Poesie di Mario Pennelli


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Quel bacio non era un sogno
Forse è una fiaba
questa poesia vissuta con lei.
Dormivo preso tra le braccia d'un ulivo,
cullato dalla dolce brezza di primavera,
Il berretto sugli occhi ed una spiga
dorata a penzoloni tra le labbra…
questa nel sonno cadde d'improvviso
quando mi sfiorarono due labbra baciandomi...
il rosso tramonto incorniciò quell'attimo nell'eterno.
Mi destai!
Ma intorno non vedi nessuno,
eppure un profumo era lì,
sapeva di rugiada angelica.
- Quel bacio tra i campi
non può essere un sogno!
Quelle labbra ritraggono
il suo viso dentro di me,
Ad occhi chiusi potrei dipingere i suoi che non conosco...
Quelle labbra le sento su me,
nell'aria, dai nidi sui rami,
nei campi, nell'acqua d'argento di un fiume.

Nei campi voglio vivere,
tra i campi devo vivere per carezzar ancora quel profumo…
Ma di lei mai più sognai.
Il vento sempre più gelido spettinava le chiome smeraldo
dell'ulivi e dell'arbusti bradi.
L'Inverno mi sorprese,
ormai il solo ricordo di quel sogno lontano
erano le mie lacrime, brina di dolore per lei.
Il freddo un bel dì mi svegliò:
lei… lei… lei mi guardava!
Bianco illimitato inondava l'uliveto a perdita d'occhio,
nevicava, nevicava...
Nevicava, piangevo, la baciavo...

Alla Musa, alle Muse
Umidità asfissiante in queste calde notti di Maggio.
Un lampione non funzionante lampeggia, ansimante.
La via, stretta, tortuosa, è unicamente
illuminata dalla gota pallida
persa nel nero.
Alzo il naso verso te,
ti contemplo nel tuo incanto.
La tua pelle latte, il contrasto coll'oltremare del tuo sguardo,
l'aere luminoso, delicato ed intenso
che diffondi tutt'intorno a te;
e come un bimbo sognatore, col musetto all'insù,
non curandomi del cammino qui sulla terra,
continuo a perdermi in te.
Rigiro le chiavi nel portone
coll'occhi ancora assuefatti dall'ode celestiale…
- Bouboubam!

Esplode su di me il fragor d'un tuono
che s'espande prepotente per la strada
abbagliata, cristallizzata dal flash assordante.
Tutt'attorno invece un'orchestra d'antifurto
mette in scena un'opera teatrale.
Lo spettro d'un pensier mi graffia, tagliente.
Sarai ancor lassù fiammella mia?
L'ansia, adesso mi sbrindella, acuminata.
Il tempo di mirare la volta nera e la tshirt gronda, copiosa,
grosse pigne d'acqua. L'inferno in un attimo
si scatena e tu già sei fuggita.
Lo sconforto adesso mi pervade,
in veglia funebre salgo le scale
poi provo a buttar giù una strofetta…
Niente! Non c'è niente da fare!
La sorgente dell'ispirazione è in secca dentro me,
e questo perché tu, o musa, sei andata via.

Dirado le tende, contemplo la pioggia fendere, furiosa, i vetri,
fino a quando l'occhio, ape al miele, sale verso l'alto,
sforzandosi di cercarla chissà dove
Niente! Lei, purtroppo, non c'è.
La caccia al vello d'argento continua incessante,
son le mie pupille arrossate che freneticamente scandagliano ogni
scampolo del creato.
Tutt'inutile, nessuna traccia della Colchide:
lugubri nembi gravano sulla mia testa
mentre torrenti grigi di nebbia e fitti di pioggia mi sfilano innanzi.
Anche le speranze, ormai, son perdute,
mai più la rivedrò.
Lo sguardo, abbattuto, crolla così verso il basso,
col mento che si conficca nei palmi giunti in supplica,
verso l'asfalto viscido,
verso le auto in sosta, sudate come pulcini…
-Mio dio - Mi sgrano gli occhi, spalanco la bocca - è lei!

Tacita e tranquilla tutta quanta si specchia,
candida come una perla immacolata
nell'impetuoso rigagnolo d'acqua scura che, in piena,
travalica l'argine del marciapiede, inghiottendolo.
-Sei sempre stata lì, sempre!-
Stremato ma felice m'assopisco
come un bimbo..
-O potente musa, perdona la mia mancanza di fede,
il dubbio che m'assale, gl'infondati sospetti,
perdonami o piccola musa:
son solo un ceppo di legno ansimante
coll'orecchie d'un somaro.
Ti prego, perdonami, o fiammella mia,
il cui chiarore aizza l'fuoco che divampa
dalla penna allorquando questa mette
in fila due versi s'un pezzo di carta.

Il tuffo del piombino
Sotto 'sta passerella palpitante di paura
l'abisso.
Un laccio rugginoso di sangue
i polsi sudici imbavaglia ben stretti.
Una lama acuminata
dietro la schiena
fende superficialmente
le smilze carni.
Il pallore sui volti
dei compagni caduti
rosicchia, carogna, l'anima.
-Nulla m'importa più della sorte di questo scheletro
c'ancora cammina, c'ancora ansima.-
Una preghiera arraffata in fretta,
scappata via dalle mani allacciate a fil di ferro,
serba la speranza d'una
(vana) assoluzione divina.

All'ordine dell'ammiraglio,
soddisfatto com'un maiale c'avidamente trangugia
il suo bel secchio di sbobba,
l'ufficiale affonderà ancor più
la spada nella schiena di quello
che salterà, così, ad occhi chiusi, nell'azzurra voragine.

-Nel percorrere l'ultima, triste, marcia
la vita intera mi passa in rassegna:
e le vittorie dolci come il buon vino, e le sconfitte più umilianti.-

-Che disdetta: il pescecane diventa pastone per acciughe!-
Le risa dell'equipaggio estraneo,
scherniscono i brandelli d'orgoglio
c'ancora vestono il diabolico corsaro,
il maledetto brigante dei sette mari.

L'ammiraglio sa che il nemico giurato
avrebbe preferito
subire la più atroce delle condanne infernali
piuttosto che sfilare, a capo chino, d'innanzi a cento uomini
su quella dannata passerella della morte.
Sbava piacere nell'assistere all'esibizione forzata.
Assorto nei suoi pensieri di gloria
son gli occhi a parlare per lui, mirando al cuore del prigioniero,
del verme, come un plotone d'esecuzione.
-L'umiliazione delle umiliazioni.
ben ti sta, bastardo! Questo è il mio trionfo!
Questa è la mia giornata! Questo è il mio gioco!
Sono io a dettare le regole, ora!-

-Fossi morto in battaglia come gli altri!
Dannazione, si può sapere perché non mi hai
preso sul pontile, insieme agli altri?-
Il criminale alza lo sguardo severo al cielo,
come a volerlo sfidare; poi la furiosa
burrasca dei suoi pensieri in piena riprende
-No! Naturalmente per questo sacco di pulci
non hai voluto questo!
Il capitano, ovviamente, deve essere l'ultimo,
L'ultimo ad andarsene! Prima dovrà applaudire lo spettacolo dei suoi
uomini, fratelli, che inerti cadranno l'uno dietro l'altro,
affolleranno il ponte coi loro mucchi esanimi
e l'inonderanno di rossa rugiada, mattanza rabbiosa e cieca.
Lui dovrà essere l'unico superstite della furente battaglia.
Verrà beffeggiato, torturato ed ammanettato prima
d'essere posto s'una lercia passerella,
tra i corpi sfigurati dei suoi uomini,
che percorrerà, umiliato, d'innanzi ai sadici avversari.
Sopravvissuto indegno, soccomberà corroso dai vermi del fondale
c'assaporeranno le prelibate carni intenerite dalle acque.
Doveva finire così, vero?-
Un altro occhio minaccioso verso la volta limpida;
Un sole maturo la domina.
La preghiera blasfema pare terminata.

Si avvicina sempre più il momento.
L'ammiraglio sembra rimandarlo di minuto in minuto
per degustarlo, come fosse un costoso piatto di ostriche.

Siede un fanciullo in disparte più in là.
Sarà il figlio dell'ammiraglio.
La sorte c'aspetta il prigioniero
il faccino gl'intristisce.
Ma non per pietà,
piuttosto per il profondo rispetto che nutre
verso l'uomo di cui, da quando era solo una mezza sardina,
aveva sentito parlare ininterrottamente.
La caccia al maledetto pirata, la cattura del maledetto pirata,
la fine del maledetto pirata: per dieci anni nessun'altra
dolce ninna nanna paterna lo aveva cullato, notte e giorno,
nessun'altra filastrocca dell'equipaggio lo aveva allietato,
nessun'altro poemetto suo padre gli aveva imposto d'apprendere a memoria.
Su quella nave aveva imparato ad odiare il fuorilegge.
Qualora fosse arrivato il fatidico giorno della cattura,
quello sarebbe stato sicuramente il più felice
della sua intera vita, questo aveva sempre pensato.
Ma non sembra sia così.
Tutto imbronciato, da lontano con i suoi occhioni neri,
guarda il poverino sull'orlo del baratro,
con la schiena insanguinata e le mani legate.

Addio capitano!
le cui gesta leggendarie solcano i mari
sospinte dal tuo nome;
sarà tutto più triste qui senza di te.
Indomita personalità fiabesca,
la tua fine spazzerà via quell'esigua
magia che resta ancora in questo freddo mondo grigio.

E' sul viso ancora roseo del fanciullino
che si raccoglie lo sguardo, poco prima perso tra le onde, del prigioniero.
Due lacrime conta scivolare sulle tonde gote affrante
del piccolo.
Un sorriso insperato svela adesso il pirata,
intenerito dal silenzioso pianto del cucciolo,
unico fedele addolorato tra quelli presenti alla sua veglia funebre.

Un urlo collerico d'un ufficiale lo scaraventa nuovamente su quella nave.
La fine della macabra agonia è ormai prossima: si avverte nell'aria.
L'ammiraglio si frega le mani dalla sfrenata contentezza,
la spada con ancor più veemenza tartaglia sulla sua schiena,
la folla in festa, con sempre più voce intona un coro di giubilo.
Poi, ad un certo punto, il più alto in grado con un solo gesto
ferma la cantilena, deciso più che mai ad emanare l'ordine tanto atteso:
scorre, famelico, la lingua sui neri baffi ricciuti…

L'ultimo pensiero alla nera Jolly Roger,
amante eterna e compagna di vita.

L'ammiraglio,
adesso,
ha trionfato.

L'orchestra dell'universo
E così, il pecoraio Licida, colla zampogna
che volteggia leggera,
smarritosi tra l'alte erbe delle terre nere di Demetra,
decide di sfidare, con umiltà, ad una gara di canto:
il raglio dell'grigio asino
coll'orecchie chine dalla fatica,
e lo zampillio di papaveri arroventati che sboccian, improvvisi,
dal manto smeraldo,
e il fruscio delle spighe d'oro in dolce danza,
in balia dei cavalloni di Eolo,
e l'orchestra di cicale in gran festa, laggiù,
sotto il pino eremita,
e le rimbombanti percosse degli zoccoli dei bovi, rudi mortai,
sulla guancia polverosa di Madre Terra,
e lo spettegolare delle capre, delle pecore, degli agnellini
che marcian per il paesello prima di giungere sul campo fresco,
e la silente confusione che propaga lo sbatter d'ala dell'uccelletti,
a caccia di vermi, alle calcagna della trebbiatrice,
e il ronzio incessante dell'api e delle vespe.

La notte domina la volta.
L'eco celestiale delle movenze degli astri,
allineati in perfezione geometrica,
s'irradia per le terre e per i mari, dolce ninnananna per l'umanità.
Il fischiettar dello scirocco umido del deserto,
l'ululato d'una tormenta artica,
il gracidar assordante delle piogge, delle grandinate, il frastuono d'una saetta
c'accende, in un frastuono, la foschia
notturna,
l'infrangersi prepotente
dell'onde scure sull'alte scogliere,
il borbottare d'un monte
fumoso, custode del tesoro incandescente,
le filastrocche che intonano
i grandi occhi dei boschi,
civette, gufi, barbagianni appollaiati in gran torpore:
ogni strumento rispetta, diligente, lo spartito della Madre.
E Licida è ancora lì, perso, totalmente dominato,
dall'ode soave degli enti, dal cantico del Creato.

E Dafni, compiaciuto, poggia sul nudo terriccio la bacchetta,
la verga pastorale, e s'abbandona, gioioso, ad un pianto,
ad un piovigginare, intenso, di vita.

Argentina
Cielo ed acqua cosa sola
ingravidano la terra vergine di un candore universale.

Nel Capricorno dominano le fiamme,
sulle Ande, nella Terra del Fuoco padrone è il gelo,
fra gli estremi sgomita il paradiso.

Tango nel sangue presso i sobborghi:
i corpi sembran prender parte, esser parte
d'un bizzarro gioco amoroso
forgiato da corteggiamento ed intensa sensualità.
Sangue rosso nei motivi gauchos:
le mani e le menti fusi alla natura,
bestiame libero e selvaggio nell'unverso smeraldo,
sudore dell'esperienza terriera a flutti come quando piove.

Cerere veglia sull'incessante andamento di spighe d'oro,
Eolo tarla le vette torreggianti che si perdono,
Giove, con i suoi nembi umidi, è latitante nelle distese infuocate.
La Giustizia mai ha varcato gli sconfinati ammucchiamenti di cartone.

Le lande di questi luoghi,
così oscure a Dio,
ma così radicate nelle sue mani,
così dimenticate dal mostro moderno,
ma linfa vitale di questo,
così distanti dalle frivolezze, dai falsi schemi,
dagli assurdi cerimoniali,
così lontani dalla razionalità, sciolti da ogni logica
e mai così prossimi alla verità
son figlie di moti ostili in armonia.

Tutto può come non essere.
Solo qui la menzogna può esser verità.
Eppure il segreto dell'armonia è uno solo: la diversità.
E' questa che ansimando mantiene il precario equilibrio.

La furiosa vigoria d'una tormenta in Patagonia,
come la quiete paesaggistica della prua che volge a Mezzogiorno,
come le scaltre movenze d'un guanaco per le distese di Ponente.
Non mi trovo sulla Terra.

Scoppiano i polmoni fradici di vita!
Questa non è aria, è aura sfavillante
d'ardua descrizione.
Cielo alieno ai miei occhi:
la volta schiumosa perpetuamente è innevata.
M'abbaglia il folgore d'avorio,
proietta il mio corpo nell'infinito, nudo dal tempo fedele.
Piombo sulla terra quando i lattei pascoli elevati vengon ombrati
da sterminati greggi di nubi porpora che pascolano fiacchi.
Anche l'ardore dei roghi, quaggiù, è d'un altro sapore,

degli stessi roghi che costellano sentieri e strade sterrate,
che riscaldano le spalle scavate dal tempo
dei gauchos, che lodano in cerchio il rubicondo signore.
In quei mandriani che si sbrinano le ossa c'è tutto il paese,
c'è il patrimonio secolare della loro terra.

Paese concepito nel sangue dei rivoluzionari
sotto bufere di polvere e d'armi.

Le genti, le tradizioni,
ogni cosa è permeata di storia, allattata da questa.
Storia nutre storia, regno d'immobilità,
ogni filo d'erba ha sempre ammirato la sua ombra,
com'ogni chicco di roccia, dalla notte primordiale.

L'eco, sussulto viscerale della terra, si propaga da millenni.
Logora saggezza grava su ciò che invecchia.
Anche il niveo cielo s'accartoccerà
quando crepe e vento avranno venato le colonne del tempo,
le costellazioni ci seppelliranno sotto il chiaror universale
e il mare valicherà ogni argine e ci annegherà nel suo incanto.

