Racconti di Giuliana Argenio


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Giuliana Argenio

Sono vissuta nel Veneto per lungo tempo. Da qualche anno vivo in provincia di Roma. Un paese a ridosso del lago, la cui natura circostante è un trionfo.
In questo luogo ho ritrovato le condizioni ideali per dare priorità alla scrittura, passione che è in me da sempre. Scrivere è un modo pretestuoso per raccontare, per dire la propria opinione relativamente al respiro spesso asmatico della vita.
A giorni uscirà il mio primo romanzo
Vento Rosso Edizioni Il Filo- distribuito dal Gruppo Mursia Editore.
Scrivo qualcosa che rassomiglia al noir. Faccende che riguardano spesso gli aspetti sbilenchi della società. Ecco, credo sia sufficiente questo.
Parole come note da suonare, frasi composte sul pentagramma. Credo ci sia una forte analogia tra la scrittura e la musica.
 

Leggi le poesie di Giuliana

-Si sieda e aspetti-
Una luce che sembra sporcare gli occhi, o forse sono gli occhi a prepararsi alla realtà che temono, filtra dalla finestra
Il poliziotto resta in piedi accanto alla porta aperta della stanza.
Dal corridoio va e viene gente , soprattutto gente che passa e resta con la sensazione
di farlo per sempre. Le questure si somigliano tutte.
Macchine da scrivere su tavolini metallici a rotelle, mobili d'ufficio che accumulano periodi storici dal legno al tentativo inutile di farle somigliare a quelle che si vedono nei films americani.
Agenti in borghese sull'orlo del pensionamento, poliziotti ideologizzati nel culto dell'ordine fascista, ostentatamente giovani, accumunati dalla divisa e da un pizzetto sottile di barba curatissima che incornicia le labbra e scende squadrata sul mento.
Stizziti dalle ore che gli scivolano tutti i giorni tra le dita, in mezzo a un'altra umanità
sconfitta e vinta.
Con aggressività meccanica, entra un graduato e si siede di fronte all'uomo che aspetta.
Fa un cenno del capo al poliziotto in piedi accanto alla porta che lo traduce istantaneamente e la chiude.
Scappa un grido nella stanza accanto e le parole urlate minacciosamente, si rompono contro i muri di labirinti quadrati.
-E allora?-
Alcuni minuti lunghi e larghi e il commissario si accorge che Diego è ancora in manette.

Altro cenno al poliziotto con gli occhi e gli fa togliere i ferri ai polsi.
L'aspetto del funzionario ha la naturalità metallica di un laureato in scienze politiche che si è perso qualche concorso per diventare commissario.
Piange mentre gli sfilano le manette.
Alza gli occhi arrossati verso l'ispettore Quaglia e comincia a lamentarsi senza alcun allenamento.
-Armanda. Povera Armanda mia!-
-Povera Armanda! Povera Armanda! Poteva pensarci prima di ficcarle una pallottola in testa-
-Povera Armanda mia- continua a piagnucolare Diego, incurante dell'ammonizione dell'ispettore
di passaggio. Lo aspetta ben altro dopo quel primo interrogatorio.
- Non sono mai stato messo in manette. Non sono manco mai passato per caso in questo posto.
Trent'anni di matrimonio e non era mai successo niente.
-L'ha uccisa?-
Risponde di no, scuotendo la testa e scossoni di pianto che cercano di strappare le lacrime a profondità misteriose della sua anima, gli tremano nelle spalle.
-Povera donna. Mi contraddiva sempre. Volevo accendere il fuoco in giardino per preparare la carne alla brace con la legna. Una stupidaggine. Abbiamo una villetta e il sabato arriviamo ad essere anche in quindici persone. A volte mia sorella e mio cognato con i loro figli, altre la mia figlia più giovane con il fidanzato. Allora ti preparo la griglia fuori- le dico
-Comincio a sistemare la carbonella e lei dice no, qui non lo voglio, poi entra il fumo in casa
dalla finestra e sono io che devo pulire. Cazzo, e io avanti a rompermi la schiena mentre avevo già acceso il fuoco. Do una pedata al grill e lei comincia a dirmi che sono matto.
- Sei matto come tuo padre-
Comincia a insultarmi e a sbottare su tutto il parentado. Perfino su mia madre che è morta-
Glielo giuro. Glielo giuro. Non so cosa è successo. Ci si mette di mezzo anche la mia figlia più giovane e volevo che smettessero con quelle urla isteriche che mi spaccavano la testa.
Allora gli salto addosso e scappano di corsa verso il cancello del giardino e da lì le sentivo ancora blaterare.
Non so come sono entrato in casa e sono uscito con la pistola. E' regolarmente registrata. Tutto in regola. Sa, non c'è più da fidarsi a vivere in villetta al giorno d'oggi con tutte le rapine che ci sono.
Volevo solo farle tacere.- E' matto! Ora ha la pistola quel figlio di puttana- e sparo un colpo e loro scappano e io non volevo farle scappare e sparo ancora e ancora e loro cadono.
Oh, madonna santa cosa ho fatto…-
Sono ormai le nove di sera. Lo vengono a prendere e lo caricano sul cellulare blindato.
L'ispettore Quaglia lo accompagna con lo sguardo mente esce dalla stanza.
Lui conosce la strada successiva. Scomparso il labirinto d'uffici, inizierà lo spazio di cemento,
le scale che sprofondano in un inferno umido e freddo e chiuso da una porta con le sbarre e
più in là il corridoio con le celle a entrambi i lati, il cesso finale dove gli escrementi impediscono
di fare la doccia e dove l'odore di disinfettante riesce a soverchiare il lezzo delle urine più tristi e disperate di questa terra.
-Porta!- grideranno dall'alto in basso e con la calma di un custode notturno,
una guardia aprirà la porta, in attesa del detenuto e delle istruzioni.
Quaglia ha dato ordine di metterlo in isolamento.
Diego ritroverà nella cella la propria identità per scavare fino a che punto l'aveva persa.
Scoprirà con precisa coscienza che in questo gioco era impossibile vincere.
Anche se tutto è avvenuto in poche ore, hai perso qualcosa che nessuno potrà mai più restituirti.
La vertigine d'un volo dentro al burrone è ancora sospesa.
La voce del poliziotto che sopraggiunge alle spalle lo devia dal pensiero.
-Ispettore è arrivato un cablogramma. Quello che ha appena finito di interrogare ha ucciso moglie e figlia. Sono morte dieci minuti fa.-

