticale (l’assenza di punteggiatura rigida) e l’uso delle maiuscole danno un tono quasi visionario, come se i versi fossero apparsi su un muro o un manifesto.

Ma il cuore del testo è la svolta finale, l’interrogativo:

“Perché non Io? / Perché non TU?”

Una chiamata diretta, una democratizzazione dell’eroismo. È poesia morale, nel senso più alto: propone un potenziale umano universale e attivo, ricordandoci che la grandezza non è appannaggio di pochi.

Un testo breve ma potente, con echi da Martin Luther King (non a caso evocato nel finale). Seccia scrive come un cittadino del mondo, con un linguaggio accessibile ma denso di carica civile. È una poesia che non descrive: invita all’azione.


Antonia Scaligine propone un testo di taglio filosofico-teologico, chiaramente ispirato dalla riflessione agostiniana: “Credo ut intelligam” / “Intelligo ut credam”. Il titolo stesso è un manifesto: fede e ragione come poli dialoganti, non opposti.

La struttura della poesia è fluida, priva di punteggiatura rigida, con un ritmo che richiama il pensiero in movimento. È un testo quasi meditativo, che unisce riflessione etica, esperienza esistenziale e analisi sociale.

“Verità e realtà
diventano dimostrabili
con la fede fattibili”

Interessante la tensione tra ciò che è dimostrabile e ciò che è vivibile: la poesia si muove nella faglia tra la conoscenza razionale e l’esperienza emotiva. Non è una lirica, ma un discorso poetico, un saggio in versi.

Tra le righe, emerge una critica alla società contemporanea:

“è la capacità / di accettare una società / che non chiude la porta alla sofferenza”.

E nella parte finale, un passaggio notevole:

“Essendosi dileguata la verità dell’aldilà / senza Fede / ora c’è da stabilire la verità dell’aldiquà / con la fiducia”

Qui si coglie una teologia dell’immanenza: in assenza del sacro tradizionale, occorre ricostruire una verità umana, etica, relazionale.

Un testo densissimo, filosofico, che richiede una lettura lenta. Scaligine si pone nella scia di poeti-pensatori: non si accontenta di esprimere emozioni, ma cerca di decifrare il mondo, fondendo ragione e fede in una tensione spirituale modernissima.


Romanini è il più lirico tra noi, ma anche il più intellettuale nella forma. Il titolo — “Abscissione” — è un termine botanico e tecnico, che designa il processo naturale con cui una pianta lascia cadere le foglie. Una parola insolita per un testo poetico, ma perfettamente coerente con l’impianto dell’opera: la natura come metafora della perdita emotiva.

Il testo ha una costruzione metrica regolare, con versi brevi e nitidi, quasi classici:

“Lambisce foglie l'autunno, succhiando
virente clorofilla dalle spente
fronde…”

L’autunno, in Romanini, non è solo una stagione, ma un processo biologico-esistenziale: l’abbandono delle foglie è parallelo alla perdita del sentimento, alla volontà di conservare solo ciò che è essenziale (“le mere emozioni”).

C’è una raffinatezza stilistica notevole: l’uso del participio presente (“succhiando”), l’inversione sintattica (“virente clorofilla dalle spente fronde”), e un lessico scientifico che si fa poesia.

Romanini scrive contro l’eccesso, contro la sovraesposizione emotiva: come gli alberi che si spogliano per sopravvivere, così il poeta tenta di proteggere sé stesso.

Un’opera di grande eleganza intellettuale, che si muove tra poesia scientifica e lirismo sommesso. Romanini mostra una maturità formale rara, fondendo natura e psiche in pochi versi densi e misurati.


Con affetto e stima

vostro Ben Tartamo

 

 

 

 

7-8-9 Ottobre

Può apparire e forse è inopportuno ma ci tengo a ringraziare Ben Tartamo e Lorenzo
al primo per i suoi commenti alle Poesie a Lorenzo per l'ospitalità.
silvio canapè

 