Fatica primitiva investiva speranzosi senza terra.
Barconi di lacrime s'accalcavano nei porti.
Non trasportavano passeggeri
ma storie, milioni di nuove storie.
Storie con una pezza indosso e pidocchi in capo,
storie senza lavoro, casa, dignità. Storie senza storie.
Storie che non sapevano leggere e scrivere,
storie disperate italiane, ispaniche, tedesche ed olandesi.
Fieri leoni hanno aggredito la fatica ed innalzato templi sulla polvere:
l'antica Piazza Rosa ora è un moderno grattacielo a Santa Fè.

Prede inermi, assalite dal nuovo mondo,
posseduti nell'intimo dall'aura sconosciuta.
Plasmati a sua immagine; spiriti estranei fusi assieme
in una Genesi nuova fondata sul baratto.

Ma la sabbia del tempo scende, i ricordi sbiadiscono, l'indifferenza si marca.
Son rimasti solo i gauchos, ultimi eredi del tempo che fu,
discendenti e custodi di quella clessidra, che svuoteranno sino all'ultimo.
Cosmo nel cosmo questo, di uomini d'onore
forgiati nel fuoco di valori silvani e genuini.
Amano ogni lacrima del loro fiume ed ogni macchia di grano
che il buon Dio schizza pei campi.
Ogni lor gesto schiude mondi fantastici all'occhio forestiero
c'afferra nell'inasprimento d'una ruga incavata sulla fronte, maestria secolare.
Nomadi inseguitori di mandrie, fuggiaschi del caos.

Non perdete la speranza ultimi gauchos!
Lavoratori infaticabili,
nipoti dei nostri avi,
la lunga lotta è alle battute ultime.
Le spighe sono auree e l'ora della falciatura è prossima!

Argentina maestra di vita:
insegna ad emigrare da pregiudizi ed ipocrisie.
L'anima d'Argento impreziosisce ogni suo figlio:
la dignità è innata
e la libertà è cieca di frontiere.

Terra di contrasti, questa canuta:
dal caos dilagante ed ordinato delle basse metropoli,
al labirinto del vuoto deserto,
dal ricco affarista,
all'operaio, al gaucho, all'emigrante.
Crogiolo di razze,
forziere d'opposti,
ogni filo mosso sapientemente
dal burattinaio Divino.

Non cercar di fuggirle,
la febbre d'Argento brucia già nelle tue vene.

Scambio di doni
Lande d'argento a perdita d'occhio,
torrenti impetuosi e brulli,
praterie sconfinate di sabbia fertile…
Argentina!
Il chiavistello del tuo cuore aspro e selvaggio
hai aperto alle mani assetate dei nostri padri,
che in un abbraccio materno hai cinto attorno al tuo seno
prima,
ed hai svezzato amorevolmente
poi.
Valigie di speranza erano riposte nelle loro viscere
e goliardici flutti di rivalsa nei loro animi.
Italiani valorosi!
Laggiù han conquistato il loro padronato
esportando quella materia prima
che mai smetterà di zampillare dalle nostre vene:
l'infaticabile forza delle braccia, l'inesauribile fiducia negli eventi.
Ed ecco venir su dalla nuda roccia
enormi città, illuminate dalla brezza forte e pura
che porta con sé la risacca dell'oceano quando s'insinua
fra le fenditure e le rugosità di scogli vergini
o s'irradia
sulla finissima polvere dei lidi d'argento.

La vigoria del primo chiarore
Esile come quel primo soffio di luce argentea che
filtra tra l'umida caligine annidatasi fra le fronde corvine
e l'imponenti tronchi secolari arsi dall' ustionanti nubifragi chimici
d'una selva ripudiata dai moderni,
abbandonata alla malora,
e sommersa dai rifiuti e dal letame.
Imperterrito come quel primo soffio di luce argentea che
spezza il ritmo monotono e sempre uguale di spento nero,
squarcia, seppur in un solo, unico tratto,
le dense foschie dell'ignoranza
e sparge il seme della vita
concependo soffice muschio s'un ceppo di carbone.

Imperterrito seppur esile, si mostrerà d'ora in avanti il soffio vitale
c'alberga dentro me,
che forzerà il viandante a proseguire sullo stesso sentiero,
lastricato o disselciato, senza cambiarlo al primo bivio che
si prospetterà, manna dal cielo, alle dolenti scarpe sue,
corrose dal peregrinare
per dossi invalicabili,
distese torridi
e viottoli acuminati di montagna
i cui ciottoli,
oltre alle loro suole,
dilaniano anche il suo cuore.

L'albero e la pioggia
Assetato è il povero alberello,
degli umani solo un inutile fardello,
sa che se magro e fragile diverrà
quei malvagi lo sradicheranno di là,
lo faranno in tanti pezzetti tutti uguali
e diventerà carta per i giornali.
Così prega la pioggia del cielo
parlando a cuor sincero:
-pioggia cara io sono l'alberello,
vieni giù, anche se non ho l'ombrello-
Quella dispettosa
però, gli risponde questa cosa:
-purtroppo gli uomini mi hanno inquinata
ed ora non sono buona neanche per l'insalata-
dal semaforo l'alberello è deriso
e qualche giorno dopo, dagli uomini, ucciso.

[L'albero e la pioggia (da Mario del 1999)
Sempre per volere della meravigliosa professoressa Fiori scrissi questa poesia a tema naturalistico,
dove già si può scorgere una vena pessimistica, ma non troppo, data la fine degli sparuti e spennacchiati alberi cittadini. Elemento importante: in quegli anni il mio mito era Adriano Celentano, da sempre mio modello spirituale, artefice di tante battaglie contro lo scempio umano sulla natura e più in genere di battaglie politico-sociali (molto in voga negli anni '60-'70, che io riesumo nella maggioranza dei miei scritti).
]

Buon fine anno !
Tutto è finito.
L'anno è finito.
Che annata brutale
irta di delusioni
e velenosa di dolore.

Son sicuro che mentre tutti
questa notte si abbracceranno, gioiranno,
e s'ingozzeranno di panettone imbevuto di spumante,
io serrerò gli occhi, solo per un attimo però,
e apparirò isolato nella desolazione assordante del silenzio.

Non ho grandi richieste,
non faccio grandi propositi:
mi accontenterei che quello che mi si prospetta innanzi
sia solo un po' più sereno,
di quanto ho già valicato.

Che annaccio orripilante è stato, questo!
Ciò che più mi fa sorridere è che dodici mesi fa
pensavo le stesse cose dell'anno appena passato!
Quindi, forse è meglio che aspetti
a giudicare questo negativamente:

non c'è mai fine al peggio.
Non c'è nulla da fare,
ogni anno è sempre più oscuro;
pazienza!
E si sfilaccia, così, un'altra tela, un altro calendario.

Il cavallo Vento
Il cavallo Vento
corre corre e in un momento
è già arrivato
e gli animali del circo ha liberato.
Il cavallo Vento,
bellissima è la sua criniera bianco-spento,
è severissimo con chi aggredisce la natura
ma buono e gentile con chi se ne prende premura.

[Il cavallo Vento (da Mario del 1997)
Mai, mai, potrò dimenticarmi delle avventure di cavallo Vento, che nella mente d'un marmocchio speranzoso appariva come una sorta di supereroe che coglieva sul fatto tutti quei loschi individui che arrecassero qualsiasi danno a Madre Natura.
Come potete ben capire, il tema naturalistico, la voglia di preservare il mondo circostante e l'intento di punire i malfattori ha sempre albergato in me, ancora convinto degli ideali per i quali se il mondo nel quale noi viviamo fosse più pulito si sbiancherebbe anche la nostra anima.
Ricordo abbastanza bene l'occasione per la quale la scrissi: la leggendaria maestra Rosa diede per casa il compito di scrivere una poesia a tema libero. Mia madre, anche se finge di non ricordare m'aiuto in modo non infinitesimale nel comporre gli ultimi quattro versi d'una poesia la cui scelta del tema è stato esclusivamente mia. Ciò che non rammento, invece, è il numero di domeniche a pranzo dai miei nonni, nelle quali ero costretto a salire su una sedia e a recitarla d'avanti a tutti.
]

Insipido spirito natalizio

E' tempo di Natale.
Davvero?
Bah, io non me ne sono accorto,
potrebbe tranquillamente
essere Ferragosto, Pasqua o Carnevale.
Quanto mi fa soffrir questa
mia dimenticanza di Natale.
È come se un Orco ingordo
l'avesse depredato dal mio cuore:
l'armonia, i colori, le luci,
il montare l'albero tutti assieme,
il presepe sempre uguale e sempre meravigliosamente diverso,
l'andare a fare le compere di natale
tutti assieme, come una famiglia,
il baciar la culletta del Cristo a mezzanotte.
Ma è proprio l''aria
natalizia che non avverto più.
Non percepisco l'odore pungente del Natale
di cartellate e polvere da sparo, lo stesso
che prima cominciavo ad avvertire dall'inizio di Settembre
quando il mio cuore spensierato inaugurava
un infinito conto alla rovescia
al giorno più bello dell'anno.
Ora non lo assaporo più,
non lo avverto più,
non riesco più a toccarlo, a palparlo:
monto l'albero, da solo,
le non più candide pecorelle, ed il cielo
sempre zeppo di stelle,
mentre mia madre lavora, mio padre stanco riposa,
mio fratello gioca al computer…
Forse è questa una delle cause della mia cecità natalizia.
Temo che però ci sia dell'altro:
io non sento più il motivo di elargire auguri e doni a tutti
o di giocare a tombola o a domino come in passato,
eppure lo faccio comunque,
ma senza fede, senz'anima,
come uno scatolone ben infiocchettato fuori
ma vuoto dentro.
Forse mi comporto comunque
in questo modo
per tentar di annusare
gli ultimi pollini rimastimi dentro del fascino natalizio;
ed allora tento di abbrancarlo
con le unghie avide, anche se non credo più in lui.
Probabilmente mi converrebbe attendere tempi migliori,
tempi che mi facciano tornare un sorriso sfavillante
sul volto ora triste dell'animo,
che mi facciano rabbrividire nuovamente
d'innanzi ad un caminetto infuocato.
Son conscio però di farmi, così facendo, solo del male:
perché soffrire ancora di nostalgia
e ricordare con un sospiro
quelle luci e quei colori
che da piccino mi facevano brillare gli occhi,
battere i denti e palpitare il cuore?
Oppure, forse, è una processo naturale
l'affievolirsi dello spirito natalizio?
Ma sì, tutti crescendo non vivono più il Natale come da piccini,
rimanendo svegli la notte della vigilia
sino a tardi (l'una al massimo)
per giocare con l'amatissimo dono
consegnato dal barbuto signore
magicamente ed inspiegabilmente la notte stessa.
Sì, deve essere così, l'affievolimento è una prassi
e la mia nostalgia è solo paura di crescere
e non disgiungermi dal passato felice e gioioso
e dai suoi rituali.
Peccato però. Come si stava bene all'epoca!
O forse si è sempre stati male
ed erano i miei occhi di fanciullo che non lo sapevano.
Beata ignoranza! Vedere tutto
dietro magiche lenti
mi faceva scorgere solo i primi balocchi
che il commerciante ordina sugli scaffali,
senza tormentarmi d'indagare sulla qualità
di quelli nascosti più dietro.
No.
No, non ho perso lo spirito natalizio
solo perché son cresciuto.
Magari, la perdita di fantasia è fomentata del nubifragio
che si sta abbattendo sul relitto alla deriva della mia famiglia,
o dal distacco dai parenti sempre amati
divenuti da un giorno all'altro
"estranei".
Ecco.
Finalmente ho sviscerato i sintomi della mia dimenticanza natalizia.
Non potendo tornare indietro mi accontenterei di trascorrere
serenamente i giorni che mi separano dal Natale.
Come fare non lo so,
di certo non posso prendere un pezzetto di carta, un pastello
e con la manina scrivere una lettera al barbuto signore.
Riflettendoci non sarebbe una cattiva idea:
magari potrebbe essere l'unico stratagemma per
liberare il mio naso
dalla spessa coltre di smog
che lo tormenta, per poter poi
riassaporare a pieni polmoni la brezza natalizia.
Nel frattempo annoto che tutti, fuori dalla mia finestra,
son più spensierati, gioiosi e
buoni (almeno per finta, bisogna esserlo dato che è Natale).
del solito.
Ed io sto qui,
a stender due parole in versi
di una poesia che da giorni volevo scarabocchiare
per poter così diagnosticarmi al meglio.
In fin dei conti ci son riuscito,
ed ho capito qual è la prima cosa da fare:
spedire una letterina, con tanto di disegno sgangherato,
al Polo nord.

-Caro babbo dalle tonde guance rosse
era tanto che non mi facevo sentire, scusa il mio
comportamento disdicevole.
Se decidessi di perdonare questo bimbo cattivo
e di portarmi qualche dono sotto l'albero,
ti chiederei di pestare la mia timidezza e d'infondermi
il coraggio di leggere una mia poesia,
magari proprio questa,
alla gente che distrattamente vivacchia la sua esistenza-

Gazza ladra
Grande ladro amante dell'oro
conosce anche l'arte del volo,
aereo nero in miniatura,
quant'è complessa la natura!

Sa volare, non è educato
il mio diamante ha rubato,
mangia vermi e vermicelli,
son spariti i miei gioielli!

Gazza ladra (Da Mario del 2000)
Nel bene o nel male è uno stornello che mi seguirà per sempre. Ricordo chiaramente che la buttai giù in seconda media, per volere dell'eccezionale professoressa Fiori che, allestendo uno spettacolo teatrale (recita), voleva che ognuno di noi componesse un piccolo indovinello.
I suoi versi sono abbastanza sciocchi ed infantili, ripercorrendo la farsa riga degli indovinelli da barzellettiere, rammento che la poesia-indovinello mi appariva demenziale fin da quell'epoca e addirittura mi dava fastidio il fatto che il mio esser divenuto celebre in tutta la scuola fosse per merito di due strofe tanto insulse piuttosto che per altre poesie ben più profonde. Smarrendo il foglio sul quale avevo scritto la seconda strofa non potetti recitarla durante quella recita, ormai leggendaria.. Rinvenni quel fatidico stralcio soltanto a scuola ultimata e posso dire con certezza che per quel motivo m'incavolai come una bestia!

Canarino senza peccato
Canarino spento,
canarino triste,
canarino muto
ma che resiste.

Canarino addolorato,
canarino di sabbia,
canarino sconsolato
perchè in gabbia.

Il mondo scorre dentro la vicina finestra,
ogni minuto luci, suoni, pianti e risa,
tutto il giorno è una gran festa,
all'occulto di questa grata in ghisa.

Chissà quel suono da che sarà scaturito?
E chi l'avrà emanato quel forte bagliore?
S'interroga senza tregua il canarino incuriosito.
L'immaginar quella strada la sua unica trasgressione.

Non ricerca mica la libertà, gli azzurri orizzonti,
quella non s'è l'è mai sognata, esistenza funesta,
non vuol volare tra alte chiome e verdi monti,
s'accontenterebbe della semplice strada nella finestra.

Mamma perché non canta l'uccellino?
Ma di chiederselo non c'è ne bisogno:
il solo all'oscuro non è il canarino,
dietro un ferro, infatti, è imprigionato il suo sogno.

Canarino addolorato,
canarino di sabbia,
canarino senza peccato,
che non si ciba più per la muta rabbia.

Canarino spento,
canarino triste
canarino le cui lacrime si perdono nel vento,
perchè, adesso, non più esiste.

L'enigma delle stelle
Stelle lente, pesanti,
immobili nell'oceano cupo,
legate con lo spago al soffitto senza confini,
stelle in gregge,
milioni di agnellini al pascolo, affaticati,
fiacchi, assonnati, prede facili,
lucciole sempre vive
in letargo, congelate, fisse
nello stesso attimo eterno.

