20/12/2013
Sotto il sole
(sopra il cielo)
di Alessandro
Ramberti
Postfazione di
Anna Ruotolo
Copertina e
disegni di Francesco Ramberti
Versione cinese
di alcune poesie
A cura di don
Pietro Cui Xingan e Alessandro Centanni
Fara Editore
www.faraeditore.it
Poesia
Incontro fra occidente e oriente
Rischiava di finire nel marasma di volumi che popolano il mio tavolo
e che talora, l’uno sopra l’altro, riescono perfino a sovrastarmi; e
del resto più che un libroè un libriccino, quasi una formichina, ma
poi, casualmente, miè tornato fra le mani e, mosso dalla curiosità,
ho iniziato a leggere, beninteso solo le poesie in italiano, giacché
la traduzione di una parte di esse in cinese rappresenta per me un
ostacolo insormontabile. Però, che strano vedere accostate lettere
che formano parole, e ideogrammi che reputo corrispondano a parole.
Al primo impatto miè venuto da classificare questa silloge come
religiosa, per quanto, pensandoci poi bene, e considerate le
influenze dei pensieri filosofici dell’Estremo Oriente, credo che,
pur nel solco dell’Antico e del Nuovo Testamento, finisca con il
predominare una spiritualità, un modo di vedere cristianamente laico
che rende le liriche ancor più interessanti.
Certo, domina la ricerca all’assoluto, ma non di maniera, bensì un
percorso alla trascendenza che impone necessariamente l’attenta
analisi di ogni verso. Direi anzi che più che i versi sono le parole,
le sillabe il fulcro del poetare di Ramberti, un lento progredire
verso la meta, verso lo scopo non tanto della silloge, bensì di
un’estasi di cui la silloge stessaè espressione.
E proprio in questo mi tornano alla mente certe filosofie orientali,
di certo non ignote all’autore per gli studi effettuati; ne riviene
uno strano ma equilibrato contatto fra occidente e oriente, e non so
fino a che punto pesi di più il primo oppure il secondo, né mi
azzardo a ricercarlo, in quanto del buddhismo, del confucianesimo,
del taoismo ho solo una vaga e imperfetta infarinatura, però
sufficiente a ipotizzare questo confronto dialogante del tutto
riuscito,
E’ evidente poi che l’aspettoè senz’altro simbolico, per quanto
Ramberti cerchi di essere abbastanza chiaro, lasciando all’intimo
sentire di ognuno l’esatta sensazione di certi testi, che a volte
somigliano a delle parabole.
Ma se la religioneè fede e la filosofiaè ragionamento, tanto da
sembrare opposte, resta tuttavia una ricerca di senso di cui nessuna
delle dueè in grado di dare una definitiva risposta; comunque ho
l’impressione che l’autore abbia voluto evidenziare l’impossibilità
per l’essere umano di essere autosufficiente senza Dio. Insomma, mi
pare proprio il concetto dell’esistenzialismo e nonè quindi un caso
se una delle liriche (Aut aut)è dedicata a Soren Kierkegaard.
Si tratta quindi di poesia filosofica, ed ecco il perché dell’analisi
necessaria di ogni parola, perché nullaè lasciato al caso o al puro
esercizio poetico.
Credo sia anche giusto evidenziare l’apprezzamento della critica,
come confermato dai riconoscimenti in alcuni concorsi letterari
(Premo Speciale Firenze, Capitale d’Europa, 2013; segnalazione al
Civetta di Minerva, 2013;
menzione al Premio Anterem Lorenzo Montano, 2013).
Da leggere, senz’altro.
Alessandro Ramberti
è nato a Santarcangelo
di R. nel 1960. Laureato in Lingue Orientali a Venezia, vince una
borsa (1984-85) per l’Università Fudan di Shanghai. Nel 1988 consegue
il Master in Linguistica presso l’Università di California Los
Angeles. Conclude gli studi con il dottorato in Linguistica presso
l’Università Roma Tre (1993). Da allora lavora in ambito editoriale.
Ha vinto il premio “l’Astrolabio” con pubblicazione dei suoi Racconti
su un chicco di riso (Tacchi
Editore 1991).
Come Johan Thor
Johansson edita La simmetria imperfetta. .(Fara 1996). Con In
cerca. .(Fara 2004) vince il premio “Alfonso Gatto” 2005 opera prima
e, nel 2006, i premi “Città di Solofra”, “Voce dal Ponte” (Monopoli)
e il premio speciale “Città degli Acaja” (Fossano). Con Pietrisco. (Fara
2006) “Poesi@ & Rete” (Trapani-Palermo) e il premio biennale “Cluvium”.
Con L’Arca Felice di Salerno nel 2009 pubblica la
plaquette Inoltramenti. .e nel 2011 Paese in pezzi? I monti e i fiumi
reggono. .(4 poesie di Du Fu), entrambi illustrati da Francesco
Ramberti.. In «Italian Poetry Review» V, 2010 esce “Rabbunì”, qui
ampiamente riscritto. Gliè stata dedicata la «Lettera in versi» n.
32 a cura di Rosa Elisa Giangoia:bombacarta.com/le-attivita/lettera-in-versi
Renzo Montagnoli
18/12/2013
Memoriale del convento
di José Saramago
Traduzione di Rita Desti e Carmen M. Radulet
Con una nota di Rita Desti
Giangiacomo Feltrinelli Editore
Narrativa romanzo
Un
grande affresco storico
Di José Saramago ho letto fino ad ora abbastanza poco, anche se quel
pocoè costituito da due titoli (Una terra chiamata Alentejo e
Il Vangelo secondo Gesù Cristo) che sono duei romanzi
profondamente diversi fra loro, ma egualmente splendidi. In Una
terra chiamata Alentejo si narra della difficile esistenza dei
contadini di quella terra, sotto un punto di vista marxista, e quindi
non rinunciatario; in Il Vangelo secondo Gesù Cristo c’è una
magnifica descrizione del Cristo uomo, che tuttavia rivela che in
Saramago esiste più un anticlericalismo che una convinzione ateista.
Diversoè pure questo Memoriale del convento, un
romanzo storico - oserei dire rigorosamente storico - in cui l’autore
portoghese ha tuttavia inserito, con grande efficacia, anche un
aspetto di fantasia, con la creazione di due personaggi, Baltasar e
Blimunda, capaci di rappresentare in tutte le loro componenti la
popolazione portoghese dell’epoca in cui é ambientato il libro.
La vicendaè del tutto vera e riguarda la costruzione, avvenuta fra
il 1713 e il 1730, del reale edificio di Mafra, costituito da un
palazzo, da un convento e da una basilica di dimensioni tali da
competere con quella di San Pietro. Il motivo di quest’opera immensa?
A Re Giovanni V di Portogallo manca l’erede e, per quanti sforzi
abbia sempre fatto, questi nonè mai venuto; a lui nulla si può
imputare, come testimoniano i numerosi bastardi disseminati per le
terre del regno; il problemaè la moglie, che non riesce a farsi
ingravidare. Un francescano, tuttavia, assicura che la casa reale
vedrà una nascita se in cambio si costruirà un convento a Mafra.
L’accordoè raggiunto e infatti da lì a nove mesi la regina scodella
l’agognato erede. Per quanto ovvio, certe promesse non possono essere
disattese e così si avvia la costruzione, con la partecipazione di
una moltitudine di operai e a costi proibitivi.
La descrizione di Saramagoè encomiabile e finisce con il diventare
la narrazione di un’epopea, un ritratto fedele di un Portogallo
dominato dalla religione, oppresso dall’Inquisizione, in cui i
richiami alla morte non sono solo figurativi.
E poiché la storia nonè solo ciò che ha riguardato un determinato
accadimento, ma un intreccio di accadimenti, ognuno dei quali finisce
con l’essere in dipendenza dell’altro, nel contesto edificatorio
finiscono con il confluire altri fatti, peraltro accaduti veramente,
com’è il caso della “Passarola”, ovvero l’uccellaccio del padre
Bartolomeo Lourenço, l’ideatore e costruttore di una macchina
volante, che volò veramente l’8 agosto 1709, in presenza dei sovrani.
Non fu niente di leonardesco, bensì si trattò del primo pallone
aerostatico. E qui aggiungo che più del rischio per il volo, Padre
Bartolomeo ebbe da temere per gli effetti della Santa Inquisizione,
la nube nera che di fatto sovrastava nel regno di Portogallo tutto e
tutti, perfino il re.
Quella volta gli andò bene, ma poi padre Bartolomeo, accusato di
giudaismo, dovette riparare all’estero, in Spagna (altro luogo poco
sicuro), dove morì completamente pazzo.
L’ambientazione storicaè di tutto rilievo, ma Saramago non si
accontenta di tracciare per il lettore una linea in cui giustamente
porre un regime oppressivo e nefasto, ma aspira anche a dare chiare
indicazioni di ciò che può essere il concetto di bene, dissimile
ovviamente da quello della Chiesa, che si definisce bene assoluto, in
perenne lotta contro il male, rappresentato da chi ad essa non si
sottomette.
Ed ecco allora le figure di fantasia di cui ho cennato, cioè di
Baltasar e Blimunda, fra cui sboccia l’amore, un amore che trova
nelle loro diversità (lui soldato privo di una mano, lei figlia di
una strega) il miracolo di una parentesi di Paradiso in una terra
d’inferno.
Detto così questo romanzo potrebbe sembrare un gran minestrone, ma
del resto, trattandosi di una vicenda corale, Saramago doveva per
forza non limitarsi a una singola sfaccettatura del fatto e devo dire
che ne uscito assai bene, anche se la sua prosa, una prosa parlata
per intenderci, miè sembrata meno scorrevole che in Una terra
chiamata Alentejo, in cui, predominando l’elemento creativo,
aveva indubbiamente meno vincoli.
Ciò non toglie che, se pur il romanzo in alcune pagine possa
risultare greve, tuttavia per qualità e contenuti si conferma l’opera
di un maestro indiscusso edè proprio per questo che la lettura non
può che essere vivamente raccomandata.
José Saramago è
nato nel 1922 ad Azinhaga, in Portogallo. Due anni dopo la sua
nascita, la famiglia dello scrittore si trasferisce a Lisbona dove il
padre lavora come poliziotto. Le difficoltà economiche in cui la
famiglia versa, lo costringono ad abbandonare gli studi e a
intraprendere diversi lavori. Fa così il fabbro, il disegnatore, il
correttore di bozze, il traduttore, il giornalista, e il direttore
letterario e di produzione in una Casa editrice.
Nel 1947 pubblica il suo primo romanzo, Terra del peccato che
riceve una tiepida accoglienza. Sono gli anni bui della dittatura di
Salazar: Saramago subisce costantemente la censura del regime sui
suoi scritti giornalistici edè tenuto sotto controllo dalla Pide, la
polizia politica salazariana, a cui riesce sempre a sfuggire, anche
quando – nel 1959 – si iscrive al Partito Comunista Portoghese,
allora clandestino.
Negli anni sessanta l’attività pubblicistica di Saramago è
indirizzata verso la critica letteraria, e nel 1966 dà alle stampe la
sua prima raccolta di poesie, I poemi possibili". Seguono, nel
1970 la raccolta Probabilmente allegria e le cronache Di
questo e d'altro mondo del 1971, Il bagaglio del viaggiatore del
1973 e Le opinioni che DL ebbe del 1974.
Nel 1974, l’anno della “Rivoluzione dei Garofani” - il colpo di Stato
militare che sancisce la fine del regime fascista in Portogallo – si
apre una nuova fase nell’attività letteraria di Saramago che
si concretizza nel romanzo del 1977 Manuale di pittura e
calligrafia, mentre l’anno successivo pubblica Una terra
chiamata Alentejo. Sempre in questo periodo scrive per il teatro
(La notte, 1979 e Cosa ne farò di questo libro?) un
attività che continuerà anche negli anni successivi (La seconda
vita di Francesco d'Assisi, 1987; In Nomine Dei, 1993 e Don
Giovanni, o Il dissoluto assolto del 2005).
