Romanzo di avventura
GOTH
di Jacqueline Miu
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Leggere questo libro non costa nulla; se ti è piaciuto porta un tuo dono, un piccolo modesto ma ineguagliabile gesto d’amore “un peluche – un sorriso – narra a tua volta una fiaba – ricambia il bene” all’Istituto Tumori di Milano reparto pediatria www.istitutotumori.mi.it. Armet è un vecchio giornalista rimasto vedovo e Billy è l’adolescente che gli fa da dog sitter. Entrambi scoprono che la loro città è fondata su una molto più antica e certe leggende di mare sono delle vere mappe che non conducono a un tesoro ma alla verità su molti di antichi abitanti costieri svaniti nel nulla. Entrambi campiranno che l’amicizia è un vincolo che regge a qualsiasi cataclisma. A loro non resta che seguire la rotta di quelle navi fantasma sperando di arrestare la fine del mondo. Un libro per ragazzi e per quelli adulti che amano viaggiare per scoprire le verità nascoste delle leggende di mare.
Miu Jacqueline
Goth
1 La scomparsa del Dolphin
Penso di aver deciso, già alle scuole elementari, di diventare uno scrittore, non sapevo cos’altro sarei stato capace di fare se non inseguire la trama di quei pensieri cui io soltanto potevo dare una fine. Mia madre si era ammalata prima che io finissi il college, così fui costretto a lavoricchiare, non solo per mantenermi agli studi, ma per gestire le piccole necessità quotidiane di cui nemmeno un ragazzo povero poteva fare a meno. Avevo imparato quanto potesse pesare a uno studente il costo del dentifricio e quanto si potesse reputare un lusso cambiare o per non dire buttare, lo spazzolino da denti oramai consunto. Le uniche verità erano la forza di preghiera verso un Dio sordo, forza che non aveva fermato la rete della morte che s’era presa l’unica creatura che m’era rimasta sulla faccia della terra, e la mia incapacità di piangere come avrei voluto per liberarmi dal collare dell’angoscia che era diventato con gli anni un cappio fantasma sempre più stretto e sempre più doloroso. Mio padre non l’avevo mai conosciuto e zia Petrie, sebbene una donnina ossuta e molto anziana, l’unico parente di una famiglia che mi restava. Lei non era ricca ma cercava di aiutarmi come poteva, qualche pasto caldo e i rammendi ai pantaloni che si stavano consumando un poco come me. Per uscire da quello stato di disperazione e fame, m’imposi di finire la scuola prima e dopo aver studiato per mesi interi di giorno quando non lavoravo, e di notte, riuscì. Il giorno della mia laurea pioveva e zia stava morendo in un letto di ospedale; non feci in tempo a salutarla e questo fatto, mi torturò per parecchio tempo. Dopo la laurea trovai un lavoretto presso un piccolo editore appena fuori città, Mel & Co di Mel Friston, un uomo buono come un pezzo di pane che m’insegnò cose che la scuola non insegna. Scrivere era ancora un hobby ma come diceva Mel - “ragazzo se hai stoffa stai sicuro che arrivi, questa come in tutte le cose, è il frutto dei tuoi sacrifici e ricordati che la volontà potrà farti realizzare qualsiasi sogno” - beh, oggi posso dire che quell’uomo non aveva torto. Fu lui a correggere il mio primo libro e a presentarmi quella creatura deliziosa che sarebbe stata la mia futura moglie. Ancora oggi lo ricordo nelle mie preghiere, perché se non fosse stato per la sua fiducia, credo che sarei rimasto un disperato in cerca di fortuna o il povero cassiere di un super mercatino di provincia, disperato e pieno di sogni. Con gli anni avevo capito che lo scrivere per me era diventata una sorta di liberazione, un dare sfogo alla voce dell’anima quando questa aveva qualcosa da dire. Certe volte nemmeno io la capivo molto bene questa voce, ma certe altre guardavo la mia mano scorrere velocemente sui tasti della macchina per scrivere come se un alieno si fosse impossessato del mio corpo. La liberazione del mio spirito era arrivata. Sapevo come mi sarei guadagnato da vivere e questo traguardo non sapevo si sarebbe rivelato utile a verità per molti ancora incomprensibili. Un Sabato, di primo mattino, quando non avevo ancora aperto il giornale e, davanti a una tazza di buon caffè fumante, decisi di guardare nella storia degli scomparsi meno noti del triangolo Bermuda, e no. Sandra, la mia affettuosa compagna e moglie, era morta da più di un anno, e il travaglio emotivo aveva lasciato ancora un’interminabile scia di dolore. Vivevo nella cruda realtà convincendomi che in quel “carpe diem” quotidiano, avrei dovuto portare avanti la sua memoria, che ne so, magari nei miei libri o cercando di ricordarla nelle conversazioni con i nostri amici. Ero a corto d’idee e l’ispirazione per il grande romanzo, sarebbe arrivata alla fine, ma prima era già passato da parecchio e avevo una gran voglia di scrivere qualcosa, un racconto che mi avrebbe fatto divertire, qualcosa che implicava il mistero e l’indagine, qualcosa senza il pretesto di una verità assoluta. D’altronde non avevo alcuna fretta, in fondo il mio lavoro sarebbe potuto essere apprezzato solo dal mio spericolato editore. Stavo sorseggiando quel liquido scuro dal quale ero diventato dipendente … - è vero che gli scrittori se non fumano sigarette, bevono litri di caffè e per me questo liquido dannato deve essere molto, molto dolce, tanto che le papille si devono ben sposare all’aroma di macinato italiano, credo il migliore per una vecchia moka - … quando l’occhio si fermò sulla prima pagina del giornale Miami Herald, quotidiano di grande autorità specialmente nella critica sportiva dei Miami Dolphins, almeno a mio modesto parere. Stavo leggendo comodamente le prime pagine del giornale, con i piedi alzati e perpendicolari al tavolino che riposavano felici, alla mia destra un piattino con mentine ancora pieno e una caraffa di caffè bollente cui mancava solo il dono della parola per dire sorseggiarmi. L’unica notizia scioccante in un mare di dibattiti politici, che oramai avrebbero disgustato chiunque che in quarant’anni aveva visto gli stessi personaggi cambiare più volte bandiera, era la scomparsa di un piccolo peschereccio con tre marinai a bordo e uno di questi, il Comandate della barca Conrad Stevens, già ai tempi sessantacinquenne. Conrad, Cod per gli amici, era un vero lupo di mare che nemmeno un uragano avrebbe potuto domare e sapere che era finito nel nulla o peggio, inghiottito dal mare; mi angosciava. Il fatto più strano era che non c’era stato alcun uragano nella zona dei Caraibi e fortunatamente di pirati non ce n’erano di sicuro perché la zona era la più pattugliata al mondo. Insomma le cause della sparizione erano del tutto incerte, c’è chi parlava di un’onda anomala, d’un mostro marino, c’è chi alla capitaneria di porto aveva ascoltato un segnale di soccorso molto debole, troppo debole perché possa identificare, ma caso strano il nome dell’uomo che diceva di averlo sentito, non compariva sul giornale. La lampadina di Archimede Pitagorico si accese nella mia testolina. Afferrai il giornale, impacchettato in meno di due secondi sotto il mio braccio sinistro, in modo da lasciare che la mano destra tenesse la ciambella, cui aveva già dato un paio di morsi vigorosi. Si poteva sviluppare una buona storia su queste strane sparizioni in mare, e non pensai per un attimo di sfruttare la scomparsa di Cod ma d’indagare e con discrezione sulla cosa, capire chi poteva saperne di più, e perché ci teneva a restare in ombra. Fuori il sole picchiava già dalle prime ore del mattino. Nemmeno un accenno di vento. La Capitaneria di Porto distava una ventina di minuti da casa mia e finita la ciambella, messo il giornale sul sedile del passeggero, finalmente baciai l’acceleratore col mio solito flemma, lasciando che la pianta del piede sfiorasse come la pelle d’una donna il pedale. A volte mi domando se qualche mio rivale, o nemico, ha parlato al motore di come io, considero si debba comportare un mezzo di locomozione, e di come io mi comporto quando vado di fretta con questi mezzi … Quando volevo andare veloce la macchina la pensava in un modo tutto suo, e quando invece non avevo alcuna fretta sembrava avere l’accelerazione troppo sensibile, tanto sensibile, che sentivo il mio piede da dinosauro sfiorare appena il pedale come se si trattasse di una bomboniera, e la macchina schizzava leggera lasciandomi sorpreso e poco soddisfatto. Se non volevo la velocità, era perché dovevo riflettere su qualcosa. Ci sono persone che amano correre per pensare, si fanno due o tre ore di footing mattutino, sudando copiosamente da tutti i pori ed incamerando quantità incredibili d’ossigeno, io invece sono un tipo rilassato, quel genere di persona che detesta la fretta, soprattutto quando questa toglie la concentrazione. Insomma, pensare con l’affanno di un corpo stanco e sudato mi crea certi problemi, mens sana in corpore sano, non fosse che il corpore in questione non carbura idee dopo aver masticato chilometri di corse estenuanti. Sono un placido orso che trova illuminazione dal ristoro; quando penso, mi piace assaporare la vista del mare, guardare da dietro il parabrezza, il colore del cielo, o vedere il gioco dei gabbiani sulla banchisa. Quella in questione era proprio il tipo di giornata in cui avevo bisogno di pensare, anche se l’auto sfrecciava tagliando o quasi, il giallo ai semafori. Avevo tante idee in mente e tutte ben confuse, mi bastava solo una, che poi avrei sviluppato con calma e dopo un paio di tazze di caffè, davanti alla macchina per scrivere. “Prof. ma quando ti aggiorni?”, mi chiedeva sempre Billy, un ragazzo di sedici anni che faceva da dog-sitter al mio Cassius, un bulldog inglese di circa sei anni pigro e ciccione come una pesante campana di bronzo, quando io ero fuori città. Era un bravo ragazzo che amava leggersi le prime pagine dei miei capitoli, ed era pure un critico feroce che sapeva quale genere di emozione, doveva trasmettergli la lettura, insomma nonostante l’età, il giovanotto si era guadagnato la mia fiducia. Al pensiero della scomparsa di Conrad si sovrapponevano altri pensieri, e altri ancora. Conoscevo una certa persona che aveva fatto in passato il guardiacoste, e decisi di servirmi dei suoi favori, ne avevo taciute io di cose su certe vicende cubane che il governo voleva seppellire per non dare a noi scrittori e alla stampa spunti per una crisi diplomatica, insomma era giunta l’ora di ricevere una piccola ricompensa per il mio silenzio. Charlie Johnson mi aspettava davanti alla rete del porto, una specie di solito posto, per noi due. “Hai sentito di Cod?”, gli chiesi stringendogli forte la mano. “Sì, e non ci voglio nemmeno credere, lui è uno che litiga con le bussole, che segue ancora le stelle per tornare a casa, che non si fa affondare da un’onda alta, anche se hanno confermato che non c’è stata alcuna onda anomala. Mi prende male pensare che sia annegato, o peggio ancora, affondato con la propria barca. Speriamo sia una di quelle cattive notizie che si sistemeranno col rientro del Dolphin. Le male lingue ed i cacciatori di notizie dovranno ingoiarsi i loro rospi, sono stufo di cercare la verità in mezzo a gente che ama la spazzatura.” Il mio capo annuiva pericolosamente. Sembrava fossi stato preso da un tic nervoso, ma capivo che le parole di Charlie, avevano un effetto incredibile sulla mia immaginazione, e senza volere, queste avevano sortito un effetto benefico sulla mia anima, non abbastanza temperata quando si trattava di tragedia che riguardavano amici o conoscenti. “Pensavo alle due barche sparite l’estate scorsa quasi nello stesso periodo.” “Che cosa vuoi dire, che qualcosa colpisce nel mare a intermittenza?” “Voglio semplicemente dire che uno come Conrad che vorrebbe morire in mare da eroe, non sparisce assieme alla sua barca come se l’avesse ingoiato il nulla, per lui sarebbe da vigliacchi e Conrad dannato figlio di puttana non è mai stato un vile. Sua moglie dice d’aver avuto uno strano presentimento quando era partito, ma non l’aveva fermato perché nessuno poteva fermarlo quando decideva di andare fuori.” Entrambi guardammo il mare. L’orizzonte sembrava macchiato da una grande nuvola propensa a scivolare sul mare fino a inghiottirlo nel suo colore scuro, ma a me il mare piaceva chiaro e trasparente, con acque basse e sabbie chiare, quel tipo di fondali, dove vedevi nuotare i pesci e le stelle marine, quello dove potevi camminare per chilometri senza mai bagnarti le ginocchia. Sentivo un disagio interiore di cui non riuscivo a darmi spiegazioni. “Se non erro, dieci anni fa in questa stagione perdemmo una vela e due ragazzi che noleggiarono un dieci metri senza lo skipper. Si pensò a una fatalità, tipo un incendio a bordo, al brutto tempo, c’era l’uragano Nora che stava spazzolando l’area a duecento miglia da qui, ma nessuno riuscì a trovare nemmeno una saponetta.” In quel momento mi sembrò di vedere Conrad in piedi davanti alla capitaneria che agitava le mani indicando qualcosa. Rimasi sbalordito tanto che Charlie mi dette uno scossone per distrarmi. “Ehi, ma ti senti bene?” Gli afferrai l’orlo della giacca, e lo feci girare. “Guarda li, alla tua destra in fondo, non è Cod quello che si agita?” “Io, non vedo nulla.” “Guarda meglio, la in fondo.” “Ma, ma, sta svanendo.” Charlie indicava col dito nella direzione giusta. Ci guardammo come se non volessimo dire una parola su quello che avevamo appena visto...”. “E’ impossibile avere un’allucinazione in due, non contemporaneamente e non ...”. Lasciai stare le parole e iniziai a correre in quella direzione. Charlie mi venne dietro e non pesantemente come l’età gli avrebbe suggerito, ma ultimando in salti l’ultima decina di metri tra noi e l’apparizione. “Era qui?”, mi chiese lui. “Sì, qui!”, risposi io con le mani sulle ginocchia e cercando di ritrovare il fiato. “Qui però non c’è niente.” Ci guadammo per dei secondi interminabili, ed io mi sentivo il cuore in gola, caspita non ero più un bambino, e certe cose prima di pensarle o di dirle si ponderano, ma stavolta avevo un testimone, e la mia non era semplicemente un’ansia visionaria. Avevo le mani sudate, guardai Charlie e vidi che anche lui si guardava le mani. “Sudate?” “Sì, anche tu?” “Già anch’io.” “Che cosa pensi?” “Penso, Diavolo non so cosa pensare, forse abbiamo immaginato di vedere nell’ombra, l’ombra stessa.” “Sei un uomo pragmatico e sono certo che le ombre non ti fanno sudare, amico mio.” Charlie si piegò per arrivare a toccare qualcosa in terra. Guardai come si sfregava le dita della mano destra, pensavo alla polvere, ma l’asfalto era perfettamente asciutto e perfettamente pulito, nemmeno un granello di sabbia almeno a quanto sembrava a me di vedere. “Vieni! Abbassati!”, lo seguì come uno scolaro ascolta il suo mentore. “Ma è acqua?”, dissi cercando di assaggiare quelle gocce che avevo ora nel palmo. “Salata, Mac, è salata. Un cerchio d’acqua salata.” Non aveva mai visto Charlie così scuro in volto, qualcosa lo turbava, e molto di più del fantasma che pensavo di aver visto. Ci disturbava la non conoscenza, ci disturbava quella strana cosa che la vita ci buttava davanti agli occhi come se noi potessimo facilmente comprenderla. A un tratto Charlie si mise una mano sul petto ed io capii che stava per crollare. Chiamai un’ambulanza. Gli occhi del mio amico mi dicevano col loro silenzio che stava collassando. Feci finta di non aver visto niente. Il mio psichiatra mi diceva ogni tanto, durante la seduta: «se tu fingi di non sentire il dolore, il dolore non ha altri appigli mentali e cede al tuo controllo, ma se tu gridi, e gli dai un appiglio, allora il suo volume potrà essere sempre più forte e incontrollabile, sei tu a scegliere come sentirlo e fino a quando.» Decisi che era il momento di staccare la spina. Il dolore era l’unica emozione che poteva consumarmi da dentro e come tale abiuravo incontrarlo di nuovo. Mi concentrai sul povero Charlie e non lo lasciai finché non mi dissero che era fuori pericolo. Avevo lasciato il Jackson Memorial solo nel momento in cui vidi arrivare una donna molto preoccupata per la sua sorte, che immaginai fosse la moglie. Mi ero ritirato con cautela, non potevo rendermi responsabile del suo stato di salute, anche se ne avevo favorito il peggioramento. Rientrai a casa ancora più confusa di prima. Cassius dietro la porta sembrava avermi odorato da lontano. “Bravo bambino, hai fatto la guardia?”, meno male che il cane non aveva il dono della parola se non mi avrebbe risposto, «scemo, hai perso la giornata cercando i fantasmi». Tornai in auto per prendere il giornale, forse c’era qualcosa che m’ero perso, qualcosa che dentro sapevo avrei dovuto scoprire. Senza nemmeno sedermi, iniziai a sfogliare il giornale in piedi, cercando la pagina dove erano riportati i nomi degli scomparsi sul peschereccio, e la zona dove presumibilmente s’erano inabissati. In mezzo alla settima pagina, la foto di un sorridente capitano Rush Conrad con la testa di un marlin blu d’impressionanti dimensioni. Sotto la loro immagine e in bella mostra, erano elencati i nomi dei tre uomini che lo avevano seguito nella pesca di Venerdì, Lo Bianco, Dervin e Rustin Boil, uno che la pesca l’aveva nel sangue così come i segni dei denti dello squalo bianco a cui era per miracolo sfuggito. Il pezzo giornalistico ostentava un fragile oratorio piuttosto che una convincente informazione e descriveva non solo le caratteristiche tecniche del Dolphin ma la rotta che il suo capitano avrebbe dovuto seguire; pochissime le certezze e ancora meno le fonti a cui si era ispirato. La firma dell’articolo era una sorta di tre iniziali J.F.G. che non avevo mai notato nella cronaca locale prima d’ora, e poi leggendo, mi resi conto che mancavano le annotazioni e le comunicazioni che c’erano state, tra il comandate e la capitaneria di porto. Il fatto che, non ci fosse stata alcuna richiesta d’aiuto, alcun mayday che un amatore potesse anche inavvertitamente aver sentito. Passarono quattro giorni da quella notizia e quello che mi passava per la testa era sempre un’idea avvolta dalla nebbia. Cercavo di tenermi occupato, passai due giorni interi, portando i miei due nipoti, due ragazzini vivaci e intelligentissimi, al delfinario. Non riuscivo a trovare la pace, avevo persino abbozzato una prima pagina con dei pensieri confusi, su una storia di spionaggio politico, ma sentivo che non poteva piacermi un libro sul genere fantabancario. Cercavo di nascondere la curiosità, che mi spingeva a voler cercare una verità sulla sparizione di tutta quella gente, Conrad incluso nel Mare dei Caraibi. Mi stava a cuore quel vecchio pazzo, era un uomo d’una lealtà assoluta e d’una semplicità evangelica, ma era proprio questo che lo rendeva grande, la sua indiscussa disciplina e la sua disponibilità a vedere solo e unicamente il lato positivo della vita, nonostante questa ci insegnasse solo duramente a sopravvivere. Dicevo, passarono quattro giorni in cui evitai di leggere il giornale, non volevo più saperne d’altre strane sparizioni o di ritrovamenti. La mia testa macinava le notizie con troppa lentezza e non volevo assorbirne delle nuove, non prima d’aver digerito anzi smaltito le vecchie. Stavo ore sdraiato sul mio letto, al buio, con gli occhi aperti che fissavano il soffitto, e ricordavo tutti i fatti misteriosi del mare, che mio nonno puntualmente mi raccontava, dopo avermi fatto merenda: «Figliolo, mi ripeteva lui accarezzandomi la testa e avendo cura di farmi mangiare anche l’ultima briciola di panino con strati infiniti di prosciutto e maionese come piaceva a me, ci sono cose che il mare si prende, cose per lui insostituibili, e a noi non dice perché se le prende, ci lascia con tante domande nella nostra testa, domante che anno dopo anno aumentano facendoci sentire da grandi, impotenti, impotenti davanti alla sua forza e al suo mistero.» Ho sempre pensato che quell’uomo ne sapesse molto di più di quello che ci raccontava, ma in lui si nascondeva una sorta di timore, un segreto di cui non si poteva parlare nemmeno a se stessi. Ogni tanto ma non spesso come avrei voluto, perché lui sapeva che non mi sarei mosso per ore o finché la mia curiosità non si sarebbe del tutto saziata, mi mostrava la sua collezione di articoli di giornali che riguardavano le navi scomparse nel mare. Ne aveva tantissimi, più di un centinaio, forse un migliaio, il numero giusto non potevo conoscerlo perché a quei tempi io non sapevo contare ma vedevo come li prendeva delicatamente da una vecchia cartella; erano manciate di ritagli che stavano accatastati con una cura maniacale. Quella cartella, mi diceva lui, era stata di mio padre ai tempi in cui andava alle elementari e quando non servì più a nessuno, lui la usò come forziere per custodirci i pezzi di giornale ingialliti con fotografie nitide che raccontavano di gente felice intenta a godersi la vacanza sulla propria barca, oppure erano delle istantanee con imbarcazioni ritrovate vuote e senza equipaggio. Piccoli o grandi, sembravano dei gioielli scoperti o compresi solamente da mio nonno. Imbottito di tutto questo mistero, imparai a rispettare il mare e ad averne paura. Non riuscivo a digerire la faccenda capitata al porto. Ero sempre stato uno spirito suscettibile a certe credenze popolari prive di fondamenta, e da buon pragmatico, decisi di analizzare la cosa da un punto di vista induttivo. Le mie visioni erano frutto di una decisione collegata al passato, passato in cui mio nonno in qualche modo mi aveva trasmesso la sua sete di scoperta, ora le sue tante domande dovevano o volevano trovare in me una risposta. Avevo consumato troppi caffè in attesa che la lampadina si accendesse. Riempivo qualche foglio come uno studente alle prime armi, sperando, implorando il Dio della scrittura, un titolo e una trama eccezionali, ma come il solito, le poche righe finivano nel cestino della spazzatura accumulando la miseria del mio stato d’animo afflitto e impotente. Per interrompere questo stato di apnea mentale, cominciai a credere, che forse era arrivato il momento di affrontare i miei fantasmi, o meglio, di affrontare le storie di tutti i fantasmi che mio nonno aveva rinchiuso nella sua pregiata cartella. Pensai che quello che avevo vissuto al porto, non era un caso, anzi era la scelta obbligata tra tutte quelle possibili ma non ancora immaginate. Dopo una cena frugale mi buttai sul letto in cerca di un sonno conciliatore. Quando mi svegliai, era ancora buio. Mi parve di sentire un rumore, come un bussare leggero alla porta. Corsi lungo la scala, anzi scesi i gradini a due a due mentre gli ultimi cinque, gli saltai rischiando di rompermi l’osso del collo. All’ingresso dove tutto sembrava immobile, oramai silenzio assoluto, forse mi ero immaginato tutto e volevo accertarmi della cosa, tant’è che aprì la porta di casa lasciando entrare un po’ di quel venticello fresco che sapeva cullare il sonno, meglio della camomilla. «Guarda, guarda, una sorpresa.» Davanti a me due piccole scatole di cartone scuro, probabilmente vecchie una trentina d’anni se non di più, niente mittente né destinatario, due nodi di corda di nylon, questa nuova di zecca, completavano la facciata. Guardai in tutte le direzioni cercando l’uomo che me le aveva portate. Provai a uscire in strada ma non c’era alcun rumore di motore, non c’era nemmeno uno strillo di gabbiano. Chi me le aveva fatte recapitare si era dileguato nella notte e sicuramente a una velocità sorprendente anche se ero quasi arrivato a non sorprendermi più di nulla. Portai le scatole in casa e nel capo mi domandai se stavo per fare la cosa giusta. L’odore del cartone era acre, il fondo sembrava essersi macchiato di qualcosa che oramai asciugato, aveva conservato un leggero strato di muffa. Accesi tutte le luci della casa, in quell’attimo la luce mi dava un grande conforto, sentivo l’adrenalina correre per tutto il corpo, l’unico per nulla affetto dalla mia misteriosa emozione era il povero Cassius che senza badare a me, andò a rannicchiarsi sotto il tavolo dove ero solito scrivere. Buttai la prima scatola sul tavolo e senza indugiare apri il coperchio. Erano fogli, tutti per lo più battuti a macchina e siglati da timbri portuali o dal ministero della marina e uffici vari. Alcuni invece erano articoli estrapolati dai giornali locali. Decine di cartellette ingrigite con altri fogli e altri documenti come fotografie, copie di carte d’identità e generalità di quelli che potevano essere i passeggeri di qualche nave scomparsa. Alcune pagine di quelle relazioni invece sembravano veri e propri repertori top secret. Rimisi sopra il coperchio e appoggiai a terra la scatola. Stavo prendendo del tempo per gustarmi quella chicca venuta dal cielo. Presi in mano la seconda per ispezionarla. In quest’altra c’era una pigna di giornali, ritagli di periodici recenti o molto vecchi e sotto ancora minuscoli articoletti forse della stampa minore e dei giornaletti scandalistici. Alcuni riportavano dei titoli catastrofici come: «Attenzione! Fate bene attenzione perché gli alieni sono sul fondo del nostro oceano!», altri parlavano di mostri marini che inghiottivano barche, altri ancora esortavano la gente a non uscire in barca dopo l’otto luglio perché una forza sconosciuta gli avrebbe portati via. La mia domanda era perché dopo l’otto luglio, cos’era accaduto l’otto luglio che noi ci dovevamo ricordare? Chi mi aveva lasciato quelle cose sapeva che avrebbero esercitato un certo interesse e immaginai una sola persona che poteva avermele portate, una persona che come me, era rimasta segnata dagli avvenimenti in cui Conrad sparì e per entrambi noi, in quella sparizione era davvero inaccettabile. Uno dei sogni più ricorrenti che facevo fin dall’adolescenza, era quello d’uno spirito dall’acqua, la voce d’una donna senza forme precise che mi chiamava dalle profondità marine ed io aderivo al suo richiamo come un angelo a un prego dolce, lasciandomi trascinare verso un’inesorabile oscurità dove sentivo che sarei rimasto prigioniero per sempre. I miei brutti sogni giovanili furono sostituiti dalle chimere di conquiste più belle, sogni erotici e passionali finché non m’innamorai sul serio d’una vera donna che fini col sposarla. Da allora solo questa creatura mi tolse il sonno regalandomi la più bella insonnia della mia vita. Sandra aveva allontanato tutti gli incubi sul mare, tutti i mostri che prima m’invitavano a banchettare nelle tenebre. Lei e solamente lei mi portò via quel rancore e quelle fisime sulla capacità di fare del male che le acque avevano. Ma io avevo sepolto in fondo al cuore la mia meteora che non toccava mai il fondo dell’anima, ma semplicemente la sfiorava con una voce sottile come il vento, dal quale immaginavo tutto, persino un amore imprecisato e senza tempo. Le volte in cui uscivo in barca, l’oceano m’incuteva paura con quel suo interminabile muro d’acqua, con quelle indefinite rive cui nuotare se arrabbiato sarebbe stato impossibile. Non erano le sue creature, non quelle viventi a determinare lo spavento che un fondale lontano dalla mia percezione terrestre potesse in qualche modo intrappolarmi, ma i mille o forse milioni di fantasmi che inquinavano l’area, dove l’acqua aveva strappato loro, la vita. Sono un sopravvissuto, pensai cercando i ricordi più dolorosi che la mia mente aveva cancellato. Guardavo i pezzi di giornale, tante storie forse di fantasia o forse no, in attesa di essere disseppellite dall’oblio. Aspettavo di ricevere una telefonata o la lettera del mittente, ma qualcosa dentro mi diceva che avrei aspettato in vano. Dovevo solo fare delle congetture. La cosa più ovvia sarebbe stata non credere a quella missione come a un regalo del destino ma considerare quella corrispondenza come una sorta di prova, un pedaggio da pagare alla signora Fortuna per essere li e parlare di quelli che oramai non c’erano più. La cosa mi esaltò. Non era di certo un mago ma la voce dell’inchiostro quando vuole, può essere se vuole, molto profonda anzi, indimenticabile. Nell’era della tecnologia con microchip, dei cellulari, dei viaggi fino a Marte, certe superstizioni sembravano essere le peggiori leggende mai sentite. Il bene e il male erano sopravvissuti alle varie crisi religiose, al paganesimo, all’evoluzione perché probabilmente eravamo noi i portatori sani di entrambi contendenti. Fissavo le scatole e loro stavano fissando me. Non sapevo se sbarazzarmene o perdere un poco di tempo a valutare con calma il loro contenuto. Mi venne spontaneo pensare a Sandra, lei non buttava nulla se prima non aveva vagliato l’ipotesi che la cosa poteva in qualche modo ritornarle utile. Anche da morta, sentivo che mia moglie si stava occupando di me. Mi lasciai guidare dalla fede e non dal pragmatismo con la speranza che avrei fatto un buon lavoro. Ero arrivato a un punto della mia vita, dove qualunque novità era buona per tirarmi fuori dal mondo dei ricordi. Cassius fece la sua apparizione sei mesi prima della dipartita di Sandra. L’avevamo battezzato così per la sua stazza da pugile con grugno sempre serio, invece il nostro cane era l’animale più inoffensivo della terra. La sua indole di dormiglione lo rendeva la compagnia ideale per uno scrittore che passava la maggior parte della sua giornata seduto a scrivere o a osservare il vuoto. Quelle scatole dovevano contenere qualcosa di prezioso o almeno era questa la mia speranza. Cassius si alzò dal suo angolo per prendere una boccata d’aria, prima di uscire dalla porta finestra si avvicinò alle scatole come se fossero state offensive. Nonostante quel cane fosse il più pacifico del mondo, c’era in lui una sorta di spia che gli metteva in allerta tutti i sensi; quando abbaiava se abbaiava, era per una buona ragione. Percepivo una sorta di diffidenza in lui perché si limitava a sbuffare di tanto in tanto e da una distanza di sicurezza verso quello strano regalo.