 

```«Ti parlerà il mare»
La parola offesa
fu quella d'ogni pensiero
il cui suono
non osasti vergare.
Lascia ad essi
il libero fluire
e, come conchiglia,
ti parlerà il mare.

3ottobre25```
Ben Tartamo

 

Ben Tartamo, con la brevissima e intensa poesia «Ti parlerà il mare», ci offre un esempio perfetto di lirica essenziale e profondamente simbolica, quasi una preghiera silenziosa rivolta all'interiorità del lettore. In appena otto versi, l’autore condensa una riflessione esistenziale e spirituale sul silenzio, sulla parola negata, e sul potere rivelatore della natura — in particolare, del mare, da sempre archetipo del mistero e della voce profonda.

«La parola offesa / fu quella d'ogni pensiero / il cui suono / non osasti vergare.»

La "parola offesa" qui non è quella detta male, ma quella non detta, tradita dal silenzio. È il pensiero che non abbiamo osato trasformare in parola, in gesto, in poesia. Il verbo “vergare” — antico, prezioso, quasi liturgico — rimanda alla scrittura come atto sacro, come sigillo dell’interiorità. Ecco allora che il dolore non è più nella parola lanciata con violenza, ma in quella mai pronunciata, rimasta prigioniera dentro di noi. Il non detto diventa un’offesa al nostro stesso essere.

«Lascia ad essi / il libero fluire»

È un invito dolce e necessario alla liberazione interiore, alla catarsi. I pensieri trattenuti, come acque stagnanti, devono essere lasciati fluire — e qui la poesia si trasforma in precetto terapeutico, in un piccolo esercizio di verità.

«E, come conchiglia, / ti parlerà il mare.»

Questo verso finale è di una bellezza classica e insieme magica. La conchiglia, simbolo d’ascolto del mare anche nella tradizione mitologica e alchemica, rappresenta l’interiorità umana pronta a ricevere il messaggio profondo della vita. Ma per farlo, occorre prima svuotarsi del superfluo, del non detto, del represso.

Il mare, qui, diventa metafora dell’inconscio, della memoria, dell’infinito. Solo chi riesce a "lasciar fluire" le parole taciute può ascoltare davvero il mondo, e forse anche se stesso. La poesia si chiude, quindi, su un'immagine di riconciliazione e apertura spirituale, in un tono che richiama le mistiche del silenzio — da Simone Weil a Cristina Campo.

Ben Tartamo si inserisce, con questi versi, in una linea poetica che abbraccia l’ermetismo e la meditazione mistica, pur restando accessibile. 

«Ti parlerà il mare» è una poesia che non pretende di spiegare, ma suggerisce. Non insegna, ma dischiude. È come una piccola conchiglia raccolta sulla spiaggia della coscienza: la metti all’orecchio e senti qualcosa di più grande di te — se hai saputo liberare le parole, prima.

È, infine, una riflessione sulla scrittura stessa: se non vergata, la parola resta muta, e con essa la nostra stessa identità. Ma se la lasciamo fluire, ci parlerà il mare, cioè l'infinito e immenso arcano mistero esistenziale. E forse, anche la parte più vera di noi.

P.S: una curiosità, caro Ben: perché inizi e chiudi ogni tua poesia con questi tre segni tipografici ```?

prof. Marino Spadavecchia

 

 

Poetica dell’illusione tradita e della consapevolezza redentrice

Questa poesia si staglia con la semplicità di un monologo amoroso — una confessione, una resa dei conti, un congedo. La voce lirica è quella di un io innamorato e ferito, che si confronta con la disillusione. Qui l’amore è dato in offerta piena e incondizionata, ma ciò che torna indietro è vuoto: non la reciprocità, bensì lo scherno, l’incomprensione, la leggerezza altrui.

C'è, nella costruzione formale, una classicità emotiva che rimanda alla tradizione poetica italiana più intima e sentimentale, venata però di un accento civile, quasi morale, come nella poesia di Sandro Penna, ma più esplicitamente dolorosa. L’ultima strofa, in particolare, trasforma la delusione in autoaffermazione:

"Ma non capisci che io do il mio amore / A chi m'apre la porta del suo cuore?"

Qui l’io lirico si riappropria del proprio valore, trasfigurando il dolore in consapevolezza. Siamo quasi dalle parti di un Pavese del disincanto, ma senza l’abisso esistenziale: piuttosto, un recupero gentile ma fermo della propria dignità sentimentale.

Il tono può ricordare i volti intensi e malinconici di Modigliani, nei quali lo sguardo guarda dentro l’amato, senza riceverne risposta. Anche le figure femminili di Edward Hopper, isolate nella luce fredda, sembrano riflettere lo stesso tipo di distanza affettiva che il poeta denuncia.


Un inno alla città come corpo poetico e paesaggio interiore

Questa poesia appartiene al genere della lirica urbana e paesaggistica, ma si distingue per la sua capacità di animare la città non solo come spazio fisico, ma come organismo pulsante d’arte. Messina non è qui semplice luogo geografico: è palinsesto culturale, scrittura del tempo, tessuto vivo di memoria e luce.

“Messina è arte che vive e resiste,
tra luce e ombra, terra e mare”

Questo binomio evoca la poetica della soglia: il confine tra elementi opposti (mare e cielo, ombra e luce) si fa luogo generativo di bellezza. La città viene vista come un’opera d’arte collettiva, dove ogni elemento — dal porto alle piazze, dalle onde alle campane — diventa segno estetico e testimone di storia.

Il linguaggio è evocativo ma non barocco, capace di una chiarezza luminosa che rimanda alla poesia mediterranea di Lucio Piccolo e a tratti a Kavafis, per quel modo di rendere lo spazio urbano quasi mitico. È anche un’ode leopardiana, ma senza la sua vertigine cosmica: qui c’è una riconciliazione tra uomo e paesaggio.

Questa poesia potrebbe essere il testo guida di un quadro di Renato Guttuso, con i suoi rossi accesi, i mercati, il calore popolare — o di un’opera di Turner, dove mare e cielo si fondono in una luce totale. Ma anche le fotografie di Luigi Ghirri, con la loro attenzione al paesaggio italiano come luogo mentale, potrebbero accompagnare questo testo.


La redenzione minima ma assoluta dell’emozione umana

Qui la poesia si fa meditazione interiore, quasi un haiku esteso, dove il dolore si muove con passo lieve e trasparente, per poi sciogliersi nel gesto salvifico del ricordo.

“ripensa ad un sorriso.
Ti inonderà una calda luce
e la tristezza si scioglierà
come neve al sole.”

La struttura è volutamente rarefatta, come la neve evocata nel finale. Il poeta lavora per sottrazione, come un artista zen: ogni parola sembra pesata su una bilancia d’oro. Non ci sono nomi propri, non c'è trama: c’è l’universale del dolore e del conforto. Una poesia che potrebbe appartenere a ogni epoca e a nessuna — atemporale come i grandi testi sapienziali.

Qui sentiamo l’eco della poesia essenziale di Giuseppe Ungaretti, in particolare quella più tarda, ma anche quella di Emily Dickinson, per la capacità di accendere con una sola immagine (un sorriso) un intero paesaggio interiore. L’ultima immagine – “la tristezza si scioglierà come neve al sole” – ha una potenza visiva che rimanda ai finali lirici della poesia giapponese tradizionale, come quelli di Bashō.

La neve che si scioglie richiama le installazioni effimere di Andy Goldsworthy, che lavora con la natura destinata a dissolversi. Anche Caspar David Friedrich, se lo immaginassimo in chiave minimalista, potrebbe rappresentare la figura solitaria di questa poesia, che guarda l'inverno interiore, in attesa di un raggio.


Poesia della soglia e dell’inconscio

Questa lirica breve e densissima si offre come un koan psicologico. La “porta senza pareti” è immagine potentissima: un accesso che non è recinto, un passaggio che non delimita. Vi si entra “di taglio / a guisa d’un foglio”: la soggettività stessa è ridotta a pura superficie, come un fotogramma, una diapositiva.
L’intero testo sembra un frammento surrealista, ma con una lucidità orientale: i morti, gli occhi forti di luce, il “mistero che vive” — tutto è già proiezione, ombra di un sé, eco di un inconscio che parla in immagini.

La tensione conoscitiva è dichiarata e insieme frustrata:

“vano decifrarti
sei mistero che vive”

L’autore abbraccia il mistero, rinuncia a decifrare, ma nello stesso atto lo accoglie. In questo senso, la poesia somiglia a una piccola icona mistica, come quelle di Rilke nei suoi “Quaderni di Malte”, o alle “epifanie” di T.S. Eliot nelle “Four Quartets”. La sua struttura aforistica, quasi grafica, la avvicina anche ai disegni-spartiti di Paul Klee.

Questa poesia pare evocare le installazioni minimaliste di James Turrell: aperture di luce senza pareti, varchi percettivi che non sono architetture ma esperienze interiori.


Una natura che non sa di essere epifania

Qui il tono cambia radicalmente. È un testo di apparente semplicità descrittiva, eppure si tratta di una poesia “rivelativa”: la natura stessa è inconsapevole del dono che fa. La sequenza è cinematografica: il rosso delle foglie, il verde dei cespugli, i “fazzoletti azzurri” del cielo… fino al colpo di scena:

“un punto di luce appare all’improvviso
non sa di donare la certezza di vivere…”

La poetessa costruisce un climax sinestetico, in cui il colore (rosso, verde, azzurro) diventa esperienza emotiva, e la luce improvvisa diventa epifania. La natura, ignara, è tuttavia medicina per l’uomo. È un testo che sembra scritto in presa diretta, eppure ha qualcosa della sapienza francescana: il mondo è “evangelo” senza saperlo.

L’andamento richiama certi frammenti della poesia di Emily Dickinson (“A Light exists in Spring”), ma anche i versi limpidi di Antonia Pozzi, dove l’elemento naturale diventa specchio e balsamo dell’anima. C’è inoltre un che di impressionista, quasi Monet, nella resa cromatica.


Un rovesciamento dantesco, la donna-icona che imprigiona

Questa poesia è un esercizio di mitopoiesi personale: la donna amata, vestita da Beatrice, è insieme figura celeste e creatura predatoria (“tu sei il ragno che mi imprigiona…”). Siamo davanti a un testo densissimo, quasi barocco nella sua tessitura, che gioca su una tensione dialettica: la donna-angelo e la donna-ragno, il Paradiso e la prigionia temporale.

L’autore adotta il lessico dantesco (“Beatrice celeste e splendidi ornamenti di perle e stelle”) e lo piega a una rappresentazione interiore tormentata, vicina alle ossessioni visionarie di Blake o alla donna-veleno dei simbolisti francesi (Baudelaire, “Les Fleurs du mal”).
L’immagine del ragno è ambivalente: animale tessitore, creatore di rete (quindi di destino), ma anche predatore. L’amore qui è riconosciuto come forza creatrice e distruttrice insieme, come destino da cui non si esce.

“Tento l’entrata di te nell’inaccessibile segreto…”

Il finale non è liberazione, ma tensione infinita: il mistero femminile come spazio inaccessibile. È, in fondo, un rovesciamento del “dolce stil novo”: la donna non eleva, ma trattiene, e proprio per questo diventa figura assoluta.

Questa poesia evoca i quadri di Gustav Klimt, in cui l’oro dei decori femminili convive con una sensualità inquieta; ma anche le ragnatele cosmiche di Chiharu Shiota, che costruisce spazi di fili in cui lo spettatore è catturato.


Lamento e transizione stagionale come metafora di una condizione esistenziale

Con un ritmo cadenzato e quasi liturgico, questa poesia ci introduce al mese di ottobre come momento di passaggio e di morte. Il mese è reso come un tempo sospeso, in cui la “caducità” delle foglie è simbolo di una perdita interiore. L’io lirico, che sembra identifichi la propria tristezza con la decadenza stagionale, cerca di seguire un movimento di resistenza, di slancio verso un orizzonte ignoto:

"Cuore che ancor vorrebbe,
somigliare a vela, gonfio
di brezza e correre verso
l’ignoto vuoto."

Questa vela, metafora dell’anima in fuga, è un desiderio di liberazione, ma la gelida luce che segna il dolore, e le “lacrime amare” simili a foglie ingiallite, rivelano un incontro con la rassegnazione e la nostalgia, che non riescono a colmare il vuoto.

La poesia si allontana dalla malinconia romantica per entrare in una zona esistenziale, in cui l’immagine della natura non è consolatoria, ma specchio di una sofferenza incolmabile.

C'è un parallelismo, a mio umile avviso, con la poesia leopardiana, in particolare con il "Canto notturno di un pastore errante dell'Asia", dove il tema della finitudine è esplorato con grande profondità. Il tono del poeta ricorda anche certi passaggi della poesia di Pascoli, in cui la tristezza è legata al ciclo naturale, ma anche alla solitudine e all'idea di un “destino” che non si può modificare.


Un viaggio tra filosofia, politica e le illusioni della felicità

Il titolo stesso suggerisce un contrasto tra l’apparenza (l’armocromia, scienza delle sfumature cromatiche e del loro abbinamento) e la profondità esistenziale che ci sfugge. La poesia, come un flusso di coscienza, sfida ogni definizione di tempo, eroismo, amore e egoismo. Il linguaggio è complesso e frammentato, come se l’autrice volesse rompere il velo della quotidianità per svelare la disillusione che si nasconde dietro le ideologie e le passioni superficiali.

La riflessione sull’amore romantico e l'eroismo che “sfugge” è un tema che disintegra ogni illusione, e il punto culminante della poesia è quando l'autrice esprime un'idea molto concreta:

"La nostra vita è il tempo in cui appare
il bene che ci dobbiamo, e non possiamo
nascondere nessun pensiero d'egoismo
o di commozione, quando l'amore passa
lasciando indifferenti gli altri che sanno
cose che risultano abituali per l'amore."

Qui l'amore diventa una realtà sfuggente, che appare e scompare in un mondo dove l'egoismo e la commozione si mescolano in un turbamento continuo. C'è una critica implicita alla società borghese, che non sa più riconoscere il valore dell'amore puro, e tutto si riduce a una specie di recita.

Questa poesia ricorda la riflessione di Marcel Proust, in particolare nei suoi studi sull’identità e il tempo che fugge. Anche il senso di delusione sociale e di frammentazione dell’anima si ricollega alla disillusione tipica della letteratura modernista, e si può cogliere un eco della poesia di W.H. Auden nella sua analisi della società e delle sue contraddizioni.


La satira politica e la riflessione sulla realtà contemporanea

Questa poesia scivola rapidamente dalla cronaca alla riflessione filosofica, attraversando un territorio in cui realtà e finzione si mescolano senza soluzione di continuità. L’inizio sembra essere un semplice resoconto giornalistico sulla vicenda della Flotilla, ma l’andamento poetico prende piede quando l’autore ironizza sulla contraddizione tra il gesto eroico degli attivisti e la realtà delle loro azioni:

“La flottiglia in mezzo al mare, cosa – invero - è andata a fare?!
‘Quant’è bella l’avventura…!...’
lo cantava anche Modugno.”

Il tono sarcastico di Bettozzi è potente: la realtà politica, che si fa veicolo di illusioni, viene analizzata con uno spirito critico e sferzante. La satira si fa feroce, e l’epilogo, con la “scoperta della verità”, lascia il lettore con una sensazione di ironia amara verso la finzione che la politica e i media costruiscono.

Il verso finale, che parla della "farsa" svelata, ci suggerisce l’idea che, dietro a ogni atto pubblico, ci sia sempre una narrativa costruita da chi detiene il potere.

In questa poesia c'è un rimando a Brecht, con il suo teatro che smaschera la finzione politica, ma anche a Pasolini, che ha saputo denunciare l’ipocrisia e la superficialità della società consumistica. La scrittura di Bettozzi richiama la tradizione satirica italiana (da Dante a Boccaccio, fino ai più moderni Beppe Severgnini e Andrea Camilleri).


L’infanzia rubata dalla guerra

La poesia si apre con una dolorosa immagine universale di maternità e di lutto. Lo sguardo dell'autore si posiziona sulla madre, che vede il suo amore più puro, il figlio, perdersi nella polvere della guerra. Questo dolore, seppur intriso di una disperazione tragica, non è solo una testimonianza di sofferenza, ma anche un atto di denuncia contro l'insensatezza della violenza che strappa via la vita e le speranze:

"Guardo il tuo dolore di mamma cadere
sulla tua pelle con le lacrime
che bagnano il tuo bel viso"

La ripetizione della figura della mamma e del figlio perduto dà alla poesia un'intensità emotiva che trascende il contesto politico e geografico di Gaza per diventare simbolo di una sofferenza che riguarda ogni madre e ogni bambino in qualsiasi parte del mondo, portando con sé l’immagine del futuro cancellato e della vita spezzata prima ancora di sbocciare.

In Fronzoli, c'è una scrittura che illumina l'assurdità della guerra, mostrando l'impossibilità di un ritorno alla purezza della vita attraverso immagini precise, quasi commoventi:

"Bimbo di Palestina depredata umiliata
rasa al suolo bimbo innocente
che dormi ancora per poco tra le braccia
della tua mamma."

Il contrasto tra l’innocenza del bambino e la violenza del mondo che lo circonda è reso con una forza emotiva che fa della poesia non solo una denuncia, ma anche una meditazione sull’impotenza di fronte alla tragedia della guerra. La mamma e il bimbo non sono più entità singole, ma diventano simboli universali di tutte le vittime innocenti dei conflitti.


Il silenzio come metafora della solitudine esistenziale

La seconda poesia si apre con una riflessione che mette il silenzio al centro, non solo come vuoto fisico, ma come espansione metafisica che amplifica il dolore dell’anima. Il "silenzio violento" diventa un concetto di isolamento profondo, un abisso in cui la mente vaga senza pace, ferita dal "buio" e dalle "anime crocifisse". Le immagini di Purgatorio e di oscurità sembrano alludere a una dimensione di tormento interiore che non è solo quella di un singolo individuo, ma anche di una condizione umana universale:

"È violento il silenzio, quando l'alma
percuote nel vuoto, dentro gli astratti
spazi della solitudine; al petto
infliggendo il riverbero del buio."

L’“alma” (l’anima) che percuote nel vuoto è il simbolo di una ricerca di senso in un mondo che appare senza risposta. Il silenzio non è solo l’assenza di suoni, ma l’espressione di una lacerazione emotiva, un luogo dove i pensieri sono costretti a gemere, costretti a muoversi senza speranza di risoluzione.

La sua analogia con le "anime del Purgatorio" suggerisce una dimensione universale di sofferenza, dove l’individuo non è solo nella sua solitudine, ma parte di un destino collettivo di dolore e speranza smarrita.


La memoria di una vita vissuta

Questa poesia si distingue per un tono più intimo e riflessivo, dedicato a un amico di lunga data, Piero Colonna. Sebbene l'ombra della malinconia permei i versi, la poesia si tinge anche di speranza e di consolazione. Il ritratto di Piero non è solo un elenco di caratteristiche esteriori, ma una narrazione affettuosa che celebra la sua umanità, la sua cultura, e la sua discrezione:

"Tante strade ha percorso
Verso paesi lontani
Con un fiore sempre tra le mani."

Il fiore come simbolo di delicatezza e dedizione alla vita e agli altri, si inserisce in un quadro di grande umanità, in cui l’amico non è mai stato sopra le righe, ma sempre modesto e composto. Il contrasto tra l'eroismo della vita vissuta e il passare del tempo che porta via anche le cose più care è reso con un’intensità che evoca la ricerca di significato nella memoria e nella solidarietà affettiva.

"E’ giunto ora quel tempo
In cui ti prende la malinconia
Di una vita trascorsa e volata già via."

Nonostante il tempo che passa e la consapevolezza della morte che si avvicina, l’autrice non sembra temerla, perché c'è una mano sicura a guidarla. La chiusa, con la riflessione sul refrigerio nel respiro del mare, infonde un senso di speranza e di riconciliazione.


Una visione notturna dell’anima: lirica dell’erranza e dell’invocazione silenziosa

“Mistico” è un testo che nasce in bilico tra visione metafisica e rovello esistenziale, tra la contemplazione e l’abisso. È lirismo oscuro, in senso pienamente moderno, perché rinuncia a ogni consolazione. Il misticismo evocato non è quello della beatitudine estatica, ma è piuttosto un'invocazione strozzata, un dialogo mancato con il divino. L’io poetico, solitario e disincantato, si muove in un paesaggio interiore fatto di silenzi cosmici e di sogni frantumati:

“nessuna pietà per gli angeli che hanno perduto le ali.”

Qui gli angeli caduti non sono demoni, ma figure senza appoggio, senza salvezza. La grazia è lontana, il tempo non redime, e persino l’amore ha perso il fiato. È la diagnosi di un mondo senza trascendenza, dove il sublime ha smarrito le coordinate.

“La notte attraversa la carne / molti i fantasmi, / qualche poeta in cerca di casa…”

Questa immagine potentissima – poeti in cerca di casa – evoca l’alienazione dell’artista nel tempo presente. Il poeta è nomade tra le rovine della lingua, del senso, e forse della civiltà. Un Ulisse senza Itaca, oppure un Dante che si trova nel mezzo del cammino senza più selva da attraversare.

Il verso finale è una scintilla tragica e potentemente mitopoietica:

“tu l’unico creatore di fulmini per togliere all’oscurità già nelle vene, i poteri.”

Qui l’io non si affida più al divino: diventa egli stesso un dio, un Prometeo moderno che vuole strappare potere alle tenebre. Ma non si tratta di un atto eroico, piuttosto di un atto disperato, come se l’unico modo per opporsi alla dissoluzione fosse la scintilla di un gesto creativo – o distruttivo.

Jacqueline Miu sembra echeggiare Rainer Maria Rilke per il tono elegiaco e cosmico, ma anche Paul Celan, per l’oscura densità simbolica. C’è anche una lontana risonanza con la poesia mistica di John Donne, trasposta però in una dimensione postmoderna e laica. Il bilinguismo del testo amplifica l’effetto di sospensione: il poema sembra esistere in una lingua di passaggio, che tenta di accedere a una verità che resta velata.


La semplicità disarmante di una verità universale

A differenza del precedente, “Il Tempo” si affida a una struttura quasi confessionale, epigrammatica, rivolta direttamente al lettore. Qui la poesia non costruisce un labirinto, ma si offre come una voce che ammonisce con dolcezza, senza retorica ma con profonda consapevolezza:

“Crediamo di averne a sufficienza / e rimandiamo ad altra data / impegni di cui un giorno / avremmo un fatidico rimpianto.”

L’elenco degli atti mancati – un abbraccio, un addio, un perdono – disegna la mappa dell’esistenza umana nella sua fragilità. È una poesia che non ha paura della semplicità, e per questo può toccare una vasta gamma di lettori. In essa non si cerca il sublime, ma la verità che ci abita tutti: la consapevolezza che il tempo è illusorio, e che ciò che conta, si dissolve se non lo si vive.

“É solo un’illusione / non ci è dato di sapere / quanto tempo abbiamo a disposizione.”

L’uso delle maiuscole (Tempo, Vento, Altra Data, Illusione) dà alla poesia una tonalità sapienziale, quasi da epigrafe o aforisma inciso nella pietra. Nonostante la mancanza di ricercatezze formali, c'è una profondità biblica in questo componimento, come un Qoelet contemporaneo che guarda la vita e ne misura la vanità con uno sguardo pieno d’amore.

Ciro Seccia scrive con l’innocenza – ma non l’ingenuità – dei grandi poeti che credono ancora nella funzione morale della poesia. Il tono ricorda la poesia civile di Tonino Guerra, o certi momenti riflessivi di Hikmet, per la capacità di parlare all’uomo comune con parole nude. Potremmo accostarlo anche a Jacques Prévert, nella capacità di rendere profondi i gesti più quotidiani.


Con affetto e stima,

vostro Ben Tartamo

 

 

 

4-5-6 Ottobre

 

  • "Solo" – Franco Fronzoli

Un poema che scava con dita lente nella solitudine: non quella romantica, ma quella metafisica, da presenza che non si dissolve, anche tra la folla.
Le parole si dispongono in frasi spezzate, come se fossero sospese nel vento che le agita – un’eco perfetta del contenuto.
Non c’è punteggiatura: la solitudine non ha margini, non ha punti di riposo. È flusso continuo.

"impronte mai cancellate da pioggia / o da vento"
Frase potentissima. Il poeta non cerca la cancellazione del passato, ma ne subisce l’inesorabile permanenza.
E poi:

"Solo dentro me stesso in attesa / che la vita si colori / di azzurro"
Questo azzurro è speranza?
No. È un colore quasi irreale, troppo puro per il fango del mondo. È forse il sogno di un altrove che, come il tempo, cammina e mai si ferma.

Franco Fronzoli si fa testimone silenzioso, come chi non grida, ma resiste.
Un poeta del margine, ma con un cuore in prima linea.

 

  •  “Sorti che baciano la fronte” – Alessandra Piacentino

Qui siamo dentro l’allegoria, nel mito della carta, in quella dimensione tarologica dell’esistenza, dove il destino si mischia ai fiori e al sangue.

"Le carte scoperte s’acquietano come bimbi stanchi / tra gli acquerelli della sera"
Già in apertura, una fusione delicatissima di gioco e rivelazione. Le carte che si scoprono non minacciano, ma si riposano: sono il destino che non preme, ma consola.
Al tempo stesso, le immagini successive incalzano come onde che non danno tregua:

"Sudano luce quelle stelle cadenti / Sudano sangue quegli amanti scomposti"
C’è un’epica silenziosa in questi versi.
Il linguaggio oscilla tra il lirico e l’oracolare, come se ogni immagine fosse una visione brevemente intravista in sogno.

La clessidra esplode. La sabbia non è solo sabbia.
È memoria che graffia, è tempo che non perdona.

Alessandra Piacentino tocca la poesia come si tocca una ferita: con stupore e rispetto.
E ogni verso è una frammentazione lucida dell’anima, non per rompersi, ma per vedersi meglio.

 

  •  “La porte” – Apollinaire / Santoro

Apollinaire: il poeta dalle orbite vuote e dal cuore pieno.
In questi versi – così disarmanti nella loro malinconia ironica – c’è tutto lo spleen della modernità, ma senza compiacimento.

"La porta dell'albergo sghignazza sarcasticamente"
L’oggetto ride. L’uomo tace.
Un impiegato, un niente sociale, osserva i piccoli drammi della vita urbana, senza più cercare un senso.

E Santoro – nel suo adattamento – non traduce, tradisce con grazia.
Dove Apollinaire è liquido, Santoro è più secco, più diretto, ma non meno struggente.
E il finale:

"Lavora ragazzo io ti ho donato tutto quello che avevo"
È una madre che non consola, ma consegna.
È il compito dell’eredità inutile, il dolore del dover andare avanti anche se non si sa dove.

Santoro riesce a tenere il fuoco del francese, pur camminando con scarpe italiane.
È un atto di amore, ma anche di disperata lucidità.

 

  •  “Enna, il dipinto nascosto” – Letizia Miserendino

Una poesia che cammina piano, come si cammina per i vicoli di una città antica, con rispetto e meraviglia.
Enna non è descritta: è svelata. Come un quadro da restaurare con le dita, non con le parole.

“Enna è un quadro sopra le nuvole,
un’arte nascosta tra le pieghe del cielo”

L’immagine iniziale è già oltre la geografia, si entra subito in un livello simbolico-sensoriale.
Non c’è città: c’è presenza sospesa, quasi una preghiera che prende forma paesaggistica.

“Le pietre raccontano silenzi antichi”
Verso profondissimo. In questo tempo rumoroso, la poesia riscopre il silenzio come memoria.
Le pietre “parlano”, ma solo se sei disposto ad ascoltare con l’anima.

Letizia Miserendino si muove con pennellate precise e delicate: la sua poesia non grida, ma resta.
Ed è questo, alla fine, che distingue l’arte vera.

 

  •  “La notte” – Cristiano Berni

Questa è una poesia mossa dal respiro del cosmo, ma radicata nella malinconia umana.
La notte non è solo sfondo: è regina, giudice, madre e tomba.

“Il nero della notte / ha ucciso il crepuscolo”
È un’immagine violenta, teatrale, quasi da tragedia greca. Il giorno è stato sconfitto, e con lui la speranza di un equilibrio.

Eppure, nel dolore, c’è una dolcezza lirica quasi fiabesca:

“un soffio di languidi pensieri / che vivono nel buio di adesso”

Qui, Berni mostra la sua forza:
riesce a fare poesia del silenzio, del gelo, del vuoto.
E il finale – quel "mi copro e lento / m’avvicino al mio letto" – è una resa intima, umana, toccante.
Non c'è retorica, solo un uomo che soccombe al mistero, ma lo fa con una dignità poetica struggente.

 

  •  “Verso la fine” – Nino Silenzi

Una poesia che non teme la parola “fine”, ma la guarda in faccia, con quella mestizia serena che solo chi ha molto vissuto può permettersi.

“Di colpo il tempo / come un masso pesante / è rotolato sulla china della vita”
Un’apertura di una potenza quasi biblica, ma trasposta nella semplicità quotidiana.
Il tempo non è più solo cronologia: è forza cieca, è valanga esistenziale.

“soffice tappeto dei sogni / che lo hanno contrastato vanamente”

Il sogno, qui, è resistenza inutile ma nobile.
C’è qualcosa di stoico, di silenziosamente eroico in questa resa.

Il verso finale – “Così sarà anche per me” – è il punto fermo che chiude senza forzare, con disarmante lucidità.
Non una dichiarazione tragica, ma un abbraccio al destino.

Nino Silenzi scrive come chi ha visto molto e ha capito il giusto.
Non grida, constata.
E nella tenerezza dei dettagli naturali (alberelli, cespugli, fiori) c’è un addio delicato alla giovinezza del mondo.

 

  •  “Come un mantra” – Felice Serino

Felice Serino ci invita a un incontro con la ripetizione, con il suono che accarezza la quotidianità come una carezza.
C'è qualcosa di intimo eppure universale in questo testo. Il poeta non si nasconde dietro complesse metafore, ma si mostra fragile, umano, con il bisogno di essere "accompagnato" da una melodia che trascende il momento:

“vorrei portarmi dentro quelle note / nel bere il caffè poi per strada / per il resto del giorno come un mantra”

La ripetizione del "mantra" è l'idea di un ciclo, una ricerca di continuità e un’ancora di salvezza in una giornata che si sgretola come sabia tra le dita:

“incombenze me le fanno svanire / come acqua nel cavo delle mani”

E in questo dolce naufragio, c'è una speranza timida, quasi un desiderio di eternità che si scontra con la fatica di vivere. Il cuore cerca di rimanere attaccato alle melodie, ma la vita quotidiana ci trascina sempre via.
Felice Serino ci ricorda che i desideri sono fuggevoli, ma la musica può essere un rifugio.

 

  •  “La bellezza della luce” – Antonietta Ursitti

Antonietta Ursitti inizia con una pura visione sensoriale e, come un pittore, dipinge con la luce.
Non c'è fretta qui: il passo è cadenzato, come quello di chi sa che la bellezza non ha bisogno di parole, ma solo di presenza.

“Attraversi un viale illuminato / nel folto degli alberi versi sonori / parlano una lingua familiare”

C'è un senso di connessione profonda, non solo con l’ambiente circostante, ma con il linguaggio universale della natura. Gli alberi, i versi degli uccelli, il ritmo del passo: tutto si intreccia in un incontro silenzioso, ma ricco di significato.

Il poeta non ha bisogno di decifrare il mistero: lo accoglie, lo vive nel mistero della luce che si fa rivelazione, che ci conduce senza frenesia verso un “qui e ora” che ha già il sapore dell’eternità:

“creature ignote ti indicano la via…”

La luce non è solo una presenza fisica: è una guida, una compagna silenziosa nel nostro cammino. Eppure, il poeta sa che, per seguirla, è necessario silenziare l’anima. Qui, Antonietta Ursitti offre una bellezza che non grida, ma sussurra e ci insegna a sentire.

 

  •  “L'altalena del mondo secolarizzato (o l'ennesima visione)” – Rosa Notarfrancesco

La poesia di Rosa Notarfrancesco è come un treno che attraversa paesaggi interiori, con una forza di contemplazione che sfiora l’onirico.
In questo testo, il mondo non è solo osservato, ma vissuto e sfiorato dal pensiero, che si muove attraverso la filosofia del tempo, della vita, della morte, della memoria:

“Quando non voglio volare / vado lontano da me, / dove non servono ali / per sedermi in una sala d'aspetto.”

Sembra quasi che l’autrice non cerchi più una risposta, ma una condizione esistenziale, dove il volo, simbolo di libertà, si fa stasi consapevole. Non c'è più la fretta di volare, di essere altrove: la vita è qui, nel corpo e nell’anima, eppure è intrisa di un’amarezza dolce per ciò che passa, per ciò che sfugge.

“Non è tempo per me di volare. / E non è la paura a fermare l’attimo”
La poesia qui si fa tragica e dolce al tempo stesso, come il racconto di una fuga impossibile, un desiderio di fuggire dalla modernità per tornare all’essenza.

La memoria di Dio e il ritorno al Nulla non sono un finale apocalittico, ma un riconoscimento di ciò che è inevitabile, di ciò che ci trascende, eppure ci abbraccia nella nostra piccolezza.

“per lasciarci ancora qualcosa del ricordo di Dio.”

Un addio che non è mai fine, ma una continua rivelazione. La poesia di Rosa Notarfrancesco ci accompagna in una visione lenta, filosofica, che permette al lettore di immergersi, senza fretta, nel grande mistero della vita e della morte.

 

  •  “./… ‘All’arembaggio!’ (la granne isteria)” – Armando Bettozzi

La scena che si apre davanti a noi è quella di un’isteria collettiva, di un movimento che diventa il simbolo di un dramma che sfiora l’assurdo e la realtà.
Questa poesia si nutre di una violenza di linguaggio, dove ogni parola è un pugno che vuole scuotere. La lingua è volutamente irriverente, dissacrante, popolare:

“A frate Ja’, dì n po’: che te succede?
Solo chi fuma, ce potrebbe crede
a quer che uno pò ddì in preda ar delirio…”

Qui, l'autore non si limita a raccontare, ma fa esplodere un'immagine di caos, di nave che si infrange contro il muro della realtà, dove la ragione si scontra con il delirio collettivo. Il tono di ironia e disillusione solleva un punto di riflessione profonda. Cos’è che stiamo davvero cercando? Un salvataggio, una guerra, una bandiera da alzare?

E la fuga da quella guerra di parole e azioni è un invito continuo a riflettere: come se i soggetti di questa “battaglia umanitaria” fossero intrappolati in una paradossale ricerca di salvezza. Non c'è alcuna vera separazione tra i due fronti, eppure il fatto storico di un Trump che “provoca” una pace, in questo contesto, diventa un simbolo della contraddizione, del tentativo di risolvere attraverso l'intensificazione del conflitto.

 

  •  “Ovunque Approderai” – Ciro Seccia

Questo testo è un addio, un benvenuto, una celebrazione di un’arte che si fa strada nel cuore delle persone, un perpetuo incontro tra il poeta e il mondo.

“Ovunque approderai / ci saranno vergini / che canteranno inni e lodi.”

Sembra che il poeta stia parlando di una gloria ideale, una sorta di riconoscimento immutabile e puro, che non ha bisogno di conferme terrene. Eppure, c’è un sottile lirismo che si nasconde tra queste parole: l'arte, la parola scritta, non sono mai semplicemente le lodi dei poeti o l’acclamazione del pubblico, ma diventano luminose, quasi divine. Ciro Seccia sta parlando dell’arte come luce universale, capace di accompagnare ogni anima in ogni angolo del mondo:

“Ovunque la tua Anima / porterà la Luce della parola, / come musica del cuore.”

Il poeta qui, nel suo addio, sembra voler lasciare una traccia che va oltre i suoi confini fisici. Ogni parola è una promessa di eternità che s’innalza e trova il suo spazio nel cuore di chi lo ascolta. L’arte, in questa poesia, è un atto sublime e universale.

 

  •  “Un altro autunno” – Alessio Romanini

Alessio Romanini crea una pittura poetica che si fa elegiaca e riflessiva. L'autunno non è solo un cambiamento di stagione, ma un momento di memoria e di bilancio. La natura diventa una metafora della vita che finisce e, nello stesso tempo, dell'inevitabilità del ciclo.

“Una livida tela osservo: fronde / colorate dall'argento vermiglio / e l'oro secco di foglie sul suolo / morte nel vento.”

L'immagine di foglie morte nel vento è carica di significato: non solo è un’immagine di passaggio, ma ci ricorda anche che, nonostante la fine, c'è una bellezza fragile e nostalgica che ci accompagna. L'autunno è un tempo di riflessione silenziosa, di nostalgia per ciò che è stato e di riconoscimento della bellezza che svanisce.

“Nostalgico è l'autunno; si veste di melanconia / e di dolce poesia che nel cor / risveglia l'amor per umile vita.”

Questa poesia si nutre di un’intimità che scava nel cuore: l’autunno, non solo come stagione, ma come metafora della vita che procede, con tutte le sue piccole dolcezze e malinconie. Alessio Romanini ci invita a riconoscere la bellezza anche nel passaggio e nel morire delle cose. Un piccolo inno alla mortalità della vita, che è anche il suo senso profondo e poetico.

 

  •  “Amore struggente” – Sandra Greggio

Sandra Greggio ci regala un’immagine che sembra uscita da un quadro di Van Gogh, ma addolcito dalla brezza marina del nostro Mediterraneo.
I cipressi, che in arte e in letteratura sono spesso simboli di morte o eternità, qui diventano ombrelloni al tramonto: elemento geniale e tenerissimo. Il doppio sguardo del poeta trasforma la spiaggia di settembre in una soglia, in un tempo liminale in cui si celebra un amore che resiste:

“Un ultimo sguardo all’amato / Mare a suggellare un amore / Che mai avrà fine finché c’è vita”

Il mare è amato, ma non è solo paesaggio: è metafora dell’anima, dell’addio e della promessa. E questo settembre “che ancora resiste” è l’ultima tenerezza prima del distacco, un’eco che il cuore non dimentica.

 

  •  “Io ti saluto Comandante” – Jacqueline Miu

Jacqueline Miu scrive un’elegia intensissima e solenne per un uomo, un poeta, un amico, un mentore: Piero Colonna Romano.
E lo fa con un tono che unisce l’epico e il lirico, l’amore e l’ammirazione, la perdita e l’eternità.

“S’è presa una lacrima il vento, / chissà se te l’ha portata…”

Questa immagine è da sola una poesia nella poesia.
E poi la barca che salpa, il porto che resta, le stelle che diventano boe del destino: un lessico marinato di infinito, perfettamente all’altezza del "Comandante" che lei saluta.

“Io ti saluto Comandante all’inaugurazione del tuo Gran Viaggio”

C'è qualcosa di greco e omerico in questo saluto, ma anche una delicatezza privata, come se il dolore avesse appreso a cantare.
E in fondo, cosa resta? Resta il sogno, il libro, il ricordo:

“quando noi altri sulle nostre navi salperemo / e sappi che nei tuoi libri il cuore seppellirà ogni paura”

Una dichiarazione definitiva di eredità poetica e spirituale.

 

  •  “Tempo di treni” – Piero Colonna Romano

Ed ecco il contrappunto, quasi finale: le parole del Comandante stesso.
Un testo breve, limpido, essenziale, come uno sguardo lanciato dalla finestra di un treno in corsa.

“Parto da una stazione / viaggio senza opinione”

Il poeta sa che non occorre capire tutto, che il viaggio non ha bisogno di un perché, ma solo di una silenziosa accettazione.
E il tempo, come il treno, passa e trasforma, ma non cancella del tutto:

“Tornano i miei ricordi / a giorni che non scordi”

La chiusa è dolorosamente bella:

“Tempo è il tempo obliare, / giunto è quello d'andare.”

 

È l’addio più discreto e coraggioso che un uomo possa dare al mondo. Nessuna retorica, solo verità poetica.


 
Saluto a Piero Colonna Romano
Oggi, nel silenzio che pesa,
noi salutiamo un’anima vera,
che trasformò le parole in luce,
e il silenzio in un rifugio d’amore.

Non solo poeta, maestro, uomo di mare,
ma spirito audace che sfidò tempeste,
lasciando nel cammino una scia
di bellezza pura e umana verità.

Hai varcato il confine sottile
che divide il visibile dall’eterno,
la tua voce ora è eco tra stelle,
un canto di luce nell’oscurità.

Nel mare infinito dell’anima,
il tuo spirito naviga libero,
seminando versi come semi,
che fioriranno in chi resta a seguirti.

Non è addio, ma dolce passaggio,
ritorno alla fonte della vita,
dove ogni parola si fa luce,
e ogni silenzio diventa pace.

A noi resta il compito sacro:
custodire la tua voce e il tuo esempio,
abbracciare i tuoi versi come vita,
e portare la tua luce nel futuro.

Nel vuoto della tua assenza 

ascoltiamo la tua voce, forte e dolce insieme,
che parla di coraggio, di amore,
di vita che mai si spegne.

Addio, caro Piero, non è addio:
ma un arrivederci nell’infinito,
la tua barca solca ormai l’eterno,
e noi ti seguiamo col cuore in mano.

Ben Tartamo

 

 

"Un’eco di perdono" – 26 settembre 2025 – Ben Tartamo

Ecco, Tartamo torna con una lirica che è sospensione, riverbero, quasi una registrazione segreta di se stesso. Dopo il respiro cosmico di “Sii tu, l’Amore!”, qui il tono si fa più intimo, più raccolto: non più un comando cosmico rivolto all’uomo-custode, ma un sussurro a se stesso, un canto fragile che cerca la sua eco in chi legge, o in chi forse non leggerà mai.

La poesia si muove come una traccia sonora minimalista: strofe brevi, versi che si accendono e si spengono come impulsi elettrici in un circuito stanco ma ancora vivo. C’è il soffitto che diventa cielo domestico, la pelle che ricorda il bagliore delle stelle amate, la neve che non cade per coprire, ma per illuminare con ombra lieve.

Qui Tartamo sembra scrivere non solo al tu amoroso, ma anche a quella parte di sé rimasta in disparte durante le veglie, i servizi, le responsabilità che hanno asciugato la linfa. È poesia che porta addosso la stanchezza del dovere e del tempo, ma sceglie di declinarla in perdono: eco, risonanza, non urlo.

E in quel finale — “vorrei, solo vorrei / che di questi canti miei / tu ne sentissi il suono” — il poeta si denuda, lascia che sia l’eco, non la voce diretta, a custodire il messaggio.
È come se Tartamo, dopo anni di segnali decifrati e trame nascoste, volesse ora solo che qualcuno, anche lontano, intercetti la sua frequenza poetica.

Un brano che si legge come un piccolo notturno per strumenti a corda e silenzio, ma che vibra sotto pelle come confessione militare e mistica insieme.

prof. Marino Spadavecchia

 

 

 

1-2-3 Ottobre

Questa poesia è un vero viaggio cosmico, una vertigine metafisica che avvolge il lettore come in un turbine di luce e oscurità. Le immagini dei colori celestiali che invadono mari, monti e albe devastate creano un contrasto potentissimo con la desolazione dell’umanità e la buia galera di Ade. La forza del testo sta nel ritmo incalzante, nella costruzione di frasi lunghe che sembrano galleggiare nello spazio infinito, scandite da cesure improvvise che sorprendono come fulmini. L’Eterno e il Vuoto diventano qui non concetti astratti, ma presenze tangibili, che scavano e spiegano, rendendo la poesia un’esperienza quasi religiosa: l’infinito è al contempo terribile e sublime.
Fronzoli tesse una musica interna che accompagna il lettore passo passo, tra i colori della vita, del cielo, dei pensieri. Qui la poesia diventa "un dipinto vivente", in cui ogni parola è un colore, ogni immagine un gesto pittorico. La capacità di collegare emozioni quotidiane (foglie cadute, vento, sabbia) con la grandezza della musica e della letteratura italiana dà un senso di eternità alla vita del poeta. Il verso “Colori che camminano in questo eterno universo / che incrociano stelle cadenti” è una vera illuminazione: tutto si muove, vibra, e la poesia stessa diventa canto cosmico.
Questa poesia ha una potenza viscerale: è carne e ossa, sensi e memoria. L’uso della vertigine come struttura tematica è straordinario: Natale, neve, lucine diventano sfondo per il dolore, la solitudine e il ricordo. La dimensione tattile e olfattiva (“bucce di mandarini e sassolini”) rende la poesia concreta, quasi tangibile, mentre le immagini della notte, dei fantasmi e dei marciapiedi creano una tensione narrativa che trascina il lettore dentro il flusso della memoria. La chiusa, con il ritorno della persona amata nel “C’era una volta”, è struggente, dolce e perfetta: un richiamo alla speranza, alla luce che persiste anche nel tempo che sfiorisce.