Sente i passi che vanno e vengono dal corridoio. L'ha chiusa a chiave nella stanza ma non avrebbe neanche la forza di battere i pugni come ha fatto tante altre volte. Non ha più fiato per urlargli "bastardo". La chiave gira sulla toppa e lo scrocchio ha il rumore di un sasso che rotola.
-Ti amo, lo capisci? Ti amo e non so cosa mi prende in certi momenti. Ma ti amo, lo capisci che ti amo? -
Resta dov'è la donna. In silenzio, la mano a pugno premuta sulla bocca. Come se volesse trattenersi dal dire qualcosa, come se la rabbia e la tristezza miscelate nello sguardo, fossero parole già dette e talmente consunte ormai da non avere più suono.
Si è ucciso il senso delle parole in quelle estenuanti litigate. E lei è colpevole quanto lui: ha tradotto un pensiero contorto quando non andava neppure ascoltato, ha permesso che il termine "amore" si infilasse nelle loro discussioni perverse, prive di contenuto. La responsabilità intellettuale giocata a dadi e la posta in palio una bugia dietro l'altra.
- Elena, vedi che sono sempre stato introverso? Lo ricordi? Quando ci siamo conosciuti fu la prima cosa che notasti in me. Dicevi che ero.., come dicevi amore?-
Resta dov'è Elena, non si muove di un centimetro e ha deciso che non gli parlerà più.
Lo punirà così: non parlerà mai più con lui.
-Dicevi che ero una sfinge. Ricordi che mi chiamavi "sfinge"?-
Il silenzio di Elena perfora i timpani.
Renato apre la finestra, accende una sigaretta e si mette a guardare di fuori, i gomiti appoggiati al davanzale, lo sguardo che cade nell'asfalto di sotto e come un volo di farfalla si alza a contemplare la notte estiva.
Il rumore di un motorino che passa, striscia il silenzio come un'unghia sul vetro e scompare portato via dall'aria di fine agosto.
( Non ci siamo mai compresi io e questa donna. Mi trascina in discorsi senza senso. Pensa di sollevarmi dentro i sensi di colpa, di cambiarmi. Tira fuori la parte peggiore di me con tutte le paranoie che gli passano per la testa)
Butta il mozzicone e socchiude la finestra.
La guarda. E' sfatta, spettinata. S'è ingrassata ultimamente, pensa Renato.
-Non puoi pretendere che io non abbia altre donne per il resto della vita-
Ricomincia da dove è iniziata la discussione ed Elena continua a tacere.
-L'amore è una questione, il sesso un'altra. Lo capisci che io ti amo, ma non mi attiri sessualmente, non mi hai mai fatto sangue Elena. Tu non vuoi ficcarti nella testa che per un uomo è diverso, non vuoi accettare la realtà delle cose.
Ma perchè amore mio non fai finta di non vedere, perchè non fai finta di non sapere? perchè ti diverti a prendermi in fallo? a cogliermi in bugia? Pensi che io sia talmente idiota da lasciare nella tasca della giacca i biglietti del cinema perchè dimentico di buttarli? Dovrei essere ipocrita come la maggior parte dei mariti? Eh si, fare come tutti. Cancellare le chiamate, o meglio avere un numero privato, un'altra sim. Dovrei dirti che ho una riunione all'ultimo minuto. Sissignora non sei altro che una banale donnetta. Una massaia noiosa quando ti comporti così.
Se tu mi lasciassi in pace, non mi passerebbe neppure per l'anticamera del cervello di discutere-

Elena è muta. Un rivolo di sangue le stà uscendo dall'orecchio, cola lungo il collo e si ferma sul colletto della camicia blu. Una macchia scura che si allarga lentamente.

Non parlerà mai più con lui. Non si farà toccare mai più da quello schifo di uomo.

Sposta la mano dalla bocca e sfiora con le dita il liquido caldo che le scivola sul collo. C'è un silenzio totale ora nella casa. Un silenzio fatto di assenza di rumori se non fosse per il ronzio di un'ape nel cervello che sfonda quel bel muro di ovatta.
Gli occhi di Elena sono striati da lividi blu che in qualche punto si sono gonfiati e tinti di viola. Le palpebre tirano il sonno. Non gli parlerà mai più. E' stanca delle sue botte, dei maltrattamenti, dei tradimenti. Per la prima volta dopo tanto tempo, sente che staserà si addormenterà prima di lui, che non elemosinerà la sua buonanotte. Il pensiero le scorre dentro e le regala un senso di soddisfazione mai provato. Ancora più che immaginare di sbattere la porta e andarsene come si è promessa mille volte di fare e poi è rimasta là per anni a farsi infinocchiare da questi rosari di "amore" postumo. E' sempre stato postumo, l'amore di Renato.Lo dichiarava a parole, sempre dopo."Dopo" contiene un "Prima" inaccettabile.
"Idiota" le sgorga ancora dalla la mente. E non capisce se le viene pensando a sé stessa o a lui, quell'idiota che suona tre note. Per fortuna ha avuto la musica in quegli anni a lenirle il vuoto interiore, il pianoforte a suonarle l'anima.
Scivola di lato dalla sedia Elena.
Scivola elegantemente e cade a terra, come una signora dopo un lungo valzer.
(E' finita Renato.Tocca morire per non parlarti mai più)