2
L’oscura eredità di Mary Ann
Passai più di una mezza giornata in ginocchio, avevo gli occhi gonfi e nemmeno gli occhiali da vista mi erano d’aiuto ad un certo punto, a disseppellire quei vecchi documenti, e cercando di dare loro un ordine cronologico. Le dita dei piedi sembravano avere le articolazioni attorcigliate a nervi che incastrati nella medesima posizione mi mandavano segnali di dolore. Il tavolo e il pavimento della cucina erano tappezzati con fogli, e casa sembrava un bunker post bellico, dove i documenti evidenziavano le battaglie degli uomini. In bocca trattenevo un senso di nausea che sicuramente avrei potuto fermare stappando una bottiglia di spirito magari di un’annata più fortunata di quella di queste disperate, imprese cui stavo dando saggia rispolverata. L’odore della carta mi ubriacava e ascoltavo le espressioni di quelle righe come un intenditore di musica si attaccava a una vecchia radio per seguire le note di Gershwin. Aprivo le porte della mente e cercavo di stipare in stanze vuote il contenuto prezioso d’ogni singolo incartamento. Quella gente scomparsa, quelle figure che sorridevano nelle fotografie, chissà che fine avevano fatto? Alla seconda scatola, che mi sembrava più voluminosa, avevo affidato il soggiorno, il parquet caldo e lucidato a dovere da Candy, un donnone dalla pelle nera sulla cinquantina e mamma di tutte le pulizie cui ero sfuggito negli ultimi dieci anni, dove spostato il tavolo e le quattro sedie, cominciai a sistemare il gioco dei giornali, dividendoli per categoria, anno e possibilmente raggruppando notizie che riguardavano la medesima sparizione. Le prime dieci o dodici ore volarono. La schiena chiedeva una posizione eretta. Le articolazioni delle ginocchia si lamentavano per le posizioni poco felici. Decisi di uscire per fare sgranchire un poco le gambe a Cassius e a cercare di disconnettere per un poco la mente da quella che poteva sembrare una situazione paradossale. Cassius, dopo un lungo sbadiglio, si accertò della presenza del suo guinzaglio nella mia mano prima di capire perché io lo avessi svegliato. Mangiai un doppio hot dog, ricco di cipolla e senape, condito con un paio di spruzzate di tabasco, al chiosco del vecchio Jimmy, parlai un po’ con lui cercando di porgli delle domande del tipo, se era un uomo credente, se aveva mai vissuto situazioni strane o se avesse sentito di racconti con uomini spariti nel mare. Lui mi disse che ero un uomo buffo, un tipo che nonostante un aspetto severo, chiedevo cose divertenti. “Divertenti?”, risposi io, un poco seccato, non avevo voglia di perdere il lustro della mia immagine sembrando un cretino che faceva perdere tempo alla gente. “Non mi giudichi male, non sembra il tipo di uomo che crede alle superstizioni, tutto qui.” “Infatti, io non credo assolutamente alle superstizioni, semplicemente sto svolgendo una ricerca sulle barche del posto scomparse negli ultimi dieci anni.” Jimmy mi guardò cercando di fissarsi sui miei occhi. Le sue iridi verdi presero fuoco come se la sua coscienza potesse impadronirsi dell’intero globo oculare per intimidire la gente se avesse tentato di nuocere alle cose in cui credeva fermamente. In quel momento io avevo colpito la sua suscettibilità, e con una domanda del tutto banale, allora capì che non era stata la domanda a toccarlo nell’intimo, ma l’avergli confessato la volontà sulla mia ricerca, un tipo di ricerca che poteva essere mossa solo dal diavolo, almeno questo sembrava essere il punto di vista. “Sa, ci sono cose che è meglio non sapere, oppure se si sanno meglio tenersele per se, e non lo dico perché ho paura dei mostri, mi riferisco a quei mostri che la gente pensa ci sia nelle nostre acque o in tutte le acque del mondo, lo dico perché ho sentito le voci dei morti e quelli mi creda, quelli non mentono. Loro parlano tacendo, usando i loro strani segnali e guai a riferirne ad altri il contenuto.” Jimmy non mi volle raccontare più nulla. Quella sua esperienza paranormale, come la chiamava lui, doveva averlo segnato per sempre, ed io non avrei avuto miglior fortuna insistendo. A pausa finita, con la mente presa da un fermento indescrivibile, tornai alle mie carte. A spingermi non era più l’adrenalina ma semplicemente la curiosità, quella che ti rode piano, piano dentro, quella che ti spinge a cercare e cercare all’infinito, una risposta. Avrei voluto ricontattare il mio anonimo amico che poi di anonimo aveva ben poco, ma lasciai correre. Se lui non aveva voluto vedermi, c’era di sicuro un motivo e non mi andava di spingermi in un territorio che lui, non voleva o non poteva permettermi valicare. Sospirai, in fondo le cose più difficili erano quelle che mi venivano meglio. Dovevo riordinare le idee e scrivere un piano d’indagine. Tornai in cucina, spalancai le finestre lasciando la luce del sole picchiare sui fogli. La giornata sembrava piacevolmente calda, l’afa aveva lasciato il posto a un po’ di vento, e i miei occhi bevevano le righe della stampa giornalistica, con una sorta di passionale eccitazione. Più leggevo, più mi accorgevo che le persone scomparse nel mare, negli ultimi cinque anni erano più di un centinaio e a tutti gli avvenimenti non c’era una spiegazione logica. Alcuni di loro erano turisti che avevano noleggiato imbarcazioni private per brevi gite di pesca. Iniziai a raccogliere tutto il materiale sulla scomparsa di tutto l’equipaggio della Margueta, c’erano molte fonti e testimoni, la cosa davvero strana era che la Margueta non era scomparsa come tante altre imbarcazioni, ma solo il suo equipaggio. La rotta fino ad Abaco, non era un tragitto difficoltoso né lungo, eppure durante la navigazione qualcosa capitò ai nove marinai, persone del tutto esperte nel loro campo che prima di abbandonare la nave avrebbero fatto di tutto per salvarla. Di questo evento, non esistevano documenti di registrazione né al porto né altrove, la sua scomparsa sembrava più un’indagine da giornale scandalistico, cosa che mi metteva in testa una domanda, come mai non c’era stata alcuna segnalazione dalla direzione del porto, - “e come mai non seguì alla sparizione alcuna comunicazione ufficiale alla stampa, oppure se c’era stata, come mai non si trovava tra le carte che ora avevo davanti agli occhi?” Corsi in sala a cercare negli altri documenti, più che per cercare, per verificare una mia svista, il giorno prima ero troppo stanco per notare tutto. Di documenti ufficiali sulla Margueta, zero. Questa cosa non mi fermò e allora presi il telefono e chiesi a un mio amico della polizia locale di verificare, nel caso non fossero cancellati tutti i dati, prima di tutto sapere chi fosse stato il proprietario dell’imbarcazione Margueta e seconda cosa da dove essa provenisse. Seguì la stessa ricerca per il Maria Rei, Drago, la petroliera Nos Oro che seguiva la scia di quelle sparizioni quasi inverosimili e molte altre. Utilizzando la parte pragmatica delle mie indagini, cosa che occupava all’80% il mio intero pensare, arrivai a credere che non solo queste tragedie avvenissero in circostanze discutibili, ma alcune di loro davanti a testimoni. L’attendibilità delle fonti era certa perché molti di loro invece di farsi pubblicità si negarono alle numerose interviste dei vari giornalisti, alcuni cambiarono persino città per non ricordare gli eventi dei quali furono inconsapevoli spettatori. Senza tenere conto dell’ordine scappai in sala a guardare l’intera vicenda di stranezze che erano state sepolte per quasi una decina d’anni. Tutti questi scomparsi sembravano non essere stati onorati dalla storia. Qualche piccolo articolo, due righe per i pensieri dei famigliari, insomma la perdita totale delle loro identità già dolorosamente ferite dal modo in cui se ne dovevano andare dalla vita quotidiana. Tanti nomi, tante navi ma nessun superstite. Leggevo da ore, leggevo con la paura o con la speranza di trovare almeno una persona, una sola, scampata miracolosamente agli strani eventi che andrò a descrivere. Avevo la strana sensazione di essere osservato. Cassius dormiva beato come un pupo che aveva appena finito la sua poppata, le finestre mostravano un giardino rigoglioso di cui ero invidiato, avevo sentito certi vicini sussurrare che il mio pollice verde era di un estro creativo unico, il silenzio era l’unico rumore soave capace di colmare la mia anima irrequieta, eppure percepivo la presenza di un elemento estraneo tra le mura domestiche. Nei miei remoti pensieri ero visitato da una nube scura, un fantasma velato che lasciava varcando la soglia dei miei spazi leggeri, una sorta di scia malevola. Mi sentivo circondato e la paura non era di vedere uno spirito capace di farmi trasalire ma di essere circondato da dentro, privato dei posti sicuri dove mi rifugiavo dalla realtà quando questa diventava insopportabile. Sentivo, e mi è davvero difficile descriverlo, una sorta di essere tentacolato che manipolava pensieri, cose nella stanza e persino la qualità dell’aria che stavo respirando. Ci fu un momento in cui ebbi una gran voglia di scappare lasciando la porta di casa spalancata e tutte le cose cui avevo affidato la mia poco appassionante storia di uomo solitario. Sicuramente una sbronza avrebbe sconfitto quello strano malessere che non attecchiva facilmente nel mio spirito ma che macinava lentamente le vie fortificate della logica. «Sarei crollato?», la mia risposta e che non avevo alcun tipo di risposta. Temevo che qualunque certezza potesse divenire l’arma contro me stesso. Ero nella mia solida bambagia caratteriale, c’è chi diceva di cemento altri di gomma, un posto dove alcuni sarebbero potuti arrivare se no attraverso anni d’ispirata e confessata fiducia. Stavo varcando soglie in me stesso alle quali non ero mai approdato. Da bambino, non ero solito gridare ai fantasmi quando i miei genitori rientravano a notte inoltrata dal lavoro, né mi nascondevo sotto le coperte o sotto il grande letto. Mi ricordo che mi adagiavo nella poltrona del nonno, dove mio padre era solito sorseggiarsi qualche birra e vedersi le partite in pace, cercando al buio la spiegazione per ogni ombra che sembrava allungarsi su di me. Non avevo mai sentito il bisogno di una vera e propria protezione dei miei genitori, usando la logica avevo imparato a difendermi da quasi tutti i delinquenti del liceo, tutti tranne uno, un certo Robin Swear, morto in un incidente che credo potesse accaduto a causa mia. Non mi dilungo nel raccontare tale sfortunato evento ma Robin era rimasto un vero interrogativo che pur non avendo smosso totalmente dalla memoria, l’avevo rinchiuso in un faldone del pensiero dove avevo scritto virtualmente da risolversi poi. Mi allontanai a occhi chiusi dalle carte, continuando a ripetermi che non c’era alcun fondo di verità in quello che poteva sembrare più un delirio che uno stato di sogno. Avevo un indescrivibile formicolio alla mano destra che iniziò a tremare. Le mie narici aiutate dagli altri sensi, allertati, captavano odori strani. Non volevo spaventarmi, perciò strinsi forte il pugno cercando di camminare senza panico verso la porta dell’ingresso, che ricordavo di non aver chiuso a chiave. Le dita tremavano, non solo, lungo la schiena avvertivo dei forti brividi di freddo e le nari captavano un odore intenso e cattivo come di conchiglie avariate o di acqua salmastra in cui strava imputridendo qualche carcassa. Stavo girando su me stesso, giravo come se avessi bevuto una dozzina di birre, ma la mia testa sollecitava le ragioni per cui il corpo assumeva atteggiamenti incontrollabili. «Che qualcuno fosse in me in quel momento?» Possibile, improbabile, ma possibile. Mi rendevo conto che la supremazia del mio sapere non poteva superare tutta la materia invisibile che circondava il nostro pianeta. Tastai la tasca destra, nonostante il difficoltoso controllo in entrambe le mani, compresi che il cellulare era ancora li. Appena una sorta di ombra mi sembrò mettersi tra la libreria e la grande finestra, capì che una boccata d’aria mi avrebbe aiutato a sottovalutare certe situazioni di cui doveva se continuavo a restare, testimoniarne la certezza. Penso che a ognuno di voi sia capitato fare degli incubi. Io ero in quella fase della mia vita, dove gli incubi potevano benissimo occupare il posto dei cartoni animati. Questa sfrenata confessione dell’irrazionale metteva alla prova la mia grande qualità di pragmatico. Conoscevo un paio di persone con cui potevo parlarne apertamente senza essere preso per pazzo o peggio ancora per uno normale. In meno di mezz’ora ero davanti alla targa posta sul muro di mattoni rossi, vecchio più di un secolo, sulla Rio Drive, l’edificio era quello dei vigili del fuoco e dentro lavorava come segretaria una delle ragazze più sensibili che io abbia mai conosciuto. Mary Ann Finney era la figlia di un vecchio collega di mio padre, un uomo d’un coraggio e d’un animo talmente grandi che finì in mezzo al fuoco per salvare un anziano e il suo cane, bloccati sul corridoio al decimo piano, dentro un palazzo talmente lacerato dall’incendio da essere oramai vicino al crollo. Ben Finney aveva lasciato in eredità a Mary Ann, una piccola casa ancora coperta da ipoteca e qualche vecchia foto della loro famiglia felice, ai tempi in cui il cancro non si era ancora preso la madre. Mary Ann, era stata cresciuta come figlia adottiva da brava gente, ma la sua sofferenza non aveva ancora passato il muro del dolore, almeno per chiudere i ricordi in qualche stanza remota della mente. Le era sempre rimasta come marchio, una sorte d’aura triste che faceva luccicare gli occhi in una strana maniera. Nonostante fosse molto bella, si poteva intuire da come si vestiva o parlava che nella sua vita quella non fosse una cosa indispensabile. L’acume di certi ragionamenti superava notevolmente i semplici discorsi dei ventenni moderni. Mary Ann m’incuriosiva. Quando parlava e lo faceva sottovoce come se volesse trasmettere una certa importanza alla cosa, cercava di fissare con i suoi grandi occhi chiari il suo interlocutore, come se avesse voluto ipnotizzarlo. Era molo giovane eppure era considerata una delle migliori sensitive del posto; i suoi consigli avevano aiutato la polizia a ritrovare parecchi ragazzini dispersi nel canale oltre il porto, il suo nome figurava in molti articoli di giornale quando si trattava di cercare gente scomparsa. Lei stessa, una volta, mi raccontò d’aver visto il karma degli spiriti che erano ancora intrappolati nell’oceano. Qualsiasi persona sana di mente l’avrebbe accusata di pazzia ma alcuno nella nostra città avrebbe avuto il coraggio di farlo. Quella ragazza poteva sembrare strana agli occhi di un profano ma per un artista come me, il suo spirito rappresentava la leggerezza di un’anima pura che nulla poteva contaminare perché aveva una luce interiore più forte che qualunque accattivante prospettiva di peccato. Mary Ann conduceva una vita semplice e riservata, sicuramente il dolore le aveva segnato la vita per quasi il tutto suo percorso. Mi piaceva la forza d’animo di questa ragazza, se avessi avuto una decina d’anni meno, mi sarebbe piaciuta moltissimo ma io, io non ero il tipo d’uomo che rincorreva per i suoi sogni erotici, le giovani donne. L’energia che si sentiva in sua presenza si poteva paragonare a un grosso magnete che attira tutti gli oggetti metallici, in quel momento ero preso dalla sua gravità come un satellite è preso dalla forza d’attrazione di un grande pianeta. Mi fece accomodare in uno stanzino zeppo di articoli ritagliati da vecchi giornali, con le figure degli eroi che salvavano vite umane senza temere le fiamme. Accettai una tazza di caffè abbastanza dolce da poter essere bevuto. Nonostante la giovane età, Mary Ann era una persona che ti faceva mettere al proprio agio. Dopo aver sfogliato l’album dei ricordi, tanto da sentirmi le lacrime negli occhi quando ricordammo mia moglie poi suo padre, arrivai al punto. “Sai dirmi qualcosa in merito alle ultime sparizioni, mi riferisco alle barche che sono scomparse oltre la Gola del Diavolo o giù di li?” Mary Ann si mise a pensare un po’, prima di rispondermi. “Ho tante sensazioni, molte sono oscure e mi mettono paura. Ascolta adesso non potrei esserti d’aiuto ma dimmi, dove ti posso trovare? Non so, dammi una mail ed io ti prometto che appena vedrò le cose con maggiore chiarezza, ti chiamerò oppure ti scriverò. Va bene?” “Mi stai rispondendo a una domanda con un’altra domanda ma capisco che per te non può essere facile, ti ringrazio per qualunque cosa tu voglia o non voglia fare per me. E se mai dovessi avere bisogno di aiuto che ne so, un consiglio, una birra in città, ricorda che qui c’è un amico, un amico vero come lo ero per tuo padre.” Lei non mi rispose ma mi sorrise, un sorriso che illuminò per un attimo tutta l’aria intorno a noi. Rimpiansi di non aver avuto una figlia come lei, sensibile, fragile che avesse preso il mio carattere curioso. “Sono gli spiriti d’acqua a chiamarti, e tu neghi loro ogni contatto. Tu sei parte di quel mondo oscuro e salato a cui sei scampato in un’altra vita miracolosamente.” Ci sono cose che accetto durante una conversazione e cose che accetto meno, non per ipocrisia ma per semplice tutela del mio tempo che per una sola vita, non basta mai. Le parole di Mary Ann non riuscivano a smuovere nulla in me. A dire la verità, non mi sentivo di raffigurare quel personaggio di cui raccontava la favoletta drammatica. Le strinsi la mano in cenno di saluto. Dovevo smettere di cercare fantasmi nella testa di giovani donne impressionabili. Lei rispose alla stretta facendomi male poi la guardai negli occhi e vidi qualcosa d’inumano che oscurava l’iride chiara, un velo come di follia o peggio ancora, di cattiveria. Poco dopo mi liberò, e nel palmo vidi delle piccole ferite d’unghia, che sanguinavano. La ragazza sembrò non essersi accorta di nulla. “Ciao Armet, contenta d’averti rivisto. Non devi temere quello che senti perché loro sanno di non poterti avere ed è per queste che ti perseguitano.”, sulle sue guancie si notava il rossore tipico d’un essere timido. “Ciao. Aspetta Ann, non capisco? Chi mi aspetta e perché? Chi sono, sono davvero fantasmi o credi che siano solo visioni di gente che penso o credo d’aver visto da qualche parte? Forse sto impazzando per una storia che non ha nulla di fenomenale. Ciao Mary Ann”, ma appena pronunciata la parola di saluto e girate le spalle, sentì una voce roca e spaventosa. “Benvenuto a caccia, Birdy!”, un lampo provocò un cortocircuito nei pensieri e l’unico ricordo di quel breve momento fu l’immagine di un ragazzino che stava annegando nel mare ed io lo vedevo sprofondare mentre lui con gli occhi chiusi si riempiva i polmoni d’acqua. Cercai di mantenere il controllo e mi girai ma lei stava si stava già allontanando e la voce forse era stata un parto della mia mente. Un flash mi riportò alla figura anzi al fantasma del povero Conrad. Stavo riconsiderando molti degli aspetti più logici della vita d’uno scrittore, oramai i miei metodi d’indagine erano come le uova di dinosauro, fossili per un museo. Quei piccoli segreti stavano diventando una via selciata d’ombre. Non volevo nemmeno immaginare quanti file e quanti dossier fossero in possesso della Marina Militare, tutti sollecitanti avvistamenti precari e fantasmi d’imbarcazioni mai ritornate al porto. Il giorno dopo Mary Ann mi chiamò dicendomi d’aver fatto uno strano sogno. In questo sogno aveva visto una piccola imbarcazione arenata alla bocca del canale di drenaggio vicino al Delta, a due chilometri, appena dal porto di Seits e nel suo sogno, raccontava sempre d’aver visto mostri marini che plagiavano le loro vittime prima di trascinarle verso i fondali. Non mi feci un’idea particolare di quella telefonata. La ragazza poteva essere troppo sensibile oppure ancora disturbata per la troppa solitudine che il buon Dio le aveva messo in carico. Cercai di non ragionarci su e abbandonai il pensiero di Mary Ann concentrandomi sul resto di fogli che mi restava da catalogare e leggere. Quella strana capacità di vedere le ombre dell’oltre, quella chiaroveggenza intuitiva che Mary Ann non sapeva ancora ben controllare mi interessava relativamente forse per una sorta di un mio limite, limite imposto da una ragione cruda ed investigativa. I fantasmi di Mary potevano anche esistere ma io avevo il dovere di confermare la loro esistenza oppure di farli svanire per sempre, nell’immensità della pura superstizione. Dopo aver appoggiato il cordless sulla spalliera del divano avvertì la fredda sensazione di essere guardato da qualcosa o da qualcuno invisibile ai miei occhi. Quella sensazione mi diceva anche che avrei rivisto Mary Ann in circostanze ancora più strane, anche se non riuscivo ancora ad accettare il suo genere di sensibilità. I racconti non hanno sempre bisogno d’indagini o di risposte, oramai credevo di dovermi affidare solo all’intuito e alla paziente pulizia di tutta quella carta che mi tappezzava la casa. Nulla di quello che avevo letto su quei fogli poteva essere una minaccia per la gente, anche se la gente molte volte si faceva spaventare dai dettagli più che dagli avvenimenti. La sensibilità e l’attaccamento verso la sfera più oscura dell’animo umano certe volte delizia l’opinione popolare. Quello che mi toccava però, e molto profondamente era la scomparsa d’un uomo così valoroso come Conrad. Quello che mi aveva marchiato indelebilmente era la visita del suo fantasma al molo e quelle cose inspiegabili riuscivano a penetrare le mie difese razionali. Non capivo se mi stavo complicando la vita da solo o ero diventato il bersaglio di un qualche maniaco del paranormale. Né io né la mia letteratura ci eravamo mai interessati di certe cose; la mia mente era strutturata in un certo modo e nulla mi avrebbe fatto cambiare a meno che non vi fossero state delle valide spiegazioni. Credere è un elemento fondamentale per l’umanità, è un principio al quale leghiamo il senso della nostra vita con la speranza che essa non sia sprecata, ma il credere deve avere un fondamento solido e non vincolato alle credenze, alle superstizioni o peggio ancora, alle supposizioni.
Figura 4 - rappresentazione grafica di Icony
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La maledizione del Capitano Ghott.
Sono un uomo con i piedi per terra, pur vivendo in una regione che parla solo di mare, di turismo e di pesca. Sarà forse perché nato il giorno di Natale e il mio segno zodiacale è quello di uno scalatore e non quello di un nuotatore. Sinceramente la marina non mi ha mai affascinato così come fa con tutti quelli che si comprano una piccola barca a vela da ragazzi e poi finiscono col fare gli skipper intorno al mondo oppure capitani sulle favolose navi da crociera; la mia adolescenza l’ho fatta in sella ad una Sticker, una bicicletta adesso fuori commercio ma anche gli uomini come me sono diventati un articolo fuori catalogo. Non ho una particolare inclinazione per la navigazione anzi penso di non ricordare l’ultima volta che ho esercitato la piacevolezza del nuoto nemmeno da bambino. Ho un blocco di memoria. Quello che so che appena vedo un’onda, già a riva, comincio a trepidare tanto da avere sudori freddi e formicolii lungo la schiena. Non mi piace prendere il sole ma è vero che l’aria che si respira qui a Idony, non la troverei da alcuna parte. i miei amici sono tutti chi più esperto, chi meno, dei marinai. Quasi tutti, anzi credo tutti loro possiedono una barca. Ho provato varie volte, per lo più in occasioni romantiche o feste da ragazzini, allontanarmi a qualche miglio dalla costa e quelle poche volte mi hanno dovuto portare sotto shock a casa. Ricordo che mi raccontavano di frequenti deliri, mentre il corpo febbricitante cedeva a convulsioni di entità sconosciuta. Io e il mare non ci amavamo. Hemingway non sarebbe stato il mio autore preferito anche per questo motivo, in fondo raccontare del mare senza poterne conoscere i segreti, sarebbe stato come parlare di una bella donna che non avrebbe mai fatto parte della tua vita. Insomma da quando avevo raggiunto l’età della ragione, non mi ero più avvicinato al mare. Idony è una piccola cittadina che vive della popolarità di Miami, è sicuramente caratteristica e la gente accoglie molto volentieri i turisti che fuggono dalla città per trovare alberghi a prezzi più convenienti e spiagge più riparate. Qui non di vedono folle se non durante la festa del rogo al “Cattivo Vecchio”, una sorta di maledizione del fantasma del Vecchio Luss Van Ghott, un capitano che aveva venduto la sua anima al Diavolo e prima di far affondare con la propria nave vicino agli scogli della Bocca del Diavolo, s’era cibato di tutti cadaveri che aveva lasciato sul ponte assieme alla testa della defunta figlia impallata sul becco del timone, pare fosse stata oltraggiata e uccisa da un uomo della ciurma. Il teschio mangiato dagli uccelli e seccato dal vento salato e dal caldo torrido accompagnò per tutto il tempo, le mosse diaboliche del Capitano Ghott. Lui scrisse un lungo appunto ai posteri, messaggio che finì in una vecchia bottiglia di rhum e che metteva in guardia la gente di poca fede se mai avessero solcato il mare del dolore, così lo chiamava lui, il mare sopra la Bocca del Diavolo. La lettera di Luss fu ripescata da un giovane che la portò a casa e cominciò a vantarsi della reliquia. Non si sa bene, dove fu riposta, ma pare che mezza città fu presa da una strana epidemia che uccise quasi tutti gli uomini e che molte delle donne e dei bambini rimasti in vita sparirono nel nulla senza lasciare traccia. Pare che Ghott avesse chiesto aiuto al Diavolo per avere la propria vendetta su tutte quelle anime che avessero solcato l’acqua, quel mare dove sua Figlia stava riposando, e le avrebbe portate con sé sotto i fondali o in dono alla propria bambina per farle compagnia o al Diavolo. Questa è solo una delle tante versioni sul Capitano del Diavolo. In altre storie si racconta che la ciurma d’un galeone spagnolo avesse ucciso per fame la famiglia del capitano per cibarsi e che avesse conservato per ultimo proprio questi che li maledisse per l’eternità. La prima cosa che mi colpì scartabellando tra quei pezzi di carta, fu la sparizione d’una barca coi suoi trenta due passeggeri e tre membri d’equipaggio, a sole dieci miglia dal porto. Svaniti, scomparsi tutti, barca e uomini, come se una nebbia oscura avesse spalancato la gola dell’Inferno per farveli entrare, senza rumore, senza richieste di soccorso, senza un razzo sparato. Il Falstaff, conosciutissimo al porto di Down Key, per gli anni che aveva dedicato al turismo, era una delle imbarcazioni più sicure e dotate della zona. Il suo capitano Dean Costa, marinaio dalla nascita era esperto e troppo pignolo per avventurarsi in crociere a rischio. Con lui non erano mai successi incidenti di sorta né vi erano mai state lamentele. Il sette Maggio 2007, e precisamente un Sabato alle ore 9 del mattino, uno strano messaggio stava per arrivare alla capitaneria del Porto di Idony. La foto di uno, dei parenti degli scomparsi, mostrava la barca con le sue bandiere colorate, allontanarsi dolcemente dalla baia. Il mare sembrava calmo come una culla e il cielo aveva un colore blu acceso e il sole mostrava già i suoi denti nonostante fosse ancora solo primavera. Dean Costa non fece più ritorno alla baia né la sua imbarcazione lasciò traccia di pezzi dello scafo, salvagente o altre cose appartenute al personale di bordo. Tutti svanirono in una serena giornata che non prevedeva nemmeno una nuvola sul cielo. Quello che restava alla stampa e alle famiglie ed al mondo intero era un’unica fotografia della barca, presa nell’attimo della sua uscita dal porto. Tra i fogli che reggevo in mano, c’era una pagina, curiosamente sottolineata a prima occhiata con una matita di colore verde, le frasi principali che risultavano evidenti ed erano: “… mi sembra di vedere tramontare il sole eppure sono solo le due del pomeriggio. Mi domando se quello che sento possa in qualche modo avvicinarsi alla verità. Tremo all’idea di incontrarlo. Tremo non solo per me ma anche per quelli che sto portando verso un posto oscuro, il punto di non ritorno. Vorrei avere fatto in tempo a …”, qui le parole erano cancellate da quello che potevano sembrare lacrime, e il discorso riprendeva con un’ultima considerazione, “ … scivolo e sento di non potere reggermi a nulla, la penna scrive da sola ed il mio urlo non riesce ad uscire dalla bocca … aiu..”. Questo aveva la parvenza di essere l’ultimo discorso di un uomo impaurito. Non c’era la firma ma era facile ipotizzare che la vicenda riguardava Il Falstaff perché il foglio era stato incollato sul retro di una copia dell’unica fotografia rimastaci di quell’imbarcazione. Non avevo mezzi per indagare sulla sua sparizione, le prove sembravano non solo essere minime ma sicuramente nemmeno la marina era a conoscenza di quest’ultimo messaggio arrivato da chissà quale inferno. Stavo pensando senza rendermi conto che Cassius mi grattava la gamba con la sua zampa. Dovevo portarlo fuori per le sue esigenze e stavo per uscire quando una follata di vento, o almeno quello che a me sembrava una follata di vento, mi sbatté la porta in faccia. Lasciai il guinzaglio cadere per andare verso la cucina in cerca di un pezzo di ghiaccio per il naso che aveva iniziato a sanguinare. “Quale Dio sanguinario chiede il mio sacrificio?”, pensai ad alta voce mentre mi medicavo. Non c’era altro suono nella casa che il mio respiro ma il mio respiro sembrava avere eco e la cosa mi dava certi brividi che non volevo più condividere con l’appartamento. Potevo sentire il palpito della casa e nel mio profondo quel palpito alieno spingeva l’aria stessa a essermi nemica. La luce in sala sembrò accendersi da sola per poi spegnersi, la forza che si avventò contro la porta si avventò anche contro la povera lampadina che scoppiò sotto il lampadario in mille pezzi, i cocci incandescenti volarono ovunque e mi sembrò di vedere tantissime stelline volanti in mezzo al mio appartamento. Un bene o un male mi stava circondando anzi, accerchiando ed io ero quieto quasi, nella mia razionale impotenza. Le mie sensazioni erano indefinite eppure le immagini che mi arrivavano nella mente erano molto chiare; visi orribilmente deformati da una grande agonia, mani che si agitavano e voci, decine di voci supplicanti o morenti. L’unico fermo sullo zerbino di casa, il povero Cassius che aspettava il mio via alla sua zona pipì. Non volevo ascoltare l’ignoto, la voce dell’oscurità o meglio l’istinto; sicuramente Cassius, se ci fosse stato un estraneo in casa, l’avrebbe sicuramente fiutato. Il silenzio occupò il posto di tutte le mie fulminate impressioni, il silenzio non più pesante come un mattone sullo stomaco ma leggero come la cura di un male. Le mie orecchie percepivano nuovamente il bene, l’assenza e soprattutto il vuoto. La mia mente si concentrò sulle fitte di dolore e mi avvicinai allo specchio del bagno dopo aver percorso i venti passi del corridoio con l’anima stretta tra i denti. Accesi la luce e lo vidi! Un grosso cerchio nero tra il setto nasale e la fronte, un ematoma a forma di cerchio, dolorante e gonfio. Mi toccai con i polpastrelli della mano destra sperando fosse una cosa irreale ma al grido “ahi!”, dovetti fermare l’ispezione dell’area ferita. Era tutto reale: la ferita, il cerchio nero, la lampadina fulminata. Non volevo impazzire e chiamai Cassius ancora completamente apatico e in attesa. Sarei uscito da quella casa infestata dai cattivi ricordi con la sicurezza che loro non potevano abitarla e che solo nella mia mente si agglomeravano pesantemente. Fortunatamente i fogli e gli altri “tesori” di carta rimasero intatti. Caso fortunato o fortuito ma chi m’inseguiva l’aveva con me e non con il materiale che stavo consultando. In certo senso potevo azzardare una certa tranquillità ma una spina mi pungeva lasciando intendere che non tutte le cose in quella faccenda erano al loro posto. Avevo un principio di gastrite e lo stomaco probabilmente non sopportava che stessi con i nervi tesi per tutto quel tempo. Il dolore era sopportabile ma quello che trovavo scomodo e per non dire indigesto era fatto che non riuscivo a controllare i pensieri irrazionali che occupavano la mia testa.
Non riuscivo più a chiudere occhio da quasi una settimana. Ogni volta che appoggiavo la testa sul cuscino, partiva prima come un forte ronzio, un dolore strano e acuto. Per evitare questa lunga insonnia provai il rimedio della corsetta serale, oppure delle buone e vecchie flessioni e persino della lettura di un classico come “Guerra e Pace”, il mio preferito. Avevo perso la conta dei giorni della settimana e non capivo più in quale dei sette mi trovassi. Sentivo la necessità di parlarne con qualcuno, avrei potuto chiamare il mio amico, il dott. Bruster ma esitavo all’idea di cercare una protezione da me stesso. Qualche giorno dopo fu necessaria una telefonata a Mary Ann, in verità non rispose lei ma la sua segreteria telefonica. Non trovai necessario insistere ma salutai dopo l’ok del robot, ricordandole il mio cellulare. C’erano cose che fluttuavano sopra la mia comprensione, cose che cercavo di afferrare, ma la mia logicità era un vero e proprio ostacolo. In meno di due settimane le carte avevano trovato un loro ordine e la vicenda aveva preso una certa struttura. Alcune sparizioni erano giustificate da testimonianze più che attendibili, altre erano passate nel dimenticatoio come se le persone e le imbarcazioni non avessero mai avuto ragione di esistere.
Le informazioni sembravano di una certa rilevanza perché tra gli scomparsi non c’erano solo imbarcazioni civili ma anche militari. Adesso si sa, quando si tratta di verità militari, nessuno sicuramente ha mai avuto accesso al data base degli organi di controllo militari più del governo e le cartelle che stavano sopra la pigna dei miei fogli arrivavano da una fonte governativa talmente segreta che mi domandavo chi mi aveva scelto come testimone sapeva molto bene perché. La mia defunta moglie era stata un’agente del FBI e molti dei nostri amici operavano all’estremo della trasparenza. In molti casi e per trovare soluzione la migliore copertura era l’illegalità. Andai a cercare sotto la dispensa i due cartoni malconci che avevo conservato nella pellicola trasparante, come se fossero stati delle sacre reliquie. L’investigazione era per me la miglior risorsa per avere delle risposte anche se, al limite della certezza. Gli occhi cercavano di studiarsi la trama spessa di quel cartone rosicchiato dalle polveri e dal degrado, sicuramente se fossi stato più riposato, avrei visto da subito il timbro sbiadito che riconduceva a una sezione speciale della CIA. La mia mente stava bollendo di certe supposizioni tipo, cosa ci faceva la CIA con documenti sugli scomparsi nelle aree 03, 21, 17 dell’Oceano Atlantico. Dalle nostre parti nessuno aveva mai favorito la diceria sugli alieni o sulla presenza nell’atmosfera terrestre di gigantesche e bizzarre astronavi. Avevamo già i piccoli problemi di casa nostra che quelli dell’invadenza aliena non ci interessavano minimamente.