Nel 1982 pubblica Memoriale del convento (edito in Italia da
Feltrinelli nel 1984), il romanzo che gli dà notorietà a livello
internazionale. Seguono L'anno della morte di Ricardo Reis (1984,
Feltrinelli 1985), La zattera di pietra (1986), Storia
dell'assedio di Lisbona (1989).
Negli anni novanta escono Il Vangelo secondo Gesù Cristo (1991),
Cecità (1995) e Tutti i nomi (1997). Il primo decennio
del 2000è il più prolifico dell’attività di scrittore di Saramago,
che dà alle stampe ben sette romanzi: La caverna(2001),L'uomo
duplicato (2002),Saggio sulla lucidità (2004),Le
intermittenze della morte(2005),Le piccole memorie (2006),Il
viaggio dell'elefante (2008) e Caino (2009, ed. it.
Feltrinelli 2010).
Nel 1998 gli viene assegnato il Premio Nobel per la Letteratura,
riconoscimento che suscitò molte polemiche nel mondo cattolico per le
sue ben note posizioni antireligiose. Polemiche che lo hanno fatto
decidere di trasferirsi a Lanzarote, nelle Isole Canarie.
E' morto nel giugno 2010.
Renzo Montagnoli
15/12/2013
Una per mille
di Cristina Bove
Edizioni Smasher
www.edizionismasher.it
Narrativa
Una vita movimentata
Per chiè abituato a scrivere poesie il passaggio alla narrativa
rappresenta sempre un valico arduo da un campo in cui siè acquisita
esperienza a un altro cheè tutto nuovo e sconosciuto. Potete ben
capire che un contoè metter giù dei versi che fotografano
un'emozione, un sentimento, mentre altra cosaè svolgere un tema in
più pagine, anzi in molte pagine. Credo che Cristina Bove, pertanto,
abbia fatto una scelta giusta, non scrivendo un romanzo, ma quella
che può essere definita un'autobiografia fra il passato e l'oggi,
quest'ultimo destinato per lo più a riflessioni di carattere
generale. Il continuo ripescare fatti ed episodi della propria
esistenza, come il ritornare all'oggi, se all'inizio disorienta un
po', alla fine si apprezza perché in questo modo si evitano quelle
esposizioni cronologicamente successive che tendono inevitabilmente a
tediare il lettore. Direi che l'autrice ha un po' ripercorso il
metodo utilizzato da Stendhal per il suo Vita di Herny Brulard,
che, guarda caso,è un'altra autobiografia.
Certo, a leggere queste pagine, mi accorgo che la mia vitaè stata
tutto sommato lineare, e non certo discontinua, quasi avventurosa
come quella di Cristina Bove, che volentieri si confessa, raccontando
certi fatti che altri magari preferirebbero tacere, ma che a ragion
veduta sono stati determinanti nell'iter vitale, come un certo volo
da un quarto piano, risoltosi miracolosamente con serie fratture, poi
sanate; non sanato inveceè stato il motivo di questa caduta, fatta
passare dai familiari come un'imprudenza. Va bene, era giovane e da
giovani si commettono sciocchezze, però episodio dopo episodio mi
sembra di riscontrare un problema di fondo, causato dall'assenza
della figura paterna (il padre c'era, ma se n'andò di casa quando lei
era ancora piccola). Che volete mai, ognuno ha le sue teorie, ma
credo che quell'abbandono abbia segnato per sempre, nel bene e nel
male, la vita dell'autrice. E poi il collegio con le camerate fredde,
l'impossibilità, per difficoltà economiche, di realizzarsi
scolasticamente sono tutte cose che lasciano inevitabili strascichi;
da, qui, forse un remoto rigurgito di insoddisfazione che né un
matrimonio, né la nascita dei figli sono riusciti a sanare. Solo
l'arte, la passione di leggere, di scrivere, di dipingere, insomma di
concretizzare in forme plastiche o comunque accessibili quella
inconscia rabbia che si porta dentro, hanno potuto generare un'oasi
di appagamento, tanto che mi viene da dire che senza la scrittura non
avremmo Cristina Bove, cioè senza di essa si sarebbe lasciata andare
aggravando gli acciacchi, sì cheè lecito pensare che lo scrivere sia
per lei come il respirare, una condizione unica e indispensabile per
continuare a vivere.
Personalità indubbiamente complessa, che si riflette anche nella sua
produzione poetica, eventi ed accadimenti ( in cui si spera ci sia
almeno un pizzico di fantasia), ci vengono sciorinati quasi come
fossero normali, e invece, per lo più, non lo sono.
C'è in tutto questo, come nella vita di ognuno di noi, un disegno
sconosciuto, e il raccontarci finisce con il diventare la ricerca di
questo programma. Non credo che Cristina Bove sia riuscita a scoprire
l'arcano, ma in cambio, per farlo, ci delizia con questa sua
autobiografia dal linguaggio semplice, ma immediato, uno specchio in
cui si riflettono dieci, cento, mille Cristina, sempre la stessa e
pur così diversa, a seconda dell'angolo di osservazione.
Ma in fondo chi, pur credendosi unico, a guardare dentro di sé non
trova tante e tali sfaccettature che prima non avrebbe immaginato?
Ecco, fra penne e pennini, fra carta e inchiostro, rivoltato il suo
passato, Cristina Bove, senza ipotecare un avvenire, lascia un segno
nel presente, ripercorrendo il suo passato.
Da leggere, mi sembra più che chiaro.
Cristina Boveè nata a Napoli il
16 settembre 1942, vive a Roma dal '63. Ha cominciato da piccolissima
a disegnare, a nutrire la passione per la lettura. In seguito siè
dedicata alla pittura, alla scultura, e alla scrittura. Negli ultimi
tempi si esprime soprattutto in poesia, molti suoi testi formano le
sillogi di quattro raccolte già pubblicate.
Scampata più volte alla morte, ha grande comprensione per chi soffre,
nel fisico e nella psiche. Crede nella libertà e nella giustizia,
pensa che il rispetto della diversità sia un valore fondante tra gli
esseri umani e ne sia inestimabile ricchezza.è alla costante ricerca
del significato di questo infinito mistero in cui si sente immersa e
partecipe.
Ama la vita, i suoi cari, e tutti gli esseri umani dal cuore buono e
dalla mente aperta. Considera la poesia un linguaggio universale,
l'esperanto dell'anima.
Scrivereè per lei una sorta di rispetto per la propria e altrui
memoria, un fissare con la parola il pensiero affinché non si
disperda, e renda sacralità alla vita. Ha pubblicato tre raccolte di
poesie per la casa editrice Il Foglio Letterario: Fiori e fulmini
(2007), Il respiro della luna (2008), Attraversamenti verticali
(2009).è presente in diverse antologie: Antologia di Poetarum Silva
(a cura di Enzo Campi), Auroralia (a cura di GajaCenciarelli), La
ricognizione del dolore (a cura di Pietro Pancamo), Antologia del
Giardino dei poeti (a cura sua e di altri poeti), Mi hanno detto di
Ofelia (2012) per le Edizioni Smasher.
E in alcuni siti, tra cui:
La dimora del tempo sospesa, Neobar, Filosofi per caso.
Il suo blog su wordpress
http://ancorapoesia.wordpress.com/
Conduce il blog
http://giardinodeipoeti.splinder.com/
è nella redazione di
http://viadellebelledonne.wordpress.com/
Renzo Montagnoli
12/12/2013
I luoghi della memoria
di Adriana Pedicini
Arduino Sacco Editore
www.arduinosacco.it
Narrativa racconti
Di un tempo passato
Perché raccontare del proprio passato? Perché fare emergere i ricordi
di un'età spesso lontana? Le risposte possono essere tante e la meno
plausibile, anche se ha un certo senso,è di mettere nero su bianco
affinché altri, magari i discendenti, possano sapere.
La pratica nonè infrequente, anziè assai diffusa e ha interessato
autori famosi, come Proust. Pure io mi sono avventurato al riguardo
con non pochi racconti, dove lo spazio concesso alla fantasiaè
minimo e serve solo per interessare maggiormente il lettore. Forse ci
si affida a questo espediente per far rivivere, in senso figurato
ovviamente, la propria giovinezza, dove tuttoè più bello, quasi
magico, oppure per narrare di personaggi che ci sono rimasti in mente
e che nella vita non hanno avuto la loro giusta luce.
Adriana Pedicini, come altri,è tornata all'indietro di anni, in
un'epoca che sembra così diversa dall'attuale, un piccolo mondo ormai
di ombre che lei con pazienza ed umiltà illumina. Sono semplici
esseri umani, ma a loro modo sono dei protagonisti, perché per lei
hanno significato tanto, al punto di conservarne la memoria e di
farli riemergere dalla polvere del tempo.
Non ce n'è uno che non sia ricordato anche solo con una punta
d'affetto, perfino Teresina, la scema di paese, che si trovava e si
trova ancora nelle piccole realtà. La si potrebbe definire
un'istituzione, ma mai derisa, osservata sì, ma con occhio
compassionevole. Quelli che la città nasconde come fossero dei
mostri, il paese restituisce alla collettività.
E poi ci sono i sapori di una volta, quello invitante del pane appena
sfornato, preparato dalle abili mani della nonna Andreana, quasi un
rito, che negli occhi di una bambina assumeva aria di mistero, il
risultato di astruse formule magiche.
Ma non vado oltre, non voglio anticipare quello che il lettore
desideroso di conoscere ciò che l'attuale società ha perso potrà
trovare nei racconti di questa raccolta.
E qui sorge un'altra domanda: ma a chi dovrebbero interessare dei
ricordi privati? A chi vuole conoscere le proprie radici, perchéè
dalla piccola storia di ognuno di noi che nasce l'epopea di una
società, il modo di vivere della stessa, le sue speranze, spesso
disattese.
Però non ho risposto ancora alla prima domanda, sul perché l'autrice
è andata a rinvangare il passato. Certo, ama scrivere e le piace che
qualcuno sia partecipe di quellaè stata una parte della sua
esistenza.
C'è però una ragione più profonda, che spesso non osiamo confessare:
rammentare ciò cheè stato, il nostro lontano vissutoè l'unica
certezza che non abbiamo calcato inutilmente le strade di questo
mondo, nel pur breve percorso che ciè riservato.
Sono tanti quindi i motivi per leggere questo libro, ben scritto, con
una narratrice che non s'impone, ma si propone, e sono certo che
molti personaggi non potrete dimenticarli, vi parrà di vederli, piano
piano li farete vostri, entreranno in voi in un gioco di memoria a
cui sarà assai piacevole partecipare.
Adriana Pedicini, vive a
Benevento. Già docente di lettere classiche nei Licei, scrive da
tempo, ma solo con la pensione ha iniziato a dare concretamente
visibilità alla sua scrittura. Ha pubblicato una raccolta di racconti
I luoghi della memoria, A. Sacco editore 2011, (1° Premio nel
Concorso Internazionale di Narrativa Taormina 2010) e una silloge di
poesie, Noemàtia, Lineeinfinite edizioni 2012. Tra esse figura la
poesia Mare Monstrum, I° premio al Premio internazionale di
poesia Otto milioni 2013, assegnato dal Comune di Torrenova (Me). Ha
anche curato Da Europa all'Europa (Ilmiolibro.it 2010),
dispense didattiche sul teatro antico e sull'origine della civiltà
occidentale, attraverso il mito di Europa e gli archetipi del
pensiero, del diritto, dell'arte, della letteratura.è presente con
poesie e racconti su varie antologie anche on-line. Collabora con
diversi blog e siti letterari. Per contatti:
adripedi@virgilio.it
Renzo Montagnoli
10/12/2013
Mesolino
Il pianto dei noccioli
di Angelo Sirignano
Albus Edizioni
www.albusedizioni.it
Narrativa romanzo
Collana Narrando
Gli anni cambiano le persone
Che mi interessino, e non poco, le storie ambientate in una piccola
realtàè un dato di fatto, e infatti, fra le mie letture figurano
romanzi come Fontamara, Cristo siè fermato a Eboli, La luna e i
falò, senza contare tutti quelli scritti da Piero Chiara.