Da oggi ho iniziato il turno di lavoro diurno.
Un mese sì e uno no: quello notturno mi ammazza, specie d'inverno. Inizio alle venti e stacco dopo le tre.
E' quasi un anno che mi destreggio con questi turni del cavolo, con l'arroganza del datore di lavoro, con quella sorta di promessa violenza che gli aleggia perennemente negli occhi se non produci nei tempi stabiliti.
Del resto, non avevo molto altro da scegliere quando sono arrivata a Milano. Prendere o lasciare.
Il turno diurno è meno pesante, alle diciasette smetto e il mattino inizia dopo le dieci. Orario continuato, in piedi. Se non fosse perchè non ho mai smesso di guardare con gli occhi e il cuore, il mondo che mi passa accanto, sarei già cieca.
Sì, perchè questo è un lavoro che ti toglie la voglia di osservare, ti deruba dei sogni, ti spegne il desiderio.
Hanno voglia i maschi di dirmi che sono sprecata, che con il fisico che ho, potrei fare l'indossatrice o qualcosa di simile!
Il turno diurno è già un toccasana, non resto a discutere con loro di cos'altro potrei fare.
Non avrei mai e poi mai pensato di riuscire a lavorare in questo settore. Quand'ero bambina, soldi a casa ne giravano pochi, tuttavia mio padre e mia madre sognavano per me un avvenire diverso, avrebbero desiderato la loro Misha professoressa o chennesò, almeno maestra.
Ce l'ho anch'io una storia che ad un certo punto è uscita dal pianeta "favola": un bel giorno mio padre è schiattato e mi sono ritrovata con tre fratelli e mia madre senza l'ombra di un quattrino.
Avevo sedici anni e la voglia di sbattere in faccia al destino la mia assolutà volontà:sarei diventata qualcuno.
Ho scalato montagne per arrivare in questa città.
A diciasette, scendevo dal treno alla stazione della città più elegante del mondo, convinta che ce l'avrei fatta.
San Babila era ai miei piedi, ho percorso la galleria del Duomo con gli occhi all'insù, fissi sulla volta e poi ancora in giù sulle vetrine dei negozi.
Dopo quindici giorni avevo già il mio bel lavoro, pagato così e così perchè le trattenute sono altissime.
Spero che prima o dopo, riavrò il mio passaporto. Una questione è certà: non resterò a Milano.
Lavorare qui e così, mi stà uccidendo.
Il turno di lavoro diurno è meno tremendo, perchè almeno vedo la luce del sole e la paura mi assale diversamente quando salgo in macchina con i clienti.
Vendo amore a pagamento per conto di una piccola società Russa.Tre ceffi che odio.
Mi chiamo Misha, il prossimo ottobre compio diociott'anni e tutto ciò che desidero oggi, è tornare a casa dalla mia famiglia. Aiutatemi!

E' la giornata ideale per scrivere.
Diluvia da ore senza sosta. Il cielo stà scaricando sulla terra le lacrime dell'umanità, il dolore di chi non ha più fiato per urlare. Capita che il cielo si incazza a guardare quello che succede nel pianeta. Capita che discute violentemente con il dio di tutte le teologie esistenti e poi, non ottenendo garanzie per i poveri cristi che lo invocano, il cielo si sbatte le nuvole alle spalle ed esce dal regno dell'infinito, dall'onnipotenza, dell'onnipresenza. E piove, piove a dirotto. Tutte le lacrime della terra e degli uomini. Se le ingoia il mare, in silenzio.
E' la giornata ideale per scrivere.
Ideale per ricordare, ascoltare la mente, soffermarsi sul respiro dell'anima divenuto ormai asmatico.
Dovrei vedere settimanalmente lo psicanalista. Da un buon periodo a questa parte, evito quelle sedute. Ne ho le scatole piene delle diagnosi, delle case di cura, dei distretti di Igiene mentale.
Gli strizzacervelli possono pulirmi le scarpe. So manipolarli come voglio. Non ho bisogno che siano loro a spiegarmi la schizofrenia, l'isteria paranoica. Mi fanno ridere quando parlano di "soggetto Border Line".
Mi sono sempre servito di questi tirapiedi che hanno la presunzione di leggere la psiche, di scovarne gli squilibri.
Avevo dicisette anni, quando la "famiglia" decise di affidarmi alla prima struttura. Un manipolo di idioti incapaci.
Ho raggirato più psichiatri io che un truffatore di professione.
E' la giornata ideale per scrivere. Piove che pare un castigo.
Cosa volevano dimostrare quegli emeriti imbecilli? Che andavo aiutato per il trauma della morte di mio padre?
Il silenzio in cui mi chiusi per un anno, dopo la sua morte, era quanto mi dovevo per riflettere e metabolizzare la sua morte.
Ucciderlo non era stata una faccenda semplice.
Lo odiavo quell'essere che si divertiva ad andare a caccia e mi imponeva di seguirlo.
-E' uno sport salutare figliolo. Cammini, stai all'aria aperta-
Sparava alle lepri, ai fagiani, alle foleghe. A qualunque cosa si muovesse.
-Spara figliolo! Centralo. Così, tieni la canna con il palmo. Bene ragazzo. Accosta il calcio alla guancia; no, non così. Appoggialo alla spalla. Vai, Vai, spara, perdio spara. L'hai mancato. Hai alzato il braccio figliolo. Sei negato ma imparerai-
Tse. Ho alzato il braccio. Certo che l'ho alzato. Come faccio a sparare ad un essere inerme?
-Spara figliolo, spara-
Pareva che mio padre valutasse le persone per come usavano il fucile. Quel tale era un "grande" se portava a casa sei lepri. Straordinario, se gli veniva all'orecchio che se n'era andato oltre frontiera a cacciare il cervo.
Tutti gli altri, quelli che non sapevano andare a caccia, erano uomini a metà. E lui, un figlio a metà, non lo voleva.
Non avevo neppure un fratello al quale passare la staffetta.
Mia madre, priva di nerchia com'era, s'era defilata da qualunque ruolo che fosse d'opposizione. Preferiva la manovalanza casalinga. Lo lasciava parlare, gli permetteva d'essere un maschio tutto d'un pezzo.
-Non ripeto le cose due volte. Chi sbaglia paga- questo il suo slogan.
Fu così che quella mattina d'inizio autunno, a tre mesi dal giorno in cui sarei divenuto maggiorenne, accondiscesi ancora una volta ad alzarmi ad un'ora assurda per accompagnarlo a caccia.
Mi venne a mira nella tarda mattinata. Mi precedeva lungo il percorso, avanzavamo tra sterpaglie e alberi. Dalle fronde filtravano triangoli di luce e lo stormire degli uccelli pareva ossessivo.
Rimasi ad osservare qualche istante, i riquadri della camicia verde e gialla che entravano ed uscivano dalla mia vista attraverso il mirino.
Sparai nel momento in cui si fermò per spostare i rami d'un cespuglio che gli ingombrava il passo.
Lo centrai in piena schiena. Cadde in avanti con il rumore d'un sacco di farina che piomba dall'alto. Lo lasciai tirare le cuoia com'era giusto, steso sul letto di foglie cadute.
Rimasi a fissarlo fino a che il rantolio si spense e il torace non smise di sussultare.
-Incidente di caccia. Una mattina di festa si trasforma in tragedia per il padre e il figlio usciti per una battuta di caccia.
Il colpo partito per errore, centra in pieno l'uomo che muore quasi sul colpo. Scioccante la reazione del figlio che non ricorda più nulla-
La notte seguente all'accaduto, dormii finalmente bene.
Finalmente libero, i pensieri sgomberati dalla presenza ingombrante di quell'essere.
E' la giornata ideale per scrivere. Piove e non accenna a smettere.
Ho passato la vita ad ingannare il mondo. Non ho rimorsi. Mi restano troppi rimpianti per cose che avrei voluto fare, per alcuni progetti che avevo e, gioco forza, dovuto sopprimere.
La mia psiche "disturbata dal terribile evento", m'ha impedito d'avere una vita normale.
Ho trascorso una buona parte della prima giovinezza a "lasciarmi curare" ed è stato allora che ho iniziato a dipingere. A Venezia, la città dove vivo ora, ho allestito le mie mostre importanti, grazie alle quali sono uscito dall'anonimato e i miei quadri vengono quotati bene, sopratutto all'estero.
E' la giornata ideale per scrivere. Piove senza sosta da molte ore. Venezia invecchiata e ingrigita, silenziosa. Venezia ondeggia sull'acqua. Da Cà de Sisto guardo oltre le cupole.