Mi trovavo in cucina intento a sorseggiare un tè davanti alla finestra quando sentì un leggero bussare alla porta. Non volevo ascoltarlo perché temevo un altro di quegli scherzi bislacchi che mi avevano procurato così tanti incubi. “Sono io!”, parlava una vocina sottile dietro la porta. Riconobbi Mary Ann da quel timbro infantile che la faceva sembrare un eterna bambina. Lei aveva fatto altri sogni e voleva parlarmene; c’impiegò un po’ a riprendersi dall’aura scura che le velava gli occhi e la voce. Dividemmo dell’altro tè e dei biscotti poi mi sembrò di percepire una luce straordinaria nelle sue pupille, un chiarore che mi vinse. Da quando la mia amata sposa era passata a miglior vita, non avevo sentito il bisogno di stringere tra le braccia un’altra donna ma quella sera, davanti a quella creatura, le mie difese mentali crollarono. Non c’era bisogno di capire quanto le piacessi o se davvero la coinvolgevo in qualche pensiero di piacere, l’animale in me sentiva il suo odore di donna e la sua come dire, disponibilità. La baciai con forza, cercando di ricordare come la mia lingua era capace di gustare, come la mia bocca poteva assaggiare quella pelle giovane e invitante. Non ebbi il tempo di portarla a letto, nemmeno lei avrebbe avuto la pazienza di ascoltare il preludio dei preliminari. Le tolsi tutto con la stessa fame con cui un uomo affamato addenta un pezzo di pane, avanzavo in lei tenendomi il viso premuto contro i seni piccoli. Dovevo cercare di controllarmi ma non ci riuscivo. Lei accettava il mio corpo come un fiore d’acqua e più forte spingevo, più mi voleva, come se una vocina dentro le chiedesse di sentire male per avere piacere. Stavo per finire quando si girò per farsi abbracciare da dietro; le mie forze erano al limite dello spasmo, dovevo eiaculare e la mia urgenza divenne fatto appena assaggiato lo stretto corridoio che lei offriva in un modo disarmante. Non ci separammo che dopo qualche minuto. Mary, la dolcissima Mary mi sembrava liquida e disponibile mentre quell’eccitazione mi era nuova. I suoi occhi avevano la capacità di liberarmi e le sue mani mi facevano sentire sicuro. Non avevo usato alcuna precauzione da idiota e sapevo che le scuse in quel caso erano di troppo. La mia parte razionale aveva ceduto l’intero bagaglio a un essere subumano e disperato. Corsi in bagno a lavarmi ma credo che corsi in bagno per nascondermi. Non avevo più avuto modo di mangiare dal piatto dei sentimenti da tanto, tantissimo tempo. Sapevo che le donne erano molto più abili a esprimere e incanalare certe emozioni, io mi sentivo come uno studente che era riuscito a rubare la prima palpatina. Sarebbe stato decoroso verso Finney usare l’amicizia di Mary Ann per appropriarsi del suo corpo? Forse mia moglie era morta da troppo tempo ed io nel profondo, mi sentivo terribilmente solo. Per quella situazione non avevo di certo bisogno di scuse né la mia volontà aveva messo in dubbio la voracità di un desiderio fin troppo umano. Ero il prigioniero di me stesso e mai come allora avrei voluto avere più tempo per ponderare un certo tipo di scelte. La mia sessualità aveva una forza così dirompente che mi meravigliava, la cosa mi fu nuova e tanto piacevole da vedere il mio intimo amico risvegliarsi. Oh Mary Ann! Come facevo a spiegarle quello che sentivo, la mia ragione non riusciva a trovare un punto di fuoco in quella cosa così assurda ma in quel momento necessaria. Sì, avevo bisogno di averla ancora e smisi di pensare lanciandomi dalla porta verso il suo corpo che aspettava rilassato sul divano. “Devo averti!”, sussurrai con vergogna al suo orecchio. L’avevo presa in braccio cercando di bearmi di quei pochi preziosi momenti. Che sia stato sano o no il mio appetito non saprei ma il calore del palpito di quella creatura mi toglieva il raziocinio e mi assoggettava a un volere meno divino ma imperioso. Qualcosa mi punse la guancia mentre avvicinavo la bocca per baciarle il collo, un orecchino con foglie e spade; con un sorrisino malizioso lei lo tolse per lanciarlo sulla poltrona, come per dire, “Tranquillo poi lo ritroverò!”, liberando la via alla mia lingua. “Devo averti!”, continuavo a dire come un ritornello rotto cercando di annusarla, di sentirla di parlare al suo cuore. Le sue labbra sembravano volermi rispondere ma non fecero nemmeno il cenno, un suono, semplicemente aprì le gambe bianche come il latte per chiudermi definitivamente, in quel momento avrei voluto morire così, sterminato dal corpo della mia giovane tentazione mentre riceveva tutto il flusso del mio piacere. Ci addormentammo nel letto dopo esserci consumati a vicenda, mi ricordo che le stavo accarezzando i capelli sudati e di averla stratta a me durante il sonno. Ma la notte non aveva voluto proteggerci dalle cattive intenzioni delle nostre chimere. Finalmente dopo sette lunghi giorni d’insonnia concessi del riposo al corpo e mi sembrò, durante il sonno, di fluttuare sopra la mia casa ma senza peso. Sentivo il vento tra gli alberi, anche se non mi sfiorava nemmeno mentre guardavo dentro la mia stanza da letto cercando di capire come due corpi abbracciati si soddisfano vano a vicenda. Il volo nell’altra dimensione aveva avuto la capacità di generare nuove domande, su di me, su Mary Ann e su quella vicenda così complicata. Mi sentivo il frutto di un esperimento fallito. Forse qualcuno mi stava usando come cavia, qualcuno capace di manipolare non solo la gente ma anche i suoi pensieri. Stavo ancora fluttuando quando caddi in un profondo burrone dell’inconscio, Al Diavolo! Pensai, “Tutte le cose che sortiscono un effetto hanno una causa ed io saprò scoprirla!” Il mio tormento maggiore era che nulla di quelle mie parure inconsce, ero riuscito ad allontanare. Orribili mostri marini, fantasmi con alghe al posto di carni, barche e navi come patiboli per povera gente ignara del nero destino cui andavano contro e ancora Conrad con le sue braccia agitate e il rumore delle onde di un oceano burrascoso. Sapevo o meglio sentivo che quelli non erano dei veri sogni perché il mio sonno era profondo e quieto, percepivo una costante pressione da parte di alcuni pensieri di cui non riuscivo a liberarmi. L’alba aveva fatto appoggiare dolcemente un sottile raggio di luce sui miei occhi. Il mio corpo completamente rilassato riuscì a stirarsi per dare modo agli occhi di aprirsi verso il sereno di una nuova giornata. Quel lungo riposo mi aveva fatto bene e sorrisi sapendo con chi dovevo condividere il mio stato di serenità. Girai il capo per salutare Ann ma Dio, il suo cuscino era vuoto e … bagnato. Caddi dal letto e corsi a controllare le lenzuola. Infilai la mano sotto le coperte e sentì che il suo posto era ancora caldo, lei non era stata un sogno ed io non ero pazzo, aveva dormito con me ne ero certo. Alzando gli occhi vidi l’acqua scendere dalla sponda del letto, provai ad assaggiarla per poi sputarla perché era dannatamente salata. I vestiti di Mary Ann erano sul pavimento come li avevamo lasciati la notte prima. La chiamai ad alta voce ma non mi rispose nessuno. Andai in bagno per svuotare la vescica dolorante e buttarmi dell’acqua fredda sul viso. Lo specchio guardava un uomo che non ero io, il viso segnato da profonde occhiaie, il bernoccolo col livido a forma di cerchio sopra il naso sembrava una grande piaga, mentre le mie mani e le braccia e il corpo intero era segnato dai morsi. Presi la tuta dopo essermi lavato il viso e corsi nuovamente a ispezionare la casa. La luce del sole aveva illuminato tutte le stanze e non c’era alcun disordine; il divano con i suoi cuscini gonfi sembrava non aver ospitato il corpo della ragazza, in cucina c’era solo una tazza rovesciata nel lavandino, mentre nella stanza da letto l’unico vestito era la mia camicia arrotolata sul pavimento. Presi le mani per comprimermi il capo, sentivo che stato per delirare se forse, non ero già impazzito. Dopo aver rovesciato il materasso e buttato le lenzuola nella vasca da bagno, tornai a guardare la camera cercando di ricordare tutta la serata. Presi la saggia decisione di telefonare a Charlie. “C’è qualcosa che non va, puoi venire.” Sentì solo il grugnito di Charlie in segno di affermazione e dopo il rumore secco del telefono che era riattaccato. Dieci minuti dopo la sua moto si fermava sul prato antistante casa; con scrupolo aprì la porta ispezionando l’area in vista di volti sconosciuti ma non c’era nessuno in giro se non qualche gabbiano affamato che svolazzava imperturbabile sopra la zona. “Amico mio, sempre di buon umore eh?”, gli strinsi la mano cercando una sorta di fraterna comprensione. “Cosa ti succede Birdy? Chi ti disturba o cosa?” “Guardami bene e dimmi cosa noti di strano in me.” Lui mi spinse nell’ombra per evitare la luce del sole accecante e senza proferire parola mi fissò per un interminabile minuto. “Non capisco.” “Guardami per favore, guardami bene!” “Ti sto guardando bene ma non capisco lo stesso cosa vuoi che io veda. C’è un bernoccolo a forma di piattino da caffè in mezzo alla fronte ma è una cosa talmente evidente che non creda ti serva proprio io per vederlo.” “Vedi questo, questo coso, questo bernoccolo? Guardalo bene! E’ un cerchio Charlie, ti ricordi il cerchio …? No, forse no. Il cerchio d’acqua Charlie?” “Oh, quel cerchio d’acqua …!” “Già! Ma non t’ho fatto venire per questo, si anche per questo ma non solo. Entra in casa.” Gli raccontai tutto cercando di velare la parte più intima del discorso. “Allora siete stati insieme?” Cercai di non rispondere. Charlie passeggiava per la casa guardando con una certa ironia il letto rovesciato in giardino e il materasso appoggiato al muro della siepe, “Bird, stai traslocando nel giardino?”, ma la sua faccia cambiò di espressione appena vide il cuscino al centro di un cerchio d’acqua. “Forse dovrei chiamare un esorcista.” “Forse dovresti chiamare un esorcista.”, e si allontanò pensieroso verso l’ingresso della cucina. Parlai con Charlie di tutti i miei dubbi e mostrando alcuni dei documenti che mi sembrava portassero la firma dei servizi segreti. “Bruciali Birdy, questi fogli non portano a nulla di buono, io non capisco perché siano arrivati proprio a te ma se loro non hanno scoperto nulla, dubito tu sia la porta sulla verità.” “La verità, amico mio è il timbro su quel cartone. Chi mi ha voluto coinvolgere in questa cosa sicuramente sapeva che non ne sarei potuto uscire facilmente o perché mi conosce molto bene o perché voleva lui stesso sfuggire a questa infezione paranormale.” “Mary Ann dicevi che dormiva con te. Mary Ann, la piccola Mary Ann, la figlia di Finney?” “Certo!”, tenevo gli occhi fissi sul cielo per evitare spiegazioni demagogiche e ispirate a chissà quale sentimentalismo. “Credo si sia svegliata verso l’alba perché per parecchio tempo l’avevo sentita sul mio petto. Anche lei diceva di aver fatto altri sogni ed io non l’avevo ascoltata, pensavo fosse il delirio di una ragazza che si crede veggente. Aveva davvero il dono e forse sapeva a cosa andavo incontro.” “Brucia tutto Armet. Brucia tutto nel tuo giardino, prendi quel cazzo di cartone e buttaci sopra la benzina! Questa storia sembra il racconto della cripta con la differenza che tu non sei Vincent Price e la fine sembra oscura come la trama.” “Davvero dobbiamo avere paura dei presagi? E se Mary fosse uscita nuda magari in stato di sonnambulismo? Forse prima di sera tornerà qui a riprendersi i vestiti …”. “Quali vestiti Armet?” “Ah già, i vestiti sono svaniti anche loro ma prima di andare in bagno i vestiti c’erano Charlie, lo giuro, c’erano.” “Brucia tutto Birdy e forse abbiamo la speranza di tornare alla normalità.” “Sono solo fogli sulla gente scomparsa nella Baia perché dobbiamo temere dei fogli?” “Perché questi fogli hanno la capacità di confonderci e in certi casi questo dovrebbe bastare a metterci in guardia. Io sono una persona obiettiva ma adesso capisco che certi eventi sono come dire, duri a essere compresi.” “Sono solo dei fogli, Charlie!” “Parlami del numero, quanti sono …”. “Sono circa milledue ma la cosa straordinaria che le imbarcazioni sono quasi il doppio, alcune di queste svanite proprio davanti al porto, altro che Esperimento Philadelphia.” “Bird prova a chiamare Mary Ann.” Presi il cellulare e notai cosa molto strana che il numero che avevo segnato in rubrica era scomparso. “Fortunatamente …”, disse Charlie “Fortunatamente ho il suo numero di casa.” “Ma tu come … ?” “Conoscevo suo padre, sai, questo posto è piccolo e quando volevi notizie sicure sul mare il vecchio Finney era il miglior metereologo in città.” “Già, mi ricordo che mio padre non usciva prima di averlo sentito; le sue previsioni davano una certa sicurezza e credo di non aver mai sentito dire che abbia sbagliato un colpo.” Provai a chiamare Mary Ann stavolta sul telefono di casa. La linea era libera e dopo parecchio scattò la sua segreteria telefonica. Pensai di lasciarle un messaggio per quanto la mia speranza di ritrovarla fosse vana. Non riuscivo a rendermi conto di quanto la situazione fosse spaventosa. Se fosse stato un sogno, allora pregavo di svegliarmi anche dal peggior incubo a volte la gente si sveglia. Charlie si stava asciugando la fronte impregnata di sudore, entrambi però guardavamo nella medesima direzione. I nostri occhi erano fissi sul guanciale serenamente appoggiato sull’erba e sul cerchio d’acqua presumibilmente salata che lo circondava. “Fossi in te, dormirei da qualche altra parte stasera.” Charlie mi espose la sua teoria in fatto di fantasmi di mare ed io stentavo a crederlo. Nel mio io sapevo che avrei dovuto dargli ascolto, quell’entità maligna, quella ombra che mi perseguitava poteva in qualsiasi momenti rivelarsi fatale anche per noi altri e non solo per Mary Ann. “Andrò a dormire in un motel.” “Forse bisognerebbe credere anche all’esistenza di qualcos’altro in questa vita.” “Alieni?” “Diciamo una dimensione di ritorno.” “Cosa? Che dimensione?” Aprimmo un paio di birre prima di parlarne. “Forse siamo noi gli alieni e forse c’è una porta la fuori in mezzo all’oceano che ci riporta a casa o comunque nel posto dove tutto è iniziato.” “Quindi non solo semplici sparizioni ma perfino porte dell’universo in mezzo alle acque.” “Ragiona Charlie, non si spigherebbe perché è coinvolta persino la CIA.” “Alieni e CIA. Beh, a pensarci bene sono due generi di bestie che si sposerebbero benissimo.” Il mio sorriso genuino riuscì a contagiare anche il mio suscettibile amico. “Vorrei che tutto questo fosse un gioco innocente dove gli scomparsi sono solo gente il cui tragico destino è legato a tragici eventi atmosferici o all’errore umano.” Charlie volle sapere su cosa stavo indagando quando Mary Ann scomparve così, gli mostrai le carte dell’Atlantis e del Kathrina Apothkaia. In casa si sentiva un forte odore di mare e di alghe, odore che ci rese maggiormente pensierosi. “Carica tutto sul furgone e vai. Questi fogli hanno dell’inspiegabile, ma noi non temiamo l’inspiegabile vero Birdy?” Io ero il primo a esserne convinto. Quei documenti ci stavano in qualche maniera condizionando l’esistenza. Non era un’aberrazione studiarli quanto rendersi conto della grandezza di quei fenomeni palesi ma ignorati dalla totalità del genere umano. Prima di lasciarlo andare gli mostrai un altro pacco che avevo preso dal fondo del secondo cartone. “Guarda! Leggi! Questo non capita solo nell’Atlantico, guarda questa mappa, vedi il cerchio sotto l’isola di Mah Uri, un centinaio di sparizioni di grosse imbarcazioni cominciando dai primi galeoni spagnoli fino alle grosse petroliere e solo in quella piccola baia; Charlie ti parlò di soli duecento miglia quadrate. Leggi! Ci sono testimonianze dei locali e persino di un superstite che sembra sia morto poco, dopo e dicono d’infarto o paura. Penso che queste cose non siano semplici fogli per uno scrittore in cerca di racconti o superstizioni, penso siano delle vere e proprie indagini che a un certo punto hanno trovato un ostacolo maggiore davanti.” “Tipo? Chi osa ostacolare la CIA?” “Qualcuno più forte della CIA.” “Chi?” “L’esercito. Credo che ci sia lo zampino dell’esercito. Molte di queste operazioni sono sopportate dallo stato maggiore della marina, altre dai marines e altre ancora dall’aviazione. Credo si siano bilanciate tra loro le informazioni in modo da aver il controllo totale sul campo d’investigazione. Alcuni delle scomparse, sono avvenute in pieno giorno; gente svanita dagli ospedali e non credo siano atterrate delle astronavi aliene, è più probabile siano arrivate le guardie dello stato maggiore a prelevare “la gente scomoda.” “Birdy, brucia tutto, l’esercito è peggiore della CIA e peggio degli alieni.” “Già! Penso che andrò per stanotte in un motel e poi domani ci penseremo. Vorrei solo capire se quello che mi è successo con Mary Ann è vero o solo un’altra allucinazione.” “Se entro domani non ti chiamerà, vai tu da lei.” “E se andassi adesso?” “Prova tanto non devi andare al motel?” “Dio Charlie e se fosse scomparsa a causa mia?” “Sei un uomo intelligente non una casalinga in cerca di cartomanti.” “A volte la razionalità è un muro davanti ad una verità molto più grande.” Charlie mi chiese di pensare ancora e di decidermi a bruciare tutto il contenuto dei cartoni. Gli risposi che avrei pensato alle reali conseguenze di quelle indagini e prima di andarsene mi fece promettere di chiamarlo una volta girata la chiave nella serratura della camera. Sarebbe passato in serata a bere una birra ma io sapevo che lo faceva per vedermi al sicuro. Rimasi da solo con il mio letto alzato contro la siepe, col materasso appoggiato al muro di casa e con quel dannato cuscino che come un alieno ostentava l’irrazionalità del cerchio d’acqua che lo circondava. Impacchettai quattro cose in un vecchio borsone da viaggio, raccolsi dalla cucina i croccantini e la scatola dei biscotti di Cassius, poi scrissi un breve biglietto per Billy che aveva le sue chiavi per portare fuori il cucciolone. Avevo premura di andare a trovare Mary Ann. Dovevo capire perché non rispondeva al telefono e soprattutto vederla. Cercai di evitare il più possibile la stanza da letto e le cose che buttai fuori incluso il cuscino. Mi limitai a buttare le cose necessarie in macchina senza dare il tempo alla ragione di verificare il cerchio d’acqua nel giardino. Volevo credere che tutto quello che avevo vissuto fino allora fosse un’allucinazione e non m’interessava minimamente capire cosa si fosse in quale sorta di guaio mi fossi messo. Com’era da aspettarsi, Mary Ann non sembrava essere in casa. Mi sedetti per un paio d’ore sulle scale del patio di casa finché una sua vicina di casa, dopo aver fatto una corsa di una decina di metri per vedermi meglio e mi guardò con i occhi cattivi come se fossi uno spacciatore in attesa della sua vittima o peggio un ladro di bambini. Osai un breve saluto ma nemmeno questo addomesticò il ringhio di quella che a prima impressione sembrava una divoratrice di telenovela mentre dall’auto Cassius mi osservava con i suoi grandi occhi. Non potevo addormentarmi in quel posto così lasciai un messaggio nella sua casella postale con scritto Chiamami per favore! Armet. Era il periodo della pesca annuale al … e tutti i motel della zona erano pieni di pescatori e turisti, così trovai una camera a dieci miglia fuori città in un posto sul mare, dove l’odore della frittura di pesce superava qualsiasi altro odore. L’unico convinto del posto fu Cassius le cui narici godevano. La camera puzzava a fumo e altre cose la cui natura avevo poca voglia di scoprire, mi chiusi dentro dopo aver portato il borsone con i miei fogli e le ciotole del cane. Cassius era abbastanza nervoso e gli feci una cuccia con un mio maglione per tranquillizzarlo. Mi buttai sopra il letto per guardare il soffitto e pensare in santa pace agli ultimi avvenimenti. Analizzai con progressione ogni fatto accaduto partendo dalla sparizione di Conrad all’avvistamento del suo fantasma e poi alle due scatole con tutte le informazioni dentro che potevano benissimo essere delle bugie. La cosa che non mi lasciava perplesso era quella costante consapevolezza di una presenza estranea che si avvertiva in casa nell’ultimo periodo. Forse qualcuno mi spiava, anzi forse mi spiava chi mi aveva fatto recapitare le informazioni ora in mio possesso. A un tratto, tutti i miei pensieri si concentrarono sulla notte d’amore con Mary, come sembrava distante quella notte e intensa, paurosamente intensa. Avevo persino il dubbio d’aver fatto l’amore con un alieno, lo stesso magari che continuava a perseguitarmi, lo stesso che cercava di rompermi il naso per farmi avere un bozzo nero a forma di cerchio. Come scrittore in quel periodo non sarei stato capace nemmeno di redigere il menu di un ristorante. Mi sentivo ancora spossato come se la dormita della sera prima fosse stata un altro dei miraggi che continuavano a perseguitarmi. Mandai un messaggio dal cellulare a Charlie con la speranza che non gli accadesse nulla di male a causa mia. Ero diventato superstizioso in meno di dieci giorni e questo non era per niente un buon segno. Chiusi gli occhi cercando di addormentarmi; in qualche modo volevo curare quella pesantezza di testa che mi obbligava a soccombere davanti alle cose più assurde ed impensabili. Il mio pensiero si ridiresse ad Ann che morivo dalla voglia di sapere dove poteva essere e con chi. Il suo potere avrebbe potuto decifrare col suo potere alcune delle cose per me inspiegabili che cretino, non l’avevo capita all’inizio, non l’avevo considerata allora e adesso … Lasciai che la notte mi portasse come si dice, buon consiglio e abbandonai l’idea di dovermi difendere dagli spettri o dalle loro maledizioni in una modesta camera di motel abbastanza fuori città, in un luogo sperduto da essere considerato a larghe maniche l’ombra del culo del mondo dove solo le coppie di amanti si sarebbero arresi a soggiornarci. Solo i gabbiani liberi dalle catene della terraferma e dal fuso orario facevano sentire lo strillo della loro voce come una rassicurante sirena. Sulla strada anche il traffico cittadino era diminuito solo ogni tanto un grosso camion transitava spezzando l’aria della notte come un gigantesco essere capace di illuminarsi da solo la via verso il nulla. Si può dire che da parecchio non facevo più gite fuori di casa. Mi mancava tutto: il bagno, la cucina, la vecchia moka e persino la faccia di Billy che aveva l’abilità di farmi ingranare la quarta quando criticava i miei manoscritti. Stavo dormendo fuori di casa e mi domandai - “perché lo facevo?” Nessun uomo che si poteva dichiarare sano di mente avrebbe dovuto abdicare davanti ad una sciocca superstizione. Avrei dovuto ripetermi all’infinito come un registratore rotto, “… Armet i fantasmi non esistono! ...”, ma questo giochino poteva funzionare con uno che non conosceva abbastanza se stesso. Il mio ego aveva razionalizzato quasi tutto tranne le bizzarrie e per le stranezze serviva qualcosa in più del semplice ragionamento. Avrei dovuto mandare al diavolo tutte le congestioni diaboliche del fato e farmi un quadro della situazione senza il prevaricamento del intuito, avrei dovuto ma non l’avrei fatto perché l’intuito captava dei messaggi che alla ragione non erano pervenuti. I mostri dell’immaginazione? Oh, ne so qualcosa sui mostri dell’immaginazione, le chimere che battono l’asfalto del nostro spirito sporcandolo del loro bagaglio grottesco di pensieri. Non si possono contare gli uomini caduti in depressione, alcolizzati o persino suicidi che hanno pagato con la rovina l’influenza di queste ombre maledette. Non c’è peggior mostro di se stessi. La parte oscura della nostra anima, il rovescio della medaglia, quella parte che nessuno vede ma che l’inconscio ascolta soprattutto di notte. Ci sono uomini che hanno provato a curarsi con i’intervento degli stregoni, altri con quello della medicina e dei farmaci, per i mostri della mente nemmeno la luce accecante del sole è qualcosa da temere perché loro girano in pieno giorno impossessati dell’anima e dello spirito delle proprie vittime. Chiunque cercherebbe salvezza fuggendo ma non si può fuggire da se stessi, il nostro io è lì davanti a noi ed è con lui che dobbiamo fare i conti.
4
L’Atlantis
Quando mi svegliai Cassius, grattava con la sua grossa zampa la finta coperta di cotone a grossi fiori blu e rosa. I miei occhi impastati cercavano qualche angolo famigliare poi ricordai di essermi fermato nel motel più disgustoso della zona. Il mio cellulare stava sul comodino e provai a leggerne l’ora, 9 a.m. sicuramente c’era un’urgenza pipì cui bisognava dare retta. Andai in bagno a svuotare la vescica che aveva iniziato a parlarmi, tanto era dolente, e poi mi guardai allo specchio. Sembravo un mostro in fase di metamorfosi. Le occhiaie, la barba lunga e il livido che ora era più nero che mai. Mi sentivo ancora molto stanco nonostante la lunga dormita e mi domandai mentre mi buttavo in faccia copiose quantità di acqua fredda, perché Charlie non fosse arrivato per bere la famosa birra. Stavo uscendo dal bagno, spinto dalla volontà di cambiarmi maglietta e portare fuori il povero Cassius che vivi il borsone dei documenti aperto. Lasciai cadere l’asciugamano per vedere se per caso non erano stati presi da qualcuno da un qualcuno che mi sollecitava di bruciarli. La mia mente stava iniziando una guerra contro se stessa. Non volevo iniziare a dubitare di tutto e di tutti anche se la situazione sembrava diventare molto confusa. Lo stomaco brontolava ricordandomi che non mangiavo credo da circa quarant’otto ore, dovevo ridare la giusta priorità al cibo. Sbrigai le prime faccende d’igiene di Cassius, gli lasciai le ciotole piene d’acqua e di croccantini i Bau Bon Bob, i suoi preferiti poi usci col borsone dei documenti in spalla per trovare prima Mary Ann poi Charlie. Sulla strada mi bastarono quelle due uova, fritte che ancora galleggiavano disgustosamente nel mio stomaco, ci vollero più di tre tazze di caffè amaro per ammazzarle e il mio umore non era cambiato. La casa di Mary Ann sembrava abbandonata, suonai, guardai oltre le tendine colorate delle finestre ma nulla. Quel giorno non si fece vedere nemmeno la sua vicina antipatica cui avrei voluto chiedere qualche informazione, tipo da quanto tempo non vedeva Mary Ann e se qualcun altro fosse passato a trovarla. C’era qualcosa nell’aria o in me che mi faceva sentire a disagio o peggio ancora, mi terrorizzava. Ero spaventato al punto di non volere più ritornare a casa, a vedere il letto appeso al giardino come un crocefisso a rovescio. La vibrazione del cellulare mi riportò alla realtà, era Billy che probabilmente non aveva letto il mio messaggio. “Ciao Billy, Cassius è con me, noi siamo fuori città.” “Bird ciao, ho letto il messaggio ma guarda che qui c’è il finimondo.” “In città? Cosa mai potrebbe succedere nel nostro mortorio?” “A casa tua è tutto per aria! Sarebbe il caso che tu rientrassi.”, disse lui molto amareggiato. Tornai al motel a caricare Cassius e le poche cose che avevo portato con me. Il cane aveva capito che si tornava a casa e fu più collaborativo che mai. Le cose più care che avevo stavano davanti con me sul sedile del passeggero. Il viaggio fu breve e nervoso. Non ricordavo di aver mai guidato con tanta impazienza e velocità. Billy aveva detto il vero, casa mia era un disastro; i vetri delle finestre erano andati tutti in frantumi mentre letto, materasso e cuscino, sembravano essere stati bruciati, l’unica buona novità era la totale assenza del cerchio d’acqua. Polizia, pompieri, Billy e vicinato erano tutti lì davanti alla mia casa, come se partecipassero al casting per un film d’azione. Guardavo come uno spettatore impotente, tutta quella gente che circolava indisturbata sul mio prato, stuprando l’intimità della mia dimora con i loro passi e i loro occhi curiosi. Stavo per avanzare verso il capitano della polizia che stava coordinando i lavori quando i miei passi si fecero pesanti e si fermarono a un paio di metri dall’auto della polizia. Avevo in testa tantissimi dubbi che in qualche modo mi frenavano. Se mi fossi avvicinato, se avessi dovuto raccontare qualcosa, avrei dovuto parlare di Mary Ann o di quei fogli sulla sparizione della gente che sembravano maledetti. Decisi di non arrivare, non ero pronto per alcuna intervista. Cassius sembrava deplorare la mia scelta, il ragazzo voleva tornare alla sua cuccia ed io non lo biasimavo. Chiamai Charlie ma non mi rispose nessuno al numero di cellulare così provai al numero di casa, dove la moglie a denti stretti mi rispose che non aveva sue notizie da quasi due giorni e precisamente da quando c’eravamo lasciati. Gli mandai un messaggio, copiando quello che avevo spedito a Mary Ann, - “Contattami subito, è urgente! Armet.” - ma il mio settimo senso mi diceva che Charlie era nello stesso posto di Mary Ann. Tornai al vecchio motel che nel frattempo aveva noleggiato tutte le camere. Mi ricordai di un pescatore che noleggiava la sua barca ai tipi da scrivania come me. Sembrò felice di quella mia improvvisata, quell’anno aveva subito tre interventi chirurgici e aveva troppo bisogno di soldi per rifiutarsi. “Tenga la barca per tutto il tempo che vuole dottore, sa io quest’anno non credo che parteciperò alla pesca annuale …, quest’anno siamo a terra con l’ancora rotta ma lei faccia come se fosse a casa sua. Un giorno, una settimana, un mese, la tenga, quanto vuole e vedrà che la mia Millie è capace di navigare come qualunque yacht con qualche emozione romantica in più, mi permetterei di dire. Per Cassius lasciare la terraferma non fu facile. Attraversai il pontile con quaranta chili di bulldog inglese in braccio. “Questa è l’ultima volta, vecchio mio, che ti offro un passaggio gratis. La prossima volta usi le tue zampe che è meglio.” Cassius sembrava un gravissimo ferito di guerra. Gli lasciai ancora il maglione nell’angolo della cuccia, quello più fresco della stiva e corsi di sopra a slegare le cime dal molo. Avremmo dormito in mare aperto perché della terraferma non c’era più da fidarsi. Il Capitano ci aveva riempito la cucina di provviste e sulla parete in bella mostra un arpione nuovo di zecca esibiva tutta la sua lucida cattiveria. Billy continuava a mandarmi messaggini sul cellulare nella speranza che io gli rispondessi. Preferivo essere dato per disperso come i miei amici finché la questione delle sparizioni non si fosse risolta. La polizia avrebbe avuto tutto il tempo per cercare i teppisti che mi avevano aperto casa così le mie speranze di uscire dall’incubo, avrebbero trovato la via illuminata dai tutori della legge. Dovevo essere a poche decine di miglia dalla costa quando vidi Cassius girare impaziente tra le mie gambe e intorno al timone. “Pipì sul ponte bambino. Puliremmo con secchiate d’acqua; qui c’è né in abbondanza.” L’agitazione di Cassius divenne anche la mia. Avevo buoni motivi per non pensarmi al sicuro. Chi era entrato a casa mia mi avrebbe facilmente raggiunto anche al molo. La zampa di Cassius mi grattava con delicatezza il polpaccio. Gli proposi la sua ciotola con croccantini e pezzi di pesce presi da una conserva. Il cane sembrò favorire e lo guardai mangiare mentre col coltellino finivo il restante pezzo nascosto sotto un dito d’olio. Presi la borsa con le carte e le rovesciai nella cuccetta. Dovevo sistemarle nuovamente per giorno, anno e località. Oramai non m’importava più di sapere perché Mary Ann era sparita o perché Charlie aveva deciso di andarsene di casa, la stessa sera che venne a casa mia. Troppe cose stavano succedendo da quando giravo con quelle cose e se non fossi stato un uomo di scienza, avrei pensato che fossero maledette. Per non trovarmi i dati in disordine, sistemai i documenti della prima scatola in una pigna alta e ordinata poi pensai agli altri che sembravano essere molto più numerosi e in cattivo stato. Quei documenti sembravano aver inghiottito e poi smaltito tutta l’acqua della terra. Sapevo che fogli con l’inchiostro sbavato avevano qualcosa da dire e li lessi in meno di un minuto come se ci fosse una causa subliminale nel messaggio lasciatomi da chissà qualche povero sfortunato. La morte aveva iniziato a farmi un certo effetto e la mia fede sembrava non aver mai avuto tanto bisogno di coraggio. Quelle attenzioni di Conrad, quel suo indecifrabile messaggio mi mettevano addosso a una forte rabbia; rabbia per l’impotenza che mi bloccava il ragionamento. Avevo capito che per determinate indagini serviva tutta l’irrazionalità del mondo. C’erano avvenimenti inspiegabili cui bisognava aprire le porte non solo della mente ma anche del cuore. Chissà perché era fuggita Mary Ann e Charlie era diventato un latitante?
La barca dondolava dolcemente e il vento sembrava non avere forza di soffiare. Le nuvole si erano sgretolate contro l’orizzonte e la quiete era scesa nella baia. Le luci della città sembravano in lontananza piccole stelle intermittenti. La quiete aveva vinto sul mistero e sui pensieri confusi. Stavo lì fuori a respirare onda dopo onda, a smaltire le schiume salate che mordevano ridenti lo scafo, guardando come il cane tenesse il muso nascosto tra le zampe. Provai un certo sollievo ma anche molta amarezza. Non ero il tipo di uomo che poteva destare invidia per i propri averi o per la propria posizione, come non ho mai creduto di avere dei veri cattivi nemici a parte me stesso. Ero e sarei continuato a essere un nessuno, capace di badare solo ai propri interessi anche questi lontani dalla spettacolarità ricercata dalle folle. Volevo diventare un buon rappresentante della mia storia e della mia epoca. Un giusto osservatore e non un pirata dell’immagine. L’aberrazione degli equivoci e dei luoghi comuni nell’analisi di un soggetto non mi avrebbe mai portato da alcuna parte perciò quella sorta di crisi che mi era venuta dopo la scomparsa di Mary Ann, sarebbe dovuta scomparire con un’attenta riflessione sulla umana natura. Accarezzavo la testa a Cassius continuando a guardare il mare, “La gente, vecchio mio, scompare perché vuole scomparire. Una mattina si sveglia e decide di uscire da una vita abitudinaria per avventurarsi sotto una nuova identità nel mondo dei pescecani e dei collezionisti di storie fantastiche”, ma Cassius dormiva tranquillo e sperai per lui che il suo sonno fosse privo di fantasmi. Tornai a sedermi e a guardare il cielo, l’esplosione di stelle avrebbe messo in ginocchio qualunque romantico. Era la notte perfetta per dichiararsi a una dama e per fare l’amore senza tutte le barriere di difese mentali che ci impone per sopravvivere la nostra società. Da una delle pigne di documenti cadde un giornale logoro e ingiallito con molti caratteri cancellati e alcuni pezzi sottolineati in rosso. Mi permetterò di riportare alcune righe estrapolate da un articoletto che sembra essere con altri due pezzi presi dalla cronaca locale, gli unici indizi della sparizione dell’Atlantis. … Nel settembre del 1992, il radio amatore Ben Dilgray chiamò la Capitaneria del Porto di Miami, riportando le seguenti notizie: «Ascoltatemi, sono Ben Dilgray, e devo riportarvi l’S.O.S. dell’Atlantis, gridava una voce disperata che parlava una lingua a me sconosciuta, gridava aiuto … forse stavano annegando e non potevano lanciarsi dalla barca e credetemi, lo so che sembra una follia, l’acqua in cui navigavano, dicevano che bolliva. La loro posizione credo sia tra le Florida Keys e Haiti, ma pensano si siano allontanati di circa un centinaio di miglia dalla rotta. Un altro urlava come se lo stessero bruciando vivo. Si poteva sentire una creatura che squittiva, Dio che urla!!! Il mare … si sentiva dire che il mar stava masticando la piccola vita … », poi la comunicazione s’interruppe come se lo scherzo dovesse avere fine con quelle tragiche parole. Naturalmente la notizia fu presa una poco alla leggera. L’Atlantis non era un mercantile registrato e nessuno dal continente americano all’Inghilterra, ne aveva denunciato la scomparsa. Sembrava essere stata la nave di nessuno e nemmeno della stazza si sapeva molto, solo tante ipotesi con altrettante evasive supposizioni sull’equipaggio. Nessuno sembrava essere svanito perché nessuno aveva denunciato la partenza di questa barca e la storia poteva essere l’invenzione di uno sciroccato che passava troppe ora davanti alla radio cercando di fare notizia e di agitare il mondo. Ai primi di ottobre, l’ufficiale e tenente di vascello Jerry Lane della guardia costiera, partiva per un’improbabile missione di soccorso. La capitaneria si era svegliata e non certo perché Ben Dilgray era stato preso in considerazione. L’Atlantis era già sparito da più di un mese mentre nessuno dei famigliari si era ancora presentato a denunciare la scomparsa dell’equipaggio quando sulla spiaggia del porto fu ripescato il pezzo di una piccola scialuppa di salvataggio; vi era stampata sulla gomma la parola Atla … questo reperto fu portato alla capitaneria di porto dove realizzarono cosa fosse. Il temporale dei giorni dopo, portarono a riva altre cose e si pensò che la nave fosse affondata con tutto il suo carico umano senza avere il tempo di scaricare le scialuppe di salvataggio. Ma tra le cose che il mare restituì alla terraferma, c’era una piccola borsa in maglia d’orata, sicuramente a uso femminile. Dentro la borsa poche cose, un anello a forma di rosa, una ciocca di capelli e unghie, dieci unghie di colore rosso che erano state tagliate per essere riposte all’interno e una fascia ricamata che non era né delle dimensioni di uno scialle né di uso femminile. Nessuno parlò mai di un omicidio in scala avvenuto sull’Atlantis e nessuno azzardò l’ipotesi che quella donna forse aveva voluto lasciare una traccia di se, nel caso fosse stata costretta ad abbandonare la nave. Quando esaminarono ogni oggetto, riuscirono a trovare dal DNA della proprietaria anche il suo nome. Mary Carrington era stata la moglie di un importatore di banane Jacob Carrington, uno che aveva la fama di essere una bestia sia sul piano affettivo sia lavorativo. Jacob era stato pedinato per anni dall’agenzia delle entrate perché i suoi carichi non li aveva mai denunciati interamente. L’FBI era arrivata a pensare che facesse traffico di clandestini o di schiavi per le fabbriche di gomma che aveva numerose e sparse per il paese. Mary Carrington Lepzughi era stata definita dal personale di servizio, una sposa bambina. Alcuno tra tutti loro ne conosceva la vera età ma si mormorava che lei non avesse più di quindici anni quando arrivò al castello, così era chiamata la dimora del magnate. Mary era obbligata a rituali perversi in quella lussuosa casa. Doveva stringersi la pancia con cinture altissime per tenere la vita sempre stretta e le sue scarpe erano d’oro così pesanti da dover trascinare i piedi mentre camminava. La sua vita sessuale non era da meno, l’uomo, un bruto di oltre cinquant’anni, la violentava regolarmente in modo da fare sentire i suoi strilli alla servitù. In quella casa non c’era alcun affetto se non la rigida disciplina per una violenta quotidianità. Si seppe, l’articolo non rivelava la fonte della testimonianza ma di sicuro poteva essere solo un domestico, si seppe che Carrington l’aveva vinta a un tavolo da poker a un povero uomo d’affari che trovatosi in miseria pensò di puntare alla fortuna, vendendo la figlia. L’articolo ritrae la giovane ragazza in un abito troppo sfarzoso per la sua età e con una pancia enorme sopra di cui lei teneva intrecciate le mani coperte da guanti in pizzo ed una borsina di maglia d’oro. Incinta Mary Carrington dovette affrontare un viaggio col marito che voleva sfuggire nuovamente ai controlli della finanza sempre più pressanti. Nessuno seppe nulla sulla destinazione della barca ma tutti gli averi e la casa dell’uomo furono confiscati a scopo cautelativo, in attesa di una richiesta del legittimo proprietario che ne avrebbe rivendicato l’appartenenza. La borsa di Mary Ann e i suoi tesori finirono nell’archivio della polizia portuale, probabilmente in uno scatolone che avrebbe finito col mangiare polvere su un ripiano in uno scantinato dove altri scatoloni codificati giacevano muti della loro storia. Il grido della creatura nelle cuffie di quel Billy, poteva essere il neonato di Mary ma chi lo sa? Il mare era arrabbiato ma perché il mare non aveva semplicemente affondato la barca senza ferire i suoi innocenti occupanti? Presi il cellulare dalla tasca dei pantaloni rollare la presenza di messaggi. Quel vuoto sul display mi fece sentire una forte stretta alla bocca dello stomaco. Nessuno, nemmeno la polizia o Billy si stava curando della mia assenza. Accesi il motore della barca, volevo tornare a casa a cercare di ritrovare la mia vita di sempre, stufo di sogni spaventosi e di racconti di mare senza senso. Il mare era nero come nera era l’aria della notte. Fortunatamente il momento di stanchezza era passato e solo Cassius continuava a russare nella sua cuccia fatta col mio maglione. La speranza era l’unica cosa che m’illuminava ed era sempre la speranza che gridava agli inspiegabili avvenimenti nella mia testa di scomparire. Mandai un messaggio a Billy, tranquillizzandolo per quella forzata assenza. Gli scrissi che un certo importante avvenimento mi aveva obbligato ad allontanarmi ma che ero sulla via di casa e di vederci, se era possibile durante la mattinata. La navigazione proseguiva e nemmeno un cattivo fantasma mi avrebbe fermato dal ritornare alle mie abitudini. La seconda delle pigne di documenti cadde per una brusca manovra del timone, sparpagliando così tutti i suoi fogli. Ero concentrato solo sul mare e lasciai al mare la decisione di prendersi o no la testimonianza dei suoi fantasmi. La navigazione era meno tormentata del mio io e nemmeno una stranezza si vedeva all’orizzonte che imprigionasse le mie pupille. Mi sentivo sereno e ricaricato. Avevo ottenuto nuovamente il controllo dei miei nervi e quest’atto di coraggio verso me stesso m’infondeva nuove e generosissime energie. Le cose viste da un punto di vista pragmatico si denudano in qualche modo del loro potere negativo e diventano oggetti di studio solo se capaci di raccontare una storia. Potevo tornare indietro fiero e orgoglioso di me stesso. Nulla avrebbe più compromesso la mia stabilità mentale. Sentivo dentro lo spirito il flusso dell’energia positiva. Era la terza o la quarta volta che avevo avuto il coraggio di stare da solo col mare. Solitamente l’acqua mi lasciava come smarrito, intimorito, indeciso. Quella volta il mare aveva dimenticato il nostro attrito e per la prima volta gli perdonai gli orrori sognati durante l’adolescenza. La barca spaccava le onde ancora calme e mi sentivo come un Dio che aveva superato chissà quale fatica. L’aria fresca del mattino mi riempiva i polmoni ossigenando la calca dei pensieri, dove un raggio di sole sembrava aver tolto alle polveri e alle ragnatele la sovranità. Un nuovo mi nasceva da quel vigore addomesticato e severo; un altro me, non più attento all’inflazione dell’ombra ma uno spirito leggero e capace di guardare positivamente al futuro. Speravo di non trovarmi invischiato ancora per molto in quella nube da oscurantismo storico che mi avrebbe fatto perdere del tempo prezioso. Erano momenti quelli che avrei voluto condividere con Sandra perché l’amore di una persona riesce a essere la miglio ancora. La mia salvezza mentale era solo e completamente nelle mie mani.