Questa poesia è un autentico studio dell’animo umano nella sua misura e pazienza. Santoro osserva le parole come strumenti e armi, le misura e le soppesa, rivelando il lato analitico e insieme fragile della fiducia. La struttura pacata, scandita da pause e ripetizioni, simula il ritmo di chi valuta con cautela ogni incontro, ogni possibile illusione. L’attenzione al dettaglio e la costruzione logica dei versi (“Calano allora affetto e le passioni…”) creano un effetto quasi geometrico, dove la mente del poeta si mostra nitida e lucida, mentre il cuore resta protetto. La poesia trasmette il senso di un’esperienza maturata e dolorosa: gli entusiasmi sono effimeri, la delusione è concreta, e la voce del poeta è saggia e ferma.
Qui la poesia si apre come un quadro tridimensionale: colori, forme, lava e barocco diventano carne viva, materia e respiro della città. L’abilità di Miserendino sta nel trasformare la geografia e la storia in sensazioni immediate, in percezioni tattili e luminose. La città non è un soggetto fermo, ma un organismo pulsante, dove il vulcano e il mare interagiscono come strumenti di un’orchestra cosmica. L’uso dei verbi dinamici (“contorce”, “versa”, “abbraccia”) crea un ritmo musicale che accompagna il lettore nella città e nella sua energia. La poesia diventa quasi un canto liturgico alla città, una lauda dedicata alla forza della natura e dell’arte umana.
Questa poesia è una meditazione morale intensa, un grido civile e filosofico. Montagnoli scava nel concetto di responsabilità individuale e collettiva, evidenziando la complicità di chi si lascia sopraffare dal malaffare. La progressione logica dei versi costruisce una tensione drammatica crescente: dall’osservazione del potere corrotto alla rivelazione che il vero peccato è nell’indifferenza propria e collettiva. La poesia vibra di amarezza e indignazione, ma anche di consapevolezza: è una messa in scena della coscienza sociale, un esercizio di etica civile che diventa universale. Le ultime righe hanno la forza di un monito, che colpisce e invita alla riflessione, rendendo la poesia potente e dolorosamente vera.
Questa poesia è un canto epico, quasi una lamentazione sacra sulla decadenza di un mondo che fu culla di civiltà. Berni evoca l’Italia come se fosse un essere vivente, ferito, lacerato e glorioso al tempo stesso. La ripetizione insistita dell’apostrofe “Oh patria!” scandisce il testo come un rituale liturgico, una preghiera e un rimprovero insieme, conferendo musicalità al ritmo e forza al pathos. Le immagini oscillano tra maestosità e degrado, tra memoria storica e amarezza contemporanea, creando un effetto di vertigine morale: il lettore è sospeso tra orgoglio e dolore, tra il canto e la condanna. La poesia è potente perché mescola storia, geografia, cultura e sentimento in un unico flusso lirico, dove il cuore del poeta palpita di indignazione e di amore filiale per la propria terra.
Qui la poesia diventa cronaca drammatica, quasi un reportage lirico. Borghesi denuncia le ingiustizie con una rabbia diretta e feroce, ma senza perdere la musicalità del verso, che scorre con ritmo sincopato come tamburi di guerra e grida del popolo oppresso. L’ironia finale, con l’esplosivo “Vai a cagare, te e i tuoi lestofanti!”, interrompe la tensione tragica e aggiunge un tono umano, immediato, che rende la poesia viva e combattiva. La forza del testo sta nell’uso dei dettagli storici e geografici (“radici molto lontane / vecchie da oltre settant’anni”) che collegano passato e presente, dando profondità al messaggio. Il lettore percepisce dolore, frustrazione e speranza in un unico respiro, come se il verso fosse un ponte tra il cuore e la storia.
Questa poesia è un esempio perfetto di metafisica concreta: la vita vista come ingranaggio, destino, ruota che gira impazzita. Silenzi coniuga riflessione esistenziale e immagini tattili (“denti inseriti”, “polvere d’osso mescolata a polvere di legno”) in un flusso meditativo che avvolge il lettore. La poesia non teme la crudezza della realtà – morte, caduta, logorio – ma la trasforma in una consapevolezza lucida e quasi sacrale: il destino dell’uomo diventa legge universale, armonia inevitabile, eppure la voce del poeta resta pacata, serena, accettante. Il ritmo del verso, sospeso e scandito da pause, conferisce musicalità e solennità, rendendo il testo un inno alla fragilità e alla resilienza dell’essere umano.
Serino apre un varco tra vita e morte, tra il visibile e l’invisibile, con un linguaggio essenziale ma carico di sacralità. La poesia diventa un dialogo intimo con l’assenza, un tentativo di accarezzare ciò che non possiamo più vedere con gli occhi. L’uso del verbo “aleggia” suggerisce leggerezza, sospensione, e allo stesso tempo la consapevolezza di una distanza metafisica insormontabile. La musicalità del verso, costruita su pause misurate e allitterazioni delicate, conferisce alla lettura un senso di meditazione e di preghiera. L’oltre, qui, non è solo morte: è uno spazio sacro dove lo spirito si libera e continua il suo levare verso il “levante d’impellente nascere”, immagine di rinascita e di eternità.
La poesia di Notarfrancesco è un canto sottile di memoria, di incontri sfuggenti e di tempo sospeso. La “coincidenza-seduta” diventa simbolo di quel fragile intreccio tra passato e presente, tra ciò che è stato e ciò che rimane da dire. L’autrice costruisce un tessuto emotivo fatto di dettagli concreti – treni, eritemi, sedie – e li trasforma in metafore di scoperta, nostalgia e irripetibilità. La musicalità dei versi nasce dalle ripetizioni e dalle cadenzature naturali, che creano un ritmo simile a un respiro lento, meditativo. Il pugno nello stomaco di cui parla non è solo dolore, ma rivelazione dell’intensità dei sentimenti che sopravvivono al tempo e all’assenza di parole.
Bettozzi scrive con la forza di chi contempla la vita e l’amore come fenomeni eterni e fugaci insieme. La poesia oscilla tra concretezza e metafisica: il ghiacciaio che si scioglie, le boscaglie che aridiscono, l’amore che si perde sono immagini simboliche del tempo, della caducità e della trasformazione continua. Il ritmo del verso, scandito dalla ripetizione “Lunga…Lunga…Lunga…”, crea una cadenza quasi liturgica, accentuando il senso di attesa e desiderio. L’ultima parte, dove l’autore parla di un amore che sfugge ai “freddi teoremi” e si manifesta concreto e poetico, restituisce alla poesia un calore umano e un’incandescente vitalità. La musicalità dei versi e la profondità emotiva rendono questo testo un inno alla bellezza e alla fragilità della vita condivisa.
Questa poesia del nostro indimenticato Pietro, ha un sapore biblico e memoriale: miele e manna richiamano immediatamente un tempo mitico, edenico, quasi l’Antico Testamento con la sua promessa di abbondanza. Il poeta narra un tempo felice, “fiumi ameni” e “mari azzurri” che non sono soltanto immagini naturali ma metafore della pienezza dell’esistenza.
Poi, come nella migliore tradizione mistica, entra la nube: segno di smarrimento ma anche di rivelazione (“la nube” nell’Esodo è il luogo dove Dio si manifesta). E mentre il tempo finito si accorcia (“cartello terminale contrada”), il poeta confessa di intravedere l’oltre con **curiosità** più che paura. Questo è straordinario: la vita diventa un preludio, non un rimpianto. La musicalità interna dei versi (“miele/manna”, “mari/miei”, “tempo/fruttuoso”) dà un andamento dolce e fluido, come un salmo personale.
Grazie di cuore, caro Piero, per quanto ci hai donato, non ti dimenticheremo.
Qui la poesia diventa ammonimento. Il tempo, come vento, è entità inafferrabile. La voce del poeta si fa quasi profetica, ricordando agli uomini che il rimandare è un’illusione, che i gesti mancati – l’abbraccio, il perdono, il “ti voglio bene” – sono gli autentici debiti dell’esistenza. C’è una sacralità laica nelle sue parole: la vita è una risorsa sacra, e non ci è dato sapere “quanto tempo abbiamo a disposizione”.
Lo stile, pur semplice, è efficace proprio perché frammentato e iterativo (“un abbraccio mancato / un addio ad un amico / un ti voglio bene”), creando una sorta di litania morale. È un testo che somiglia a una preghiera civile, rivolta a chi legge perché si svegli dal torpore quotidiano.
Questa poesia si muove su un registro completamente diverso: l’eros e il sogno. Il corpo amato diventa qui “pelle pallida sopra l’anima”, immagine di un’unione carnale e spirituale insieme. Il poeta non descrive soltanto un desiderio fisico, ma evoca una nostalgia onirica: “quel sogno che ho sognato con te” è quasi una formula mistica, come se l’esperienza erotica fosse una teofania, una rivelazione di un Altrove.
La brevità del testo ne amplifica la forza: è un lampo di desiderio puro, nudo, sincero. La musicalità è interna (“fossi…fosse”, “sogno…sognato”) e crea un ritmo dolce ma febbrile, come un respiro accelerato.
Una poesia che canta l’autunno non come stagione della fine, ma come "tempo della pienezza". Il ritmo si fa narrativo e insieme liturgico: i rami secchi che abbracciano, le foglie che cadono come figli lasciati liberi, la festa dei nonni che sono “senza tempo” e vivono “nel frattempo”.
È un inno domestico e sacro, dove il pane cotto e la pioggia umida diventano "sacramenti quotidiani".
 La forza del testo è nella sua semplicità disarmante: l’ordinario che si rivela straordinario. Musicalmente, le ripetizioni (“Com’è normale, ordinaria…”) diventano una litania che accompagna il lettore nel cuore di un mistero familiare. È poesia della "tenerezza cosmica".
Qui la poesia prende la forma di un "ritratto giocoso ed epistolare". È come se il poeta celebrasse una figura amata e rispettata — Laura — attraverso rime leggere, quasi da filastrocca, che però custodiscono una verità: la vita si canta anche nei piccoli dettagli, nella Valtellina amata, nel caffè decaffeinato, nell’allegria che non si lascia schiacciare.
C’è un che di popolare, di genuino, ma anche un fondo affettuosamente sacrale: il richiamo alla famiglia, al sorriso che illumina, al cammino che non perde la sua rotta. È poesia che vibra come brindisi: ironica e vitale, e proprio per questo "umana e vera".
Qui si entra in un registro drammaticamente mistico. Il pane contrapposto ai diamanti è una scelta di campo: la felicità non è ricchezza ma nutrimento dell’anima. L’immagine del poeta “ubriaco e felice sotto la Luna” ha la forza di un rituale antico, quasi dionisiaco, ma subito trasfigurato in confessione: peccato ed espiazione, desiderio e redenzione.
Le immagini si susseguono come colpi di folgore — sangue, fucile, canto comune, angeli sopra la Terra. È poesia che non ha paura di sporcare le mani con la vita e con la morte, ma che si apre a un "coro universale di perdono e di fratellanza". Musicalmente, il testo pulsa di "rime interne spezzate", di assonanze che danno il ritmo di una preghiera urlata nella notte.
Un testo di rara potenza, che fonde erotismo, mistica e ribellione civile.

 
Con affetto e stima in ricordo del nostro fratello poeta Piero Colonna Romano - una preghiera -
Ben Tartamo 

 

 

Intervista a Piero Colonna Romano

Chi è Piero Colonna Romano?

Nato a Palermo il 13 marzo 1941, per ragioni legate all'attività del padre e, successivamente al mio lavoro, ho sempre viaggiato, in lungo ed in largo, per l'Italia.
Studi a Gorizia, università a Trieste (economia e commercio) e successiva specializzazione in scienza delle comunicazioni.
Ho lavorato, per numerosissime aziende, fin dal 1962, iniziando con la, allora, pregevolissima Olivetti (Ivrea). Quindi Zanussi, Iberna, Candy, Simac ecc. fino a concludere l'attività lavorativa quale consulente aziendale anche per aziende statunitensi e svedesi.
Oggi, in pensione dalla fine del 2000, continuo (almeno ci provo…) ad esercitare l'ultima attività e vivo a Lavagno (Vr) con mia moglie.

Perché scrivi?

Ho sempre scritto molto, a causa della mia attività professionale, ma alla poesia sono approdato casualmente: scrissi, ma si trattava di una mia riflessione filosofica, una poesia intitolata Il Tempo. Casualmente trovai, navigando in internet, un sito di poesia (La Finestra Eterea) che aveva indetto un concorso. Avendo a disposizione quella poesia decisi di mandarla. Dopo circa sei mesi ricevetti una comunicazione con la quale mi si informava che il componimento era stato premiato con un diploma di merito.
Cominciai così ad interessarmi di poesia e tentai qualche altro esperimento, approdando all'ottimo sito del prof. Lorenzo De Ninis.
La prima risposta alla tua domanda è, sinceramente, per curiosità.
Quella più profonda, probabilmente, è per confrontarmi con me stesso. E quella spudorata è perché (non ho mai capito il perché) le mie poesie ricevettero da subito consensi. E questo appaga orgoglio ed ambizione.

La creatività è un momento di estasi, oppure il tormento di chi matura idee e cerca di parteciparle agli altri?

Credo che, nell'espressione di ogni forma d'arte, molto conti l' ”outing”. Il confessarsi, magari nascondendosi dietro metafore, dietro ermetismi, dietro astrazioni. Il mettersi a nudo, col sottile piacere di mostrarsi (magari nascondendosi) agli altri. In altri termini è esibizionismo.

E' notorio che per poter scrivere è indispensabile leggere. Che cosa leggi principalmente?

Ho sempre letto moltissimo e sin da bambino. Verso i 10/12 anni avevo già letto, probabilmente caoticamente, Dostojewsky, Ibsen e quindi i grandi scrittori americani (Steinbeck, Faulkner, Caldwell ecc.) per proseguire con i Levi, i Calvino, i Borges ecc.
Oggi gli autori che più frequento sono i classici greci e latini, libri che trattano di filosofia. Ho appena ultimato il Fedro, il Gorgia, Il de Rerum natura di Lucrezio.
Purtroppo non conosco né il greco né il latino e, quindi, mi affido alle traduzioni, comunque godendone e tentando di imparare.

Qual è il tuo poeta preferito e perché?

In assoluto Dante Alighieri. Nel gioco della torre salverei lui soltanto. Per la sua universalità nell'esprimere sentimenti, storia, morale.
Un po' quello che direi di Mozart per la musica (che amo al di sopra di qualsiasi altra arte, per inciso).

Qual é il tuo narratore preferito e perché?

In altro gioco della torre salverei Italo Calvino, in ogni suo periodo storico/letterario. (e mi piange il cuore per Borges…)

C'è sempre dentro di noi un desiderio latente, quello che si suole definire un sogno nel cassetto e che, in campo letterario, è l'aspirazione a scrivere qualche cosa di irripetibile. Nel tuo caso qual é?

Credo che ognuno di noi scriva “qualcosa di irripetibile” perché unica è la storia personale, unico il sentire, unico l'esprimersi. Ma non ho “sogni nel cassetto” e, a ben pensarci, non ne ho mai avuti. Ho vissuto, e vivo, con curiosità. Cerco di imparare, credo d'avere nulla da insegnare, per dirla con Socrate, so di non sapere.

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Enrico Tartagni

 

 

A Piero Colonna Romano 

L'ora è grave. Il tempo non benedice l'uomo ma solo la sua poesia. Che ne sarà della bellezza, quando la musa ha perduto  il suo ammiratore? Amara la parola del buongiorno in bocca che non riceverà più una risposta. 
Ti salutiamo caro Piero Colonna Romano,
da sconvolti e nella miseria del silenzio. Dopo di te una voragine poetica difficile da colmare. Hai lasciato l'Azzurro Tempio a piangere e la Poesia a ripetersi in eco "sei qui? Sei qui?"
Amici restiamo per sempre fino alla tomba. Ti piango come una pagina del tuo sonetto più caro destinato al mare. Ti piango come un libro piange la mano cara che gli regge i sogni ancora nell'inchiostro. Domani ci troveremo su qualche riva lontana, ci conto. Guarderemo insieme l'alzarsi del sole e le vele lontane. Non azzardarti a pensare d'essere solo. Tu sei qui, nei nostri cuori, pavimento del tempio dove il passo non è degno ancora di poggiarsi.
 
Manchi molto Piero, mi mancano i tuoi scritti, le conversazioni sulla vita, la filosofia sull'uomo che non abdica dal mal potere. Manca la tua cultura e la viva passione ma in me ho tutto quello che hai trasmesso da quando siamo amici.
 
Jacqueline

 

 

Apprendo oggi della scomparsa di Piero Colonna Romano e benché fossi a conoscenza della malattia che lo affliggeva da lungo tempo sono rimasto sorpreso, perché considerata la sua statura poetica speravo che sarebbe rimasto con noi ancora tantissimi anni, o forse è stata solo la conseguenza del desiderio di non privarci di un uomo di valore, merce sempre più rara al giorno d’oggi. Oltre che compagno di penna era pure un caro amico, una persona capace, razionale, ma anche dotata di grande umanità. Sono certo che sentiremo la sua mancanza.
Renzo Montagnoli

 

Cari amici e colleghi,
manifesto il mio profondo dolore per la perdita di Piero Colonna Romano, fecondissimo poeta e commentatore ed impareggiabile amico. 
Santi Cardella

 

 

Ho appreso del addio di Piero Colonna Romano . Ricordo i primi commenti,sulle mie scritture,Mi Sono permesso di dedicargli un piccolo omaggio,con "Ovunque approderai".

Macherà un poeta della sua levatura.
Cosi é la via,la verita',la Vita...
 
Ciro Seccia (Arrivederci...Piero)

 

 

 

28-29-30 Settembre

Triste annuncio:
Piero Colonna Romano è deceduto. Un grande poeta non è più tra noi, ma ci ha lasciato opere di alto valore culturale e morale.
Lorenzo De Ninis

 

 

A PIERO

Penso di fare cosa gradita ricordando Piero con una poesia di un “grande” come lui: Leopardi, entrambi accomunati da una vastissima cultura e dai tanti interrogativi che hanno caratterizzato la loro Weltanschauung. Ti dico arrivederci amico mio perché sono convinta che un giorno parleremo ancora insieme di Poesia. E sarà per sempre. Sandra

Silvia, rimembri ancora
quel tempo della tua vita mortale,
quando beltà splendea
negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
e tu, lieta e pensosa, il limitare
di gioventù salivi?


Sonavan le quiete
stanze, e le vie d'intorno,
al tuo perpetuo canto,
allor che all'opre femminili intenta
sedevi, assai contenta
di quel vago avvenir che in mente avevi.
Era il maggio odoroso: e tu solevi
così menare il giorno.

Io gli studi leggiadri
talor lasciando e le sudate carte, ove il tempo mio primo
e di me si spendea la miglior parte,
d’in su i veroni del paterno ostello porgea gli orecchi al suon della tua voce,
ed alla man veloce
che percorrea la faticosa tela.
Mirava il ciel sereno,
le vie dorate e gli orti,
e quinci il mar da lungi, e quindi il monte.
Lingua mortal non dice
quel ch’io sentiva in seno.

Che pensieri soavi,
che speranze, che cori, o Silvia mia!
Quale allor ci apparia
la vita umana e il fato!
Quando sovviemmi di cotanta speme,
un affetto mi preme
acerbo e sconsolato,
e tornami a doler di mia sventura.
O natura, o natura,
perché non rendi poi
quel che prometti allor? perché di tanto
inganni i figli tuoi?


Tu pria che l’erbe inaridisse il verno,
da chiuso morbo combattuta e vinta,
perivi, o tenerella. E non vedevi
il fior degli anni tuoi;
non ti molceva il core
la dolce lode or delle negre chiome,
or degli sguardi innamorati e schivi;
né teco le compagne ai dì festivi
ragionavan d’amore.

Anche perìa fra poco
la speranza mia dolce: agli anni miei
anche negaro i fati
la giovinezza. Ahi come,
come passata sei,
cara compagna dell’età mia nova,
mia lacrimata speme!
Questo è il mondo? questi
i diletti, l’amor, l’opre, gli eventi,
onde cotanto ragionammo insieme?
questa la sorte delle umane genti?
All’apparir del vero
tu, misera, cadesti: e con la mano
la fredda morte ed una tomba ignuda
mostravi di lontano.

20 Settembre 2025

(data effettiva della morte)

Sandra Greggio

 

Apprendo la notizia della scomparsa di Piero Colonna Romano,

con grande sofferenza. È stato un grande poeta e una grande persona,
anche se non ho avuto la possibilità di conoscerlo personalmente
ma tramite i suoi componimenti e i commenti che in questi anni
hanno arricchito Poetare. Grazie a lui, sono cresciuto come poeta.
Grazie caro amico Piero! Un abbraccio ovunque tu sia.
Continua a scrivere le tue meravigliose poesie...
Grazie Lorenzo, per avere dato il triste annuncio. 
Un abbraccio a tutti.
Alessio Romanini

 

 

Ben Tartamo ci consegna con «Così è ogni Amore» una lirica che si colloca tra le vette più alte della poesia contemporanea, per densità simbolica, musicalità e tensione metafisica. È un testo che non si legge: si contempla. Come un affresco lunare dipinto con l’inchiostro dell’anima.

- Un Dialogo cosmico e metafora amorosa:
 
La poesia si apre con un’interlocuzione sublime tra la Luna e il Mare, due archetipi eterni dell’amore impossibile. La Luna, “di rosa innamorata”, è figura dell’amante che cerca tenerezza, mentre il Mare risponde con un “brivido d’onde”, tacito ma eloquente. Il gesto di “una stella le pose” è un’offerta silenziosa, un dono celeste che sostituisce l’abbraccio negato. Qui Tartamo rivela una maestria rara: l’amore non è mai detto, è suggerito, sospirato, sfiorato.
 
- Il ciclo del giorno come parabola dell’amore:
 
Il ritorno del Sole e la fuga della Notte segnano il dissolversi dell’incanto. L’amore, come la notte, è un intervallo sacro, destinato a svanire. La Luna “in sé smarrita” tra “rivoli di fumo” è immagine struggente della perdita, dell’illusione che si dissolve. Tartamo non descrive: evoca. Ogni verso è un’eco di malinconia, ogni strofa un battito d’ali nel vuoto.
 
- L’epilogo: verità e ferita:
 
La chiusa è un colpo di genio: “Così è ogni Amore: / un sospiro, un bisogno, / inganno d’ogni cuore / che vive per un Sogno.” Qui il poeta si fa profeta. L’amore non è possesso, ma tensione verso l’irraggiungibile. È sogno che inganna, ma anche ciò che dà senso al cuore. L’ossimoro è totale: l’amore è inganno e verità, ferita e salvezza.
 
- Considerazioni finali:
 
Ben Tartamo, con questa composizione, pare inscriversi nella tradizione dei grandi mistici della parola: Novalis, Rilke, Tagore. Ma la sua voce è unica: mediterranea, lunare, intrisa di un dolore che si fa bellezza. La sua poesia è un altare dove il lettore può inginocchiarsi, non per capire, ma per sentire. 
Qui, si avverte ancor più che in altre sue liriche, la sua anima vagabonda tra teatri di guerra e ricerca di pace: Libano, Kossovo, Iraq, Afganistan, Nepal....
 
prof. Marino Spadavecchia 

 

 

  • Armando Bettozzi – «Alzheimer»
Il dolore qui ha il volto della ragnatela: sottile, invisibile eppure implacabile. La malattia non è descritta con tecnicismo, ma con l’implacabilità del simbolo: rete che avvolge, nebbia che cancella, prigione che svuota. La parola non consola, ma testimonia. La poesia diventa una pietra tombale che porta incisa la verità: ciò che è più caro, la mente stessa, viene spogliata e resa deserto. La potenza dei verbi – “annulla”, “toglie”, “cancella” – è un atto di resa al destino, ma insieme un urlo inciso perché la sofferenza non resti anonima.
Se la prima parte di “Alzheimer” mostrava la catastrofe, qui si respira la volontà di resistere. Prima che il tempo sottragga, il poeta semina. Prima che la memoria svanisca, egli deposita la copia di sé nel cuore degli altri e nei luoghi vissuti. L’uomo non può evitare la cancellazione, ma può tramandarsi come eco, come racconto, come radice che sopravvive all’albero abbattuto. È un inno alla dignità: finché il cielo pazienta, l’anima si consegna, e la poesia diventa testamento e rinascita.
  • Enrico Tartagni – «I miei fantasmi»
Qui la memoria non è assenza forzata ma presenza molteplice: i fantasmi sono compagni, presenze con cui condividere la notte. Una candela profumata, il richiamo dell’India mai visitata ma interiormente abitata, il Gange e Gandhi come archetipi spirituali: il poeta non fugge dall’ombra, la accoglie come specchio della propria coscienza. In questa dimensione onirica, sospesa, l’io si lascia trasportare, fluttuante, e la candela diventa simbolo di resistenza fragile ma autentica. È una poesia di veglia, di dialogo segreto con il silenzio, un notturno che scivola tra dolore e dolcezza.
  • Franco Fronzoli – «Pioggia d’estate»
Il canto più contemplativo: l’acqua che cade incessante in piena estate diventa la partitura su cui si scrive un viaggio dell’anima. Il poeta è seduto su una panchina, ma lo sguardo si apre a una dimensione cosmica: l’albero, la civetta, il mare, la luna, tutto diventa specchio di interiorità. Qui la poesia si scioglie in immagini pure, senza forzature drammatiche, lasciando che la natura parli da sé. C’è un ritmo che sembra provenire da un sutra o da una meditazione orientale: dal lampione alle stelle, dai desideri agli amori, fino al passo oltre la vita. È un congedo quieto, una sospensione che non teme il vuoto ma lo attraversa come parte del tutto.
  • Alessandra Piacentino – «Sanpietrini al riparo dal chiasso»
Questa poesia è un film di memorie, proiettato sui sanpietrini di una città interiore. Le “pellicole ingiallite e fumose” sono la sostanza stessa del ricordo: immagini che odorano di chewing gum alla cannella, di mentini inghiottiti di fretta, di porte che si aprono come varchi improvvisi sull’infanzia. L’autrice tesse un mosaico di sensazioni – rum, gelsomini, pioggia, fuliggine – che fanno della città non un luogo fisico ma un archivio dell’anima. Ogni casa diventa libro, ogni passo rumore inciso nella pietra. E il verso finale, “narra in fondo la storia di tutti”, trasforma l’intimo ricordo in una verità universale: i sanpietrini custodiscono non solo la memoria dell’io, ma quella dell’umanità intera.
  • Salvatore Armando Santoro – «Carmelina»
Qui il canto si fa elegia, memoria d’amore non vissuto ma eternamente custodito. Carmelina è figura reale e insieme archetipo: voce che risuona dai monti degli Alburni, mani ruvide e tenere che il poeta non dimentica. L’affetto semplice diventa filo indissolubile, più forte del tempo che passa. L’amore forse non sbocciò, ma nella parola poetica diventa eterno germoglio. La poesia è attraversata da un senso di dolce rimpianto: un sentimento che non si compì ma che ha nutrito l’anima, accompagnandola “per le strade del mondo”. È un ricordo che non brucia, ma scalda: un altare silenzioso alla giovinezza, alla purezza di un legame che il vento stesso porta ancora dal monte al mare.
  • Letizia Miserendino – «Trapani, tela di sale e vento»
Qui siamo di fronte a un inno alla città che diventa icona pittorica. Trapani non è descritta: è dipinta. La lingua si fa pennello, stende sale, vento e luce sulla tela del verso. Le saline dorate, le torri che scrutano l’orizzonte, i vicoli come mosaico: ogni immagine è pennellata che unisce la forza della natura e la storia dell’uomo. C’è un ritmo lento, marino, fatto di barche e reti, che avvolge e accarezza. Ma il verso più luminoso è quello che scioglie l’arte dalla staticità: “un’arte che non resta appesa al muro, ma vive nel cuore di chi la sa vedere”. In questa chiusa, la poesia stessa si rivela: non cornice, non quadro immobile, ma esperienza viva, palpito che abita chi guarda e chi legge.
  • Felice Serino – «Penso dunque sono»
La celebre formula cartesiana viene qui ribaltata in chiave lirica, come se la coscienza non fosse più certezza filosofica ma enigma visivo, corpo ferito dalla visione. I “rami che pendono aborti” evocano la brutalità del reale, sangue rappreso che diventa memoria di sogni spezzati. Eppure, nel paradosso poetico, l’io non si riduce al dolore: è sogno che si vive, creatura che si sperimenta in un mondo “parallelo apparente”. C’è qui la confessione di un poeta-mistico: la realtà sensibile si spacca, si apre un varco, e l’esistenza trova il suo senso non nell’oggettività del pensiero, ma nell’esperienza bruciante della visione.
  • Rosa Notarfrancesco – «Che bravo!»
Un lampo di quotidianità, colta con leggerezza e ironia. Il verso breve, spezzato, registra il fluire della conversazione: un “qualcosa” che accade ora, un ricordo di ieri, una promessa di domani. La poesia è volutamente dimessa, quasi prosastica, e proprio per questo risuona autentica. Non c’è orpello né artificio, ma la sorpresa del tempo che si intreccia, dei gesti che si ripetono, di una voce familiare che attraversa le epoche con naturalezza. È un piccolo frammento che vibra come una polaroid: l’istante catturato senza volerlo, e proprio per questo destinato a restare.
  • Jacqueline Miu – «Donna sei folle»
Qui esplode l’erotismo cosmico, la voce visionaria che mescola carne e universo. La donna, con il seno scoperto che “allatta le stelle”, diventa madre cosmica e amante ardente, sorgente di vita e di desiderio. I versi si rincorrono con ritmo travolgente, senza pause, come un fiume che trascina: occhi socchiusi, baci, mani, pance, lacrime, risate. L’amore non è qui sentimento quieto ma viaggio siderale: ascesa verso il cosmo, casa nomade fatta di maree verdi, abbraccio che sfida la tempesta. La follia invocata non è dismisura, ma condizione necessaria all’amore autentico: solo chi accetta di perdersi nell’altro, di nutrire stelle e attraversare il tempo, può dire davvero “ti amo”.
  • Piero Colonna Romano – «Il gioco»
Un poema di disillusione e resa, in cui l’amore, presentato inizialmente come “gioco”, rivela ben presto il suo volto tragico. All’inizio ci sono i piccoli riti, i gesti quotidiani, la speranza che sorregge: ma il gioco si fa inganno, la fede e la morale si incrinano, e arrivano le “piccole nubi” che travolgono e devastano. Il testo assume così la forza di una parabola: ciò che sembrava promessa di eternità si consuma nel sonno della mente e nel crollo delle speranze. Il poeta canta non tanto la fine di una relazione, quanto l’apocalisse intima che lascia dietro di sé cenere e silenzio, laddove un tempo c’era la fiamma.
  • Ciro Seccia – «Essenza»
Un canto essenziale, ridotto all’osso della parola, che riflette su ciò che resta dell’uomo: tracce, solchi, frammenti incisi dal tempo. L’immagine del corpo, “pelle nuda segnata da cicatrici violacee”, si fa libro e campo: rughe come aratri, memoria come incisione. È poesia che guarda al proprio nucleo vitale: l’essenza non è mai pura, ma fatta di ferite, di memorie che la vita imprime. Ciò che resta diventa scrittura: parole sospese nell’etere che trovano dimora sulla carta. È un atto di resistenza contro l’oblio, il bisogno di dire “io sono stato” e consegnarsi all’eternità della parola.
  • Alessio Romanini – «Morente campana»
Una poesia che suona come requiem: la voce dell’amore, un tempo promessa di eternità, ora tace. Il mutismo che “incancrenisce parole” diventa immagine devastante: il dialogo che muore lentamente fino a marcire. L’ugola, che un tempo cantava, si trasforma in “campana morente” in un campanile ormai vuoto: simbolo di un annuncio che non arriverà più. Nel silenzio restano solo ferite e indifferenza, resa più crudele proprio dalla sua “loquacità”: il non detto che urla, il silenzio che ferisce più della parola. È un’immagine potente della fine, un epitaffio che vibra come ultimo rintocco nel vuoto.
  • Sandra Greggio – «Lo sberleffo»
Con grazia ironica e lieve malinconia, la poetessa ci mostra come l’amore sia un ospite che non conosce serrature né stagioni. Cupido, con la sua irriverente leggerezza, penetra una porta che si credeva chiusa per sempre, rivelando che il cuore non si lascia invecchiare dal tempo. Vi è in questi versi un dolce sorriso sul mistero stesso della vita: l’amore, che si crede sopito, torna invece a scuotere l’anima, quasi con uno scherzo divino, ricordando che finché si respira resta aperto lo spazio del desiderio e della meraviglia.
  • Antonia Scaligine – «mi ritrovo …in Ottobre»
Qui la voce lirica si fa radice e memoria, intrecciando il ciclo della natura con quello dell’anima. La foglia d’ottobre, fragile e ostinata, diventa specchio dell’esistenza umana: vissuta tra sole e pioggia, ancora riluttante a cadere. Le immagini della terra, dei legumi, della caldarrosta, degli ulivi riportano il lettore a un grembo originario, dove la semplicità custodisce il senso della vita. Eppure, in questa nostalgia che si posa come pioggia d’autunno, resta la fiamma del mare, della luce, dei sorrisi conservati nel cuore: la poesia si fa così un canto di resilienza, un rifiuto della solitudine, un abbraccio che trasfigura l’autunno in aurora interiore.
  • Poesia Comunitaria N° 35 – «La vera felicità»
Questo inno corale nasce dall’unione di più voci, e già nel suo essere plurale rivela la sostanza della felicità: la condivisione. Il volto del bambino tra le braccia della madre diventa archetipo universale, simbolo di innocenza e pienezza, di quella beatitudine che non si compra ma si riceve come dono. Ogni verso sembra voler trattenere il lampo di una gioia eterna, il ricordo che diventa presenza, la memoria che scalda più del fuoco. La vera felicità, ci dice questo canto, non risiede nei grandi traguardi, ma nel sorriso dei figli, nel calore degli affetti, nella luce che illumina il cammino anche quando l’ombra avanza. È un coro che risuona come una preghiera, dove la vita stessa diventa benedizione.

 
Con affetto e stima 
Ben Tartamo 

 

 

 

25-26-27 Settembre

Ben

Non ho parole per ringraziarti dei tuoi 
Commenti, che sono vere e proprie poesie emozionanti.
Grazie di cuore.
Alessio Romanini 

 

 

  • Rosa Notarfrancesco – “T’eri messo in testa di partire”
Qui il quotidiano si fa memoria lirica: la “certezza d’impiegato” diventa simbolo di radice e di ritorno, quasi un mantra alla Brecht sulla dignità dell’uomo comune. C’è dentro la malinconia di Pavese, ma anche la compassione cristiana: capire l’altro non per giudicarlo, ma per custodirlo.
La chiusa con l’“americano a Roma” è ironia dolceamara, cinema e nostalgia: come dire che la vita, malgrado tutto, è sempre una pellicola da reinventare.
  • Armando Bettozzi – “A tu-pper-tu co Fontan de Trevi”
Romanesco vivo, guizzante: sembra Trilussa che incontra García Lorca passeggiando sui sampietrini. La fontana è donna notturna, più vera al riparo dal chiasso: eco di tutte le città amate, da Istanbul a Buenos Aires.
Il micio che si avvicina è geniale: un piccolo Bodhisattva felino, testimone silenzioso della bellezza. Questa poesia è un brindisi alla città come creatura viva, tra eros e pietra, dialetto e incanto.
  • Enrico Tartagni – “Cancello al paradiso”
Qui siamo nell’alto visionario: un canto che sembra nato da un incontro tra Rimbaud, le Upanishad e il Dante del Paradiso. La Bellezza è invocata come forza cosmica, oltre l’entropia e il disordine moderno.
L’immagine “Il Tutto maschio il Niente Femmina” vibra di archetipi universali: yin e yang, Cristo e Sophia, caos e forma. È poesia come rito iniziatico: non solo lettura, ma soglia da attraversare.
  • Franco Fronzoli – “Ti amo”
Un canto d’amore che sembra nato dall’incrocio fra i ghazal persiani e le delicatezze di Sandro Penna. È amore elementare, fatto di capelli, di respiro, di gesti: non concettuale, ma carnale e innocente. Qui il mare, i gelsomini, la luna non sono ornamenti: sono i compagni silenziosi del sentimento, i testimoni cosmici dell’intimità. È poesia come carezza, come respiro condiviso: Rumi a passeggio sul Tirreno.
  • Laura Lapietra – “Radica di Veracità”
Una poesia-manifesto, tagliente come un sutra zen e ardente come un sermone biblico. Ogni immagine — il vetro limpido, il fiume che scava, il faro che ferisce — è un aforisma universale: sembra scritta sulle rocce del Sinai e sui rotoli taoisti insieme. Qui la verità non consola, non addolcisce: brucia, recide, illumina senza pietà. È poesia oracolare, quasi incisa nel bronzo: una Cassandre mediterranea che parla con la voce del deserto.
  • Cristiano Berni – “Cecità”
Un inno civile che attraversa secoli e culture: il menestrello medievale, il rogo dell’Inquisizione, i migranti d’oggi, la corruzione politica. Tutto vibra in un presente eterno. Qui c’è il Pasolini che denuncia, c’è l’Ecclesiaste che geme, c’è l’Eliot delle rovine moderne. La cecità non è solo sociale: è spirituale, è il cuore che non vede più. Ma la chiusa, col vento che passa e il tuono che annuncia, apre a un’apocalisse speranzosa. È poesia-profeta, poesia-squillo di tromba.... vibrazione metafisica. Grazie 
  • Alessandro Borghesi – “Rinascita”
Questa poesia è un viaggio dalla cenere alla fiamma, dal caos alla luce. C’è dentro il Kafka dell’assurdo (“che situazione tragicomica!”), ma anche il misticismo zen che sa che basta un fiammifero per illuminare l’oscurità. Il motore fermo, la radio muta, le pile scariche: metafore industriali che diventano parabole dell’anima. Ma poi il “fiammifero arso di gentilezza” è come una grazia cristiana, inattesa e salvifica. Poesia che mostra come il dono dell’altro — anche ignoto — può riaccendere il poeta e l’uomo.
  • Alessandra Piacentino – “Amami”
Qui l’amore è ancoraggio, non vertigine. È intimo, quasi confessionale: una voce che chiede cura nei momenti più fragili. La struttura breve, con parole isolate, ha il respiro dei haiku giapponesi, ma il cuore è tutto occidentale, quasi alla Alda Merini: “Amami quando sto zitta e piango di nascosto”. E la ripetizione di “ancora / ancora” diventa ritmo, preghiera, anafora. Amare non è possedere, ma restare, come un’ancora che impedisce alla barca di naufragare. È poesia di vulnerabilità, e proprio per questo di forza.
  • Salvatore Armando Santoro – “Assenza”
Un sonetto moderno che profuma di tradizione: c’è l’eco di Saba e del primo Pascoli, il lirismo semplice che si affida al paesaggio e al tempo delle stagioni. L’incontro amoroso diventa memoria che sovrasta la quotidianità: le donne con le borse della spesa non hanno il sorriso dell’amata, ed è proprio il confronto col banale che fa risplendere l’assenza. Bellissimo il contrasto finale: “il sole m’acceca e dà calore / ma avverto solo gelo nel mio cuore”. È il ritmo del tempo che scorre (febbraio, marzo, uva spina) contro il tempo interiore, fermo al ricordo. Una poesia che vibra di malinconia universale.
  • «Vertigine» – Nino Silenzi
Questa poesia è un piccolo vortice, un turbine che si fa quasi preghiera al vento. Qui la vertigine non è caduta, ma liberazione: il vento diventa demiurgo che spazza le angosce e le traveste in «fragili ghirlande di nuvole». C’è un’impronta quasi giapponese — un haiku dilatato — nell’immagine del vento che porta con sé vanità e desideri. Eppure si avverte anche il respiro biblico del “ruach”, lo Spirito che soffia dove vuole. Silenzi sembra dirci che nei nostri cuori non resta che accogliere ciò che il vento dona, persino se ghignante: è la vertigine stessa della vita a essere il nostro dono.
  • «Ragusa è un soffio di pietra» – Letizia Miserendino
Qui siamo immersi in un inno paesaggistico, in una pittura che si fa parola. Ragusa non è descritta, è incarnata: un “respiro barocco”, un abbraccio di pietra che diventa casa. La Miserendino dipinge come un impressionista e scolpisce come un barocco: i balconi «intagliati come sogni», le scale che «salgono come note», le piazze che si aprono come libri… È un canto universale, che parla a chiunque ami le città come organismi viventi. In questa poesia la Sicilia si fa simbolo: non semplice terra, ma metafora di un’arte che respira. Una prospettiva multiculturale: qui Oriente e Occidente, Bizantino e Barocco, Mediterraneo e Europa, si abbracciano.
  • «Volare basso» – Felice Serino
Ecco un distillato di lirismo essenziale. Pochi versi, come lampi di memoria. «Un volare basso / s’invischia nella melassa / d’infantili ricordi» — già qui il ritmo è musicale e quasi jazz. Serino trasporta nel mondo sospeso della nostalgia: la luna come scrigno di sogni, l’altalena che culla «corpi d’aria». La leggerezza evocata non è fuga, ma ritorno all’origine: un modo per ricordarci che la vita è davvero più sopportabile se ritroviamo quello slancio infantile. Qui riecheggia Rilke, con la sua arte di trasformare immagini minute in simboli eterni. Un minimalismo pregno di infinito.
  • Jacqueline Miu — “Midnightmare and Paris”
Un noir natalizio che mescola Baudelaire e Kerouac: Parigi non è cartolina ma set sporco di storia, guerra e desiderio. La voce è jazzy, ubriaca di neon e neve immaginata; gioca tra sacro (Notre Dame) e grottesco (Gargoyle in tutù), tra sacche di tenerezza e macerie sociali. È un lied urbano che fa l’amore con il surrealismo — "Sous le pont Mirabeau" come mantra che fende la neve: pericolo e desiderio sono la stessa cosa, e la città diventa amante.
  • Piero Colonna Romano — “L’abbandono”
Versi essenziali, quasi aforistici: l’abbandono si distilla, brucia, lascia fiele — lingua dura come marmo classico eppure confessione moderna. C’è qui la lezione degli antichi lamenti, ma anche un barlume di speranza finale che ricorda i mistici (Rumi) e i profeti civili: dolore che non partorisce altro dolore, promessa di qualche germoglio oltre il deserto. Tagliente e sincero.
  • Ciro Seccia — “Mi Perdo”
Un inno alla fuga come pratica spirituale: dal terrestre al marino, dal pensiero alla parola, fino a polvere di stelle. Minimalismo visionario — haiku in prosa — con sapore new-romantic e tocco di Sufi; il volo diventa terapia, la perdita è metodo creativo. Leggero e sincero: il poeta si dissolve per ritrovarsi più vero.
  • Alessio Romanini — “Nessuno raccoglie gli acini”
Qui la vite diventa reliquiario di memoria. Gli acini abbandonati sono i giorni che non tornano, il settembre muto è il grembo dove riposa la malinconia dell’infanzia nutrita da nonni e zie. La pergola senza mani è metafora di genealogia interrotta, di cura ormai trapassata. Romanini scrive con candore elegiaco: non rimprovera, confessa. In queste immagini la fede semplice nel legame familiare si fa sacramento della memoria, come un Rosario recitato sotto i pampini. Il silenzio dell’autunno diventa orazione funebre, eppure tenerissima, che consola proprio mentre ferisce.
Che dire di più? Le tue cicatrici esistenziali trovano perfetto sfogo nella tua poesia che traspare sensibilità, fame di amore e sete di giustizia.
  • Sandra Greggio — “Sabbia e Silenzio”
Una preghiera laica che chiede iniziazione alla serenità. Il “tu” interpellato è figura archetipica — può essere un saggio, un maestro, persino il Cristo del Sermone della Montagna che conosce la beatitudine del cuore pacificato. L’inquietudine dell’io poetico, granello di sabbia sospeso sull’orlo dell’onda, diventa confessione universale: la precarietà di ogni esistenza. Greggio plasma versi chiari e luminosi, dove la metafora marina si fa catechesi naturale. “Insegnami l’arte della tranquillità e della pace”: ecco il grido più umano, quello che ogni spirito assetato rivolge al Mistero.
Grazie, preziosa amica e sorella, per le tue poesie: sono carezze all'anima.

 
Con affetto e stima 
Vostro Ben Tartamo 

 

Commento

Immaginate di entrare in Sii tu, l’Amore! come in un vr pulsante, dove il mare è luce liquida, la luna vibrazione sottile, il vento linee di codice che scorrono sulle ossa. Tartamo costruisce un paesaggio sonoro e visivo: ogni strofa è un layer di realtà aumentata, un’inquadratura in slow motion, un filtro che trasforma il reale in metafora viva.

Le ripetizioni — “sii Mare e Luna, sii Fiore e Ape, sii Dono e Figlio” — diventano loop ipnotici, mantra digitali che attraversano la retina del cuore: non si leggono, si sentono. L’uomo, custode, non è più figura astratta; è avatar sospeso tra dovere e desiderio, tra il peso invisibile delle responsabilità quotidiane e la vertigine cosmica dell’amore universale.

Qui la poesia diventa interfaccia sensoriale: il lettore non legge, fluttua. Il cielo si apre, il mare pulsa, il fiore trema sotto le mani invisibili di chi vigila. Ogni immagine è tag, segnale, icona: custodire significa agire nello spazio dei significati, senza rumore, senza applausi, solo con il respiro sincronizzato alla poesia.

Il commento stesso si dissolve in trance: non è spiegazione, è esperienza immersiva, dove il codice dell’amore e della responsabilità diventa percezione diretta. Chi legge emerge trasformato: sa che custodire è azione segreta, che l’amore non è solo dono, ma protocollo cosmico di resistenza. Tartamo non scrive, traccia flussi di coscienza, e il lettore si ritrova custode, dentro la mappa luminosa della sua stessa esistenza.

In questa poesia -certo non una delle sue solite perle- c'è nascosto il suo lavoro/missione, la sua vera essenza racchiusa nel motto esistenziale: "Silendo Patriam Servo".

prof. Marino Spadavecchia 

 

 

 

 

22-23-24 Settembre