Le coperte e i cuscini hanno l'odore di Virginia.
L'avvocato Dejarbe annusa l'aria, scivola con la mano sulla federa che conserva l'impronta della testa di sua moglie. Raccoglie un lungo capello nero e lo trattiene tra indice e pollice.
Poi, lo infila nella tasca della giacca grigia. Indugia ancora un secondo a guardare la stanza e pensa che anche con le finestre semichiuse è colma della luce della donna.
-Vado in studio. Passi a prendermi alle sette?- dice battendo le nocche sulla porta del bagno a fianco della stanza.
Il rumore lieve dell'acqua spostata dai piedi nella vasca idromassaggio, accompagna la risposta di Virginia.
-Ok. A stasera-
Vorrebbe aggiungere qualcosa l'avvocato e invece raccoglie il cappotto in stile ministeriale scuro, attraversa il lungo corridoio del reparto notte; con un cenno del capo saluta la filippina che stà riordinando in salotto ed esce.
Virginia gli appare come uno strano miraggio concreto dal giorno in cui l'ha conosciuta.
Dejare aveva superato d'un pezzo i cinquanta e benché la consistenza ricchezza gli regalasse un vantaggio nei confronti dei suoi coetanei, il suo fascino era ugualmente visibile.
Un uomo di grande classe e cultura, sapientemente conservate; un classico esemplare dell'alta società meneghina. Molto attento alla forma, attratto dalle donne di un certo stile, mai appariscenti ma dannatamente disinibite.
Per Virginia ha imbarcato moglie e due figli. L'ha liquidata con una somma da capogiro e si è ripreso un lembo della vita che in fondo gli è sempre mancata.
La sessualità di Virginia gli appare da subito un velo trasparente sulla indubbia classe che possiede e che agli occhi di un attento estimatore del genere, salta agli occhi in un solo balzo
Non fosse altro per come cammina.
Da cinque anni è divenuta la moglie dell'avvocato Dejare, uno dei penalisti di Milano più contesi.
Trent'anni di meno, conserva nei lineamenti l'origine asiatica ereditata da parte materna.
Un viso e un corpo che avevano spazzato ogni dubbio all'epoca, dalla testa dell'uomo.
C'è da aggiungere che a togliere qualsiasi tentennamento all'avvocato, tipico delle faccende che si trascinano moglie e figli in coda, era stata l'assoluta libertà mentale di Virginia.
Fosse stato per lei poteva rimanere sposato. Nessuna preclusione sulla condivisione dei letti. Ovviamente reciproca e, questo, lo ha messo in chiaro fin da subito.
-Ti sposo, ma non voglio sentirmi limitata nella vita intima- e a Dejare era parso davvero un miraggio, forse più per una serie di teorie personali a vantaggio della propria coscienza maschile.
A parole era di una semplicità unica. Niente possesso, niente gelosie.
Lui, in fondo, si era convinto che era meglio essere comproprietari di un vulcano che gli unici proprietari di un iceberg.
Quando poi, la prima stilettata di gelosia e orgoglio gli aveva fatto fare qualche gesto innervosito, Virginia l'aveva messo al muro.
-Non c'è nulla che voglio nasconderti. Puoi essere presente anche tu. In fondo sei mio marito e non l'ho mai nascosto agli uomini con i quali mi concedo un passatempo-
Il senso di intrappolamento che aveva avvertito in quella provocazione, l'aveva rimosso con delle semplicissime riflessioni.
Anche se non ci fossero stati i locali per scambio di coppie che secondo statistiche facevano il pieno nei fine settimana, da che mondo è mondo esistevano i minuetti a trois, a quattre
In tutta sincerità, se avesse potuto descriverla proprio tutta, Virginia senza saperlo l'aveva spinto a volersela sposare quella ragazza dal sorriso di porcellana bianca. I sensi dell'avvocato si erano rinverditi; mille immagini di film a luci rosse gli erano comparse all'improvviso e nell'abbracciarla aveva pensato che era tempo di viverla appieno la sua ricca, noioso esistenza.
I dettagli in "un breve racconto" si risparmiano e lasciamo al lettore chiunque esso sia e alla propria personale immaginazione, di quanto e come Virginia avesse sedotto un uomo nato sotto i bombardamenti della seconda guerra mondiale, con una precisa matrice di perbenismo,
tipico delle classi sociali aristocratiche e non, dell'epoca.
Molto si fa e altro non si fa- Molto si dice e altro non si dice. Nulla di veramente etico.
Una moralità di seconda mano per buon uso e costume.
Le avventure si sono moltiplicate, le vacanze sono almeno quattro all'anno e più giri e, più incontri ragazzi da sballo, abbronzati, la pelle come e il bronzo e i capelli che solo il surf sa striare naturalmente.
Francesco l'hanno conosciuto insieme lui e Virginia, a Milano, guarda un po'..A volte non serve fare voli transoceanici per incontrare una creatura di ventiquattro anni appena abbozzati e una montagna di soldi che gli riparano gli studi di ingegneria.
-Mi piace- dice dopo quella cena Virginia.
-Vabbè organizza- risponde Massimo Dejarbe. Pur di accontentarla e accontentarsi ruberebbe la luna al mondo e gliela manderebbe a casa confezionata da Bulgari.
Finchè Virginia sceglie perennemente uomini più giovani di lei di almeno una decina d' anni, più di tanto non lo disturba. Se proprio si va a scavargli nei meandri più profondi, lo eccita e lo fa sentire un piccolo dio. In quelle stanze, là dove avvengono quegli incontri della moglie, lui è un assistente silenzioso, mai volgare, mai invadente. Poi è sua, è sempre sua, come una bella vettura di cilindrata che sì è impolverata durante un tragitto e a cui basta un lavaggio per far risplendere la carrozzeria nuova. Non è più tempo per Dejare di vendere e acquistare le vetture con la furia di un tempo.
A un anno dall'imatricolazione le auto appartengono già al modello precedente, subiscono una svalutazione mostruosa come le porti fuori dalla concessionaria. Virginia è un esemplare unico di Ferrari che più il tempo passa e più si rivaluta. In giro ce ne sono talmente poche che il mercato tiene perfino in Giappone. E Dejarbe lo sa.
Di solito le "avventure" hanno vita di ore. Poi si passa ad altre questioni. Non è che la vita dei coniugi sia basata esclusivamente su questa divagazione. Cene, mostre, concerti, viaggi. Bè, si. Ci scappa sempre qualcosa, anche se parti da casa con tutt'altra idea.
Virginia è una tritasassi quando ci si mette.
Con Francesco cominciano a perdere connotazione il "patto di solidarietà".
Dejarbe ha scoperto che lo vede senza dirgli nulla.
-Perché devi mentire se tutto è chiaro tra noi?- gli dice la sera alle sette quando entra nel suo studio privato. C'è un velo di rimprovero nella sua voce, miscelato ad una certa amarezza.
-Non ti ho mai mentito Massimo- risponde Virginia passandosi la punta dell'indice sulla palpebra.
E' un tic nervoso che la assale quando è in difficoltà.
Lui potrebbe leggerla come un libro quella giovane donna.
-E allora perché adesso?Perchè mi escludi dalla storia? E' una storia vero Virgy?-
Pare un padre preoccupato per l'avvenire della figlia. La guarda socchiudendo a fessura un occhio e tenendo l'altro ben aperto su ogni minima mossa facciale che gli dia un segno.
-Meglio parlarne. Io lo amo-
Ecco è fatta pensa Virginia. Francesco non la vuole dividere con altri, in due mesi si è scoperta un'anima nuova, come dire, diversa.
-Ha dieci anni meno di te, è uno studente. Cosa pensi di farci?-
Vorrebbe dirglielo cosa pensa di farci, ma ha pietà. Si dice che un uomo vero lo riconosci dalle decisioni che prende e lei non ne ha mai conosciuto uno prima di Francesco.
E' Francesco che conduce il gioco, Francesco che si è preso una sventola che gli ha frullato in unico mix il cuore, il cervello, e l'anima.