Stelle stanche,
stridenti, stridule nel silenzio,
strenuamente abbaglianti,
strette nella morsa dell'illimitato,
sottomesse, sopraffatte, strozzate, strangolate da esso,
stelle starnazzanti, sopite, sterili, sterminate da quel cacciatore,
stelle stimate dai deboli terrestri,
stimolate dal vigoroso sole,
stelle storiche, stravaganti, straripanti nel nostro animo,
stelle stregate dalla storia,
che stritolate a piacimento,
stelle stupratrici dei nostri intelletti,
stelle sudice di magia,
sinuose, superbe, svisceratamente umili,
stelle svolazzanti nell'immenso, svezzate da esso
stelle svincolate dalle leggi naturali,

stelle ristagnanti nell'acquitrino cosmico,
stelle sprovvedute, spiritose,
stelle spettacolari, speziate d'incanto
stelle spietate, spinose come fichi d'india
stelle spensierate, speranzose,

stelle immortali, mi svelate allora il perché
della vostra resa incondizionata a questi nembi
carichi d'astio e tristezza che
v'han morso e avvolto tra le venefiche spore?

Bussole naturali smagnetizzate,
trappola per i marinai che solcano l'orizzonte,
nebbia fitta per gli esploratori solitari
che si aggirano tra le distese infuocate del deserto.
Roghi spenti dalla pioggia, dal nubifragio,
dal cataclisma, dall'Apocalisse del quotidiano.

Il Miracolo delle Luminarie
È Natale:
le luminarie
s'accendono di vita
avvolgendo nella spirale
abbagliante, l'ombra della città.

La città dai mille e più palazzacci corvini
ha seppellito le gioconde venature del cielo e dei campi,
sotto una lapide d'asfalto,
sotto un'orda di stracci, anneriti dal tempo,
di vagabondi cha passeranno
le feste nel caldo ed amorevole torpore d'una gelida stazione,
sotto le centinaia di migliaia d'indifferenti
dai volti, sempre uguali, di cera fuligginosa,
sotto un alone, perenne e ristagnante, di morte e tristezza
che domina sovrano dall'alto.

Luminarie, voi che custodite
nell'aurea gracilità della vostra fiammella,
il potere tanto immenso quanto sfuggevole
di riuscire nel miracolo
di far sospirare e strozzare il cuore ai passanti
dallo spettacolo semplice e sontuoso che l'inonda,
tanto da ostruire la clessidra per un istante,
rischiarate, ve ne prego,
anche l'animo,
e non solo gli occhi dei vostri posseduti,
.
Realizzate questo mio desiderio,
m'inginocchio al vostro cospetto:
anche se solo per una manciata di attimi,
il tempo necessario per far spalancare,
agli inondati, naufraghi nella vostra immensità fugace,
gli occhi sulla desolata e fredda realtà
e per riassaporare l'elementare, emozionante gioia
che si schiude, miracolo divino,
in un sincero abbraccio.

I funerali del capitano
Rimbombano nella quiete delle rigide foschie notturne
urla, lacrime e lamenti disperati.
Poi l'impeto del capitano si placa.
Stramazza al suolo ed impotente dall'ira
inarca un'asse di legno col pugno sì poderoso
che perde gocce nere di sangue.
Poi, immobile, grondante pioggia,
fissa lo spettacolo che lo circonda:
cielo e mare, cosa sola, sola fiera demoniaca,
sadico felino che dilania a più riprese
i tarlati brandelli della sua bagnarola.
Scruta ancora il paesaggio tetro.
I mozzi son fuggiti tutti, lui no. Lui inforca il timone,
tenacemente lo ghermisce,
vigorosa e fresca linfa brucia nuovamente
le sue brulle vene, l'ardore del convincimento
ravviva il pallore del suo volto; la fine si allontana.

Maledizione! Un altro sinistro cigolio,
un altro squarcio sbrana la carogna della sua piccina,
le cui misere reliquie, paion comete, piombano nel profondo.
Convitati al rinfresco funebre
uno stormo lugubre di gabbiani, empi avvoltoi,
manifestazione della fredda mano che la morte,
senza pietà, ha posato sulla stanca spalla del capitano.
Un ultimo, ironico sorriso lascia al mondo.
Poi s'abbassa il berretto sugli occhi,
ed impassibile, vero eroe,
attende l'epilogo della tragedia.

Carcassa alla deriva
Sciagurato filibustiere,
la battaglia, tragica, è finita d'un pezzo.
I corpi svuotati dei compagni tuoi dormon beati.
Fluttuare tra le piatte onde dell'alto mar
tinteggiate da una scia rossa che perde il tuo addome,
sputare sangue ed acqua salata in gran quantità,
reclamare sbraitando una dolce goccia da buttare giù,
avvinghiato, colle fioche forze rimaste, ad un brandello di legno,
prolunga l'interminabile agonia.

E mentre oscilli sulla nera tavola,
col chiaror latte che la fa brillar
un soave pensiero ti tormenta:
mollare il legno e farsi inghiottire, dolcemente,
dagli abissi più profondi.

Trasformazione
Affondare con rabbia
il pugnale, profondo, nel levigato legno
dell'albero di maestra
colle mani tremanti, l'occhi
lucidi e la pellaccia
che gocciola freddo
dall'accecante ira,
dalla violenza delle volgarità, mare in tempesta, fendersi
un labbro e lasciargli sgorgare nero sangue,
percuotere il proprio equipaggio inetto,
ammainare con irruenza la bandiera limpida dell'innocente animo
e far agitare al vento, alta e minacciosa, la Jolly Roger?

Racconto delle ultime ore d'un capitano
Cielo oscuro di nembi furiosi.
Folgori dalla notte illuminano il suo ghigno di morte.
La bagnarola è in mare aperto
e nessuno la può salvare
dai flutti che a furia di attacchi la fanno vacillare.
I marinai, in preda al panico, stan fuggendo tutti, tutti.
Solo il capitano rimane imperterrito a bordo:
che fare, anch'egli deve scappare?
No. Un capitano affonda assieme alla sua nave.
Si mette a prua, le onde grosse lo ammaccano,
lo stendono, vogliono inghiottirlo, ma egli non si fa vincere:
stretto si lega alla prima fune
ed ogni volta che stramazzerà si dovrà rialzare,
sempre con meno forze, è vero, ma sempre con più ardore.
Il porto non è poi così lontano, ma il faro è spento,
non può illuminargli la via,
il faro, come i suoi uomini, gli ha voltato le spalle.
E' davvero solo.
L'ammutinamento dei suoi, salpati in tutta fretta, conigli di mare,
prima che il capitano ordinasse la fuga,
è un duro attacco al suo vecchio cuore malandato.
Da molti se lo sarebbe aspettato, ma dai suoi più fedeli no:
distratti o indifferenti son corsi via anche loro.
No, dai suoi fedeli non se lo sarebbe aspettato,
dai fedeli compagni che ha amato come se stesso,
ai quali ha dato tutto oltre ogni modo.
Mentre pensa ciò, quelli l'hanno lasciato solo nel grigiore
del ponte, e traditori, non gli hanno lasciato
neanche un salvagente.
E' completamente solo.
<<Che sciocco sono stato a pensare che m'avrebbero aiutato.
Ho sbagliato sempre tutto: ho arruolato, ospitato,
cresciuto lupi travestiti d'agnelli: sono stato loro padre, madre,
amico fraterno e capitano; quanti bei momenti ho trascorso con loro.
Mi sono sacrificato, e questo è il ringraziamento…bravi!
La vostra indifferenza, il vostro menefreghismo m'inorridisce!>>.
Questo urla nella tempesta il vecchio lupo di mare.
Poi contempla con rammarico il faro:
<<Non ci siamo mai piaciuti, diavoleria dell'uomo cocciuto,
mai capiti, mai parlati.
-Dato che disprezzi le corruzioni umane sulla natura,
fatti guidare dalla stella Polare!-
M'hai detto, e le urla del torrione han riecheggiato per i sette mari.
Come chiederle aiuto: fitti nembi di pece l'han ricoperta.
Anche la stella, la mia stella, s'è spenta e m'ha abbandonato.
Era già da un po' che funzionavi ad intermittenza, ma non credevo che
un giorno avresti perso tutto il tuo inestinguibile vigore.
Quel vigore che m'ha sempre tracciato la strada, sempre, forse anche troppo.
Un tradimento così, anche da te stellina cara, non l'avrei ipotizzato
neanche nei miei incubi peggiori!
Dono di Dio, mia luce perpetua! Ma non preoccuparti, ricominciamo daccapo!
le dico irrequieto. Macchè mi risponde in malo modo anch'ella
-se fin'ora ti illuminavo, anche poco e con luce falsa,
mai più i miei raggi t'indicheranno la via!>>
Ora il capitano è universalmente solo.
Terribili cigolii rimbombano dalla stiva, s'insinuano viscidi nelle sue orecchie
rosicchiano la sua mente
e non gli danno tregua: un pilone ha ceduto, un'altra falla si è aperta.
È il preludio, il preludio della fine.
Ma lui resta lì, impassibile, stretto alla sua corda a prua così saldamente
da sanguinare. Nonostante la pioggia, i tuoni e le saette lo tormentino,
il gelo, impetuoso lo corroda
e forti mareggiate lo annientino, resta lì
ad ammirare imperterrito le venature del nero mare in rivolta.
Del mare che a breve inghiottirà la sua amica tanto amata,
casa delle sue membra e dei suoi sogni, delle speranze e delle delusioni,
delle gioie e dei fallimenti.
<<Piccola mia, nave del mio cuore, mi spiace che sia finita in questo modo>>
Certo, anche lui sarà pasto delle acque, ma non gli importa,
non più di tanto, almeno.
<<La mia vita è nata in mare ed in mare avrà fine. Non preoccuparti di me,
piccola cara, resterò legato a te fino all'ultimo. Ce ne andremo insieme>>.
È pensare che lo spettacolo naturale dalla potenza distruttiva inaudita
che gli si presenta sotto gli occhi e che sarà la sua tomba,
è un dipinto naturale di bellezza inebriante:
tutte quelle sfumature di nero, grigi e blu ombrosi;
fasci abbaglianti di bianco squarciano il monotono;
opera di un pittore tormentato in guerra con se stesso,
ma che comunque non ha perso l'inconfondibile tocco.
<<Se almeno avessi modo di vedere il sole e la luna,
chiederei loro una mano. Ma non ci sono.>>
Anche ora, che le fauci rabbiose di madre natura iniziano ad assaporare
la vecchia carcassa della sua bagnarola,
il capitano svolge i suoi compiti: mantenere accesa,
e riparare dalle interferie, la foca fiammella della lanterna che gli hanno donato.
<<Fin'ora, a moto alterno, ce l'ho fatta,
adesso non so se la fiamma scomparirà assieme a me
negli abissi schiumosi o rimarrà intatta.
Comunque vada, l'ho protetta sino all'ultimo, sotto il mio
impermeabile caldo e grondante di pioggia>>.
L'agonia continua, ma diventa più intensa.
Il legno galleggiante alla deriva
è agli ultimi spasmi. I lampi scompaiono dal putiferio.
Sono andati via anche loro. Sigillano la sua morte solitaria,
come una bestia al confino, intensificando il suo isolamento.
Rinforzano l'indifferenza collettiva del mondo intero, che sta lontano,
al sicuro del porto a guardare, ammutolito, la fine d'un uomo, senza far nulla.
Impassibile. Molti di loro
non sanno nemmeno cosa gli stia capitando.
Sono lì solo perché si è diffusa la voce
di uno spettacolo da non perdere: uno sventurato che sta per annegare insieme alla
sua nave,.<<Lo stolto - il capitano nel silenzio, ode quasi il bisbigliare del pubblico-
crede davvero nel suo compito e muore per esso! Tu sai chi sia l'idiota per caso?>>
<<No, son venuto qui in fretta e furia solo quando la notizia era già diffusa,
ed il divertimento della fuga dei marinai, passato da un pezzo.
Così mi trovo qui, sotto questo tempaccio,
a congelarmi il sedere per nulla, visto che non si vede un corno con questo mare grosso.
Io torno a casa. Domani raccontami com'è morto l'illuso d'accordo?>>
Tutti, è chiaro, una volta finito il macabro spettacolo divertente torneranno nel
caldo delle loro abitazioni. Nessuno si preoccuperà di recuperare il suo cadavere.
La forza degli enti cresce ancora.
Adesso ogni cosa è ricoperta di nero. Ogni cosa è uguale all'altra.
Ogni cosa si unisce all'altra. Mare, cielo e nave cosa sola
in un turbine d'inchiostro cupo pronto a stritolar lo sventurato.
Nel putiferio gli sovviene che solo una cosa non l'ha lasciato mai, e continua a stargli
vicino: il suo berretto marinaro, vera corona per un lupo di mare.
Lo ghermisce, è zeppo d'acqua e sbiadito dal tempo.
Il copricapo ha continuato a difenderlo e a fargli da scudo,
per quanto gli sia stato possibile, per tutto quel tempo.
Proteggeva il suo capitano, accollandosi l'acqua dal cielo che lo avrebbe investito.
Lo fissa con un sorriso malinconico
<<Sono lieto che almeno tu non mi abbia abbandonato, fedele compagno d'avventure,
a differenza della bussola, dell'astrolabio e del barometro;
ora però, non mi servi più, ed io non servo più a te>>. Lo strizza,
e con le poche forze rimastegli nelle vene lo getta il più lontano possibile.
Non vuole che soffra nello stesso modo in cui si duole il suo animo.
L'agonia sta per finire. Solo ora il capitano inizia a piangere.
Le lacrime del suo viso, sono però indistinguibili
miscelate ai fittissimi aghi di pioggia che lo bombardano,
e sgorgano dal suo mento in una piccola cascata.
<<Anche il mio pianto è silenzioso. Ma quello interno,
del mio cuore, che piange sangue, no.>>
E' giunto il momento. Il capitano ammaina le vele della sua vita
e cala l'ancora della speranza.
I chiodi, in concerto, schizzano via, le assi cedono, gli alberi si spezzano.
Le acque sferrano il loro colpo finale alla nave, che è ingoiata.
L'uomo, ancorato alla sua fune precipita assieme a lei nell'immenso.
<<Possibile che sia giunta davvero la fine del mio racconto?>>
Tremolante sussurra con gli occhi sbarrati,
mentre spera che i gabbiani d'argento l'indomani non si nutrano delle sue membra,
e che i suoi tanto cari uomini,
non tornino sul luogo dell'inabissamento, avvoltoi dalle penne di carbone,
a contendersi i suoi stracci
e a fare a gara, lupi, sciacalli travestiti d'agnelli, nello stabilire
a chi, quel capitano, avesse voluto più bene.

Rincorso dal tempo
Agguanta la vita,
soffocala, stingila, strizzala
bene fra le tue poderose mani,
affinché possa assaporare, intensamente,
sino all'ultima goccia che essa si lascia sfuggire.

Funesta vita di bucaniere
Una lama serrata tra i denti
gocciole macchiate di rosso
fa piovigginar.
Il famelico corsaro,
dalle occhiaie nere di pianto,
afferra la prima fune,
lancia lo sguardo sul galeone avversario
che a tribordo lo costeggia,
lo spalanca, per un attimo incessabile,
sull'anima sua e
rinvigorito dal fresco ardore,
tra'l frastuono dell'equipaggi in battaglia
e dell'intonate bocche da sparo,
sbrindellandosi le corde vocali:
<<All'abbordaggio!>>
Temerario, si fionda in un lampo
sul legno avversario.
La bionda chioma al vento
pare criniera d'un acerbo leone
da poco svezzatosi, inconsapevole, dunque, delle sue gesta.
Di qua accoltella un sottufficiale della marina
di là strozza la tessitrice di bordo:
Furia viva gli possiede le membra.
E dilania colla sciabola altri due marinai da una parte
ed un innocente e sciagurato ragazzino dall'altra.
Fiera di mare, Anticristo sulla Terra.
Poderosi passi lo trascinano pè i lunghi corridoi
verso il mortal nemico
calpestando, truci, tutto ciò che gli si fa loro incontro.
Pesanti stivali insanguinati
si fanno rincorrere da macabre orme
pe' i corridoi funerei
sino alle cabine dell'ammiraglio.
<<Ci siamo!>>
Un vigoroso calcio scardina la porta
frantumandola in cento e più brandelli.
Già pregusta, con l'acquolina alla bocca,
il momento in cui osserverà le ossa del rivale
fare la stessa, miserevole fine,
il momento in cui la sua spada,
incavata negli abissi del suo petto,
trapassandolo, gli sarebbe affiorata dalla schiena,
il momento nel quale avrebbe schernito
il trofeo, della sua testa mozza lanciandola per aria.
Così deciso neanche un toro inferocito
avrebbe potuto scalfirlo.
Una cadenza
sempre più impavida
per l'ampie camere
sino al ben ornato
giaciglio:
<<Maledizione! Quel vigliacco non c'è !>>
L' ululato, nel mezzo della scontro
ch'impazza infernale sulla tolda,
echeggia per le sette onde del mar .