Figura 5 - Goth
La bambola del demonio
Arrivai al porto che il sole non si era ben alzato. Il venticello mi accolse allegro come i gabbiani che volavano alti per poi buttarsi in picchiata sul mare. Preparai una decina di uova strapazzate e metà hamburger, finirono nella ciotola di Cassius che annusava l’aria come se sentisse la via di casa, “Si piccolo stiamo tornando a casa!”, più che tranquillizzare lui con quelle parole, io stavo tranquillizzando me stesso. Avevo finito di masticare l’ultimo boccone che presi la lattina della birra per digerire il tutto, guardando l’alba sul porto. Odori di ogni genere e soprattutto di civiltà si stavano unendo al sorriso che portavo nell’anima. Forse ero scappato perché troppo stanco di analizzare obiettivamente i fatti e per ogni cosa accaduta c’era una spiegazione ragionevole. Stavo per dire tutto bene quel che finisce bene, che la mano dove reggevo la cima che sentì dei colpi duri sotto la carena. Spensi il motore per andare a guardare a dritta lasciando che la barca si governasse da sola. Un tremendo balzo che non era ne una grande onda ne una folata di vento e l’inclinazione del natante divenne pericolosa. Non sarei sceso in mare per nulla al mondo. Cassius mi guardava incerto come non accettasse un padrone codardo. Tornai al timone sperando che la cosa non si ripetesse. Avevo gettato l’ancora e preparato i borsoni e notai una presenza dietro le spalle. Qualcosa come un soffio leggero mi arrivò all’orecchio e le narici percepirono un profumo di vaniglia, mescolato ai fiori di tiaré, lo stesso profumo della pelle di Mary Ann. Non volevo accettare questa testimonianza di esseri che ritornano da un’altra dimensione; preso Cassius per il guinzaglio corsi fuori saltando dalla barca col cane in braccio e i borsoni che facevo trascinare, incurante del loro contenuto. A meno di dieci passi, proprio davanti a me, stava Mary Ann nuda e bellissima. Mi venne in mente una canzone di Josh Rouse - 'Sweetie'. Volevo correrle incontro, per dirle che l’avevo chiamata per così tante volte da aver dimenticato il numero; la donna che avevo davanti invece, non esprimeva alcuna emozione. Ero lì muto, in mezzo a centinaia di barche ormeggiate e sotto il tiro perfetto dei gabbiani che intrecciavano i loro acrobatici voli tra le nostre figure. “Ann?”, provai a gridare nella sua direzione dopo aver lasciato Cassius a terra dove iniziò ad abbaiare, non a lei, ma alla figura che dietro lei, stava gesticolando in modo allarmante. Era Conrad, per Dio! La presenza di Conrad mi aveva bloccato passi e pensieri. Il Capitano cercava di dirmi qualcosa ma il corpo di Mary Ann lo ostacolava in qualche modo. “Spostati”, avrei voluto dire alla ragazza, “spostati”, perché non capisco quello che mi vuol dire Conrad, ma entrambi svanirono col rumore del clacson che servì a tranquillizzare Cassius. “Armet, prof. Sono qui!”, la mano di Billy usciva interamente dal finestrino del guidatore. Il mio giovane amico mi riportò a casa e mi raccontò di aver dovuto sigillare casa alla meglio con pezzi di plastica e scotch, per non lasciare la casa aperta agli intrusi. Mi disse anche che non erano stati ritrovati i responsabili degli atti criminali che avevano visto mezza distrutta la mia casa, ma si pensava a una banda di criminali di passaggio che cercavano probabilmente i soldi facili o merce da spacciare tipo, televisori al plasma o stereo sofisticati e, non avendo trovato nulla di quello che si aspettavano, avevano deciso di lasciare un segno del loro passaggio. “Povera cosa”, dissi guardando la fila di auto ferme al semaforo. “Si sono accontentati di spaccare quattro vetri, questa gente dovrebbe trovare un modo più interessante per vincere la noia e guadagnarsi da vivere.” Per evitare problemi passai anche dalla polizia, dove firmai una marea di carte prima di entrare nuovamente in possesso della mia casa; non avevo che una misera assicurazione sulla mia vita che sarebbe rimasta a Cassius. Fu davvero difficile spiegare alle forze dell’ordine che gli oggetti d’arredo erano solo piccoli ricordi che avevamo raccolto durante gli anni, io e mia moglie. Non sporsi denuncia nonostante mi volessero quasi obbligare a farla; preferivo tornare alle mie faccende domestiche senza peggiorare la situazione che mi vedeva abbastanza stressato. La casa era pulita. Billy aveva sistemato ciò che non era stato rubato o rotto. Le finestre erano quelle che avevo sofferto di più, ma con qualche economia sarei riuscito a cambiarle in meno di una settimana, per fortuna la stagione era calda e la pioggia aveva smesso di cadere due giorni prima. Cassius si piantò subito sul suo materasso, dove credo non l’avrei smosso nemmeno per la pipì. Lui più di me sentiva il calore che emanava quella dimora in cui avevamo sempre vissuto felicemente. Guardai in ogni stanza trovando poche cose fuori posto, sicuramente gli ospiti non avevano avuto il tempo per fare i propri comodi. Il mio PC era rimasto sotto i cuscini del divano, posto, dove lo tenevo di solito non per una questione di sicurezza ma di comodità. Stavo sistemando le piume dei grandi cuscini del divano che un ricordo mi fulminò la mente lasciandomi bloccato per alcuni secondi. A occhi chiusi lasciai che la mano sotto la fodera del bracciolo destro andasse a caccia di tesori e fu fortunata perché la ritrassi con un piccolo oggetto tra pollice e indice, un orecchino, quell’orecchino! L’orecchino che Ann aveva gettato perché non mi pungessi quando le baciavo il collo. Una lacrima mi stava bagnando il volto e tutta quella storia cominciò a sembrarmi meno assurda di quanto avrebbe dovuto. Qualcosa in quella miniera di carte aveva in se un’aura maledetta e chi me l’aveva passata era sicuramente per liberare se stesso o la propria famiglia dall’influenza infausta. Qualcosa o qualcuno aveva fatto scomparire o aveva preso Mary Ann; una sorta di complotto l’aveva tolta di mezzo perché capace di rispondere alle mie domande. Andai a ripescare le due scatole che nessuno aveva toccato per risistemare i fogli. Presi il letto dal giardino fingendo di non notare il cuscino oramai abbandonato nell’erba come un oggetto di quotidiana spazzatura. Charlie non era ancora ricomparso e avrei voluto raccontargli gli ultimi avvenimenti. Poiché il cellulare non lo raggiungeva, mi promisi di andare a trovare la moglie per capirne di più. “No Armet, non ci siamo lasciati, è partito per non so dove con pochi dollari in tasca e la pistola. Non saprei in quale guaio si sia messo. Mi aveva detto però che era una cosa legata al Dolphin e un certo Conrad.” Charlie stava seguendo un’altra pista e pregavo il Signore che non gli accadesse nulla. Con l’orecchino di Mary Ann in tasca come portafortuna, continuai le mie indagini cercando di documentarmi nella biblioteca della città. Avevo quasi esaurito il mio interesse per la prima pigna di articoli, stando fermo a un avvenimento molto curioso.
Di questa vicenda so ben poco, in verità mi ritrovo a commentare, o meglio decifrare tre fogli, di cui due articoli del Sun, e un comunicato della Marina Militare che doveva essere spedito a una certa Anghelina Dedios ma che tornò al mittente, col timbro postale di Città del Messico destinatario sconosciuto. I primi due fogli avevano sessanta righe ciascuno e parlano di una piccola imbarcazione partita dalla Baia del Ray il 17 luglio del 2005. A bordo cinque persone più lo skipper. L’imbarcazione era diretta a Samanà e il tempo per i prossimi sette giorni era vento calmo, mare piatto e cielo senza nuvole. La famiglia che aveva noleggiato l’imbarcazione si chiamava Dedios, forse imprenditori messicani, sicuramente benestanti, che avevano portato in vacanza le tre figlie di tredici Martha, Maria di sedici anni e la più piccola Fortuna di cinque. La barca sulla quale navigavano si chiamava Alceste. Dopo nove giorni, a meno di tre miglia dalla costa, la guardia costiera trovò un relitto che galleggiava, appena, e con nessuno a bordo, o almeno così sembrò dopo una prima ispezione del tenente Jordan Grey, ritiratosi dalla marina sei mesi dopo in condizioni di salute spaventose.
Dal racconto di questi e dalla successiva indagine degli altri guardia coste ne uscì un rapporto breve:
Rapporto del Tenente Jordan Grey nr. 1889/05
Marina Militare degli Stati Uniti d’America
“Oggi, 26 Agosto 2005, 01:05 p.m., avvistata imbarcazione a circa sette miglia sud est dalla costa di Gold Sands e a meno di dieci dall’Isola del Faro. La chiglia imbarca acqua copiosamente eppure la sua resistenza è quasi miracolosa. Segni di devastazione ovunque. Alcun passeggero superstite. Tutti i salvagente legati nella rimessa e la radio sembra manomessa. Sopra la cambusa, una sorta, un fuoco rudimentale fatto con pezzi credo dei mobili della cucina. Ci sono resti tra le ceneri di legno carbonizzato. I suppellettili sono pochi o nulli. Trovato uno zainetto a fiori rosa, vuoto, e un golf con i fori di sei pallottole, per metà strappato, non ci sono macchie di sangue ma, dentro la cabina dei passeggeri quasi completamente allagata, abbiamo ritrovato una bambola di porcellana senza orbite. La Bambola porta sul vestitino ricamato le iniziali F.B., forse appartenenti ad una bambina o bambino, d’uno dei passeggeri. Ovunque c’è un cattivo odore e non riusciamo a spiegarci la causa. Non c’è traccia di corpi o del motivo d’abbandono della barca. La bambola presenta un grande foro alla base della testa ma non a causa di un’arma da fuoco. Sui gradini si vedevano dei bottoni e qualcosa che somigliava a delle unghie, unghie umane, ma non ne siamo certi. Valige, borse e altri indumenti invece, scomparsi come i passeggeri. Non si respirava eppure c’era una certa brezza. L’aria sembrava arrivarci con fatica nelle narici. Stavamo soffocando, l’aria era pesante e densa, il fetore c’impediva di procedere con meticolosità così abbiamo abbandonato la barca che in meno di dieci minuti e sprofondata. Ho avuto la sensazione che aspettasse noi. Prima di rientrare il marinaio scelto Johns ha avuto un brutto incidente. Dopo un lungo interrogatorio ha affermato che la bambola l’aveva morso dietro la nuca. Un’accurata indagine medica ha trovato una profonda ferita con varie ecchimosi alla base della settima vertebra. Abbiamo fatto una lista degli oggetti da riportare a terra ma la bambola sembra svanita. Il marinaio sarà mandato all’Ospedale militare per accertamenti. Non è possibile localizzare il relitto perché non s’è inabissato, comunque saranno tracciati tutti i dati dalla sua apparizione e poi sparizione.”
P.S. Quello che può sembrare pazzesco era una foto che galleggiava nell’acqua; la foto d’una bambina piccola col grembiule ricamato con grosse iniziali che stringeva al petto, penso la sua bambola, ebbene quella bambola che abbiamo ritrovato a pezzi e senza occhi, era identica alla bambina, non somigliante, … identica.
Non avevo trovato altre fonti che mi spiegassero cosa fosse capitato all’Alceste. Non si sapeva chi fosse stato lo skipper e il Tenente Grey era stato dichiarato invalido e pertanto chiuso all’ospedale psichiatrico militare “George Washington Memorial”. Questa storia potrebbe finire qui. I parenti degli scomparsi non si erano più fatti vivi né la polizia fu in grado di trovare un consanguineo vivente nonostante le indagini compite dalla polizia messicana. Il caso in meno di sei mesi fu chiuso. L’Alceste, sembrava non essere mai uscito dal porto, anzi mai esistito. Il suo proprietario ne aveva dichiarata la vendita lo stesso mese della scomparsa ma del nuovo proprietario, alcuna traccia. Tutta la modulistica e tutti i documenti sembravano non essere mai stati registrati. La barca non era stata reclamata da alcuno e chi era uscito quel giorno in mare, lo aveva fatto con un’imbarcazione fantasma. Eppure il mio interesse non era rivolto all’imbarcazione, in fondo c’era tanta letteratura che si occupava della sparizione nel maledetto triangolo delle Bermuda d’ogni sorta d’imbarcazione. A me interessavano gli uomini che erano cancellati dalla memoria della civiltà, brutalmente e senza nemmeno il loro permesso. Feci qualche telefona alla ricerca del Signor Grey. La mia semplice curiosità avrebbe giustificato anche una breve visita al manicomio in cui era ospitato da qualche anno. Non feci fatica a trovarlo e non si opposero a farmelo incontrare. Le ore di viaggio mi ripagarono di un’attesa altrimenti snervante. Alla reception mi chiesero di lasciare penne o qualunque cosa che l’ospite avrebbe potuto considerare un’arma. La bottiglia di vino rosso, presa dalla riserva speciale della cantina, andava bene. “Perché?”, domandai. Un uomo di mare, oltretutto graduato, perché avrebbe dovuto togliersi la vita? Mi fu risposto che fu lui a scegliere d’essere portato e rinchiuso li, non solo, non accettava di parlare del mare, appena qualcuno nominava il mare, diventava livido in faccia e iniziava a tremare come un bambino spaventato. Mi raccomandarono di non insistere se non avesse voluto parlarmi, ma si auguravano in un’apertura per molti aspetti curativa. Da anni negava la visita alla moglie e alla figlia che era cresciuta praticamente senza padre. Compresi che gli fu detto chi ero e che se non mi avesse voluto ricevere, avrebbe potuto in qualunque momento rifiutarsi di vedermi. Forse il buon tenente aveva qualcosa da dire ed io ero solo l’uomo giusto al momento giusto, tutto qua. Strinsi il collo della bottiglia contento e affrettai il passo nella direzione indicatami. La velocità del pensiero mi stupiva. Avevo già nella mente come se fossero stampate, tutte le domande che ancora mi divoravano e speravo lui avesse avuto bisogno di liberarsi di qualche notizia che non fu riportata sul rapporto, quella sorta di segreto intimistico il cui troppo peso si sente bisogno di buttare. Mi ero seduto su una piccola panchina di legno, sotto un olmo con le fronde parecchio bruciate, segno che l’autunno stava bussando alla porta della città, ad ammirare la vista del cielo e la tranquillità che emanava quel posto così lontano dai rumori della civiltà. L’uomo che arrivò sembrava un vecchio relitto con la faccia consunta e gli arti pesanti per l’età. Eppure Grey, questo lo venni a sapere dopo aver letto il suo fascicolo, aveva meno di quarant’anni. Si sedette di fianco a me senza proferire parola. I suoi occhi sembravano cercassero una luce diversa da quella diurna, una luminosità interiore che sicuramente gli mancava. Poggiai la bottiglia in mezzo a noi. Sentì la sua mano afferrarla e poi lasciarla subito. “Se fossi stato un poliziotto o un ispettore militare, non t’avrei parlato.” “Ho pensato anche a questa possibilità. Piacere Stupini”, mi feci avanti, offrendogli la mano per la stretta e cercando di prendere un taccuino dalla tasca per poi rimetterlo apposto, ricordando d’aver lasciato la penna in deposito all’ingresso, una semplice precauzione, mi disse il direttore del reparto, sa è per la salvaguardia degli ospiti. Ci salutammo, l’uomo che avevo davanti provato da una vicenda terribile era solo un uomo in fuga e non un pazzo. “Non hai bisogno di scrivere, ciò che ti dirò te lo ricorderai per tutta la vita.” La sua voce laconica e profonda, sembrava dovesse superare gli inferi per arrivarmi all’orecchio. “Tu non mentirai su questa storia e mi fiderò della tua parola d’onore.” Non risposi, non c’era nulla da dire, io ero semplicemente un altro squalo che voleva capire di più su una delle tante storie accadute nei nostri mari. “Deve sapere che eravamo in cinque quel giorno. Faceva caldo ma ero contento, a fine turno sarei dovuto scappare in ospedale a vedere mia figlia nata da pochi giorni. Ero di buon umore e la solita ispezione nel raggio delle cinquanta miglia non aveva rilevato alcun problema. Il mare sembrava un morbido cuscino, ma verso le due del pomeriggio, forse qualche minuto prima, avvistammo un galleggiante. Ci avvicinammo e sul galleggiante c’era una fune legata con doppio nodo a un giubbotto di salvataggio. Stavamo per avvicinarci quando fui chiamato da un grido a poppa. “Tenente, venga qua!”, i miei uomini guardavano in un punto, dove io non stavo notando nulla di particolare. Poi uno di loro mi prese la mano e l’alzò verso le ore undici. Poi vidi qualcosa che sembrava scomparire, mescolandosi con l’aria o che sembrava avvolto nella foschia sebbene di nebbia, non ci fosse nemmeno un palmo, difficile da spiegare data la stranezza del fenomeno. La barca davanti a noi, un boiler di circa tredici metri, ondeggiava quieta e silenziosa. La zattera di salvataggio stava in prua come se avessero voluto utilizzarla per poi aspettare qualcosa. Quando salimmo a bordo, invece fu tutta un’altra cosa. Non c’era stata alcuna sparatoria ma la lotta a bordo doveva essere stata terribile. Fu facile pensare a dei pirati, qui non ce ne sono, ma parecchi salgono la costa dal mare di Panama per poi nascondersi alle Keys. Insomma i predatori sono la soluzione più comoda quando investighiamo su yacht con passeggeri sterminati e depredati oppure quando vediamo lo scempio nelle cabine, il segno di qualcuno che cerca di rubare tutto il possibile. La confusione era tale..., e qui fece una pausa come se temesse dire davvero la verità, poi si guardò le spalle e quando s’accertò che non c’era alcuno nelle vicinanze continuò, la confusione era tale che non sembrava la solita confusione. Girai il volto verso i suoi occhi per cercare di capire meglio anche dall’atteggiamento e non solo dalle parole quella stranezza che mi stava raccontando. Mi creda, continuò, era una confusione spaventosa, anzi terrificante, poi c’era un odore di putrefazione e bruciato ma la dentro non c’erano segni di oggetti arsi o di cose o alimenti in decomposizione. Trovammo tutto e nulla. Non c’era traccia di sangue, anche se i passeggeri potevano essere stati gettati in mare, vivi. La cabina stava imbarcando acqua e cercammo di salvare più oggetti possibili per identificare il proprietario e la rotta. Non riuscivamo a respirare, l’aria che prima sapeva di carne bruciata cominciò a odorare di cloro o un acido simile all’aceto di mele invecchiato. Facevamo tutti fatica a respirare e questo non era tutto. Tra pezzi di mobili distrutti, stoviglie rotte e cocci di vetro, vedevo solo pochi fogli forse mappe cancellate dall’acqua di mare, due banconote da dieci dollari e una bambola. Sul rapporto avevo scritto che c’era uno zainetto rosa ma è vero. Trovammo di più, un disegno scolorito che riproduceva una barca di nome Alceste, e quattro personaggi che urlavano davanti ad una lama nera, o un velo nero, insomma non si capiva bene cosa. Questo disegno cade nell’acqua e svanì ma tutti lo vedemmo sparire in una bocca trasparente, così come vedemmo per un attimo una ragazzina con indosso uno zaino rosa che faceva degli strani gesti da poppa in nostra direzione. Le sue mani si agitavano in aria finché scomparve davanti a noi che da scettici cercavamo di darci delle spiegazioni. La barca non aveva nome, eppure lo scafo era lindo come se fosse fresco di cantiere. Tornammo a bordo del cutter con poche cose, nessuna di grande importanza e in meno di dieci minuti, anche dopo averla segnalata l’imbarcazione, scomparve sotto i nostri occhi. Fummo tutti storditi da quest’incubo. Stavamo rientrando, ed io decisi di stendere subito il rapporto, prima che mi fossi dimenticato qualche piccolo particolare che avrebbe fatto la differenza se avessero voluto procedere con le ricerche. Davanti ai miei occhi, seduta sulla scrivania, e non appoggiata ad alcun oggetto, la bambola che avevamo raccolto, rovesciata all’ingiù, teneva la testa sulle ginocchia e le mani supine. Sul ponte un coro di voci continuo, e a tratti rabbioso, sembrava delle urla femminili ma non posso giurare che quello che avevo sentito fosse vero, le voci andavano e venivano, e se non fosse stata una giornata del tutto calma, avrei giurato che fosse il vento. Cercai d’andare a vedere di cosa si trattava. Salito, vidi i ragazzi che in silenzio, con i sguardi allucinati, guardavano il mare come se fossero tutti quanti posseduti. Erano fermi sotto una sorta d’ipnosi collettiva e guardavano il mare come si studia una scatola che cela il regalo; si percepiva una sorta di tensione, una piccola elettricità ramificata dall’aria e quella gente era presa da un punto preciso. Pensai d’arrivare alla radio per comunicare ma le macchine erano in tilt. Presi il cellulare dalla tasca ma anche questo era senza segnale. Dovevo calmarmi, anche se avevo paura. Era la prima volta, sig. Stupini, che io sentivo il dolore della paura. Tornai a vedere dove avevo messo alla bambola e non la trovai. No, non la trovai più. Altre urla mi stavano arrivando all’orecchi ma comincia a credere che nemmeno quelle fossero reali. I miei uomini stavano la fuori come dei posseduti. Poi ci fu un momento, un attimo lungo non saprei quanto, in cui non vidi più alcuno sulla barca. Ero da solo. Sul tavolo di fianco alla mia mano destra, la bambola stavolta a volto in su. La sua faccia era orribile. Aveva grossi buchi vuoti al posto delle orbite e non sembravano di plastica quei contorni ma pulsavano molto lentamente come se fossero delle ossa appartenenti a cranio umano impercettibilmente attivo. La presi in mano e mi accorsi che dietro il capo c’era un foro grande quanto un pugno e non era il buco fatto da una pallottola. Il suo viso sembrava quello d’un bambino vero, un bambino ripreso o fotografato e poi ricostruito con materiale simile alla nostra natura mentre urlava per il dolore. Le mie narici sentivano quell’odore forte di acido, tanto acre da stomacarmi, come se avessero rovesciato una botte d’aceto sul ponte senza averlo asciugato, l’odore però proveniva da quella malefica cosa. Tutti noi sapevamo d’essere a meno di due miglia dalla Bocca del Diavolo ma erano anni che giravamo spesso da quelle parti senza mai notare alcun fatto rilevante. Non faceva più paura a nessuno quella zona, sebbene si raccontassero storie da brividi. Non lo notai subito il cambiamento perché troppo preso a tapparmi il naso ma sentì una vibrazione. Quella bambola si mosse e io la feci cadere. Sentì altre urla e questa vola era come se avessi tolto all’inferno il suo osso. Poi il morso. Qualcosa mi staccò un pezzo di carne dal polpaccio. Gridai ma nessuno sembrò interessato a quello che mi stava succedendo. Quello stato da manicomio durò circa un’oretta poi, quando fummo in prossimità del porto gli altri si destarono dal torpore. Io tenevo il collo di stoffa della bambola ma ci fu un fatto che esasperò tutti quanti. Mentre gridavo e il morso al polpaccio stava sanguinando, copiosamente, si senti la voce di qualcosa che cantava, poi ci fu, un risolino e poi nuovamente il silenzio. Ho chiesto di essere rinchiuso qui perché ho dovuto portare con me tutti i ricordi che ho e perché non voglio più riviverli. Forse un giorno, sarò pronto per uscire, ma guardi, mi fece vedere la cicatrice sul polpaccio, guardi di cos’è capace il mare! Io devo stare qui, per salvare altri che non sanno quanto sia malvagio il fantasma del mare anche lontano da esso.”
L’uomo che mi raccontava quell’episodio non possedeva più alcuna lucentezza negli occhi. Lo studiai per alcuni attimi e percepivo la sua tranquillità, no, quel poveretto non si era inventato nulla, lo sentivo e capivo che poteva esistere una verità di cui era meglio non conoscere la fonte. Pensai al morso umano, era vero e si poteva vedere il buco che gli aveva lasciato, profondo; tanto profondo da sembrare sia stata una vera furia ad assalirlo. Grey si stava alzando. Mi coprì la spalla con una mano. “Dicono di conoscerti.” “Scusi?” “Il mio tempo è infinito e anche se volesse capire cosa ho visto, dovrebbe vivere un’esperienza simile per capirmi.” “Come dice lei, io non potrei capirla, ma posso sicuramente ascoltarla e farmi un’idea. Non ho bisogno di un’assoluzione.” “Infatti, io non sono un prete. Semplicemente un altro essere umano curioso, che vuole comprendere o credere di capire che certi fantasmi hanno un nome cognome, non vogliono restare semplicemente dei volti, o delle maschere in un articolo di giornale che serve a far vendere notizie cattive a gente depressa.” Cercavo di limitare i miei movimenti per non sembrare un folle curioso, o un incapace invece, da dentro, seguivo ogni suo movimento, persino come alzava il labbro superiore quando muoveva la bocca per parlare e il ritmo sfasato del suo respiro. “Quella bambina si chiamava Fortuna De Dios, dorme sotto il mio letto da tre anni, quando non svanisce.” “Bambina?” “L’Alceste era stato attaccato da chi o cosa vallo ad immaginare, e nessuno riuscì a salvarsi. Una piccola bambola, un oggetto innocuo riuscì a sfuggire a quella furia assassina in quella maledetta giornata. Lei sopravvisse in qualche modo strano per noi da capire. La caccia non faceva per lei, non sarebbe stata come tutti gli altri chiamati a fare da esca alla gente in mare.” Dopo questa battuta, la sua voce si spense del tutto come l’interruttore di un televisore. Gli occhi totalmente privi di luce si chiusero nelle palpebre e il suo corpo pesante e trascinato si alzò. Rimasi interdetto. L’uomo si allontanò molto piano, zoppicando. Poi il mio orecchio percepì qualcosa d’incredibile. Un grido di bambino, tremendo e doloroso che perveniva dall’edificio dove Grey si stava dirigendo a capo chino. Tornai alla mia auto e pensavo alle cose che mi aveva detto Grey. Solo un pazzo avrebbe potuto credere ad un altro pazzo. “Dottore come mai lo avete rinchiuso e perché si rifiuta di tornare in mezzo alla civiltà, e soprattutto dalla sua famiglia?” “A mio avviso, lo shock emotivo al quale ha assistito, ha fatto crollare tutte le sue difese. Il nostro paziente non ha più una barriera che divida l’irreale dal reale. Lui vive in un periodo indefinito, direi, un tempo che lui stesso considera infinito.” “Ma dai non è che vuole sfuggire a qualche sbaglio e perciò la miglior cosa è condannarsi a una follia terapeutica?” “Non è folle ma spaventato a morte.” “E questo basta a farlo stare qui?” “Ha tentato un paio di volte il suicidio.” “Davvero?” “Dice che ci sono i fantasmi che lo osservano, lo spiano, lo obbligano a vivere in un certo modo altrimenti …”. “Altrimenti?” “Altrimenti andrebbero dalla sua famiglia.” “E perché dice questo?” “Lei non conosce bene la leggenda di Luss il Tagliagole?” “Conosco una delle tante versioni come tutti.” “In questa versione il vecchio fantasma si prende gli eredi e se li porta in fondo all’oceano, per tenere compagnia alla figlia.” «E come potrebbe, se questi “esseri destinati al sacrificio” dovessero vivere a decine di miglia dalla costa?» “Posso solo dirle che nel 1851 una famiglia composta da madre, padre e due bambine, entrambe di meno di cinque anni e tutti si dissolsero in mezzo alla via, al dodicesimo battito di mezzogiorno. Gli Arron svanirono tre mesi dopo che il figlio maggiore John Jr, tornato dal mare completamente cambiato, si rifiutò di mantenere il patto con i fantasmi. Arron, fu visto l’ultima volta impiccato al portico dell’infermeria del villaggio, ma quando arrivò lo sceriffo, fu trovata solo l’impronta degli stivali sulla polvere e il capestro ancora dondolante, vuoto.” “E’ pericoloso secondo lei?” “Io credo sia come un mutante, nemmeno lui sa cosa nasconde il suo animo.” Lasciai quell’ospedale non prima d’aver trascritto qualche idea. Pigiai sull’acceleratore e prima di svoltare a destra per cercare l’imbocco dell’autostrada ricordai una cosa, la più terrificante che avevo vissuto fino allora. Il povero Grey era stato traumatizzato dal fantasma di B.D., nessuno capì il dolore provato da questo essere che aveva perduto tutto in vita anche le proprie origini quindi, pur di schivare la morte sotto i fondali freddi, pur di dimenticare la vera vicenda che aveva portato alla scomparsa di tutto l’equipaggio dell’Alceste, si aggrappò al primo essere vivente sceso sulla barca. Nessuno indagò più del dovuto su quella scomparsa. Molti asserivano d’averli notati in Argentina e persino in Inghilterra, ma alcuna di queste voci fu giustifica. A volte le persone vogliono scomparire e basta, non ci sono giustificazioni di fatto e nemmeno lettere, solo gli suicidi, lasciano messaggi ma loro a buon idea alcuno crede siano stati degli suicidi. Grey si era preso l’intero peso di quel vissuto straordinario, di quella vicenda troppo fuori dalla portata di un semplice mortale. Grey aveva saputo come rinunciare alla curiosità e all’indagine. Non si potrà mai sapere se per coraggio o vigliaccheria. Fatto è che F.D. chiunque lei fosse, se di lei doveva trattarsi in quel ritrovamento, aveva le orbite cavate e restava la domanda, chi o cosa poteva compiere in mezzo al mare quell’orrore. Perché prendersela con una bambina una volta preso tutto il bottino? Fatto sta che con la morte di Grey la bambina sarebbe tornata alle oscurità dell’oceano, non le restavano che una trentina forse d’anni di vita da passare in quell’ospedale, sperando in un risveglio da un incubo, come bambini che il mattino si alza e dimenticano i brutti sogni. Giuro non avrei mai creduto a una cosa del genere ma capisco che ci sono orrori che accompagnano la nostra esistenza e noi nemmeno ci accorgiamo di essi. Vediamo solo ciò che vogliamo, un piccolissimo ramo, trascurando verità grandi come querce. Penso che ci affidiamo un po’ troppo al giudizio altrui dimenticando di avere noi stessi un forte spirito di valutazione. Ho capito che ci sono prigionieri ovunque e di varia tipologia; esistono prigionieri di se stessi e della propria vulnerabilità, prigionieri dell’ambizione e dell’egocentrismo poi ci sono i prigionieri delle proprie paure e questi sono pressoché irrecuperabili. La natura umana non si cura della pace dell’anima quanto di alimentare con la distruzione la nevrosi. Molti dei nostri incubi, sono le proiezioni mentali di una vita insoddisfacente che indirizzata a funzioni sufficienti alla sopravvivenza si manifesta in differenti modi. I sogni come gli incubi fanno parte dell’energia vitale di ciascun individuo e loro nutrono la nostra quotidianità. Il male dovrebbe essere un cancro da estirpare eppure grazie a esso, molte forme umane prolificano in ricchezza e benessere come se l’industria del Diavolo fosse la miglior invenzione dopo il libro arbitrio. Il Diavolo è solo una nostra invenzione? Davvero oggi nel 2010 noi temiamo ancora l’oscurità e i fantasmi? Dovrei rispondere con una negazione a entrambe queste domande ma non lo farò perché sarebbe una bugia. Dopo i fatti cui ho assistito, personalmente, ho qualche dubbio sull’autorità benevola e preventivata. Ci sono mostri in noi stessi capaci di estremizzare ogni comportamento fino a potenziare il limite caratteriale dell’individuo. Insomma il male ci usa come marionette e noi non possiamo negarci a esso per qualche inspiegabile complesso d’inferiorità. Il tenente Grey non è un eroe né una vittima ma l’espressione del limite che ciascuno di noi, come il dente del giudizio, sopporta con tarda consapevolezza.