Amo, forse perché anch'io abito in un piccolo paese, le atmosfere
locali, gli usi, le tradizioni, insomma tutto ciò cheè così comune e
al tempo stesso difforme, e che nonè possibile trovare nell'anonima
grande città.
Nonè un caso quindi se questo romanzo ha destato in me da subito un
particolare interesse, anche perché non conoscevo questa zona
dell'Irpinia in cui svolge la vicenda..
A onor del vero, il romanzoè strutturato in modo strano, con una
prima parte che sembra un memoriale, un succedersi di eventi riguardo
a un personaggio (l'io narrante) che abbracciano un lasso di tempo
abbastanza lungo, di circa una quarantina d'anni, ma poi, arrivati a
quello che nelle intenzioni dell'autore rappresenta il presente, si
trasforma in un giallo, in una indagine serrata per scoprire chi ha
assassinato un amico di vecchia data del protagonista principale.
Questa parteè la più lunga dell'opera e non si discosta dalle
tipiche indagini dei polizieschi, tuttavia con una differenza:
l'ambiente. Sì, perché in quei luoghi, se non c'è forse omertà, c'è
sempre reticenza, soprattutto per un atavico timore nei confronti di
uno stato che appare così lontano da quelle lande.
In tal modo le indagini procedono fra alti e bassi e ogni volta che
siè convinti di trovare il colpevole, vengono alla luce altri filoni
e altri possibili rei.
A un certo punto appare più che logico al lettore di conoscere
finalmente la verità, ma Angelo Sirignano riserva un'ulteriore
sorpresa, con un finale del tutto imprevedibile, ma che impreziosisce
l'opera, e che a ben guardare e riflettere appare plausibile, anche
se agli appassionati di polizieschi potrebbe risultare deludente;
invece, osservate sotto l'aspetto letterario, le ultime pagine mi
trovano d'accordo e consentono meglio di comprendere lo scopo per cui
il libroè stato scritto.
Comunque, al fine di non ingenerare equivoci, preciso che non ci
troviamo di fronte a un capolavoro o a un romanzo particolarmente
bello, ma nella capacità di ricreare le atmosfere, di descrivere
paesaggi e di tenere sempre desta l'attenzione, l'opera ha una sua
dignità che ne rende consigliabile la lettura.
Angelo Sirignano avvocato. Vive a
Visciano doveè nato. Mesolinoè il suo primo romanzo.
Renzo Montagnoli
8/12/2013
Baci da non ripetere
di Paolo Di Stefano
In copertina disegni di Simone e Luca Di Stefano
Giangiacomo Feltrinelli Editore
Narrativa romanzo
Il dramma dell'incomunicabilità
Non credo sia facile trovare un libro come questo, capace al tempo
stesso di coinvolgere e di sconvolgere, una di quelle opere che si
possono definire irripetibili nella carriera di un autore, proprio
perché la loro stesura ha richiesto una partecipazione emotiva tale
da sconsigliarne un ulteriore ricorso.
Mi preme fin da ora precisare che Baci da non ripetereè molto
bello, ma nonè di facile lettura, perchéè necessario lasciarsi
andare, pagina dopo pagina, quasi partecipi dei fatti, in un'altalena
costituita dall'esposizione dei due io narranti, con frequenti
spostamenti di tempo, spesso a ritroso. Alla fine se ne esce
appagati, ma anche con un vago senso di disorientamento, una
vertigine che l'abilità di Di Stefanoè riuscita a indurre, perché
corrisponde proprio a quello che hanno provato i due protagonisti.
Nonè mia abitudine fornire la trama, se non per sommi capi, ma
questoè uno di quei casi in cui mi vedo costretto ad anticipare un
po' più compiutamente ciò che attende il lettore.
Un immigrato italiano in Svizzera si sposa con una del posto, di
classe sociale diversa (lui figlio di povera gente siciliana, lei
invece figlia di genitori agiati) e dalla loro unione nasce un
bambino che dopo pochi anni, colpito da leucemia, muore.è lì che
inizia il dramma, perché quella povera creatura era il collante del
loro matrimonio che progressivamente si sfalda. Ognuno, chiuso nel
suo dolore, si isola, ridando fuoco a una latente incomunicabilità
che segnerà per sempre la loro vita. Il marito, quasi a voler
riaffermare le proprie origini, arriva al punto di traslare la salma
del bimbo dal cimitero in terra svizzera a quello del paese natale in
Sicilia, portando con l'auto la bara, in un viaggio che presenta un
sensazionale miscuglio di allucinazione, di tenerezza e di
travolgente dolore. La famiglia non esiste più, i due vivono sotto lo
stesso tetto, ma non si parlano, così lei un giorno sparisce (sapremo
poi che condurrà anche un'esistenza da barbona), per poi ritornare
dopo tanti anni al capezzale del marito, prossimo alla fine minato da
un male incurabile.
Si riconcilieranno? No, non lo faranno, ognuno completando quel
percorso di vita iniziato in ambienti familiari di opposta
estrazione, ma caratterizzati per lui da un padre-padrone e per lei
da una madre autoritaria, una bigotta di stampo calvinista.
Ma qualche cosa cambierà - e per ovvie ragioni non anticipo nulla -
pur in un quadro generale che non può mutare, perché le solitudini
dell'infanzia si trascinano nell'esistenza.
Su una cosa voglio essere chiaro: Di Stefano non ha inteso profondere
commozione a piene mani, e con la vicenda di un bimbo che muore le
occasioni c'erano, maè molto misurato, non sollecita il lettore a
facili lacrime, pur in presenza di qualche pagina cheè possibile
definire straziante, e questoè senz'altro uno dei pregi del libro.
L'altro, assai più importante,è stato di parlare di incomunicabilità
rendendo altamente partecipe chi legge, con una tecnica sopraffina,
il cui risultatoè indubbiamente notevole.
E il titolo ben si presenta idoneo alla tragedia di questa famiglia:
baci da non ripetere, cioè non ci saranno più baci di un uomo alla
sua donna, di una donna al suo uomo e di entrambi al loro bambino.
Da leggere, indubbiamente.
Paolo Di Stefano, nato ad Avola
(Siracusa) nel 1956, inviato del "Corriere della Sera"è stato capo
delle pagine culturali. Laureato con Cesare Segre all'Università
diPavia, ha debuttato nel giornalismo come responsabile del ?Corriere
del Ticino" di Lugano. Ha lavorato per l'Einaudi, e per il quotidiano
?La Repubblica". Attualmenteè giornalista culturale del "Corriere
della Sera".
Ha scritto, fra l'altro:
Minuti contati (Scheiwiller, Milano 1990, Premio Sinisgalli), Baci da
non ripetere (Feltrinelli 1994, Premio Comisso); Azzurro troppo
azzurro (Feltrinelli 1996, PremioGrinzane Cavour); Tutti contenti
(Feltrinelli 2003, Superpremio Vittorini, Superpremio Flaiano, Premio
Letterario Chianti), Aiutami tu (Feltrinelli 2005, SuperMondello),
Nel cuore che ti cerca (Rizzoli 2008, Premio Campiello e Premio
Brancati), Per più amore (Manni Editore), La catastròfa (Sellerio
2011, Premio Volponi), Giallo d'Avola (Sellerio 2013, Premio
Viareggio-Rèpaci 2013).
Renzo Montagnoli
4/12/2013
Diario segreto di Napoleone
di Joseph-Marie Lo Duca
A cura di Angelo Mainardi
Prefazione di Jean Cocteau
Tre Editori
www.treditori.com
Romanzo storico
Due corpi, un'anima
Che Napoleone nel corso della sua esistenza avesse tenuto un diario
segreto non ciè dato di sapere, per quanto la cosa potesse essere
possibile, ma la stretta vigilanza a cui era sottoposto a Sant'Elena
ne avrebbe senz'altro impedito la sua diffusione, e comunque ne
avrebbe reso impossibile la consegna ad altri, in particolare ad
Henry de Jomini, a tutti gli effetti il suo alter ego.
Quanto sopra per evidenziare come questo libro sia un vero e proprio
romanzo storico, scritto con straordinaria abilità, nonché fedeltà
agli accadimenti, da un autore geniale come Joseph-Marie Lo Duca. Se
voglio esser sincero, dopo averlo letto e riletto, mi sono reso conto
che l'operaè senz'altro più attendibile di un eventuale autentico
diario e lo scopo di Lo Duca é stato quello di fornirci il ritratto
di due uomini, di due geni militari, che avevano le stesse
intuizioni, tanto da supporre perfino un caso di telepatia. Sarebbe
però riduttivo parlare solo di questa stranezza, perché in effetti
con il diario ci viene rappresentato Napoleone nel suo intimo, dalle
vittoriose battaglie d'Egitto alla drammatica conclusione della sua
vita nell'esilio-prigione di Sant'Elena, attraverso le esperienze
provate da quest'uomo che si vide per breve tempo imperatore e poi
precipitò nella polvere. Al riguardo, la parte miglioreè quella che
vede il corso trascinare la sua esistenza in un progressivo distacco
dalla vita in quella che fu la residenza assegnatagli dai vincitori
dopo la battaglia di Waterloo. Sembra di vederlo, ormai senza
speranza, l'ombra di se stesso, ma con ancora qualche guizzo di
vitalità; nonè più l'ardore di nuove conquiste che lo sostiene, ma
la pura e semplice constatazione che il suo tempoè finito, spesso
mitigata da una vena di sottile autoironia.
Potrei dire che il Napoleone in esilioè più a misura d'uomo di
quello vincitore nella campagna d'Italia e in tante altre battaglie,
nel pieno del suo splendore, almeno fino alla rovinosa esperienza in
terra di Russia. Dopo l'incendio di Mosca e Borodino l'uomo perde
piano piano quella carica che lo aveva sempre sostenuto e anche la
fuga dall'Elba e i seguenti cento giorni sono, più che una vera luce,
un tremulo riverbero dei giorni di gloria, tanto che va incontro al
suo destino a Waterloo, dove peraltro, per la prima volta, il suo
alter ego Jomini si trova dall'altra parte, una cesura decisiva di
due spiriti in precedenza affini. Ma il diario non termina con la
morte di Napoleone, perché un'altra eccezionale invenzione di Lo Duca
fa sì che lo stesso venga consegnato a Henry de Jomini, quasi una
naturale continuità con il grande francese scomparso. Quindi le
annotazioni proseguono, ma sono diverse, perché diversoè il
personaggio, che rivela, oltre alle note capacità tattiche, anche una
notevole abilità strategica, una visione generale del mondo e delle
cose che Napoleone non aveva e che gli impedì, pur vincendo tante
battaglie, di stroncare una volta per tutte i suoi avversari. La
strategia di Jomini nonè però bellica, maè la capacità, osservando
le potenze dell'epoca e i loro popoli, di enunciare un percorso per
raggiungere una pace duratura. E' un uomo che detesta la politica, le
sue apparenze, i suoi vuoti discorsi ridondanti di retorica e che in
fin dei conti rimpiange Napoleone, l'unico che avrebbe potuto riunire
l'Europa in un'unica nazione, quindi senza più guerre, con la pace
dettata sì dal vincitore, ma nell'interesse delle genti del
continente. Le ultime pagine sono senz'altro le più belle di questo
libro straordinario, con un Jomini disilluso come il suo alter ego
Napoleone, e che chiude la sua vita terrena il 22 marzio 1869, cento
anni dopo dalla nascita del grande corso, non un puro e semplice
caso, perché il diario termina così: " La mia animaè stata
testimone su questa terra per cento anni. Con la mia anima dalla
doppia vita, io cerco, cerco nel passato, e non ritrovo un giorno che
sia stato mio.".