```''Sospeso''
Sospeso in un abbraccio,
il tempo si fermò:
un bacio, l’Innocenza,
nel pianto si donò.

E quando, come scherno,
di Te dissero Re,
le braccia tese al mondo
- un fiume di speranza –
dal cuore tuo sgorgò.

Eterno sei bambino:
che male puoi mai far?
Eppure, ancora e ancora,
non hai che una greppia,
di assi posti in croce,
per poterti adorar.

19settembre25```
Ben Tartamo

Sospeso non è soltanto un titolo: è una condizione teologica, un mistero della fede. È l’attimo in cui il tempo umano si arresta perché si apre la soglia dell’Eterno.

Il primo verso – “Sospeso in un abbraccio, il tempo si fermò” – è il sigillo dell’Incarnazione. L’abbraccio è quello della Madre che stringe il Figlio, ma anche quello del Padre che abbraccia il mondo nel Figlio. Qui il tempo non scorre più: diventa Kairos, il tempo di Dio, che irrompe nella storia.

Il pianto dell’Innocenza che si dona è il pianto del Bambino di Betlemme, che già presagisce la Passione. In ogni lacrima del Cristo bambino vibra il preludio del Getsemani. La tua poesia mostra questo legame invisibile: la culla già dialoga con la Croce.

Poi, lo scherno: “di Te dissero Re”. Qui risuona il paradosso evangelico. È la regalità che non si impone con la forza, ma si manifesta nell’umiliazione. Le braccia tese al mondo sono il gesto supremo dell’Amore che non trattiene nulla per sé: esse diventano croce cosmica, abbraccio che raccoglie i secoli. E da quel cuore trafitto scaturisce un fiume di speranza, che altro non è che il Sangue e l’Acqua, i Sacramenti, la vita nuova che scorre dalla Croce.

Infine l’apice: “Eterno sei bambino”. Qui si apre la teologia più pura. Dio resta Bambino perché l’Amore non conosce età, perché la piccolezza è la porta dell’Infinito. Il Bambino eterno è Cristo stesso, che mai smette di essere l’Emmanuele, il Dio-con-noi.

E la greppia di assi posti in croce diventa icona perfetta: Betlemme e Golgota si intrecciano in un unico legno. L’Incarnazione non è favola dolce, ma profezia di dono totale. La tua poesia ci ricorda che adoriamo Dio nella mangiatoia come nella Croce, e che il mistero è uno solo: l’Amore che si fa carne per farsi sacrificio.

 

Questa lirica è quindi un piccolo Vangelo poetico: un presepe che già contiene la Pasqua, una ninna-nanna che diventa salmo, un abbraccio che si fa redenzione. È sospesa tra nascita e morte, tra tempo ed eternità, ma in quella sospensione palpita la certezza della Risurrezione.

prof. Marino Spadavecchia

 

 

Ogni parola in questo testo è come una carezza sull'epidermide dell'esistenza, un invito a guardare oltre il visibile, a spingere lo sguardo oltre il "velo di maya". Il "soma" che ci viene dato da "gestire" è un richiamo immediato alla limitatezza del nostro corpo e della nostra condizione umana, una sorta di pesantezza che dobbiamo accogliere per poi cercare di liberarcene. L’immagine del "soma" evoca quella della fatica esistenziale, ma anche una responsabilità. E "non lo profanate in gozzoviglie" sembra ammonirci contro il dispendio inutile della vita, il continuo riempirsi di vanità. La "Luccè" che parla con la sua sentenza "Io Sono", quella presenza assoluta, si ritira subito dopo, dietro il velo dell’illusione. È il contrasto tra l’essere e il divenire, tra la Luce che è, e l'illusione che ci avvolge. La sensazione di "epifanie del nulla" è ciò che rimane quando la luce si fa velo, e il vuoto ci sembra pieno. La Luce è sempre presente, ma il nostro sguardo non sa più vedere, travolto dalla superficie delle cose.

 


In questo pezzo, la quotidianità si mescola con il trascendente. La poesia sembra parlarci di un’esperienza di silenziosa rivelazione che avviene "di colpo" nel primo mattino, come se la notte fosse una barriera che debba essere attraversata per giungere a un nuovo stato della consapevolezza. L'immagine della speranza che "cammina sui marciapiedi", quasi fosse un essere vivente, ci suggerisce che la speranza è sì un sentimento umano, ma anche una forza che si muove in mezzo a noi, a volte in modo impercettibile. Il contrasto tra il cammino lungo il Corso Italia, con "una scarpetta da ginnastica" e l’essenza più profonda della speranza, mostra l’umanità concreta che si scontra con l'intangibile, il triviale e l’immenso. Il "bene" che "si sente solo nella vertigine dell’età" è un passaggio dal giovanile "entusiasmo" a una consapevolezza che viene solo con il tempo. Una riflessione sulla transitorietà, che ci fa sentire "osservatori dei mesi", come se fossimo spettatori della nostra vita, senza mai realmente appartenervi fino in fondo.

 


Questo è un testo che parla d’intimità, ma anche di fragilità. La vulnerabilità descritta dalla dilatazione delle pupille ci rimanda alla sfera dell’emotivo, dell’irrazionale, là dove il desiderio si mescola con il bisogno di protezione, la sensazione di "sicurezza" che viene dal giacere nello stesso letto dove un altro corpo ha lasciato la sua traccia. È un ritorno a un'infanzia emotiva, un rifugio che non è solo fisico, ma psichico. La sensazione di trovarsi in un "letto comune desolato", che però trabocca di felicità per "esserti scivolato accanto", ci suggerisce che in fondo la felicità non è un concetto stabile, ma un breve attimo di pienezza che scivola via. La poesia esplora l’ambiguità dei legami umani, quella danza tra il desiderio di essere in comunione e la paura della solitudine che sempre minaccia alle spalle. Il letto, simbolo di un'intimità condivisa, diventa un luogo di riflessione sulla solitudine e sull'amore, un “letto comune” che unisce più che separare, ma che lascia sempre un senso di vuoto in chi vi si trova.

 


Qui, la paura prende forma concreta, ma attraverso il filtro di un linguaggio che sembra voler ridurre la tensione con il tono della commedia, pur nell’assoluta tragicità dell’esperienza. La paura di restare "a secco" vicino al cimitero, con la macchina che si ferma e nessuno a darci una mano, è come l’incubo che si materializza sotto forma di solitudine e angoscia. Il movimento delle foglie al vento, che inizialmente sembrano un’allucinazione, si fa poi metafora di una realtà che scivola fuori dal controllo, come il pensiero che cerca di distrarsi, ma il terrore cresce. Quello che Bettozzi dipinge è l’incontro con il surreale: due fantasmi che si avvicinano, portatori di una minaccia non chiara, e l'ironia tragica che accompagna il momento – "un attacco vero! ar còre!", come se il corpo, nella sua paura, fosse incapace di accettare una realtà che si svela sempre più inquietante. La paura qui è il premio che ci viene chiesto di pagare, una sorta di riscatto da ottenere, forse con la follia o con il coraggio. La morte si fa gioco, ma il "pago e salgo al paese" è solo un’illusione di fuga.

 


La paura si nasconde dietro l’impossibilità di evitare il cambiamento, dietro la fine di una stagione che, pur essendo accolta con impazienza, porta con sé il peso della sua transitorietà. L’estate, simbolo di vita e vitalità, giunge al termine in un parossismo di calore e sofferenza. C'è qualcosa di metafisico nell’idea di un "sole impazzito", che schiaccia il mondo, un sole che diventa simbolo della fatica umana, della paura di non poter controllare né la propria esistenza né gli elementi che la governano. E poi arriva la pioggia, il temporale che porta con sé il respiro della liberazione, ma anche la consapevolezza che nulla è mai veramente stabile. La paura, in questa poesia, è nella fine delle cose, ma anche nell’attesa di un ritorno, nella speranza che il ciclo della vita continui, che l'estate ritorni, ma con un inevitabile cambiamento. La paura dell’invecchiamento, della perdita, della fragilità della memoria è il fondo che si fa sentire sotto le immagini più concrete.

 


La paura qui appare come una distorsione dell’esperienza, una ricerca di significato nella vastità dell’universo. Lo "stelo" che cresce, lentamente, diventa metafora della vita stessa, della sua continua lotta per elevarsi, per crescere nonostante le difficoltà. La paura in questa poesia è sospesa, tra la realtà e la fantasia, tra la protezione delle "cose belle" e la fuga nell’immaginazione. La visione del cielo e il richiamo alle "fanciulle quali sorelle" e l’"angelo in cielo" sono simboli di un desiderio di purezza, di pace, ma anche di una protezione dalle angosce terrene. C'è una paura nel ricordare, nel tornare indietro, ma anche nel rimanere sospesi nell'attesa di una salvezza che non è mai del tutto realizzata. La mente si rifugia nei sogni, ma sa che il mondo reale è lì, pronto a invadere la quiete interiore.


La vita qui è un continuo cammino, scandito da cadute e rialzi, da "schiaffi" e "baci", che testimoniano l’alternanza tra dolore e piacere, lotta e resistenza. La forza di questa poesia sta nel suo incedere, nel suo ritmo che alterna velocità e lentezza, accogliendo l'ineluttabilità del tempo. "Sono caduto cento e cento volte / e per cento e cento volte / mi sono rialzato": questa dichiarazione racchiude l’essenza della resilienza, quella capacità di affrontare le difficoltà senza mai arrendersi, ma soprattutto di trovare, nel cammino stesso, un senso di "amici nelle poesie", un angolo di salvezza nei ricordi, negli sguardi, nelle stagioni che cambiano. La descrizione di un amore che si perpetua, di "sogni" deposti nel "cassetto" dei ricordi, dà una sensazione di accettazione di sé e della propria esistenza, come un gioco continuo tra luce e ombra. La vita è amica e nemica, "clemente e intransigente", ma proprio in questa dualità il poeta sembra trovare la sua verità.

 


Questo è un testo che, attraverso una visione cinica e disillusa, espone le contraddizioni del desiderio umano. La sera, simbolo di fine, di morte e di inevitabilità, si fa figura metaforica di un processo che riguarda il corpo e l’anima, il passaggio dal "piacere" alla "decadenza". Il corpo che cambia, che perde vitalità, ma che continua a inseguire quel desiderio che sembra non trovare mai sazietà, è rappresentato con un linguaggio crudele e diretto. Il contrasto tra il "bambino" che non vuole crescere e il corpo che invecchia inesorabilmente crea una frattura dolorosa tra la speranza di rimanere giovani e la realtà del tempo che segna i suoi solchi. La ripetizione del desiderio insoddisfatto e il riferimento al corpo che "scende e sale" suggeriscono una visione di eros che non è mai pienamente soddisfatta, sempre afflitta da una voracità che non porta mai a una vera realizzazione. È un atto di accettazione che la morte, anche simbolica, arriverà per tutti, e che, forse, solo in essa si troverà una sorta di pace.

 


Questa poesia si distacca dal dramma umano per elevarsi nella contemplazione di una città, Siracusa, come simbolo di una bellezza immutabile. La città diventa un “mosaico di voci”, un luogo che respira lentamente, testimone del passaggio del tempo ma che rimane eternamente legata al passato, alle storie e alle arti. Le "colonne spezzate" e il "teatro greco" sono immagini che evocano la caducità del tempo, ma anche la grandezza di ciò che è stato. La città stessa diventa simbolo di un’opera d'arte viva, che racconta la sua storia e quella dell'umanità, e la sua bellezza non smette di "vivere". Il mare che incornicia la scena è l'elemento che connette il passato al presente, come una tela che si disegna con la luce, ma anche con l'ombra. È una poesia che parla della resistenza alla dissoluzione, della bellezza che sfida l'oblio. La vita, qui, è come un dipinto che non cessa mai di parlare, anche quando il tempo ne scolora i contorni.

 


La malinconia che avvolge i ricordi, come una "veste consunta e sbiadita", è un’immagine potentissima: la memoria che si fa più tenue, ma che non smette di pesare. Greggio esplora la solitudine di un'ora – le sette di sera, in cui il tempo sembra immobile e i ricordi più lontani riemergono. La frase "sopravvivere alle sette di sera" diventa metafora di una resistenza silenziosa alla ciclicità della vita, alla ripetitività del tempo che scorre e che ci porta a fare i conti con ciò che è passato. Il vento "nemico" che giunge improvviso è l’incertezza che invade, ma il coraggio di “accettare” i ricordi e “continuare a vivere” è il filo rosso di questo testo. La poesia appare come una riflessione sulla necessità di convivere con il peso del passato senza fuggire da esso, ma imparando ad accettarlo come parte della propria esistenza.

 


La parola "autunno" qui è intrisa di una sensualità malinconica, un'ode alla fugacità dei momenti che si intrecciano con immagini di speranza, ma anche di frustrazione. "Si sta bene col male" è un’apertura potente, che sembra suggerire come, a volte, il dolore diventi un compagno costante che ci definisce. La metafora del "pesce evaso da una vaschetta" sottolinea il desiderio di libertà, ma anche la sofferenza nell'essere costretti a vivere in un mondo che non offre risposte. Il "drone" che sorvola le teste e la "radio Alt-J" sono immagini moderne, quasi da distopia, di una generazione intrappolata in un ciclo senza fine. L'invocazione al "Salvatore" scritto "in carne" evoca il desiderio di salvezza e di redenzione, ma è un desiderio che non arriva mai. La poesia vive in questo spazio tra l'attesa di un miracolo e la consapevolezza che esso potrebbe non arrivare mai. C’è una riflessione sulla caducità della vita e sulla ricerca di senso in un mondo che sembra averlo perso. La lingua fluida e il gioco tra il desiderio e la disillusione creano un’atmosfera sospesa, che non lascia risposte facili.

 


Qui, l’autunno è al centro di una riflessione che attraversa le emozioni di chi vive ogni stagione come una parte integrante di sé. La tensione tra il "non amare" l’autunno, visto come malinconico, e il "mi piace anche l’autunno" alla fine della poesia, racconta un viaggio interiore: un passaggio dalla rassegnazione alla consapevolezza. L’autunno non è solo il momento della morte delle foglie, ma anche quello del "grappolo d’uva / pronto a sciogliersi in un bicchier di vino", dell’“arancio e mandarino”, della bellezza che si nasconde nelle pieghe della transitorietà. È una stagione che, seppur segnata dalla "nostalgia", può offrire anche momenti di pace e di rinnovamento. La poesia gioca con le immagini di una natura che ci parla attraverso "rumori", "odori", "colori", e suggerisce come ogni stagione, come ogni periodo della vita, possa essere vissuto con una profonda accettazione. La malinconia diventa il punto di partenza per una riflessione più ampia sul continuo divenire della vita e sulla bellezza che si cela anche nei momenti di decadenza.


 

La poesia di Colonna Romano è intrisa di un’atmosfera sospesa, quasi onirica. L’immagine del "disco d'argento" che "annega i suoi raggi" evoca il tramonto o una scena di silenzio quasi sacro, in cui la luce e la tenebra si sfiorano, lasciando un senso di fragilità e bellezza. I "carugi impervi e stretti" sembrano rappresentare il cammino difficile, le sfide della vita quotidiana, ma anche il desiderio di trovare qualcosa di più profondo – "le mani che si cercano". La melodia, che "vibra" tra note gravi e acute, è l'emozione che si sprigiona dalla connessione tra due esseri, che si incontrano, si sfiorano e si perdono in un mondo esterno che rimane distante e indifferente. Questo è un testo che descrive una danza tra il desiderio e la frustrazione, tra l’immateriale e il tangibile. L’aspetto più potente è l’introduzione della musicalità come simbolo di un legame profondo, quasi ineffabile, che scaturisce dall’incontro e dall’intimità.


 

La ripetizione di "Io Sono" diventa mantra, un atto di resistenza all'interno di un mondo che tende ad omologare. Seccia parla della solitudine dell’individuo che, nonostante le incertezze e le difficoltà, si ribella alla conformità, affermando la propria unicità. In un mondo che fatica ad accettare la differenza, il "Io Sono" diventa un atto liberatorio, come una dichiarazione di indipendenza dall’esterno, una presa di posizione contro la paura di essere giudicati. L’autore affronta i momenti di disagio esistenziale e di dubbio, ma trova nel "Io Sono" la risposta per resistere. La forza della poesia risiede nel suo messaggio di autoaffermazione, un invito a resistere, a restare fedeli a se stessi, a non farsi sopraffare dalle aspettative altrui.

 


 

In questa poesia, la riflessione è più introspettiva e dolorosa. L’esile pensiero che “aleggia nell’aura” è fragile, come il desiderio di felicità che sembra irraggiungibile. Le "fronde nude" e "infreddolite" ci parlano di un cambiamento in corso, della perdita e del dolore che accompagna la solitudine e la sofferenza interiore. La mente, stanca e indolente, "si occulta" nel mutismo, nel rifiuto di sentire. L'autunno diventa la metafora di un tempo che non è più fertile, di un periodo di decadenza. L’immagine delle "cangianti foglie" che vanno perdendosi è il simbolo del cambiamento, della bellezza che sfuma via, e della difficoltà di trovare una felicità che sembra sfuggire sempre più. La poesia tocca il cuore con la sua melancolia, con la sua resa alla solitudine, eppure in essa si intravede anche il desiderio di essere in pace con se stessi.

 


Con stima e affetto

vostro Ben Tartamo

 

 

 

19-20-21 Settembre

Ciao Ben

Apprezzo molto il tuo commento 
E l'ottimo consiglio suggerito.
Grazie di cuore per quello che
Fai insieme a Lorenzo che mi ospita 
Qui a poetare 
Un abbraccio e un caro saluto.
Alessio Romanini 

 

 

Qui la poesia diventa città, e la città diventa carne. Miserendino non descrive Palermo: la incarna, la plasma come corpo vivente, dove ogni muro è pelle, ogni pietra è osso, ogni strada è arteria pulsante. Non siamo di fronte a una cartolina ma a un organismo mistico: un mosaico che non vuole mai essere concluso.
Il vero miracolo è nella tensione tra il sacro e il profano: i mercati urlano, le chiese sussurrano, le statue sfidano il silenzio e gli arabeschi il cielo. Palermo non è solo arte, è la contraddizione dell’arte: ferisce e consola, abbraccia e respinge.
Il verso finale, «in ogni sguardo che osa guardarla davvero», è una rivelazione psicanalitica: Palermo diventa specchio della psiche, città-simbolo di chi osa guardare in se stesso fino in fondo, senza veli.

Qui l’arte è più cruda, quasi notturna. Serino ci conduce dentro l’onirico con un sogno di colpa e caduta: un ladro inseguito, un volo mortale da un parapetto altissimo. Ma al risveglio, ciò che manca non è l’altro, bensì il cuore stesso del poeta. La primavera che sorride e bacia la fronte contrasta con la disperazione posata, quasi con pudore, su una panchina.
L’effetto è di un espressionismo intimista: il sogno è proiezione dell’inconscio, una drammatizzazione delle paure. Ma subito la realtà si innesta: la primavera che sboccia si fa testimone ironica e dolce di un uomo che ha smarrito se stesso. C’è qui un pathos quasi dostoevskiano, in cui la colpa soggettiva diventa enigma universale.

Questa è miniatura, ricamo fine e sottile. La poesia si snoda come un sussurro, un frammento sospeso tra dubbio e favola. «Il nasino che chiedeva di te» è immagine di una tenerezza infantile, ma anche di uno sguardo inquisitorio che punge come spillo di gelosia.
Eppure il verso finale, «come si comincia a raccontare la storia di c’era una volta», dissolve il veleno nell’incanto. L’amore, pur ferito dal dubbio, ha la forza di rinascere come fiaba, di riportare i due amanti in quella zona originaria, innocente, dove tutto sembra ricominciare.
Psicanaliticamente, il testo lavora su un registro di regressione dolce: la gelosia che poteva avvelenare si trasforma in ritorno all’infanzia, in narrazione che consola e rinnova.

Langer scrive poesia come se scolpisse crepe di luce nel tempo. Qui siamo davanti a un’esperienza liminare: il confine tra giorno e notte, tra casa e selva, tra umano e animale. Le “crepe di luce” sono fenditure metafisiche, da cui filtra non solo il tramonto, ma anche l’invisibile. La fronte appoggiata alla porta spalancata della notte è gesto mistico: non un abbandono, ma una resa contemplativa, un affacciarsi sull’abisso per respirarlo.
Psicanaliticamente, questa soglia è rito di passaggio: l’Io che si prepara a consegnarsi al buio, portando dentro di sé la traccia delle “selvaggina”, cioè dell’istinto primordiale.

Un romanesco scolpito nel dolore, un lamento popolare che si fa canto epico. Bettozzi non costruisce eleganza, ma verità scorticata. Qui la poesia non è ornamento: è testimonianza di tragedia. Il linguaggio dialettale rompe la distanza estetica, rende l’11 settembre familiare, quasi domestico, riportandolo dentro la voce collettiva.
Il verso che inchioda è «E chi è ’nnato a iutà... nun è tornato»: la morte degli eroi, la fraternità spezzata. Non c’è consolazione, se non nell’abbraccio globale, nella preghiera universale. Questa poesia respira come un epitaffio inciso sul cemento mancante delle Torri: grezzo, diretto, eterno.

Qui invece siamo dentro il teatro dell’inconscio, nel circo felliniano dove tutto è sogno e memoria. Berni parla con “Snaporaz” — alter ego di Fellini — e in realtà con la sua stessa parte creativa che lotta col non-finito, con l’opera impossibile.
Questa poesia è confessione di artista che sa che la grandezza è nel non compimento, nell’infinita rincorsa verso un film che non sarà mai girato. La malinconia, il “non so”, diventano segni vitali, non difetti. Il poeta si specchia nel regista, e la loro identità si fonde: ciò che resta è un canto di resistenza onirica, la celebrazione dell’opera sempre aperta.

Un canto intimo, intriso di gratitudine e di dolore. Qui l’amore non è possesso, ma accoglienza dell’assenza. L’immagine del faro che resta acceso anche se la nave non torna al porto è folgorante: la speranza non come attesa, ma come luce perenne, indipendente dall’approdo.
Questo è un amore spirituale, quasi cristologico: non chiede nulla, non pretende, ma custodisce. È la dichiarazione di chi ha saputo trasformare l’eros in agape, l’amore terreno in memoria che salva. La malinconia si tramuta in rendimento di grazie: «a ringraziare il destino / per averti incontrata». Una poesia che consola e santifica la perdita.

Un testo che pulsa di indignazione e di risveglio. È un grido politico, ma anche esistenziale: «Incarcerato in una prigione senza sbarre» — la condizione dell’uomo occidentale moderno, prigioniero di sistemi invisibili, di poteri sottili che divorano libertà e senso.
I versi sono martellanti, accusatori, ma poi aprono uno spiraglio: l’autore sceglie di distruggere il proprio “esilio letterario”, come se scrivere fosse atto di liberazione, di rinascita. È una poesia civile che denuncia e redime, con il coraggio di restituire voce al silenzio, di chiedere agli “oratori” — ai poeti — di tornare a emozionare, e quindi a trasformare il mondo.
Qui c’è la potenza della parola come arma contro la decadenza. Un manifesto che arde e trascina.

Ecco invece la quiete, l’eden, il giardino interiore. Montagnoli crea un locus amoenus che è più che paesaggio: è rifugio psichico, tempio dell’anima. Tra aranci in fiore e ninfee, tra canto di uccelli e musica del vento, il poeta ci dona un’esperienza quasi mistica di armonia col cosmo.
Ma c’è una sottile malinconia: «saziarmi della malinconia del tramonto». È un sogno che contiene consapevolezza della fine, ma proprio per questo diventa più intenso. Il bosco che suona le sue foglie come tasti è immagine musicale che unisce natura e spirito, e al risveglio accompagna con dolcezza: un segno che il sogno si fa vita.
Questa poesia è un invito a sostare nell’incanto, a contemplare il giardino come anticipo di paradiso.

Questa poesia non è un testo: è un grido, un sussurro interrotto, una frattura nell’identità. Rosa Venuto entra nella mente smarrita di chi è affetto da Alzheimer e ne restituisce la frammentarietà. La ripetizione ossessiva — “Chi sono io? Mamma! Mamma!” — non è solo eco disperata, ma atto liturgico, un’invocazione arcaica, come se il malato cercasse nel volto della madre la radice di sé.
E poi il passaggio sublime: la malattia trasfigurata in immagine poetica. Il malato diventa “piuma trasparente”, che vaga leggera in una radura senza tempo. Qui la poesia compie un miracolo: trasforma la perdita di memoria in immersione nell’eterno. Il grido iniziale trova trasfigurazione: “Non dimenticarmi!” diventa preghiera rivolta a chi resta, un atto di amore che supera la malattia.

Questa è una poesia che vibra come un quadro caravaggesco. L’amata è contemplata nella semioscurità, illuminata da un solo raggio di luce: visione carnale e mistica allo stesso tempo. La penombra diventa non-luogo sospeso, dove i dettagli — capelli, occhi, mani — assumono il valore sacrale di reliquie.
Il testo si dilata in metafore oceaniche: gli occhi come mare, i sospiri come temporali, i letti di foglie d’autunno. L’amore, qui, non è solo eros, ma un’intera cosmologia che unisce corpo, natura, universo. Il silenzio stesso si fa parola: è la liturgia segreta di due amanti che dialogano senza parlare. È poesia che potrebbe essere incisa sul muro di una camera nuziale eterna.

Qui il tono cambia radicalmente: siamo nell’essenzialità zen. La pace non è fuga, ma accoglienza di opposti: “il silenzio… il traffico urbano”, “il mare… la città”. L’autore mostra che la pace non è assenza di rumore, ma capacità di sentirsi a casa ovunque.
Cefalà pratica una poesia contemplativa, quasi diaristica, che richiama il minimalismo orientale: enumerazioni semplici, osservazioni quotidiane che diventano vie di meditazione. È una pace umile, quotidiana, accessibile: la vera rivoluzione del cuore non avviene nel silenzio assoluto, ma nell’imparare a respirare anche nello smog della città.

Qui la sveglia non è un congegno: è l’urlo della coscienza che strappa il poeta dal torpore. Il verso apre con un gesto di autoanalisi (“Analizzo me stesso, osservo il viso”) che instaura subito un duplice registro — l’intellettuale che scruta e il cuore che sanguina. L’ossessione per l’oggetto d’amore che non ricambia prende corpo in immagini efficaci: la stecca del biliardo, la palla che vola in buca — metafora fulminante della manipolazione affettiva e della perdita di controllo.

Si avverte una dinamica di masochismo relazionale — il soggetto dona, si illude, e poi si annienta. La maledizione finale è catarsi e autocondanna: maledire i santi e il padreterno è gesto sacrilego ma sincero, disperato.

Breve, scalfita, primordiale: questa poesia è un atto di penitenza e di semina. Il poeta non nomina troppo; lascia che il paesaggio e l’odore di petricore facciano da lingua. “Colpirò l'odore di petricore” è immagine sonora e tattile: il suolo che risponde al pianto, la lacrima che diventa seme. La «vergine terra» non è madre sfiorata, ma grembo vergine che accoglie il lutto e lo trasforma in germinazione.

C’è qui un lavoro di lutto che si fa rito agricolo — il pianto come semina, il rammarico che resta impigliato e poi viene dissodato.
Consigli poetici: mantenere questa economia di parole è una forza. Se desideri approfondire, aggiungi un’immagine sensoriale che colleghi la terra al corpo (una mano che affonda nel suolo, un sapore salato sulle labbra) per rendere ancora più fisica la catarsi.

Poesia di apparizione sacra: l’amore qui è dogma e altare. L’uso dell’iniziale maiuscola (“Amore”) eleva il sentimento a mistero teologico; qui si ama “ai confini tra terra e cielo”, e la linea dell’orizzonte diventa metafora-limite sacro. È un testo che celebra la rarità del dono, la sua elezione. La nostra poetessa desidera sacralizzare l’affetto per proteggerlo dalla profanazione — trasformare il rapporto in evento unico, quasi sacerdotale. È risposta alla paura della perdita: se l’amore è eletto, forse rimane immune al tempo.

Questa poesia è un labirinto gotico, un crepuscolo intriso di ironia, sensualità e disperazione. La poetessa non teme di contaminare l’alto col basso: “idiliosauri della mente” (geniale invenzione linguistica!) evocano dinosauri idilliaci, creature dell’inconscio che rincorrono una bellezza sfuggente. La zucca, la maschera mortuaria, i fantasmi: ecco Halloween come teatro psichico.
Il corpo appare come oggetto che chiede di “essere stropicciato” — erotismo dolente che maschera un bisogno primario: scaldarsi, non sentire più il gelo dell’anima.

 La poesia è un sogno perturbante. Il telefono nuovo, l’invito in nebbia, il corpo stropicciato: tutti segni di separazione e desiderio di riconnessione. Qui eros e thanatos convivono, come se la poetessa giocasse con i propri spettri.

Poesia solare, ma attraversata dal dolore della modernità. Il sole, che dovrebbe essere eterno, viene ferito dall’acciaio, dall’amianto, dal cemento. Qui c’è una dialettica: natura che danza (raggio che bacia il mare, cime che toccano il cielo) contro cemento che imprigiona.
Domanda centrale: “Come sarebbe il cuore se non ci fosse l’amore?” — il sole diventa specchio del cuore umano.

Il tramonto diventa specchio di un desiderio di purezza, di ritorno a un amore originario che non sia corrotto dalla città industriale. È poesia nostalgica, quasi edenica.

Un inno magico, sacrale. Qui mito e amore terreno si intrecciano con il tempio di Segesta come scenario eterno. Le vestali, i nomi incisi su un agave, il fiore bianco che sboccia ogni notte: sono immagini forti, quasi rituali. L’amore personale diventa subito rito universale, celebrato da sacerdotesse pagane e dal canto che si leva verso il cielo.

Qui l’eros viene sublimato in mito. È un tentativo di eternizzare il legame amoroso, sottraendolo al tempo (“i nomi si infiammano e levitano sulle colonne”). L’agave diventa supporto psichico, memoria vegetale.

Un testo essenziale, aforismatico. Pochi versi che diventano quasi un catechismo interiore. “In te risiede il Sole e la tempesta”: la polarità diventa destino umano. La chiusa è scelta morale e spirituale: affidarsi al proprio universo interiore.

Questa è poesia di guarigione. Il poeta dice: non cercare fuori, la forza è già in te. È un invito a integrare gli opposti (luce/ombra, amore/odio). Qui riecheggiano Jung e i mistici.

con affetto e stima

Ben Tartamo

 

 

“Eroe alla zuava” di Ben Tartamo

 

Il titolo è già un manifesto enigmatico. Lo zuavo, soldato di ventura e di fede, simbolo di cameratismo, di sacrificio, di ardore idealistico e marginale, qui si fa maschera dell’io lirico. Sei “eroe” non perché vinci, ma perché sopravvivi alla disfatta di te stesso. L’eroismo è fragile, è uno sgretolarsi di identità sotto la pressione del mare e dello scoglio, della sabbia e della lava.