(Tu lo lasci. Punto. Se mi ami lasci lo "zio", lasci il "nonno". Fa come cazzo vuoi.
Se mi ami lo molli, altrimenti Virginia si chiude.
O lo ammazzo e finisco in galera o, ci pensi tu a dirglielo)
Questo discorso chiaro, limpido come l'acqua di una fontana di montagna, ha deciso per entrambi.
-Non è l'ultimo dei moicani Francesco. Ha di che vivere per due generazioni. Quali ansie vuoi mettermi? Ho trentaquattro anni. Figli non ne hai voluti, è l'unico baratto in fondo che c'è stato tra me e te./ Niente figli -Tutti gli amanti che vuoi/ . E' finita Massimo, se mai è cominciata.
Sono incinta, l'hai capito o non l'hai capito?-
(Incinta. Come può una statua bella come Virginia essere incinta? Come si può pensare di deturpare un'opera scultorea? E' uno sfregio all'estetica. E' un deficiente il ragazzino, un povero imbecille che non ha capito nulla)
-E se non ti lascio andare con lui?- Dejare sa che non può mettersi di traverso sul pavimento, sa che lei lo scavalcherebbe perché oltre che a conoscerla, gliela vede dipinta sullo sguardo la decisione definitiva.
C'è silenzio nello studio. Massimo Dejare fa ruotare la Mont Blac sulla scrivania e la fissa come fosse una trottola di lusso. Se la porta quasi vicina al naso e la rimira.
-Non sono un perdente Virginia, per natura non lo sono e sono troppo intelligente per mettermi a competere con un ragazzino-
-Quindi?- risponde innervosita ma già più sollevata da quando è entrata.
E solo questione di orologio. Ormai il più è fatto.
-Quindi fammi parlare con lui, da solo, a tu per tu. Fallo venire da me domani sera a quest'ora-
Virginia esita tra varie possibili risposte e l'idea di prolungare ancora quel discorso ha l'effetto di spingerla ad acconsentire non prima di sondare cosa effettivamente vuol dire a Francesco.
-Molto semplice tesoro. Mi firma una rinuncia a qualunque tipo di responsabilità o eventuale richiesta da parte tua di somme di denaro o altro. Fintanto che non ci sarà una soluzione del tutto legale, non voglio mi si attribuiscano paternità inesistenti. Si da il caso che ho due figli-
Lascia una scia di profumo e ricordi fastidiosi chiudendosi la porta alle spalle, senza aggiungere una sola sillaba. Lui si mette il cappotto ed esce fumando
.
(Ma davvero pensavi di invecchiare con lei? Invecchiare come? E' già successo Dejare. Eri vecchio quando l'hai conosciuta. Lasciala andare, in fondo ti ha regalato quattro anni della sua giovinezza. Cosa pretendevi?)
Già. Si ha un bel dire cosa si pretende quando finisce una storia. E' un bel casino quando ci sono le carte in regola. Figurati con la moglie incinta di un altro che ha 43 anni meno di te. A chi gliela racconti questa disavventura amorosa? Ti risponderebbero tutti che potevi pensarci prima.
Gli stessi che si sono congratulati per la tua ottima scelta cinque anni addietro, gli stessi che sono venuti al ricevimento del tu
o matrimonio.
(Meglio così. Invecchiare con dignità, un minimo di aplomb anche in questo senso. Passerà). Passerà. Si è mai visto un uomo morire per una donna?) pensa guidando verso la casa Limone.
( Che ci vado a fare a casa in via del Senato? Mi metto a parlare nuovamente con lei della cosa?
Le pianto il muso?)
Con il cellulare avverte il guardiano di Casa Dejare a Limone, di preparare per la notte.
E' così che vanno le cose, anche nei ceti più alti della società. Negli altri per una questione del genere si finisce sul divano di un amico o in una piccola stanza di una pensione.
I più sfortunati in macchina, se ce l'hanno. La vita può cambiare dalla mattina alla sera.
Ma avete mai visto un uomo morire perché una donna lo lascia?
In genere no, per dirla in tutta franchezza, ma un uomo e una donna insieme accade che si.
Francesco accompagnato a tutti i costi da Virginia, segna il proprio destino.
Dejare aveva pronti nella canna del fucile per la caccia grossa due colpi.
Due pallettoni che abbattono in un secondo un rinoceronte se hai la mira buona.
Due, perché non si sa mai cosa puà succedere anche al più perfetto dei percussori con dispositivo automatico.
Lui voleva parlare a tu per tu con Francesco. Da solo.
Virginia non doveva esserci e non si viene meno agli accordi.