Se il richiamo esotericoè evidente, edè un motivo in più
d'interesse di questo libro, la scrittura signorile, le riflessioni
su cui conviene di tanto in tanto ritornare, la capacità di sondare
l'animo dei due protagonisti lasciano in verità stupiti, anche per la
misura a cui l'autoreè ricorso, in modo da stilare un'opera in
perfetto equilibrio, e quindi non greve, né leggera, insomma Il
diario segreto di Napoleoneè uno di quei romanzi che non si
possono dimenticare, che poco a poco entrano nel lettore, senza poi
mai abbandonarlo.
Da leggere, senza il minimo dubbio.
Joseph-Marie Lo Duca nacque nel
1910 a Milano ma era di ascendenze siciliane. In Italia, a 17 anni,
pubblicò il romanzo futurista La sfera di platino, lanciato da
Marinetti e considerato un'anticipazione del Mondo nuovo di Aldous
Huxley.
Emigrò in Francia nel 1933, dove rimase sino alla morte nel 2004
esercitando l'attività di scrittore attraverso una molteplicità di
interessi: romanziere, storico del cinema, del fumetto e dell'erotismo.Fondò
nel 1951 con André Bazin la prestigiosa rivista Cahiers du cinéma.
Intellettuale integrato nell'ambiente francese, non dimenticò la
cultura italiana, scrivendo sceneggiature per De Sica, Rossellini,
Blasetti, un'introduzione al romanzo di VittoriniConversazione in
Sicilia e, in collaborazione con Fellini, la storia in francese de La
dolce vita.
Morì a Fontainbleau il 6 agosto 2004.
Renzo Montagnoli
30/11/2013
L'amore graffia il mondo
di Ugo Riccarelli
Arnoldo Mondadori Editore S.p.A.
Narrativa romanzo
Collana Scrittori italiani e stranieri
Purtroppoè l'ultimo romanzo
Ugo Riccarelli era uno scrittore che amava la dolcezza, senza che
questa dovesse trasformarsi in mielosità, un compito tuttavia non
facile, perché basta poco e, soprattutto quando si narra di storie
con un contenuto anche drammatico, eccedereè sempre possibile, anzi
non viè nulla di più facile, così che l'autoreè costretto a
procedere in bilico su un'infida e sottile lama di rasoio. Ho notato
questa sua capacità in Il dolore perfetto, un romanzo dall'equilibrio
altrettanto perfetto come il suo titolo. Ho sperato che questa
abilità fosse presente anche in quello che non potrà che essere il
suo ultimo libro, essendo Riccarelli venuto a mancare precocemente,
ma in L'amore graffia il mondo questo difficile equilibrio c'è
stato per quasi tutta l'opera, perché poi, purtroppo, nelle ultime
pagine l'autore siè lasciato prendere la mano, forse influenzato
dalla vicenda di Ivo, bimbo nato prematuro con problemi polmonari,
questi ultimi così simili alla sua vicenda personale, tanto da
sembrare una parziale autobiografia. Per fortuna si tratta di poche
pagine che finiscono con l'incidere poco sul giudizio complessivo del
romanzo, senz'altro ottimo, ma non un capolavoro come Il dolore
perfetto.
Ci sono tutti gli elementi per sbalordire ed entusiasmare il lettore:
una storia che inizia fra le due guerre mondiali, una bambina,
chiamata Signorina dal padre capostazione come una locomotiva a
vapore dalle linee aggraziate, la ristretta mentalità degli uomini
dell'epoca, più padroni che padri dei figli, e che considerava le
donne solo come custodi del focolare domestico, soffocando la
naturale personalità e impedendo alle stesse di realizzarsi, i
difficili anni del secondo conflitto (stupenda al riguardo la
descrizione del bombardamento notturno sulla stazione), l'amore di
Signorina per un giovane piemontese, che si concretizzerà poi in un
matrimonio, i sacrifici di questa donna per mandare avanti la
famiglia, il dolore e i patemi d'animo per quel figlio così malato
tanto da rendere necessario un trapianto di polmoni.
Ispira una naturale simpatia la protagonista, impossibilitata a
realizzare il suo grande sogno di diventare stilista di moda,
dapprima per il diniego del padre e poi per la necessità di condurre
la famiglia, di fatto sostituendosi al marito, brava persona, ma
incapace in questo ruolo.
è sempre lei che si sacrifica, e così per amore finisce con il
rinnegare l'innato talento e quella vocazione, che ogni tanto
inevitabilmente riemerge, per essere di nuovo assopita; la suaè una
rinuncia più istintiva che razionale e che l'orienta verso una vita
di normale serenità, quando ciòè possibile, perché in effetti, per
un motivo o per l'altro, di tranquillità non ne ha, tranne quando
sarà avanti negli anni, sola nella casa con il marito, con il figlio
guarito in giro per il mondo a tener concerti, senza più problemi
economici. Tutto lascia prevedere una serena vecchiaia, ma non sarà
così, edè proprio qui che Riccarelli sembra aver perduto il prezioso
equilibrio, nel senso che, senza che la vicenda si concluda con un
tutti felici e contenti, magari con Signorina che mette su un atelier
di moda, bastava si fermasse lì, con due vecchi che finalmente
potevano gioire di giorni sereni. La morte sappiamo che conclude ogni
vita, ma sommare disgrazie a disgrazie ha sempre un limite, e forse
Riccarelli siè lasciato prendere la mano condizionato dal suo stato
di salute, da quel progredire della malattia di cui avvertiva
inconsapevolmente l'incombente tragico esito. Così come nel suo caso
non ci poteva essere una tranquillità, lo stesso destino lui lo ha
riservato alla sua protagonista, che penso abbia amato più di tanti
altri suoi personaggi, dipingendola in modo accattivante fin da
bambina e perfino creando due suoi amici unici, dotati di una
simpatia incredibile: il maiale Milio e l'oca Armida, anche loro
scomparsi quando tutto sembrava andar bene.
Mi permetto di segnalare alcune pagine che, secondo me, sono di
grande bellezza, anche per il tema trattato: la nascita di Ivo, vista
non dall'esterno, ma dall'interno, cioè dal nascituro,è qualche cosa
di incredibile, tantoè avvincente e realistica.
Costanti poi rimangono le capacità poetiche di Riccarelli, il suo
italiano fluido, l'ammirevole ambientazione, insomma Il dolore
graffia il mondoè senz'altro da leggere, e riguardo al titolo si
può dire che sì' l'amore può aiutare ad affrontare le avversità, ma
in fin dei contiè anche vero che nel percorso di una vitaè più
facile che sia il mondo a graffiare l'amore.
Ugo Riccarelli (Ciriè, Torino,
1954 - Roma 2013), di famiglia toscana, ha pubblicato Le scarpe
appese al cuore (Feltrinelli 1995, nuova edizione Oscar Mondadori
2003), Un uomo che forse si chiamava Schulz (Piemme 1998, premio
Selezione Campiello, nuova edizione Oscar Mondadori 2012), Stramonio
(Piemme 2000, nuova edizione Einaudi 2009), i racconti di Pensieri
crudeli (Giulio Perrone 2006), Diletto (Voland 2009) e Garrincha
(Giulio Perrone 2013), il saggio Ricucire la vita (Piemme 2011) e,
per Mondadori, L'angelo di Coppi (2001), Il dolore perfetto (2004,
premio Strega), Un mare di nulla (2006), Comallamore (2009), La
repubblica di un solo giorno (2011) e L'amore graffia il mondo (2012,
premio Selezione Campiello).
Renzo Montagnoli
27/11/2013
Pazziando
di AA. VV.
a cura di Alessandro Ramberti
Copertina di Francesco Ramberti, studio Kaleidon
Fara Editore
www.faraeditore.it
Narrativa e poesia
Collana Neumi
La scrittura come terapia del disagio
Il presente volumeè un'antologia delle poesie e dei racconti
classificati ai primi 5 posti nel concorso letterario Insanamente
2013, ormai una tradizione per l'editore Fara. Ricordo che questo
concorsoè dedicato a opere legate al tema della scrittura come
terapia, come elaborazione anche giocosa e autoironica del disagio,
come modalità dialogante, rispettosa e tragicomica di affrontare il
proprio e/o altrui disagio mentale,come riportato in premessa dal
curatore.
Ammetto che in genere sono un po' scettico sulla qualità delle opere
di questi concorsi a tema specifico, ma, una volta tanto, mi sono
dovuto ricredere, anche per quanto concerne le classifiche di merito.
Ho rilevato che, in generale, le opere che figurano in questo libro
dall'emblematico titolo "Pazziando" non solo sono pertinenti
all'argomento, ma presentano anche indubbie qualità, e questo vale
sia per la sezione "Poesia" che per quella "Racconto", lavori che
sono caratterizzati da un sostanziale equilibrio, il che deve aver
reso non facile l'operato dei giurati, come dimostrato anche dai
molti ex aequo..
Per quanto concerne il primo classificato per la poesia, Paolo
Assirelli, sono rimasto colpito da Grammi, vincitrice del concorso,
con un'alternanza temporale, fra passato nel ricordo che diventa
presente e un presente che non inibisce il futuro, una visione della
vita che, per dirla con l'autore "si misura in grammi", ma cheè
positiva, luminosa, come il sole felice del mattino. Altrettanto
validaè poi L'amore dei vecchi, una felice combinazione di
constatazioni che non deprime, nonostante il tema, ma che anzi fa
della terza età un periodo vitale, pur con le limitazioni fisiche,
ben espresso in una chiusa di grande effetto (…Non c'è nulla che
valga più dell'amore, se non / l'amore che verrà / quello che sogni
un attimo prima del risveglio - ferma, ferma / il motore /
macchinista, scendi tu se vuoi, io resto.) E anche una poesia che può
sembrar minore - mi riferisco a Il pallido pesce rossoè morto -è
invece una gran bella riflessione sulla morte, fra la vitalità e la
fissità corporea che trasforma ogni essere in cosa inanimata, come un
sasso, come la cenere.
Meritatoè pure il primo posto per Matrioska, un bel racconto di
Gabriele Cecchini, un brano in cui era facile cadere
nell'autocommiserazione della protagonista, ma l'autore ha saputo
esaltare la tenerezza senza giungere alla mielosità, pur nella
difficoltà di un'analisi introspettiva di una donna in evidente
disagio, una donna frustrata dalla premurosa assistenza della madre,
a cui ha sacrificato l'intera esistenza. E ora che la genitriceè
venuta menoè sommersa da una lacerante sensazione di vuoto, la
realtà si mostra in tutti i suoi aspetti, così che più che condurre
un'esistenza si finisce per l'essere condotti da essa e il rifugioè
nel sogno. Questa contrapposizione appunto fra realtà e sogno porta a
un finale del tutto inaspettato, ma rasserenante.
Ecco, la serenità, quasi una chimera per gli esseri umani,è una
sensazione di benessere a cui si perviene con grande difficoltà e
solo con la consapevolezza di quel che siamo, il che ci induce a
vedere in positivo. Assirelli, con le sue poesie, e Cecchini con il
suo racconto, apportano speranze per il domani, vedono il sole anche
dove c'è il buio, infondono serenità e credo che anche il lettore ne
trarrà benefici. Nonè poca cosa, anziè tanto.
Mi sono limitato ai primi classificati per doverosa brevità e perciò
non me ne vogliano gli altri, dei cui lavori ho pure apprezzato i
fini e gli svolgimenti.
E' quindi un piacere leggere Pazziando, un piacere che mi auguro
coinvolga anche altri ai quali consiglio vivamente questo libro.
Gli autori
Paolo Assirelli, Claudio Pagelli, Giovanna Iorio, Domenico Cipriano,
Mauro Nastasi, Ulisse Fiolo, Vincenzo D'Alessio, Vincenzo Gabrielli,
Gabriele Cecchini, Barbara Rossi, Manfredo Marotta, Vincenzo
Domenichelli, Giorgio Massi, Francesco Randazzo.