Funesta vita di bucanieri,
l'ammiraglio della marina,
dal torpore delle bianche lenzuola,
vi crede assassini per diletto;
non sa che camuffata all'ombra d'ogni vostra azione,
giusta o errata che sia,
ci son mille e mille pianti.

Funesta vita da capitano pirata:
sfidi la morte ogni dì coi tuoi fedeli
nel faticoso scorazzar per l'oceani ignoti,
sonnecchi in piedi dinnanzi al timone,
patisci il gelo delle acque ed i capricci isterici delle onde,
fasci, ogni dì, la vita nella ruvida bandiera nera
lacerata dal tempo, la Jolly Roger.
Strappi la gioia del vivere ad un isolano innocente
guardando dritto i suoi occhi, mai
infilzandolo alle spalle, consuetudine del bianco ammiraglio
che s'accattiva, per di più, le folle spargendo per le vie
l'atroci, tue, empietà.

La farfalla innamorata
Fossi una farfalla
t'aspetterei, col fremito nel cuore,
sotto la finestra,
scuotendo freneticamente l'ali
miniate d'acquerelli amorosi e giocondi.

Il brivido più prorompente si farebbe,
posandomi sulla levigata unghia tua,
ed il gracile nocciolo dal mio petto
schizzerebbe via.

Poi sulla tua chioma spezzata d'oriente,
sulle accese gote,
sulle tue lucide labbra peccaminose…

Accoglierei volentieri il solcare i cieli
per tre soli tramonti,
come una farfalla,
che d'improvviso nel silenzio
s'accovaccia per sempre,
pur di carezzarti da vicino,
polline zuccherino e accattivante,
o mio invitante fior di vetta brada.

Il vangelo delle illusioni
Riponiamo nel cassetto
il sempre fedele "Vangelo delle illusioni",
diradiamo la fitta nebbia di finzione, indifferenza
e sonnolenza che ci offusca la vista.
Bando alle falsità,
all'apparire difformi da come si è in realtà
per far colpo sulla società che conta.
Questo è il punto:
così come noi siamo indifferenti verso
coloro i quali se la "passano" peggio,
così i ceti alti sono indifferenti verso di noi
e per quanto ci sforzassimo
non appariremo mai dorati alla loro vista.
S'innesca così un girotondo senza fine
di indifferenza, falsità, ipocrisie e sfruttamento,
perché sia chiaro che i pesci grandi sfruttano sempre
quelli piccoli.
Non temete, però, sul trono resteranno sempre loro.
Più che pena, i giovani
piccolo-medio borghesi mi fanno ridere:
credono che il mondo sia immacolato e puro
come le loro camicette,
e fino a quando i loro padri li soccorreranno sempre
non evaderanno mai dall'illusione ingenua.
Ma non m'appello solo a loro:
l'invito a metter via il vangelo delle illusioni
è al collettivo intero,
dall'operaio al sindaco,
da chi passa le pene dell'inferno e non chiede aiuto
(magari perché gli han fatto credere di essere un privilegiato)
a chi le assegna.
Il problema dell'indifferenza ristagna dappertutto
e va oltre la politica:
l'indifferenza di chi vede sotto i propri occhi
una ragazza esser violentata e non fa nulla
e quella d'un uomo in silenzio, nella moltitudine caotica
che medita il suicidio.
<< Cosa possiam fare noi? Abbiam già i nostri problemi,
comprare il pane, la benzina, i libri per i bambini,
arrivare a fine mese per il rotto della cuffia,
mandare avanti lo spettacolo alla "bene e meglio">>
Ne sono perfettamente conscio, fratelli carissimi,
conosco la sofferenza ed i sacrifici per sopravvivere,
ed appunto per questo continuo a ripetermi e a ripetervi
che bisogna fare qualcosa
per migliorare la realtà. Urge cambiarla.
L'uomo tecnologico di internet non può avere ancora fratelli
che muoiono di fame.
Dobbiamo cambiare la realtà. Facciamolo almeno per i nostri figli.
<< Bravo, hai fatto un'affermazione davvero originale!
In che modo possiamo farlo?>>
S'inizia a piccoli passi:
cominciamo svegliandoci dall'indifferenza generale che regna sovrana.
Son convinto, infatti che
la crisi cosmica che prolifera nel nostro folle mondo
ha nell'indifferenza l'alleata più potente.
Invito tutti, specie i più giovani,
gli unici con il naso ancora vergine dal puzzo della politica,
ad unirsi, senza distinzioni, almeno
questa volta, nel "partito mondiale" dell'Anti-indifferenza,
e vedrete che,
una volta compiuto il primo
minuscolo ed allo stesso tempo immenso passo,
la corsa verso la civiltà
ed un mondo meno corrotto,
verrà da sé.

Lacrime di capitano
Strumenti in avaria,
bagnarola alla deriva
nel blu profondo, insidioso,
dell'animo umano.

Piccolo di lupo
Girovago timoroso e solitario,
con la coda bassa, a lutto, tra le zampe,
come un acerbo lupo del deserto,
che spaventato dal gelo pungente della vita brada
cerca inutilmente il calore della mammelle matrigne,
c'ormai gli ha intimato di spiegare le ali.

-Da oggi, dovrai cavartela da solo
lupetto:
cacciare, difenderti, procreare,
fare in modo che gli ingranaggi della natura
non s'inceppino.-

Girovago timoroso e solitario,
come un cucciolo di lupo,
senza un amico, circondato dalle ombre
della sabbia nella quale annegherà

Girovago come un piccolo di lupo,
che ansioso d'aggredire, di non saper cacciare,
tutto pelle e ossa, sta per morir di fame.

Girovago come un lupetto,
escluso, diffamato, deriso dal branco degli stolti,
a causa degli insuccessi e delle difficoltà
che la natura gli ha posto d'innanzi.

Corri lupo acerbo dei boschi!
Scappa via da qui! Svezzati altrove!
E solo quando la tua bocca non avrà più il dolce sapore del latte,
le tue zampe saranno forti e robuste,
ed i tuoi artigli curvi e taglienti, potrai finalmente tornare,
riscuotere la tua vendetta,
tranciare i conti con il passato
ed imporre la tua egemonia al branco.

Solo allora mi sentirò
come il capo branco, il più rispettato
fra tutti gl'impavidi lupi
che popolano le secolari e verdi foreste
delle vette più impervie

Regina natura
Madre Terra fertile in grembo
incorona Cerere dea delle messi e del bestiame.
Durante la semina le festività hanno inizio:
spighe intrecciate sulla chioma risplendente,
e pioggia vitale dai nembi fraterni,
sgorga sul suo viso seducente e semplice
come la campagna,
girasoli, papaveri e freschi germogli s'inchinano alla loro regina.
Buoi, cerve, capre, lupi e cavalli,
come per miracolo, in processione quieta ed ordinata
passano in rassegno la dea.
Tutt'intorno è invece un gran frastuono chiassoso di fauni,
di avvenenti ninfe dei boschi, dei fiumi e dei monti;
nembi d'uccelli impreziosiscono il cielo,
bande musicali di cicale si uniscono alla variopinta melodia,
creature misteriose intonano cori di giubilo
dalle viscere della terra.

Ogni ente naturale partecipa ai festeggiamenti,
ogni landa desertica, ogni prato,
ogni curvo monte ed ogni specchio d'acqua
ogni specie animale e vegetale,
ogni granello di polvere è in subbuglio:
oggi tutto ciò che è allattato dal rigoglioso seno di Madre Terra
sarà un unico, illimitato e festante essere trasudante vita.

Domani purtroppo tutto tornerà come sempre,
vale a dire che il lupo rincorrerà la lepre, e questa
rosicchierà verdi foglie.
I figli della Terra lo sanno bene,
ma per questo dì preferiscono godersi la tregua
e lo spettacolo inebriante.

Sul terminare dei festeggiamenti,
Cerere con grande compostezza
si solleva dal trono incavato nell'olivo,
e s'appresta a raggiungere la sua celeste dimora.
All'incombere del suo passo
ogni filamento d'erba si fa da parte,
per lasciar che i palmi della regina
carezzino il soffice ventre nudo della Terra.
All'improvviso ecco materializzarsi
il prodigioso arco dalle sette code colorate,
che in supplice riverenza d'innanzi alla regina
viene vestito da un pitone smeraldo d'edera.
Sol'ora, l'arcobaleno
può accogliere sulla sua sella di fogliame la sovrana,
che dopo un ultimo cenno alle moltitudini variopinte
può partire alla volta dell'orizzonte.

l'Amore
L'animo schiude palpiti ansimanti
che sfarfallano, incerti, per vuoti sterminati.

Dal diario di bordo
Mollare gli ormeggi e salpare verso l'ignoto:
il miraggio d'una inesplorata esistenza
seduce il vecchio capitano,
come i limpidi cieli l'albatro.

Sono ormai molti mesi
che la bagnarola solca l'azzurro vergine,
panorama piatto, monotono,
nulla di nuovo all'orizzonte.

La nera tavola d'acqua
riflette sul prezioso viso d'argento della Luna,
la ciurmaglia ronfa della grossa
ma lui no: lui è sul ponte, lui assorto nei suoi pensieri,
come sempre butta giù qualche rigo:

-Giorno 249
Ancor nulla di nuovo.
Sospetto che i compagni d'avventura,
ormai saturi delle mie promesse,
stiano organizzando un ammutinamento.
A cena nessuno ha voluto dividere il tavolo con me.
Se ripenso a quanto entusiasmo zampillava
dai loro visi i primi giorni di questa folle avventura…
Il silenzio è il mio solo amico.
Tutto tace, si riesce a percepire addirittura
il verso della prua che fende delicatamente la schiuma.
Tu, o Luna sei la mia musa,
e questo sgangherato lumicino il testimonio del mio scribacchiato.
Son sicuro che oltre il mare c'è qualcosa,
ne sono fermamente convinto, non è fervida illusione.
Sarà una grande terra fertile e lussureggiante di vita,
una terra dove le nostre misere carcasse
vestiranno nuova possibilità.
Son sicuro che un bel dì,
quando meno ce l'aspettiamo, un niveo gabbiano poserà
le sue magre zampette sul pennone di velaccio
e noi, increduli, ammirandolo coll'occhi dischiusi dal sole alto,
penseremo d'essere preda d'un abbaglio
e la vedetta, esautorata dalle lagrime gravi
gratterà la gola sua dalla breve parola ripetuta: <<Terra! Terra!>>

Durante questa diaspora dell'animo
il capitano non dovrà arenarsi,
Ma tenere il più possibile il mare della temerarietà
e veleggiare svincolato dall'umani timori sulla rotta di Utopia.

Questa è la mia terra!
E un cielo di latte
si stende sui campi di oro pettinati.
rasati dalla nobile mano dolorante
del mastro contadino.
Ed è tutto un fiacco peregrinare
stremato e senza meta di lanose bestie
possedute dall'arsura, dalla calura
estenuante ed implacabile ch'incrina
le carmini zolle di terra feconda.
Tutt'intorno, come la desolazione infinita
e sempre uguale che s'avverte in un deserto,
appaion distese a perdita d'occhio
d'ulivi smeraldo, gobbi e piegati dall'afa,
testamento dei padri.
Non si scorge un altura sino all'orizzonte
ed io perdendomi in questa distesa
meravigliosamente monotona,
dall'intenso sapore di natura,
terra e mandorle acerbe, odo il canto del Celeste.
Lontano si scorge, un pino eremita e all'ombra di questo,
una gara tra orchestre di cicale
che s'azzuffano in dolce frastuono,
per spartirsi il riparo prezioso.
Dove gli elementi s'incontrano,
dove lo smeraldo della macchia
si guerreggia in armonia
con il ceruleo del mare vivo,
Dove il cielo si può specchiare,
vanitoso, sulla nuda roccia,
Lì troverete mia terra.

Il letargo del fioricello
Con la società in perenne apnea
all'esile fioricello di montagna
faticosamente venuto al mondo
non rimane che una cosa da fare:
chiudersi nel suo incantevole bocciolo
e cadere in letargo, sperando che magari,
in un futuro prossimo, possa esserci qualcuno
in grado di ammirare le sue venature variopinte,
il suo delicato profumo,
la sua incantevole grazia,
la sua magnificenza da mozzare il fiato.

Supplica al "Divin Codino"
Stella italiana del firmamento azzurro.
capace d'abbagliare il torbido grigiore
della ristagnante palude
nella quale il calcio oggi si è inabissato
con l'abbagliante folgore delle tue giocate.
Perché non torni Roby?
Straordinario pallone d'oro.
Uomo integro di fede, passione, sacrificio e onestà.
Lupo solitario,
schierato contro il branco
dei potenti infami maleodoranti d'oro e incenso.

Sol'ora t'ho compreso:
per non macchiarti l'aura di pece,
permani alla larga dalla palude melmosa,
il più lontano possibile da
questo perverso mondo il cui richiamo attraente
ed i rassicuranti sorrisi celano un mostro
dall'inesauribile sete di sangue.

Non tornare, Divin Codino,
anche se il tuo vuoto si avverte ogni giorno di più.
Non tornare, vecchio ragazzino,
uomo dalle sfide impossibili,
figura immortale del gioco del calcio
il cui eco si propagherà per generazioni.

Avanti a tutti i costi
Va bene, vado avanti,
faccio quello che volete voi,
obbedisco a ciò che mi chiedete.

Va bene, sono ai vostri ordini,
anche a quelli non scritti e pronunciati,
ma svolazzanti in aria come foglie rubino d'autunno.

Va bene, se si deve far proseguire
a tutti i costi la commedia
che sia così, avanti!

Ma va male, seppiatelo bene,
Molto male.
Tremendamente male.

Se proprio lo volete
io insisto nella farsa,
nei finti sorrisi rassicuranti,
nei falsi complimenti,
nel fasullo sguardo felice.
Ma sappiate bene che felice non lo sono affatto.
Per niente.

Vivere
Sì come l'vorace ronco del contadino,
interrotto dall'umidi nembi di madre natura,
lascia i campi spigati ad oro
pettinati a metà,
è l'arbitrio delle creature pensanti,
aggraziati ed inermi petali di mandorlo,
zingari d'uno spiffero autunnale.