Martino
(Devo stare attento a dove metto i piedi. I piedi devono stare attenti a dove si mettono. Devo stare attento a dove metto i piedi. La mamma dice che devo stare attento a dove metto i piedi. Non trovo più la figurina nella tasca. Devo trovare la figurina e devo stare attento a dove metto i piedi)
Martino cammina mano nella mano con la madre. Vanno da qualche parte, Martino non lo ricorda ma la mamma l'ha detto prima d'uscire.
-Devi stare attento a dove metti i piedi che fuori piove e ti inzaccheri tutto se non guardi-
(Come faccio a trovare la figurina nell'altra tasca se la mamma mi tiene la mano?-Devo stare attento a dove metto i piedi e i piedi devono stare attenti a dove si mettono)
Martino ha dodici anni e quando è nato, per incuria dei medici che non hanno deciso per il parto cesareo in tempo, è rimasto troppo a lungo in asfissia. Il danno che ha riportato è rimasto come una ferita inguaribile nella sua mente e come una coltellata che sanguina in continuazione, nel cuore di sua madre.
Come lo ama questo bambino che non avrà mai la mente di un uomo, che non gli si invecchieranno mai i pensieri, non gli si logoreranno mai i sogni.
Martino va in una scuola speciale, una di quelle scuole dove non si promuove e non si bocciano i ragazzi. Li si aiuta e basta. Martino ha dovuto penare per imparare a muovere le gambe in sincronia. Non è perfetta ma, cantano con garbo i passi, attento a non incrociare le punte dei piedi, Martino va.
(Dovrei fermarmi, lasciare la mano della mamma e cercare la figurina nell'altra tasca. Non posso fermarmi, devo stare attento a dove metto i piedi. I piedi devono stare attenti a dove si mettono. Forse la figurina l'ho lasciata a casa.)
Egle aveva desiderato quel figlio quanto la terra arsa dal sole desidera la pioggia.
Anni a sperare di stagione in stagione di vederlo crescere dentro di lei quel bel sogno.
Quando finalmente era successo, avevano pianto di felicità lei e suo marito.
E di nuovo avevano pianto d'un dolore atroce e spaventoso, dopo che Martino era nato. Dolore, rabbia per quegli incoscienti di dottori e la loro superficialità che stava ancora dentro alla causa,ad aspettare che qualcuno gliela facesse almeno pagare. Allevare un bambino con i problemi di Martino, non era stato facile.
Quello che angosciava Egle, era il futuro di Martino. Non lo puoi vedere il futuro d'un bambino che ha i problemi Puoi immaginarlo grande, all'università, a fare il militare, a partire per una vacanza con gli amici? Puoi immaginarlo con una ragazza, innamorato,che l'aspetta con il motorino e il casco sulla testa, sotto casa?
Come rischi di guardarlo diventare vecchio senza farti cogliere dal terrore? E sì. Ti viene la paura che ti assale se ti puntano la canna d'una pistola carica sulla tempia. E' caricata a tempo quell'arma; come una mina.
Sperare che Martino muoia prima di loro. A chi mai lo lascierebbe? Ad un Istituto?
Dio come lo ama Egle quel suo bambino rimasto cucciolo, anche se di fuori è cresciuto. Quanto ama quel suo passo lento e dondolante che ti fa venire voglia di proteggerlo solo a guardarlo.
Il padre, il marito di Egle, non ha mai più smesso di piangere dalla notte in cui Martino è nato. I momenti terrrificanti rimasti conficcati nel cuore come spilli,gli brucia l'anima un'ortica cresciuta con la disperazione: Martino cianotico, Martino che non piange, la bocca che annaspa in cerca d'un refolo.Poche ore prima, nella pancia della mamma volteggiava come un astronauta nel silenzio, nella pace, coccolato da un amore che gli arrivava attraverso un cordone.
Ancorato come una barca nel porto, Martino era stato felice dentro quella piccola, calda isola.
Poi, come un uragano che ti strappa con violenza dalla terra la sua felicità era finita. Un lungo viaggio senza respirare, il mare ormai lontano, le tiepide acque un ricordo. Giù nel profondo del burrone, giù, sempre più solo, al buio. Mai più pesce, mai più acqua, mai più isola, mai più.
(La mamma mi tiene la mano. Non posso aprire la mano.
Quando torno a casa cerco la figurina. Forse è nella tasca.Devo stare attento a dove metto i piedi non posso lasciare la mano della mamma, la mia mano è in quella della mamma)
Piove che pare un castigo di dio quel giorno di ottobre.
Piove sul viso di Egle e la pioggia si mescola alle lacrime.
Piove anche su Martino, ma lui l'acqua la adora. Non sa perchè, ma la ama tanto l'acqua.
(Devo stare attento a dove metto i piedi. Non posso lasciare la mano della mamma. La mamma mi tiene la mano.La figurina forse è casa.)
Non fa in tempo a frenare il macchinista.
Li vede troppo tardi.
Il treno passa su Martino e sua madre.
Pezzi che volano come vele che si
staccano dalla terra e si portano
via le storie, i sentimenti. Tutto.
-Era in mezzo ai binari con il bambino,
stretto, vicino. Ho azionato i freni,
ma in quel tratto chi può aspettarsi
di trovare qualcuno al centro delle rotaie?-
Piange il conduttore del treno.