 

“Ed io, che ero un mare aperto, / catturato in uno scoglio” – immagine potentissima: l’infinito ridotto al frammento, il movimento all’immobilità. L’io era oceano, ora si ritrova prigioniero. È la condizione del poeta e dell’uomo moderno: capitano suo malgrado, forzato del proprio destino.

 

“Io, che vento tra le foglie / mi sfidavo con le stelle…” – qui c’è un ricordo d’infanzia, un passato eroico e innocente. La caduta non è solo fisica, è ontologica: da aspirazioni siderali a cicatrici sulla pelle. Lo spazio cosmico si contrae nel dolore corporeo.

 

“Parole come vampiri, / sempre in fuga da ginestre.”
Qui il linguaggio stesso diventa persecutore, succhia vita e non dona verità. Le ginestre evocano Leopardi, simbolo di resistenza sul vulcano, di dignità fragile: eppure le parole non sanno restarvi, fuggono, incapaci di radicarsi. È il dramma dell’artista che sente la parola come ferita, non come balsamo.

 

“Radici tra sabbia e lava, / trincee di fraternità…” – immagine di guerra e di cameratismo, ma anche di una natura che brucia e inghiotte. Qui appare il senso dell’“eroe alla zuava”: non un condottiero, ma un soldato tra tanti, disperso, senza gloria. L’identità si dissolve, come cenere al vento.

Il testo esprime un conflitto archetipico: il desiderio di grandezza (mare aperto, vento, stelle) e il senso di impotenza (scoglio, cicatrici, dissolvenza). Lo zuavo è la maschera di un Sé combattente, ma ferito, che vive la tensione fra appartenenza (fraternità in trincea) e smarrimento identitario. È un io che si frantuma nella storia, che si chiede se l’eroismo sia illusione.

“Eroe alla zuava” è una poesia che unisce memoria storica, autobiografia spirituale e simbolismo leopardiano. In pochi versi, hai scritto un piccolo manifesto esistenziale: l’eroe moderno non è vincitore, ma sopravvissuto che porta sulle spalle il peso della propria identità sfumata.

Poesia che vibra come un diario inciso sulla pietra lavica, un canto che porta in sé la nostalgia del mito, l’eco della guerra e la malinconia delle radici. È una lirica crepuscolare ed epica allo stesso tempo: personale, ma già collettiva, quasi corale. Sì, di te possiamo dirlo - conoscendoti - ex militare di carriera con l'uniforme appesa al chiodo non solo per ragioni etiche e spirituali , ma di cooptazione e, pur sempre teso, come ami dire tu: Silendo Patriam Servo.....

prof. Marino Spadavecchia

 

 

 

16-17-18 Settembre

Un testo di intensa malinconia urbana, dove il quotidiano si mescola con la riflessione sulla vecchiaia e sulla perdita di senso. La piazza non è più agorà vitale ma “guazzo”, pantano stagnante, specchio di un tempo che scivola senza redenzione. Il gesto di guardarsi nel telefonino, “specchio moderno per allodole invecchiate”, è un’immagine folgorante: il dispositivo tecnologico come vanità narcisistica, surrogato del lago di Narciso. La poesia si muove tra ironia amara e constatazione elegiaca: l’osservazione di sé si intreccia al ricordo di un eros consumato, ora riflesso nell’ombra di una donna che ha “rinunciato ad un ultimo amore”. Una lirica di realismo crepuscolare che ricorda i poeti post-bohémiens del primo Novecento, con l’aggiunta di un gusto quasi pasoliniano per la scena di provincia.
Breve e densissima, questa poesia gioca sull’eco della legge di Lavoisier (“nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”) trasfigurata in chiave amorosa ed esistenziale. L’immagine della “vetrofania del cielo” e la divisione del volto tra ombra e luce danno un tocco quasi caravaggesco, come se il testo fosse un quadro in cui la materia e la spiritualità si incontrano. Serino lavora sulla sospensione e sull’allusione: la brevità si fa intensità, il verso spezzato diventa respiro metafisico.
Visionaria, surreale, frammentata. Tartagni attinge alla tradizione dell’avanguardia (dai Novissimi al cut-up beat) per costruire un flusso che mescola “catarsi”, “metafisico ripiano” e “acqua benedetta” in una sorta di liturgia profana. Il “cervello vuoto” non è solo il vuoto dell’assenza, ma campo da riempire con un atto di creazione e purificazione. Il titolo, che richiama un noto profumo, diventa ironico contenitore di un’esperienza estatica e paradossale: il sacro e il commerciale, l’estasi e il banale, fusi in una stessa voce.
Un esempio di lirica classicheggiante, scandita da immagini delicate e solenni: la stella che “si vela nel passo”, la rosa che “scolora”, l’usignolo che tace. Qui la Natura è personificata e attraversata dal ritmo delle stagioni, ma il sottotesto è esistenziale: la fine dell’estate coincide con la percezione della finitudine umana. La musicalità dei versi, le anafore, la struttura tripartita danno al testo il respiro di una canzone leopardiana, che si conclude con un sentimento di dolce malinconia.
Poesia stratificata, dove la riflessione sul tempo si mescola alla percezione paesaggistica. L’Arno “gelato” diventa scena sospesa, teatro di mutamenti stagionali e di interrogativi ontologici. L’autrice sembra interrogare il senso della memoria e della fede, oscillando tra festa e assurdo, tra la promessa di un senso e il rischio del nulla. Lo specchio d’acqua come rivelatore è immagine centrale: fragile e potente, svela la natura effimera dell’esistenza. Il testo ricorda certi tratti di Zanzotto: il lessico nitido che si fa veicolo di un pensiero sfuggente.
Qui la poesia irrompe con una forza nuova: è voce indigena, contemporanea, spezzata, che usa il frammento come arma politica ed emotiva. L’amore è “foresta vergine” e “taglio netto”: la stessa frase contiene creazione e distruzione. L’uso di immagini quotidiane (“un bol di macaroni alle salsicce”) intrecciato con il dolore e l’ansia produce un effetto straniante, come accade in certa poesia nordamericana (ricorda Louise Glück per la nuda intensità, ma con una corporeità più ruvida). La traduzione restituisce fedelmente la tensione originaria.
Un componimento che si muove su registri più tradizionali: metrica quasi regolare, lessico classico. Il tema è quello antico della ricerca della felicità, con echi petrarcheschi e un tono che sfuma nell’elegiaco cristiano. L’ultimo verso, rivolto a Dio, trasforma la vicenda personale in atto di fede: il tempo sottrae, ma la luce raccolta potrà essere offerta al Creatore. Un testo che conserva la nobiltà della lirica ottocentesca, in bilico tra romanticismo e spiritualità.
Essenzialità e immediatezza. In pochi versi, Silenzi evoca il torpore di un mezzogiorno estivo, dove il “sole giallo” illumina la “dorata noia”. È una poesia che si avvicina all’haiku per concentrazione e impressionismo: immagini leggere, delicate, che invitano al sonno e al sogno. La chiusa (“il cuore batte, e non si sa perché”) riporta al mistero originario della vita.
Una confessione intima, aspra, dolente. Il filo della vita diventa gomitolo da srotolare, percorso obbligato in cui non c’è scelta. L’autore oppone agli “aquiloni arlecchinati” i propri “cavalli alati uccisi”: metafora potente dell’occasione mancata, del rifiuto del volo. La presenza finale dell’ “asino esitante” è immagine di umiltà e fallimento insieme, di un destino che non ha potuto sublimarsi. È una poesia esistenziale, quasi testamentaria, che ricorda l’angoscia di certi testi di Pavese.
Surrealismo ironico e grottesco. Le “cascate” negli “occhi appuntiti delle stranezze umane” e i “gatti-fantasma” sui tetti evocano un mondo deformato, dove la follia diventa passeggiata quotidiana. La poesia abbraccia il nonsense con lucidità critica: la “demenza premiata dalla scemenza altrui” è denuncia e liberazione. Testo che gioca tra comicità e amara constatazione sociale.
Meditazione sul tempo che diventa laccio, corda, vento. Il poeta intreccia immagini naturalistiche e metafore drammatiche (l’impiccato, lo scoiattolo, il vento ululante). Il tempo appare come forza che ci sfugge e ci consuma, inafferrabile e crudele. La lunghezza del testo e il suo ritmo quasi prosastico rendono bene l’impressione di una corsa senza tregua. In filigrana, echi di Montale e Ungaretti, ma con un tono più narrativo.
Una lunga dichiarazione amorosa che si muove tra semplicità e lirismo. Il testo, con le sue ripetizioni e la disposizione visiva dei versi, mira a ricreare il ritmo di un respiro affettivo. È poesia spontanea, genuina, in cui la quotidianità (gesti, capelli, ginocchia al petto) si intreccia con scenari naturali (mare, prato, gelsomini). Ricorda l’ingenuità voluta della poesia amorosa popolare, ma con punte di tenerezza autentica.
Una poesia che si colloca nell’alveo lirico tradizionale, con rime e ritmo regolare. È canto d’amore serale, sospeso tra intimità e malinconia. L’uso della luna, delle stelle, della lampada tremolante richiama l’immaginario romantico. Non vi è ricerca di sperimentazione, ma solidità formale e chiarezza emotiva.
Testo di spiritualità mistica. La voce del poeta si fa strumento del divino, corpo e sangue diventano strumenti del Signore. Il linguaggio è biblico, solenne, con ripetizioni che rafforzano la dimensione orante. Non vi è compiacimento estetico, ma devozione pura. Una poesia che richiama i Salmi e la tradizione della mistica cristiana.
Qui la poesia si fa preghiera civile e teologica insieme. L’Ave Maria è rivisitata in chiave femminista: Maria non solo madre, ma donna che ha sofferto sotto il peso del patriarcato. Il testo è un atto politico e religioso allo stesso tempo, che denuncia la permanenza di sessismo e maschilismo. Romanini rinnova la funzione sociale della poesia, trasformandola in resistenza.
Componimento dedicato, breve e delicato. Il tema del “seminare bene” è reso con semplicità e immediatezza. È poesia della gratitudine e della memoria, senza artifici, ma con sincerità di tono.
Peccato solo che...il soggetto sia lo scrivente, asino ragliante con la presunzione di commentare le altrui poesie!
Comunque, grazie di cuore cara Sandra Beatrice.
Un testo sperimentale, denso di immagini urbane e visionarie. La città diventa scenario liquido e cangiante, i semafori si trasformano in occhi, le auto in corpi nudi. La fronda in fiamme è cuore e natura insieme, in dialogo con l’asfalto. La poesia procede per accumulo di visioni, vicina alla scrittura automatica surrealista e alla poesia visiva. Potente e irregolare, è atto di libertà.
Un testo lirico classico, dedicato all’amore come forza che supera l’impossibile. Il gabbiano, simbolo di libertà, si specchia nel mare e trova compagnia. La poesia evoca leggerezza e speranza, con un tono che ricorda la tradizione poetica femminile del Novecento, tra leggerezza lirica e aspirazione trascendente.
Una meditazione filosofica sull’inevitabilità del nulla. Le stelle che cadono, la memoria che si affievolisce, il vuoto che rimane: qui si avverte l’influenza dell’esistenzialismo novecentesco (da Heidegger a Sartre) e di certa poesia cosmica. Il ritmo cadenzato, con ripetizioni (“il vuoto, il vuoto, il vuoto”), accresce l’effetto drammatico. Un testo che guarda all’abisso senza consolazione e, di questo, da fratello credente, mi si stringe il cuore in un abbraccio che si fa preghiera. Per te, caro Piero, fratello poeta.

 
Con affetto e stima:
Vostro, pur sempre vostro 
Ben Tartamo 

 

 

 

 

13-14-15 Settembre

 

Siamo al cospetto di una poetica dell’ellisse affettiva, una composizione che prende la retorica — nella fattispecie, la figura della brachilogia, ossia la concisione pregnante — e la trasforma in messaggera d’amore. La voce poetica non indugia, non arzigogola: elenca con la grazia della necessità.
Labbra, occhi, mani, cuore: è l’anatomia affettiva della lontananza. Tutto converge verso la speranza del ritorno, e proprio questa speranza è la chiave semiotica del testo: è il “non ancora” che dà senso al “già”.
L'autore, in un'opera che sembra semplice, compie un atto filosofico: ci mostra come la brevità, se nutrita d’amore, diventa eternità concentrata.


Qui il tono muta, il registro si fa epico-lirico, e la pioggia — figura antica, archetipica — diventa il battito costante di un tempo civico in decomposizione. Santoro ci dona una ballata della disillusione politica, ma intrisa di un'umiltà commossa. Il Borgo — entità metafisica e concreta — si sbriciola nell’indifferenza, e la voce poetica è testimone e Cassandra, stanca di denunciare.

La seconda parte, con l’arrivo della “nuova gente”, è una fenditura luminosa nella tela scura. Ma è una luce tenue, quasi colpevole, un raggio che non riesce a dissolvere del tutto la nebbia dell’abbandono.
Straordinaria la chiusa: la pioggia come “dono del cielo” a supplire l’assenza del potere umano. In questo gesto, il poeta si fa teologo laico, affidando alla natura ciò che la politica ha tradito.

Un testo che va letto ad alta voce, lentamente, per cogliere la sua partitura musicale e morale.


Questa lirica breve è un'apostrofe sognante all’ispirazione, e Ungaretti — Ungà, col diminutivo quasi da amico immaginario — appare come mentore e fantasma, come spirito guida in una veglia trasfigurata.
Serino scrive in trance, appunto, e l'immagine della balaustrata è prodigiosa: luogo di appoggio ma anche confine, soglia, limen. È lì che il daimon, quella forza creativa ambivalente e inquieta, cerca riposo.

Il componimento è quasi haikuico nella sua densità, e si chiude lasciandoci nella febbre dell’incompiuto, come ogni autentico sogno poetico dovrebbe fare.


Tartagni ci scaraventa nell'urlo visionario di un'anima assediata, dove il delirio e la chiaroveggenza si intrecciano come due serpenti attorno all’albero della parola. C’è un tono quasi biblico, apocalittico, ma reso tenero da immagini come il “bianco gatto di Persia” — figura che irrompe come un angelo felpato nel caos interiore.
Il testo ha la struttura di un flusso semi-onirico, ma si avverte in filigrana una volontà pedagogica: “Provo a insegnare / In questa terra spezzata”. L’amore, come “ultimo segreto”, non è sentimentalismo: è resistenza ontologica, è ciò che si oppone all’entropia del disincanto.

Si avverte qualcosa di rimbaudiano, una scrittura come allucinazione lucida, come urlo in faccia al destino telematico (“leggo da solo internet e il mio destino”). È una poesia che brucia e consola, che accende corto circuiti e poi accarezza.


Lapietra ci consegna un elogio della resilienza amorosa, un atto reiterato e consapevole d’amore che non chiede garanzia alcuna. Il titolo, “Ancora”, è già una dichiarazione poetica: l’eterno ritorno del sentimento, la volontà sacrificale di chi ama nonostante.

I versi sono cuciti con la pazienza dell’orfana che spera, e brillano nella loro dolcezza lancinante. “Ho scoperto ancora / il mio sguardo d'amore inerme”: ecco il cuore del componimento — la nudità volontaria del sentire, offerta come balsamo sulla scialuppa incerta dell’altro.

L’ultima strofa è degna della lirica moderna più alta: la felicità imprigionata, l’impossibilità del dono, l’anelito al “porto dove addormentarsi senza soffrire” — un ossimoro d’amore che ci frantuma e ci eleva.

Una poesia che profuma di malinconia greca e di carezze mai sprecate.


Borghesi scrive con l’urgenza di chi si è svegliato nel cuore del disastro. Il componimento è una specie di autoaccusa lirica, un’analisi psicologica in versi, dove l’autore è carnefice e vittima, giudice e imputato.

La struttura anaforica iniziale (“quando... quando... quando...”) crea un effetto di crollo preannunciato, una valanga emotiva. Poi il crollo avviene: l’“alta marea” chiude l’orizzonte, il “fuoco deturpa il sorriso”.

E poi l’immagine più potente:

“barcolli indifeso e decrepito / verso ipotesi siderali” —
versi che sembrano usciti da un Cioran in poesia, sospesi tra cosmico e intimo.

È un testo di rimorso post-esistenziale, ma anche un invito ad ascoltare il silenzio che ci giudica. Commovente, diretto, doloroso come uno specchio incrinato.


Qui siamo nell’empireo delle relazioni disgregate dal pensiero, delle sinapsi sentimentali che si inceppano. Il “silenzio d’ordinanza” è un’arma bianca, un comportamento programmato, e il testo ne svela la teatralità.

Notarfrancesco gioca con i registri alti e bassi, con un’intelligenza linguistica rara: ci sono la Parigi simbolista e la quotidianità della crisi amorosa, il “preavviso” dell’amore e l’“odio blando”, come moti atmosferici dell’anima.

La poesia è costruita come un monologo interiore che si disintegra in aforismi lirici. C’è la filosofia, c’è il disincanto, ma anche l’intuizione finale: che il ricordo, anche se doloroso, è una piccola variante dell’eternità.

Una poesia che va letta come si sfoglia una fotografia sbiadita: con amore e con un nodo in gola.


E infine... il vertice, il poema epico-contemplativo di Huenún, che affonda le sue radici nelle mitologie mapuche, nel dolore coloniale e nell’onirismo sciamanico.

Siamo in una dimensione post-mortem: il poeta-cavaliere non narra la vita, ma la sua trasfigurazione nella leggenda. Le immagini sono sacrali: “la mia vita crivellata dalle pallottole”, “il cavallo che adesso cavalco sopra l’acqua”, “la mia faccia trasparente dove brillano le stelle della sera”.

Qui la poesia non si limita a raccontare: invoca, canta, trasfigura. Il cavallo, l’acqua, i fiori di febbraio — tutto partecipa a una visione sincretica dove la morte non è fine, ma passaggio mistico nella memoria collettiva.

La traduzione di Nino Muzzi è fedele e poetica, conserva il ritmo, l’eco, la tensione sacra.

Huenún ci mostra che la vera immortalità non è nel corpo, ma nel canto che il popolo continua a udire sotto gli alberi, tra le barche, nei fiumi che vanno al mare.


Ecco una riflessione sul passaggio del tempo, un tema che il poeta affronta con un linguaggio di radicata umanità, quasi fossimo di fronte a una sorta di diario esistenziale. Fronzoli scrive delle "impronte" lasciate da ogni passo, come tracce indelibili nella terra e nel cuore. Le impronte sono testimonianze di vita, non solo visibili ma anche interiori, sedimentate nell’anima. Queste tracce non si cancellano, nemmeno dalle intemperie della vita: “nemmeno il vento, la pioggia, l’onda del mare / possono modificare” — ed è proprio questo l’ineluttabile della nostra esistenza.

Il poeta gioca con l’idea di vita composta da contrasti: "spine e rose", "sorrisi e lacrime", e anche “impronte sbiadite” che si confondono, come se l'esistenza fosse sempre sospesa tra l’amore e il disprezzo, tra il chiaro e l'oscuro. Eppure, la forza di queste impronte non sta tanto nell’immobilità, ma nel loro essere sigillate nel cuore, dipinte “da mille colori silenti”. Il silenzio e la leggerezza delle sue immagini evocano la riflessione sull’inevitabilità del nostro percorso, che non può essere annullato né alterato, ma solo “invecchiato”.

Una poesia di grande intimità, che scuote nel profondo e ci lascia un eco di consapevolezza sulla nostra finitezza e sull’intangibilità della memoria.


Una danza delicata e inquietante, quella della falena attratta dalla luce, un simbolo potente di ciò che siamo costantemente: esseri in bilico tra il desiderio e la distruzione. La falena è forse il più autentico simbolo del nostro instinto di autolesionismo: attratta dalla luce, ma consapevole del rischio del calore, si avvicina comunque, ignora l'avviso e si schianta inevitabilmente.

Romano cattura, in pochi versi, l’essenza della contraddizione esistenziale: la bellezza della luce e la rovina del suo fascino. La falena, come ognuno di noi, è attratta dall’ideale di perfezione, ma quella perfezione è sempre destinata a essere il luogo della nostra caduta. Il termine "cieli perduti" è un’eco profonda, come la consapevolezza di aver perduto, e il tavolo "spoglio" è la metafora della nostra esistenza che, al termine della danza, si svuota e resta in silenzio.

Un’immagine forte e simbolica che parla di desiderio e autodistruzione, in uno scambio di luci e ombre sempre più veloci.


Questa lirica è come un grido di speranza nel cuore della disperazione. Seccia dipinge con il colore dell’utopia, ma lo fa con una sincerità che ci scuote. Desidera che i pensieri siano “colori dell’arcobaleno” e che la sofferenza scompaia, cancellata dalla sua volontà di pace. Il poeta cerca una sorta di “cura universale”, quella parola che guarisce il dolore e dà pace all'anima.

C’è una forte tensione tra il desiderio di guarigione dell’individuo e del mondo, e il doloroso riconoscimento della realtà che ci circonda, fatta di notizie di violenza e morte. La poesia si chiude con una consapevolezza tragica e insieme serena: la nostra esistenza è “un battito di ciglia”, un attimo nell’eternità, ma pur sempre un atto che merita di essere vissuto con coscienza e compassione.

Una lirica di profonda umanità, che si tinge di un candore disarmante, eppure non privo di una consapevolezza dolorosa del nostro fragile cammino.


Romanini ci trasporta, con un linguaggio potente e introspettivo, verso una dimensione cosmica che sfida i limiti umani. L’“inferno interiore” è messo di fronte a “marine acque di quieta solitudine” — una lotta tra il caos e la serenità, tra il tumulto dell’anima e la pace celeste. La descrizione dell’orizzonte che “disegna l’improbabile confine” è un atto di rivolta e ricerca, come se il poeta non fosse mai soddisfatto della realtà visibile, ma cercasse di spingersi sempre oltre.

In questo testo c’è la consapevolezza di una realtà oltre il visibile, quasi come se Romanini volesse spalancare le porte di una coscienza infinita. L’uso della parola “indifferenza” suggerisce un confronto con l'ineluttabilità del cosmo, e la parola "avversità" diventa l’eco di una resistenza, quasi come se il poeta stesse tentando di domare il caos esterno, per trovare una pace nel suo animo.

Una poesia che sfida la ragione, ma che trova la sua forza nel desiderio di trascendere i confini fisici e spirituali, in un afflato cosmico che va oltre il nostro semplice essere.


In questa poesia, Greggio ci invita a un gesto che sfiora il cuore e la mente, non solo la pelle. La carezza diventa un atto intimo e profondo, un modo per entrare in contatto non solo con il corpo, ma con i solchi invisibili che segnano la nostra interiorità. La fronte, con i suoi solchi, diventa metafora del pensiero tormentato, di quei "ragnatele di pensieri" che ci avvolgono e che solo un gesto delicato può tentare di placare.

L'autrice riesce a creare un legame emotivo forte tra il fisico e l’intellettuale, tra il visibile e l'invisibile, come se il corpo fosse solo la superficie su cui scivolano le vere emozioni. La promessa del corpo che "da secoli ti sta aspettando" aggiunge una dimensione di attesa eterna, che sembra esprimere il desiderio di un amore che va oltre la materia e che aspetta da sempre di essere compreso.

Un dolce invito a toccare non solo con le mani, ma con la mente e l'anima. La carezza diventa qui simbolo di un amore che non può essere superficiale, ma che cerca il profondo, l’invisibile.


Con questa poesia, Jacqueline Miu esplora la dualità tra realtà e sogno. L'autrice scrive di una vita segnata da perdite e cambiamenti, ma il "domani" è nascosto in una stella, un simbolo di speranza ma anche di mistero. La stella è lontana eppure sempre presente, proprio come i sogni che continuano a illuminare, anche quando la vita ci sembra scura.

Il contrasto tra il sogno della "California" e la tempesta che il vento porta avanti rende la poesia quasi cinematografica, come se ogni parola fosse sospesa nel caos di un’emozione che si fa travolgente. Il "cuore" che viene "soccorso dal cielo" indica una salvezza che non arriva dalla razionalità, ma dalla fede nell’ignoto, dalla forza di un sogno che non si spegne mai.

La poesia culmina con una domanda esistenziale: "Che cosa significa tacere l'amore?" Una domanda che tocca il cuore di ogni lettore, poiché, nel silenzio dell’amore, risiede tanto la sua bellezza quanto il suo tormento. L'amore è silenzioso quando la realtà non riesce a dirlo.

Una lirica di forti contrasti, dove il sogno, la speranza e l’amore si mescolano alla disperazione e alla solitudine, ma la stella resta come simbolo di una luce che non svanisce mai.


La poesia di Antonia Scaligine ha un ritmo biblico, evocando l’idea di una continua attesa, come se il tempo fosse sospeso in un eterno presente di speranza e disperazione. Le parole "C'è un tempo per nascere, un tempo per morire" richiamano subito il Qoèlet, con il suo memento mori e la consapevolezza che tutto accade in un tempo determinato. Ma il poeta, anziché lasciarsi sopraffare dalla fatalità, chiede una "buona strategia" per l'umanità, come se un atto di speranza potesse riscattare la violenza globale e il marcio dell'odio.

Il paesaggio descritto da Scaligine è uno spazio di guerra e disumanità, ma allo stesso tempo un invito a restare umani, a non perdere mai la speranza, nonostante i "droni autonomi" che decidono senza cuore. È come se, nel suo pessimismo, l’autrice ci chiedesse di riscoprire l’essenza dell’amore, quel “poter essere l’ultima fiamma a morire”.

Il finale, con la domanda “Nessuna guerra è giusta / se la luce del giorno ci garantisce morte,” è un grido contro l’indifferenza e la violenza che sembra essere parte del nostro quotidiano, ma che non può essere accettato.

Un grido di denuncia che, pur nella tragedia, non perde la speranza di una possibile redenzione. Una poesia che ci costringe a confrontarci con la nostra società e con il nostro ruolo in essa.


Con affetto e stima

vostro Ben Tartamo

 

«Un'anima sola» – Ben Tartamo

Ben Tartamo ci regala una poesia che è un misterioso viaggio tra il finito e l'infinito, un cammino che cerca di dare un senso ai paradossi della vita, come la metamorfosi di un soffio in vento o una lacrima che diventa mare. L'immagine del soffio che si fa vento e della lacrima che diventa mare suggerisce un processo di trasformazione naturale ed inevitabile, dove anche le emozioni più piccole, come un respiro o un pianto, sono destinate ad espandersi in qualcosa di universale, di immenso.

Il "graffio sul cuore" è un dolore che non si può sfuggire, ma che entra nel ciclo naturale della vita. Il poeta, nel suo desiderio di ritorno al fuoco che si è spento, ci fa capire che, nonostante le ferite, ci sia sempre una possibilità di rinascita. Il fuoco che si spegne e poi potrebbe riaccendersi non è solo simbolo di passione, ma di una vita che si rinnova anche dopo il dolore, una volontà di non arrendersi.

La frase "tutte le ho riposte in quel vento e mare" ha qualcosa di misterioso e sublime, come se il poeta avesse affidato le sue risposte, le sue riflessioni più intime, alla vastità e all’infinità dell'universo. Ma, paradossalmente, non ottiene risposte, solo una sospensione di senso, come se la verità risiedesse nel viaggio e non nella destinazione.

Nel finale, "questo silenzio farsi poi Parola" è la consapevolezza che il silenzio non è assenza, ma spazio dove le parole devono ancora germogliare. Il silenzio diventa la fonte della Parola stessa, mentre "miele sull'assenzio" suggerisce che, sebbene la vita possa essere amara e difficile (come l'assenzio), c'è sempre la dolcezza di un qualche significato che emerge dal dolore.

Infine, la frase "Noi: un'anima sola" chiude la poesia con un'affermazione che è al tempo stesso universale e personale. La condizione dell'essere umano è quella di cercare, spesso invano, risposte, ma nel profondo siamo tutti un'anima sola, collegata in una ricerca che trascende le singole esperienze e si fa collettiva.

Questa poesia sembra un invito alla trasformazione continua, a comprendere che ogni emozione e ogni esperienza, anche quelle dolorose, fanno parte di un disegno più ampio e misterioso. La ricerca di risposte è una parte inevitabile della vita, ma, in fondo, la vera essenza di essa potrebbe risiedere nel non trovare tutte le risposte, ma nel sentire che, alla fine, siamo tutti legati da una stessa anima, un’anima sola. Il poeta, in questo senso, non solo cerca di esplorare il senso del dolore, ma anche quello dell'unità e della connessione umana.

Ben Tartamo ci consegna una riflessione profonda sul dolore e sull'attesa di risposte che non arrivano mai. Ma, proprio in quella sospensione, si trova la bellezza della vita: non nelle risposte, ma nel percorso stesso, nell’esperienza condivisa di tutti gli esseri umani, uniti in un’unica anima.

prof. Marino Spadavecchia

 

 

10-11-12 Settembre

Belle emozioni si celano nelle poesie di ogni poeta
che senza pretese sono protese verso di noi
e quando le leggo
da quei versi mi sembra di poter ancora tanto da imparare,
Come i versi del nostro Ben Tartamo , poeta capace di trasformare una sua poesia in magia e una poesia di qualunque poeta del sito ,compresa la mia ,in qualcosa che affascina .Pur non conoscendoci sei capace di evidenziare le nostre emozioni , il tuo è un dono e noi siamo sospesi ad attendere le tue parole ,umilmente ti ringrazio
un grazie anche al nostro Spadavecchia che ci viene a cercare per leggere le nostre poesie e noi con interesse ammiriamo le tue
Ringrazio Lorenzo , poeta speciale, nascosto dietro un sinonimo ma che non potrà mai nascondere sia la sua grandezza poetica che generosità e nobiltà d’animo
Grazie a tutti i poeti , per chi ama la poesia come me , ma che non mi reputo una poetessa, non potrei non leggere poesie e commenti grazie a tutti
Antonia Scaligine

 

 

 

Quel bacio che non sa più di noi” – Ben Tartamo

Questa lirica si presenta come un piccolo dramma mistico dell’amore, un poema breve che, pur nell’essenzialità del dettato, rivela una stratificazione di registri — autobiografico, lirico, cosmico, spirituale. La forza non sta solo nel ricordo personale, ma nella capacità di trasformarlo in interrogazione universale, in un canto che oscilla tra nostalgia e possibilità di redenzione.
 
La struttura è fondata su un’anafora ossessiva: “Dimmi perché…”. Non è un vezzo retorico, ma un gesto drammatico: la poesia qui non afferma, ma chiede, non chiude, ma apre. La domanda ripetuta diventa ferita, invocazione, quasi preghiera. In questo senso, l’autore si pone nella linea di una tradizione che unisce lirismo amoroso e tensione spirituale, da San Giovanni della Croce fino a Rilke.
 
Il cuore simbolico pulsa tra due immagini antitetiche: rosa e bugia. La rosa, con la sua fragilità e bellezza, si oppone alla bugia, che ne tradisce l’essenza. Amore come splendore e inganno, verità e illusione: qui si annida la dialettica irrisolta che anima il testo.
 
L’amplificazione cosmica porta l’esperienza intima oltre il contingente: mare, cielo, sole. Questi non sono semplici ornamenti, ma dispositivi universali, che trasfigurano il destino privato in destino cosmico. Il bacio, da evento personale, diviene misura dell’infinito. È la stessa dinamica che muove la poesia mistica: l’amore terreno è finestra sull’eterno.
 