Ultimo saluto d'un vecchio
<<Fogliolina smeraldo invisibile
che a fatica emerge dalla terra,
miracolo immenso da atterrire il cuore.
Ettari ed ettari di grano alto,
maturo oro selvaggio.
Possibile che sia stato io, semplice uomo a far tutto ciò?
Certo, con l'aiuto del Signore
che tutto vede, e centellina periodi di secca
ad alluvioni mortali
per i campi.
Dalla semina al raccolto
la campagna ti prende il cuore,
le mani, la fronte, la schiena.
Fatica unica, sudore eterno, dolore viscerale,
speranza infinita e sempre ben riposta,
che l'annata vada a buon termine
ed una sola certezza:
dopo l'inverno
giungerà la primavera
e nuovo pulviscolo di vita
ingraviderà germogli vergini
s'una distesa di fusti cadaverici
stilati dalla crudeltà del gelo
o dalla generosità ossessiva del sole.
Tutto questo è il mondo contadino,
il mio, quello dei miei genitori, dei miei nonni>>
Mi bisbigliò quand'ero piccino
l'anima del mio bisnonno
che a novantun'anni, fresco come rosa e forzuto come un bisonte,
quando parlava della sua esistenza,
tra dolori e fatiche, non mancava mai
d'elencarmi i pregi del mondo agreste.
In quel momento i severi occhi di pece s'infuocavano di lacrime
che, però, mai potevi vedergli
sgorgar dalle gote.
<<Ascolta piccolo mio:
il contadino non smette mai di lavorar
ed i prodotti che crea, genuini e -se Iddio vuole- abbondanti,
che il cliente viene a comprar direttamente in masseria,
son così richiesti, proprio perché
frutto di sacrifici innumerevoli,
ma vanto ed orgoglio, intera dedizione della nostra vita.
Noi seminiamo ottimi chicchi di foraggio,
che, maturo e trebbiato,
offriamo alle nostre vacche in cambio del prezioso latte,
in un circolo familiare chiuso e sicuro.
Non mi son mai riposato,
mai ho abbandonato i campi,
neanche con la febbre, mortale ai miei tempi,
solo la guerra infame m'ha strappato
alla natura, mandando in rovina i campi,
e la famiglia.
I giovani devono tornare ad udire il richiamo rustico,
la voglia d'essere
umili artigiani della terra, della terra del Signore.
Perché è un mestiere che seppur richieda
intenso sudore e molti sacrifici
t'appaga sempre, forgiandoti
nei muscoli e nell'anima.
E poi ricorda, piccolino:
se ora il babbo del tuo nonno
conta numerosi ettari di terra, e fa star bene la famiglia
significa che sta raccogliendo i frutti
d'un'intera ed interminabile vita passata a seminare
e quindi a lavorare, sudare e sanguinare.
Ancora oggi, figlio mio, tutti i dì
all'alba vado a controllare le onde d'oro di spighe,
e a sfamar gli animali nel fienile.
In autunno m'isso sugli ulivi
per cogliere i frutti verdi e succosi,
ed in estate chino il capo, tra le vigne.
Non mi posso e non mi voglio fermare.
Pensa che quando tuo nonno o i suoi fratelli mi suggeriscon
di smettere d'affaticarmi e di riempire di piaghe le mie mani
m'irrito moltissimo, e inveisco loro
che ho lavorato così tanto e così a lungo,
che se d'improvviso mi fermassi, morirei.>>
In quel momento, quell'uomo saggio e vecchio, mi strinse la spalla.
Potetti cogliere solo in quell'istante, tutte le rughe
che ricoprivano il suo volto illuminato dall'ardente camino.
Ricordi di tenero fanciullo mi riportano alla mente
il pesante letto in mogano scuro
e l'immagine della Vergine che allatta il suo unico figlio,
affissa sulla bianca parete venata di fiamme, a vegliare sul suo capo.
Quelle rughe raccontavano più di lui,
parlavano di un uomo tenace, d'un infaticabile lavoratore modello.
Ancora monello di cinque anni, già aiutava il babbo o la madre,
e nelle pause, con gli altri birbanti
faceva a gara per scalare gli alti fusti
del bosco, a caccia di nidi,
oppure volava libero e selvaggio,
a piedi nudi per i prati brulicanti di verde intenso.
Da ragazzo s'impegnava per i campi come pochi altri,
e la decisione di rimanere tra quei campi
messi in ginocchio dall'incuria della folle guerra,
mentre i suoi fratelli emigravano in Argentina
in cerca di fortuna, era sufficiente per mostrare
la sua caparbietà, la sua testardaggine,
la sua voglia di non mollare mai,
che infine hanno trionfato.
Quelle stesse rughe però, l'avevano reso immune
dai tanti acciacchi, dalle troppe fissazioni
dell'uomo moderno, concedendogli di tirare avanti
per un secolo.
Dopo la lunga pausa, il mio nonno grande
sorseggiò un bicchiere d'acqua,
giusto poche gocce per schiarirsi la voce,
poi m'afferrò la mano.
Io, ingenuo, non capivo perché lo faceva.
<<A tuo nonno, ai miei nipoti ed anche ai pronipoti,
non lascio solo un'eredità materiale,
ma soprattutto una morale, alcune leggi di vita,
degli insegnamenti per esser felici anche tra le sofferenze quotidiane.
Spero che queste, ben più importanti delle prime,
siano custodite meglio e più gelosamente di quelle
e lasciate, poco alla volta, alle generazioni future.>>
Poi faticosamente s'alzò, poggiando la schiena sulle spalle lignee del letto
E mi guardò fisso negli occhi:
<<il contado è come un figlio, lo devi accudire al meglio
tutti i giorni, tutte le ore,
senza perderlo mai di vista.
Se avrai fatto un buon lavoro, questo figlio,
quando sarà grande e forte si ricorderà della tua dedizione
e ti ricompenserà nelle tasche
e nel cuore, perché ogni falciatura
lascia sempre un ricordo, il ricordo della semina,
di quando il primo, insignificante, verde germoglio
è stato partorito dal ventre, fertile della terra e di tutti i giorni trascorsi
a lavorare tra quello ed i suoi fratelli sotto la grandine
ed i raggi infuocati del sol.
La gente che parla male dei contadini
oltre ad essere stupida è ignorante.
Tu lasciala parlare e va dritto per il tuo cammino.
La natura chiama, ogni pianta chiama.
Se passando in rassegna i campi
sfugge al macchinario, anche un singolo germoglio,
il fischio del suo richiamo sarà ben udibile, quasi martellante.
Anche a casa, e con le orecchie sotto il cuscino,
quella stridula richiesta d'aiuto ti seguirà
Sai da dove si propagherà quell'eco?-
<<No>> risposi incerto.
Lui con un pugno, indicò il mio petto.
<<Qui dentro!>> Sussurrò sfoggiando un ghigno compiaciuto.
<<Significherà che sei cresciuto, passo, passo, assieme a lei.
A quel punto conoscerai la chiave del linguaggio della natura,
e rispetterai ogni filo d'erba, ogni fiore, ogni foglia che piove dal ramo.
Quando apprenderai questo segreto contadino,
potrai esser fiero di te stesso,
e ricordar qualora lo vorrai,
che da piccino, un signore molto vecchio
ti lasciò in eredità, la sua passione, la sua grinta, il suo ottimismo,
che nella nostra famiglia, da sempre,
come una preziosa collana d'oro
passa da una generazione all'altra.
Questa collana è ricordo, testimonianza,
di secoli di duro lavoro e di esistenze trascorse per i campi.
I tuoi nonni, piccolo mio, non hanno voluto cogliere
questo bel dono ed ora confido che tu
quando avrai la barba, voglia assumerne il suo
inestimabile peso>>
Dopodichè mi baciò sulla fronte, si girò di lato e
mi salutò, dicendomi di essere stanco e voler riposare.

Non vidi mai più quell'uomo.
Solo ora riesco a rendermi conto
di quanto mia sia mancata la sua presenza
in tutti questi anni.
Se fossi stato solo suo nipote, magari
la mia vita sarebbe diversa.
Che peccato, non aver vissuto quell'epoca!
Torno con i piedi per terra quando
penso a quanto avrei faticato, se l'avessi vissuta,
nove, dieci volte più di ora.
Forse non avrei trovato neanche il tempo per stendere questi versi.
Che fare adesso? Lasciare che secoli di lavoro,
sangue e sudore svaniscano per sempre,
assieme alle radici, nobili contadine, della mia famiglia?

I media
L'untori satanici
esalano d'effluvio impercettibile
le vacue cervella
di noi, pedine supplici
del grande gioco perverso.

La bonaccia dell'indifferenza
Così come il monumento del temerario cavallerizzo
dimenticato nei secoli
oggi è lercia piccionaia,
le grandi gesta che furono
paion dominio dei pochi stolti,
e l'insegnamento, le virtù, le tradizioni dei padri,
accozzaglia d'idiozie.

Il valore del viver s'è affievolito come una cerino acceso
sul cornicione d'un giorno ventoso.

Tutto giace, impolverato,
in chissà qual lontani meandri
della fioca coscienza umana,
seppellito da sterco di ratto
ed avvolto da inaridite ragnatele.

E' come se, qu'i pochi
armati di lanterna
che s'aggirano in questo solaio dei fasti antichi,
scorrendo l'indice
s'uno dei beni stipati,
rimuovendo la polvere, incida un solco profondo
che gli concede di scorgere
qualcosa di quello,
che le talpe del mondo di sotto
han rimosso da tempo.
Guai a riferir loro della scoperta:
v'allontanerebbero, vi schernirebbero,
e se vi impuntaste su quanto visto,
quella ciurmaglia arriverebbe, persino,
ad epurare il mondo dalla vostra presenza.

Non è colpa loro se han disimparato
i costumi de loro padri,
è l'influsso diabolico della scatola
che li pervade.

Allor rassegnarci
e far marcire dall'umidità
i grandi classici del passato,
far consumare dalle termiti
i valori di una volta
e far ristagnare nella desolante bonaccia dell'indifferenza
le conquiste ottenute con il sudore dei padri?

Gronda sangue il cor mio
d'innanzi alla patina d'indifferenza
che dilaga, come peste, per ogni dove
e sradica i piedritti della nostra storia.

D'altronde chi siamo per incenerire s'una pila
millenni di lotte, intuizioni e tradizioni?
Dov'è finito il buonsenso , la virtù,
l'attaccamento alla vita dei nostri nonni,
che sguarniti di scarpe costose
han lottato con le unghie per permettere a noi
ciò c'abbiamo?

Non sono incontentabile,
mi sarebbe sufficiente svegliarmi domattina
e notare che due saette in più
gravano nella nostra faretra:
il rispetto per i più saggi che,
tutti, han sempre portato,
e la sete di conoscenza.

Ma è comunque un utopia:
meglio poltrire d'innanzi alla TV,
con una maglia firmata che perder tempo tra scaffali polverosi.
Piatta generazione di cloni tristissimi,
zombie incapaci di cogliere
il miracolo che racchiude
la comparsa del primo bagliore
in un ciel ancor di catrame tinto.

Mai! mai mi avrete, mai sarò dei vostri!
Meglio la morte che lo scimmiottare
un imbecille della pubblicità!

Piuttosto rimarrò confinato in questo solaio,
piuttosto trascorrerò i miei giorni nel vano tentativo
di disimballare le immortali opere che esso cela bramoso.

Sarà dura, ma scrostati i graffiti
dal piedistallo dell'equestre scultura,
nelle vene di questa tornerà
ad essere pompata rossa linfa,
il marmo s'incrinerà e verrà giù in un gran boato,
sciogliendo l'elegante animale
dall'oppressione negligente dell'uomo.
Questo, scaltro come mai,
emulerà il mitico Pegaso
e trotterà, svincolato,
negl'illimitati orizzonti dell'animo
trascinandosi dietro l'inestinguibile sfera rubiconda,
che, squarciando la plumbea coltre d'ignoranza e disinteresse,
irradierà le lande aride del cuore nostro
di fertile sete di conoscenza.

La risposta delle risposte
Innalziamoci fieri sulla sabbia,
frughiamo nella frenesia nel quotidiano,
degustiamo l'attimi solerti d'ogni dì.

E' sterile tormentarsi e soffrire tanto,
consumarsi sull'origine e sul divenire,
erodersi a caccia di risposte evanescenti:

il dubbio è l'unica certezza.

Quel tramonto in campagna
Ricordi, vero, quel tramonto
a San Sebastian,
nell'immensa aciendas in Argentina,
quando decidemmo di uscire all'aperto
per contemplare lo spettacolo rabbrividente
della sfera di fuoco che s'appisola dietro i colli, sotto i laghi?
Ricordi che sensazione essere posseduti
da quell'ardore suggestivo
per me estraneo?
Tremo al pensiero della brezza che soffiava
su quei campi, a quell'ora,
dispettosa, burlona
da farci scompigliar i capelli.
Se penso alla tua chioma, libera di ondeggiare nell'infinito
un brivido caldo scende la mia schiena.
Distesa sul fieno sei la stella luminosa
che inorgoglisce la volta violacea,
nuova padrona dello scenario.
L'erba, profumata e trasudante di freschi sapori
è carezzata dal dio del vento
con la stessa dolcezza e la stessa innocenza
con la quale le mie dita insicure scivolano per i tuoi
capelli dalle sfumature d'oro.
Oro che muta in argento
sotto gli influssi arcani della luna
che cinge il tuo bel viso di venature incastonate da pietre preziose.
Dormono le farfalle, i passeri, i loro piccoli,
che prodigio questa notte per noi
-Stringimi, non smettere d'amarmi-
-Il nostro legame è inossidabile
puro e genuino come la campagna.
T'amo come il sole ama la luna, i cavalli la libertà
ed il grano la terra-
la tiepida rugiada ci desta, sull' infiammarsi della nuova giornata.
Noi siam ancora accovacciati, stretti nella morsa,
io sono invasato da te, come tu lo sei di me.
Il sole, che ci vede ancora assieme, ci sta salutando
il firmamento è nuovamente usurpato dall'azzurro.
Qui, sull'erba tutto è più bello,
solo l'essere uniti alla natura infatti
dirada nebbia dai nostri sensi.

L'illusione d'un giovane campagnolo
Ciao fratelli miei! Come state?
avete visto che alla fine
anch'io v'ho raggiunto qui,
nella fumosa città
dispensatrice di lavoro, pane e carità?

Nicola, don Vito ti manda questa bibbia,
la volevi vero?
Antonio, tu madre m'ha detto
d'avvisarti che Bianchina, la giovenca,
una settimana fa ha dato alla luce tre vitellini!
Mariolino, compare Amorouso
t'aspetta quest'estate per la raccolta dei
fichi d'india!

Che fate fratelli?
Perché ve ne state muti?
Perché siete così seri e tristi?
Perché non ridete insieme a me?
Siete malinconici perché
ho riesumato nelle vostre menti
la vita precedente tra i colli e le valli?

Smettetela d'essere così scuri in volto,
avete di che gioire:
da oggi io mi unisco a voi,
nello respirare la magica aria di città.
Non vi lascerò mai più soli.

Ancora scuri in volto siete?
O mi state facendo uno scherzo?
Coraggio fratelli, sorridete!
Io vi porto l'allegria contagiosa contadina,
il nostro spirito gioioso,
il nostro animo brigante, guascone, carnevalesco,
le nostre monellerie.
Con me qui, tutto sarà diverso:
vi sentirete di nuovo a casa,
tra i colli, per gli ulivi gobbi,
tornerà l'armonia,
la nostra celebre allegria,
la voglia continua di scherzare e giocare
che mi pare abbiate perduto.

Siete imperterriti nel non volermi rispondere
e nel mantenere quel triste broncio
che non s'addice sul volto agreste di chi,
abituato a lavorare duro, coglie d'ogni aspetto
il lato positivo e gioioso?

Vi ricordate di quella volta in cui,
giocando a palla, rompemmo una finestra
della chiesa del paese?
o di quando, per gioco, rubammo il gallo
di donna Beatrice?
E quando per farci il bagno nel torrente
di gennaio, tutti e quattro prendemmo la bronchite?
Non dimenticherò mai i ceffoni che mio padre mi rifilò
una volta tornato a casa.

Ragazzi, quante ne abbiam combinate!
E quante risate!
Da oggi tutto tornerà come prima:
torneremo ad essere i "terribili quattro"
temuti da tutte le belle figliuole del paese.

Ditemi ora perché non ridete insieme a me.
Mariolino! I tuoi occhi si son fatti lucidi!
E sembra quasi che stiano per lacrimare!
Guarda Nicola, Mario stà per piangere!
Non ti sembra impossibile? Lui che non pianse
nemmeno il dì in cui venne morso
da una vipera!
Ma che fai Nicola? Piangi anche tu?
Antonio, fa qualcosa almeno tu!