6
Leggende sulle acque infestate
Charlie aveva fatto la sua comparsa una settimana dopo la sua presunta sparizione. La sua faccia sembrava la mia di una settimana prima. La prima cosa che notai, fu il livido a forma di cerchio sulla fronte. Aveva dormito pochissimo e i cerchi scuri intorno all’occhio potevano raccontare poco o nulla. Lo invitai in cucina e gli misi davanti ad una birra ghiacciata. “Cos’è capitato amico, alla tua casa?” “Banalità amico mio, banalità. Piuttosto cosa ti ha fatto sparire così? Mi sono preoccupato e non sai quanto.” “Volevo scoprire una cosa. Ti ricordi di un certo Ammiraglio James Ikkan? Un tipo alto quanto un monte e senza una mano?” Avevo la bocca piena di schiuma e mi trovai semplicemente ad annuire. “Hai fatto il militare con lui, almeno questo è quello che ho capito. Comunque questo personaggio unisce tutti i punti del puzzle. Io, come ben sai non ho letto i tuoi articoli e avrei molto timore a farlo. Alcuni di quei personaggi che il mare ha voluto portarsi via, non erano del tutto brava gente. In questa storia ci sta come ciliegina sulla torta il nostro capitano Conrad, sembra che per impedire un grave malanno della figlioletta abbia fatto un rito voodoo dove a essere sacrificato, è stato un altro bambino. La curandera l’aveva fatto giurare sulla pietra nera del diavolo che lui non avrebbe più preso il mare, ma lui si capisce non aveva altro modo per sfamare la famiglia e s’era trovato a pagare con la vita.” “Non crederai mica a queste dicerie?”, lo guardavo con la mia solita aria da chi di cose stupide ne aveva sentite ed anche parecchie. Charlie finse di non voler capire la mia perplessità e continuò con la sua oratoria. “La moglie mi disse che sua figlia ha un marchio in fronte da quando è guarita.” “ … un cerchio!” “Un cerchio.” “Un cerchio.” “Il tuo cerchio.” “Il nostro cerchio Charlie!” “Che cosa c’entra il voodoo con i miei documenti?” “Tu sapevi che questa città è stata bagnata dal sangue fin dalle sue prime fondamenta?” “Non sapevo nulla su pellegrini sanguinari. A me è pervenuta la versione, dove due barche di pescatori dopo una tempesta si siano salvati sulla spiaggia della baia e trovando la conca abbastanza riparata ai forti venti abbiano deciso di portare anche le famiglie.” La seconda birra era già tra le mie mani. “Diciamo che questa vorrebbe essere la versione ufficiale ma quella ufficiosa racconta di un uomo tra i venti marinai arrivati sulla nostra penisola che non moriva mai, non invecchiava mai, non mangiava e non dormiva mai. Quest’uomo si chiama Goht, sarebbe facile confonderlo col vecchio Luss, comunque questo essere viveva in perfetta solitudine pur essendo il capo del consiglio degli anziani. La città che lui aveva fondato lo ripagava con anime. Una volta all’anno il consiglio mandava a Goth da uno a dieci schiavi, non importava se uomini, donne, bambini o neonati; nessuno aveva mai osato domandare o pensare ad alta voce sulla fine che faceva questa gente una volta arrivata sotto la protezione dell’immortale. Cento anni era durato quest’orribile rito, cento anni e nessuno capiva che fine faceva la povera gente, Goth sembrava sapere oltre che nascondere i corpi avere cura che non si trovassero nemmeno le loro ossa. Col tempo il gran consiglio vide morire molti dei venerandi membri e il rito non fu più celebrato con lo stesso numero di vittime e nemmeno con la devozione dei padri. Un bel giorno, era il 7 Luglio, Goth mandò un suo fido in città a cercare dialogo con le nuove istituzioni; di tempo ne era passato parecchio e oltre ai cavalli giravano già le macchine volanti, i pescatori usavano non più barche a vela ma a motore, insomma la modernità era entrata dalla porta principale della città dimentica di chi le aveva nutrito le radici. L’uomo che si presentò al sindaco in persona fu deriso prima e incarcerato poi per dei futili motivi come offesa a un pubblico ufficiale. Goth si vide costretto a scendere personalmente in città e per lui ci fu lo stesso trattamento. Il sindaco aveva due figli, due gemelli, un maschio e una femmina, entrambi molto curiosi tanto curiosi da voler scoprire chi o cosa il padre teneva nascosto nella cantina del suo ufficio. I ragazzini sparirono e dopo giorni di ricerca si presentò alla porta di casa solo la bambina, sfinita e con un enorme cerchio nero sulla schiena e uno più piccolo sulla fronte. Quando le chiesero cosa le fosse accaduto lei non seppe raccontare altro che una grossa lingua s’era presa il suo cuore e da sotto le aveva preso anche l’anima. Il medico del paese chiamato a curarla dopo averla visitata aveva dichiarato ai genitori che la creatura non sola era stata violentata, ma la bestia nelle cui mani era capitata le aveva infilato in animale vivo in pancia; due giorni dopo e sotto dolori indicibili la bambina morì. Le furono trovati nello stomaco una decina di topolini e tra le ossa del bacino le era stato messo un divaricatore a forma di anello. Il Sindaco impazzì e decise di andare a uccidere quegli esseri che teneva nelle sue prigioni, ma non trovò più alcuno. Furono organizzate battute di caccia all’uomo ma nessuno sapeva bene a chi doveva dare la caccia. Solo i loro padri o i nonni avevano conosciuto Goth e cercare un uomo in una città oramai molto grande sarebbe stato come cercare un lume tra mille altri sull’altare di una chiesa. Una vecchia indicò la casa sulla collina, come casa dell’assassino e la gente arrabbiata arrivò con armi e fuoco a stanare il cattivo. Nessuno si aspettava di trovare una vera e propria fortezza, un castello di pietra alto tre piani a picco sul mare. Ma l’essere umano è molto strano e si fa prendere più dall’intelligenza dall’ingordigia; molti degli uomini che entrarono con la forza nella casa cominciarono a cercare l’oro o il probabile tesoro che quest’uomo avrebbe dovuto nascondere. Quella notte perirono cinquecento persone e tutte senza uno strillo o senza lasciare il benché minimo segno di lotta. All’alba gli ultimi supersiti di una città quasi vuota, pochi marinai si trovavano quella notte a pesca, si presentarono alla fortezza. Tutto intorno, buttate per terra le torce, come se tutti loro avessero preferito muoversi al buio. Le finestre del castello erano in frantumi, ovunque cocci di vetro che il vento forte alzava fino a buttarli negli occhi degli sventurati. Chi ebbe il coraggio di scendere nei sotterranei ne uscì impazzito e raccontando scene di cannibalismo tra uomini e donne imprigionate da anni sottoterra. Una sola persona non fu toccata minimamente dalla superstizione ed era la moglie del sindaco che camminava, tra le sale e i corridoi di quella casa come se la conoscesse nei minimi particolari. Le persone che la videro rimasero colpite della sua completa serenità nello stare nella casa del boia dei suoi figli. Con l’arrivo della notte uomini e donne riuniti decisero di bruciare la casa del male perché si cancellasse dalla faccia della terra la presenza di Goth, ma la moglie del sindaco comparve dalla fortezza mostrando loro la verità che li aveva uniti per così tanti anni a quel mostro. Quando entrarono tutti quanti si fecero il segno della croce perché dalle pareti uscivano piccole sporgenze brillanti che altro non erano che femori, ossa di bambini e ce n’erano così tanti da riempire più di trecento metri quadri di dimora. La gente che arrivò con le pale per scavare nelle cantine si dovette arrendere appena uno dei muri di cinta crollò sotto il peso di una montagna di crani umani. Una donna azzardò portare fuori uno di questi crani e vide che era di un neonato, sula calotta frontale erano visibili dei segni come delle striature, si capiva benissimo che erano le impronte di due incisivi che avevano penetrato più in profondità della stessa carne. Arsero il castello e il suo contenuto, il timore di io aveva vinto sulla voglia dell’oro ma Goth era solo sparito e con lui tutta la verità. Nessuno mai capì il perché la città doveva pagargli un pegno e chi era quell’uomo che sembrava poter vivere per più di due generazioni. Goth sparì per parecchi anni come se non fosse mai esistito ma un bel giorno … il 7 luglio esattamente un grande uragano colpì la nostra città. Quel giorno la moglie del sindaco portato alla luce due gemelli, entrambi svaniti dalle loro culle vicine alla madre che si era addormentata per la stanchezza. Uno di loro fu trovato in mezzo alla strada col cranio fracassato e un grosso livido a forma di cerchio sopra il petto e la bambina giaceva appesa e sventrata, impallata al timone dell’imbarcazione del caro sindaco. Le sfortune della città non finirono qui; nella baia si sa, i venti soffiano sempre di traverso e spinge a volte le imbarcazioni verso gli scogli ebbene nella notte del 7 luglio i venti alzarono le acque di quasi una decina di metri e tutti i pescherecci finirono sul fondo dell’oceano. Si sa davvero poco delle persone che morirono quella notte ma questo fu un evento di minore rilievo in confronto a quello della morte di alcuni neonati che fecero la stessa fine dei figli del sindaco. Si racconta di una vera e propria caccia alle streghe, tutti dubitavano di tutti e la legge sembrava non avere più presa sulla popolazione completamente disorientata. Tutti gli abitanti di Idony si sentivano fragili e indifesi. La mia curiosità è sempre rimasta focalizzata sul personaggio di Goth che ai profani può sembrare un mostro ma non a un uomo istruito e imbottito di mitologia classica. Goth potrebbe essere la figura più vicina a un moderno Nettuno o Poseidone, tremendo Dio del mare capace di mangiarsi i propri figli. Si spiega come quella gente avesse trovato scampo sulle nostre coste e come il vento favorevole gli abbia aiutati a portare anche i propri cari in una seconda spedizione. Il tributo a Goth era una minima parte di se stessi, una parte che avrebbe favorito l’aiuto del Dio nella pesca e nel clima mite. Ma quando il sodalizio si spezzò anche Goth modificò la natura di questo posto e non a caso abbiamo più di quattro forti uragani all’anno e centinaia di grandissimi temporali. Sulla collina la sua fortezza non è andata del tutto in rovina. Due giorni fa sono andato a ispezionare la zona ed ho trovato una stretta scalinata tra le rocce e i cespugli che mi aveva incuriosito parecchio. Provai a scendere quelle scale ma trovai subito una resistenza come un muro invisibile. Girai intorno all’area e trovai un angolo tra le rocce ancora edificato con quattro stanze e un pezzo del camino originario della sala. Quel camino aveva sopra una pietra lavorata e l’oggetto adoratore era una medusa che ingoiava un mercantile o sembrava un mercantile perché come ti stavo dicendo il camino, era in piedi solo per metà. Sotto la griglia del camino si notava appena una fessura come un passaggio, mi bastò spingere la botola di ferro mangiata dalla ruggine e vedere l’oscurità smaniare per il passo umano. Quelle scale non erano usate da qualche tempo e perciò in ottimo stato. Non portai alcuna torcia con me perché impreparato all’avventura ma avevo un piccolo accendino che mi diede modo di farmi luce durante la discesa di quell’inferno. Chi disse che aveva provato a scavare nella fossa delle fondamenta lasciando che il muro di teschi gli crollasse addosso è un mentitore. Scesi per più di cinque minuti, seppur nel buio capivo che erano più trenta, i metri che mi separavano dalla superficie. Come dicevo, stavo scendendo una sorta di scala a chiocciola molto stretta e con tantissimi puntini fluorescenti bianchi. Quando toccai uno di quei punti, provai una sensazione di amarezza. Erano dei pomelli tondi e lisci come le cartilagini degli ossi ma molto più piccoli, poi pensai al femore dei bambini e la cosa mi sembrò sconvolgente ma logica. Volli spezzarne uno ma era così ben incastonato che sembrava avessero usato un cemento speciale per fare si che resistesse per tanto tempo e a qualunque forza. Durante la discesa potevo sentire il vento e l’odore del mare, eppure ero stretto tra due grandi muri di pietra che poco offrivano in luce e aria. Eppure respiravo … eppure non avevo bisogno di luce per trovare sotto il passo, un lato gradino. Come ti dicevo quella scala sembrava condurre dritto all’Inferno sebbene non ci fossero né fantasmi né altri mostri a condurmi. Arrivai in una specie di stanza che non aveva alcuno sbocco e mi sembrò strana tutta quella discesa per non arrivare da alcuna parte. Allora mi guardai intorno cercando non con la vista ma con gli occhi della mente. Pensavo a te Armet. A cosa avresti fatto, se ti fosse capitata la stessa situazione.”
Il mio stupore era così evidente che non riuscivo ad aggiungere nemmeno un oh al suo discorso. “Comunque, continuò lui, usando i palmi sulle pietre trovai una specie di bocca, un vuoto giusto per una mano. La infilai e il passaggio si aprì non di lato ma ancora più in basso e la scala era ancora più stretta, come se solo un animale di piccola taglia potesse passare. M’infilai a fatica e cominciai nuovamente a scendere ma su un lato diverso a quello di prima scendevo trasversalmente come se stessi attraversando l’intera baia per arrivare al mare. Fu proprio così, arrivai in un’insenatura della baia, dove il mare era l’unico a farla da padrone. La caverna è di sicuro una gemella dell’occhio, del Diavolo che abbiamo in fondo alla baia ma la sua esistenza non stata esplorata da alcuno. Dove il mare lambiva i miei piedi, c’era uno scoglio che pensai con stupida ironia fosse un ammasso di spazzatura e pezzi di navi, invece Bird, amico mio, era una montagna di scheletri umani che riempiva tutta la baia e serviva da sentiero per qualcuno che dal mare doveva arrivare ad un altro punto d’approdo … Bird, c’è una voragine a cinquanta metri dallo scalino. Nessuno potrebbe nuotare in quell’oscurità ma son certo che qualcuno o qualcosa ha voluto che io vedessi o meglio che sapessi. Tornai indietro dalla stessa strada e stavolta non ebbi nemmeno il bisogno di accendere la fiammella dell’accendino. quando arrivai finalmente in superficie fui curioso di ispezionare anche le altre stanze ancora in piedi e chiuse da un soffitto di vegetazione. In due di loro c’erano delle sedie, di legno mirabilmente conservate e di bella fattura, nell’altra stanza invece c’era un letto con una sorta di marchingegno applicato alle sponde. Sembrava una sorta di macchina della tortura, una cosa che serviva per legare piccole o grandi vittime e sotto il letto, un grande buco che scendeva a chissà quanti metri di profondità dove io stesso ho gettato un sasso ed ho sentito l’acqua. Ho subito pensato che dopo la tortura, alcuni di loro finivano in quella voragine, dove ad alcuno è impossibile nuotare. Nella stanza c’erano dei tessuti mangiucchiati dalle polveri e dalle intemperie, stoffe molto vecchie pire, forse abiti comunque troppo piccoli per capire quale fosse stata la loro natura ed il loro uso. Stavo dimenticando, mentre scendevo la seconda scala, quella più stretta credo di aver sentito un fortissimo squittio, ero troppo occupato ad arrivare in fondo a quella discesa che non mi preoccupai del suono di qualche animale disperato. La sotto dovevano esserci tantissimi topi ma non vidi né le loro facce né i loro escrementi in giro. Probabilmente quella fortezza doveva avere altre vie di fuga come la botola che avevo trovato sotto il camino. Dopo le esplorazioni mi sono trovato il tuo stesso segno, un grosso succhiotto di chissà quale fantasma. La cosa sorprendente e la similitudine fra Ghott e Goht. Che siano la stessa persona?”
Charlie smise il suo racconto e fini col fissare la birra. Io mi ero ubriacato solo nel ascoltarlo e quella faccenda stava assumendo contorni sempre più complicati. Adesso non c’entrava più solo la superstizione ma anche la storia o meglio ancora la mitologia. Feci un colpo di telefonarla o a Lucy, la moglie di Charlie dicendole che suo marito era arrivato stanco da una missione e lo avrei fatto riposare qualche minuto prima di accompagnarlo io stesso a casa. La mia idea fu proprio buona perché Charlie si era addormentato sul tavolo della cucina. Io approfittai per mettere sul pavimento della sala tutti gli incartamenti dei due scatoloni. Sentivo come una sorta di pressione alla base del cranio come se un pensiero costante ma indecifrabile mi perforasse le meningi. Avevo voglia di capire il perché stavano succedendo certe cose e perché proprio a me. I miei genitori erano stati gente semplice, mio padre un pescatore e mia madre una sarta, mio nonno era stato un medico ma da quanto ricordo era morto molto giovane lasciando mia nonna vedova e con parecchi figli. Dovevo leggere e rileggere meglio ogni articolo di giornale e ogni foglio che a primo impatto poteva sembrare senza senso. Presi un foglio bianco e una matita e comincia a scrivere nell’ordine con cui erano accaduti, tutti gli strani eventi delle ultime due settimane.
. La scomparsa del Dolphin. . L’arrivo dei pacchi. . Il fantasma di Conrad. . Le presenze in casa mia e la ferita. . La scomparsa di Mary Ann. . L’arrivo di Charlie. . La scoperta di Charlie …. I topi.
Guardavo con mia sorpresa quello strano elenco, cercando di trovare un nesso tra i vari argomenti. Charlie sembrava dormire come un bambino felice cui e non mi sembrava il momento giusto di svegliarlo; ero certo che quell’uomo non dormiva da parecchio tempo e quella era la prima volta che forse sentendosi al sicuro abbandonò ogni difesa per un sano sonno. Avevo appena liberato dal peso della carta gli scatoloni che Cassius veniva ogni tanto, ad annusare. I documenti del primo scatolone mi sembravano meno interessanti del secondo ad eccezione dell’articolo sulla Margueta. Stranissima vicenda la sua, la barca era tornata al porto perfettamente funzionante ma senza l’ombra di un’anima. Dentro c’erano torsoli di mele ovunque e una pentola piena di una zuppa che aveva fatto muffa. Nelle cabine i letti erano tutti quanti bagnati. Ovunque una marea di vestiti che galleggiavano come se fossero stati usati come scendiletto. Di effetti personali, borse, libri, quaderni, spazzole o telefonini, nemmeno uno. Era arrivata come nave fantasma celando l’identità di quelli che l’avevano usata pochi giorni prima della sparizione e la cosa spaventosa che era entrata nel porto senza l’impostazione del pilota automatico e senza una direzione di bordo la domanda che mi sorgeva chi aveva fatto per lei le manovre di rientro? La plastica alla finestra mi rendeva nervoso e insicuro. Scrissi due righe su un altro foglietto e lo misi sul tavolo, il mio stanco amico al suo risveglio avrebbe scelto se aspettarmi o se raggiungermi nel posto dove avrei passato il resto della giornata. Lasciai a Billy la cura di Cassius, cui avevo dato un grosso pezzo di pane per tenerlo occupato tra un riposino e un altro. Strinsi nuovamente i documenti per non lasciarli sul pavimento e li misi sotto il cuscino del divano, sperando che alcun malfattore ci arrivasse. La biblioteca di Idony non era molto servita ma aveva una bellissima collezione di vecchi articoli di giornale cui si poteva facilmente accedere. Arrivai in meno di mezz’ora ed ero l’unico a quell’ora a essere interessato ai tesori di quella biblioteca. Non sapevo con precisione cosa stessi cercando così mi accomodai davanti allo schermo, dove lasciavo scorrere i file davanti agli occhi mi avvidi di captare un articolo che parlasse di eventi bizzarri. Leggevo cercando di rilassarmi, nella stanza a parte me, nessuno. Scelsi di andare in ordine discendente di data facendo attenzione a non tralasciare nemmeno le piccole perle a fondo pagine tipo: “Gli alieni vivono nel nostro mare.” Passarono circa tre ore buone che arrivai al 1949 dove un giornalista a pagina undici scriveva. Nella notte dell’otto luglio, vicino alla Bocca del Diavolo sono stati pescati i corpi dei due pescatori che erano stati dati per dispersi da due giorni. Delle loro imbarcazioni solo pochi frantumi sotto gli scogli ed entrambi presentano moltissime ferite al capo e sul torace come se fossero stati marchiati. L’articolo non diceva altro ma bastavano queste poche righe a svegliarmi dal torpore della stanchezza. Avevo capito che dovevo andare indietro con gli anni perché allora ogni piccola cosa, faceva notizia. L’indice continuava a schiacciare il tasto del computer, le immagini defilavano con i loro titoli importanti mentre io aspettavo la rivelazione, sempre in mezzo a qualche piccola rubrica. Leggevo tenendomi il capo appoggiato, avevo perso la speranza di trovare una connessione con i racconti di Charlie e gli ultimi avvenimenti che mi avevano stravolto la vita. Erano quasi le otto di sera e l’impiegato mi fece cenno che l’ora di chiusura era prossima. Alzai la mano in segno di conferma e mi promisi che quello che avevo davanti era l’ultimo giornale in cui indagare, l’ultimo di quella giornata. Sfogliandolo con calma, notai che tra le pagine c’era una sorta di buco, come se fosse stato tagliato via ma in quel caso intorno ai bordi c’erano segni di bruciatura. “Mi scusi, domandai all’impiegato che fingeva di sistemare i registri, perché il giornale del 1925 ha dei buchi forse dovuti alle bruciature?” L’uomo si mise gli occhiali da vista sul naso e si avvicinò allo schermo, dove non stette più di un minuto. “Questo giornale è l’unico superstite ai famosi incendi dell’8 luglio 1925. Se lei guarda bene, mancano una quindicina di date di quel periodo e questo che è quello apparso il giorno dopo lo scoppio del primo incendio, una vera chicca e per intenditori. Pensi che lo abbiamo trovato in una cassaforte nei sotterranei del vecchio municipio. Durante il trasloco voluto vent’anni fa dal sindaco Brixen, sotto il pavimento delle cantine del vecchio edificio, furono trovati dei frammenti di resti umani; pare che molti di loro siano arsi vivi e nonostante abbiano cercato rifugio la sotto in qualche modo, non si sono potuti salvare. Brixen ha fatto di tutto per demolire quell’edificio, era come se avesse avuto una sorta di repulsione. Bene, questo suo odio lo spinse a fare dei referendum che non trovarono partecipazione da parte della popolazione e nonostante si debba a lui l’edificazione del nuovo e mirabile Municipio la gente ha conservato il Vecchio come un museo, penso si possa anche visitare nei giorni festivi. Quel giornale si è salvato in una delle due casseforti che appartenevano al consiglio dei padri fondatori. Una delle due si trova nell’attuale ufficio del primo cittadino mentre la seconda, credo, è esposta al Larger Garden dietro l’Ufficio Postale.” “E’ possibile tornare domani e consultare il resto dei giornali?” “Noto che lei è un grande appassionato, certo che può consultarli ci sono delle chicche del 1870 che credo apprezzerà.” La mia unica risposta fu un sorriso e incoraggiato dalle nuove informazioni, corsi fuori a cercare di riordinare le idee. Tornai a casa e vidi che Charlie non si era ancora svegliato. Billy mi scrisse di aver portato in giro il cane e che tutto era ok. Raccontai a Charlie le mie ultime notizie e lui più curioso di me pensò che sarebbe stato giusto andare a indagare anche al Vecchio Municipio. Lo portai a casa il mio amico e fui contento di vedere con quale premura la moglie lo accolse, in quel momento sentì la mancanza di Sandra e delle attenzioni. Non c’era più nessuno a prendersi cura di me e questa cosa mi rattristava non poco. A volte l’anima va nutrita con cose semplici come le parole di coraggio del proprio compagno ma la mia anima forse stava diventando come una pianta grassa che non temeva più l’aridità del deserto. Avrei voluto invidiare Charlie ma era una cosa che non mi potevo permettere. Io avevo avuto una perfetta e felice vita matrimoniale e non mi era mancato nulla accanto a Sandra, non c’era nulla che potevo rimpiangere a parte la vita di un figlio che non era mai arrivato. Tornare a casa mi rallegrava nonostante le ombre che si addensavano dopo la lettura di tutti quei documenti e dopo aver immaginato fantasmi di gente che poco tempo prima condivideva con me i suoi pensieri. Cassius mi aspettava col muso infilato sotto la porta d’ingresso, potevo sentire il suo respiro pesante che cercava l’odore del padrone. Volevo un bene dell’anima a quell’animale che col tempo era diventato come un fratello. Grazie a lui mi sentivo protetto e in qualche modo utile. Il fatto di dover badare alla sua sopravvivenza mi è stato necessario per uscire dal lutto senza impazzire. Il mio miglior amico era diventato l’unico essere bisognoso di tutto l’affetto che ero capace di dare. Avevo imparato molto dal mio vivere solitario, avevo imparato a non dare più nulla per scontato, la vita non regala nulla ai lagnoni e nessun bussa alla porta per portarti via le lacrime. Avevo imparato che il lavoro se dedicato non a se stessi poteva essere uno scopo meraviglioso e non mi sembrava poco in quei tempi bui che stavo attraversando.
Figura 6 - TY
7
Il divoratore di bambini
Andammo di prima mattina al Vecchio Municipio, Charlie, Billy ed io. Portai Billy nel caso ci fosse la necessità di un ragazzo sveglio e atletico e soprattutto perché era così intelligente da sapere quando potevo rispondere alle sue domande e quando no. Avevo in tasca l’orecchino di Mary Ann, lo stesso che la poveretta aveva lasciato a casa mia, sperando di avere il tempo di mostrarlo a Charlie. Sicuramente se lo sarebbe studiato per bene prima di darmi una soluzione plausibile a quella che sembrava una storia di sparizioni senza causa. Il vecchio Municipio era chiuso e si seppe che aprivano al pubblico solo su richiesta e durante le festività; c’era una sorta di ordinanza del Sindaco che proibiva la visita aperta a tutte le sale di quel strano museo e dico strano perché non riuscivo ad immaginare cosa ci potesse essere di così interessante in un Municipio e soprattutto cosa voleva il Primo Cittadino preservare. La mia curiosità andava oltre l’immaginabile. Detti una forte gomitata a Charlie solo per fargli capire quanto fosse importante per noi entrare in quel posto. Due guardiani arrivarono con mazzi di chiavi di dimensioni enormi, sia io sia Charlie ci parlammo con lo sguardo come se ci fossimo domandati allo stesso tempo che tipo di porte necessitavano chiavi di quel genere. In meno di mezz’ora, il Ministero della Difesa aveva mandato un permesso speciale per i suoi ispettori che stavano accertando il grado di degrado da salsedine, degli edifici storici vicini al porto. Il viso di Billy s’illuminò sotto un grande sorriso e la mia contentezza si espresse con un secco colpo di tosse che mi regalò una fredda occhiata da parte di una delle guardie. Le porte si aprirono e ci fu data una piantina di scarsa qualità, dove il vano della scala sembrava un buco nero e il solaio, una stanza senza muri ed un paio di piccole torce. Nel cortile il sole sembrava scendere sul nostro viso in picchiata, cosa di grande impatto considerato il fatto che se si giravano le spalle ci si trovava contro le mura scure e tristi del museo. L’ingresso di semplice fattura mostrava con orgoglio una targa di pietra incisa: Progettato e costruito dal reverendo James Ramney nell’anno del Signore 1804. La casa è del Consiglio dei Padri e solo loro potranno accedervi con servitù della propria famiglia e nessun altro. “Quindi, nessuno poteva visitare questo posto o accedervi senza l’esplicito invito di un padre consigliere.” Charlie intuì subito a cosa stessi alludendo. “Perciò nessuno poteva fare, loro del male ma se loro, avessero voluto farlo, nessuno di sicuro lo avrebbe ostacolato.” Anche Billy volle dare il suo contributo. “Sembra più un carcere che una dimora, dove ascoltare la gente o sposarla.” “Un carcere eh?”, lo guardai e credo mi convinsi della sua genialità. “E’ possibile che usassero questo posto oscuro per altre cose e non solo per fare i matrimoni.” “Ragazzo sei molto sveglio!”, affermò Charlie cercando di stringergli la mano.
Cercammo di orientarci perché l’edificio era completamente privo di luce elettrica. Le pareti di legno scuro lo rendevano parecchio tetro ma il nostro buonumore sembrava illuminarle come una reggia. Fummo condotti nel corridoio delle sale e lasciati liberi di girare per i tre piani ad eccezione del sotterraneo che ci dissero allagato e in fase di ristrutturazione. Charlie sembrava uno scolaretto emozionato mentre Billy aspettava il mio segnale per aprire qualche porta. Ci lasciarono delle chiavi che avremmo consegnato a fine giro all’uomo nella guardiola. Il corridoio aveva un perimetro regolare e le stanze erano di numero uguale e pari su ogni lato. Il nostro lato ne contava quattro ma sul secondo c’erano sei mentre sul terzo ce n’erano due e infine sull’ultimo lato, altre due. Incuriositi di quello che ci aspettava, aprimmo la prima porta usando una chiave dalla strana sagoma, una forma che si avvicinava a quella di un pesce e quando fummo dentro la stanza, poiché le finestre erano state murate, le ombre sui soffitti ci sembrarono fantasmi. Puntai per primo la luce della torcia chiedendo a Charlie di risparmiare la batteria della sua. La stanza non molto ampia, ma era decorata con travi sul soffitto e pareti affrescate. Decine di angeli bianchi volavano in uno spazio aperto che sembrava più che il cielo, il mare e dietro di loro una specie di raggio che non si poteva dire se fosse stato di luce o di fuoco che avanzava da un punto indefinito della parete.
“Dai ragazzi non abbiamo molto tempo per girare tutto”, e mi diressi verso quella che doveva essere una finestra. “Questo muro a mio avviso ha qualcosa di strano ma non riesco a spiegarmi cosa. Guardate qui! I mattoni non sono normali, sembrano vecchi di centinaia di anni eppure queste aperture sono state murate solo pochi anni fa!” Anche l’odore che proveniva dal pavimento era intenso e acido, cercai di annusare ma un tanfo che proveniva da sotto il tavolato mi fermò bruscamente. “Dio che cattivo odore, tutto questo legno sembra putrefatto!” La torcia di Charlie si accese sugli angeli. “Guardate le loro facce, disse il mio amico, sembrano dei pesci e non i soliti angeli e persino le loro ali sono strane.” “Più che scappare, questo stormo di angeli sembra arrivare con il loro Dio del fuoco o spinti dal fuoco”, era la decifrazione di Billy. “Secondo te Billy, qualcuno manda il suo esercito per poi raggiungerlo! Beh, mi sembra un’altra ottima interpretazione. Sapevo che facevo bene a portarti con me. Hai grandi doti, mai pensato figliolo, di fare l’archeologo?” L’aria insana colpiva tutti noi e a stento si riusciva a stare in quella stanza. Decidemmo di uscire col cenno della testa e tenendo il palmo della mano premuto sul naso. Chiusa la porta dietro le nostre spalle, potemmo finalmente respirare. “Ragazzi che tanfo!”, disse Billy pulendosi gli occhi lucidi. “Hai ragione ragazzo qui si respira solo morte e null’altro.” Charlie si era allontanato da noi di una decina di passi, distanza che bastò a farlo sparire. Il lungo corridoio servito da una ringhiera di legno dava sul salone centrale che era anche l’ingresso del municipio; se qualcuno di noi avesse perso l’equilibro avrebbe rischiato di fare un volo di otto metri perché la struttura di quel falso appoggio non era per niente sicura. “Charlie dove sei?” “Non gridare, disse lui sottovoce, sono qui venite!” Seguimmo la sua voce e lo trovammo in una delle sei stanze del secondo corridoio. “Avevo sentito un rumore e sono venuto a vedere.” Puntammo le due torce contro le pareti della stanza e tutte e tre, ci parve di sentire muoversi qualcosa. “Che orrore!”, furono le mie parole alla vista dell’affresco sulla parete col camino al centro. “Che schifo!”, fu la replica di Billy che rimase letteralmente congelato. Charlie invece era molto serio e non parlava, sembrava avesse già un’idea sua di cui non voleva renderci partecipi. “Questa cosa è impossibile persino da descriversi”, parlavo più per me stesso che per farlo sentire agli altri. “A qualche degenerato la cosa potrebbe anche piacere”, diceva Billy che non si era del tutto ripreso. “Morti che resuscitano bambini sventrati, animali violentati ma che diavolo di posto è questo?” “Armet, sarò scemo ma nemmeno il covo dei satanisti è così rivoltante.” Charlie continuava a stare in silenzio. Il suo sguardo era indifferente come se non stesse ne approvando ne disapprovando la cosa. Eravamo prigionieri di una macabra utopia e più cercavamo di capire più ci sentivamo intrappolati in quella torbida vertigine di nonsensi. Quel buio surreale ingigantiva la nostra vena irrazionale, sarebbe bastato un raggio di luce a rendere vano lo sforzo dell’oscurità di impaurirci. “Mi vien da vomitare usciamo da qui.” Charlie spense la sua torcia e uscì di corsa, come se avesse visto il Diavolo. “Charlie? Charlie cosa hai visto?” Ma Charlie si era seduto con le spalle appoggiate alla ringhiera e con gli occhi fissi sulla stanza dove ancora non riuscivamo a uscire. “Venite via!!!”, gridava Charlie. Stavo per rispondergli quando la luce attraversò una sorta di piccolo stemma posto proprio al centro del pavimento. Lo stemma era stato creato con listelli di legno di vari colori, giusto a formare una sorta di rosa dei venti nel cui centro stava un teschio e un’ancora che reggevano la parola “genesis”. Billy era già uscito e chiacchierava con Charlie ma prima di uscire anch’io studiai l’affresco con gli occhi della mente cercando di sostituirmi al suo creatore per trovare il messaggio nascosto. Avevo la stessa sensazione che aveva avuto Charlie, qualcosa d’indecifrabile si muoveva nella stanza e non era un’ombra; scappai a mia volta lasciando stare i ragionamenti sul dipinto della parete e mi buttai a terra vicino a Charlie. “Qui dentro mi sento soffocare, voi non mi crederete ma sto come se avessi il mal di mare …”. Billy stava in silenzio e osservava da debita distanza il buio oltre la porta. Charlie cercava di mandarmi un messaggio silente che io purtroppo non riuscivo a intendere. “Birdy?” “Si?”, dissi io. “Qui dentro c’è la morte.” A Billy venne un attacco di tosse violento. “Charlie credo che questa casa sia una sorta di amuleto.” “Amuleto? So cos’è un amuleto, ma non avrei mai pensato che un intero edificio, potesse diventarlo.” “Le dimensioni sono la gratificazione del suo creatore. Io, in quella stanza, e la indicai, non ci voglio più mettere piede nemmeno se si accendessero all’improvviso tutte le luci.” “Siamo qui per mettere insieme tutte le informazioni necessarie alla comprensione sia delle tue carte sia della mia avventura ma se non te la senti, amico mio, lasciamo perdere subito.” Quelle parole mi furono di sollievo come se fossero arrivate carezze sul cuore e non solo rumori. Sapevo che potevo contare sull’obiettività di Charlie perché quanto me, lui era coinvolto in quella vicenda. Eravamo tutti e tre seduti per terra e tutti con gli occhi a sfidare l’oscurità davanti a noi. “Facciamo il punto della situazione, dissi io mentre regolavo la torcia per la prossima visita nell’ennesima stanza del Vecchio Edificio, sul pavimento di quella stanza, e la indicai con un certo tremore nella voce, c’è la parola “genesis” e questa parola significa origine. Ma l’origine di chi o meglio di cosa? Vi ricordate quella sorta di angeli col muso di pesce e la fiamma dietro il loro volo? Quella strana iconografia potrebbe significare … loro arriveranno per fare strada a Lui che col suo fuoco tutto potrebbe.” Nessuno commentò le mie parole come se potessero aver detto il vero. “Ragazzi cosa ne pensate?” “Io penso che sia meglio fare in fretta a terminare questo giro perché la puzza qui dentro è orrenda e non vorrei che tu ti mettessi a commentare anche le porcherie dell’altra parete, Billy sembrava divertito ed allo stesso tempo nervoso, sentite io non ho paura ma in questo posto non tutto funziona come dovrebbe. Voi siete d’accordo con me?” Annuimmo in due alle sue parole. Non era proprio una meraviglia girare in quel posto alla ricerca di vecchi fantasmi o documenti che ne accertassero l’esistenza. Mi alzai per primo e credo di aver avuto una spinta dal cuore, più che dalla parte razionale di me. Non mi piaceva quel posto e da quanto potevo intuire nemmeno io, piacevo a lui. Charlie mi fece luce dietro le spalle così scelsi la nuova porta da aprire. Più che una casa quel posto sembrava una gigantesca cambusa dove i marinai sarebbero arrivati alla fine e in gran corsa. Decisi di ispezionare l’ultima delle sei poste del secondo corridoio. Sapevo che se le avessi ispezionate tutte quelle stanze, avrei raccolto una sorta di bibbia pittografica sulla natura di qualcosa che dovevamo ancora scoprire. Indicai la porta che volevo aprire semplicemente alzando il braccio destro. Provammo quasi tutte le chiavi del mazzo finché ne trovammo una molto piccola che sembrava la lama di un coltello, eppure la porta che avevamo davanti era doppia e molto alta. La ispezionammo con cura ma qui non c’erano ne affreschi ne pavimenti intarsiati. Uscimmo dalla stanza, delusi e in qualche modo contenti. Eppure non mi sembrava logico, ci doveva essere un iter in quella progressione artistica e una stanza grezza non si poteva spiegare. In teoria avremmo dovuto analizzare ogni stanza in ordine crescente e ricordare gli affreschi e il loro senso. Non capivo perché Brixen si era dato la pena di chiudere un edificio così ricco di espressione artistica e m’era del tutto inspiegabile la ragione di murare tutte le finestre. Una visitina al vecchio Sindaco sarebbe stata doverosa sempre che fossimo riusciti a uscire da quel posto sani e salvi. Prima di decidere d’affrontare il terzo corridoio feci cenno ai ragazzi di guardare in basso. “Se non vi sembra strano questo balzo di altezze da piano terra al primo piano otto metri, come se ci fossero stanze al primo piano alte sette metri?” “Io ho guardato la prima stanza perché la usano come guardiola è sebbene sia di larghezza superiore alle altre sembrava più piccola persino di due metri.” Quella casa batteva tutte le teorie dell’architettura classica e moderna. “Secondo me dovremmo tornare indietro e guardare in tutte le stanze.” Charlie disse che non se la sentiva che gli era già difficile andare avanti. “Allora ispezioniamo il terzo corridoio o si scende e si va a casa?” “Terzo corridoio!”, fu la risposta di entrambi. Il terzo corridoio aveva solo due stanze e tra le due c’era una parete interminabile. Fu un sollievo trovare senza sforzi la chiave della prima porta. Le torce illuminarono le pareti che stavolta erano di colore scuro quasi nero con piccoli cerchi bianchi che si ripetevano all’infinito. Sul pavimento invece non notai nulla d’insolito ma arrivato all’uscita e pronto per chiudere la porta notai la curva di quello che poteva essere un grandissimo cerchio. Chiesi a Billy di puntare la torcia sul pavimento il cui raggio benevolo ci mostrò quella strana circonferenza che si specchiava sul soffitto, già, il soffitto anch’esso di colore scuro, aveva quest’aura bianca. Charlie tornò al centro della stanza tenendo gli occhi fissi sul cerchio del soffitto. Capivo quello che provava tanto che sentì le lacrime riempirmi gli occhi. “Birdy? Il cerchio!” “Sì, Charlie.” Billy non riusciva a comprenderci perché lui non era a conoscenza di quello che avevamo visto, se ne stava in disparte a cercare di farcela da solo. Per quello mi piaceva tanto quel ragazzo perché non era uno che insisteva sulle spiegazioni e quando