Renzo Montagnoli
25/11/2013
Il Gran Sogno di Dio
di Alex Zanotelli
Introduzione di Arturo Paoli
Dissensi Edizioni
www.dissensi.it
Per evitare la catastrofe
Non si può proprio dire che Padre Alex Zanotelli sia un curiale, né
che nei palazzi, e quindi lontano dalla realtà di tutti i giorni,
pontifichi con aria solenne; no, luiè uno di quei sacerdoti che
vivono in mezzo alla gente, a quella più povera, a quella talmente in
basso da non essere colta, spesso intenzionalmente, dallo sguardo di
chi governa e che in quanto tale ad essa dovrebbe provvedere, poiché
é chi ha meno che deve essere aiutato e non chi ha di più. Ciò non
toglie che, nonostante la sua quotidiana missione, Alex Zanotelli,
osservando le molteplici storture, ne scriva, suggerendo anche
rimedi. E così sono parecchie le sue pubblicazioni, ultima in ordine
di tempo Il Gran Sogno di Dio, uscito per i tipi di
Dissensi, una piccola, ma battagliera casa editrice, del tutto
controcorrente e volta alla ricerca di un mondo più equo e migliore.
Il problema che si pone l'autore nonè cosa da poco,è una incombente
tragedia che assilla il sonno di non pochi, ma a cui i governi
cercano di rimediare con dei palliativi, senza andare alla radice,
eliminando una volta per tutte le reali cause. Oggi vige l'impero del
consumismo, che per esistere ha necessità di creare nuovi bisogni,
attingendo a piene mani alle risorse del pianeta, risorse che sono in
via di esaurimento. Il famoso effetto serra farà sì che la
temperatura del globo a fine secolo sarà più alta di 4° rispetto
all'attuale. Quattro gradi sembrano pochi, ma gli effetti saranno
devastanti, con scioglimento di parte dei ghiacci dei poli e
innalzamento delle acque dei mari, che sommergeranno vasti territori;
inoltre crescerà il processo di desertificazione, così che ci saranno
enormi spostamenti migratori, in confronto dei quali le centinaia di
disperati che approdano giornalmente sulle nostre coste sono
un'inezia.
Ha ragione Alex Zanotelli quando riporta una frase di Paul Collins,
tratta dal suo libro Judgement Day, Struggle for Life on Earth,
che sintetizzandoè un'accusa alle generazioni che si sono succedute
dalla fine della seconda guerra mondiale e che saranno odiate dai
nostri posteri, odiate perché se Dio ha impiegato quattro miliardi e
seicento milioni di anni per consegnare all'uomo un pianeta
abitabile, quest'uomo, che dovrebbe essere sapiens, in pochi decenni
lo sta distruggendo, e - aggiungo io - in preda a una stupidità non
riscontrabile in nessun animale. Siamo seduti allegramente su un ramo
che si sta spezzando e non facciamo nulla per scendere. Certo, in
un'umanità in cui pochi hanno quasi tutto, questaè una delle
conseguenze: chi detiene il denaro - e il denaroè potere - ci illude
che solo consumando possiamo raggiungere la felicità, quandoè vero
tutto il contrario. Il dramma, però,è dato dal fatto che di questa
natura che abbiamo ricevuto in dono noi stessi siamo parte, ma non
riusciamo più a convivere con essa nel rispetto di tutte le altre
componenti, abbattiamo foreste (e poi ci lamentiamo se l'anidride
carbonica aumenta), peschiamo nei mari con metodi da cavallette e ben
presto non ci sarà più pesce, scaviamo, sventriamo, cementifichiamo
in una insulsa corsa verso il nulla. Il dono che Dio ci ha fattoè
unico e non possiamo permetterci di distruggerlo, né possiamo sperare
in un suo aiuto, perché solo noi dobbiamo essere artefici del
cambiamento. Quel che occorre nonè solo una rivoluzione economica,
finanziaria e politica, ma anche una rivoluzione spirituale, che
addirittura io ritengo prioritaria.
Per quanto il libro sia permeato dalla religiosità di Alex Zanotelli
- e del resto non potrebbe essere diversamente - questo straordinario
missionario comboniano non rimane mai su un livello teologico, ma
scende fra gli uomini con esempi pratici, dando all'opera un senso di
concretezza senza il quale potrebbe sembrare solo il frutto di un
chimerico ideale. Ciò che si propone, attraverso anche l'analisi di
quanto avvenuto nell'umanità in epoche precedenti,è invece
attuabile, purché ci si liberi dall'abitudine, si ritorni a essere
uomini non in perenne lotta per il successo e per un maggior
guadagno, ma solidali in un cammino dall'alba al tramonto,
consapevoli che l'amore, la giustizia, l'equità, il piacere di
comunicare sono quanto di meglio ci possa essere per almeno
avvicinare, se non raggiungere la felicità, e che possedere tanto, un
tanto quasi sempre superfluo, nonè motivo d'orgoglio, ma di
vergogna.
Leggetelo, sono poche pagine, scritte in un modo semplice e diretto
che quasi sbalordisce, ma di una rara efficacia, sono le parole di un
uomo che sa quel che dice e che di esse vuole rendere partecipi gli
altri uomini, con il piacere appunto di comunicare, di cercare la
giustizia e l'equità, di dimostrare il suo amore per i suoi simili,
vale a dire la traduzione in pratica del rimedio all'autodistruzione.
Alex Zanotelli, nato a Livo
(Trento) il 26 agosto 1938,è ordinato sacerdote nel 1964.
Missionario comboniano, ha operato per otto anni in Sudan. Ha assunto
la direzione di Nigrizia nel 1978; costretto a lasciarla, nel 1987,
su richiesta di esponenti politici e vaticani, parte per Korogocho,
una delle baraccopoli che attorniano Nairobi, la capitale del Kenya,
e vi resta otto anni. Lì ha dato vita a piccole comunità cristiane,
ma anche a una cooperativa che si occupa del recupero di rifiuti e dà
lavoro a numerosi baraccati; ha propiziato la nascita di Udada, una
comunità di ex prostitute che aiuta le donne che vogliono uscire dal
giro e, nello stesso tempo, siè battuto per le riforme che
riguardano la distribuzione della terra, uno dei temi-chiave della
politica keniana.
Attualmente vive nel quartiere Sanità di Napoli, uno dei simboli del
degrado sociale, ma anche della possibilità di rinascita, del nostro
Paese. In un contesto diverso, come a Korogocho, ha un solo obiettivo
di fondo: "Aiutare la gente a rialzarsi, a riacquistare fiducia".
Ha scritto:
" La morte promessa. Armi, droga e fame nel terzo mondo,
Publiprint, 1987
" Il coraggio dell'utopia, Publiprint, 1988
" I poveri non ci lasceranno dormire, Monti, 1996
" Leggere l'impero. Il potere tra l'Apocalisse e l'Esodo, La
meridiana, 1996
" Sulle strade di Pasqua, EMI, 1998
" Inno alla vita, EMI, 1998
" Ti no ses mia nat par noi, CUM, 1998
" La solidarietà di Dio, EMI, 2000
" L'era Wojtyla. Dialogo su questo papato, La meridiana, 2000 (con
Tomas Balduino)
" R...esistenza e dialogo, EMI, 2001
" Non ci sto!, Piero Manni, 2003 (con Pietro Ingrao)
" Fa' strada ai poveri senza farti strada. Don Milani, il Vangelo e
la povertà nel mondo d'oggi, EMI, 2003 (con Mario Lancisii)
" Nel cuore del sistema: quale missione?, EMI, 2003
" Korogocho, Feltrinelli, 2003
" W Nairobi W. Ediz. italiana e inglese, EMI, 2004 (con Daniele
Moschetti)
" Korogocho. Alla scuola delle baracche, EMI, 2005
" Da Korogocho con passione. Lettere dai sotterranei della vita e
della storia, EMI, 2006
" Voci dei poveri, voce di Dio. La Bibbia letta con gli occhi degli
impoveriti, delle donne e dei senza armi, EMI, 2007
" Paolo. Sulle strade dell'impero proclamando il dio della vita, EMI,
2008
" Europa dei mercati o dei popoli? Il ruolo dei missionari, EMI, 2008
" I poveri non ci lasceranno dormire. Da Korogocho al Rione Sanità,
Editrice Monti, 2011
" Il Gran Sogno di Dio. Introduzione di Arturo Paoli, DISSENSI
Edizioni, 2013
Renzo Montagnoli
14/11/2013
“L’amore che non osa dire il suo nome”
Oscar Wilde
– De profundis – Ed. Acquarelli
Recensione
“L’amore che non osa
dire il suo nomeӏ un verso incriminato della poesia Due amori
di Alfred Douglas, che ha preluso al processo intentato ad Oscar
Wilde, a causa dell’intima amicizia con l’autore.
Una vita da genio, quella di Wilde, infangata proprio da questa
amicizia.
Wilde ne parla con la sua consueta lucidità e con l’arte letteraria
elevata ad una potenza inimmaginabile nella più lunga lettera che sia
mai stata scritta, De profundis, indirizzata a questo amico.
L’incipit della lettera (il cui titolo originale era Epistula: in
Carcere et Vinculis)è un comunissimo inizio di qualsiasi lettera
a un amico: Caro Bosie…
Dal contenuto molto particolareggiato dell’esperienza comune si
evince chiaramente l’identità del destinatario.
L’interesse che desta
la lettura di questo brillante testo, non risiede tanto nella
narrazione puntuale dei fatti nell’ordine cronologico in cui si sono
svolti, né nella caratterizzazione altrettanto precisa dei personaggi
coinvolti, bensì nell’espressione dei sentimenti che attraversano in
ogni momento della sua vita Oscar Wilde, sentimenti di cui si sente
la profondità, l’intensità, la verità, l’intima partecipazione,
insieme con la consapevolezza di non poterli esprimere con le parole
anche più inconsuete, più ricercate, con la più possibile
verosimiglianza, perché i sentimenti di cui parla Wilde si possono
comprendere soltanto vivendoli in prima persona.
Qualcos’altro
colpisce in profondità dalla lettura di questa lettera.
è l’intento formativo (seppure in modo non del tutto consapevole,
forse,) che viene in superficie in molte affermazioni, come se
l’autore avesse messo in sordina tutto il male che gli era derivato
dall’assidua frequentazione di questo amico fatale e della sua
famiglia, e si ponesse precipuamente il problema di come poter
contribuire alla crescita intellettuale, emotiva e morale di Douglas.
Un giovinetto, figlio di un marchese la cui crudeltà ha ereditato, e
il cui reciproco odio ha incastrato come in una morsa mortale lo
stesso Oscar Wilde.
Nella lettera,
pubblicata solo quando tutti i protagonisti erano ormai morti, si può
seguire ogni istante del tormento di Wilde, della sua disperazione e
desolazione, del profondo rimorso per non aver saputo tenere alto il
nome della propria famiglia già onorato dai suoi genitori, colti,
nobili nel senso più vero del termine, non soltanto nel senso
esteriore di averne un titolo; ma tuttavia anche la consapevolezza
della propria colpa e vergogna e della meritata punizione, da cui
l’autore ritrova il coraggio e la volontà di redimersi, non facendo
appello alla sola verità dei fatti che per alcuni aspetti sono stati
forzati corrompendo (che attualità in questi comportamenti!) i
testimoni a suo sfavore, ma ritrovando nella serenità del perdono il
senso del male vissuto.
L’arte ha anche
questa funzione catartica: sale alle vette più alte e scende negli
abissi più profondi, per dare all’artista gli strumenti di
comprensione della sua stessa vita e della vita in generale.
In questa lettera, la
cui letturaè accompagnata costantemente da un’attenzione vigile, da
sentimenti di vera partecipazione, spesso anche contraddittori, ma
soprattutto da un senso di intima sofferenza empatica con l’autore,
ci sono pagine di estrema bellezza sulla vera essenza dell’amore che
inducono a riflessioni personali su come siè capaci, e se siè
capaci, di vivere dentro di noi il “vero” amore.
Che nonè, si badi bene, necessariamente, l’amore per il proprio
partner, ma l’Amore con la A maiuscola, l’amore che non ha un oggetto
particolare, ma cheè l’Amore, senza alcun altro fine che l’Amore.