Non riesco a credere che i ragazzi, i miei ragazzi,
sian diventati piagnucolosi come marmocchi.
Ma piangete solo perché vi sto ricordando
alcune delle nostre disavventure? Giusto?
Vi ho già detto che è inutile rimpiangere il passato:ora
che sono qui con voi, la "i terribili" tornerà
a farne di tutti i colori!

Sapete, senza di voi il paesello è una noia mortale,
anche tutti gli altri giovani stanno andando verso le città,
ed io non ce la facevo più a stare solo, tra i vecchi!
Così ho convinto la mamma a darmi l'antico orologio d'oro
del nonno, l'ho venduto e con i soldi ottenuti
mi son catapultato qui da voi, il prima possibile.

Cos'ho detto ora, che v'ha fatto rimanere a bocca aperta?
Non so che pensare fratelli! da quando sono arrivato
non mi sembrate più gli stessi, sembrate diversi…
sciupati… invecchiati!
Eppure non credo che sia stata la vita di città a farvi quest'effetto.
altrimenti non sarei mai venuto qui! Ehi Antonio,
pensa se fosse stata la città a rovinarvi per sempre
e a togliervi la voglia di ridere! Questa sì che sarebbe
una bella burla da raccontare in paese, per far ridere i nostrani!

Come, infatti, potrebbe la città invecchiarvi?
Con i suoi fumi tossici? Con lo smog delle sue auto che soffoca il cielo?
Come potrebbe la città sciuparvi? Concedendovi
pane onesto dopo ore chiusi tra macchinari
a ripeter sempre lo stesso gesto, sempre lo stesso…
come potrebbe togliervi la voglia di ridere?
con la sua indifferenza dilagante, e con il suo silenzio assoluto
nel caos ossessivo? Con i suoi nulli rapporti umani?
Sì che questo sarebbe un paradosso carnevalesco
da raccontar alla sagra del paese per far sorridere tutti.

Volete decidervi a sorridere? Da oggi qui ci sono io,
e tutto tornerà come prima,
anzi meglio di prima.

Ah, forse ci sono!
Siete tristi perché temete che io non riesca
a trovar lavoro qui, vero?
Non dovete preoccuparvi di ciò:
alla stazione ho già incontrato
un bell'imbusto in giacca e cravatta
e pantaloni di velluto, che m'ha offerto
un posto di muratore per la sua ditta.
Dieci ore al giorno, ma domenica libera.
Probabilmente, con lo stipendio che mi daranno i primi tempi,
a stento riuscirò ad arrivare a fine mese, ma tenendo duro,
e con mille sacrifici, salirò di livello,
sino a prendere il posto di quell'uomo,
m'ha promesso.
E pensare che fino a pochi giorni fa, come uno stupido
buttavo via le mie giornate
tra i campi a sudar, le domeniche mattina a messa e a pranzo
le crostate della nonna…
Per fortuna che da oggi tutto cambia per me!
Ragazzi, chissà voi quante volte
vi sarete ripetuti le mie stesse identiche parole…

Bravi fratelli! Così dovete fare!
Finalmente avete abbozzato un mezzo sorriso…
Anche se, a dirla tutta questo mi pare un sorriso disperato…

Lo sguardo della Vergine
La Vergine Generatrice,
dall'alto d'un palco, incastonato
tra le nude selci d'alta montagna,
scaglia lo sguardo, immacolato e nobile,
nello strapiombo ai suoi piedi,
dimora dell'essere pensante.
Voragine Infernale, alveare di demoni,
ripugnante fabbrica dell'oblio
le cui fumarole vomitano copiose torbidi nembi maleodoranti
che riparano la bestia prediletta,
l'occultano all'occhio divino
e la lasciano libera di gozzovigliare nella perversione.
Serra gli occhi la Vergine, disgustata
dalla fugace e micidiale scorsa.
Tutto è perduto, neanche l'Apocalisse
raschierebbe la vischiosa foschia dal cervello dell'uomo,
ne è perfettamente conscia.
Impotente, non può che voltarsi,
appigliarsi ad un brandello del pregiato velo
e passarselo dolcemente sul viso candido
inondato da una disperata e tacita lacrima di sangue

I giochi della pioggia
Lacrime di pioggia s'abbattono
sulla villetta, l'autunno qui in campagna
l'avverti sulla pelle.
T'avvicini, anche i tuoi occhi smeraldo iniziano a piovere,
mi dici che nulla va mai come dovrebbe
e che la vita è una polveriera di fallimenti e delusioni.
Lo sconforto, quando il cielo è triste,
prevale sull'ordinario autocontrollo che mostri.
Affermi che non sei mai stata realmente felice,
che non sai neanche cosa significhi il termine felicità.
Concludi tra i singhiozzi che anche se un giorno riuscissi a provarla,
quel dì sarebbe tanto distante da parerti invisibile.
Poi ti stringo dolcemente le candide mani tremolanti

-Osserva l'istante che ti sta passando innanzi.
Afferralo!
Ora avvicinalo forte al petto
e vivilo intensamente.

E' adesso l'istante più bello
della tua vita,
adesso, proprio qui,
accanto a me.

Non rimandarlo al futuro arcano,
non affannarti di cercarlo
nello spensierato passato,
limitati a coglierlo: è qui, è adesso.

Come il vento non si angustia di scompigliare
l'argentea criniera di un puledro selvaggio
che galoppa in libertà,
come i flutti vigorosi d'un mare in burrasca
non si affievoliscono pensando di minacciare la stabilità
dello sparuto faro sul quale si abbattono,
deve essere svolta la tua esistenza.

Adesso vieni qui, accanto a me,
ci accovacciamo e contempliamo i giochi che la pioggia
incide sui vetri condensati della finestra,
ritemprati dal caldo torpore
della legna secca che schiocca nel caminetto.-

Transumanza
Si dilungano le ombre birbanti
degli armenti pigri
sulla roccia grezza.
Son sagome rubiconde,
quando la sfera si mette a cenar,
e marcate di pece, stordente dall'opprimente calura,
all'ora di pranzo.

Eccole! Le vedi allungarsi e subito dopo,
covacciarsi, a passo di gregge.
L'ombra del garzone svetta sulle altre,
scorrendo sotto i rigeneranti viali alberati del mattino,
e non si scorge più, subito dopo,
quand'ormai è annegata tra le onde lattee, tutte eguali,
quando è curvo dalla fatica, e dai piedi frignanti.

Ricomincia la processione quotidiana,
maturi colli, distese aride e saline, alture inaccessibili:
le ombre, infaticabili, le ammiri dappertutto.
Anche quando i loro padroni, al freddo, si coricano,
le scorgi ancora lì, danzare, tutte assieme, attorno al fuoco.

Il vaso dei malefizi
Oggetto diabolico,
scatola degli orrori
dalla viscere rigurgitanti peste infernale
celata sotto le spoglie d'una sirena
giovane e seducente
dall'inebriante canto fatale.

O uomini, che in massa
schiudiamo le porte dell'atroce mattatoio,
noi, o uomini, siamo macellatori
e carne da macello:
brandendo la scure lampeggiante
suoniamo il gong della nostra corrida.

I vampiri della scatola
riescon a dissanguare
sterminati branchi d'individui,
che senza alcun antidoto
non possono che abbandonarsi
alle loro venefiche spire.

Effetti della funesta zannata:
perdita della facoltà di pensare autonomamente,
di reggersi sulle proprie gambe,
capitolazione in uno stato di torbida indifferenza.
Nessuno è immune al propagarsi dello sterco satanico.
La crociata sembra persa in partenza.

Oh uomini, quando comprenderemo
che noi siamo il nostro stesso boia?
Quando concepiremo che non siamo nient'altro che noi
la gramigna contaminata, radicata nel profondo,
che cerchiamo di estirpare?
In che modo potremo serrare il vaso dei malefizi?

La risposta è semplice
ma invisibile
alle cataratte ottuse delle nostre pupille offuscate.
Basterebbe lasciarsi trasportare
liberamente dalle ali leggere
della nostra anima danzatrice,
e volteggiare, piroettare armoniosamente,
senza lacci e catene,
lasciarsi dietro il plumbeo cielo che ci opprime,
le piogge acide che ci avvelenano,
su e giù tra i soffici batuffoli di niveo ovatta,
varcare l'inafferrabile linea d'or dell'orizzonte
e spingersi ancor più in là,
unendosi, magari,
a quello stormo beato di gabbiani.

Non riuscite a scorgerlo?
Sgranatevi bene gli occhi e l'individuerete anche voi.
Laggiù sta sorvolando la gloriosa terra che fu,
generatrice di sapienti ed eroici condottieri,
oggi, ombre di capretti tremolanti
dall'incombente carneficina
del dì di Pasqua.

Attimo spensierato
Gli'occhi miei vengon rapiti
dal rogo rubicondo e ballerino
d'un tizzo ardente
che viene rigirato nel caminetto spoglio,
tra l'insistente e caratteristico
scoppiettar di legna secca.

L'Emozione viscerale della Natura
Correre a piedi nudi sui prati,
emozione indescrivibile:
voli leggero su nuvole di fili cotone,
fresche di verde, cristalline di rugiada,
qua e là punteggiate di rosso papavero
dalla tavolozza del Grande Artista,
con sfumature d'oro fieno,
che ti solletica i liberi palmi.

Scalare i fusti secolari
che scortano i sentieri gibbosi
per i fitti boschi,
e scoprire, lassù in cima
il tesoro inestimabile
d'un nido di cinciallegre,
la mamma regina, ed i suoi piccoli affamati,
e porgere loro, granelli di pane.

Il mio animo,
germoglio esile della rugosa quercia millenaria,
feto esistenziale,
trasuda lacrime di gioia
quando è immerso, così in profondità,
nelle viscere, nel grembo agreste e perfetto,
genuino ed arcano di
Madre Natura.

L'angelo piangente
L'angelo vuole fermarsi.
Ma non può: il vento mostro
lo abbatte, lo trascina, lo sospinge in avanti.
È di una furia sbalorditiva:
l'aureola vacilla,
la chioma s'agita, la toga si gonfia,
l'ali perdon le candide piume.

Lotta con tutto se stesso per
non rimanerne prigioniero del tornado,
ma non può nulla, l'anticristo è indomabile:
è lui l'essenza della distruzione,
il vento del progresso, delle nuove vie,
il principio della mort'antica.

Dietro le sbarre di nera coltre, una sola cosa può fare:
voltare lo sguardo all'indietro
ed ammirare ciò che si è lasciato alle spalle:
il passato immacolato
e puro da mozzare il fiato
ormai accozzaglia di ruderi senz'anima.

Così imperterrito dal dolore, contempla lo spettacolo
del susseguirsi di rovine
nell'incuria, nella desolazione
e nella DIMENTICANZA della folla,
fuggita, codarda
con i loro corpi vuoti e con le loro mani impregnate dal puzzo
dei sudici soldi,
con quelli dei lor figli e con le loro manine innocenti
un giorno unte di vigliacca carta verde.

Nella cella di vento e polvere
imprigionato, senza via d'uscita,
la creatura celeste è condannata al supplizio infernale
di poter guardare le macerie dei fasti passati,
rammaricarsi, dolersi per la scempiaggine degli uomini
e rimpiangere l'età dell'oro.

Inauguriam con orgoglio l'età della plastica!
Plastica come i finti visi e i finti corpi,
i finti cuori e le finte anime
prodotte in larga scala, alla catena di montaggio,
della gente plasmata da questa nebbiosa atmosfera.

Non gli resta che versare lacrime,
piangere d'innanzi a quello che c'era, potrebbe
ancor'esserci e non c'è più,
piangere d'innanzi alla gente in letargo,
nei loro caldi letti,
ad aspettar che si consumi l'eccidio.
Piangere per le città ( ben poche)
ancora non contaminate dalla furiosa e folle tempesta,
piangere pel suo supplizio senza tregua,
sperando che le sue lacrime d'argento attratte e
sospese nella nera coltre di fumo
irradino la terra bruciata
di nuova linfa feconda.

Berlino 9 luglio 2006, Straripante felicità
Sudore a flutti,
in campo e a casa.
Rigore di Grosso.
E' l'ultimo.
posiziona la sfera sul dischetto,
uno sguardo
verso il portiere,
un altro, ad occhi bassi, nella sua anima.
Tremanti silenzi
tensione palpabile,
italiani ammutoliti in estasi mistica:
i nostri cuori stritolati nel petto
da un maleficio del destino,
le nostre gambe, con le loro,
risucchiate della preziosa linfa.
su quel prato smeraldo in Germania,
all'Olympiastadion.
Grosso parte,
calcia il pallone,
incrocio le dita e chiudo gli occhi…

Goooool!
Milioni di anime in visibilio,
piazze impazzite,
folle festanti.
Onde azzurre invadono le vie, le strade, le case,
straripano, valicano gli argini
e si riversano dappertutto
coprendo ogni cosa.
Cascate di spumante,
tuoni di trombette e grandinate d'anguria gelata.
Sciami infiniti di lucciole chiassose e disordinate
questa notte hanno il controllo delle città.
Abbracci forti,
abbracci intensi,
abbracci infiniti;
Italia quattro volte campione del mondo!

Nell'aere azzurro
rimbombano fiere e vigorose le note di Mameli.
Piantiamo, adesso, orgogliosi il tricolore.
Siamo sulla vetta!
Siamo sulla vetta!

Quiete universale
Due placidi nuvole
pascolando pigramente nel limpido cielo
mi dissetano coll'ombra rigenerante.
Affogo nell'alto prato incolto
adornato a fiori,
una spiga d'oro fra le labbra,
abbasso il berretto sugli occhi
e m'abbandono al prodigio dell'universo.

Un cantico solenne ma ineffabile,
adesso, mi frastorna lo spirito.

Quando il nido è indifeso
Il nido indifeso è
protetto da inermi passerotti
invocanti
caldo torpore familiare
invano.
Là fuori l'infausto mostro del tempo
ha trangugiato avidamente,
il chiarore pomeridiano
rigurgitandolo sotto le demoniache spoglie
d'un cielo oscuro e lugubre
cosparso d'acquerugiola autunnale
che s'abbatte gelida sulle loro spoglie membra.
Mai alcuno
porterà loro del cibo.
Mai alcuno
insegnerà loro a sbattere le ali.
Mai alcuno…
tornerà da loro.
Provan quindi a richiamar,
disperati
d'umido e vano pianto,
i genitori perduti,
con sempre più grinta,
sempre più grinta, sempre di più.
L'acerbi piumini lucidi di sudore e pianto celeste,
piegarsi non sanno all'evidenza.
Dunque scrutano oltre il covo natale
protendendosi, pericolosamente,
verso il baratro.

Il sapore della mia terra
Mani rosse di sangue
schiudono come un germoglio all'alba
e si cingono proiettate nel fuoco
striato di ricami violacei.

Volteggiano sospesi,
dilettandosi con la brezza confortevole,
proiettati verso la gota rubiconda che s'assopisce
grigi e rugosi rami d'ulivo, delle nostre piane sconfinate.

Ed in controluce, i raggi burloni
azzuffandosi con le gemme, le foglie smeraldo,
irradiano di rugiada d'oro
l'antico mondo circostante.

Abbagliati i maestri contadini,
si può riproporre il miracolo, a noi oscuro,
racchiuso bramosamente nel ventre di Madre Natura
che una volta l'anno, una sola, con parsimonia, svela ai campi:

fecondando la vergine sabbia con il seme d'effluvio vitale,
questa a breve figlierà copiosa e benevola.

La nuda terra bronzea, adesso sa di natura, intensa ed agreste,
sa di sacrificio, sa di lavoro massacrante,
sa di pulviscolo fatato.
La terra , adesso, sa di vita.

L'aquila selvaggia
Eccola: la bufera ricomincia.
Anzi non ha mai cessato di tormentarmi,
si è solo rinvigorita.

Devo riuscire a fuggirle.
Devo scampare all'occhio della sua furia.

Tappo le orecchie e serro gli occhi.
Del vascello c'affonda nulla più voglio sapere.