non le aveva, provava a trovarsele da solo. “Voi di sicuro avete già visto questa cosa?!”, disse ostentando Charlie. “Già!”, fu la risposta delle nostre voci. “I maledetti cerchi ci inseguono come se avessero qualcosa da dirci e sicuramente qua dentro c’è la spiegazione.” Feci sei passi quasi di corsa per entrare nella seconda stanza del terzo corridoio; la porta di questa aveva numerosi intarsi che sembravano essere i nodi usati in marina. Quella stanza doveva essere destinata a qualcosa d’importante, probabilmente era la stanza del sindaco o il posto, dove si ufficiavano i matrimoni oppure i processi. La porta non era chiusa a chiave ed entrai al buio seguendo l’istinto e il forte odore di fiori e legno. Le torce di Charlie e Billy non tardarono ad arrivare. Ci trovavamo tutti dentro un posto molto strano. La stanza per quanto lunga era molto bassa, come se a usarla fossero dei nani e la mia testa come quella di Charlie sfiorava il soffitto perché il povero Billy doveva tenere tutta la schiena piegata se non voleva usare il capo contro l’intonaco come grattugia. La particolarità di quel posto erano le finestre, circa una decina molto piccole e rotonde come gli oblò di una grande nave mentre pavimento e pareti non avevano nulla da dirci. Charlie guardò l’orologio. “Dico di muoverci perché siamo qui da quattro ore e non abbiamo combinato nulla.” “Quattro ore?”, domandai perplesso. “Caspita come corre il tempo in questo posto”, replicò Billy. “Manca l’ultimo corridoio poi si sale.” Charlie non sembrava convinto della cosa e cominciò a frugarsi nelle tasche dei pantaloni alla ricerca di una vecchia penna e un foglietto di carta. “Guardate qui, e ci fece avvicinare questo posto è una trappola, una sorta di specchio per le allodole.” “Perché dici così, questi affreschi, capisci anche tu quanto siano strani e importanti”, e gli indicai le stanze dietro le mie spalle. “E’ vero ma, non è vero.” “Eh?”, la confusione di Billy stava aumentando. “Questo posto, e la sua mano disegnava qualcosa come la pancia di una nave, questo posto, dove voi ed io siamo non che il ponte di una nave. Un ponte elegante con le stanze decorate in un modo cui dobbiamo ancora dare un senso. Ma vedete, vedete qui in mezzo, e indicò con una stella il centro della casa, un centro molto strano e ampio, intorno a cui ruotavano i due piani di corridoi e stanze, qui sotto c’è qualcosa. Vi ricordate i guardiani che usarono la parola allagate, come fanno delle stanze ad essere allagate se tutto questo posto è ermeticamente chiuso da fuori e da dentro. Qui non passano ne cavi della luce né condotti dell’acqua o peggio ancora le fogne. Ci vorrebbero una decina di camion con rimorchi da centomila litri ciascuno, che rovesciati potrebbero, fare salire l’acqua quantomeno fino alle ginocchia.” “E se le pareti di queste stanze raccontassero quello che c’è anche la sotto?” La domanda di Billy fulminò me e Charlie. “Potrebbe essere, ragazzo, potrebbe essere”, e gli tirai una pacca sulla spalla come encomio a quel gran cervello che si ritrovava. “Ok, disse Charlie, facciamo solo un breve giro di sopra senza grandi ispezioni e poi andiamo giù cercando di evitare i guardiani. Qui sotto c’è una scaletta di servizio che nemmeno loro usano o almeno è quello che spero.” Salire le scale, non era un’impresa facile col buio pesto. Salendo ci rendemmo conto che il perimetro del secondo piano era maggiore come se la casa fosse una sorta d’imbuto. La distribuzione delle stanze invece era diversa, su ogni corridoio e posta al centro c’era una sola stanza, in totale quattro locali. “Mi domando dov’era posta la stanza del Sindaco?” “Proprio davanti a te”, fu la risposta di Billy che puntò la torcia su una targa dorata “ufficio personale del Sindaco J.C, Brixen”. “Caspita!”, la mia risposta voleva essere euforica ma quando Charlie trovò la chiave a forma di sirena e aprì la porta vedemmo che quel posto era immenso; tutte le pareti erano di legno e a ogni tavola corrispondeva una sorta di sedia o trono a sua volta lavorato. In tutta la stanza si contavano ventidue sedie, mentre sul lato nord sopra un basamento c’erano altri otto troni o grandi sedie, per gente superiore in grado. “Questa stanza, era la stanza del Consiglio dei Padri! Lo so perché l’ultimo anno di liceo il mio professore di storia, mi chiese di svolgere una ricerca su Idony e la sua gemella Icony.” “Ma Icony non è mai esistita”, affermai convinto del mio sapere ma Billy aveva studiato qualcosa che non si trovava sui libri di scuola, aveva studiato per bene le leggende e questo lo rendeva davvero grande ai miei occhi. “Icony, a quanto sembra, è esistita solo per venti o trent’anni, tant’è che molti pionieri di Idony arrivavano da Icony, non si conosce molto bene il motivo della sua totale scomparsa, forse una grande epidemia oppure un uragano che distrusse prematuramente la città completamente costruita vicino alla Baia del Diavolo, comunque tra Idony e Icony c’erano solo venti miglia di confini rocciosi e di colline arride. I padri fondatori di Idony si riunivano due volte all’anno per ricordare anche gli scomparsi della patria gemella ma quest’usanza a un certo punto fu eliminata e qui successe qualcosa. I membri del primo consiglio dei padri non vollero più trovarsi nel Municipio per prendere decisioni, come facevano un tempo ma presero a riunirsi nelle case, di nascosto tenendo fuori dalle loro cose il Sindaco della città e tutti i suoi aiutanti.” “E se quelli affreschi si riferissero a Icony?”, mi sfuggi dalle labbra mentre a Charlie scintillavano gli occhi all’ascolto delle mie perle. Billy buttò il raggio di luce sul basamento delle otto poltrone e ai nostri occhi si mostrò la scritta “mortis rerum sumus”. Quella scoperta fu per tutti noi un’esperienza devastante. Idony era esistita due volte e una parte fu cancellata per qualche arcano motivo. Allora compresi che la parola Genesis aveva un senso. La mia lista di cose bizzarre non riusciva più a contenere il suo lungo elenco. Sparizioni in mare, fantasmi che ritornavano, leggende di morti che rivendicano una sovranità sulla vita umana, una città fantasma ed una sua esatta copia a poche miglia di distanza, angeli a forma di pesci e cerchi dipinti sui muri; trovare delle spiegazioni logiche a quella follia di eventi sarebbe diventata un’impresa ardua. Eravamo ancora nella stanza del Consiglio dei Padri quando il grido di Billy ci fece correre in direzione dell’altra stanza. “Questa la dovete proprio vedere!” Charlie correva con la torcia che puntava a caso e durante quel piccolo tragitto mi sembrò di sentire il profumo di Mary Ann, era il suo ne ero certo e fu come se una lama d’acciaio mi avesse attraversato il petto. Non mi ero dimenticato di lei ma quella torbida indagine prevaricava qualsiasi mozione della ragione. I miei sensi avvertivano un male capace di contaminare l’intera umanità e la scomparsa della piccola Ann passò in secondo piano. “Venite … ma fatte attenzione a non cadere, c’è un gradino di quasi due metri.”, la mano di Billy teneva aperta una porta costruita a rovescio, come se fosse stata una burla dove si metteva alla prova il senso dell’umorismo degli ospiti. La stanza era un cubo perfetto ed il suo pavimento era scavato di due metri o quasi come se la gente per entrarci avesse avuto a disposizione una scala. La prima cosa che notai e che non aveva finestre ma al centro del pavimento c’era un piccolo buco che doveva servire a qualcosa di preciso. Le due torce ora illuminavano bene quella scatola finché in alto osservammo per la prima volta da quando eravamo entrati una tavola di legno fissata con grossi chiodi e dalla tavola, penzolavano delle lunghe cinghie di pelle, un tavolo da tortura avrei pensato, per un gigante fissato al centro del pavimento a testa in giù. Guardai Charlie e mi parve di capire che pensava la medesima cosa. “Sembra la stanza delle torture”, gli dissi indicando le cinghie e il buco. “Ricordi quando ti riferisti a questo posto come ad un amuleto? Ebbene credo che questo posto sia stato usato non per donare o ascoltare qualcuno o qualcosa ma tenerlo buono, una prigionia momentanea perché questo posto non è crollato con l’incendio di duecento anni fa. Sembra che chiunque fosse stato il prigioniero abbia avuto le forze o la capacità di preservarlo a monito di quelli incapaci che pagarono amaramente per le loro stoltezza.” “Un essere potente e cattivo che si è tenuto la prigione pur distruggendo un intero paese.” “Goth!”, gridò Billy sempre attento alla scia delle informazioni date. “Ghott o Goth, poco cambia la natura di questo personaggio è ambigua come la storia della fondazione di queste città.” Un rumore proveniente dal salone a piano terra attirò la nostra attenzione. Un uomo in divisa molto alto e dalla stazza robusta ci puntò addosso alla luce della torcia. L’oscurità era talmente densa che riuscivamo a malapena a distinguerlo dalle altre ombre. “Signori, avete ancora un’ora dopodiché dobbiamo chiudere.” Il guardiano fece il suo annuncio per poi sparire nel suo gabbiotto sotto la scala. “Caspita come passa in fretta il tempo da queste parti!”, e Billy controllò il suo orologio cercando di capire come mai lui aveva la sensazione che fossero passati, pochi minuti da quando eravamo dentro mentre il suo orologio ci avvertiva di aver passato più di sei in compagnia del buio. “Ragazzi, dovremmo abbandonare la ricerca in questo piano e andare direttamente nei sotterranei che ne dite?”, ma non sentivo più la voce di Charlie perché rimasi a fissargli le dita che sembravano congelate. “Charlie, cosa hanno le tue dita?” Charlie si fissò le mani cercando a fatica di muoverle. Solo i polsi ruotavano agevolmente ma le dita erano intirizzite. “Oh, cazzo! Le mie dita sono morte.” Billy dopo aver appoggiato entrambe le torce a terra, gli prese le mani per massaggiarle con forza; nessuno vedeva più nessuno ed ebbi la sensazione di essere come spiato dalle pareti di quella maledetta casa. “Ragazzi non so voi ma sono stanco di cercare fantasmi.” “Charlie non darti per vinto, dissi io, sicuramente c’è un senso logico a tutto e credo che lo scopriremo presto.” Stavamo già scendendo la stretta scala di servizio con la speranza che nessuno ci sentisse. Tutti i gradini erano di legno che ogni tanto scricchiolava dolorante, come se il peso dei nostri corpi, dopo tutto quel tempo la ferisse. “Buona bambina, scherzava Billy, qui l’unico col passo pesante è quello che usa di più il cervello.” “Ti riferivi a me ragazzino?” La mia voce aveva il tono blando di un genitore. “Guarda che è importante avere il peso di certi pensieri che sono sicuramente meglio del vuoto che, esiste in certe teste!” Billy si fece una sonora risata che echeggiò paurosamente in quella sorta d’imbuto ma quando Billy smise di ridere la risata di qualcun altro continuo fino a raggelarci il sangue nelle vene. Non potevamo fingere di non sentire perché sembrava la voce di uno che stava scendendo con noi e fu allora che ci parve di vedere il viso orrendo di una creatura che aveva gli occhi come lame lucide e assetate di sangue perché quella cosa sparì velocemente così come, c’era apparsa. Finimmo col scendere gli scalini saltandone due o tre per volta, la paura aveva quell’effetto magico sull’uomo una sorta di benzina che spingeva nella vena dei superpoteri. Eravamo silenziosi ma non codardi e quella corsa non era per evitare di incontrare i mostri quanto di cercare la loro tana. Penso che la nostra discesa sia durata parecchio, sicuramente se fossimo saliti di venti piani, la fatica sarebbe stata la stessa. L’atrio delle cantine era strano come il resto dell’edificio. La stanza d’accoglienza era sicuramente troppo grande rispetto al piccolo delle scale nascosto dietro una finta colonna. Questa specie di salone abbastanza inutile visto il fatto che si trattava dello spazio destinato alle cantine e non di stanze adatte al ricevimento sempre che l’architetto non abbia voluto intendere il sotterraneo come luogo di riunione. Intorno al perimetro e come nei corridoi, c’era un numero disuguale di porte per ogni parete. La parete a Nord ne contava un paio, quella a est una sola stanza, tre stanze per la parete sud e una soltanto per la parete ovest; c’erano in totale otto stanze e mi vennero in mente le sedie del consiglio quelle che erano state messe sul basamento anche loro otto. Il soffitto era altissimo e l’odore sembrava quello di una scatola di sardine aperta chissà da quanti giorni. Stavo facendo le mie congetture per lasciare a Billy e a Charlie campo libero all’ispezione dei locali quando mi parve di sentire la voce di Mary Ann. Ero rimasto da solo e al buio con la mia immaginazione che faceva andare il suo motore a mille giri. Per un momento ma solo per un breve istante, ebbi paura, paura di morire, paura di scivolare in una voragine infernale, paura di vedersi aprire le fauci di un mostro ma dopo il primo respiro, la mente si era tranquillizzata e gli occhi non più schiavi del buio cominciarono a dare un valore estetico all’assurdità di quel locale. Mary Ann aveva smesso si sussurrarmi cose incomprensibili ed io avevo smesso di ascoltarle perché non volevo saperla morta. Raggiunsi anch’io i ragazzi nella prima stanza perché mi ero accorto che avevano smesso di parlare già da un po’. “Charlie che c’è?”, ma la mia voce si bloccò a metà per lo stupore. La stanza era grande e Billy stava illuminando una immensa cartina che raffigurava di tutti i mari del pianeta; la cartina era segnata da alcuni punti rossi non tantissimi ed ogni punto presentava un marchio diverso. Contammo insieme i punti e scoprimmo che erano ventidue; il numero non ci collegava a nulla di preciso. Sopra la nostra testa un oblò chiuso con un ferro gigantesco come se le stanze superiori fossero un acquario dentro di cui entrare o da cui uscire. “Toc!”, fu il colpo che tutti e tre sentimmo contro la parete esterna. Come una corrente che non trova forza per fermarla così la nostra corsa nella sala esterna. La stanza si chiuse da sola e la porta sembrava sigillata ai mattoni. Qualcosa intorno a noi digrignava i denti, qualcosa col muso lungo e il rumore di masticazione a vuoto ci mettevano i brividi. Cercammo di correre verso la parete ovest ma qui le stanze erano chiuse, poi ci dirigemmo verso la parete sud e trovammo la porta semi aperta; un venticello gelido ci spinse quasi a forza dentro. Le nostre torce si aspettavano da un momento all’altro di svelare la presenza dell’incubo che immaginavamo ci seguisse in quel posto e ci trovammo immersi nell’acqua. La stanza era una sorta di piscina che aderiva alle pareti e solo il pavimento vicino alla porta consentiva un piccolo appoggio per le mani Billy nuotò in profondità per recuperarla. “Charlie va!”, le mie grida echeggiavano sconvolte. “Charlie, io non trovo Billy!” In meno di un minuto era rimasto nuovamente al buio mentre Charlie con l’unica torcia rimasta, scese a recuperare il ragazzo. Stavamo salendo la scala a chiocciola per uscire da quel posto. Si sentivano di tanto in tanto i guardiani gridare, sicuramente ci stavano cercando al primo o al secondo piano dove in teoria avremmo dovuto essere. Billy faticava a respirare e ogni boccata d’aria portava un colpo forte di tosse e un quantitativo significativo d’acqua salata che sputava arrabbiato. “Odio questo posto e lui odia me!!”, e saliva appoggiato alla spalla di Charlie che lo sorreggeva e lo trascinava scalino dopo scalino. “C’erano pezzi di barche la sotto e stoffe impigliate a vecchi timoni. Sembrava un centro raccolta per relitti. Faceva così freddo e la luce della torcia mi sembra che abbia colpito qualcosa che poi è fuggito ancora più in profondità.” Salivo lentamente ed ero rimasto da solo con i miei pensieri ma non temevo più di essere seguito. Uscimmo da quel posto forzando la porta dell’ingresso a piano terra. Era passata da poco mezzanotte ed i nostri passi riempivano il silenzio della strade. Il Vecchio Edificio ci osservava come uno spettro cieco ma noi gli avevamo già voltato le spalle. “Voglio andare a casa, Cassius mi aspetta.” “Non vedo l’ora di buttarmi sul letto.” “Mia moglie non ha ancora visto la mia faccia e Billy fatti un bagno prima puzzi come un cadavere.” “Anche voi due soli che io ho assaggiato la morte e voi non sapete ancora come, vi lascio la suspense fino a domani mattina. Ci si vede da Armet bene?” “Charlie, e presi il braccio per frenare la mia scivolata sull’asfalto, guarda questo?” “E’ un orecchino. Bird ho sonno, domani mi racconti la storia di questo tesoro, adesso voglio andare a nanna mi sento uno straccio.” “E’ l’orecchino che Mary Ann s’era tolta a casa mia, era finito sotto il cuscino del divano.” “Va bene è l’orecchino di Mary Ann ma non è Mary Ann.” “Charlie, io credo mi stia parlando attraverso l’orecchino, è tutto il giorno che mi pare di sentire la sua voce.” “Bird, ti prego, domani”, e salì nell’auto di Billy. Tornato a casa, andai a controllare la stanza da letto e tutti gli altri locali. Non c’erano ne cerchi d’acqua ne mostri assassini. Presi il guinzaglio di Cassius e portai il gigante a pisciare. Avevo bisogno di una passeggiata per mettere in relazione gli ultimi avvenimenti. Il Vecchio Municipio aveva una stanza, dove l’acqua raggiungeva profondità spaventose e la casa di Goth aveva una galleria che portava a un buco sott’acqua dove stavano ammassati tutti i relitti. Era possibile che questi due edifici comunicassero in qualche modo e per un motivo ben preciso voluto anzitutto dal suo costruttore. Passai la notte fissando il soffitto e controllando ogni tanto il cellulare nella speranza che lei mi chiamasse. Non avevo ancora messo le finestre e nonostante l’afa, si poteva percepire la corrente d’aria che faceva girare il mio scaccia incubi personale, una sorta di stella con i raggi fatti di forchette di plastica e pezzi di specchio colorati. Stavo supino con l’orecchino chiuso nel palmo della mano destra, invocando lo spirito del ragazzo che era voluto sparire da casa mia. Quella notte Mary Ann non venne né a soffiarmi nell’orecchio né a tormentarmi con il suo dolcissimo profumo. Stavo male ma non volevo cedere alle ragioni del corpo, la cura del corpo, spesso parte dallo spirito e il mio spirito aveva bisogno di medicine speciali, di qualcosa che mi dimostrasse la veridicità di certe atmosfere irreali e di certi eventi illogici.
Figura 7 – il camino del palazzo di Luss
8
La Bocca del Diavolo
Finalmente verso l’alba riuscì ad addormentarmi. La giornata sembrava luminosa, anche se l’arietta fresca pareva mormorasse che un bel temporale da lì a qualche ora sarebbe arrivato a inzuppare il mondo. Saltai dal letto per recuperare i fogli ancora non letti dalla seconda scatola e decisi di andare al porto a bermi un caffè guardando il rientro dei pescherecci. Sul molo, due vecchi pescatori, interessati a passare la giornata chiacchierando e scollandosi una bella birretta ghiacciata, il proprietario della White Wing, sopra la mia e le loro teste, una ventina di gabbiani in attesa della colazione che stavano in equilibrio sulle rocce degli scogli, bagnati dalle grosse ondate di alta marea. La nostra piccola città stava preparando i festeggiamenti dei 200 anni dalla fondazione e sulle strade sbandieravano coccarde legate ai pali dei lampioni e bandierine colorate. Il vecchio rottame di Hunk, un omone sulla cinquantina, scapolo fino al midollo, col credo che una masticata di tabacco sia meglio d’un paio d’ore passate con una donna, rumoroso come uno shuttle in pieno decollo, stava portando i quarti di manzo alla macelleria all’angolo con la Norton. Hunk e Cassius erano amici da sempre, noi andavamo ogni tanto al molo, dove sapevamo che lui sarebbe passato e lui tirava fuori uno stinco gigantesco che avrebbe curato parecchi cani dalla malinconia. Anche quella mattina Hunk tirò fuori un osso enorme che Cassius annusò con soddisfazione. “Bravo ragazzo! Mangia che devi crescere”, gli disse accarezzandogli il pelo sotto il garretto. “Armet, non ti sembra un po’ sciupato?”, e mi dette un’occhiataccia. “Ma va la! Gli risposi io, sarà in vena d’amore è pur sempre un maschione, vero gigante?”, e gli tirai le orecchie in segno d’affetto. Hunk salì sul camioncino e poi tirò fuori la testa dal finestrino per parlarmi. “Dovresti insegnargli a masticare tabacco e tirò un grosso sputo nero verso terra, ti assicuro che gli passerebbero tutti i bollori”, e seguì la fumata nera dell’accelerazione che vide Hunk allontanarsi sulla strada piena di striscioline festive. Anche noi ci avviammo verso casa e intravidi ancora l’amico macellaio fermo al semaforo. Delle follate di vento gli entravano dal finestrino aperto per fare uscire il fumo del grosso sigaro che l’uomo teneva strettamente tra i denti macchiati e pieni di tartaro. Ogni aspirata faceva nascere un rivolo di fumo che andava a buttarsi dentro e contro il parabrezza. Presumibilmente l’odore del tabacco si sarebbe schiantato contro le poltrone logore dall’usura, per poi penetrare nel tessuto, avvolgendolo col proprio odore. Eravamo già sulla via di casa, Cassius seguiva tutti gli odori tra i cespugli verdi che ondeggiano nervosamente, io invece, mi riempivo i polmoni con l’odore di marina che sembrava espandersi ovunque.
Davanti al Bar di Bernie, Cooffee and nuts, un giornale appeso per mettere in risalto la prima pagina: Avevano visto delle strane luci all’orizzonte. Queste luci furono avvistate sia di notte come in pieno giorno. La visibilità del loro pulsare era intensa e si poteva vedere sia lungo la costa sia sulla terraferma. I locali parlano di alieni. L’intera contea di Heaven riceverà un vero e proprio scossone pubblicitario. Sicuramente tutte truppe televisive ed parecchi giornalisti inizieranno a curiosare anche dentro a tutti i segreti della città di Idony famosa per la sua ospitalità. Ci sarà così modo di fare conoscere al mondo anche la nostra città che concorda con Heaven. GLI ALIENI ESISTONO! Venite a Idony per l’8 Giugno! Alieni e birra a volontà.
Dopo aver letto questa idiozia, sciolsi il guinzaglio di Cassius che da questo punto in poi sapeva arrivare a casa da solo. Ero fermo a rileggere l’articolo di quel giornalista fulminato quando vidi davanti a me e dall’altra parte della strada ancora Conrad. Nonostante fosse molto vicino, io non riuscivo a vedergli il viso, solo le braccia, vedevo solo le sue braccia alzate che continuava ad agitare. Corsi verso di lui ma un’auto dovette frenare all’improvviso evitandomi la morte sicura. Mi salvai con un’imprecazione indicibile del guidatore e con la mano ancora tremante per la paura. Sul lato opposto della strada non c’era più nessuno. Misi le mani in tasca e trovai i fogli che m’ero promesso di leggere ma che non avevo avuto tempo di farlo. Camminai in silenzio guardando verso il bar di Bernie dove avevano esposto la cazzata del secolo come se fosse l’articolo del secolo. Billy era già davanti Charlie si stava allacciando le scarpe da ginnastica. “Ciao ragazzi”, dissi allegramente. “Ho detto a mia moglie che andavo a fare un po’ di moto.” “Io invece ho cercato per tutta la notte informazioni su Icony e Idony. Entriamo in casa, perché ho la strana sensazione di essere seguito.” “Anch’io.” “Anch’io”, disse Charlie. Avevo preparato del caffè e messo in tavola gli ultimi biscotti ancora non scaduti, sembrava che io non vivessi in quella casa da mesi. “Dici ragazzo che sono curioso!”, e Charlie affondò un paio di cherubini al cacao nel caffè bollente. “Dunque, per prima cosa questa città sembra non essere mai esistita almeno fino al 1854 a quando risalgono i primi articoli di giornale. Pare che una città vicina poco tempo prima avesse subito una distruzione o una cosa del genere e qui veniva riportato il nome di un libro che non aveva nulla a che fare con la storia, un certo “Trattato di naturale conservazione”. Cercai questo libro in Google e trovai qualche riferimento sul suo contenuto. Arthur Cumberly, entomologo ed antropologo inglese era un tipo appassionato di superstizioni e leggende ed apprese non si sa da quali fonti della sparizione di un intero villaggio lungo la costa atlantica. Nel suo libro Cumberly racconta della sparizione di circa trecento abitanti da un particolare porto che era stato preso di mira dalle tempeste. Non faceva il nome del posto sebbene lo abbia descritto come: “Questo posto aveva un gemello ma il suo seme doveva dare tributo a chi era superiore in forze per natura e la gente si divise nella speranza che l’uno o l’altro posto avesse per concessione divina scampo al peggio. Il dì che fu di festa quando la tavola aspettava ricca di doni il commensale, si alzò un vento terribile e tutto il fiato si portò via come se nessun essere fosse mai esistito su quella roccia.” Billy lesse dal suo foglio gli appunti presi ma poi alzò la testa per terminare il suo discorso che aveva imparato a memoria - “la prima diligenza di passaggio trovò le case vuote col cibo secco ancora nei piatti e le porte aperte ai venti e alle tempeste, trovarono i letti sfatti macchiati dalle muffe e casse da morto vuote nelle chiese …”. Non sazio di questi pochi elementi andai a vedere le sparizioni di massa nella nostra regione geografica e trovai una nota su un probabile villaggio di pescatori che durante un temporale dovette trasferirsi in fretta e furia altrove. Ma noi ci domandiamo chi si trasferisce lasciando il cibo sul fuoco o il letto sfatto e la bara in chiesa? Nessuno. Sparirono 341 persone che per l’isolamento o per altri motivi tipo la mancanza del cellulare, non fecero in tempo a mandare un segnale di soccorso ai villaggi vicini. Voi penserete che sia tutto qui ma non è tutto qui. Quando Icony svanì, vi domandate - “che successe alle loro case?” “Già”, rispose Charlie col mento macchiato di briciole di biscotti, “cosa successe alle cose che lasciarono dietro di se?” Billy mi guardò e sorrise. “Caro Billy, potresti diventare uno scrittore fantastico”, fu la voce del mio cuore a parlargli e vidi come gli si accesero gli occhi dalla soddisfazione. “Furono bruciate. Furono bruciate poi rase al suolo e le ceneri gettate in mare.” Charlie quasi non si strozzò con l’ennesimo biscotto preso com’era dal racconto. “Chi bruciò le case e perché?” “A questa domanda ci risponderà sempre il caro amico Google. Sei o sette mesi dopo, comunque in pieno inverno, quando i pescherecci non escono ogni giorno in mare, una spedizione con tutti i cittadini maschi di Idony raggiunse il villaggio gemello. Vi ricordo che Idony era solo un piccolo satellite confronto a Icony che era già una piccola città marinara sviluppata e molto attiva. Comunque questa spedizione arrivò in città non depredare o raccogliere le cose superstiti alla gente sparita ma a cancellare completamente l’esistenza di quei poveretti. Fu appiccato il fuoco alle dimore ed alle cose, i pozzi furono chiusi con pezzi di rocce e la chiesa sconsacrata con lo sputo di ventidue anziani più otto così voleva la superstizione scacciare il Diavolo.” “Cosa c’entra il Diavolo?” “Hai ragione Charlie, il Diavolo non c’entra nulla perché loro non temevano il Diavolo non almeno quello dell’Inferno dantesco ma un particolare Diavolo, il Diavolo del mare. Vedete nella storia della marina esistono molti dei e mostri creati da loro, animali marini che hanno la capacità di inghiottire per intero una nave o solo l’equipaggio. Quella gente era sicura di combattere un Diavolo che sarebbe arrivato dal mare a finire anche loro; distruggendo il villaggio, il mostro avrebbe arrestato per qualche tempo la sua fame cercando tra altri villaggi chi attaccare. A quei tempi nessuno poteva avere la certezza di nulla ma a gente di quel tipo poteva bastare anche una piccola superstizione per credere nell’illuminazione giusta. Quel giorno ripeto, al rogo parteciparono solo gli uomini maschi e del Consiglio degli anziani, le donne e i bambini di Idony, vennero nascosti, sempre nel caso che il Diavolo si fosse fatto vivo da quelle parti. Bruciarono le case che grazie al vento bruciarono in fretta. Tutti loro rimasero in piedi a spostare con i secchi la cenere dalla roccia al mare. Il mondo non avrebbe mai saputo di Icony e il male si sarebbe allontanato da quelle coste tolti i resti degli infedeli, sì perché a un certo punto a Idony, girava la voce che qualche pescatore della città vicina si portava in casa il Diavolo. Una settimana dopo il capitano Ghott o Goth arrivò per mare con due barche di gente che lui aveva salvato durante una mareggiata. La gente fece festa e lo ringraziarono offrendogli tutta l’ospitalità del posto e la figlia del sindaco in sposa. Questa gente era gente di mare, ignorante, attaccata alle superstizioni, molto semplice e povera. Goth prese la ragazza e scelse un posto sulla collina per costruirsi casa. I suoi soldi, diceva, gli arrivavano dal Continente e nessuno dubitava del valore della sua parola. Durante il Consiglio dei Padri, Goth chiese che gli venisse fornito aiuto per le sue barche. La gente che andò a lavorare per lui non fece mai ritorno anzi il consiglio dei padri non si faceva più com’era consuetudine con la presenza del popolo ma di nascosto e in un posto segreto. Idony vive perché qualcuno ha voluto che prendesse il posto di Icony, non so il perché ma c’entra il consiglio dei padri e forse il Sindaco. Il Vecchio Municipio racconta tutto di questa città e della sua gemella. Sicuramente ci possono essere delle gallerie comunicanti tra i due luoghi. Viceversa, ci saranno delle vasche scavate nei muri, servite ai padri fondatori per intrappolare qualcosa.” Io corsi nella stanza dei lavori e presi la seconda scatola. Tirai fuori dalla tasca i foglietti dattiloscritti che mi ero promesso di leggere. “Non c’è tempo che io vi legga tutto, ma ci sono delle cose che si posso comprendere solo se siamo più menti a ragionarci sopra. Molte delle imbarcazioni partite da Miami verso Idony o da Idony verso le baie di pesca o verso Miami sono sparite in mezzo ad un mare calmo e un cielo sereno. Ho documenti, riservati solo ai servizi segreti che raccontano cose incredibili di persone vive e chiuse in istituti ma dichiarate decedute ai parenti.” “Perché?”, mi chiese Charlie. “Perché erano dei testimoni di qualcosa di cui il governo non ne ha dichiarato o accettato l’esistenza.” A Billy brillavano gli occhi come se avessero avuto lingue di fuoco. “Il Sindaco Brixen sa qualcosa, Billy parlava mentre spacchettava un piccolo foglietto, vedete questa, questa è la piantina del Vecchio Municipio.” La guardai stupefatto. “Ma è una barca.” “E’ vero, una gigantesca barca rovesciata sul pavimento o sulle fondamenta. Penso che l’elemento rovesciata sia stato indispensabile non a colui che l’aveva costruita ma a quella cosa o persona che ne avrebbe dovuto fare uso.” “Ma Billy, cosa se ne dovevano fare di stanze con acquari i padri del consiglio? Mica allevavano pesci nel comune?” “Forse nei disegni del nuovo Municipio c’è qualcosa del vecchio.” Charlie aveva finito tutti i biscotti e parlava masticando l’ultimo boccone. “Ma tu non hai mangiato a casa tua?”, gli chiesi sorridendo. “Si ma ero stanco …”. Qualcuno bussò alla porta e tutti e tre in coro rispondemmo, “Entra!”, sembravamo una banda già collaudata. I colpi insistevano così fui costretto ad andare a rispondere. “Si?” “Mi stavi cercando ed eccomi!”, la faccia di Mary Ann cercava di apparire stupita ma mai quanto la mia. Dopo averla fatta accomodare, vomitai sul pavimento e davanti a tutti. “Armet?” Charlie arrivò con un asciugamano bagnato che mi disse di mettere sul capo e Billy continuava a guardare Mary Ann come se fosse un’aliena di ritorno da un pianeta oltre la nostra galassia. Mary Ann era rimasta in piedi a guardarci come se fossimo dei ragazzini presi a curarci del nostro ego ferito, i suoi occhi sembravano allegri e la piega delle labbra supportavano quest’idea. Avrei voluto sentirmi diverso ma la sua presenza in quel momento mi metteva a disagio, o meglio non mi faceva per nulla piacere. L’imbarazzo aumentò appena Charlie mi diede una certa occhiata, quella del tipo magari te la vorresti rifare eh vecchio mio; non era così che volevo rivedere Mary Ann. Fui io a parlare per primo, lei sembrava stordita dalla presenza dei miei amici. “Ciao, t’avevo cercata per, per darti questo”, ed allungai il palmo della mano con l’orecchino che avevo pescato nella tasca dei jeans. “Grazie, disse lei sorridendo, ma non è mio.” Charlie mi guardò seriamente e credo che Billy acuto com’era aveva intuito a cosa si riferiva quello sguardo. “L’ho trovato sotto i cuscini del divano e dalla sera in cui sei andata via, non ho più avuto modo di restituirtelo.” Credevo di averle parlato col cuore e quel lato romantico mi era nuovo e poco rassicurante. Certe sue parole però superavano la vena della follia. La ragazza davanti a me aveva la stessa chiusura e timidezza del primo giorno che la rividi ed era sicuramente molto lontana dalla donna con cui avevo fatto l’amore. Mi domandavo come faceva a controllarsi in quel modo e perché restava impassibile davanti a un oggetto che dovrebbe esserle caro o almeno familiare. La stavo studiando con calma mentre Ann sorseggiava la sua tazza di caffè che il buon Billy aveva badato a versarle. Charlie che aveva una vena meno cavalleresca della mia si buttò addosso al vetro della cucina spingendo fuori Billy che si aggrappò alla finestra per evitare di cadere. “Mary Ann, dunque non è tuo quell’orecchino?” “No”, rispose lei sorridendo gentilmente come se fosse caduta dalle nuvole. “Ma ti ricordi di essere passata per caso da Armet questi giorni?”, sapevo dove voleva parare Charlie. “Sono stata otto giorni a Miami, sapete, mi offrono una cattedra al Belinger, è una piccola scuola elementare e hanno bisogno di una maestra; ho sempre desiderato lavorare coi bambini ma qui è così difficile.” Charlie e Billy annuivano come se fossero stati due esseri lobotomizzati. “Va bene. Grazie Mary Ann della tua cortese visita, per quella cosa che dovevo dirti, beh, ho già risolto. Se tu dovessi avere bisogno di qualcosa, chiamami!” Mary Ann appoggiò la tazza di caffè nel lavandino e salutò i ragazzi stringendo calorosamente la loro mano; arrivata alla porta mi appoggiò i palmi sul cuore ed io rimasi spiazzato. I suoi occhi erano pieni di lacrime. “Sono così felice di andarmene da qui. Qui mi sento come una persona maledetta invece in città la gente apprezza quello che avrei da dare ai bambini. Tu stai attento Armet!” “Vede con occhi di ghiaccio l’acqua nei cerchi della morte.” Il tono della sua voce era diventato serio e sibilante. Le ultime parole sembravano di qualcun altro. Quella ragazza mi faceva paura. “E tu scusami per quel momento di malessere!”, cercai di balbettare pur di non ascoltare altre profezie di chissà quali orrori. Chiusa la porta, non seppi dire altro che “Grazie al cielo se n’è andata!”. Charlie fingeva di aggiustare la maglietta di Billy che si era impigliata nella cerniera della finestra quando lo aveva spinto per parlare a Mary Ann. “Come fa a non essere lei se era lei?” “Tu quale certezza hai, a parte quell’orecchino che sia stata lei e non una persona che poteva assomigliarle. Magari avevi bevuto una birretta e conosciuto una ragazza gentile …”. “Io non conosco ragazze gentili e non uso le ragazze gentili, io non uso la birra per dimenticare e facilitarmi il rimorchio. Lei era venuta da me quella sera e sembrava diversa, fragile e bisognosa d’affetto. Era lei e non un’altra, lei con quei dannati orecchini che sembrano fare parte del tesoro dei pirati.” Charlie prese l’orecchino e lo mise controluce per esaminarlo. “Interessanti, disse, sembra proprio vecchio, molto, molto vecchio.” “Va bene è un pezzo d’antiquariato e allora? Finney non era un uomo ricco, magari gli ha ereditati dalla madre o dalla nonna”, io guardavo Billy che perdeva tempo a controllarsi la maglietta. “Ragazzo fila a casa e cambiati oppure lascia stare quel pezzo di stoffa e racconta quello che hai trovato in internet.” “No Birdy, quest’orecchino sarà vecchio di minimo due secoli e guarda questo punzone, ai nostri tempi l’oro diciotto carati è segnato come quello quattordici, qui c’è solo un nome, cavolo non riesco a leggerlo; una lente aiuterebbe molto in questo caso.” “Ma dobbiamo proprio perdere tempo con quest’orecchino, abbiamo cose più importanti da fare.” “Direi che quest’orecchino è molto importante. Questo pezzo ci potrebbe raccontare qualcosa della sua proprietaria chiunque lei sia. La nostra Cenerentola, ama i pezzi molto ricercati e rari.” “Cosa te lo fa dire, sei un impiegato e non un orafo.” “Sono una persona di mondo e non un eremita. Ho i miei hobby e la mia palestra di vita, vale a dire l’esperienza.” “Allora dimmi cosa ti sembra quel pezzo da museo, un coccio di vetro anticato o un filo di plastica e pietre dure pescate nel Mississippi?” Billy gli porse la lente che avevo sulla scrivania e che credo di non aver mai adoperato da quando Sandra me l’aveva regalata. Era per l’ennesima volta che scoprivo di non sentirmi solo e di aver in continuazione le attenzioni di mia moglie. Charlie uscì nel giardino per guardare con cruda attenzione il suo fine oggetto; lo lasciammo fare perché c’era nuovamente bisogno del suo intuito. La mattinata scivolava via e tutte indagini portavano delle direzioni più disparate. La mia ragione era sempre in conflitto con le speranze. La mente sciabolava tutte le ipotesi ultraterrene e quelle pragmatiche non aderivano per nulla alle esperienze fatte. Una casa a forma di nave, avrebbe messo i brividi qualunque profano e quando studiai meglio la piantina di Billy mi accorsi di una cosa pazzesca, il Vecchio Municipio sembrava anche il ventre di una balena. Senza perdere tempo e trovata una matita, mi misi ai disegnare i contorni di quella assurdità. “Armet sembra una balena!” “Già!” Stavo per comunicarlo a Charlie ma vidi che aveva iniziato a correre nella mia direzione gesticolando con la mano libera come se avesse fatto la scoperta del secolo. “Cavolo Birdy!!! Stracavolo! Cazzo Birdy siamo di fronte ad una scoperta storica!!! Apriti cielo, abbiamo scoperto una rarità o meglio, un pezzo unico!!! Billy vieni a vedere!” Ci sedemmo intorno a lui impazienti come ragazzini con i quaderni aperti, il primo giorno di scuola. Charlie era più euforico di noi e non si accorse di balbettare nell’intento di condividere il suo ritrovamento. “Armet guarda, guarda amico mio, sotto la lente!! Sotto la lente!” “Filippo II per Agnes Ma ...”