Queste affermazioni
così perentorie, che personalmente sento come preziose e giuste,
basterebbero a fare di questo libro e di questa lettera il capolavoro
artistico per eccellenza nel campo della letteratura di ogni tempo e
di ogni luogo.
Ma ovviamente c’è
moltissimo altro che fa assumere a questo libro e a questa lettera
una connotazione umanissima, niente affatto intellettualistica, come
se a fare dell’uomo un uomo fosse solo la razionalità e l’intelletto.
Al contrario,è l’umiltà del senso di sé,è la piena emotiva
dell’animo che sconfina nella regione dell’intelletto per farsi
analizzare e comprendere fin nei minimi dettagli che assicura a ogni
uomo il raggiungimento della propria essenza profonda di essere
umano.
Si esce dalla lettura
di questo De profundis con la consapevolezza che solo dando alla
propria vita il senso umano che le si addice,è davvero possibile
giungere a comprendere se stessi e a vivere dignitosamente la propria
vita, senza sconti per nessuno, ma prima di tutto senza sconti per se
stessi. E riuscire così a far parte del genere umano, avendo il cuore
pieno di Amore, il solo fondamento di ogni altro sentimento positivo,
che ci fa veri esseri umani.
(M. Carmen Lama, 14 novembre 2013)
13/11/2013
Andrea
Camilleri
La banda
Sacco
Sellerio
editore Palermo 2013
La memoria
«Penso che il caso sia unico nella
storia giudiziaria italiana pur così pesante di capitoli sciagurati»
(Umberto Terracini).
Questa storia, un caso politico oltre che giudiziario, come dice
Camilleriè assolutamente autentica e l’ha potuta scrivere solo
perché Giovanni Sacco, uno dei sei figli di Girolamo, l’ha invitato a
raccontare le vicende della sua famiglia fornendogli documenti
ufficiali, familiari e atti del processo.
Una storia inverosimile,
come la realtà ormai ci ha abituati,è
quella della famiglia Sacco, famosa tristemente come “La banda
Sacco”, nella Sicilia degli anni ’20, precisamente a
Raffadali in provincia di Agrigento. Il
capofamiglia Luigi Sacco nella seconda metà dell’Ottocentoè un
giovane onesto ed indefesso lavoratore,
travaglia campagne
campagne come
jornatante
agricolo stagionale, di memoria marxista le sue uniche ricchezze sono
dù
vrazza forti, a ciò si
aggiungono la gioventù e tanta
gana
di travagliare.
Sono lontani gli eventi tragici che sovvertiranno il suo futuro e
quello dei suoi figli e nipoti. Si può lavorare onestamente, formarsi
una famiglia e realizzare una certa posizione economica e tutto
questo essere compromesso dalle malversazioni di capimafia locali,
manovrati da eminenze grigie?
L’ascesa di una famiglia, conosciuta per l’onestà, la serietà, il
rispetto assoluto della parola data,
Mai uno screzio, mai un’azzuffatina
tra loro, sarà la sua discesa poi negli inferi, tra
latitanze, carceri, ingiustizie, processi e morti anche. Intanto la
famiglia cresce e attraversa l’emigrazione nell’America latina, la
guerra del 15-18, il fascismo mentre la
Piovra allunga i suoi
tentacoli e branca i fratelli Sacco che vogliono vivere tranquilli e
malgrado loro diventano agli occhi dell’opinione pubblica, manipolata
ad hoc, dei delinquenti. Da vittime e
testimoni di verità a accusati e dalla
mafia da una parte e dalle forze dell’ordine e dallo Stato dall’altra
che dovrebbero tutelare e salvaguardare le persone dabbene. Il
prefetto di ferro,
Cesare Mori, dotato da Mussolini di pieni
poteri per sterminare la mafia in Sicilia, aveva a sua disposizione
carabinieri, pubblica sicurezza, corpi speciali e reparti
dell’esercito, peccato che con il pretesto di combattere la mafia, fu
posto il bando ai principi generali del diritto, alle garanzie
costituzionali dello Statuto albertino,
all’osservanza dell’habeas
corpus dei cittadini, alla corretta applicazione della
stessa legge di pubblica sicurezza. Nel presupposto di far valere la
legge, interi corpi dello Stato non ebbero scrupolo
a operare fuori dalla legge e anche contro
la legge…Si perpetrarono vere e proprie razzie quando si eseguivano i
mandati di cattura, le confessioni venivano estorte con violenza
secondo metodi d’indagine barbarici, salvo poi rilasciare con
opportune per “mancanze di prove” chi di dovere. Il prefetto ai
giornalisti ricordava la pericolosità della banda Sacco, dedita alle
rapine, alla grassazione, al furto, all’abigeato e come animali
braccati i fratelli Sacco subiscono questa
accanita ed ingiusta persecuzione da parte dei mafiosi e dalla legge
fascista, tacciati di essere anche dei sovversivi, perché socialisti;
ma nonè una vita che può durare a lungo,
non si può andare a
lavorare la terra come per andare a
fare la guerra. Ancora Camilleri in un’intervista afferma
che i Sacco si opposero e combatterono
contro forze avverse, ma non usarono mai le armi, mai uccisero!
Il questo senso la vicenda della
banda Sacco misconosciuta
ai più, ha un che di straordinario e non sempre l’onestà, la
rettitudine pagano. La verità è piegata
ad usum
Delphini, la giustiziaè
per i potenti e i soverchiatori, in una visione fatalistica ed
ineluttabile della vita, soccombono i deboli, i vinti di natura.
Camilleri in veste di storico sa scrivere e descrivere ciò che desta
attenzione ed indignazione, soprattutto quando gli umili e gli
indifesi diventano offesi, capri espiatori di tutte le aberrazioni di
una società che di civile ha solo la sua falsa rappresentazione.
Eppure in questa narrazione di fatti
cruenti e vessatori, fa da contrappunto una Sicilia selvaggia e
misteriosa, dai paesaggi rupestri, dalle campagne riarse,
travagliate con il sudore
e la fatica dei
viddani di
Pirandello, di Verga, dai vigneti e
pistacchieti: immagini, odori e profumi
e suoni ormai memoria al più di pagine letterarie.
Ancora una volta Camilleri attraverso i suoi scritti
penetra nell’anima della Sicilia, nelle
sue ineffabili contraddizioni e superando lo spazio geografico
isolano riflette quanto storicamente sia impossibile trovare un
equilibrio tra il piano del diritto e quello del potere: il primato
dello Statoè soperchiato da forze collaterali e centripete e questi
fatti ne sono la prova.
Arcangela Cammalleri
10/11/2013
Storia della colonna infame
di
Alessandro Manzoni
Introduzione di Maurizio Cucchi
Giangiacomo Feltrinelli Editore
www.feltrinellieditore.it
Saggistica storica
Collana Universale Economica I Classici
L’infamia non dei condannati, ma dei giudici
Nel corso del lavoro preparatorio dei
Promessi sposi, consistente nella ricerca di documentazioni sui
fatti dell’epoca in cui si svolge la vicenda di Renzo e Lucia,
Alessandro Manzoni s’imbatté in incartamenti che parlavano di un
processo intentato nel 1630 nei confronti di due uomini accusati di
propagare la peste che allora infieriva nel milanese e nelle contrade
limitrofe. Al riguardo ricordo che, nella sua celeberrima opera,
alla diffusione del morbo e alle sue tragiche conseguenze sono
dedicate pagine fra le più belle. Questo procedimento giudiziario in
origine avrebbe dovuto essere parte integrante dei Promessi sposi,
per la precisione in quella parte del libro appunto dedicata alla
peste, ma la sua caratteristica di digressione, non disgiunta dalla
non trascurabile lunghezza, indusse l’autore a non includerla nel
romanzo, sia per evitare uno squilibrio, sia nel timore di
disorientare i lettori. E fu così perciò che questo saggio storico
ebbe una destinazione autonoma, cioè come di lavoro destinato a una
pubblicazione a sé stante, anche se, abbastanza di frequente, capita
che gli editori la propongano al termine dei Promessi sposi,
in un unico volume.
In Storia della colonna infame Manzoni scrive appunto
di questo processo, avvenuto a Milano nel 1630, contro Guglielmo
Piazza, commissario di sanità, e Gian Giacomo Mora, barbiere,
accusati da Caterina Rosa, definita dallo stesso autore “donnicciola”
del popolo, di aver provocato il morbo e la sua diffusione con strane
misteriose sostanze con le quali venivano unti i muri e le porte
delle case, e da qui il termine di “untori” attribuito ai due
disgraziati. Sottoposti a torture, confessarono benché innocenti, e
furono condannati alla pena capitale, preceduta da altre crudeltà che
solo a pensarci fanno rabbrividire. Fra le pene accessorie ci fu
anche la distruzione della casa del barbiere, sulle cui rovine, a
perpetuo monito, venne eretta una colonna, chiamata “colonna infame”,
che nel 1778 fu abbattuta, a parziale riabilitazione dei condannati,
stante che eventualmente l’infamia avrebbe dovuto essere attribuita a
chi li giudicò.
La vicenda, in sé interessante, non sarebbe tuttavia meritevole di
particolare attenzione se non si guardasse al punto di vista del
Manzoni, al suo grande senso di pietà, ma anche alla sua disamina di
carattere morale. Veroè che erano tempi difficili, che il morbo si
propagava incontrollato, che l’ignoranza del popolo creava e
costruiva superstizioni, ma chi aveva istruzione non avrebbe dovuto
credere che la peste fosse una creazione di due uomini, volta, non si
sa per quale motivo, ad annientare la popolazione. Com’è possibile
che i giudici prestassero fede alla linguaccia di una donnicciola,
avviando un’indagine che con i primi arresti indusse il popolo a
credere che potessero esistere gli untori, in una frenesia collettiva
che reclamava sangue per riparare ad altro sangue versato?
L’analisi che del fatto fa Manzoniè sì storica, ma anche giuridica,
psicologica, sociologica e politica. In questi giudici non soloè
assente la pietà, ma manca anche il buonsenso; inoltre, al servizio
dei potenti, incapaci di arginare il morbo, nel timore di una
ribellione cercarono di trovare il cosiddetto capro espiatorio in due
poveri innocenti. Fuori da ogni logica inventarono un processo,
diedero in pasto a gente esasperata i presunti autori delle loro
disgrazie, senza un minimo di coscienza, tesi solo a soddisfare il
ventre molle di un popolo inferocito. Dopo l’esecuzione della
sentenza la peste continuò a divampare e nessuno pensò che in fondo
non c’erano più gli untori, ma intanto la tensione che prima cresceva
ogni giorno era sbollita nelle urla strazianti dei condannati
torturati sulla pubblica piazza. Quei giudici sapevano quello che
facevano, sapevano cosa dare al popolo affinché si placasse, quel che
non sapevanoè che l’infamia non era dei condannati, ma solo loro.
Il libroè veramente stupendo e credo che sarebbe opportuno che fosse
oggetto di studio nelle scuole; non aggiungo altro, se non il
consiglio di leggerlo.