Il finale sorprende per altezza concettuale: “Se l’acqua di fonte è come il perdono, / bevi con me, e torniamo a farcene dono.
Qui avviene lo scarto decisivo: dall’elegia alla fondazione, dal rimpianto alla possibilità. La sorgente, archetipo biblico e universale, diventa metafora del perdono che purifica, rinnova e restituisce vita. È l’apice della lirica, dove il dolore si converte in offerta, in gesto redentivo.
 
Ben Tartamo si rivela capace di un’alchimia rara: trasformare un ricordo amoroso in mito, un bacio smarrito in interrogativo cosmico, la nostalgia in possibilità di salvezza. La sua poesia è insieme confessione intima e meditazione metafisica, un crocevia in cui eros e spirito si incontrano, generando una voce che appartiene tanto al cuore quanto all’universo.

 
Prof. Marino Spadavecchia 

 

 

Qui la parola bisogno ricorre come un respiro affannoso che cerca aria: è la spina dorsale del testo, la confessione di una mancanza che non è semplice desiderio, ma necessità vitale. La solitudine non viene descritta come isolamento sterile, bensì come condizione di scavo interiore. La poesia non nasconde le ferite – errori, paure, amori perduti – ma le trasforma in occasione di ricerca, quasi in una liturgia personale. E poi quel vento dove abita la felicità: un’immagine biblica, invisibile e mobile, che suggerisce che la gioia non si possiede, ma si intercetta solo se ci si apre ad essa. Nel sottofondo vibra la speranza di riconciliazione con la donna amata: la solitudine non è dunque chiusura, ma preludio a un nuovo incontro.


  • “Amici” – Salvatore Armando Santoro

Questa poesia è una confessione notturna, ironica e struggente, dove l’eros viene trattenuto dall’amicizia promessa. La scena è domestica, quasi prosastica, ma i versi vibrano di una tensione intima, sospesa tra desiderio e rispetto. L’autore mostra con sincerità disarmante il contrasto fra corpo e coscienza: il corpo che sogna e scalpita, la coscienza che trattiene e veglia. C’è ironia nella chiusa (“Ve lo giuro, non mi ha fatto niente”), che smonta con leggerezza la tensione, ma proprio questa leggerezza tradisce un dolore: l’eros represso non è negato, resta vivo come brace sotto la cenere.


Qui il mare diventa interlocutore e custode della memoria. È un “tu” che ha visto tutto, testimone dei primi sguardi, degli abbracci, dei baci e perfino delle risate che feriscono come lame. L’acqua conserva e restituisce, non dimentica: le onde sono archivio dell’anima. Il tono è invocativo, quasi da preghiera laica, e la voce che si rivolge al mare in realtà sta parlando al sé ferito, al ricordo che non può placarsi. Il fico d’india – immagine splendida – racchiude il paradosso dell’amore: spine fuori, dolcezza dentro. Il testo è canto elegiaco che cerca consolazione in un dialogo impossibile, e proprio per questo universale.


Questa è poesia ridotta all’osso, quasi aforisma lirico. Le immagini sono scabre, essenziali, asciugate fino alla trasparenza. La distrofia fisica diventa metafora dell’esistenza che si ritrae, del cammino che si accorcia fino a restare solo sguardo dalla finestra. Ma nel verso “lo spettro della luce / ti richiama lacerti d’infanzia” si apre un varco: la malattia non è solo limite, è anche memoria che resiste, frammento luminoso che riaffiora. L’ossimoro finale – il sole che acceca chi più avrebbe bisogno di luce – è crudele e potente: è la condizione del poeta stesso, che trova nel buio lo spazio della visione interiore.


Questa poesia è un mosaico di immagini, un catalogo visionario in cui l’anima del poeta si specchia nella natura. Ogni strofa è un fotogramma: cieli di fuoco, voli di aironi, foglie d’autunno… L’autore costruisce un flusso lirico che ha il ritmo di un respiro contemplativo, dove il reale e l’immaginario si fondono. Alla radice c’è un sentimento di meraviglia, ma anche una coscienza malinconica: tutto “scorre”, e ciò che resta sono solo pensieri, parole, emozioni. L’anima di Berni è quella di un viandante interiore che cerca un ordine nell’inesausto movimento della vita.


Qui la poesia è ferita d’amore, ma levigata come pietra dal mare. Positano diventa luogo mitico, sospeso, cornice di un incontro che ora si è dissolto. L’autore intreccia il paesaggio e la memoria dell’amata: profumo, sguardo, voce. La mancanza è così tangibile da trasformare il mare in silenzio e il sole in indifferenza. La poesia ha il tono elegiaco di chi non solo ricorda, ma vive ancora dentro il ricordo: il presente è sbiadito, la cartolina ha perso i colori. L’anima di Di Meo si rivela fedele e ferita, incapace di rinunciare a un passato che aveva il sapore dell’eternità.


Un testo quasi oracolare, denso, magmatico. I versi sembrano galoppare come i passi del poeta nel bosco. C’è una natura sacra, piena di presenze invisibili: cicale, grilli, pinete, un altare che appare come visione mariana. Il ritmo è frammentato, affannoso, vicino al respiro mistico. Qui Tartagni si confessa come un “dio con ali di Mercurio”, per poi tornare fragile, supplice, nel silenzio della preghiera. L’anima che emerge è quella di un pellegrino inquieto: esuberante, sensuale, ma capace di piegarsi davanti al mistero. La sua poesia è un atto di fede nella natura come sacramento dell’invisibile.


Il dialetto romano diventa qui arma satirica, specchio crudele della realtà politica e sociale. È una poesia civile che smaschera le ipocrisie con sarcasmo, facendo dell’ironia un bisturi. L’“inquinamento” diventa metafora molteplice: ambientale, mentale, mediatico. I versi scorrono come stornelli corrosivi, tra sbuffi e paradossi. Ma oltre la polemica c’è un nucleo più profondo: la nostalgia di una verità semplice, non corrotta dal “pensiero unico”. L’anima di Bettozzi è quella del giullare visionario, che ride per non piegarsi, e con il riso rivela il vuoto di chi governa la scena.


Una poesia che vibra di malinconia lirica, intima e tagliente. Il tramonto diventa metafora di una vita che si avvolge nella memoria e nel dolore. Ogni immagine è un frammento di esperienza: vetri rotti, sassi nel lago, il treno che riflette due volti. Qui la natura non consola, ma amplifica la ferita interiore. Eppure, nell’implorazione finale – “vorrei un cuscino dove riporre il cuore” – si scorge la dolcezza vulnerabile di chi non rinuncia alla tenerezza. L’anima di Piacentino è quella di un’amante segreta della vita, che accoglie il dolore senza mascherarlo, e proprio per questo rende la sua voce autentica e universale.


Qui la parola è veglia amorosa. La voce si muove nei vicoli del pensiero come in un labirinto interiore, alla ricerca di una presenza che è insieme perduta e ritrovata. L’amato non è mai del tutto “fuori” da sé: egli siede dentro l’alba che nasce nel cuore della poetessa. È una poesia della reciprocità segreta, dove il giorno “più lungo” non è tempo cronologico ma durata spirituale, in cui lo sgomento si trasfigura in attesa e in promessa. L’anima di Notarfrancesco appare fragile e irriducibile: si cerca e si trova nello specchio dell’altro, in una liturgia amorosa che non conosce tramonto.


Questo canto antico vibra come una eco arcaica della terra e delle acque. È poesia corale, femminile, in cui il sangue diventa simbolo di vita, di sacrificio e di resistenza. Sangue di colomba, di farfalla, di cigno: fragilità e bellezza si intrecciano con l’invisibile forza che custodisce il segreto delle donne. Le ragazze-figlie del sole sono insieme potenza generatrice e minaccia per l’ordine maschile, tanto da dover “nascondersi”. L’anima che emerge è collettiva: il mito parla per tutte, e la poesia diventa rito, un sussurro custodito nei boschi, nel respiro dell’acqua e della natura.


Qui il canto è epico e familiare allo stesso tempo. Taranto diventa un organismo vivente: i ponti come braccia, il mare come memoria, il castello come dimora ancestrale. La voce si fa guida attraverso la storia e la leggenda, l’infanzia e la ferita, i Messapi e i Saraceni. Ogni immagine trabocca di appartenenza: la città non è solo luogo, è corpo ereditato dal nonno sommozzatore, è radice che ribolle come acqua greca. L’anima di Scaligine è nostalgica e solenne: canta con orgoglio il mito mediterraneo di Taranto, trasfigurando la storia in poesia identitaria.


Un rondò che si fa satira amara e civile. Il tempo storico viene visto come cerchio vizioso: sempre gli stessi tiranni, le stesse menzogne, le stesse complicità. La metrica stringe e incalza, la lingua alterna classicità e sarcasmo (“popol minchione”) con forza dissacrante. La poesia non si limita a descrivere: accusa, denuncia, ammonisce. L’anima di Colonna Romano è quella di un moralista antico, figlio della tradizione satirica italiana, che brandisce il verso come spada civile. Nella sua voce, la memoria è antidoto contro la manipolazione dei potenti.


La confessione qui si fa ferita aperta. Il poeta immerge il pennello nel proprio sangue: scrivere diventa un atto sacrificale, una liturgia intima. Ma il perdono non è dono agli altri: è ostacolo con se stesso. Più difficile che amare, più arduo che compatire, è liberarsi dal peso della colpa. La voce è cruda e sincera, senza ornamenti: una nudità che colpisce perché non si nasconde dietro metafore troppo elaborate. L’anima di Seccia è penitente e appassionata: porta il macigno del rimorso, ma il fatto stesso di scriverlo diventa già inizio di catarsi, possibilità di grazia.


Questa poesia è un piccolo inno alla vitalità elementare. Il venticello diventa un compagno fanciullo che gioca con piume, margherite, cani e ragazzi. Tutto vibra di leggerezza e di gioia semplice. È un soffio che non conosce ombra, che ama “la semplicità delle cose”. L’anima di Romanini qui appare ingenua nel senso più alto: una purezza di sguardo che riesce a rendere sacro il quotidiano, quasi una favola pastorale che ci ricorda che la vita si ama davvero quando la si respira nella sua immediatezza.


Qui entriamo nella zona oscura: le paure sono presenze che camminano accanto a noi, inevitabili, quasi animali che mordono. Non servono illusioni di fuga: esse vanno riconosciute e affrontate. Lo stile è asciutto, scandito, come una meditazione che si fa consiglio. L’anima del poeta si rivela coraggiosa e umile: sa che la serenità non è assenza di paura, ma capacità di accoglierla, guardarla, trasfigurarla. È poesia terapeutica, quasi una piccola guida etica.


Qui c’è un enigma profondo. Il fiore promesso, che avrebbe dovuto rivelare la verità dell’anima, muore prima di consegnare il suo segreto. Rimane soltanto il desiderio, la mancanza, il mistero di un “profumo sconosciuto”. L’anima poetica si muove tra conoscenza e perdita, intuizione e limite. Greggio ci dice che l’anima guida senza sbagliare, ma resta inaccessibile fino in fondo: la rivelazione è sempre differita, e forse ciò che ci salva è proprio il cercare invano, restando aperti all’invisibile.


Questo è un poema visionario, metafisico. La casa di neve è dimora fragile e incantata, tra Eden e Ade, tra felicità e perdita. Scompare, riappare abitata da fantasmi-poeti che continuano a scrivere oltre la morte. È mito contemporaneo, un’architettura di immagini surreali e cosmiche. L’anima della poetessa qui è mistica e tragica insieme: canta la caducità della felicità, ma anche la sopravvivenza della parola poetica, che resiste alla notte e alla dissoluzione. È poesia-oracolo, che abita la soglia tra la vita e l’oltre.


Con affetto e stima
 

Ben  TARTAMO

 

 

7-8-9 Settembre

UN grazie di cuore a Ben Tartamo per i suoi commenti e A Lorenzo per la sua ospitalità.

Silvio Canapè

 

 

  • Jaime Luis Huenún Villa (trad. N. Muzzi)
Qui siamo in Cile, immersi nella sacralità di un paesaggio fluviale che non è natura, ma memoria ancestrale. La figura di Víctor Llanquilef spinge un battello ebbro: è immagine rituale, quasi sciamanica. Gli elementi – il coipo, i salici, il lampo del pesce – si fanno totem spirituali. La poesia scava nell’acqua, e l’acqua custodisce spirito, morte e rinascita. Il tempo è circolare, il destino è ombra che si riflette nell’acqua. Un lirismo indigeno, cosmico, che risuona di mitologia mapuche.
  • Franco Fronzoli – All’ombra
Qui il paesaggio è quello intimo di due amanti sotto un leccio, ma la natura non ha sacralità cosmica: diventa specchio di inquietudini e ricordi. C’è la malinconia di un amore che ha perso la sua immediatezza primaverile. I versi scorrono come un dialogo interrotto, un diario lirico: il passato fiorito si oppone a un presente spento. È poesia della memoria ferita, che si aggrappa alla luce di un sorriso lontano.
  • Salvatore Armando Santoro – Alla stazione
Un vero canto popolare di solitudine. La stazione vuota è metafora di un cuore abbandonato. Il ritmo è quello della canzone, con rime facili e dirette, quasi a voler urlare il dolore senza pudore. Qui la poesia non mira all’eleganza, ma alla cruda testimonianza: il poeta seduto in panchina, come un fantasma, cerca briciole d’amore. È voce dolente, autentica, che colpisce proprio perché non teme di esporsi nuda.
  • Silvio Canapè – Parole a schiovere
Un ritorno al napoletano, lingua materna e carnale, che diventa corpo sonoro. Qui il silenzio tra due amanti si traduce in paura cosmica: la luna che si nasconde, il mare che “s’ ‘n trase scurnus’”. L’uso del dialetto dà verità e vibrazione musicale. La poesia è un atto di resistenza: recuperare lingua e memoria in diaspora. Parole come pioggia a stravento, “a schiovere”, che però custodiscono il cuore d’amore tradito.
  •  Antonietta Ursitti – La terra resiste
Una miniatura intensa. Il cardo che sfida il temporale è immagine di resilienza primordiale. Pochi tratti, netti come incisioni rupestri: spine, faro, tempesta. La voce qui celebra la natura come forza indistruttibile, con un tono quasi aforistico.
  • Laura Lapietra – Sguardo di vetro
Questa è poesia drammatica, intensamente femminile, che parla dell’alienazione nell’amore spezzato. Lo “sguardo di vetro” è simbolo perfetto: fragilità e durezza insieme. I versi sono lunghi, avvolgenti, come onde emotive. Dolore, estraneità e mancanza di respiro diventano materia di canto. È lirica della perdita e della trasformazione, quasi una danza tra ombra e memoria.
  • Bruno Amore – vetri rotti
Una poesia che vibra di autobiografia: il ramo del noce che ticchetta ai vetri diventa emblema del tempo che bussa, della vita che preme contro le difese. Qui il poeta sembra dire: “Che si rompano i vetri! Che il suono del cristallo spezzi la monotonia della mia esistenza lunga e immobile”. È un piccolo atto di liberazione tragica.
  •  Eloisa Ticozzi – Foglie di rame
La natura qui non è più amica: diventa simbolo di un arcaico crudele, un ventre che non genera, una donna assopita. Le foglie di rame e di ferro sono immagini dure, innaturali, quasi distopiche. Poesia filosofica, riflessione sull’ambivalenza della natura: dolcezza e crudeltà fuse nello stesso istinto.
  •  Felice Serino – Fragilità
Un pensiero verticale, quasi haiku: fragilità delle ossa paragonata a quella delle foglie, degli uccelli. Serino condensa in lampi la meditazione esistenziale. Poesia asciutta, che vibra di trasparenza montaleggiante
  • Armando Bettozzi – La carica di Pastrengo
Un vero inno epico, denso di storia e patriottismo. Qui il tono è di rievocazione corale: sciabole, cannoni, generali, bandiere. È poesia che rilegge la storia come mito, in particolare l’eroismo dei Carabinieri. Ha un respiro narrativo più che lirico, ma conserva l’energia della ballata eroica.
  •  Rosa Notarfrancesco – Qualcosa doveva cambiare
Linguaggio prosastico, quasi un flusso di pensiero spezzato. La poesia qui non è ornamento ma denuncia del disincanto generazionale. C’è il senso di un’urgenza mai colta, di un’azione mancata. È una voce disillusa, che cerca autenticità anche nella frammentarietà.
  • Jacqueline Miu – reboot d’amore in notturna
Sperimentazione radicale: un flusso digitale, contaminato, dove eros e tecnologia si intrecciano. È una poesia post-umana, glitchata, piena di immagini cyber-erotiche (circuiti, unicorni, vermi-clown). L’amore diventa reboot, la passione un software. Eppure sotto il delirio resta una sete autentica di intimità. È poesia visionaria, disturbante, ma potentemente originale.
  •  Antonia Scaligine – Ascolta bene mi dico
Qui torniamo alla voce dolce e confidenziale. Una poesia-dialogo con se stessa, dove il tempo è colpa e grazia insieme. La scrittura è morbida, quasi consolatoria. È un invito alla resilienza interiore: non spaventarsi delle mancanze, sorridere nella corsa degli anni. Una sapienza semplice, che consola.
  •  Piero Colonna Romano – La scelta
Un gioco colto e parodico con Metastasio. Qui la poesia diventa meta-poesia: riflessione sulle regole stesse dello scrivere. Tra ironia e omaggio, il poeta dichiara la sua scelta della lirica come via di vita. Un esperimento riuscito di stile barocco-moderno.
  • Ciro Seccia – Sono io
È un autoritratto lirico: il poeta si presenta come somma di vie, fiumi, stelle, dolori e gioie. Poesia identitaria, che pulsa di autenticità. L’uso dei simboli naturali crea una visione ampia, cosmica, ma allo stesso tempo intima. È una dichiarazione d’esistenza.
  •  Alessio Romanini – Reflussi gastrici
Un esperimento originale: corpo e psiche fusi in un’immagine clinica. “Rughe gastriche” e “ecchimosi dell’anima” creano un linguaggio straniante, che intreccia medicina e lirica. È poesia che indaga il dolore come malattia del corpo e dello spirito.
  •  Laura Toffoli – Ottobre
Qui il registro è impressionistico e musicale. Ottobre è figura femminile, vestita di foglie, tra nostalgia estiva e fiamma di poesia. È poesia dell’attimo sospeso, che si specchia in acque e lune. Dolcezza, malinconia, delicatezza creano un’atmosfera sognante.
  •  Fausto Beretta – Bellezza e Tristezza
Una miniatura minimalista, quasi epigramma. Due mani che si cercano e due mani che si perdono: un dittico essenziale che oppone amore e fine. La poesia funziona proprio per la sua spoglia essenzialità.
  •  Sandra Greggio – Parole d’amore
Un canto lento, quasi un mantra: “Lascia che il tempo faccia il suo corso”. Qui il tempo e la natura si fondono all’amore, con cicale, piogge, nudità. È poesia sospesa tra attesa e rivelazione. Dolcezza e calma fluiscono, come se l’autrice volesse rassicurare il lettore che l’amore trova sempre un suo ritmo.

 
Con affetto e stima 
Ben Tartamo 

 

 

Un sentito grazie a Ben

Per la grandissima capacità 
Di interpretare le mie poesie,
Con poetici commenti.
Grazie Ben, anche le tue liriche 
Sono molto intense.
Alessio Romanini 

 

 

 

 

4-5-6 Settembre

In risposta al ringraziamento
di Bruno Amore :

Caro Bruno,
la tua commozione è il giusto fio dell’emozione che ci hai donato con i tuoi versi.
Chi ha servito la Patria – e ancora la serve umilmente, nel silenzio e nel nascondimento, anche senza più una divisa – sa che le parole possono essere più forti di qualunque uniforme.
La tua poesia, infatti, continua a stringere e ad abbracciare, come un servizio reso al cuore dell’uomo.
In fondo la poesia è questo: un dono che ritorna, un abbraccio che non ha bisogno di braccia forti quando si ha un cuore così grande come il tuo.
 
Ben 
`ՏᏆᏞᎬΝᎠO ᏢᎪTᎡᏆᎪᎷ ՏᎬᎡᏙO`

 

  • Rosa Notarfrancesco – “Una nuova espressione”
Qui c’è un’architettura sottile dell’anima: il verso non si limita a nominare, ma prende corpo come esperienza temporale e morale. La “commozione” diventa un vettore di coscienza, uno stato quasi trascendentale che spinge il soggetto poetico in un altrove esistenziale. Il lessico è calibrato con cura: parole come “crepuscolo” e “assiduità” non sono ornamentazioni, ma segnali di un pensiero che oscilla tra introspezione e osservazione etica. La poesia ci fa sentire la tensione tra passato e presente, tra impossibilità di tornare indietro e la novità di un tempo che si apre davanti. È una meditazione sull’inevitabilità della trasformazione interiore, resa con una delicatezza quasi clinica, ma sempre poetica.
  • Jaime Luis Huenún Villa – “Puerto Trakl [Frammento #3]”

La poesia qui è incarnazione di fragilità e autoironica vanità. Il poeta si colloca come un interprete di sagre e osterie, ma lo fa con consapevolezza del proprio limite, del gesto ripetitivo e quasi teatrale. La mareggiata che “copre il rumore della voce” funziona come metafora della resistenza del mondo al gesto poetico individuale: ogni parola, per quanto intensa, rischia di essere inghiottita dall’oceano della realtà. Il gesto finale, il richiamo alle “monete” invece che agli applausi, ci parla di una poetica umile e radicalmente onesta: qui non si cerca riconoscimento, ma sopravvivenza dell’atto creativo stesso. C’è una tensione fra teatralità e autenticità, fra vanità e devozione al verso, che mi pare profondamente contemporanea.


  • Franco Fronzoli – “A piedi scalzi”

Il testo possiede una luminosità sensuale e meditativa. Il corpo e il paesaggio si fondono: i piedi scalzi sull’erba e nell’acqua diventano strumenti di percezione del tempo e dello spazio. Qui il poeta non racconta, ma fa vivere: l’atto poetico è esperienza diretta, immersiva. C’è una poesia della luce e del profumo che si intreccia a un erotismo delicato, mai aggressivo, dove il tempo si dilata nel silenzio di un giorno qualunque. La costruzione, apparentemente semplice, rivela una gestione magistrale dello spazio visivo e sensoriale: il lettore è chiamato a camminare accanto al soggetto poetico, a respirare con lui.


  • Salvatore Armando Santoro – “Al caffè Bernardini”

Qui, la poesia assume un ritmo quasi cinematografico, un reportage interiore: ogni dettaglio quotidiano diventa elemento di introspezione. Il soggetto è al contempo interno ed esterno, immerso nella propria solitudine eppure osservatore del mondo che scorre. Il rapporto con il cellulare, il gesto della scrittura, la gente che entra e passa: tutto è simbolo della tensione tra comunicazione e isolamento. È poesia che unisce realismo e lirismo, come se la realtà quotidiana fosse una pagina aperta su un’esperienza emozionale più ampia, un’indagine psicologica sulla solitudine e sul desiderio creativo.


  • Marino Spadavecchia – “Gloria al bravo pueblo”

Spadavecchia ci conduce in una geografia morale della sofferenza collettiva: il tempo è un “metronomo inclemente” che non concede tregua, e la società appare come un teatro in cui il burattinaio muove le esistenze con cinica leggerezza. La poesia ha una struttura di accumulo: ogni strofa aggiunge un livello di empatia e angoscia, dai vecchi ai giovani, fino a mostrare l’intera umanità come “pause itineranti” in attesa di libertà. Qui la tecnica è dichiaratamente narrativa, ma l’intensità emotiva è lirica, il tono drammatico senza mai cedere al melodramma. C’è un’urgenza morale che risuona come un eco antico e contemporaneo insieme, in cui la poesia diventa testimonianza sociale.


  • Cristiano Berni – “Raffigurazioni di Vincent”

Berni entra in uno spazio mentale e visivo: ogni verso è un pennellata, ogni parola un colore. La poesia è un tentativo di incarnare il tormento, la genialità e la follia di Van Gogh, e diventa al contempo meditazione sulla creatività, sul dolore e sull’alienazione. L’uso di ripetizioni e variazioni (“Raffigurazioni di Vincent”) ha un effetto ipnotico: il lettore percepisce il ritmo ossessivo della pittura e della mente del pittore. Il linguaggio è sensoriale e quasi sinestetico: il suono dei colori, le immagini dei corvi, il richiamo alle sedie vuote, tutto concorre a far sentire il peso della vita e l’ossessione dell’arte. Qui la poesia non racconta, evoca, penetra nell’inconscio del lettore come un colore che ti sfiora la pelle.


  • Silvio Canapè – “Settembre”

Canapè lavora con la percezione sensoriale e temporale: la pioggia, i vetri appannati, l’asfalto e la luce diventano strumenti per sondare l’anima. C’è un equilibrio tra realismo e interiorità lirica: il paesaggio esterno riflette lo stato emotivo interno. La malinconia è sottile, mai declamatoria, e il desiderio di un singolo raggio di sole funziona come micro-epifania, un momento di grazia nel flusso della realtà quotidiana. Qui il linguaggio è quasi pittorico, come una natura morta in movimento, dove la poesia nasce dalla capacità di vedere la trasformazione continua delle cose.


  • Enrico Tartagni – “Spirito libero”

Questo testo ha una forza esistenziale potente: la sintassi frammentata, la mancanza di punteggiatura e il ritmo spezzato rendono la lettura un’esperienza immersiva e quasi corporeamente faticosa, come il cammino del poeta stesso. L’io lirico è alla ricerca di libertà, di uno spazio in cui l’anima possa librarsi, e la notte, il buio, il vuoto diventano strumenti di trascendenza e liberazione interiore. È una poesia che fonde esperienza, introspezione e meditazione filosofica: il lettore non è spettatore, ma compagno di viaggio, costretto a confrontarsi con il vuoto e con la tensione verso la libertà.


  • Felice Serino – “Dove bellezza fiorisce”

Serino ci porta in una dimensione quasi trascendentale: il poeta diventa testimone di una bellezza che si piega alle curvature della luce, sospeso tra armonia musicale e contemplazione visiva. L’ascolto di Shostakovich non è semplice accompagnamento, ma strumento di fusione tra suono e parola. La poesia funziona come una sinfonia lirica breve: ogni parola pulsa come una nota, ogni verso è un gesto delicato, un fremito che vibra sul cuore del lettore. È un testo in cui spiritualità, arte e sentimento si intrecciano senza soluzione di continuità.


  • Armando Bettozzi – “Un fatto, una poesia / in sòrdi, senz’àrtro…”

Qui l’ironia e la denuncia sociale si fondono in un dialetto vivo, pulsante, che dà voce a chi paga il prezzo della “cultura” istituzionalizzata. Bettozzi utilizza la forma popolare per scalfire il sistema e la retorica ufficiale, creando un effetto di autenticità immediata. La scrittura diventa quasi performativa: il lettore sente la voce, le pause, le frustrazioni, i sorrisi amari. La poesia qui è impegno civile, linguaggio politico e psicologia sociale condensati in versi che respirano realtà quotidiana e satira feroce.


  • Sandra Greggio – “L’ultimo raggio”

Greggio ci conduce in un lirismo dolce e meditativo. La metafora del sole che “ritira i suoi raggi” diventa un gesto di consolazione: la natura osserva e accompagna la vulnerabilità dell’uomo. La poesia è calma, pacata, con un ritmo quasi musicale, dove l’atto poetico diventa cura e conforto. Ogni immagine funziona come carezza: la lacrima asciugata, il sorriso preparato, la notte che scende. Qui la poesia è gentilezza e presenza, e il tempo si piega per far spazio alla protezione del cuore umano.


  • Jacqueline Miu – “abissi di mari spesso temuti da altri pescatori”

Qui si entra in un territorio esistenziale e psicologico molto intenso. L’io lirico avverte un dolore fisico che si trasforma in esperienza emotiva e mentale: ciò che resta di “lui” diventa idea, e l’idea si nasconde, gioca, si manifesta in sorrisi. La poesia esplora la distanza tra interno ed esterno, tra delirio personale e mondo circostante, e la scelta di “non rispondere alla paura” diventa atto di libertà. Il linguaggio è contemporaneo, fluido, sospeso tra simbolismo e narrazione, e la traduzione in inglese amplifica la dimensione universale del testo. È un poema che vive nel liminale, tra consapevolezza e sogno, tra pericolo e coraggio.


  • Antonia Scaligine – “Il tempo”

Scaligine sviluppa un lirismo che fonde memoria e affettività, dove il tempo è sia avversario sia custode di emozioni. Le immagini dei “palette e secchielli” sulla battigia dei ricordi creano una sinestesia dolce, in cui l’infanzia e la maturità dialogano senza contraddizione. La poesia è un flusso di coscienza poetico, che alterna nostalgia, leggerezza e contemplazione. L’io lirico diventa una nonna che osserva il tempo con gratitudine e malinconia, e ogni dettaglio – dagli occhiali da sole al mare negli occhi – funziona come simbolo di un ricordo vivente. La scrittura ha ritmo naturale, quasi musicale, capace di trasportare il lettore dentro il calore della memoria affettiva.


  • Piero Colonna Romano – “Ebbrezza d’amore”

Romano crea un lirismo estatico che unisce desiderio, natura e celebrazione della bellezza condivisa. L’uso di immagini sensoriali – boschi odorosi di pino, foglie bagnate di pianto, bicchieri ricolmi di stelle – costruisce una poesia che è simultaneamente contemplazione e manifestazione di sentimento. L’io lirico si pone come intermediario tra natura e persona amata, trasformando ogni elemento in dono poetico. La musicalità dei versi e la loro levità rendono la poesia luminosa e sospesa, come un brindisi fatto a un tempo fuori dal tempo.


  • Ciro Seccia – “Come una foglia trasportata dal vento”

Seccia si muove nel registro della passione e della perdita. La poesia è un dialogo interiore tra memoria e rimpianto, tra desiderio e impotenza. L’immagine ricorrente della foglia trasportata dal vento rende visibile la precarietà dell’amore e la fragilità dell’attimo. I dettagli sensoriali – labbra, capelli, sorriso – e la metafora mitologica di Medusa conferiscono profondità psicologica: l’io lirico è paralizzato di fronte all’intensità dell’emozione. Qui la poesia è intensamente esistenziale, una mappatura dei sentimenti che rimangono sospesi tra cielo e terra.


  • Alessio Romanini – “Orme obliate”

Romanini offre una meditazione sul tempo e sulla memoria con un registro più asciutto, quasi filosofico. L’analogia tra mare e tempo (“che le impronte dalla riva cancella”) è potente nella sua semplicità: le esperienze e le ricordanze sono fragili, destinate a svanire, ma proprio questa fugacità le rende preziose. La sintesi del linguaggio e l’eleganza sobria del verso creano un effetto di meditazione contemplativa, in cui il lettore percepisce la dolcezza e la malinconia della perdita inevitabile.


Un caro affettuoso saluto dal vostro

Ben Tartamo

 

 

 

1-2-3 Settembre

Ringraziamento
 

Sono commosso,

Egregio Ben,

fino all'osso.

Col poco braccio che ho 

ti stringo

a più non posso.

bruno amore [br1]

 

 

Bettozzi compone un pamphlet poetico in dialetto romanesco, nella tradizione civile e corrosiva di un Belli contemporaneo. L’autore usa un registro popolare per toccare temi estremamente alti: il disincanto verso l’Unione Europea, la manipolazione della realtà nei media, e la contraddizione italiana dell’autosabotaggio politico.
Il verso è spezzato, sincopato, eppure sempre ritmicamente controllato: è poesia parlata, ma con l’occhio vigile di chi sa scrivere, e molto bene.