Lo zoppo era grasso e agile. Trascinava quel che era rimasto della sua gamba, con un movimento del corpo perfettamente sincronizzato. Per questo l'avevano soprannominato Tango.
A dirla tutta, non era esattamente il passo di un tango a ricordare la menomazione ma, si sa, in un piccolo paese di montagna di mille abitanti, l'immaginazione si ferma all'interno della valle circondata dalle cime, innevate per buona parte dell'anno.
Così che quando nacque, Tango doveva averlo avuto un nome ma, gli durò troppo poco per essere memorizzato dalla collettività. Già che a nascere ed essere abbandonati fuori di un convento dentro a una cesta, non è il massimo della fortuna, le suore gli avevano tuttavia permesso l'accesso ufficiale a questa vita terrena. Le prime e uniche mani femminili ad accarezzargli il corpo, furono le loro. L'unico profumo della pelle di una donna, miscelato all'odore di minestrone, restò nella memoria olfattiva, legato a loro: alle suore.
Nei giorni seguenti fu affidato all'orfanatrofio e altre consorelle si presero cura di lui.
Gli odori, le percezioni olfattive, imbrigliate in quel piccolo mondo che esalava aromi confusi. Pietanze e acqua santa, una tantum, il profumo del sapone.
L'unico viaggio in macchina Tango lo fece a quattro anni, dentro all'ambulanza che a sirene spiegate l'aveva portato al nosocomio del capoluogo più vicino, in una tarda mattinata di diciotto anni addietro.
L'ortolano che si curava della piccola coltivazion dell'orfanatrofio, manovrando il trattore non si avvide del piccolo sgusciato dal refettorio.
E anche in quella occasione Tango, Felice all'anagrafe, dovette ringraziare il suo santo protettore.
San Felice era caduto per puro caso nel calendario un gelido 14 gennaio, giorno in cui venne trovato.
In fondo, per come era iniziata la sua vicenda terrena, non si poteva del tutto definirla una propria e vera "sfiga".
- "La gamba maciullata non è stata amputata.
- Vedi che Gesù ti ha tenuto stretto al suo cuore ?"-
Alla fine, anche il più scettico e ostinato degli atei, si convincerebbe.
Tango non ebbe negli anni seguenti molte opportunità per farsi una propria idea personale relativamente alla fede, né di lasciarsi cullare la mente dalla fantasia. Meno che meno di oltrepassare la soglia di un'istruzione primaria.
Effigi di santi, madonne e crocifissi stigmatizzarono il suo immaginario anche quando,
negli anni della pubertà certi riflessi involontari del suo basso ventre lo lasciavano attonito.
Poi ci si abituò, come un cane maschio, quando da cucciolo diventa adulto e, automaticamente
alza la zampa.
-E' la natura- gli disse un giorno l'ortolano al quale aveva fatto domande confuse.
-E' la natura- confermò una delle suore più evolute.
In un certo qual senso, lo zoppo grasso e agile, viveva all'interno di una bolla di plastica opacizzata.
Quelle di cristallo erano già state esaurite nel gran mercato dei destini, quando nacque.