Alessandro Manzoni
nasce a Milano nel 1785. Figlio
del conte Pietro e di Giulia Beccaria, viene educato nei collegi dei
padri Somaschi e Barnabiti, finché nel 1805 raggiunge la madre a
Parigi, dove soggiorna fino al 1810 entrando in contatto con gli
idéologues repubblicani e stringendo amicizia con il filosofo
Claude Fauriel. Nel 1808 si sposa con Enrichetta Blondel e due anni
dopo, nel 1810, si converte al cattolicesimo. Seguono anni di intensa
attività letteraria e di intensi contatti con gli ambienti del
romanticismo milanese: ne nasce la poesia dei primi Inni sacri
(1812-15) e delle odi politiche (Marzo 1821, 1848, e Il
cinque maggio, 1821) e l'interesse per un rinnovato teatro
tragico, svincolato dai canoni del classicismo (Il conte di
Carmagnola, 1820, e Adelchi, 1822). Nel 1823, dopo
un'ulteriore prova di poesia liturgica (Pentecoste, 1822),
termina il Fermo e Lucia, prima e provvisoria stesura del
romanzo storico a cui si era dedicato fin dal 1821 e che sarà
pubblicato quattro anni più tardi con il titolo I promessi sposi
(1827). A partire da questa data diminuisce la sua attenzione per i
problemi letterari: gli anni trenta sono segnati da una lunga serie
di lutti familiari (morte della moglie e di alcuni dei suoi dieci
figli) e dalla lunga revisione linguistica del romanzo, la cosiddetta
"risciacquatura dei panni in Arno", avviata dal soggiorno fiorentino
del 1827 e portata a termine nel 1840, con la pubblicazione a
fascicoli dell'opera, integrata dall'appendice sulla Storia della
colonna infame. Sempre più convinto dell'impossibilità di
conciliare invenzione letteraria e adesione al "vero storico" (Del
romanzo storico, 1850), negli anni successivi Manzoni, pur
godendo di grande fortuna già presso i contemporanei, abbandona del
tutto l'attività letteraria; nominato senatore a vita nel 1861, vota
a favore della liberazione di Roma (1864) edè presidente della
Commissione parlamentare sull'unità linguistica. Nell'anniversario
della sua morte, avvenuta a Milano nel 1873, Giuseppe Verdi compone e
dirige la Messa da requiem.
Renzo Montagnoli
6/11/2013
Sazia di luce
di Adriana Pedicini
Nota dell’autrice
Prefazione di Giuseppe Possa
Edizioni Il Foglio Letterario
www.ilfoglioletterario.it
Collana Orizzonti
Dal buio della notte all’alba lucente
Ci sono momenti nella vita in cui una
malattia particolarmente seria non solo ha ripercussioni sul fisico,
ma inevitabilmente presenta riflessi sulla psiche. Il timore di non
guarire, la paura che la stessa esistenza possa venire meno finisce
con il condizionare inesorabilmente il nostro modo di essere, e ciò
indipendentemente dal fatto che si combatta e che non subentri una
sofferta rassegnazione. Questa esperienzaè stata provata anche da
Adriana Pedicini che, amante della poesia, di cuiè anche eccellente
autrice, ha inteso tradurla in versi. Sono liriche, quelle della
prima parte, che esprimono in modo perfetto questo stato d’animo,
come per esempio, in Hic et nunc (Le lacrime bucano le
rocce / del cuore dalla volontà / levigate e dall’amore. / Le
raccolgo / otre accartocciato / pieno al fondo di detriti / e di
pagliuzze tra la sabbia.). Per il titolo, non a caso,è stata
usata questa locuzione latina che letteralmente si traduce in qui
ed ora, che nell’italiano corrente non ha tuttavia un significato
chiarificatore, ma che nell’uso filosofico assume una valenza del
tutto particolare. Infatti, nell’esistenzialismo, di cui Martin
Heideggerè stato uno dei più insigni rappresentanti insieme con Karl
Jaspers, Hic et nunc sinteticamente esprime il concetto
dominante di questa filosofia, con l’essere umano visto nella
fragilità della sua condizione a tempo, di questa sua precarietà
determinata da una fine certa. E questo stato di incertezza si rivela
più che mai come determinante proprio nel momento in cui si nutrono
timori per la propria vita. Ancora più esplicativa poi appare
Stanza d’ospedale, laddove l’essere umano, in questo tempo
incerto, cerca conforto nelle voci, nei rumori d’ogni giorno, nelle
parole dei medici, maè un sollievo forzoso, momentaneo, poiché come
s’avvicina la sera, con le ombre che calano e che naturalmente
isolano l’individuo, inevitabile prende il sopravvento quell’angoscia
prima in apparenza celata.
Mi preme, però, rassicurare i lettori:
questa silloge nonè una voce di pianto, non porta a sollecitare
facili commozioni, bensìè una descrizione realistica delle tante
emozioni che investono l’essere umano in questa particolare
condizione, anzi rappresenta una fine e veritiera analisi
psicologica.
Se la prima parte ha questo fine, che fra
l’altro può indurre a un pathos non indifferente, la seconda potrei
definirla di resurrezione, come quella di una vicenda iniziata con le
peggiori prospettive, ma che si conclude felicemente. E non a caso
la linea di demarcazioneè portata da una poesia che si intitola
Profumo di Natale ( Timida e rossa / come le mie gote
giovinette / la piccola euphorbia / dall’angolo riposto / tinge di
colore / la mia anima, / sommessa luce / in uggioso avvento. /…/ Ho
respirato profumo di Natale.). Più che di una natività si tratta
di una rinascita per chi vede innanzi a sé la via della guarigione.
L’ispirazione cambia, al grigio brumoso si sostituiscono altri
colori, un richiamo alla vita, e allora al Profumo di Natale
segue quello della primavera e perfino la pioggia diventa amica.
Tutto appare diverso, in una luce nuova e si ritrova il piacere di
osservare la natura con il cuore ora traboccante di gioia. Quel senso
di precarietàè assopito, lasciato alle discussioni filosofiche di
chi studia Heidegger e Jaspers; resta però una domanda: chi siamo?
Ben strutturata, per nulla enfatica, questa sillogeè di facile
lettura e invita non poco a meditare sul significato della vita, sul
valore di certi aspetti che spesso consideriamo insignificanti, ma
che nell’arco di un’esistenza assurgono a beni primari, come può
essere quello di osservare un fiore, consapevoli di poterlo ancora
fare nei giorni a venire, senza che una spada di Damocle incombente
ci assilli, togliendoci la gioia di riscoprire il valore di tante
piccole grandi cose.
Da leggere, indubbiamente.
Adriana Pedicini, vive a
Benevento. Già docente di lettere classiche nei Licei, scrive da
tempo, ma solo con la pensione ha iniziato a dare concretamente
visibilità alla sua scrittura. Ha pubblicato una raccolta di racconti
I luoghi della memoria, A. Sacco editore 2011, (1° Premio nel
Concorso Internazionale di Narrativa Taormina 2010) e una silloge di
poesie, Noemàtia, Lineeinfinite edizioni 2012. Tra esse figura la
poesia Mare Monstrum, I° premio al Premio internazionale di poesia
Otto milioni 2013, assegnato dal Comune di Torrenova (Me). Ha anche
curato Da Europa all’Europa (Ilmiolibro.it 2010), dispense didattiche
sul teatro antico e sull’origine della civiltà occidentale,
attraverso il mito di Europa e gli archetipi del pensiero, del
diritto, dell’arte, della letteratura.è presente con poesie e
racconti su varie antologie anche on-line. Collabora con diversi blog
e siti letterari. Per contatti:
adripedi@virgilio.it
Renzo Montagnoli
3/11/2013
Argo il cieco
di
Gesualdo Bufalino
Introduzione di Massimo Onofri
Bompiani Editore
Narrativa romanzo
Collana Tascabili narrativa
Memoria e sogno
“…Infine dai costoni di monte Tabbuto,
dalle grotte di Pantalica e d’Ispica, tutta la terra, miocene e
pliocene, schisti, faglie, semenze e tane, vene d’acqua e crepacci da
sisma, tutta la terra del Val di Noto tremò, socchiuse
impercettibilmente le labbra a un sorriso. Uno scorpione fra due
sassi strofinò languido le due chele fra loro, una madamina lucertola
dalla trincea d’un filo d’erba sporse un attimo il muso, lo ritrasse
, lo sporse ancora, Don Alvise si tolse le mutande lunghe di lana e
fu primavera.”
È strana la storia di questo grande autore
siciliano che pubblicò il suo primo e fortunato romanzo Diceria
dell’untore, e solo in seguito a un fatto fortuito, nel 1981,
quando cioè aveva già 61 anni. Da allora, fu come si fosse scrollato
di dosso una maledizione che lo aveva relegato in una oscura vita di
insegnante e così, nel lasso di tempo che ancora gli restò da vivere
(morirà il 14 giugno 1996 in un incidente d’auto) diede vita a una
corposa produzione, peraltro tutta di elevata qualità. Fra questa
figura anche Argo il cieco, che vide la luce nel 1984,
un altro romanzo che pone in risalto, oltre alla straordinaria
capacità narrativa, la sua altrettanto stupefacente abilità nell’uso
della parola, mai superflua pur risultando abbondante, una quasi
prosa poetica che al tempo stesso affascina e diverte.
E Argo il ciecoè la sua seconda opera, smentendo così
l’idea che non pochi si erano fatti che Diceria dell’untore
fosse un unicum, un’esperienza di vita vissuta più volte
scritta e riscritta quasi a futura memoria.è proprio la memoria che
si mette in luce nuovamente in questo libro in cui l’autore pare
voler rendere confessione al lettore accompagnandolo per mano fra
presente e passato, con un’epoca in cui un uomo, ormai avanti con gli
anni, cerca di fare i conti con il suo trascorso, ma un trascorso
particolare, un anno, il 1951, da lui vissuto a Modica.
Così, chi non ha più speranze di futuro e come un cieco non lo vede,
cercando anche di oscurare un presente del tutto insoddisfacente, il
ricorso al ricordoè un espediente per rifugiarsi in una realtà
passata, magari in parte arricchita con la fantasia. La ricerca
dell’amore in un trentenne che in quel 1951 si considerava vecchio e
che ora a sessant’anni si sforza di pensarsi giovaneè l’occasione
per una lunga carrellata su tutta una serie di personaggi, compreso
un Gesualdo così diverso (ma fino a un certo punto) dall’attuale.
Quel giovane insegnante, in quell’estate a Modica di trent’anni
prima, più che cercare l’amore, vuole l’amore, come un fatto proprio
e unilaterale, il che poi gli comporterà inevitabili insuccessi. Le
varie Maria Venera, Cecilia, Isolina ritornano alla sua memoria come
sogni di gioventù, desideri di un ardore frenato dall’inconscio
limite di non impegnarsi troppo, e così i suoi innamoramenti non
vengono corrisposti, diventano una sorta di temporanee infatuazioni,
che non cerca di concretizzare e, anche quando, lo fa,è già più che
certo dell’inevitabile rifiuto. Si tratta di un personaggio che
arranca fra le donne con l’inconsapevole presupposto che l’amore,
quello vero, e non quindi il convegno carnale,è un attimo fuggente,
una chimera da inseguire per avere poi, più avanti negli anni, un
ricordo che, sbiadito, magari anche in parte inventato, consenta di
fare un bilancio non del tutto in perdita.
Bufalino si dimostra un maestro in questo difficile compito,
intervenendo con sottile ironia, proprio quando può sembrare che la
narrazione gli stia sfuggendo di mano, miscelando abilmente
un’atmosfera e un’ambientazione che sono palpabili, intercalando
qualche sciabolata sui costumi con riflessioni che non sono mai fuori
tema.
Inoltre, quello che stupisce e affascinaè lo stile, quasi
arabescato, uno sviluppo di parole dotate di armonia che
costituiscono una preziosa cornice – di cui più sopra fornisco un
esempio – a una vicenda di per sé quanto mai avvincente. La cultura
di Bufalino era senza dubbio assai elevata, ma l’uso che lui ne fa in
questo libro nonè mai fine a se stesso, nonè ostentato, anzi appare
più che mai funzionale alla trama, conferendo all’opera un ulteriore
elemento di pregio.
A questo punto mi sembra quasi superfluo aggiungere che ne caldeggio
vivamente la lettura.
Gesualdo Bufalino
(Comiso 1920-1996)è stato
memorabile autore di romanzi (Diceria dell’untore, 1981;
Argo il cieco, 1984; Le menzogne della notte, 1988, ecc.),
racconti (L’uomo invaso e altre invenzioni, 1986), poesie (L’amaro
miele, 1982), saggi (Cere perse, 1985; La luce e il
lutto, 1988, ecc.), libri di aforismi (Il malpensante,
1987; Bluff di parole, 1994), traduzioni. Le sue opere
complete, in due volumi, sono edite nei Classici Bompiani.