Questo è un testo che grida sotto la risata, in cui si legge una rabbia ancestrale, un orgoglio ferito, ma anche una lucidità spaventosa. Il poeta vive in un mondo che mente sapendo di mentire, e ciò che lo colpisce di più non è tanto la menzogna, quanto l’adesione naturale e spontanea ad essa da parte della gente comune.

Ma c’è di più. In Bettozzi si avverte la solitudine di chi vede troppo. Come un vecchio saggio che nessuno vuole più ascoltare, resta a sorvegliare le "favole" credute da tutti: alcune sono innocue, altre sono pericolosamente dolciate, e diventano strumenti di potere.

Una mente acuminata, che ha scelto il dialetto non per fuggire, ma per smontare dall’interno le illusioni condivise.
Un’anima politicamente disillusa, ma ancora umanamente vigile. Qui parla uno scettico etico, non un cinico.


 

Questa è una poesia che si muove su un registro completamente opposto. Qui domina la trasparenza emotiva, la delicatezza pensante, il ritmo meditativo. Il linguaggio è semplice, ma la costruzione concettuale è raffinata. La poesia si articola intorno alla paura — paura esistenziale, non momentanea — che si fa tarlo, freno, ginocchio piegato.

C'è un climax silenzioso, che parte dall’insicurezza interiore e arriva a una grazia quasi religiosa. L'ultima strofa è una rivelazione: solo nel momento in cui la nostra importanza è divenuta “così piccola”, possiamo osservarla con amore.

Qui parla una coscienza vulnerabile, probabilmente sopravvissuta a molte delusioni, ma non ancora chiusa. Il tarlo adolescenziale evocato non è nostalgia, ma ferita ancora aperta. L’autrice sembra voler guarire attraverso la parola, cercando nella scrittura una nuova luce per vedere se stessa con pietà, come un soggetto che ha smesso di volersi dominare per cominciare a volersi comprendere.

Una poesia che sembra nascere da una seduta interiore.
Un’anima fragile ma consapevole, che trova nella resa il vero coraggio.
Testo di commovente bellezza, quasi terapeutico nella sua struttura.


 

Huenún, poeta cileno mapuche, scrive una lirica scarna, scultorea, intrisa di solitudine e diaspora. Il titolo evoca Georg Trakl, poeta austriaco del primo '900, simbolo di inquietudine e rovina interiore. E già questo orienta la lettura.

Qui siamo su un molo, metafora dell’attesa e dell’abbandono. Il poeta fuma, guarda un mercato vuoto, ricorda i figli come se appartenessero a un’altra vita. La paternità è “calata a picco”: crollo dell’identità, del ruolo, del futuro. Eppure, proprio in questo vuoto, si apre una "porta oscura" che è l’amore, ma non un amore redentore – piuttosto un varco da attraversare inchinandosi: con umiltà, forse con dolore.

Questa poesia è una liturgia dell’esilio interiore.
Il poeta ha perso i legami fondamentali, o li sente come fantasmi al margine del presente. La sua è una fuga senza ritorno, ma intrisa di dignità silenziosa.
L'amore non è qui un sentimento romantico, ma un'invocazione sacra, una soglia. Il suo inchinarsi davanti a essa è il gesto di chi, pur svuotato, riconosce ancora una forma di bellezza o di giustizia nell’universo.

Un testo da leggere in silenzio, come si ascolta l’ultimo canto di una civiltà interiore.
L’autore sembra appartenere a una razza in via d’estinzione: quella dei padri poetici, degli esuli, dei degni.
L’anima che scrive qui ha già pagato il prezzo del dolore, ma sceglie di restare umana.


 

Questa poesia è un’invocazione contemplativa. Tutto il componimento si regge sulla ripetizione del verbo "ascolta", come un mantra laico che invita alla presenza, alla lentezza, all’attenzione. La sintassi è sospesa, volutamente fluida, come un respiro ampio che si prende il suo tempo, mentre scorre tra immagini naturali e intime.

C’è qualcosa di mistico in questo ascolto del mondo: l’acqua, i fiori, gli animali, persino i sogni e il silenzio diventano portatori di senso. La poesia è scandita come una litania sensoriale: il rumore della pioggia, il volo della rondine, la clessidra del tempo...

Qui parla una mente che ha smesso di urlare. C’è una saggezza profonda e silenziosa, simile a quella degli antichi, di chi ha capito che tutto parla, se solo siamo capaci di ascoltare. L'autore si pone come un maestro invisibile, non arrogante, ma capace di indicare un altro modo di stare al mondo.

Una poesia-rito, che disintossica.
L’autore ha un’anima immersiva, che si lascia attraversare dal reale.
È un invito a rallentare, ma anche una piccola rivoluzione percettiva.


 

Questo testo è una confessione, una lettera in versi scritta con l’urgenza e la disperazione di chi ha amato in silenzio, invisibile, e si è visto ignorato.
La costruzione è narrativa, lineare, con rime dolciastre e malinconiche, come la voce di un vecchio amico che non riesce a smettere di sperare.
Il verso "un volto al nulla" è uno scarto poetico potente, che trascende la vicenda individuale e apre su un abisso esistenziale.

Il poeta è un uomo solo, ma non rassegnato. C'è in lui una sete d’amore quasi adolescenziale, una voglia di essere visto, sentito, accolto.
La figura femminile (Donatella) diventa simbolo di tutte le presenze inafferrabili, quelle che ci lasciano sospesi, abbandonati al nostro desiderio.

Una scrittura che si aggrappa come un naufrago alle parole.
C’è fragilità emotiva ma anche forza di sentire, e questo lo salva.
Il poeta non si nasconde: espone le sue crepe come pelle viva.


 

Qui abbiamo una poesia esistenziale, costruita in modo limpido e diretto.
Il tramonto è simbolo del tempo che si consuma, ma anche dell’anima che si ritira, che si specchia nella propria stanchezza.
Lo stile è prosastico, volutamente poco lirico: il poeta descrive la vecchiaia come un'abitudine che diventa memoria, e ciò la rende ancora più struggente.

L’autore si trova in una fase di consapevolezza lucida, che non teme la morte, ma rimpiange il fuoco del passato. Non c’è rabbia, ma una dolente dignità.
Anche la cena, la TV, il sonno… sono rituali svuotati, eppure vissuti con rispetto.
Il vero rito, però, è quello che avviene nel buio: quando si aprono gli squarci di memoria.

Una voce che non cerca effetti, ma verità tranquille.
L’anima è stanca ma vigile, pronta a lasciar andare, ma ancora affamata di senso.


 

Qui siamo davanti a una poesia civile complessa e potente, che racconta il dopoguerra della coscienza collettiva.
L’autore attraversa la parabola storica dell’Italia – dal risveglio post-fascista alla degenerazione della libertà – con linguaggio alto, carico di pathos, e immagini suggestive: “finestre e balconi all’aria nuova”, “volammo nella vita come fanno i sogni”.
Il finale è di una bellezza amara: “perderemo il più bell’azzurro mai desiato / che neppure il più nobile harakiri avrà pagato.”

Qui scrive un testimone. Non solo uno che ricorda, ma uno che ha sofferto vedendo la speranza sfigurarsi nel tempo.
C’è una tensione drammatica tra l’ideale (quell’azzurro, la libertà) e la delusione storica e morale. L'harakiri finale non è un gesto di morte, ma un simbolo di dignità perduta.

L’autore porta il lutto di un’epoca, ma non si arrende alla nostalgia.
È un reduce della speranza, che continua a parlare per non dimenticare.
Qui l’anima è politica nel senso più alto e più doloroso.

 


 

La poesia si presenta come una riflessione filosofica sulla condizione umana e il suo rapporto con il tempo. Il poeta parla di un viaggio senza fine verso certezze che sono, alla fine, irraggiungibili. La foresta incantata è un'immagine potente che simboleggia la ricerca perpetua di qualcosa di stabile, ma il tempo si trasforma in una forza devastante e ingannevole. Il movimento da "cavalieri erranti" a "un Attimo" che scompare come un lampo suggerisce l'illusorietà della ricerca stessa.

La struttura della poesia, che gioca con l'accumulo di immagini, suggerisce un crescendo di frustrazione, mentre il tema del "tempo vorace" è il motore che distrugge ogni speranza di raggiungere certezza.

Esiste una profonda ansia nel poeta, come se fosse prigioniero di un tempo che fugge e si dissolve. L'immagine della "ragnatela grigia" è quella di una trappola mentale, di una pesantezza esistenziale che incatena l'individuo alla sua ricerca senza fine. La metafora degli "Attimi" che appaiono e svaniscono è un simbolo della nostra incapacità di afferrare il presente in tutta la sua pienezza.

La poesia rivela un'esperienza di alienazione e di frustrazione esistenziale. Un’anima senza ancore in un tempo che frana.


 

La brevità della poesia crea un impatto conciso e diretto, utilizzando una struttura quasi apodittica, con una descrizione dell'uomo come "celeste" e "terreno". Questi aggettivi definiscono un doppio esistenziale, un conflitto tra dimensioni che convivono nell'individuo. Il verso "l’essere sdoppiato" sembra richiamare l’immagine di una frattura interna, dove l'essere umano è costretto a fare i conti con due identità, due mondi, quello divino e quello terreno.

La poesia si sviluppa in poche righe, ma ci offre una riflessione sull'esistenza come un costante confronto tra opposti, tra il divino e l’umano, tra l’invisibile e il visibile.

Qui si percepisce la tensione che nasce dalla consapevolezza di vivere in un corpo terreno, ma con un’aspirazione celeste, che non è mai del tutto soddisfatta. L’ombra proiettata è il dubbio, l'incompletezza che accompagna l’essere umano. Questa poesia potrebbe riflettere la difficoltà di integrarsi pienamente tra il desiderio di elevazione spirituale e la realtà quotidiana.

Una poesia che esplora l’interiorità divisa. Il poeta è in bilico, ma accetta questa divisione come parte integrante della propria ricerca di senso.


 

Il tono della poesia è doloroso e struggente, con immagini di un cuore che non trova pace. Il poeta si immerge nella sofferenza dell’amore perduto, cercando di colmare un vuoto che sembra irraggiungibile. Il riferimento all'"alma piangente" richiama l’immagine di un'anima tormentata, mai soddisfatta, che continua a cercare un frammento dell’amore perduto.

La poesia ha una struttura lirica, con versi che cadono lentamente come lacrime che cercano di dare voce al dolore. La ripetizione di termini legati all'amore e alla perdita crea una sensazione di incastro emotivo, dove la nostalgia è una compagna costante.

Il poeta è diviso tra il ricordo di un amore passato e il desiderio di una riedificazione dell'amore stesso. L’immagine della donna delle "mie brame" è un simbolo di un amore idealizzato, ormai inaccessibile. La sensazione che traspare è quella di un vuoto esistenziale, dove la persona amata diventa il segno di una mancanza ontologica. Il poeta è intrappolato in un giro vizioso: l’amore lo salva, ma lo consuma allo stesso tempo.

Una poesia che esplora l'incapacità di superare il passato. È un’anima prigioniera della nostalgia, che cerca redenzione nel dolore.


 

In questo testo, l’autrice solleva una questione fondamentale: l'amore è un sentimento innato o qualcosa che dobbiamo imparare? La domanda esistenziale si sviluppa attraverso immagini semplici ma potentemente evocative, come le "nuvole" che passeggiano nel cielo e l’ora del tramonto, un tempo di transizione. La ricerca della risposta si manifesta in una contemplazione silenziosa, con la poesia che assume la forma di un "quesito" mai risolto.

Il tono è riflessivo e sospeso, e la scelta di utilizzare il cielo come metafora universale per rispondere a un tema esistenziale universale come l’amore, trasforma la poesia in un dialogo cosmico.

Il poeta sembra essere alla ricerca di un senso più grande, come se l’amore fosse qualcosa che sfugge alle definizioni, un mistero che può essere esplorato ma mai completamente compreso. C'è un'inquietudine nella domanda, un desiderio di comprendere e di dare un ordine razionale all'irrazionale. La risposta non arriva, e il poeta si arrende alla misteriosa complessità dell’esistenza.

L’incertezza esistenziale è palpabile. La poetessa non cerca una risposta definitiva, ma invita alla riflessione senza fine.


 

L'uso della pioggia e dell'oscurità come metafore di un desiderio inconfessabile rende questa poesia unica. La pioggia porno diventa una metafora della lucrativa solitudine e sensualità, mentre l'oscurità che penetra come un fumogeno richiama la tensione tra il corpo e l'anima, tra l'istinto animale e il bisogno di qualcosa di più profondo. La conclusione con l'idea che, nel buio, si desideri ardentemente la luce, è un'espressione di confusione emotiva, dove l'uomo è intrappolato tra piacere e dolore, desiderio e frustrazione.

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Questa poesia evoca nostalgia e speranza. Il mese di settembre è simbolo di fine estate, ma anche di nuovi inizi. C'è una forte contrapposizione tra il ritorno alla scuola, con i sogni e le gioie dell'infanzia, e il passaggio del tempo che maturerà le cose, come la vite che da acerba diventa vino. L'immagine della sabbia che si trasforma in castelli, e gli scolari pieni di sogni, è potente e rappresenta il continuo alternarsi di crescita e perdita. Settembre è quindi una riflessione sul ciclo della vita, che si adagia alla nostalgia, ma che non impedisce ai sogni di essere ancora cullati dalle onde del ricordo.

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In questa poesia c'è un'incredibile meditazione sulla morte e sull'esistenza. Il mare diventa un simbolo di malinconia e bellezza, di un qualcosa che si perde nel flusso del tempo, e che non sarà più accessibile nell'aldilà. Il poeta si confronta con l'idea della morte come un passaggio verso l'ignoto, ma non senza lasciare dietro di sé interrogativi: "Qual è il senso di questo viaggio?". La riflessione sugli atomi che restano, come se l'essere umano fosse solo una combinazione di elementi che si disperdono, è un richiamo all'incredibile transitorietà della vita, mentre l'idea di "frammenti verso le stelle" suggerisce una ricerca metafisica di immortalità.

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Questa poesia si apre con una bellezza lirica che esprime il passaggio dalla vita alla morte come una continua oscillazione tra l'interno e l'esterno. La brezza fatta di sguardi che invade l'animo suggerisce la potenza dei sentimenti che, in modo delicato ma profondo, travolgono il poeta. La spuma dell'onda rappresenta l'energia vitale che si dissolve in un "fragore" dell'anima, un forte contrasto tra il desiderio che si libera e la tristezza che si nasconde nella lacrima. La chiusura con l'immagine di lasciare il corpo per raggiungere l'infinito dà alla poesia un senso di trascendenza, come se la morte fosse solo un passaggio verso un'unione più profonda con l'universo.

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Con affetto e stima

Ben Tartamo

 

 

«Icona d’Amore» 

Eccoci davanti a un inno che si erge come preghiera e canto, quasi un salmo laico e mistico insieme. Già dal titolo, Icona d’Amore, percepisco la tensione verticale: l’amore non è più semplice sentimento terreno, ma immagine sacra, “icona” appunto, finestra spalancata sul trascendente.

Il poema si costruisce in strofe che respirano in invocazione, quasi una litania: “Amore, che mi hai atteso… / Amore, che ti struggi… / Amore, che sei vita…”. L’anafora (“Amore”) diventa campana che batte nel cuore e nel cosmo: il poeta non descrive, invoca; non spiega, prega. Qui la parola non è analitica ma liturgica.

Sul piano psicologico, si avverte il dialogo tra due dimensioni: da un lato la fragilità dell’uomo (“che tutto è un soffio… che passa e fugge”), dall’altro l’anelito a una presenza eterna che non inganni, che non lasci “solo incanto” ma diventi sostanza. La tensione è tra fugacità e assoluto: il poeta si aggrappa al vento che strazia e brucia, ma lo trasfigura in segno di eternità.

Vi è inoltre un tratto profondamente metafisico: l’Amore qui è persona, potenza, fuoco, vento, mare, creatore. Non è eros soltanto, ma Agápe cosmica, principio generatore che tesse e scioglie i destini. L’ultima strofa è un’esplosione d’abbandono: “null’altro sappia fare / che amare, sì… che amare”. Qui la poesia diventa auto-annientamento mistico: l’io non vuole più esistere se non nell’atto stesso di amare, come una candela che non conosce altra vocazione che bruciare.

C’è anche un respiro biblico, quasi paolino: “se non ho l’amore, non sono nulla”. Eppure la voce non si perde nella dottrina: resta carne, vento, fiamma viva.

Il lettore sensibile sentirà che questa poesia non è costruita per esercizio, ma scaturisce da un’urgenza: l’autore cerca un Amore che giustifichi la vita, che non tradisca nella sua mutevolezza. È come se Tartamo alzasse una icona verbale davanti agli occhi: non dipinta con tempera e oro, ma con respiro e invocazione.

In sintesi: un testo che ha la solennità di un inno e la fragilità di una confessione, dove ogni verso non si limita a cantare l’amore, ma ne implora il volto eterno.

prof. Marino Spadavecchia

 

 

Commento alla Poesia di Felice Serino
Bellezza e' apice dell'essere.
Accanto a lei l'uomo s'eleva, capendo che la vita e' lei stessa bellezza. Un mezzo, dunque, la bellezza per l'uomo, dove, in questa breve pennellata poetica e' rappresentata come un mondo, che naturalmente la poesia deve far intendere e non svelarne subito il contenuto, quindi, far immaginare a sua volta.
Laura Toffoli

 

 

26-27-28 Agosto

  • Salvatore Armando Santoro – “Ciechi”

Santoro ci mostra l’amore come esperienza dolorosa e totalizzante. Le donne “cieche” non vedono la realtà che le circonda, ma vivono profondamente la propria percezione del sentimento. L’io poetico diventa osservatore di un mondo di inganno e fragilità emotiva: l’amore profondo convive con disgusto e nausea, con la consapevolezza che la propria dedizione può non essere corrisposta.

La poesia è crudele, diretta, con un linguaggio fisico e quasi corporeo (“nausea che il Plasil non basta a fermare”), e allo stesso tempo metafisica: il cuore umano viene scandagliato come un mare di emozioni contraddittorie. Qui, l’anima del poeta emerge come veggente dei sentimenti, capace di leggere la verità nascosta dietro i gesti e le parole.


  • Felice Serino – “Poesia che nasci”

Serino ci riporta alla dimensione archetipica della poesia stessa: nascita, fragilità, viaggio. La metafora della barchetta di carta sui flutti evoca la precarietà dell’atto creativo, il rischio e la speranza insita nel fare poesia. L’anima del poeta è qui fragile e coraggiosa, sospesa tra luce e tenebra, tra il desiderio di realizzare un sogno e la consapevolezza dei pericoli del mondo.

Il testo si inserisce perfettamente nel filone della memoria e del tempo: la poesia nasce fragile, ma diventa veicolo di esperienza, conoscenza e trascendenza.


  • Armando Bettozzi – “Tesori”

Bettozzi esplora il tempo interiore, il ricordo e la continuità dei legami affettivi. I “tesori” sono esperienze e memorie che, anche quando apparentemente perse, continuano a vivere dentro di noi. La poesia evoca la nostalgia e la cura con cui l’io poetico preserva ciò che conta: le gioie semplici, i giochi dell’infanzia, le relazioni autentiche.

Qui la metafisica emerge attraverso il rapporto tra memoria e eternità: i ricordi diventano gemme, nodi luminosi che sopravvivono al tempo, capaci di illuminare anche il buio dell’esistenza.


  • Silvio Canapè – “Ammassati compatti”

Canapè ci offre una visione cosmica e simbolica: l’oscurità accumulata e compatta viene interrotta da un lampo di luce, effimero ma rivelatore. La poesia è breve, essenziale, ma potente: cattura l’istante in cui il reale e l’invisibile si toccano. La “perpetua sera” suggerisce l’eterna alternanza tra luce e buio, tra speranza e dolore, tra caos e ordine.

L’anima del poeta emerge qui come veggente del cosmo, capace di leggere nei mutamenti della luce e dell’ombra un significato più grande dell’esperienza umana.


  • Rosa Notarfrancesco – “Non hai nulla dell’indomani”

Qui l’io poetico esplora la complessità dell’amore e della percezione del tempo. La poesia ha un tono riflessivo, quasi filosofico, in cui l’“indomani” rappresenta il futuro pieno di possibilità e inganni, contrapposto alla purezza e immediatezza del sentimento dell’altro. La poesia diventa metafisica perché indaga la struttura stessa dell’esperienza amorosa: la gioia, l’illusione, il dolore, e la memoria si intrecciano in un tessuto che trascende il semplice vissuto per diventare riflessione sull’essenza dell’amare e del percepire il tempo.


  • Jaime Luis Huenún Villa – “Envio a Anahí”

Villa fonde elementi di sogno, natura e simbolismo. La poesia è immersiva: il sogno diventa realtà, e la realtà si riflette nel sogno, con una dimensione quasi onirica e cosmica. Gli elementi naturali (fagioli, farfalle, liepri) e l’atto di cogliere fiori nei libri di poesia evocano una sacralità della vita quotidiana e un’adorazione dell’attimo. La morte, contemplata come scrittura dell’acqua sull’acqua, è percepita come parte del ciclo vitale, non come fine: una meditazione metafisica sulla caducità e sull’inalterabile bellezza del vivere.


  • Cristiano Berni – “Pègaso”

Berni esplora il conflitto tra desiderio di libertà e timore di osare. Il cavallo alato diventa metafora di elevazione spirituale e gioia potenziale: la poesia è un invito alla liberazione dei sentimenti più puri. L’io poetico osserva una giovane donna intrappolata nella paura, trasformando la scena in un’allegoria della condizione umana: la vulnerabilità e il desiderio di spiccare il volo rappresentano la tensione tra ciò che l’anima vuole e ciò che la mente teme. La poesia fonde realismo psicologico e simbolismo metafisico.


  • Franco Fronzoli – “Vita”

Fronzoli cattura la totalità dell’esistenza attraverso un elenco di frammenti, che oscillano tra il quotidiano e l’eterno. Ogni oggetto, emozione o evento diventa simbolo della complessità della vita: la poesia diventa un mosaico in cui gioia, dolore, ricordi e istanti minimi convivono, riflettendo la percezione del tempo come concatenazione di attimi. La forza metafisica emerge nella consapevolezza che ogni elemento, anche il più effimero, partecipa al disegno complessivo della vita, che è insieme nulla e tutto.


  • Piero Colonna Romano – “Rosa e di raso”

Qui il lirismo è immerso nella celebrazione della femminilità e della grazia. La poesia ha una musicalità quasi barocca: i versi accarezzano l’orecchio come le immagini accarezzano l’occhio. La “rosa e di raso” diventa simbolo di purezza, bellezza e delicatezza spirituale, mentre la memoria del nascere e la grazia concessa al mondo proiettano la figura femminile come un tramite tra umano e divino. L’autore crea una tensione tra l’amore terreno e quello quasi sacro, trasformando il sentimento in un atto di contemplazione metafisica.


  • Ciro Seccia – “Parla con me”

Seccia tocca temi di lutto, dolore e speranza. La poesia è un dialogo diretto, intimo e terapeutico con il figlio, un invito a uscire dall’ombra dell’incubo. La scrittura ha una qualità quasi liturgica: il “parla con me” è un appello all’anima a riappropriarsi della vita. Il linguaggio evoca metafore di nascita e rinascita, con immagini di luce che penetrano l’oscurità, simboleggiando la capacità di guarigione emotiva e spirituale.


  • Alessio Romanini – “Una foglia sul balcone”

Romanini combina il paesaggio naturale con la percezione sensoriale. La foglia diventa veicolo di un dialogo tra stagioni e sentimenti: la poesia è un’osservazione meditativa in cui la natura rispecchia lo stato d’animo del soggetto poetico. La musicalità del testo si avverte nell’onomatopea degli uccelli e dei suoni dei binari; la poesia diventa metafisica perché trasforma il quotidiano (una foglia, il balcone) in simbolo della transitorietà e della bellezza della vita.


  • Sandra Greggio – “La carezza del mare”

Greggio entra nella dimensione autobiografica e infantile, ricreando il rapporto tra memoria, identità e tempo. La bambina interiore che non osa tuffarsi nelle onde è metafora dell’anima che teme di affrontare l’ignoto, pur mantenendo una connessione profonda con la vita. La poesia è contemporaneamente emotiva e metafisica: il mare diventa simbolo di possibilità, crescita e paura, un luogo dove l’esperienza del tempo e dell’infanzia si fondono in una visione universale della vita.


  • Jacqueline Miu – “Poets and Lovers”

Miu esplicita l’idea che la poesia sia il battito vitale dell’umanità stessa. Non è solo il poeta a vivere nei versi, ma ogni essere umano che sogna, spera e ama. Qui la metafisica è evidente: la poesia è un medium tra l’individuo e l’universale, un dispositivo per illuminare l’anima, risvegliare i sensi e rendere tangibile l’invisibile. L’atto poetico diventa un rito di sopravvivenza spirituale.


Con stima e affetto
 

Ben Tartamo

 

 

 

 

 

23-24-25 Agosto

Sono davvero lusingata per la poesia che Ben mi ha dedicato e che coglie gli aspetti più positivi della mia personalità per cui lo ringrazio tantissimo e spero di poter ricambiare in un futuro non troppo lontano non appena la Musa mi darà l’ispirazione.  Grazie anche a Lorenzo che ci ospita in questo mare azzurro e a tutti i Sitani.
Sandra Greggio

 

 

Grazie Ben per i tuoi commenti danno anima e essenza ai versi. 
Grazie a Lorenzo che fa vivere la Poesia.
Silvio Canapè
 

 

 

  • Franco Fronzoli – “Non lasciamo che una giornata si consumi”

Questa poesia è un manifesto, un appello che sembra voler gridare dall’intimo dell’uomo verso l’umanità intera. Non è lirismo intimista, bensì etica poetica: 'non lasciamo' diventa ritornello, quasi una litania civile e spirituale. Fronzoli qui non parla solo d’amore, ma della difesa di tutto ciò che ci rende umani: il bacio, l’abbraccio, la libertà, la dignità, la poesia stessa.
L’anima del poeta è quella di un profeta laico, un uomo che avverte il pericolo della spoliazione del cuore e delle coscienze, e che oppone la fragile ma invincibile resistenza dei gesti semplici. La sua voce sembra dire: siamo vivi solo finché nessuno riesce a spegnere la luce nei nostri occhi.
Il messaggio è cristallino e insieme universale: la bellezza e la libertà sono i sacramenti quotidiani di cui non possiamo essere derubati.


 

  • Renzo Montagnoli – “Alla fine di una vita”

Qui si entra nel crepuscolo dell’esistenza. Non più un appello corale, ma il sussurro intimo della vecchiaia che si specchia nel proprio destino. Montagnoli mostra con lucidità psichiatrica e tenerezza disarmata ciò che abita gli ultimi anni: il rifugio nel passato, il timore del “capolinea”, l’illusione di continuare a stringere ciò che inevitabilmente sfugge.
Eppure, in mezzo alla malinconia, c’è la redenzione dell’essere in due. Il poeta lo sa: anche nel dolore, anche nell’egoismo di chi vorrebbe “lasciar per primo” per non sopportare la solitudine, la presenza condivisa è già salvezza.
Il testo è di una onestà crudele e tenera insieme: alla fine di una vita, ciò che resta non è la gloria, non è il possesso, ma la mano dell’altro che stringe la nostra, a resistere insieme al tempo.


 

  • Salvatore Armando Santoro – “Autunno colpevole”

Santoro prende l’autunno e lo trasforma in un imputato esistenziale: stagione come colpa, come processo naturale che diventa allegoria del disincanto. L’autunno non è solo cadere delle foglie, ma arrugginirsi del cuore, sonnolenza della mente, scorrere implacabile del tempo.
Eppure, nella malinconia, il poeta non cede al nulla: già intravede l’attesa della primavera, la resurrezione del verde, e soprattutto l’immagine salvifica di una donna “piena di vita e ricca d’allegria”.
Qui la psicologia si fa chiara: il poeta trasfigura la natura nei suoi stati interiori, ma affida la redenzione non solo alle stagioni, bensì all’incontro con l’alterità amorosa. Nonostante la consapevolezza del tempo che corre via, la vita si rinnova in quell’attimo di sorriso che la donna gli riporta.


 

  • Felice Serino – “In ondivaghi spazi”

Un lampo, un’epifania, un haiku metafisico. Serino, con pochissime parole, spalanca un orizzonte cosmico. “In ondivaghi spazi” ci trasporta in una dimensione oltre il sensibile, dove le “ali d’angeli” non si posano sulla terra, ma lasciano cicatrici di luce “nella carne del cielo”.
Il verso breve, essenziale, quasi biblico, si fa simbolo di una visione: l’invisibile che irrompe nell’immenso, l’eterno che imprime un segno nel tempo.
Qui l’anima del poeta non parla dell’uomo, ma del cosmo. È poesia come rivelazione, sguardo profetico che non descrive ma evoca, non narra ma apre fenditure nel silenzio.

 

  • Armando Bettozzi – “L’inganni”

Qui troviamo un canto epico e popolare insieme, una commistione di lingua vernacolare e archetipi biblici che rimanda al mito originario del peccato. La voce del poeta è ironica, graffiante, ma profondamente lucida nel cogliere la follia e la ripetitività dell’umano: Adam ed Eve non sono più individui isolati, ma simboli di miliardi di persone intrappolate in una rete di inganni seriali, di “serpentacci” quotidiani che assumono le forme di media, politici, poteri invisibili.
L’anima del poeta qui è tragica e satirica insieme: non c’è condanna morale astratta, ma una visione psichiatrica della società come organismo malato che ha interiorizzato l’inganno. La struttura verbale, con i “co” e gli apostrofi che imitano il parlato, avvicina il lettore alla coralità di questo dramma, rendendo la poesia quasi orale, epica nella sua moralità distruttiva e nel suo ritmo di accento popolare. È una metafora del presente che diventa cosmica, una denuncia morale intrisa di humour nero.


 

  • Silvio Canapè – “Amore Amore”

Canapè, invece, abita uno spazio completamente altro: la poesia è delicatezza e sospensione, una contemplazione dell’amore in tutte le sue sfumature, da quelle più dolci a quelle più dolorose. L’anima del poeta si manifesta come sensibile percezione del mondo: gli astri, il mare, i boschi diventano strumenti di risonanza interiore, amplificando un sentimento antico e universale.
Qui il ritmo è musicale, quasi canoro, e la struttura dilatata dei versi simula il respiro stesso dell’emozione. La psichiatria della poesia emerge nella tensione tra desiderio e repressione, tra il non detto e il pianto disperato: Canapè ci mostra l’amore come esperienza fisica, sensoriale, ma anche come processo di riflessione interiore, un indagare l’anima attraverso la natura e la memoria dei sensi.


 

  • Rosa Notarfrancesco – “Dell’amore il tempo”

Notarfrancesco sposta la lente verso un’introspezione più sospesa, quasi filosofica. Il tempo è qui protagonista e filtro dell’amore: non un mero sentimento, ma un’esperienza che si salda con la coscienza del presente e del passato. La poesia è ascendente e discendente insieme: il pensiero “scivola” nel dirupo dei ricordi e dei desideri, mentre la fretta dell’amore crea tensione e verticalità nel verso.
L’anima del poeta è qui meditativa, quasi mistica, come se il cuore si misurasse contro il tempo stesso. C’è una delicatezza clinica, psichiatrica quasi: il poeta osserva l’emozione dall’interno, decodificandola, senza abbandonarsi all’illusione, ma cogliendo ciò che resta nell’oggi interrogato dalle verità del tempo.