Qualcosa aveva imparato negli anni trascorsi in convento: come e quando si concima il terreno.
Quanto si ricava dalla vendita delle patate e tutto sommato a ventidue anni, non era neppure l'ultimo barbone della terra. Un letto nel convento assicurato per il resto dei suoi giorni, grazie alla carità dei fedeli. Un lavoro che gli garantiva la pagnotta e, la vita che gli aveva donato il suo Dio. Eh, sì
- "La vita che ti ha donato Dio è una cosa preziosa"- avevano ripetuto fino allo sfinimento le monache, ignorando forse, chissà, che la vita la doveva formalmente a una donna che si prostituiva e non avrebbe saputo cosa farsene di lui.
Quello che Tango non riuscì mai a spiegarsi, fu il cumulo di emozioni che lo travolsero
quel giorno memorabile. Il giorno dell'innamoramento al primo sguardo, benedì le sue sensazioni segrete, suonò le note sconosciute di uno strumento percussivo.
Il cuore iniziò a battere così forte che temette di udirlo echeggiare nella valle.
Jlenya gli si parò alla vista in una mattinata di inizio estate. Alla fermata del pulman che collegava il paese, era sola ad aspettare la prima delle quattro corse giornaliere; l'unica via
di congiungimento con la rete ferroviaria distante trenta chilometri.
Tango, a bordo dell'Ape carica di patate destinate al mercato, arrancava sulla salita e l'ebbe
di fianco, come se la visione di un angelo si fosse improvvisamente materializzata.
Rallentò a tal punto che la tre ruote si spense e Jlenya incrociò il suo sguardo beota per la frazione di un istante.
Com'è vero che sono i nostri occhi a vedere quello che vogliono vedere.
Jlenya nello sguardo di Tango non lesse null'altro che quello che c'era: un grande vuoto la cui assenza di vita interiore appiattita, rendeva innocuo.
Lui, invece, vide il riflesso degli aghi dei pini, il più bel tono di verde dell'erba e, le forme acerbe di Jlenya gli ricordarono Suor Giselda, quand'era giovane e lui la spiava dalla grata del dormitorio prima di dormire.
Così iniziò quell'amore. E divenne l' amore segreto di Tango-Felice.
Divenne un tale fisso e costante pensiero che forse ci fu qualcuno ad accorgersi che in lui qualcosa stava mutando. Era più Felice che Tango.
Quegli incontri si moltiplicavano; lui l'aveva rivista altre volte alla stessa fermata della corriera e , alla fine si convinse che quello era una sorta di appuntamento tacito.
Jlenia dalla pelle bianca e gli occhi verdi, non aveva nome per lui. Non lo conosceva.
Era semplicemente la "ragazza bionda" che lo aspettava tutte le mattine.
Nello scambio delle stagioni, l'estate volò e l'autunno giunse con il suo bel carico di nuvole e pioggia, che in montagna durano per giorni e giorni.
Quella pioggia era benedetta come l'acqua santa.
Se non fosse piovuto con una tale intensità quel mattino, chissà mai se Jlenya, fradicia e inzuppata fino al collo, avrebbe fatto segno con la mano a Tango, di fermarsi. Tutto era assurdamente in ritardo quella mattina alle sei e trenta.
Anche lo zoppo agile e grasso lo era, con il suo solito carico di patate ma, si fermò.
-Mi daresti un passaggio fino alla piazza? Forse riesco ancora ad acchiapparlo il pulman-
Tango guardò all'interno dell'abitacolo, lo strapuntino del tre ruote aveva posto per il corpo esile del suo amore segreto. Alzò il braccio dal manubrio e lo sporse in fuori, parallelo al busto, così che Jlenya sgusciò dentro e gli fu sotto l'ascella.
Ecco, quello fu il momento più bello di tutta l'intera esistenza di Tango-Felice.
Un momento di una intensità fuori da ogni grazia terrena e, non si sarebbe potuto spiegare a nessuno quello che lo zoppo avvertì scorrergli dal cuore alla testa.
-Sono Felice- riuscì a balbettare lo zoppo e, per davvero, la sua mente danzò un Tango
denso di virtuosismi e caschè.
Jlenya sorrise, pensando che essere felici sotto quell'acquazzone era a dir poco, originale e si sapeva che in fondo in fondo, ogni donna iniziava proprio in quell'età adolescenziale ad avvertire la forza della propria femminilità. Non che le importasse poi molto di essere valutata da uno come lui.
Era una sensazione vaga di vittoria mescolata al fastidio.
Il tergicristallo segnava come un compasso una mezza luna che immediatamente si opacizzava e il rumore nell'abitacolo pareva il suono di una vecchia sveglia.
La pioggia scrosciava come se migliaia di secchiate d'acqua cadessero contemporaneamente
su loro.
Svicolando attraverso la strada sterrata che passava in un tratto di bosco, le fronde degli abeti funzionavano a mò di ombrello e, Tango, arrestò all'improvviso il trabiccolo.
Chiusa nella stretta di quell'abbraccio obbligato, Jlenya fu presa da una strana vertigine di paura.
Cercò con la mano la leva d'apertura della portiera ma, lui la tenne stretta a sé.

Tango stava sequestrato all'interno di onde dense e liquide.
Il calore gli saliva a flutti sulle gote e gli colorava il viso di chiazze.
All'improvviso, era stato all'improvviso.
Come una folata di vento annoiata di posarsi sulle fronde degli alberi e decide di infischiarsene della rotta. Può essere che il vento ha questa improvvisa voglia di spazzare via tutto,
stanco d'essere considerato brezza, ponentino?
Le sensazioni aggredirono Tango nell'arco temporale che passa tra l'istinto e l'azione,
scavalcando a piè pari tutti i comandamenti.
Aveva tra le braccia il corpo della ragazza dalla pelle bianca che si divincolava.
-Non piangere, non gridare. Non voglio farti male-
Avrebbe voluto accarezzarla, accarezzarla ma, lei riuscì ad aprire la portiera di latta
di quell'inferno e si mise a correre incespicando nel fango.
Era zoppo, grasso ma, agile e gli fu subito alle spalle; l'agguantò per una caviglia.
Caddero entrambi sulla terra bagnata impastata di aghi di pino e muffe.
Il terrore stravolgeva i lineamenti di Jlenya: il viso contratto in una accozzaglia di smorfie. Paralizzato dalla paura.
La mano libera dello zoppo scivolò lungo l'altra gamba.
La pelle umida di Jlenya era un fiume che scorreva. Oltre gli argini, distese di prati estivi e lusinghe sconosciute.
Lo ebbe sopra; l'alito dello zoppo disegnava brevi fiotti di condensa nell'aria fredda.
Allora lei gli piantò le unghie sulle guance, iniziò a scalciare come una forsennata sentendo quell'arma nascosta di Tango, farsi largo tra le sue gambe
Se non fosse piovuto, se non avesse chiesto quel passaggio, se Tango fosse nato in un'altra situazione o non fosse mai nato, chissà se sarebbe andata così.
-E' la natura. E' la natura- ripetè allo spasimo Tango-Felice
La natura bruciò in pochi secondi e, lui, l'ebbe nuovamente di fronte come la prima volta che l'aveva vista solo che, sembrava un'altra.
Lo sguardo paralizzato, catturato da un punto invisibile del cielo scuro come la terra,
che filtrava dai rami dei pini.
Tutt'intorno il silenzio interrotto dal rumore del diluvio incessante.
Il sangue colava dalla testa di Jlenya e veniva mano a mano che scorreva, lavato dalla pioggia.
In quel gran cataclisma della natura Tango non si era neppure reso conto di averla colpita più volte con quel sasso alla fronte, che teneva ancora in mano.
Gli occhi immobili e spalancati di Jlenya intrappolati al di là delle curve della vita, avevano rubato un lembo al cielo per l'ultima volta.


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