. “Sarà un pezzo davvero vecchio, e allora?” “Queste cose non possono esistere, non qui almeno, tutta la flotta dovrebbe essere in fondo all’oceano col suo carico d’oro. I pirati avevano recuperato solo due degli carichi dei galeoni di sua maestà ma si parlava di dobloni e non di gioielli. Questo cimelio potrebbe cambiare il corso della storia e mettere in condizioni di capire l’entità del tesoro di Filippo II.” “Ma dai, potrebbe essere un ottimo manufatto di un orafo ispirato all’eredità spagnola del primo Rinascimento.” “Ascoltami lasciamelo e ti prometto una buona e discreta perizia.” “Senti Charlie, vorrei solo capire cosa ha portato Mary Ann ad un cambiamento così drastico.” “Forse il tuo uccello. Brutale ma veritiera scoperta. La ragazzina in mancanza di affetto paterno ha trovato il suo sostituto.” Billy rideva da sotto i baffi lottando con l’orlo della maglia e questo più che il sapere di essere preso in giro mi dava sui nervi, sebbene sviasse sempre lo sguardo, i miei occhi lo fissavano come se lo volessero fulminare. “Allora cosa si fa? Io avrei un altro bagaglio da leggere, saranno circa duecento fogli e tutti in disordine. Andiamo da Brixen o aspettiamo la ricerca di Charlie?” Charlie che aveva colto il mio sguardo rideva a sua volta guardando il disagio di Billy che si sistemava per l’ennesima volta la maglietta. “Ragazzo fatti dare un cambio da Armet e falla finita!”, scivolava il passo di Charlie nel corridoio verso la mia camera da letto. “Birdy posso?” “Andate avanti, io nel frattempo, tiro fuori un po’ di documenti, credo converrebbe che ce li portassimo dietro.” Ma nessuno mi stava ascoltando, Billy era intento a sfilare con le mie vecchie maglie del college mentre Charlie disattento alle sue considerazioni sulla moda, ispezionava il suo miracoloso reperto d’arte. Mi stavo occupando della scelta ragionata dei fogli e degli articoli da giornale, più significativi; Cassius avrebbe dovuto essere in veranda al solito posto invece mi ero accorto di non averlo visto da quando Mary Ann era arrivata. “Cassius!”, il silenzio come risposta non m’era mai piaciuto questo fu quanto bastò a Billy per correre dalla camera ed iniziare a cercarlo come con un fratello più piccolo ma di Cassius nemmeno l’orma. Aprimmo la porta ed ispezionammo la strada, Charlie fece un giro in macchina per tutto l’isolato; il cane era scomparso come se fosse stato inghiottito dall’aria. Il mio umore già affetto dalle differenze di personalità di Mary Ann, stava lentamente scivolando verso un abisso nero e senza fondo. Charlie provò a rincuorarmi ma Billy, Billy che lo conosceva da quando era cucciolo, mi capiva. Cassius non era un cane, era uno di noi, il nostro bambino, uno di cui dovevamo prenderci cura perché gli volevamo bene ed adesso ci sentivamo nudi nello spirito e smarriti. Doveva essere la giornata delle risposte invece fu quella che alzò più di tutte, castelli di domande. Quando il sole era tramontato mi trovai da solo in casa ed abbastanza pensieroso. La lontananza dall’unico affetto che mi era rimasto mi privava di qualsiasi energia. Billy aveva promesso di farsi sentire dopocena ma non si fece più vedere e Charlie era partito in fretta per Miami con la promessa che sarebbe tornato il giorno dopo con la sua perizia. Le mie mani sfioravano la tastiera del cellulare, chiamare o no Mary? Il grande dilemma della giornata dopo la scomparsa di Cassius. Mary aveva lasciato una voragine nella mia ragione. Con chi avevo fatto l’amore se non con lei, lei che sembrava soffrire di uno sdoppiamento della personalità. Il mare, Conrad, i fantasmi, Mary, il Vecchio Municipio, Goth, tutti quei soggetti che dissacravano la mia analisi e l’intera struttura della mia esistenza ordinata, contribuivano ad alimentare un folle progetto che doveva avere sicuramente un fine. Chi o cosa traeva vantaggio da quelli strani eventi? Charlie era il genere di uomo che preferiva farsi mozzare una mano o entrambi piuttosto che tradire il suo paese od un amico, Billy invece, era un ragazzo talmente coscienzioso e per cui che mi sarei buttato nel fuoco che alcuna ombra avrebbe potuto denigrarne il carattere. Credo, ci siano persone cresciute con dei propri principi come l’onore e non perché inculcati dai genitori ma guadagnati con la stima altrui ed era così che funzionava tra me ed i miei amici. L’atmosfera della casa era tetra e l’aria pesante, i fantasmi da cui stavo scappando mi avrebbero seguito anche nei sogni; questa cosa era solida certezza. Avevo frugato nella storia della mia città come un figlio che guarda nel cassetto dell’intimo della mamma e mi sentivo sporco e colpevole. Lo so che non avrei dovuto avere dei rimorsi ma tutte quelle indagini mi si stavano rivoltando contro. Mi sembrò di vedere un’ombra attraversare la sala e mi spaventai a tal punto che corsi fuori di casa con la scusa di cercare Cassius e con la speranza che il male non mi inseguisse. Non avevo nascondigli ed invece di prendere le chiavi della macchina per andarmene dovetti correre verso la città lungo la passeggiata del lungo mare illuminata a giorno sebbene nessun folle fosse a camminare a quell’ora della notte. Una pattuglia mi fermò dopo avermi scambiato per un drogato o un alcolizzato; dissi loro di essere uno scrittore in cerca d’ispirazione. Qualunque fosse stata la spiegazione sarebbe comunque stata bizzarra, chiunque si sarebbe domandato perché un uomo senza sonno percorresse le strade della città alle due del mattino. Soffrivo come una bestia, come se mi avessero frustato l’anima per poi buttarmi sotto il sole in pasto ai corvi. Dovevo recuperare la lucidità e risolvere, se c’era qualcosa da risolvere, quel tassello dell’ingranaggio che rovinava sempre tutto, quest’ allusiva solitudine mi stava spingendo verso qualcosa mo conche io o la mia mente non potevamo controllare. La nottata non era finita, camminavo lungo il muro della spiaggia con il rumore delle onde nelle orecchie. Non c’era nulla di romantico in quel ritmo spossante e perpetuo. Nemmeno la luce del faro rischiariva i fantasmi liberi di infestare nel mio capo. Da qualche parte della città c’era stato un incidente. Le auto dei pompieri attraversarono a grande velocità la Main Road e poi il lungomare. Qualcosa era accaduto nella zona del porto, sicuramente vicino a casa mia perché le sirene sembravano tutte concentrarsi nello stesso punto. Mi dispiaceva per quella gente, di disgrazie non ne volevo più sentire parlare, in quel momento ogni piccola ombra mi pesava come un macigno. Tornai a camminare verso casa intento a riprendermi la sovranità sulla mia abitazione. Avevo le tasche piene di fogli e di carte come un fuggitivo che si porta via il suo materiale prezioso. Davanti ai miei occhi si apriva un orrore ancora più grande dei precedenti. Le fiamme e il fuoco stavano devastando una povera casa; la via era stata bloccata dai tre camion dei pompieri e dalle auto della polizia. Il frastuono delle sirene sovrastava a malapena quello del fuoco che si stava masticando con calma il legno del tetto e delle pareti. In quella direzione sembrava fosse spuntato il giorno e la luce giallastra delle fiamme si alzavano minacciose spinte forse dal vento verso le altre abitazioni. Tiravo avanti spinto più da una premonizione che da una solida idea e la camminata dopo un po’ divenne corsa. La mia casa era andata a fuoco! Tutti i miei vicini, chi in camicia da notte e chi in pigiama, come spettatori di un film guardavano in silenzio la morte dei miei ricordi. Avevo gli occhi lucidi ma le lacrime faticavano a scendere. C’erano cose tremende che mi avevano colpito nella vita, cose di cui stentavo a elencarmi i ricordi e questa sarebbe finita in quell’angolo di memoria dove non sarei più voluto andare a pescare. Ci sono stanze nella nostra mente di cui volentieri apriamo le porte e altre che contrassegniamo come posti indesiderati o peggio come infestati. Quello che bruciava davanti ai miei occhi non era semplicemente una casa, era un pezzo importante della mia vita e della mia vita con Sandra. La cenere non era forziere perfetto per certi tesori che si mantecavano alle linfe dell’amore e della riconoscenza. Io stesso potevo dire di non avere più un’identità. Le fiamme si erano prese i documenti, i manoscritti, oggetti e suppellettili raccolti in decenni di girovagare per il mondo. La mia perfezione era stata spazzata via da una scintilla, chi poteva essere il colpevole di tanta malvagità. Qualcuno mi stringeva la mano, delle donne premurose e in vestagliette colorate da casa, vennero con tazze profumate di caffè o tè per confortarmi. Vicini sinceri e severi col Fato, per quel miscuglio di disgrazia e atto criminale. Ricevevo una marea di abbracci da sconosciuti imbarazzati e col volto preoccupato. I pompieri erano in continuo assalto al fuoco, dodici uomini avevano circondato le macerie coi getti d’acqua mentre la polizia sorvegliava e tranquillizzava la gente del quartiere. Fui interrogato un paio di volte sulle mie occupazioni casalinghe e sebbene fossi poco lucido, ricordo di aver risposto di non aver appiccato volutamente il fuoco a casa mia alche mi dissero che forse ero stato preso di mira da qualche banda. A me poco interessava che loro sommassero gli eventi di vandalismo di cui ero caduto vittima comunque, non riuscivo a stare da solo, ogni tanto qualcuno si faceva avanti per starmi vicino o per chiedermi se avevo bisogno di qualcosa. Molta di quella gente di cui vedevo per la prima volta in vita mia, la faccia, mi aveva offerto una casa, una stanza per dormire finché non mi sarei sistemato, vestiti, vitto e certezze famigliari. Non avevo nemmeno la forza di provare rancore, stavo con gli occhi fissi sul crepuscolo della mia vita cercando di immaginare come sarebbe stato il dopo. Immerso più che mai nel fumo del mio futuro, vidi un ragazzo robusto col casco bruciato attraversare le fiamme per poi lanciarsi dalla finestra con un fagotto fatto di coperte tra le braccia. Qualcuno lo indicava, qualcun altro applaudiva, altri ancora urlavano attenzione! Io solo inebetito non riuscivo a capire cosa o chi quell’uomo portasse fuori dal mostro ardente. “Cassius!!!”, la voce di Billy dietro le mie spalle mi sembrò quella di un angelo e la sua corsa verso il pompiere mi fece capire quanto bene volesse quel ragazzo al mio cane. Cassius era solo spaventato e soccorso dal personale delle ambulanze che non avevano altri feriti, si fece un ripieno di coccola prima di corrermi incontro come un figlio verso il padre. Penso di aver pianto e di aver così esaurito tutte le lacrime trattenute in troppe occasioni. “Dove sei stato monello?”, e Cassius mi guardava ignorando il tono preoccupato della mia voce. Il pompiere che lo aveva salvato mi disse di averlo trovato in una scatola di cartone in una stanza piena di fogli che avevano fatto da micia per tutte le pareti di legno della casa. “Forse una scintilla. Un contatto elettrico altrimenti non mi spiegherei questo disastro”, disse lui pulendosi col dosso della mano la fronte nera. Billy mi rubò il braccio per farmi un discorso molto serio, e dico molto serio perché fece cenno con gli occhi di sviare la polizia sempre ansiosa di farmi domande senza senso. “Ho idea che dovremmo andare via di qui, so che ti senti male ma ho delle novità. Charlie ha chiamato dicendomi non solo di non averti trovato ma di portarti via perché qualcuno sarebbe venuto a farti del male.” “Del male?”, tenevo Cassius in braccio come se temessi di perderlo. “Adesso arriva, dovremmo farci trovare al porto. Fai attenzione alla polizia, questi sarebbero capaci di trattenerti giorni interi per l’ennesima spiegazione. Penseranno che il fuoco l’hai voluto appiccare tu, vuoi per depressione, vuoi perché non sono stati in grado di trovare altri colpevoli.” Le nostre gambe correvano tra il muro di gente che fissava impotente i resti di una casa. eravamo arrivati al muretto che correva lungo il mare e l’odore di legna bruciata non aveva risparmiato nemmeno quella zona. L’auto di Charlie arrivò sulla corsia opposta, ci stava segnalando con i fari di salire in fretta e trovammo le portiere aperte come se fosse una corsa fatta da rapinatori o mal viventi. “Salite! Bisogna andare!” “Dove?”, domandammo noi presi dal peso del cane che non riuscivamo a distribuire equamente. Charlie continuava a guardare nello specchietto retrovisore aspettando che da un momento all’altro arrivassero gli inseguitori. “Che c’è Charlie?”, gli domandai stringendogli le spalle. “E’ bruciata la casa di Armet ma abbiamo trovato Cassius!”, arrivò la voce di Billy a coprire la mia. “Lo so, l’ho visto il cucciolone, tutto bene spero ma so che dobbiamo allontanarci altrimenti …”. Delle luci si appiccicarono al nostro parafango. Charlie provò ad accelerare ma l’auto nemica ci urtava continuamente ed era impossibile capire chi la guidasse. “Dai gas Charlie e intrufolati sulla settima, la so di un paio di viuzze a senso unico in cui è facile far perdere le proprie tracce.” “Billy ma tu come fai a conoscerle?” “I bravi ragazzi devono imparare a difendersi con l’astuzia dalle bande incontrate per caso.” La nostra auto cominciò a volare con i fari spenti tra una decina di strade e in meno di due minuti eravamo fermi dietro un cassonetto mentre gli altri sicuramente ci stavano ancora cercando. Allora Charlie ci raccontò della sua esperienza a Miami e noi a bocca aperta ascoltavamo tutto quel racconto come se fosse una cosa irreale. Charlie non era mai stato uno smilzo sebbene la sua ossatura fosse indicata per figure più longilinee, lui era un omone e si comportava sempre in modo protettivo, aveva insomma quel fare da gigante buono che fa sentire al sicuro chiunque lo frequenti. La sua mano aveva lasciato il volante per girarsi verso Cassius che stentava a dormire, gli fece un paio di carezze sotto il grugno per poi guardarci in faccia preoccupato “A Miami sono andato come vi avevo promesso. La cosa poteva non avere seguito se non avessi deciso di passare a salutare un mio vecchio collega del FBI in pensione. Presi solo un caffè giusto per fare due chiacchiere e aspettare l’esito della perizia sull’orecchino. Dopo due ore di attesa ricevetti una veloce telefonata da uno sconosciuto che non potrebbe avere il mio numero, salvo che non fosse della CIA o un agente investigativo come me. Il tizio in questione mi lanciò un avvertimento, se tu non avresti smesso di indagare sugli scomparsi di questa città e zone limitrofe ti saresti trovato presto in un mare di guai. Che genere di guai?”, gli domandai io per nulla toccato dal suo comando. La voce mi rispose che c’erano cose che dovevano restare sepolte e la vita di un povero scrittore non valeva di certo secoli di riservata custodia. “Ma dai non siamo mica nel medioevo”, ma vidi che Charlie non sentiva più la mia voce perché troppo immerso nel suo racconto. “Sentite io non sono un uomo dall’immaginario generoso, poco m’interessa quali mostri possono generare gli illustratori di fumetti o gli ingegneri che progettano giocattoli, ma quel tipo non teneva conto di nulla degli aspetti reali della nostra vita a lui interessava solo che le carte in possesso di Birdy non trovassero altro sbocco che un buon fuoco dentro un camino.” “Dai, una voce non può uccidere!” “Però Billy, dissi io, una voce può farti bruciare la casa.” Charlie rimise in motto e accese i fari.
“Voi non avete sentito cosa vi ho detto o meglio non avete capito la sfumatura. La voce è di un altro agente che sa su cosa stai indagando e non so perché vuole che fermi tutto altrimenti …”. “C’è davvero qualcuno in questa città che teme i fantasmi di mare?” Billy annuiva senza sentire il bisogno di rispondermi e Charlie aveva capito che la miglior risposta era il silenzio… Il mio vero pensiero era che a qualcuno importava sul serio di quei foglietti che mi portavo nelle tasche come se il loro contenuto fosse portato a rivoluzionare un qualcosa che altri volevano tenere segreto, insomma una vera e propria storia di spionaggio.
9
I fantasmi di Icony e Idony
Non dormivo da quarantotto ore e la mia insonnia seguitava ad analizzare i dati che alla mente erano rimasti privi di risultato. Conrad, Mary Ann, l’ex sindaco Brixen, Goth e Icony erano le mattonelle di un edificio fragile come un castello di carte. Chiunque volesse intromettersi tra me e le mie pseudo indagini avrebbe trovato davanti a se un osso altrettanto duro. Stavamo viaggiando a vuoto, entrando e uscendo dalla statale 88, attendendo l’alba e di conseguenza il traffico; sarebbe stato molto più facile far perdere le nostre tracce in una città affollata. Billy fece il punto della situazione mentre i miei occhi socchiusi cercavano un cuscino immaginario, su cui appoggiare il peso del sonno e riuscire a fare una dormitina anche di dieci minuti soltanto era diventato prioritario. Sentivo a tratti la voce di Billy che elencava le sue ipotesi e le ricerche divenute oramai fondamentali in quest’ assurda vicenda. Tutto era partito da due cartoni spediti da chissà chi ed eravamo arrivati alla distruzione della casa e conseguenti minacce di morte. Avevo sonnecchiato per mezz’ora quasi che mi ritrovai da solo in macchina, persino Cassius era scomparso e una forte emicrania m’impediva di girare la testa. Ero arrivato a un punto, dove poteva succedermi di tutto che non avrei opposto la minima resistenza. Spossato e molto stanco cercai di allungare le gambe ma le ginocchia fecero un rumore pericoloso così aprì la portiera decidendomi finalmente di prendere una boccata d’aria. La strada era vuota ma c’eravamo fermati davanti ad un bar da dove arrivava l’odore inconfondibile di cipolla fritta. La faccia sorridente di Billy fece la sua comparsa da dietro la porta aperta. “E’ l’ora della prima colazione capitano, il suo cane ha già divorato due hamburger e le uova stanno sfrigolando sulla piastra. Caffè dolce o amaro?” “Amaro, grazie, e mi alzai ascoltando lo strano e doloroso rumore delle mie ginocchia, doppio e forte per favore.” Charlie col suo capello si paglia sembra un qualsiasi turista fermo al primo pit-stop prima di Miami. Il suo piatto era pulito, segno che mi aveva aspettato e dalla tazza davanti a se proveniva il buon odore di caffè. Cassius pieno come una botticella stava sdraiato a zampe davanti con la lingua fuori dalla bocca. “Hai faticato come nessuno, eh vecchio mio, masticare la carne è un duro lavoro?!”, e si prese altre carezze come se gli fossero dovute. Avevo i nervi a pezzi e perfino il rumore delle posate mi sembravano colpi di martello contro le mie tempie. Charlie faceva finta di nulla e seguitava a guardare fuori dalla finestra; lo feci anch’io ma notai, solo impronte di unto colato fino sotto il serramento e infiniti escrementi di mosche sparsi come puntini scuri dissacrati dall’olio delle centinaia di fette di pancetta cotte ogni giorno. “Dico di andare da Brixen!”, esclamò euforico Billy togliendo al silenzio la sua calma riposante. “Io dico di andare al vecchio rudere di Goth.”, la voce di Charlie conservava quella cadenza tranquilla che in qualche modo mi consentiva di rilassarmi. “Tu che dici Birdy?”, ma io non lo ascoltavo, sentivo la mie gambe muoversi e scendere per la scalinata a chiocciola che portava alle cantine del Vecchio Municipio, e scendevo, e scendevo sfiorando con i palmi delle mani le pareti umide, leggendo coi polpastrelli dei strani segni che sembravano i caratteri di un’antica lingua; ogni tanto mi arrivava un ronzio nelle orecchie, delle lontane voci che volevano trascinarmi con se verso un’altra dimensione, una dimensione che non mi apparteneva perché qualcosa o qualcuno sapevo mi aspettava alla fine di quella discesa. “Birdy?!” “Birdy!! Stai bene?” Appena aprì gli occhi, senti la luce come una fiamma ustionante. “Armet, mi parlava preoccupato Charlie, sembravi svenuto, completamente catatonico.” “Ho visto la legge.” “Che significa? Che cosa hai visto? Ti sei addormentato.” “Vi dico che ho visto la legge o almeno la mia mente ha interpretato così quel sogno, dove voi eravate delle voci irreali e il vivevo in una dimensione del passato, una dimensione che a cui sentivo di appartenere.” “Sì ma che c’entra il libro della legge?” Billy era impaziente come al solito di sapere il finale di quello che pensavo o di quello che scrivevo. “Il libro dei codici del mare. Un codice dove chi non vuole morire per volere del mare, resta un’anima maledetta a servizio di Goth.” “Una Bibbia per i marinai?”, Charlie tornò ad osservare il suo orecchino. “L’impulso mi dice, una Bibbia per tutti i viventi che sfidano le forze del mare. Ma andiamo se no rischio di addormentarmi ed entrare in chissà quale incubo.” “Ma dove andiamo?”, fu il coro dei due nelle mie povere orecchie. “Prima alle rovine, dobbiamo cercare il codice e poi da Brixen. Avrei un’idea che appena sviluppata ve la mostrerò.” Charlie teneva le chiavi della macchina come un apostolo, il sacro calice, “Sì, ma vedi di raccontarcelo prima che questa storia prenda una piega peggiore, qui ci sono di mezzo le spie del governo, la marina, i fantasmi e persino una leggenda. Se non fosse vero, direi che è una storia di spettri per bambini”, e le chiavi finirono nel quadro dell’accensione. “Tu sei un agente segreto mi dici come fai a temere i tuoi colleghi?” “Io non li temo, io temo chi li comanda perché è gente che non si ferma a intimidire, qui c’è di mezzo la tua vita e non capisco qual è l’anello mancante di tutto questo?” Sospirò prima di mettere il piede sull’acceleratore. “Quei dannati documenti sono le fondamenta di una storia vera, un qualcosa che vogliono tenere nascosto o vogliono scoprire; a noi interessa uscirne vivi e sinceramente non so come possa accadere.” Ci sono forze di mezzo che ci spingono verso una verità ignota e ci sono altre forze che sembrano dirci di non avanzare altrimenti, l’auto era già arrivata sulla panoramica quando tutti leggemmo uno striscione a sei metri sopra le nostre teste, «Fai che il tuo 8 Luglio sia una vera festa! Unisciti al mare, potrai così trovare la pace nella morte. Il Divoratore ti ama e ti aspetta.» “Ehi ragazzi ne ho lette di cazzate ma questa le batte tutte!” Billy aveva il capo fuori dal finestrino per rileggere a rilento quella frase. “Che oscenità! Direi di più di un cattivo scherzo”, parlava Charlie senza nemmeno scomporsi, col suo flemma anglosassone e parecchio ironico. Quel tipo di sarcasmo che si apprende solo vivendo in certe regioni della terra di sua maestà, grazie ai massicci quantitativi di pioggia ed alle lunghe giornate nebbiose. “Fammi rivedere. Ehi ma non c’è più!”, e la mia voce fu come una pietra sulle loro teste. Stavamo andando alle vecchie rovine. Io avevo conservato tutte le carte del secondo scatolone e un foglio con un promemoria del primo. Non potevo e non volevo pensare alle cose andate perse nell’incendio se no, sarei crollato definitivamente come quel ragazzo posseduto dalla bambola del demonio. Charlie guidava fingendo una tranquillità superiore alla nostra. “Come nell’esperimento Philadelphia!”, disse eccitato Billy. “Qui c’è qualcosa che il governo ha fiutato e forse quella cosa che ha fatto scattare la scintilla sono i due scatoloni andati bruciati nell’incendio. Pensate a questa cosa: il governo per anni ha classificato in dei file segreti delle sparizioni nel mare e non sparizioni qualsiasi ma quelle, dove gli uomini sono tornati in qualche modo mutilati o impazziti. Questi dossier sono stati oggetti di verifica per gente priva d’immaginazione o forse a sua volta scomparsa, non restava che provarci con un comune cittadino, magari uno preparato in materia che avrebbero prima usato come cavia per poi abbrustolirlo o peggio farlo fuori.” “Billy, dovresti fare l’agente segreto!”, dissi io a quel giovane fenomeno che divenne per me un soggetto d’ammirazione. “Aspettate! C’è di più. Credo che a loro manchino dei dati, forse qualcuno ti ha mandato delle prove uniche come se loro non avessero nemmeno una copia e la peggior cosa è che a loro queste prove servono solo nel caso tu arrivi a scoprire qualcosa.” “Ma come fanno a seguirmi?” Charlie fermò la macchina sul ciglio della strada. “Ti mandano una ragazza di nome Mary Ann, te la mettono nel letto e poi a fanno sparire così tu continui a fare il loro gioco cercando di scoprire tra le rovine ed i misteri di quelle carte la verità su questa città o su chissà quale mostro esistito qui o altrove. Tu hai delle capacità e loro l’hanno intuito.” Passammo più di tre ore in silenzio mentre l’auto sfrecciava sulla panoramica. Ogni tanto i nostri occhi ammiravano la limpidezza del cielo che sposava un mare calmo, vicino all’orizzonte. Guardandola così, la natura sembrava un’innocente vergine capace solo a sfiorarti i pensieri con notti profumate e desideri inconsci ma reclamando alla ragione certi avvenimenti convenivo che la natura aveva la capacità di trasformarsi in un mostro dalla forza sovrannaturale e incontrollabile. Il tempo passava ma non abbastanza velocemente come avrei voluto, come avrei desiderato. Volevo risolvere questa dannata questione, anche se il risolverla, non mi avrebbe riportato indietro la casa e i miei ricordi, né mi avrebbe premiato per la fatica fatta. Avevamo superato i confini virtuali di Icony ed eravamo entrati in Idony; la strada non aveva cambiato panorama solo le abitazioni erano diventate a mano a mano più rade fino a scemare una decina di miglia prima del confine. La terra era bruciata e la poca erba che cresceva sulla collina era bassa e tappezzata di piccoli fiori dal colore sgargiante. Sotto di noi il mare che s’insinuava tra la scogliera spaccando onde gigantesche per impressionare l’osservatore. Billy aveva portato con se delle vecchie cartine della presunta città scomparsa, cartine che potevano servirci per un primo orientamento. Charlie se ne stava per i fatti suoi e noi per quanto possibile cercavamo di rispettare quel suo bisogno, era così assorto dai suoi pensieri che fissava la strada, stralunato, lasciando che le mani lo guidassero lungo la striscia dello spartito traffico, una volta di colore bianco. Quella desolazione non aveva nulla di umano o di affascinante. Mi domandavo come mai non avessero iniziato a costruire anche da quelle parti in fondo la lunga costa offriva panorami mozzafiato e tramonti sul mare sicuramente incantevoli. Non mi andava di pensare alla terra come a una cosa maledetta ma dato il deserto di anime intorno a noi capivo che avrei dovuto iniziare a vagliare anche quell’opportunità. Credere in una cosa è opinabile ed io ero arrivato a credere che intorno a noi, ci fossero cose per cui volevamo restare ciechi, non perché non meritassero, essere viste ma perché vederle, ci avrebbe spronato a capire e certe verità hanno il dono di fare impazzire la gente. Sandra mi diceva sempre che avere una coscienza consolida il fatto di poter valutare appropriatamente l’ignoto, eh quante cose mi mancavano di quella donna, quelle piccole cose che riempiono la giornata e ti rendono soddisfatto della vita che fai. Mi era stato difficile abituarmi all’assenza ed il vuoto che oramai supplico coi ricordi come con un vacuo placebo, il vuoto aveva preso il posto della mia sposa. Eravamo arrivati come esploratori nella terra dei nostri antenati con l’intento di scoprire cosa fosse leggenda e no. Il fascino dell’ignoto aveva smesso di esercitare in me quella sottile e trascinante forza di attrazione ma guardavo Billy e mi sembrava di vedere in lui un me, più giovane e libero dalle catene del tributo scientifico; lui usava l’immaginazione e la coerenza, come, io le mani su una tastiera, era veloce quel ragazzo e abile a captare le stranezze che si presentavano intorno a noi. “Da qui dovremmo procedere a piedi, parlava Charlie mentre si scollava mezza bottiglia di acqua tutta d’un fiato, i sentieri sono molto stretti e la natura poco generosa con i suoi ospiti. Se sentite o vedete qualcosa d’inusuale gridate, non affrontate nulla da soli, io detesto questo posto con tutto me stesso e credetemi non so perché e non voglio doverlo scoprire impreparato.” Tirai fuori uno dei documenti ancora non letti del secondo scatolone e lessi loro dei passi. “C’è una voragine sul fondale marino che i marinai battezzarono più di duecento anni fa la Bocca del Diavolo. A quanto pare Idony ne aveva una più piccola e Icony una maggiore la Grande Bocca del Diavolo, credo che sotto il vecchio faro ci sia una pietra dove scrissero: «MORIRONO TUTTI NELLA GRANDE BOCCA DE DIAVOLO E NON RIMASERO CHE POCHE MISERE TAVOLE DELLA LORO IMBARCAZIONE. NESSUNO SA CHI ERANO, NESSUNO CONOSCE IL NOME DELLA LORO NAVE MA LE CENTINAIA DÌ VOCI URLANTI ED IMPLORANTI CHE SI UDIRONO QUELLA NOTTE ECCHEGGIANO ANCORA NELLA BAIA. STATE LONTANI DA QUESTO POSTO MALEDETTO.» “Mi piace tanto quel posto, d’estate mi facevo portare da mio padre ogni fine settimana proprio perché sa di insano e perché i denti degli scogli sembrano aguzzi come quelli di un mostro.” Charlie ascoltava Billy e annuiva seriamente. “Sai che hai ragione ragazzo. Avevo la tua stessa passione tant’è vero che passavo sempre prima di andare a scuola in bicicletta, tagliando per la statale fino al Vecchio Faro e restavo una ventina di minuti a contemplare quella pietra come se fosse un talismano o qualcosa di simile.” Mi guardarono entrambi. “Si anch’io facevo la stessa dannata cosa, quella pietra chiamava tutti noi come se volesse farsi ammirare o che ne so, farci sentire la sua prepotente verità.” “Quel pezzo di pietra potrebbe essere stato messo li per fare paura, per fare paura a tutti noi, a tutti quelli che osavano entrare nelle faccende segrete della città.” “Tutto è possibile Billy e temo che questi oggetti sparsi per Icony non siano delle lapidi ma degli ammonimenti da parte di qualcuno che aveva capito cosa succedeva da queste parti.” Avevo nuovamente iniziato a leggere dai fogli sconosciuti cercando di rendere partecipi anche gli altri due che erano più lontani da me, cosa che mi costringeva ad alzare la voce. “Dicono che la Baia si sia formata dopo l’impatto di un meteorite, un grosso meteorite finito nell’oceano. L’ultima equipe di scienziati giapponesi aveva datato l’orlo di quell’abisso inesplorabile a circa un milione d’anni fa ma sicuramente quello che c’è la sotto, è molto più antico dei dannati dinosauri. Esplorata o no, quella che venne chiamata la Bocca del Diavolo, divenne una trappola per molte imbarcazioni che lasciarono dietro di se solo interrogativi. L’area è molto più circoscritta del Triangolo delle Bermuda e la sua cattiva fama è minore ma non per questo meno cruenta. Da quello che so, e grazie ai miei amici della Guardia Costiera quasi tutti in pensione, l’area si estende per trenta miglia a due gradi sud dall’isola del Faro. Un posto infame perché è l’area dove gli uragani potenziano il proprio ruggito e dove i venti acquistano velocità prima di arrivare sul continente a mordere. Queste teorie potrebbero sembrare infantili se non ci fossero i racconti di più d’un migliaio di persone che dicono di aver avuto esperienze terribili in questo posto.” “Qui c’è tanta di quella storia da scoprire solo che qualcuno ha coperto le tracce così come si fa con un affare losco oppure un crimine.” “Ehhe ragazzo, disse Charlie cercando di mantenere il passo, sapessi quanti crimini passano davanti ai nostri occhi ogni giorno e quanti non cercano più nemmeno di coprire le loro tracce. La gente oramai non condanna più come una volta i crimini dei criminali, molti di loro guidano il nostro paese come se l’infamia avesse più forza dell’onestà. La gente è talmente presa dalle proprie abitudini e dai propri problemi che sfoga la propria impotenza comprando cose per apparire piuttosto che a difesa della propria vita o collettività. Viviamo nella trappola del virtuale, disputando incontri e persino sesso virtuale. Scoprire civiltà perdute non affascina perché è un affare dove non si tratta di sesso o di soldi. La cultura, amici miei, la cultura è un sacrificio che piace ai pochi superstiti della tecnologia. Prendete me ad esempio, io scrivo ancora lunghe lettere ai miei amici che invece, preferiscono mandarmi le mail come se stare in contatto con una persona cara o l’affetto fosse un alimento da fastfood. Io passo ore a cercare ricordi divertenti e li metto lì per iscritto poi li spedisco a mia moglie che mi dice di essere il suo eterno fidanzato. Le cose losche piacciono e piacciono parecchio ma dove è necessario lo studio e non c’è nessuno che mette mano al portafogli allora questa cosa non piace più ad alcuno.” Vedemmo delle pietre poste a spina di pesce. Erano sicuramente delle vecchie rovine ma era difficile capire di quali rovine si trattasse. Nessuno volle perdere altro tempo intorno a loro perché la meta erano le rovine in cima alla collina o quello che restava della fortezza di Goth. Avevo sentito le parole di Charlie ed avevo capito quanto erano commoventi ma quella emozione non bastava a fare luce sul buio nella mia testa. Pensavo costantemente a Conrad, a Mary Ann, a cosa realmente si festeggiava l’8 Luglio, chi erano Icony e Idony, alla casa che non avevo più, al cerchio d’acqua, ai segni sul muro che vedevo nei miei sogni, alla genesis di quelle due città legate tra loro da un macabro segreto. Mi domandavo a chi interessava farmi perdere il senno e perché darsi, così disturbo con un innocuo scrittore.
Eravamo ancora in basso e avevamo iniziato la salita ma alzando gli occhi in direzione est si vedeva bene il muro di cinta e parte della torre semi distrutta. La strada nonostante fosse impervia, sembrava ci aiutasse e fu di conforto il fatto di vedere che la vegetazione fosse diventata all’improvviso rigogliosa. “Anche sulle tombe cresce l’erba”, pensai fissando quella pietra silente con le sue finestrelle buie, dietro di cui chissà quale fantasma ci stava aspettando. Mi venne in mente il pezzo di un giornale che diceva in parte così: la tua città ti vuole bene ma se tu la denigri ebbene potresti trovarti a vivere in una prigione e senza porte o finestre ma peggiore perché fatta di occhi e di voci. In quel posto mi sentivo prigioniero del vento che non mollava un attimo e dell’incertezza. Billy come sempre aveva il passo leggero e nonostante portasse il fardello di uno zaino di circa venti chili, la sua gamba sembra non affaticarsi mai nemmeno dopo due ore di camminata ed una di salita. Ero contento di aver lasciato Cassius nella patria degli hamburger in compagnia di una meno giovane bulldog ma sicuramente meglio dello stare in auto a cuocere sotto il sole per chissà quanto tempo. Quel affidamento mi aveva fatto capire l’importanza di una casa ed al rientro avrei dovuto provvedere a cercarmene un’altra anche se Charlie ed i genitori di Billy avevano insistito che mi fermassi per un po’ e come ospite da loro. Avevo bisogno della mia intimità e delle poche cose che forse si erano salvate, ma questa sarebbe stata una più dura battaglia. Dovevo tornare ancora alla polizia, poi l’assicurazione e tutti i problemi burocratici che ne deriva da una situazione così complessa. Io avevo solo un piccolo sacchetto con una bottiglia d’acqua per metà vuota, una grande torcia perché avevo imparato dalla precedente esperienza che non basta un fiammifero per illuminare la notte eterna, e sette metri di fune che non capivo a cosa mi sarebbe servita ma che Charlie aveva insistito che prendessi. Arrivati in cima al sentiero ci trovammo davanti un immenso giardino fitto di rami e di fogliame. “Caspita come cresce in fretta la natura da queste parti!” Charlie cercò di orientarsi lasciandoci un po’ di tempo per bere ed a me per sedermi sopra un pietrone cosparso di buchi e muschio. Avevo interrotto la comunicazione tra i miei battiti ed il fiato, persino le braccia sembravano eccedere di peso tanto che le lasciai cadere con un gesto di sovrumana impotenza. Il sacchetto cadendo fece un rumore spaventoso ed il vento in quel momento amplificò la cosa risuonando come una risata acuta ed isterica tra i muri del palazzo. “Birdy, aspettaci qui andiamo a perlustrare la zona ok?” Feci solo un cenno di affermazione col capo poi tornai a guardare lo spazio sotto di me dove la natura verde incontrava quella bruciata e dove quella bruciata si prostrava al mare. Restai per mezz’ora da solo quando il grido di dolore forse di Charlie mi fece trasalire, corsi nella direzione dell’urlo cercando di spostare i rami che mi frustavano il viso e di scavalcare le enormi radici in cui cadevo come se fossi un bambino incapace di evitarle; quel posto ce l’aveva con me lo sentivo. Dopo aver pensato questo ricordavo le parole di Charlie, lui le aveva dette prima di me e sicuramente ci doveva essere qualcosa di vero in quella assurdità. Non eravamo molto lontani dalla Piccola Baia del Diavolo ed il fragore del mare che si spaccava sugli scogli era spaventoso ma quella risata non era effetto del vento tra gli scogli e quel grido di dolore non era irreale. Charlie giaceva a terra con le mani strette intorno al polpaccio che gli sanguinava. Gli era penetrata nella carne una scheggia di legno e sul suo volto leggevo tanta sofferenza. “Dov’è Billy?”, gli domandai. “Non so, prima era con me poi è sparito dietro la rampa a chiocciola che non porta da nessuna parte.” “Se stai fermo tiro fuori la punta e poi ti lego stretta la maglietta che hai sotto.” Lo bendai come una premurosa infermiera e poi decisi di prenderlo sottospalla piuttosto che lasciarlo da solo in quel posto. Andammo alla ricerca di Billy che sembrava essere stato inghiottito dalla vegetazione o assorbito dalle pietre dei muri di cinta. “Andiamo più su, mi esortò Charlie, è li che c’è la stanza del camino. Devi vedere anche tu.” Arrivammo alla stanza del camino e la luce fu a favore nostro perché le iscrizioni rimaste sul profilo del camino, erano strane e multiformi. Alcune sembravano onde di mare o teste di pesci che inghiottivano qualcosa, altre dei polpi con i tentacoli che indicavano un punto ovviamente andato distrutto con l’intero edificio. Presi una biro e copiai i segni sopra i fogli che tenevo in tasca. “Questi devono dirci qualcosa. La persona che viveva qua dentro era circondato da questi segni giorno e notte come se fosse un incantesimo. Probabilmente avevano il potere di narrare l’intero vissuto di un personaggio appartenuto al mare. Se guardi bene Charlie assomigliano a dei geroglifici.” Ma Charlie che non aveva perduto l’interesse della cosa, si teneva la gamba cercando di trattenere i lamenti di dolore ed annuiva a denti stretti conservando illibato il suo lato eroico. “Cavolo Charlie credo che diventerai un eroe, guardati nemmeno un marines sopporterebbe stoicamente e senza nemmeno un lamento.” Charlie aveva esaurito la sua fine dose d’ironia e non aveva nemmeno tempo per perfezione la storia del coraggio, era li come una statua di sale con gli occhi fissi sulla chiocciola di mattoni che non conducevano, come diceva lui, da nessuna parte. “Charlie devo andare a cercare Billy vieni con me?” Rimase da solo ad aspettarmi, sicuro che non gli sarebbe successo nulla. Il vento spostava le fronde e il sole ancora alto lasciava allo scenario di alberi intrecciati ad altri alberi reggere la scena. Speravo di non metterci molto e guardai le tacche sul display del cellulare, era carico e a posto, potevo essere raggiungibile in qualunque momento. “Chiamami se hai bisogno!” “Non ti preoccupare, non sono mica un bambino”, disse con un filo di voce cercando di essere scherzoso. “Senti appena trovo Billy, andiamo all’ospedale a medicare la ferita. Non è profonda ma vedo che continua a perdere sangue.” La sua benda si era inzuppata di sangue tanto da fare sembrare quel piccolo taglio una ferita mortale. “Charlie dove eri quando ti sei tagliato?” “Volevo avvicinarmi alla botola sotto il camino ma c’erano delle lance o delle punte che uscivano dal muro che l’altra volta non mi parve di vedere eppure era notte.” “Vado alla botola forse Billy è sceso per poi aspettarti giù.” “Birdy non voglio stare qui, non so non mi piace sto posto e penso di non piacere a lui.” “So cosa vuoi dire, stavo ragionando sulle parole che hai detto poco fa perché le ho pensate anch’io mezz’ora prima.”