E l'incanto si ripete:
mondo nuovo mi si schiude innanzi
con la solenne fragilità del tacito miracolo d'un aquilotto che
lotta con se stesso per uscire dal guscio
e poter affermare la sua presenza sul pianeta
ed urlare, nel silenzio, al resto del mondo d'esistere.

Qui son sguinzagliato dalle catene dell'oppressione,
dell'apparenza, degli schemi prestabiliti.
Qui, sciolto dal bavaglio dell'ipocrisia, posso parlare,
sognare,volare alto tra le nubi candide
ed amichevoli del mio animo di fanciullo
e perdermi nella loro immensità immacolata.

Orde di cavalli liberi e selvaggi sfrecciano per
distese illimitate brulicanti di vegetazione
e illuminate dall'ardore, assordate dal frastuono,
profumati dal sapore, della vita.
Ammiro, sembran puntine, maestosi alberi
secolari, lussureggianti di meraviglia.

Cime elevate di latte,
corsi selvatici d'acqua di cristallo senza tempo,
mari dal blu intenso straripante di pesci,
campi contaminati di verde acerbo, vergine e fresco.
Ai poli è onnipresente il soffio vitale del fuoco
e nei deserti la pioggia fertile non ha mai fine.

L'ombra mia durante il volo, riflessa sullo specchio d'un lago
di ghiaccio, è scortata da quella piccola ma energica
d'una giovane aquila che, dopo aver imparato la sua arte,
denuda gli spazi sbalorditivi del suo mondo per la prima volta.
Ed entrambe, sbigottite d'innanzi a tanta magnificenza
continuano l'emigrazione esistenziale.

So bene di battere le ali come farebbe un'aquila
brada ed innocente d'innanzi alla sfera rubiconda,
bassa nella volta d'acqua, linfa universale, Mistero
esile ed inflessibile. Ma, io, sogno in questo modo.

Spero di non tappare loro le ali,
di non invecchiarle,
di non terrorizzarle,
di non ucciderle.

L'aquila è fuggita ed io, c'ho dimenticato come fare a volare,
son piombato sull'erba d'una incantevole valle incastonata da fiori superbi.
Mi rattristo: come posso scongiurare i timori che m'assediano?
Basta rispettare l'unica legge che Qui va rispettata: immergersi nella
quiete e nella calma viscerale che riecheggia nel paesaggio,
nel suo silenzio energico, ascoltarlo, tacere ed ammirare il Creato.

Mi circonda un paradiso, con il Mistero
che mi scruta tra le foglie e le siepi del Giardino
dei fasti antichi,
e presto udito…

Odo battiti d'ala poderosi e lesti riecheggiare nell'immensità del nulla,
distinguo un gridare familiare.
Abbagliato dalla luce che porta con se,
non posso fare a meno di abbassare lo sguardo
e riconoscerla nell'ombra bassa in terra.
Sento due ali sbocciare sulle spalle,
ed il mio cuore, ubriaco d'incanto, librarsi negli sterminati vuoti del tempo.

Per Eddie Guerrero
Alla raza

Tu Eddie eri riuscito
a sconfiggere l'inferno che t'aveva
catturato e che ti succhiava la vita.

Eri riuscito a mettere ko il mostro
che dimorava in te e ti logorava lentamente.

Tu, Eddie, eri il nostro simbolo,
la speranza che anche noi
semplici mortali
afflitti da problemi, avremmo potuto
sfondare, risorgere.
Eri il nostro miraggio, la nostra illusione.

Movenze latine erano le tue
che in un movimento di spalle
coinvolgevano la folla in delirio.
In delirio per te.

Spero c'ora da lassù
mi stia ascoltando, affinché ti possa render conto
d'aver fatto breccia nel cuore
di un ragazzo (e chissà quanti altri)
che mai si faranno tentare da quel demonio.
Tu alla fine hai vinto.

Ora i cuori di noi tutti popolerai,
Sì Eddie, mio eroe,
ci hai fatto sentir un po' tutti latini
un po' tutti sbruffoni, amanti passionali,
amabili guasconi.
Si, Eddie, tutti immaginandoti
sognavamo di sederti affianco nella tua
pazza decappottabile e
sfoggiando assieme a te le movenza della raza,
mandare in visibilio la folla.

Con la viva speranza che un giorno alla tua famiglia possa giungere questo messaggio.

Dal vangelo secondo i deboli
E l'operai e i contadini e l'oppressi
e l'ammalati e l'esuli e i dimenticati tutti
finalmente si stringeranno in un gran cerchio
che scuoterà il palazzaccio degli inamidati
dal cuore cieco, sordo ed assetato di bramosia.
E si festeggerà tutti assieme:
come bimbi tra i balocchi
sommergeranno le piazze di risa intonate e canti spensierati.
Nuovo bagliore pieno di speranza sgorgherà dai loro visi prima aridi,
e fresche energie nelle soffici manine segnate dai calli.
Chi vorrà potrà, anche con la luna alta, tuffarsi nel mar,
giocare a schizzarsi l'acqua o a saltar i cavalloni.
Fragrante aroma di cornetti li attirerà sulla terra ferma
ma allo spettro della sonnolenza opporranno tenace resistenza:
prima di serrare gli occhi
in orchi cattivi e bellissime fatine
vorranno incappare.
E tutti tra le braccia dell'altro,
estenuati dal fremito incessante d'una giornata così esaltante,
verranno finalmente travolti dalla lira di Morfeo,
che cullandoli dolcemente li trainerà
verso un nuovo sole, questo irradiante gioia e fiducia
pe tutte le lande desolate e i mari dimenticati
ed i cieli insozzati, di questo nostro
piccolo fazzoletto, magnificamente insudiciato
dall'inumane creature ch' in un barile di petrolio
esportano perfidia e sangue.

Ascoltami, figlio dei campi!
Figlio dei campi,
del grano, del fieno, degli ulivi e delle viti,
delle carrube, dei fichi d'india, dei mandorli in fiore,
della falce e della zappa
voli sulle soffici distese rosse di papaveri
e senape di girasoli.
Anche il tuo animo
sciolto dalle catene di ruggine dell'ipocrisia,
sovrasta la volta turchese,
e tu, figlio dei campi,
assieme ad esso.
Tuo padre, s'ammazza di piaghe per la campagna,
che corrode dal gelo nell'inverno
ghiacciando il sangue per le vene
e stordisce
dalla nebbia afosa
del sole martellante d'estate
che fa schiopettar le sterpaglie bruciate
sul ciglio dei sentieri sterrati,
come in un concerto di cicale.
Tua madre, regina del focolar,
bada alle faccende,
alle conserve,
e a tirar su te e gli altri monelli,
allattati anche lor da madre Natura.

Or dimmi perché, figlio dei campi,
vuoi abbandonar il tuo paradiso agreste,
ritenendo che sia l'inferno,
per andar a far l'operaio in una grande fabbrica
giù in città, speranzoso, anche illuso,
di far carriera, scalare le caste dei ceti,
e di sfoggiar un giorno anche tu la cravatta nero lucente
sulla camicia immacolata dall'amido.
Stolto! Non capisci che la città infernale
è il covo dei demoni
che ti spremeranno, t'illuderanno,
ed una volta che non gli servirai più
ti getteranno via?

Cosa fai figlio dei campi:
per non fare il contadino, libero in campagna,
vai a farlo, in città,
oppresso da sbarre di fumi e smog generati dalla tua fabbrica?

Sta a sentir me, figlio dei campi,
che son generato dalla città,
da figli della città, ma fieri nipoti
di umili lavoratori della terra,
fermati ed ascoltami:
non abbandonare i tuoi campi
dai colori forti,
dagli odori intensi,
dai sapori genuini.
Resisti all'incessante richiamo
delle abbaglianti sirene fumose
e resta sotto l'inebriante sole,
per tutta la settimana a lavorar,
e all'ombra rigenerante del campanile del paesello
di domenica.
Ma soprattutto, non perdere le ali della natura
che, ora, ti permettono di sorvolar leggero, le nubi, i campi,
o figlio dei campi.

Le lancette del cuore
Battiti del cor profondi,
ticchettio esistenziale sempre nuovo.
Son questi che ti staneranno
se (come sovente pratica l'uomo pauroso)
a loro ti occulterai.
L'odi forti, incessanti quando Diana è alta in cielo,
e nel silenzio fitto ti tormentano,
con l'ombra di lei che t'avvelena le cervella
e zittisce il mieloso Orfeo.
Insopportabile maleficio,
irritante singhiozzo,
ti perseguitano, segugi inarrestabili,
ti braccano sino allo sfinimento.
Unico antidoto è
il gorgoglio della verità
che con irruenza spontaneamente
eromperà, un bel dì, dalle tue fauci trincerate.

Ode a Bacco, signore della sbornia
Piaghe alle mani terrose
uno straccio bianco porgon
sulla sudata fronte.
Dì massacrante
gobbi pè le vigne,
ma tra l'amici del paesello
una buona bevuta in allegria
pure i sassi ridesterebbe.
S'ode la lercia botte,
scrigno del prezioso, gorgogliare,
e coi calici neri alti
il solenne rito può cominciare,
s'inaugura la trincata
al tuo nome o divino Bacco.

Quel dolce nettare tuo, o Signore
è oltremodo prodigioso:
travasato, copioso, giù per la gola,
anche l'anime peccaminose più pesanti
riesce a far librar
leggere leggere coll'angeli,
sbarbatelli ingenui coll'ali bianche,
e pesanti caraffe d'oro rosso, che versan allegri
in pioggia festante, qui sulla Terra.
Dolenze e sgambate
opaco ricordo diventano,
e, potente siero della verità,
caccia fuori dalle lingue serrate
l'arcane, inconfessabili, segretezze.

Adesso la gargotta farfuglia qualcosa,
sull'altare di Bacco s'intonano elette odi,

al tuo sacro nettare,
ch'i'campi dispendono giocondi,
brioso signore.
Al tuo sacro succo floreale,

stornello della terra all'empireo,
luce rinchiusa in volgare vetro,
celestiale ambrosia viscerale di madre natura
c'allatta rubicondi rissosi e attaccabrighe.

Lode a tè Bacco, dalle sorgenti
rigurgitanti miele celestiale,
ch'insaporiscono le carni, le vili passioni mortali,
e cingono alle caviglie di questi
un paio d'ali candide e ingenue
pe' librarsi gioiosi, lassù, tra gli dei dell'Olimpo.

Lode a tè Bacco, dai singhiozzi faceti
d'un fanciullo spensierato,
e al tuo veleno miracoloso,
il vino, che
lo spirito invoca
come il corpo l'acqua.

Spighe del mio granaio
E va!
Sorvola solenni boschi vergini,
sfreccia fra illimitati cieli limpidi,
tra flutti di specchio cristallino,
o sentieri d'acqua riarsi.

E va!
Plana sui verdi laghi di sale,
sormonta le sconfinate distese d'oro
ove i monelli spiegando i loro palmi
volano tra le spighe alte e brune,
ed a volta pungendosi
cospargon queste di rugiada sanguigna.

E va!
Innalzati fra distese rosse di papaveri,
tra greggi di curvi ulivi che si perdono,
sui trulli, dai lattei coni di pastura,
suggestivi funghi,
che emergono improvvisi,
dalla nuda terra amaranto.

E va!
Svetta tra i pascoli pigri,
tra gli echi torbidi di voragini nella roccia
senza fondo, volteggia
sulle tortuose viuzze di bianca pietra lastricata,
atrio del Paradiso.

E va!
Librati sulle teste canute dei padri,
sulle spalle possenti dei giovani,
i cuccioli attendon distesi sotto l'ombra dei pini
crocchianti di cicale,
che il gomitolo di porpora tramonti nella canestra buia.
I pescatori lavoran al foco lumicino della Luna,
con le stelle argentee ancora assonnate.
I contadini, piegandosi a madre Natura,
si rimettono alla sua fertile benevolenza.
Le comare? Schiudono nelle loro mani l'arte!
Pane giallo croccante di legna
nei loro forni, dolci cartellate inebrianti
d'odori selvatici, pasta casereccia,
dal primitivo sapore della nostra Terra.

Puglia, podere dalle ricchezze
Custodite nel profondo,
t'avevo smarrita.
Puglia, podere mio,
connubio d'opposti prossimi ma distanti,
per fortuna, t'ho ritrovata!

E va!
Vola ancora
sul fragile scrigno antico
mondo meraviglioso dalle variopinte
tonalità sbiadite d'un tempo,
e posati,
per tirare un po' il fiato,
sul ramo addobbato a festa
d'un Mandorlo in fiore.

Dilemma di capitano
O mesto capitano d'un barcone alla deriva
l'onde non cessano d'abbattersi
sul core tuo,
il vento maligno, le rigonfia sempre più.
Lanciarsi in mare e sfidare il mostro,
alla ricerca d'una vergine e nova terra
o, esanime, assieme all'amato barcone tuo
lasciarsi inghiottire dal famelico e truce Cariddi?

La stiva già deborda, la fine è imminente,
la scelta da compiere esistenziale.

Giornata da gaucho
Eredità del passato selvaggio,
ricchezza senza fine, patrimonio solenne
di saggezza sconfinata.

Consumate le vostre mani dai calli,
le vostre schiene dalle piaghe,
le vostre membra dal gelo mattutino,
la vostra esistenza nel dovere secolare.

E quante lacrime versate nei vostri fiumi,
quanto sangue cospargete sulle vostre terre,
nell'addentrarvi con le mandrie, dritti sino
al cuore vergine dell'Argentina.

Solo quando, vedo le vostre ombre ballerine
venerare in cerchio il dio fuoco,
immolando sui tizzoni la giovenca sofferente,
ed al contempo giovarsi dei lapilli roventi rigurgitati dalla fiamma
per intiepidirvi le ossa malandate,
capisco che avete sospeso, per qualche ora
la feroce battaglia senza tempo contro gli elementi..

Così, frastornato dalla gran baraonda di canti e melodie
alzo gli occhi verso la volta di carbone
illuminata, impreziosita, qua e là da pepite, fiaccole d'argento.
E perdendomi in questo spettacolo senza eguali
sento il mio corpo cosa sola con i canti, i sapori,
i fratelli mandriani, i campi, l'universo stellato.
E nonostante il sonno e la stanchezza dell'ardua
giornata di lavoro mi vogliano rapire, premendo sulle palpebre,
conservo gli occhi spalancati, come stregati,
volendo in qualche modo rubare un pezzo del paradiso naturale
che ha incendiato il mio animo.
E solo dopo, sfinito m'accascio al suolo,
con le auree fiamme che riflettono ancora sul mio viso forestiero
la vitalità, la festosità dei motivi gauchos.

Il logorante impegno del giorno
è appagato di notte, e la gioia in me è così incontenibile
che la fatica può solo arrendersi al suo cospetto;
così in dormiveglia mi son accorto che tu
Juan, m'hai visto tremolare, ti sei avvicinato
ed hai aggiunto la tua coperta,
privandotene, alla mia, e carezzandomi la fronte
ti sei appurato, da buon padre,
che non avessi preso la febbre.
Così, prima d'abbandonarmi senza freni al torpore nuovo e familiare,
ho benedetto te e la tua terra dell'incanto,
già sognando di non dover essere sciolto mai dal suo cordone.

Il letargo del fioricello
Con la società in perenne apnea
all'esile fioricello di montagna
faticosamente venuto al mondo
non rimane che una cosa da fare:
chiudersi nel suo incantevole bocciolo
e cadere in letargo, sperando che magari,
in un futuro prossimo, possa esserci qualcuno
in grado di ammirare le sue venature variopinte,
il suo delicato profumo,
la sua incantevole grazia,
la sua magnificenza da mozzare il fiato.

Schioppettar di foglie secche
Ode di sirena,
cantico celestiale
inebriante,
eccitante melodia.

La realtà non ci appartiene più.
Non l'avvertiamo più.
Non sappiamo quantificarla più.