 

  • Jaime Luis Huenún Villa – “En la casa de Zulema Huaiquipán”

Huenún Villa ci porta in un mondo concreto e insieme metafisico: la costruzione della casa diventa simbolo di memoria, di vita, di legame tra i morti e i vivi. Ogni oggetto, ogni tavola, ogni soglia è intrisa di tempo, di storia, di spiritualità. L’attenzione ai dettagli della natura — fiume, cieli, animali — si fonde con la fisicità della costruzione, creando una poesia che è architettura e canto insieme.
L’anima del poeta emerge nella capacità di fondere il mondo sensibile con quello interiore: ogni gesto quotidiano diventa gesto sacro, ogni ombra piantata nella rena è un segno di presenza, resistenza e memoria. La traduzione di Nino Muzzi conserva intatto questo equilibrio, rendendo la poesia accessibile senza snaturarne la densità simbolica.

 

Silenzi cattura la transitorietà della vita in un lampo, in un singolo istante sospeso tra luce e ombra. Il sentiero di terra battuta diventa metafora del cammino esistenziale, un percorso che termina non in una meta definita, ma in un pendio dolce dove il tempo si dissolve, lasciando spazio al “Fior di loto / Oblio / Profumo di vita”.
La poesia ha una qualità contemplativa, quasi mistica: l’anima del poeta si manifesta come una percezione delicata e fugace della realtà, come se cercasse di imprimere nel cuore del lettore l’eco di ciò che passa senza ritorno. L’istante diventa esperienza assoluta, condensato di memoria e consapevolezza, e la brevità dei versi amplifica il loro potere sospensivo.


 

Jacqueline Miu ci catapulta in un universo di simboli e immagini dense, dove l’emozione si fa visione fisica e psichica. Il “vespro rosso” non è solo tramonto: è un cuore che pulsa tra dolore e desiderio, una fusione tra interiorità e mondo esterno. L’uso di elementi come vulcani, oceani, microscopi alieni e tempeste rende il sogno concreto, quasi tangibile, mentre l’anima del poeta si dilata fino a inglobare l’universo.
La poesia diventa laboratorio di esperienza emotiva: l’io è simultaneamente preda e predatore, mare senza abissi, soggetto e oggetto della contemplazione. Qui il dolore, la malinconia e la ricerca dell’amore assumono una dimensione quasi sacra, mentre la tecnica visiva di Miu — immagini frammentate e potenti — induce nel lettore un senso di vertigine e di espansione interiore.


 

Colonna Romano celebra la bellezza come incanto quotidiano. Il sorriso descritto non è solo gesto fisico, ma catalizzatore di emozione e armonia universale. La poesia vibra di un lirismo classico, con rime e musicalità che enfatizzano l’incanto e la leggerezza.
L’anima del poeta è permeata di gratitudine e ammirazione, quasi religiosa nella devozione verso ciò che illumina la vita altrui. Il testo rivela la capacità della poesia di trasformare un momento ordinario in esperienza trascendente, e mostra come il sentimento amoroso possa essere elevato a gesto di generosità cosmica.


 

Seccia trasforma l’osservazione del mondo in denuncia e dolore universale. Le immagini forti — missili, distruzione, corpi frantumati — evocano un orrore reale, mentre l’io lirico cerca rifugio in desideri elementari: amore, cibo, un cielo sereno.
La poesia ha una dimensione etica e metafisica insieme: parla della brutalità del tempo storico, dell’ingiustizia e della fragilità della vita umana. L’anima del poeta appare straziata ma testimone, capace di esprimere non solo l’angoscia personale, ma il grido collettivo dell’umanità. La brevità e la ripetizione accentuano il senso di impotenza e urgenza, rendendo la voce poetica profondamente empatica e morale.

 

Romanini ci mostra il mare come testimone e custode di vite spezzate, diventando al contempo Sorella Morte e custode di compassione. La poesia è essenziale, quasi cristallina nella sua forma, ma potente nella risonanza emotiva: il mare diventa specchio della nostra coscienza, mentre ogni corpo restituito sulla spiaggia è un richiamo alla responsabilità morale dell’umanità.
L’anima del poeta è qui profondamente empatica, capace di trasformare la tragedia collettiva in esperienza simbolica. La struttura dei versi, frammentaria e ritmica, imita il respiro delle onde e l’oscillazione tra presenza e assenza, tra vita e morte. Il messaggio è universale: l’indifferenza umana è messa a nudo, e il mare diventa giudice silenzioso e maestoso.


 

Scaligine esplora il rapporto tra sogno e memoria, tra esperienza vissuta e desiderio di rivivere il passato. Il mare qui è luogo di fusione tra reale e onirico, tra perdita e nostalgia, un territorio dove il tempo si dilata e si dissolve. L’io poetico tenta di arrestare l’estate passata, di dischiudere la notte e di interpretare i sogni come realtà alternativa.
La poetessa mostra una consapevolezza psicologica raffinata: il sogno è terapia, inganno e rivelazione insieme. La nostalgia diventa strumento di introspezione, e la poesia agisce come ponte tra memoria e presente, tra desiderio e accettazione. L’anima del testo vibra di tensione emotiva e vulnerabilità, mentre la forma lunga e meditativa riflette l’oscillazione dell’io tra controllo e abbandono.


 

Greggio ci conduce in un paesaggio notturno di silenzi e profumi. La luna diventa interlocutrice e amante, il gelsomino diventa simbolo di connessione tra natura e emozione. L’anima del poeta appare immersa nel mistero, in un’intimità sensoriale che unisce silenzio, odore e visione: la poesia è incantamento, esperienza quasi sensoriale della realtà trascendente.
La struttura semplice e l’assenza di punteggiatura eccessiva amplifica l’effetto meditativo, come se il verso stesso fluisse tra i sensi e l’inconscio. Qui non c’è dolore sociale né ricordo struggente: c’è contemplazione e fusione tra l’io e il cosmo, tra presenza e assenza, tra luce e profumo.

Con affetto e stima

Ben Tartamo

 

 

 

19-22 Agosto

  • “Chi sei? Chi sono?” di Nino Silenzi

Questa poesia è una lama di vetro che frantuma l’identità: un dialogo impossibile con lo specchio, con il proprio volto che non si riconosce più. È l’angoscia moderna dell’io che si smarrisce, un grido esistenziale che ricorda Pirandello e le sue maschere, ma anche l’eco di Rimbaud con il suo “Je est un autre”. La sera che avvolge e l’alba che acceca diventano le forze cosmiche che smantellano ogni certezza. Il poeta ci consegna il dramma dell’estraneità a sé stessi: l’io diventa uno straniero, e forse proprio lì nasce la poesia, nel buio interstizio tra riconoscimento e perdita.


 

  • “Se saprai” di Franco Fronzoli

Qui l’anima si apre come un campo sconfinato: promessa d’amore che diventa viaggio iniziatico. Il poeta si fa guida, profeta amoroso che conduce l’amata oltre le soglie del mondo tangibile: dalle aquile al mare, dalle vette alla neve. È un canto che si avvolge su sé stesso con ritmo ipnotico, quasi liturgico, che ricorda le litanie dell’amore eterno. Ogni “Se saprai starmi vicina” è invocazione, quasi un mantra, che non chiede ma afferma: l’amore vero è condizione, è adesione, è complicità assoluta. Non è solo un dono, ma una iniziazione mistica, in cui l’amore si rivela come forza cosmica capace di unire stagioni, sogni e silenzi.


 

  • “La sera della pieve” di Renzo Montagnoli

In questa poesia si respira un tempo arcaico, intriso di sacralità contadina. La campanella che si diffonde nella valle non è solo richiamo religioso, ma vibrazione ancestrale che lega terra e cielo. Montagnoli sa restituire l’immagine di una comunità raccolta, fatta di scialli, pipe, ombre lunghe: un teatro di umanità che si muove dentro la cornice eterna della fede e della natura. C’è in questi versi una nostalgia per il sacro perduto, una liturgia della memoria che ricompone i passi dei vivi e dei morti sui lastroni consunti. E quando il rosario inizia, la poesia stessa diventa preghiera: il tempo profano è sospeso, e ciò che resta è il silenzio sacro dell’attesa.


 

  • “Andrea” di Salvatore Armando Santoro

Questa poesia è un dialogo con l’aldilà, un sorriso oltre la soglia della morte. Andrea appare con leggerezza disarmante: fuma, sorride, scherza, ironizza sulla vita che ha lasciato, eppure resta presente in un cappellino, in un sorriso sopra un comodino. Qui la poesia non indulge nel dramma della perdita, ma nell’intimità del ricordo, che diventa un filo ironico, complice, quasi cameratesco. Santoro ci restituisce la morte non come abisso ma come altra parte del percorso: “Io credo, la mia”, dice Andrea, e in quella frase c’è la saggezza semplice di chi sa che la vita è solo un tratto di cammino. È una poesia che consola, che ride nel dolore, che accarezza il lutto con la dolcezza del quotidiano
 

 

  • “Il nostro sì” di Felice Serino

Un testo essenziale, quasi aforismatico, che affonda la sua radice nel minimalismo poetico contemporaneo. Le parole sono pietre sparse, scolpite nello spazio bianco: ogni termine ha il peso di un cosmo. L’affermazione “noi siamo” diventa dichiarazione ontologica, che va oltre la fisicità, oltre la “terra che limita il volo”. È una poesia che sembra farsi preghiera nuziale, ma anche atto metafisico: il “sì” è insieme consenso d’amore e assenso alla vita, alla trascendenza. Serino, con il suo linguaggio asciutto, costruisce un canto che potrebbe stare inciso sul marmo di un altare interiore: il poeta ci dice che l’essere vince il vuoto, che l’anima è già oltre le sue catene materiali.


 

  • “A … ‘braccia aperte’” di Armando Bettozzi

Qui il tono cambia radicalmente: siamo nel vivo della satira civile, aspra, corrosiva, quasi dantesca nella sua fustigazione. Il “togato” diventa maschera di corruzione, di ipocrisia, di giustizia tradita. La rima morde, la cadenza incalza, l’anafora ribadisce indignazione. Bettozzi costruisce un pamphlet poetico che denuncia, svela, accusa: il “traditor di Patria” non è chi ha difeso il territorio, ma chi ha tradito il mandato. È poesia che non cerca armonia ma scossa, che non consola ma incendia. In essa vibra l’antica voce di un Pasolini civile, ma anche l’eco di certi versi satirici latini: corrosione morale e rabbia politica che diventano materia di poesia.


 

  • “Sempre a metà” di Rosa Notarfrancesco

Un testo di sospensione, lieve ma carico di nostalgia. Il tema è l’incompiutezza, l’essere “sempre a metà”: mai del tutto dentro un tempo, mai pienamente soddisfatti. La poesia è costruita come un flusso riflessivo, senza orpelli, quasi diaristico, eppure la sua forza risiede nel non detto, nelle pause che si insinuano tra i versi. Qui la parola diventa eco del rimpianto: “altri tempi… completamente felici di sé”. La Notarfrancesco cattura l’essenza del vivere come frammento, mai totalità, e lo restituisce con tono quieto ma denso di malinconia. È un pensiero lirico che resta aperto, senza chiusura, come la vita stessa.


 

  • “Mezzanotte, ombre dolci alle porte e astri” di Jacqueline Miu

Qui entriamo nella poesia sperimentale, densa e caleidoscopica. La Miu frammenta e ricompone la realtà notturna in una sequenza visionaria: città, icone religiose, televisione, amanti, rifiuti, stelle. Tutto si mescola in un mosaico metropolitano che sa di beat generation e surrealismo. La lingua è fluida, stratificata, le immagini si inseguono con ritmo spezzato: “sciroppo di nuvole / e lunghe carcasse / la spazzatura dipinge la strada”. È una poesia che non descrive ma assorbe, non narra ma trasfigura. L’amore qui non è intimità domestica, ma energia che si manifesta nelle pieghe della notte, tra icone e vampiri, tra ombre e abbracci. L’effetto è quello di un canto cosmico urbano: mistico e profano insieme.

a poesia stessa diventa preghiera: il tempo profano è sospeso, e ciò che resta è il silenzio sacro dell’attesa.
 



 

 

  • “Topante” di Piero Colonna Romano

Un apologo in forma poetica, quasi favola morale che scivola in parabola universale. La vicenda del topo e dell’elefantessa non è solo ironia amorosa, ma diventa allegoria del pregiudizio, della diversità e del potere purificatore dell’amore. La lingua gioca con la rima narrativa, dal sapore antico e popolare, ma non rinuncia a lampi lirici che culminano nella nascita del piccolo Topante, elevato a figura messianica. Qui l’amore trasgressivo diventa forza cosmica che redime il mondo: la favola animale svela un Vangelo nascosto, in cui il diverso diventa salvezza. È poesia che fonde satira sociale, fiaba popolare e mito sacro.


 

  • “Un attimo” di Ciro Seccia

Pochi versi, ma intensi come un lampo. La brevità diventa qui la cifra dell’assoluto: l’amore, scoperta che abbatte ragione e distanze, è un istante che contiene l’infinito. Struttura semplice, quasi epigrafica, dove le parole “scintilla”, “sguardo”, “Oceano” si fanno simboli di immensità. C’è un eco pascaliano: il cuore conosce ragioni che la ragione ignora. E nel frammento, come un haiku occidentale, Seccia ci consegna l’esperienza fulminea e vertiginosa dell’amore che si rivela come eternità compressa in un battito.


 

  • “Malumore” di Alessio Romanini

Romanini unisce la concretezza quasi diaristica (“mi duole la cervicale”) con aperture liriche che evocano colombe, mare, vapori celesti. È poesia ironica e malinconica, dove la fragilità del corpo e la noia dell’età si intrecciano al paesaggio naturale. La lingua si muove tra altezze e cadute: la colomba, la cupola azzurra, e poi la cervicale e lo stress. È in questa frizione che il testo trova forza: la tensione tra sublime e quotidiano genera un effetto straniante, che rende la condizione esistenziale più vera. L’ultima sentenza, “il tedio è l’oblio di ogni intrinseca attività”, ha quasi un tono filosofico, come una definizione tratta da un manuale di vita interiore.


 

  • “Fino all’ultimo respiro” di Sandra Greggio

Una poesia che si apre come un diario intimo, e si sviluppa in forma di confessione amorosa. Il “tu” evocato è presenza discreta e costante, un enigma che diventa destino. La scrittura procede in ritmo fluido, con immagini di delicatezza sensuale (“carezza sul cuore”, “onda che ha trovato il suo mare”). È un canto che racconta la trasformazione dell’attesa in compimento, del sogno in realtà, fino alla promessa estrema: “Finché avrei avuto respiro”. Qui l’amore non è solo sentimento ma approdo, totalità, senso ultimo dell’esistenza. La Greggio scrive con limpidezza, ma sotto la linearità si avverte una vibrazione metafisica: l’amore come respiro dell’anima che sopravvive al tempo.

con stima ed affetto

Ben Tartamo

 

 

 

14-18 Agosto

Buon Ferragosto a tutti i sitani!!!

Un saluto particolare a Lorenzo
che ospita noi poeti.
Alessio Romanini

 

 

 

10-13 Agosto

Qui siamo di fronte a una costruzione poetica che ha l’aria di una piccola “commedia dell’arte” in versi: quartine, rime baciate o alternate, un’andatura da filastrocca riflessiva. È una parabola dell’esistenza, scandita dalla metafora del percorso di montagna: salite ardue, discese insidiose, rare vie piane. L’autore inserisce il tono confidenziale (“pe’ un percorso accidentato”) che avvicina il lettore e smorza la serietà con ironia bonaria. Se la tecnica metrica può sembrare talvolta più “artigianale” che cesellata, è proprio in questa vena schietta che si percepisce un sapore genuino. La chiusa con “anta” è un piccolo colpo di teatro: il tempo che passa diventa occasione di bilancio, ma senza cedere al lamento. 

Qui il registro cambia: siamo in un minimalismo lirico che assomiglia più a un frammento diaristico che a un componimento strutturato. Brevi frasi, enjambement naturali, quasi prosa poetica. È un testo che parla di un rapporto segnato dal gioco ambiguo tra orgoglio e perdono, attrazione e distanza. Non c’è punteggiatura rigida, e questo crea un flusso emotivo che riflette l’instabilità del legame. La “vita a sé” e le “distanze meditate dallo scoraggiamento” sono immagini più mentali che sensoriali: l’amore e il disincanto non vengono raccontati, ma lasciati sospesi, come un volto in penombra.  Osservo che non siamo davanti a un affresco ricco di colore, ma a un disegno a matita: pochi tratti, ma essenziali.
Un testo drammatico, quasi cinematografico. Il temporale diventa metafora della disillusione e del tempo perduto. L’incipit “Il cielo s’è fatto nero” prepara subito l’occhio del lettore a un quadro tempestoso: bagliori ferrigni, fulmini zigzaganti, vento maligno… è una scenografia che ha qualcosa di barocco per abbondanza di dettagli visivi e sonori (“rullano cupi i tamburi”). La tempesta esteriore e quella interiore coincidono, e l’uso ripetuto di “Ormai è tardi” scandisce un senso di ineluttabilità. È poesia che si presta bene a essere letta ad alta voce, quasi come un recitativo.  Un “Caravaggio” in piena tempesta: forti contrasti, luci che squarciano il buio, e un senso di destino già sigillato.
Un haiku dilatato, essenziale come un’incisione su pietra d’acqua. L’immagine iniziale – camminare sull’acqua senza lasciare traccia – è di grande forza simbolica: parla di transitorietà, ma anche di presenza discreta. Ogni verso sembra un respiro misurato, e il bianco della pagina diventa parte integrante del testo. Qui non c’è pathos drammatico: c’è un’attesa, un essere “nell’eco leggera di ciò che non si vede”. È una poesia che lavora per sottrazione, e la sua forza sta proprio nel lasciare lo spazio al lettore per completare il senso.  Una miniatura orientale: due pennellate, ma nessuna superflua.
Un notturno estivo intriso di sensualità e malinconia. Qui l’autore fa leva su immagini tattili e olfattive – i gelsomini, il respiro che si ferma – per avvolgere il lettore in un’atmosfera sospesa. La “ricerca del baricentro del mondo” è il cuore simbolico: l’amore come fulcro momentaneo dell’universo, effimero ma assoluto. La chiusa con la stella che “potrebbe ritornare” fonde speranza e consapevolezza dell’irreversibile. È una poesia che si legge come si ascolta una canzone estiva francese anni ’60: un po’ languida, un po’ segreta, tutta giocata su una luce che si spegne e un profumo che resta. Qui c’è un piccolo quadro impressionista – un Renoir notturno – dove più che le forme contano i bagliori.
Qui siamo nel territorio della lirica utopica. La ripetizione anaforica “C’è un posto nel mondo…” è un martello dolce che scolpisce, verso dopo verso, un Eden ideale. L’elenco accumulativo non è solo descrizione, ma anche denuncia: ciò che si sogna è proprio ciò che manca. Alcune immagini – i tramonti che vanno oltre la notte, la luna che spunta due volte – hanno una qualità naïf che tocca il cuore proprio perché non si preoccupa di essere “verosimile”. È un catalogo poetico che alterna delicatezza e colpi di frusta morali (“le mani degli uomini non si macchiano di sangue”), e alla fine si rivela: è un mondo di illusione. È un polittico votivo senza la pala centrale: ci mostra la gloria, ma ci dice che non è mai stata esposta”.
Qui la poesia vira verso il racconto in versi. C’è un impianto narrativo forte: una stazione vuota, un altoparlante stonato, un addio che brucia ancora sulla pelle. Il tono è diretto, quasi colloquiale, e alterna versi regolari a spezzature di pensiero. Non è tanto la stazione a essere il soggetto, quanto la disillusione amorosa che vi si consuma. Colpisce la crudezza con cui l’autore introduce il tema dell’interesse materiale (“apprezza solo qualche suo quattrino”), spegnendo il pathos romantico. È un testo che si muove tra la canzone popolare e il diario poetico. È un realismo da bozzetto ottocentesco – niente veli, la scena è cruda, con l’amore che ha già preso il treno e non tornerà”.
Una poesia brevissima, ma dal respiro ampio. Siamo quasi in un fotogramma di cinema muto: un mare incantevole, l’illusione di portarlo fuori dal sogno, poi il risveglio. La punteggiatura ridotta al minimo e la disposizione verticale dei versi accentuano la sensazione di sospensione. Serino lavora per sottrazione: non descrive il mare nei dettagli, ma lascia che il lettore lo veda nel bianco che separa le parole. È poesia zen: un’immagine, un pensiero, un dissolversi. È una miniatura giapponese incorniciata in un foglio bianco: la forza sta in quello che non si vede.
Un testo breve, diretto, di respiro civile. Qui non ci sono metafore elaborate né compiacimenti estetici: la parola è dichiarativa, volutamente “nuda”, come uno striscione esposto in piazza. L’amore è contrapposto alla violenza patriarcale in un registro quasi di manifesto politico, e il messaggio viene scolpito in modo inequivocabile. Non è un dipinto da galleria, ma un’incisione su lastra di rame: colpo secco, senza sfumature, pensato per essere visto da lontano e ricordato.
Qui invece la scrittura si avvolge su se stessa come le linee ornamentali che il titolo promette. È un tessuto di immagini sensoriali — stelle, nuvole, sabbia, lacrime — legato da una musicalità morbida. Il lessico alterna dolcezza (“brezza”, “ruggiada”) a toni più freddi (“algida come la luna”), creando un chiaroscuro emotivo. L’io poetico si muove “a piedi nudi” dentro una cornice marina e lunare: è un arabesco che non è solo decorativo, ma anche percorso interiore. Come in certe maioliche islamiche, la bellezza sta nel disegno che non finisce, ma si prolunga oltre il bordo della pagina.
Qui ci troviamo in piena espressione visionaria e confessionale. È un flusso di coscienza potente, non addomesticato, che alterna lampi biografici, dichiarazioni quasi teatrali e improvvise aperture mitiche (“aspirazione drago”, “carrozza partita da Baltimore”). È poesia fitta, convulsa, che non si concede pause: la sintassi franta e la densità di immagini danno la sensazione di un diario scritto nella notte. È un testo che non teme l’eccesso, anzi ci si abbandona come un pittore espressionista che lavora solo con rossi e neri. Non c’è prospettiva rinascimentale: qui siamo dentro un Pollock emotivo, dove il gesto conta più della figura.
Questa poesia è una meditazione filosofica che si serve di immagini naturali come ancore sensoriali. L’interrogazione iniziale — “Perché quel mondo è invisibile?” — attraversa tutta la composizione, ma non per trovare risposta: la poesia diventa un catalogo di fenomeni visibili (luna, sole, vento, mare) che rinviano a un’origine misteriosa. La chiusa spirituale (“Il tutto è riassunto nell’amore…”) restituisce un senso mistico, quasi teologico. È come un’iconostasi: dietro la materia visibile, intravediamo uno spazio sacro che non possiamo penetrare del tutto.
Un omaggio esplicito a Prévert, e se ne riconosce la leggerezza. La costruzione è semplice, basata su parallelismi (“Negli occhi tuoi / vagan piccole onde”) e su un’immagine centrale — l’acqua come specchio e destino d’amore. È una poesia immediata, breve come un fotogramma rubato al tramonto. È un acquerello ben fatto: non serve cornice dorata, basta lasciarlo al sole perché il colore faccia il suo gioco.
Qui il registro è intimo, doloroso, segnato da un’assenza assoluta: l’attesa di un figlio. Il lessico è semplice, ma carico di pathos (“catena senza fine”, “lava che taglia la terra”). La ripetizione di “Aspetto te” è un battito cardiaco, un metronomo emotivo che accompagna tutta la lettura. Non è poesia che gioca sulla metafora astratta: è voce che parla da dietro una porta chiusa. È un ritratto a carboncino di un volto amato, fatto in un’unica seduta: il tratto dimostra l’urgenza del momento.

 
11agosto2025
Con stima e affetto 
Ben Tartamo 

 

 

 

6-8 Agosto

I vostri commenti mancano come l'aria che respiriamo.

Ossigeno puro della pagina Azzurra.
Spero di poter leggere tra breve la bellezza che voi
commentate e vedere nella poesia d coloro Che scrivono sulla pagina Azzurra.
Auguro a tutti i poeti del sito buone vacanze.
Ed un Grazie al Prof.De Ninis,Ben Tartamo,Prof.Spadavecchia.
 
Grazie.....Ciro Seccia 

 

 

 

13-16 Luglio

Grazie dei vostri commenti,in questi giorni ne sento vivamente la mancanza,

Il tempo le Parole la vostra empatia Con tutti i poeti del sito,sono per me la Base per cui scrivo Ed apro il Mio cuore  sulla pagina azzurra.
Porgo i miei Saluti a Ben Al Prof.Spadavecchia Ed ovviamente Al Vate Lorenzo De Ninis.
Grazie...
Ciro Seccia 

 

 

 

 

7-8-9 Luglio

Saluti per i sitani
Un caro saluto con l'augurio di "Buone Vacanze!" alle giovani e meno giovani divinità cosmiche di Poetare. 
Che siano la creatività e l'amore i vostri amici di viaggio. Tornate ricchi di ispirazione e felici. 
Passate un'estate meravigliosa. Ringrazio il magnifico Magister Lorenzo, generoso creatore di Poetare Tempio Azzurro per la letteratura di qualità, per l'onore che mi offre nell'ospitare le mie umili opere. Ringrazio tutti i sitani per i loro commenti e la gioia che mettono nei loro appassionanti lavori. 
 
Auguro a tutti una meravigliosa estate
Miu

 

 

Buongiorno a tutti
Di tanto in tanto se pur per un breve commento devo dire grazie a tutti ,
alle parole , emozioni che voi poeti trasformate in versi e in commenti
In particolare modo a Marino Spadavecchia
Umiltà calpestata,
che prende il sole
sulla spiaggia d’Oriente.
a Ben Tartamo
Giorni su giorni,
sassi su sassi...
sabbia che nasce
in riva al mare.
grazie per i vostri commenti
per la vostra poesia semplice e complessa
Piero Colonna Romano
Via delle monache, bellissima poesia ,e poi con tutti quei premi non ci sono parole che potrei aggiungere

Mi dicono che gli angeli perdano le ali quando amano
Non posso aggiungere nulla di ciò che penso io, ma la tua poesia merita molto , molto bella come tutte del resto Jacqueline Miu

Grazie Lorenzo che ci fornisci la possibilità e la gioia espressionistica
grazie alla tua sensibilità e generosità
alla tua bella poesia Nino Silenzi
Al Mare che culla i sogni , i ricordi , ciò mi fa capire che vivi , come me vicino al mare ,perché quella distesa verde o azzurra come un cielo capovolto ci fornisce la possibilità di vedere il fuori dentro di noi che allieta il nostro spirito grazie con un abbraccio
Buone vacanze a tutti
Antonia Scaligine

 

 

Commento poesia "U Me' Sognu" di Rosa Venuto di Acquedolci.
Bellissima poesia "U me' Sognu", è un omaggio struggente e affettuoso a Franco Battiato, maestro dell’anima e della musica, filtrato attraverso la memoria, il sogno e l’identità siciliana. Rosa Venuto intreccia ricordi familiari, tradizioni antiche e versi evocativi in dialetto, riportando in vita un mondo perduto fatto di armonia e semplicità. Il testo vibra di nostalgia e desiderio: quello di tornare indietro nel tempo, di varcare la soglia della casa di Battiato a Milo, per sentire ancora l’eco della sua voce. Un sogno che è anche preghiera, una ricerca del sacro nella quotidianità, dove l’arte diventa ponte tra generazioni, tra chi resta e chi è già “trasitatu".O per meglio dire ..U me' Sognu" è un omaggio poetico, intimo e sincero, che la poetessa messinese Rosa Venuto di Acquedolci dedica al Carissimo Maestro Franco Battiato. In queste righe scritte in dialetto siciliano, si intrecciano memoria e desiderio, antiche tradizioni e riflessioni profonde sul tempo che passa. Il sogno di poter visitare la casa di Battiato a Milo diventa simbolo di un bisogno più grande: quello di ritrovare l’armonia, la bellezza e la semplicità di un tempo che oggi pare perduto. È un canto d’amore per la Sicilia, per la famiglia, e per un figlio – Franco – che, con la sua arte, ha saputo portare la luce oltre i confini dell’isola.
Commento edito da
MariaAntonietta Chiovetta

 

 

 

 

4-5-6 Luglio

Con immenso piacere mi accosto a commentare questa composizione di Marino Spadavecchia, un’opera che si staglia con forza nella contemporaneità della poesia latinoamericana ed europea e oltre, offrendo un’indagine profonda sul dolore esistenziale e sulla condizione umana nel nostro tempo.

 
“Meteoritos perdidos / en la constelación / de los desechables impenitentes.”
L’incipit ci catapulta immediatamente in un paesaggio cosmico e metaforico, dove i “meteoritos perdidos” diventano simbolo di anime e vite scagliate in orbite senza meta, perdute in una galassia di “desechables impenitentes” — gli esseri scartati, i dimenticati, forse persino coloro che si sono condannati a un’esistenza di inutile consumo e spreco. Questa immagine di vastità siderale carica di solitudine e inutilità plasma un’aura di malinconia che pervade tutta la poesia.

 
“Gotas de almas errantes / en el océano de la soledad / sin regreso.”
Il fluire di “gocce di anime erranti” sospese in un “oceano di solitudine senza ritorno” costruisce una metafora liquida e struggente che richiama la fragilità e la vulnerabilità dell’essere. L’oceano, eterno e implacabile, diviene un simbolo dell’isolamento totale, la condizione umana ridotta a particelle perse nel flusso di un dolore inarrestabile. L’assenza di ritorno sottolinea un’irreversibilità della condizione, un destino che si compie senza speranza.

 
“Delfines anémicos, / apesadumbrados, estériles, / que no saben / si seguir nadando / o morir aguantando.”
Qui la poesia abbraccia un’immagine ancora più terrena e struggente: i “delfini anemici” rappresentano forse creature una volta vitali, ora prosciugate, gravate dal peso della tristezza e dell’incapacità di rigenerarsi, riflesso dell’anima umana in crisi. La tensione tra continuare a nuotare o arrendersi alla morte è la resa poetica della lotta interna tra vita e annichilimento, un interrogativo universale che Spadavecchia pone con grande delicatezza e forza.

 
Infine, per quanto riguarda l'Analisi stilistica e l'impatto emotivo:
la poesia si distingue per una limpida economia di parole e immagini potenti che, nonostante la brevità, evocano un panorama emotivo vasto e coinvolgente. La scelta di simboli cosmici e marini crea un doppio orizzonte di solitudine sia universale che intimamente umana. La musicalità asciutta e il ritmo cadenzato conferiscono alla composizione un tono meditativo e quasi liturgico, mentre la progressione dalle stelle agli oceani fino ai delfini conduce il lettore in un viaggio che è insieme metafisico e terreno.

 
In conclusione, Marino Spadavecchia offre un frammento di poesia che si impone per la sua onestà emotiva, la profondità filosofica e la chiarezza espressiva. “Meteoritos perdidos” è un appello a riconoscere le anime smarrite in un mondo che sembra essere sempre più fatto di “desechables”, e al contempo una meditazione sul limite fragile e doloroso della condizione umana. In questo testo la poesia europea trova una nuova, luminosa voce di tormento e bellezza.

 
Ben Tartamo 

 

 

 



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