In una stanza buia, stanza perché le pareti erano state edificate dall’uomo, dove non arrivava nemmeno un alito di vento mentre l’acqua saliva fino a lambire il soffitto. Ogni tanto un debole raggio di luce tentava di penetrare l’oscurità il cui regno inviolato sembrava gridare STATE ARRIVANDO ALL’INFERNO, mentre l’aria stantia conservava ovunque il suo odore di putrido e di poveri corpi in decomposizione. Billy aveva trattenuto il respiro per cinque minuti circa poi nuotando si spinse col volto contro la pietra umida e dopo aver tossito cercò un altro boccone d’aria. Avrebbe voluto gridare aiuto, avrebbe voluto uscire dalla trappola ma temeva quella cosa che nuotava nella stessa vasca, che gli sfiorava le piante dei piedi. Aveva cercato di aspettare Charlie finché la sua voce lo chiamò dal basso. Billy si domandava come aveva fatto l’uomo ad arrivare prima di lui ma immaginando ci fossero altre gallerie, seguì l’invito sebbene ci fosse un forte stimolo a tornare indietro. Dopo aver acceso la torcia, il buio dietro di se e davanti divenne ancora più impenetrabile, gli vennero spontanee le parole che lui recitò come un fedele, il suo prego. “Dove c'è molta luce c'è molta ombra! Grazie Goethe!! Adesso comprendo le Sue teorie sul buio e la luce. Oh grazie her professor Homer, le sue lezioni non sono del tutto inutili, per caso saprebbe cosa potrei fare per uscire di qui?” Aveva tanta acqua in bocca quando iniziò a urlare. “Come cazzo di fa a uscire da qui?? Mi senti?? Lo so che mi stai ascoltando fottuto bastardo, lo so che sei qui. Cazzo come odio questo posto!!”, e poi l’acqua gli coprì il viso e lui si trovò a dover nuotare al buio in cerca di un varco, in cerca d’aria. Poi iniziò a ricordare. Ricordava che scendeva gli scalini di pietra consumati e scivolosi, seguendo la voce di Charlie, la sua torcia illuminava solo un paio di metri davanti a se e quello che lo preoccupava era il buio che si lasciava dietro perché dietro le sue spalle sentiva un soffio come un alito e un odore di fiori o di vaniglia mescolato ad un altro odore più acre e pungente. Mentre scendeva guardava le incisioni in rilievo sulle pareti che decorava come un nastro la parte alta della scalinata. Su quella scalinata si era seduto a pensare alla piantina del Vecchio Municipio ed alle rovine del municipio di Icony ma il lampo di genio gli arrivò quando di riflesso gli tornarono in mente le immagini del cortile del palazzo di Goth fatto a chiocciola che apparentemente non portava da nessuna parte e che sembrava la copia esatta della scala che scesero tutti e tre al Vecchio Municipio. La scala dove aveva inseguito la voce di Charlie sembrava essere identica alle altre due; strane coincidente o per meglio dire troppe coincidenze. Spinto forse più dalla paura che dai polmoni che bruciavano per la mancanza d’aria arrivò alla parete più lunga e la seguì finché risalendola in superficie trovò una scala. Sentiva il suo corpo scoppiare, una divorante fiamma che gli cuoceva il petto e lui aveva bisogno di gridare per il dolore per non morire ma la scala lo aveva riportato in superficie, in salvo non dal mostro ma dall’affogamento imminente. Era seduto sullo scalino di pietra con la maglietta appiccicata alla pelle e uno strano odore addosso. I suoi occhi non riuscivano a percepire nulla nel buio, nemmeno la grandezza della stanza che lo ospitava o il volto di chi gli aveva respirato prima addosso. Teneva le braccia sul petto come per stringersi i polmoni per trattenere la sofferenza della prolungata apnea, ancora un minuto e avrebbe lasciato che l’acqua gli penetrasse nel corpo e nel cervello. Aveva avuto la sensazione come se l’acqua lo avesse voluto divorare, nella sua testa immaginava milioni di sorci piccoli e affamati con i loro dentini bianchi e sporchi di sangue che rubavano pezzi di carne al suo corpo anestetizzato dalla paura. Chiuse gli occhi e iniziò a contare, uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto, al numero otto fermò la conta per cantare Yesterday dei Beatles cosa che avrebbe continuato a fare se non fosse stato per un rumore secco ed improvviso come di un macigno che colpisce l’acqua o peggio, di qualcosa di grosso che usciva dall’acqua. “Io non ho paura di te!”, tentava di sussurrare al buio che sentiva respirare, vivere e muoversi dietro di se. Sarebbe morto dalla pura se non fosse stato per la Zip che suo padre si dimenticò nella tasca posteriore dei suoi jeans. “Lo posti tu a casa, in macchina rischio di perderlo”, gli disse il padre 48 ore prima. Appena la fiamma prese a ondeggiare rumori spaventosi animarono la grotta o quella sala di pietra che aveva più la parvenza della stanza di un re per le incisioni e le figure scolpite ogni dove. C’erano otto navi che affondavano nella gola di un enorme essere su quella parete scolpita e proprio al centro in un rosone a forma di cerchio bucato una mano o meglio, una zampa squamata giocava con un maialino sopra una sorta di spiedo. La luce era così debole che le figure non si distinguevano molto bene le une dalle altre ed il poco che si poteva capire era una sorta di ironica battaglia di un essere gigantesco sempre affamato di vittime. La storia si sviluppava anche sulle altre tre pareti ed in modo più interessante delle altre ma le pareti opposte erano divise dallo specchio dell’acqua che la lambiva quieta fino allo scalino dove ora Billy aveva ritrovato un poco di sicurezza. L’acqua era talmente scura da sembrare un pozzo di petrolio dove la vita sceglieva di morire se s’immergeva e dove non era il caso di capire cosa nascondesse i suoi fondali. Billy era troppo corrotto dall’indagine per percepire le forze oscure che si muovevano intorno a lui. “Armet? Armet sei qui?”, ma non erano passi i rumori che gli parve di sentire con una certa frequenza. “Charlie? Charlie!”, ma nemmeno Charlie arrivò alla sua chiamata di soccorso. S’era alzato in piedi cercando di perlustrare lo spazio che non era attaccato dalle acque. Dopo il primo passo scivolò rovinosamente sulla pietra bagnato colpendo duramente il ginocchio destro. Per non urlare si mise una mano in bocca e la morse finché non scesero giù le lacrime. Sperava di sentire la voce di uno dei suoi amici, voleva smettere di immaginare il corpo del buio prendere strane forme e tutte protese verso di lui, aveva il fiato corto nonostante fosse fermo sulla pietra bagnata che emanava un forte odore di morte. Forse sarebbe morto lì, dilaniato da chissà quale essere o peggio ancora dai ratti che sarebbero sbucati all’improvviso dalle crepe nei muri; tutte le ipotesi erano più che probabili e la piccola percentuale di sopravvivenza era sempre l’ancora di salvataggio dalla quale dipendeva il suo benessere mentale oramai allo stremo delle forze. La fiammella non sarebbe durata per molto e temeva seriamente di alzare la voce come se fosse quello che mostro stava aspettando nel buio. Tremava di più di un bambinetto delle elementari e come un bambinetto si urinò addosso nei pantaloni già fradici. “Eccomi Signore, come un succulento porcellino per il pranzo dei demoni della mia mente”, ma la sua voce rimbalzò contro le pareti sorde e poi di nuovo la solitudine di quel freddo silenzio gli piombò addosso. “Tocc.” Un rumore secco gli tolse completamente il fiato. “Ciao Billy come stai?” La mano destra del ragazzo alzò la fiammella davanti agli occhi che videro la cosa più improbabile di questo mondo. “M, M, Ma, Mary?”, balbettò sforzandosi di trattenere un urlo nel petto che cominciò a dolergli come se gli avessero tirato in dieci un pugno contro il costato. “Si Billy.” La donna dinanzi aveva una postura rigida come se fosse stata una statua di vetro che al minimo movimento si sarebbe sbriciolata e sul suo viso cadaverico non c’erano segni espressivi né pieghe sulle labbra. Billy cercò di studiarla tanto morto per morto, non sarebbe stato male capire quanto la sua allucinazione fosse viva. “Guardami Billy, e la voce divenne roca come quella di un uomo con la bocca piena, guardami negli occhi!” Billy seguì la sua esortazione ed ebbe l’impressione che nelle iridi di lei ci fossero alghe o cose che continuavano ad ondeggiare; quelle cose divennero dei tentacoli e persino la bocca molto snodata somigliava a quella di un rettile. Era Mary Ann o un fantasma della sua mente? Eppure quella visione gli sembrava terribilmente reale, tanto che rimase sorpreso nel vedere un orecchino come quello con cui continuava a giocare Charlie. “Io ti sto sognando?” La figura si mosse ma senza sposare le gambe, fu come vederla sdoppiarsi per poi rientrare nel primo corpo e Billy in quell’attimo vide che dalle mani di quell’essere cadevano scaglie per far posto a nuovi piccoli tentacoli che le spaccavano la pelle come piccoli divoratori in una nuova realtà. “Un avviso Billy. Ti do un avvertimento che dovrai consegnare ai tuoi amici e tu lo porterai, vero Billy? Oggi sei molto fortunato a essere il mio messaggero. Dì ad Armet che se entra nella casa di Goth saranno in tanti a pagare per il suo oltraggio. Mi hai capito Billy?” “Armet non deve arrivare alla casa di Goth o moriranno tutti.” Billy ripeteva come una morbida marionetta, le parole suggerite dal suo fantasma. “I messaggeri non sono degli immortali, se metterai ancora piede qui, la prossima volta ragazzo, sarai il mio pasto!”, e la figura si dissolse con la stessa velocità com’era apparsa. Le acque nere erano sempre più scure e calme mentre la scalinata sembrava essere più grande del solito. Con l’ultima fiamma dell’accendino puntata in direzione della scala Billy trovò l’apertura che lo avrebbe portato in salvo.
10
La casa sull’Inferno
Stavo cercando di aprire la botola sotto il camino quando un pezzo della sirena che lo decorava, cadde rovinosamente a terra alzando una marea di polvere che io finì con l’inghiottire. Mi ero seduto per tossire e tenermi lo stomaco quando il rumore di qualcuno o qualcosa che stava salendo dalle profondità mi fece spaventare. Charlie mi guardava dolorante e gli feci cenno con la testa di preparasi a qualcosa. Lui tirò fuori la pistola come se fossimo in un film di gangster prendendo di mira un punto sotto i miei pantaloni. “Credi che se ci fosse un mostro la sotto oppure un plotone di disgraziati o peggio pirati li fermeresti con sei pallottole? Che ne dici di un paletto di legno anche?” “Perché no? Dalle ultime vicissitudini ho appreso che le cose più strane possono evolvere in maniera altrettanto inusuale.” Arrivarono i rintocchi. Erano forti e dati con una certa precisione. “E se aprissi?” Charlie sembrava confuso. “Non saprei, ti hanno bruciato la casa per molto meno. Se vuoi rischiare io sono con te. Si vive una sola volta amico mio e che cazzo, meglio morire sfidando l’Inferno che strisciando davanti ad esso!” “Forse sarebbe meglio scappare. Qui i rintocchi non smettono e non vorrei trovarmi bucherellato dalle tue o dalle loro pallottole.” Ma i colpi continuarono con una certo ritmo di pause e di battiti. “Charlie ascolta?! Tre punti, tre trattini, trattino e punto, tre trattini … trattino e tre punti. E’ il codice Morse, prova con me Charlie, io sono un poco arrugginito. Ascolta, tre punti?” “Tre punti? La lettera ‘S?.” “Adesso tre trattini?” “Tre trattini è la lettera ‘O’.” “Adesso trattino con punto. E’ la lettera ‘N’.” “Poi di nuovo tre trattini?” “Sta dicendo ‘sono’, diavolo di un diavolo Birdy, credo che la sotto ci sia?” “Billy?” Non aspettai altro e forzai la botola finché la mano di Billy conquistata la luce sembrò dire vittoria. Il ragazzo era completamente bagnato e puzzava come se fosse stato coperto per ore da escrementi di animale e pesce marcio. Billy si trascinò sui gomiti cercando di prendersi grosse boccate d’aria con la bocca che balbettava per il freddo o per qualcosa che solo lui poteva sapere. “Cosa t’è successo ragazzo eravamo così in pensiero per te?” Charlie si era alzato e zoppicando venne vicino a noi due con la pistola ancora in mano forse per proteggerci da qualunque cosa avesse voluto seguire Billy su quella oscura rampa di scale. “Cosa c’è la sotto Billy, quando sei sceso?”, ma il ragazzo sembrava non sentirmi, continuava a guardare il sole ridendo come un matto; i suoi occhi erano arrossati e le mani ferite da chissà che cosa. Mi tolsi la camicia per asciugarlo e nonostante tremasse ancora mi prese entrambe le mani per infilarci dentro qualcosa di prezioso, così prezioso che egli stesso verificò che finisse dentro i miei palmi. “Cos’è questa cosa, Billy che t’è successo la sotto, vuoi che vada giù a verificare? Charlie dammi la tua pistola che vado a stanare qualche topo di reliquie?” Charlie mi stava consegnando l’arma quando Billy ancora col viso in pieno sole si girò di colpo per gridare “No!” “Tranquillo non scenderò se tu non vuoi che lo faccia. Che ti prende ragazzo?” Le mie mani erano ancora chiuse intorno al cimelio che mi aveva consegnato. Feci anch’io quello che fece lui, spiai con la coda dell’occhio dentro e vidi una sottile lamella, una cosa che assomigliava a una scaglia di pesce e che puzzava anche peggio. “Andiamo subito via da qui!”, urlò, poi fece appello a tutte le sue forze per chiudere la botola e mettendoci sopra il sedere bagnato. “Ma …?”, avevo ancora molti dubbi e la dannata curiosità che mi spingeva a voler controllare quel pozzo infernale. “Per favore Armet andiamo via, non c’è niente la sotto. Per amor del cielo andiamo, portiamo Charlie all’ospedale, strada facendo vi racconterò!!” Doveva essere la giornata della scoperte ma fu un’altra giornata ricca di punti di domanda. Billy prima di addormentarsi contro la portiera ci raccontò dei suoi spettri e del messaggio che dovevamo ricevere. Guidavo pensando alle stranezze che la ragione certificava come follie mentre l’intuito captava dei veri segnali d’allarme appena le mie orecchie sentirono le parole Mary Ann. Charlie era troppo silenzioso ed ogni tanto armeggiava con quel dannato orecchino che avevo la sensazione ci spiasse. “Senti Charlie e se in quell’orecchino ci fosse una spia? Magari siamo stati presi di mira da uno psicopatico.” “Tranquillo Bond, all’FBI basta il tuo GPRS, insomma il segnale del tuo cellulare per essere seguiti ed uno psicopatico sarebbe una soluzione troppo facile a questo caso.” “Che ne pensi della storia di Mary? Una soluzione facile? Solitamente sono le cose più ovvie che indirizzano i maggiori criminali a commettere efferati crimini.” “Credo che Billy non abbia avuto nessuna allucinazione.” “E’che cosa ti fa sentire sicuro di quest’affermazione?” “Il semplice fatto che la schiena di Billy è piena di graffi e lui non ha mai sentito alcun dolore.” Mi girai per guardare Billy che s’era addormentato profondamente e vidi dalla camicia sollevata fino al torace una decina di segni larghi quasi a comporre un disegno. “Charlie, sembrano dei segni, delle lettere strane quasi quanto quelle che abbiamo visto al Vecchio Municipio.” Charlie alzò la camicia del giovane e lesse quelle incisioni a tratti leggere e per altri tratti, profonde. Accostai la macchina per avere il modo di trascrivere i segni sopra uno dei fogli che avevo ancora in tasca. Inconsciamente girai il foglio per leggervi cosa c’era scritto e rimasi di stucco quando trovai tra le notizie sulla scomparsa di un grosso mercantile, uno dei segni che ferivano la schiena di Billy. Charlie stava per dirmi qualcosa ma io lo zittì per leggervi quelle poche frasi che sembravano illuminarsi tra le mie mani. “Il mare è diventato all'improvviso, molto chiaro. Abbiamo visto scomparire un grande aereo tra le nubi e per un attimo ci siamo sentiti meno soli. Aspettiamo che Romero ripari la radio e che uno dei computer di bordo ci dia un segno di vita. Viaggiamo alla cieca e il mare è così calmo da metterci a tutti quanti paura. L’aria sa di putridume e nella stiva è anche peggio; la mercanzia è intatta ma sembra che un’intera colonia di roditori abbia trovato la morte sulla nostra nave. Siamo più nervosi del solito e gli incubi ci perseguitano tanto da spingere molti di noi a gesti di insolita violenza. Il Capitano Tranè ha messo sotto chiave tutti gli oggetti appuntiti, i coltelli e le armi da fuoco, solo il cuoco ha in dotazione un piccolo coltellino svizzero. Siamo fermi in mezzo al mare, anche se sappiamo che le coste della Florida sono vicinissime; il banco di nebbia bianca ci impedisce di vedere oltre il muro del mezzo miglio. Senza visibilità è quasi impossibile orientarsi. Ieri notte due dei nostri sono scomparsi in coperta, come dicevo qui non c’è alito di vento o tempesta. Le onde non raggiungono un dito di altezza ed il silenzio è persino peggiore di tutto il resto. Morgan e Faber sono come svaniti, nessuno ha sentito grida o altro, qui si ha la sensazione che l’aria inghiotta i corpi come se ci fosse una bocca a deglutirli, ad assorbirli insomma. Siamo in queste condizioni da tre giorni perché la cosa strana è che gli orologi sono l’unica cosa che funzioni su questa nave. Durante la cena abbiamo deciso di chiuderci tutti nelle cuccette per aspettare al sicuro l’arrivo dell’alba ma durante la notte qualcosa deve essere andato storto perché dalla stiva sono partiti dei colpi spaventosi come se qualcuno smuovesse il carico tanto che la nave si è inclinata di sessanta gradi. Al momento di scendere ci siamo accorti di essere rimasti in meno della metà, corsi indietro alle cuccette dei nostri compagni abbiamo scoperto che sono spariti dalla loro stanza chiusa a chiave da dentro. Siamo scesi nella stiva solo in quattro, uno di noi era rimasto a ispezionare i corridoi dell’aria condizionata nella speranza fossero fuggiti in tempo da qualcosa che li minacciava. Nella stiva abbiamo trovato quattro braccia d’acqua che non si sa com’è arrivata perché non ci sono state tempeste e che lo scafo non aveva alcuna fessura. Nonostante lo spazio la sotto sia smisurato l’odore è terribile e non riusciamo a capire da cosa provenga. Quando chiudo gli occhi ho come l’impressione che la nave sia viva e che ci osservi dalla paratie. All’alba io ero rimasto da solo perché tutti quanti erano svaniti come neve sciolta. Ho cercato ovunque e non ho trovato alcuna traccia, i salvagente e le scialuppe sono ancora sulla nave, la radio sembra funzionare a tratti ma la cosa più strana sono le voci che mi pare di sentire intorno a me ed i frequenti respiri sulla spalla. E’ vero, mi sento seguito da occhi invisibili ma è una cosa questa che io non posso dimostrare.. So di certo che verrò inghiottito da questo male impercettibile che sfida ogni legge naturale. La nebbia è svanita ma il mare è di uno strano colore verde chiaro. La nave è sopra una gola profondissima e lo noto dal colore scurissimo della gola che non supera i cinquanta metri di raggio. Dovrei fare qualcosa ma temo di non avere il tempo di farlo. Anche se volessi bruciare la nave ci sarà una forza maggiore a doverla salvare. Se sono vivo è perché servo od a lasciare questo messaggio o ad una cosa che ancora non conosco. Ho il timore a chiudere gli occhi, il timore ad attraversare i ponti e i pozzi della nave. Gli spettri sono numerosi e la mia mente avverte qualcosa che la ragione continua a negare. Pensavo di lanciarmi e di morire annegato piuttosto che continuare a tremare come un bambino che si sforza di non vedere il mostro. So che non arriverò più a vedere la mia famiglia ma questo foglio che metterò nella bottiglia di whisky di Romero andrà per mare spero, lasciando di me un ricordo e di questa maledizione che non auguro ad alcuno di vivere. Percepisco dei rumori strani. La nave è sveglia e tra poco toccherà a me. Ho il tempo di chiudere e di fare una corsa prima della fine. Dimenticavo di lasciare questo segno che avevo notato sulle porte delle cuccette e poi nella stiva, un segno strano come di un polipo con due soli tentacoli. Ecco questo è quanto, tra meno di due minuti io non ci sarò più ma se il Kathrina Apothkaia svanirà, qualcosa degli spettri che l’hanno trascinata fuori rotta avvertirà il mondo a stare alla larga da questo tratto di mare. Si sentono dei forti rintocchi meglio che vada. Ti voglio bene mamma. Tuo Hulio Javez dal Kathrina Apothkaia che vedo inabissarsi lentamente nella gola.”
Lessi quel passaggio senza intimorirmi maggiormente, poteva essere stato un ubriacone a giocare con la penna in una notte di luna piena e sul ponte di una nave da crociera. Il racconto non era nemmeno uno dei più bizzarri ma i segni, che la mano di quello sfortunato aveva lasciato, quelli si che erano inquietanti. Un paio a forma di forbice incrociata e uno maggiore che sembrava un polpo con due soli tentacoli. Sotto lo spazio bianco, un cerchio doppio col vuoto in mezzo che poteva sembrare una ciambella, ma per essere stato l’ultimo atto di un uomo che guardava la propria morte, quello scherzo aveva una ragione di esistere. Naturalmente non si poteva sapere, non avendo ritrovato noi la bottiglia, com’era pervenuto quel materiale ed a chi. Il mercantile nominato poteva essersi inabissato per milioni di altre ragioni, meno assurde che quella scritta e quel marinaio forse in preda al panico, aveva lasciato un racconto fantasioso solo per non dare alla storia la verità sulla sua imminente morte. C’era però una minima probabilità che quella più che improbabile storia fosse vera e a dimostrarlo erano quei pochi segni scarabocchiati negli spazi liberi del foglio. Perché gli aveva fatti? A cosa servivano? Come e dove se li era procurati? Erano semplicemente apparsi o qualcuno sotto l’influenza dell’alcool o della pazzia li aveva disegnati su tutta la nave? “Sono identici a quelli che Billy ha sulla schiena con la differenza che Billy, ne ha quattro in più.” Il ragazzo continuava a dormire indisturbato mentre noi cercavamo di capire quella realtà disturbata leggendo le sue ferite. “Sono otto in totale, almeno è quello che mi sembra di vedere.” “Otto! Come le sedie dei padri nella sala del Vecchio Municipio.” “Charlie è vero! Noi non siamo pazzi, qui c’è qualcosa che legga questi morti e la nostra sorte di ricercatori di nulla. E non voglio pensare a quelli che ci vogliono fermare a tutti i costi come se queste indagini conducessero alla verità sulla Genesi.” “Oppure sull’Apocalisse.” Portai Charlie a farsi medicare la ferita al Pronto Soccorso e restai in auto con Billy che cercavo di non svegliare. Le sue ferite le avremmo trattate una qualche pomata antibiotica e poi ci avremmo ragionato su con calma. Il cellulare di Billy squillava impazzito ed ero stato costretto a spegnerlo; non volevo mettere in allarme i suoi genitori. Solo in quel momento mi resi conto di non possedere più una casa e lo sconforto mi colpì duramente come un pugno ben piazzato alla bocca dello stomaco. Presi il giornale nella speranza di trovare una sistemazione o un appartamento per me e per Cassius. Il mio amico a quattro zampe sicuramente sentiva molto la mancanza del padrone e mi ero promesso di non lasciarlo in quella condizione per più di ventiquattro ore. Stavo leggendo quel quotidiano che odorava parecchio di petrolio quando mi colpì la fotografia in primo piano del Sindaco Moore e Brixen abbracciati davanti ad un enorme festone con la scritta: «L’otto Luglio è il giorno del ricordo e della fondazione della nostra piccola città. Idony ti offre la più bella festa che sia mai stata data in onore alla cittadinanza. I festeggiamenti inizieranno Martedì 3 con la messa a suffragio degli scomparsi in mare di questo mese. Vi aspettiamo numerosi.» Non so bene cosa mi successe ma fu come un conato di vomito che arrivò forte e improvviso, tanto che fui costretto a buttare il capo fuori dal finestrino della macchina e svuotare del liquido amaro perché solo quello c’era nelle mie budella. Tutti i messaggi sull’otto Luglio erano diventati una sorta d’invito alla fiera del grotesque, un ballo in maschera per mostri dalla birra facile e dalla musica messa ad alto volume. Idony viveva in una sorta di bozzolo alimentato da un perbenismo esagerato che con la gente credulona e povera di idee poteva funzionare. Era da tempi immemorabili che la festa dell’otto Luglio non si faceva e sicuramente non questo sfarzo che il Sindaco voleva ostentare a costo di giocarsi il posto. Charlie usci zoppicando ma con una bella fasciatura al polpaccio, dall’espressione del suo viso intuivo che aveva qualche idea e ne avevo bisogno perché le mie bollivano in un pentolone d’incredulità e sciamanesimo. “Che fa dorme ancora il giovanotto? Direi di svegliarlo così ci prendiamo un caffè da Trixie.” Svegliai Billy che era più stanco di prima e totalmente dimentico di tutto quello che gli era capitato. Trixie non era che uno squallido bar ad un miglio dal porto ma conservava un straordinaria vista mare. Trixie pesava circa un quintale e sulle sue guance un paio di etti di trucco con cui lei cercava di ringiovanire, ma era una brava donna con esperienze di vita intense e tristi. Prima di sorseggiare il sospirato caffè ci raccontò come aveva perso entrambi i figli in mare, durante una tempesta e come aveva dovuto sistemare il marito tornato pazzo dalla battuta di pesca. Lavorava non per sfamarsi come diceva lei ma per dimenticare. Io le chiesi cosa aveva da dimenticare e lei mi rispose i mostri nella mente che la visitavano di frequente. Avevamo fatto colazione abbondante senza raccontare a Billy delle ferite che aveva sulla schiena. Gli dissi di chiamare i suoi che probabilmente erano in pensiero mentre Charlie aggiustava le cose per la notte, notte che avremmo tutti e tre, passato nel motel vicino al Vecchio Faro.
Non avevo dormito granché bene, i sogni erano arrivati come una tempesta nera e nemmeno l’alba era riuscita a cancellare il velo di malumore che mi aveva avvolto completamente. Si era stabilito di ritrovarsi dopo le commissioni di ognuno di noi, al Nuovo Municipio. Io lasciai la squama che Billy mi aveva consegnato ad un amico del Centro Ricerche Mediche dell’Ospedale della Contea di Idony. A una prima analisi anche a James Madini, esperto in sintesi della materia e degradazione della medesima, quel pezzo di materia presentava molte incoerenze biologiche. Mi disse di lasciargli un paio di giorni per una risposta e mi promise di tenere segreta la cosa, almeno finché non avrei saputo cosa farne. Alle due del pomeriggio di Martedì 3 Luglio io aspettavo l’arrivo dei miei amici, sempre guardando il quadrante dell’orologio che sonnecchiava masticando lentamente i minuti. L’aria di festa della città mi faceva rabbrividire, così senza senso, anche se intimamente credevo di conoscere l’altra faccia della medaglia. “Più gente c’è più bestie si vendono”, mi venne in mente questa frase che pronunciai ad alta voce. Tenevo in mano il foglio dei segni aspettando l’arrivo di Billy, cui avevamo detto solo di nascondere i graffi sulla schiena. Stavo seduto sul bordo della strada con i fogli del secondo scatolone tra le mani. Avevo bisogno di prove e le prove solitamente stanno nascoste tra le righe come piccoli gioielli che solo un buon intenditore sa cogliere. Mi ritrovai a leggere qualcosa di nuovo perché non si trattava di un semplice foglio ma un pezzo di stoffa, probabilmente una camicia di cotone scritta con la punta di un gessetto o di mattone rosso. “Stiamo affondando eppure sono qui, grazie al cielo ancora vivo! Il Nos Oro è stato inghiottito dall’acqua con troppa facilità come se fosse un biscotto dentro un bicchiere di latte caldo. Mi hanno tolto i vestiti durante il sonno ed il mio corpo è pieno di tagli. Scrivo su un pezzo di camicia preso dal mio collega di cuccetta anche lui ferito ma scomparso forse durante l’affondamento. Non ricordo cosa è successo, la nave trasportava combustibile ma eravamo vuoti e tutto è successo in fretta. Nessuno di noi ha fatto in tempo ad abbandonare. Sui palmi delle mani ho due segni come se fossero dei polpi con due tentacoli e sanguino copiosamente sebbene non siano così gravi le mie ferite. Le pareti di questa stanza sudano qualcosa di gelatinoso e l’odore è terribile. Ogni tanto sento dei rumori come dei gemiti ma non so dire se siano umani o cosa gli provochi. Il capitano si è impiccato due ore fa e le sue grida le abbiamo sentite tutti. Prima di morire urlava a noi altri che era arrivata l’ora di pagare … Pagare per cosa? Stiamo scendendo e presto l’acqua invaderà ogni centimetro di questo posto. Ho avuto una strana visione, una donna giovane con orecchini appariscenti mi ha chiesto di scrivere questo messaggio che lei lo avrebbe consegnato al mondo. Non so se è capace di leggere tutto questo, ma voglio scrivere delle sue mani che sono orribili, ha la pelle squamata dalla quale spuntano piccoli tentacoli con bocche dentate. Il biglietto lo consegnerò a questo incubo fatto donna, sperando che non sembri l’ultima lettera di un pazzo affogato con la sua nave. I suoi occhi mi dicono che non ho più tempo. Sto piangendo per me e per le mie figlie che non rivedrò più. Dall’oblò si vedono solo acque nere e dense come il petrolio. Il buio è ovunque e scrivo alla cieca sperando non sia tutto vano questo lavoro. La figura femminile è scomparsa. Non so se riuscirò a finire, quest’ultima lettera, ma devo assolutamente farlo”, e seguiva al posto della firma un disegno di un doppio cerchio vuoto al centro.
Ero stufo di tragedie ma avevo l’impressione che tutti quei segni anticipavano qualcosa, forse qualcosa d’imminente. Charlie arrivò puntuale e sorridente, le sue braccia erano occupate entrambe a tenere un paio di grosse bottiglie di vino rosso che a guardare l’etichetta erano italiane e molto costose. “Abbiamo trovato la chiave per entrare.” “Per entrare dove Charlie?” Lui mi sorrise con la sua collezione di smalti tirati a lucido da chissà quale buon dentista di Miami. Ci sedemmo entrambi sul bordo della strada per aspettare Billy che arrivò leggermente in ritardo e molto sudato. “Scusatemi, mio padre continua a sospettare che io sia finito in qualche banda di sfigati. Ho dovuto dirgli la balla che esco con una ragazza della mia classe, da buon genitore mi ha riempito lo zaino di preservativi”, e ce li mostrò come se fossero in dotazione a un soldato che partiva per la guerra. “Ma sono più di una dozzina di pacchetti, cosa pensava tuo padre che ti saresti fatto l’intera parentela femminile?” Billy non era divertito quanto noi due e prima di partire per gli uffici del sindaco Moore ci preparammo un piano di battaglia. Conoscevo la bravura di Charlie nelle pubbliche relazioni ma non fino a dove questa si poteva estendere. Morre ci trattò come vecchi amici di college e dopo una breve chiacchierata sui miei prossimi romanzi e sulla avventura di Charlie come neopensionato ottenemmo il permesso di visitare in tutta la sua completezza, l’edificio comunale. Lasciammo l’ufficio del primo cittadino in silenzio e cercando di capire perché Brixen avesse voluto a tutti i costi chiudere il Vecchio Municipio. La struttura dell’edificio era circolare e la cosa poteva sembrare semplice agli occhi di un poco intenditore in materia come me ma per Billy che aveva preparato tutti i compiti a casa, era c’era molto di più sotto. Non volevo nascondere per troppo tempo la verità a Billy e dopo essermi consultato con Charlie, avvicinai il ragazzo raccontandogli tutto, a cominciare dalle sensazioni che lui aveva percepito nell’anticamera dell’inferno dalla quale era scappato per consegnarci un messaggio. “Credo però mio caro Billy che il messaggio sia stato scritto sulla tua schiena, solo che per noi profani è indecifrabile.” Billy lesse con attenzione i disegni copiati dalle ferite che aveva sul dorso e dopo un paio di minuti di silenzio i suoi occhi s’illuminarono come se avessero ricevuto il più bel regalo della vita. “Ho trovato!” “Cos’hai trovato Billy?” “Prima però voi due bambinoni mi accompagnate alle cantine, possiamo andare alle cantine?” Charlie fece cenno di sì. Potevamo girare liberamente per quel monumento alla modernità che sembrava non aver portato con se alcun reperto dal Vecchio Municipio. Gli ascensori non portavano ai piani inferiori e questo ci sembrò una cosa stranissima; le due scale poste sui lati opposti di un lungo corridoio erano a chiocciola e costruite con pietre dall’aspetto antico e poco rassicuranti. Eravamo certi che non ci fosse bisogno di torce perché l’illuminazione in un posto del genere era doverosa, invece ci sbagliavamo anche su questo. Fummo costretti a risalire per chiedere alle guardie un paio di pile elettriche. La cosa che ci mise subito in allarme furono i segni sulle pareti che accompagnavano la nostra discesa. Le narici percepivano il solito odore disgustoso che Billy si era portato addosso durante la risalita dal camino di Goth.
Figura 8 - Idony
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8 Luglio
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