Dovremmo abbassare, ogni tanto, lo sguardo,
e riassaporare il miracolo meraviglioso
che scaturisce da ogni semplice elemento
dell' orchestra perfetta di madre natura.

Essere sorpresi dal fischio d'un passerotto,
versare una lacrima e farsi asciugare la gota
dal palmo paterno del vento,
carezzare l'erba fresca di rugiada, alta fino ai gomiti.

Solo così l'uomo tornerà sulla terraferma,
sarà in pace con se stesso e la natura, ecco,
ritroverà l'armonia con il Creato,
la felicità..
E la crisi diverrebbe solo un raccapricciante ricordo.

Baciami ancora
E baciami ancora
o mio angelo,
fammi ancora volare
almeno una volta
in paradiso,
te ne prego.

Le dita mie scorrono
per la tua bruna chioma.
Scivolano come sulla neve,
o come gocce di pioggia
sul tetto d'autunno.
Quanto adoro
ripetere questo gesto
piccolo ed innocente
ad occhio estraneo,
ma terribilmente
significativo
ed angelicamente
piacevole pel mio.

Mordi le mie labbra come solo tu sai fare.
Come si fa con un frutto tenero,
come si conviene per le ciliegie insanguinate.
Carezzami il collo, le braccia.
Quando son io invece a toccarti, muto in
un orco che maneggia un gracile gioiello di cristallo.
Baciami ancora.
Poi ti prendo al sicuro tra le mie braccia
per ripararti dal freddo che c'è là fuori
Non permetterei mai ad alcun demonio
di scalfire il mio gioiello luccicante.
Son io il primo, però, che deve stare attento
a non sgretolarti

Amore , cogli dalla faretra dell'incanto
la magica freccia,
amore, schioccami baci dappertutto,
cosa aspetti?
Voglio udire lo scoppiettio deciso
delle tue labbra sulla mia pelle,
sulla mia carne.
Che sensazione paradisiaca!
i dardi che mi han colpito
son divenuti roventi.
Quante dolenze piacevoli vuoi farmi provare?
Ora sei tu a bruciare il mio corpo,
tizzone ardente.

Come afflitto da una maledizione,
arò destinato ad ardere avvolto tra i fuochi e le fiamme
ogni volta che le nostre anime si sfregheranno
affinché non possa mai cogliere
pienamente ciò che facciamo.
Nel contempo però, le fiamme immortali non potranno
mai estinguersi.
Benedico, quindi, ogni dì la condanna infernale.

Paesaggi di quota
La tortora cenerina
dal campanile plana come piombo
sulla piazzetta del paesello,
attirata dalle molliche
che i bimbi nel chiasso delle loro rubiconde gote
lanciano sulla strada.

L'allodola variopinta
balzando di rovo in rovo,
come in preda ad un ballo dai trascinanti
ritmi primordiali,
contempla i campi, l'orti che le si fanno incontro
e sciami d'ulivi e mandorli rosa dall'inebriante aspetto.

L'aquila, dal fulvo capo e dal piumaggio bronzeo,
sguinzagliata, domina la volta limpida del cielo,
spadroneggia incontrastata, tra l'alti monti vergini,
le valli smeraldo rigurgitanti soffio vitale.
Libera d'ogni laccio materiale,
dipinge nell'aere anelli d'oro
ghermendo l'azzurro coll'artigli profondi,
beccandolo col poderoso becco rostrato,
lasciando alle calcagna dell'ali maestose un velo d'argento,
nello sfiancante tentativo d'emanare un fascio di luce e
rivaleggiare con il sole per il dominio del firmamento.

Verità di campagna
Il tuo sguardo di brina
porta all'ebollizione del mio sangue.
L'incandescente amor che provo verso te
è vero quant' è vera questa campagna.

La campagna dai fitti prati smeraldo
come questo, sul quale io ti spettino
e tu mi coccoli.

La campagna dai colori, dagli odori intensi,
come questi di erba vezzeggiata dalla rugiada,
o di fiori selvatici che c'invadono il cor.

La campagna dalle note fragili e melodiche,
come questa marcia nuziale che stanno intonando
per noi le cinciallegre.

Resterei in questo paradiso,
con te, a rotolarci nell'erba come bimbi,
e ad indicare le nuvole, per sempre.

Ora, hai finalmente compreso
che dove irrompe la campagna e
soccombe il grigio maleodorante delle apparenze,
con fragore dirompente riemergono dalle profondità
Amore e Vita,
le uniche realtà pure ed imprescindibili.

Chi è un amico
Un amico è colui che ti comprende
con una semplice occhiata,
con un gesto, un mezzo sorriso che sul labbro scende.

Un amico è colui che ti sostiene
quando sei così disperato che il giorno sembra notte
ed un pianto par sorriso di iene.

Un amico è colui che ti ha visto frignare,
sognare ad occhi aperti,
e dalle risate scoppiare.

Un amico, vero, è quello con il quale ne hai passate tante
da ricordarle sino alla morte.
Di Barrea, dei mondiali in Germania, o dell'edicolante
insieme nella buona, ma soprattutto nella cattiva sorte,
proprio come per i due prodi Carlo e Ubaldo,
uno rossonero, l'altro interista forte,
dal profondo ti ringrazio amico Aldo!

L'eroe delle pampas
Venerando milite
di pascoli sterminati,
sguaini la tua zappa di ruggine, il tuo forcone allentato,
la vecchia falce inumidita
dal sudore della fronte.

Padroneggi il lazo,
scocchi le bolas mirando le zampe dei
tuoi armenti, dall'arco di secolare saggezza
e sgrovigli gomitoli acuminati cingendo le estese
trincee delle estancias.

Dopo l'adunata, il payadores suona la carica
e parte la fanteria. Non è parata ma marcia forzata,
per la pampa echeggiante di desolazione;
schier di cavalieri, compagni d'armi, condottieri
braccano le mandrie latitanti e
sfidano i gregari di signora natura:
diluvi, bufere e l'arsura che incrina la terra.

È corpo a corpo con l'inesorabile
ammucchiamento d'istanti.
È lotta aperta coll'odierno.
Alleato fedele il codice ferreo degli onori.
La dura incursione della transumanza è appena intrapresa
la guerra del gaucho, cocciuto nella
sua rude tenerezza; anche.

La ballata de: Ridiamo per non piangere
Morendo prematuramente
S. Pietro in cielo mi fa salir.
Gli angeli vedendomi così incosciente
beffeggiandomi si mettono ad applaudir.

Per mio personal piacer
vado incontro ai Sommi Lumi:
non son affatto fitte schier
al contrario, son pochi come nel deserto i fiumi!

<<Che linfa pura s'avverte quassù
quando il ciel si color.
Se ripenso al mondo di laggiù
dalle risate muoio ancor>>

M'ammonisce Platone
<<Mostraci prima il certificato>>
Lo porgo <<Vengo dal blu pallone>>
<<Anche tu, dunque, sei del mondo più malato>>:

Così, beato, coi Magni mi metto a chiaccherar
di filosofia, politica, amore, odio, amicizie e gelosie.
Poi guardando in basso, per lor richiesta, inizio ad indicar
del nostro vecchio mondo le nuove bizzarrie.

<<Innanzitutto il rapporto con Madre Natura è cambiato:
si sterminano foreste, s'affumicano cieli, s'avvelenano fiumi e mari,
purtroppo da sempre soccombe chi non è preparato
alle diavolerie umane ed ai sui mali.

Vagonate d'immondizia
han sommerso incantevoli fior
così come una società senza giustizia
ha sotterrato i nostri cuor

Ovunque ti giri vedi indifferenza e povertà.
Gente onesta finire dietro sbarre sudice
e ladri, assassini, politici corrotti, dalla falsa sincerità
assolti, per aver riempito di grano marcio la toga d'un giudice.

Ancora oggi innocenti bimbi anziché giocare muoion affamati,
sembra incredibile ma succede questo, anche all'uomo del futuro
molti altri, a Nord, invece, son prigionieri di ipermercati
ed obesi, vengon imprigionati da cioccolato "scadente puro".


Ancor più rabbia suscitano in me i poveri illusi, giovani ciechi e sordi
credon solo a quello che senton: il mondo è perfetto, la democrazia vola!
Zombie incantati dai media degli ingordi,
pensan che la libertà si esporti con la Coca-Cola!

Predicatori falsi o sinceri
s'oppongono, impotenti, a uomini di regime, puliti dittatori
che sian rossi oppure neri,
in farsa paladini della libertà, ma anche pessimi attori!

Ingiustizie, guerre, falsità, caos dilagante,
tutti si consumano in proclami, promesse, ed intanto la situazione peggiora
e pensar che oggi l'uomo ha i mezzi per far qualcosa d'importante
e diradare il mondo dalla fitta nebbia che oggi lo colora.

Mi spiace doverlo ammettere a denti stretti
ma son l'avidità e la sete di potere la fonte prima del nostro male,
urgon provvedimenti urgenti:
bandiam per sempre la moneta, non viviamo più come cicale!

Anche perché se il Bon Dio, controllati dal Dio Denaro ci avesse voluto
coi soldi già in mano ci avrebbe creato
e non così fragili, che basta uno starnuto
per raggiungerlo in quest'altro, dell'Universo, lato!

Tutti uguali e tutti bene viver possiam,
innalzarci sul serio dalle altre bestie del Divino Gioco
e costruire davvero la società felice, sempre sognata! Fratelli andiam!
Ma ci dicono che non si può. Troppi interessi. A pochi tanto e a tanti poco>>.

D'improvviso, mi fermo, col fiatone d'un bambino
<<Su quella mela marcia non voglio più riflettere
e non sol perché son troppo preso da questo giardino
ma perché se continuo a farlo, dallo sconforto, mi verrà da rimettere>>:

A questo punto il Padre Omero
obietta: <<raccontami ancora della tua civiltà dei pazzi,
tra tutti, qui, sono il più vecchio,
nelle vicende che lor mi han raccontato io non c'ero
non so nulla di cesari, nuovi mondi, e dei cosiddetti razzi,
e per giunta ci sento solo da un orecchio>>.

-Allora come un attuale menestrello,
canterò ancora i vizi e le piaghe del mondo senza virtù,
più spedito e pungente d'un pipistrello,
che prende il nome di Pianeta Blu.


Laggiù, sulla terra
ogni dì scoppia una guerra

Per fortuna tra i fitti segreti
aperti al pubblico c'è la passeggiata su lontani pianeti.
Ma basta abbassare il naso
e guardar, così per caso:
c'è ancora la fame,
nostri simili che mangian letame.

L'atomica è diventata come una pasticca,
una mortale lenticchia
somministrataci, e ne siamo al corrente,
nel piatto di minestrina riscaldata,
dalla cocciuta gente
di schizofrenia irradiata.

Si rapina a Gennaio,
si ammazza a Febbraio,
ci si difende dietro un saio!
Ipocrisia dilagante
ma non è così importante,
c'è da preservar il ruolo corrotto di garante.

Tempo fa è morta la morale,
oggi gli avvoltoi microforati beccano il suo cadavere, grigio come faggio
eppure non è un allarmistico segnale,
tra quelli che ancor ci vedono, è moda di passaggio.
Ma che moda temporanea, quale usanza dell'oggi giorno:
questa è una crociera della morte senza ritorno.

E gli autentici pensatori
quelli senza doppio viso
che sia alti, bassi, biondi o mori
gli han esiliati con un beffardo sorriso!

Infine, vi dico che è questa Terra il seme originale,
serba i suoi mali nel grembo viscerale,
ha l'esclusiva commerciale delle ingiustizie
d'una mente perversa le malefiche primizie.

Son le usanze, d'aggredire nel pianeta blu:
non si legge un libro neanche se regalato,
ci si mette in coda dietro un Jeans dal più trandy look,
non c'è iniziativa propria che non includa avvocato
ci si inabissa, in definitiva, sempre più giù.

Ahh Sommo Virgilio è possibile che noi uomini
siamo caduti così in basso?
Ahh Immenso Socrate è possibile che l'umanità abbia toccato
il fondo della sua storia?
Ahh! Divino Dante, è possibile che la gente non si
accorga di quello che le succeda attorno e non riesca
a destarsi dal caldo torpore dell'indifferenza collettiva?

Guarda, Omero, capostipite dei letterati,
Poeta dei poeti, guarda l'indifferenza oscena che serpeggia per le strade,
che imperversa per le vie, che sfonda le porte,
entra nelle abitazioni e s'impossessa dei nostri corpi.
Guarda o suppremo aedo
come ci siamo ridotti, guarda ed inorridisci!>>.

<<Mi dispiace giovinetto, ma io non ci vedo niente!>>.

<<Ah, già, sei cieco. Scusa. M'era passato di mente>>.

Silenzio di tomba. Neanche un ronzio s'avverte.

Il gracile Gandhi, soldato della pace,
vigorosa grande anima, mette l'ossuta mano sulla mia spalla e dice:
<<ma se un bel giorno, tutti insieme
in un gregge rivoluzionario e pacifico, ci uniremo
soccomberà questo mondo infame:
la mano porgeremo al fratello bisognoso,
l'amore sopito si ridesterà,
ed il fior sepolto, nuovamente sboccerà,
questa volta con ardor più impetuoso-.
 

Bella Italia sopita
Scorgon lacrime rosse
dalla fontana del cor mio
a vederti sì in ginocchio Bella Italia.
Tempo immemore l'eco della tua magnificenza
si spandeva pe terra, cieli e mari.
Ciò che l'ardore incessante dei tuoi zoccoli romani calpestava,
oggi ci pesta, ci offende, ci deride.
Il fiero ed indomito spirito del destriero italico
imbrigliato per dovere,
s'è forse spento come un cero sotto i giochi del vento?
Il gladio temibile che maneggiavi divinamente, Amazzone Selvaggia
e un giorno facea di te l'invidia dei popoli,
oggi non è conficcato nel tuo sofferente Cor?
Da troppo tempo l'aquila aurea
un tempo sovrana incontrastata delle vette più impervie
non spiega le robuste ali.
La scatola degli orrori ti sottomette al volere suo,
gli agnelli vicini di stalla son pronti a sgozzarti,
all'incalzar della luna.

Ridestati o mia Bella Italia,
nei momenti bui sempre ti sei sollevata,
più vigorosa che mai.
E così sarà ancora una volta, vedrai.
Se tutti quanti mozzassimo
la belligeranza civile che ci denuda al nemico,
e ci stringessimo,
calorosamente, attorno al tuo freddo corpo esanime,
nelle tue vene in secca
tornerebbe a sgorgare sangue rubino,
il destriero spezzerebbe con furore goliardico
le briglie che lo opprimono,
e così, ne son sicuro, anche l'aquila d'or
sciolta nell'infinito, tornerebbe a duellare,
con le vette impervie,
per il dominio dei cieli.

L'inferno sotto il gelo
Il ciel or ora ha smesso di gocciolare.
Angoscia gelida avanza prepotente nella finestra
che di torpore familiare s'appanna
Batte i denti la pelle mia,
linfa invernale la sta possedendo,
tremori glaciali la dilaniano.
Nel crepaccio profondo del cor, invece,
fra titaniche stalattiti di brina,
ed impetuose tempeste di lapilli ghiacciati,
giace, protetto ed inviolabile,
l'imperituro lumicino dell'animo,
che tu, piccola fiammella mia
hai ridestato dal lungo letargo,
aizzando quel divampante incendio
che or ora infuria nelle sconfinate praterie dell'io.

Miracoli ordinari
Mareggiar quiete di spighe,
stornello disordinato di cicale in lontananza:
la vera pace dei sensi,
la vera fusione con lo spettacolo del creato.

Tuffarsi in questa serenità,
coi gomiti tra l'alti flutti d'oro,
strappare una spiga,
frantumarla teneramente in un palmo,
avvertirne i soffici semi, uno ad uno fra le dita,
e, con un gesto fanciullesco
abbandonarli al soffio delicato del vento.

Questo si darà cura d'ingravidare
una lontana, fertile landa di vergine terra,
ed il prodigio potrà ripetersi.


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