Renzo Montagnoli
29/10/2013
Novecento
Cronache di un secolo italiano dal terremoto di Messina a Mani Pulite
di
Matteo Collura
TEA Libri
www.tealibri.it
Storia
Collana Tea storica
I fatti salienti di un secolo
Ci si potrebbe chiedere se vale la pena di
comprare questo libro, visto che la storia del “Novecento”è stata
oggetto di una miriade di pubblicazioni e che di questo secolo si sa
quindi molto, anche se non tutto. Aggiungo poi che non pochi di noi
sono stati testimoni di eventi che hanno caratterizzato il periodo e
che quindi parrebbe un non senso andarseli a rileggere. Tuttavia, a
parte che una serena rinfrescata della memoriaè sempre opportuna,
questo testo di Matteo Collura presenta caratteristiche tali da
renderlo un unicum nel panorama della saggistica storica.
Innanzi tutto l’autore non interpreta gli eventi, ma li narra, con
una capacità linguistica e letteraria che in genere gli storici non
posseggono, e quindi la lettura risulta particolarmente piacevole e
per nulla affaticante. Inoltre, pur nella corposità del testo (420
pagine), Collura non ha la pretesa di scrivere tutto dell’intero
secolo, ma molto opportunamente siè limitato a quei fatti che ha
ritenuto salienti e peculiari, fatti che hanno caratterizzato la vita
del nostro paese e le cui conseguenze si sono trascinate nel tempo,
fino ai giorni nostri, perché nullaè staccato e del tutto autonomo,
ma si inserisce in un ciclo in cui si determina anche il futuro.
E di eventi siffatti ce ne sono tantissimi, a volte solo
caratteristici del nostro paese, altri invece inseriti in un contesto
internazionale che determina l’evoluzione dell’umanità.
Corredati da ampi riferimenti bibliografici, con le fonti riportate a
fine opera, c’è quindi la possibilità di fare una lunga, piacevole e
istruttiva cavalcata dagli inizi del XX secolo fino al suo termine.
Poiché si tratta di fatti importanti, almeno secondo l’autore, ma
ritenuti tali anche dagli storici, ci sono tanti capitoli, ognuno con
il suo evento, con comeè accaduto, un resoconto quasi giornalistico,
ma senza la pretesa di influenzare il lettore con un giudizio o
comunque con un’opinione.
Per quanto siano tutti di estremo interesse, ne ho trovato alcuni
particolarmente riusciti e meritevoli di maggiore attenzione.
In “Tre spari a Monza aprono il secolo” si riporta
l’assassinio, da parte dell’anarchico Bresci, del re Umberto I, il
cosiddetto Re buono, secondo un vezzo di casa Savoia di farsi
attribuire qualità opposte alla realtà; infatti non dimentichiamo che
questo monarca “di grande bontà” fu quello che diede ordine al
generale Bava Beccaris di sparare sulla folla (uomini, donne e
bambini) che pacificamente a Milano manifestava per avere migliori
condizioni di vita.
“Tripoli bel suol d’amore” parla invece dell’inizio della
nostra avventura coloniale nel mar Mediterraneo, con arguzia e anche
mettendo bene in evidenza la tradizionale scarsa preparazione
dell’esercito italiano, una costante che si ripeterà anche in
seguito, con conseguenze ben più gravi.
E che dire di “O Roma o morte, viaggiando in vagone letto” a
proposito della marcia su Roma? A conti fatti fu una marcetta, una
rivoluzione da operetta ed ebbe successo grazie a un re che si
dimostrò sempre incapace di governare una nazione. La conferma di
questa nullità politica si riscontra soprattutto in “Otto
settembre, l’armistizio degli inganni”, un fatto vergognoso, più
che per il tradimento perpetrato nei confronti dell’alleato
germanico, per quello molto più grave ordito a danno degli italiani,
lasciati soli, senza direttive, in balia della assai presumibile
reazione tedesca, da un re e da una corte in una ignobile fuga. Il
popolo, una volta tanto, non dimenticò e si vendicò in occasione del
referendum Monarchia-Repubblica, evento oggetto di un capitolo che
riesce perfettamente a ricreare quell’epoca, nei difficili anni del
dopo guerra, fra sofferenze e speranze.
Altro articolo di grande rilievoè l’avvento della televisione che
così profondamente modificherà le abitudini di vita degli italiani e
questo grazie a una trasmissione che stregava. Fu Lascia o
raddoppia, presentata e condotta dall’indimenticabile Mike
Bongiorno, che entrò nelle case, nei bar, nei cinema e una volta ogni
settimana riuscì per una sera a riunificare gli italiani, anche
quelli poco colti, spesso addirittura analfabeti, grazie sì alla
formula del quiz, ma anche alla personalità di molti concorrenti,
come Degoli, Marianini, ecc..
E poi ci sono i tristi anni di piombo, dall’attentato a Piazza
Fontana, di cui Collura scrive in modo così convincente da avvertire
un brivido lungo la schiena nel leggere di tante vittime innocenti.
Se per la morte di Pasolini c’è un resoconto puntuale, ma pietoso,
uno dei pezzi forti riguarda il sequestro e l’assassinio di Aldo
Moro. Il capitoloè intitolato “L’affaire moro”, come
l’omonimo libro di Leonardo Sciascia, di cui Colluraè grande
estimatore. Da potente capo politico, nel trascorrere dei giorni, lo
statista piano piano diventa uomo, con le sue paure, con le sue
invocazioni e infine con la rassegnazione di chi sa che il suo
destino sta per compiersi.è un articolo non di grande, ma di
grandissimo valore, in cui Collura siè superato, con un ritratto
guidato da una virtù ormai rara: la pietà.
Dalla tragica fine di Falcone e Borsellino si passa alla famosa
Tangentopoli; siamo alla fine del secolo, un secolo travagliato, con
l’Italia coinvolta in due guerre mondiali, con il periodo fulgido
della Resistenza, con una pace lunga e speriamo infinita,
contraddistinta però da fatti di sangue, da manovre eversive, da
scandali in cui la politicaè protagonista, in un lento declino del
paese, di cui noi italiani siamo vittime, ma anche artefici.
Eppure per molti l’Italiaè ancora un faro di speranza e infatti il
libro non poteva che concludersi con Un tragico miraggio per i
disperati del Terzo Mondo. Nel secolo agli sgoccioli si
manifestano le grandi migrazioni, con disperati che fuggono dalla
guerra e dalla fame su barconi e su zattere, non di rado naufragando,
diretti in Italia, vista come un’oasi nel deserto della disperazione.
Il fenomeno, come ben sappiamo, continua anche oggi e se prima si
trattava di albanesi, ora invece sono africani, ma la provenienza non
conta, né il colore della pelle: sono uomini, donne e bambini che
cercano la vita.
Mi pare quasi superfluo aggiungere che Novecentoè ampiamente
meritevole di essere letto.
Matteo Collura
è nato ad Agrigento nel 1945. Autore del bestseller Sicilia
sconosciuta (Rizzoli 1984, 1997) e della versione teatrale del
romanzo si Sciascia Todo modo, scrive articoli di cultura per il
Corriere della Sera e vive a Milano.
Renzo Montagnoli
25/10/2013
Il quinto stato
di Ferdinando Camon
Prefazione di Pier Paolo Pasolini
Postfazione di Gianfranco Bettin
Premessa dell’autore
Edizioni TEA
Narrativa romanzo
Com’era la civiltà contadina
“ Nei campi dei Frati si trova
il cimitero col quale comincia il paese di San Marco, e il cimitero
consiste in un quarto di campo che per ora nonè coltivato maè
lasciato lì per le tombe, e le tombe si distinguono per i piccoli
rialzi di terra smossa nella quale son piantati dei fiori da morto.
Il cimitero nonè recintato e così i mortiè come se non avessero una
sede obbligata, e infatti la loro presenza la si sente massiccia e
ingombrante un po’ dovunque, tanto che mio padre ci raccontava al
focolare che uno dei nostri antenati passando di notte davanti al
cimitero sentì qualcuno piangere e disperarsi ma guardando bene non
vide nessuno anche se c’era luna grande, e poiché il pianto gli
s’avvicinava tanto che ormai gli era a un passo, per lo spavento si
fece il segno della croce per arrestarlo e disse:<< Anema del
Purgatorio, dime chi te sì, che te fo dir na messa>>. Ma ormai era
troppo tardi, il pianto gli era addosso anzi era come se glielo
versassero dentro le orecchie, e allora l’antenato buttò via il
tabarro e scappò saltando i fossi e le siepi, piombò in casa, sprangò
la porta, e subito sentì come un tonfo contro di essa: certo doveva
trattarsi di un’anima del purgatorio o dell’Inferno, comunque arsa
nel fuoco, perché al mattino dopo aprendo la porta vi scoprì
l’impronta bruciacchiata di due ossa incrociate.”
Il quinto statoè il primo romanzo pubblicato da
Ferdinando Camon, loè in assoluto, ma anche quale primo scritto di
un ciclo, da lui definito Ciclo degli Ultimi (gli altri sono
La vita eterna e Un altare per la madre), destinato a
quello che era una civiltà da non molto tempo scomparsa, quella
contadina.
La suaè una testimonianza diretta in quanto figlio di contadini,
cresciuto in quell’ambiente, da cui poiè emigrato, grazie agli
studi, prima che tutto finisse, prima che una società immobile da
secoli fosse spazzata via, quasi in un lampo, sostituita da una vera
e propria industria della terra, in cui la presenza, precedentemente
pressoché totale del lavoro manuale,è stata cancellata dal ricorso
alle macchine, da sistemi di produzione ben diversi da quelli in
passato utilizzati per millenni.è un po’ ciò cheè avvenuto con il
passaggio dall’attività artigiana a quella industriale, dalla
produzione singola o quasi a quella in grande serie, ma nel caso
della campagna siè verificato un cambiamento più radicale del modo
di vivere e di essere di colui che coltiva la terra, perché, a
differenza dell’artigiano che poteva trarre beneficio da continue
innovazioni tecnologiche, il sistema produttivo era rimasto pressoché
inalterato nei secoli. Per quanto io - ma ero ancora bambino - abbia
potuto vedere questo mondo oggi estinto, ho ritratto più che altro
impressioni, poiché non ne ero parte, provenendo dalla città. Nel
leggere questo libro mi sono reso conto di quanto inesatte fossero le
mie conclusioni fondate su queste sensazioni, di quanto apparisse
ridicolo un mio certo senso di superiorità con cui relegavo i
contadini, benché parenti anche stretti, al rango di esseri alla
periferia di un mondo, il mio, che appariva moderno, privo di
pregiudizi, fondato su calcoli razionali e su una materialità che
sembravano destinare l’umanità a un futuro paradisiaco. Insomma,
sentivo lontani i contadini, quasi parti di un’altra società che non
era cresciuta e si era evoluta come la mia. Il quinto stato
mi ha aperto gli occhi, ha squarciato un velo di pregiudizio di cui
dovrei provar vergogna, perché non miè più possibile riparare,
perché quelle genti non esistono più, morte e sepolte a causa
dell’avanzata età, oppure letteralmente trasformate, e spesso con un
processo assai rapido, in netto contrasto con l’immobilismo di
secoli.
Camon sa ben descrivere quel mondo, con un linguaggio, che senza
scendere al loro, nonè il nostro corrente, ma un abile artificio in
cui il ricorso alla parola, anche dialettale, consente al lettore di
calarsi meglio nell’ ambiente, in un’atmosfera unica e irripetibile.
Uomini e donne che si sfiancano dalla mattina alla sera a lavorare
quella terra che al contempo amano e odiano, arature lunghe
avvalendosi come traino del bue, un paesaggio piatto, assolato
d’estate, brumoso in inverno, i cui abitanti si muovono e si agitano
da millenni, con una ripetitività tale che il futuro si può
identificare benissimo con il presente e con il passato. C’è una
religiosità che promana da quel legame con la natura, in un intreccio
con un cristianesimo permeato di superstizioni, di antichi riti una
volta forse condotti da sciamani e più avanti invece da preti. I
concetti stessi di famiglia e di proprietà risultano atavici, anche
se non per questo errati, con curiosità del tutto particolari, come i
rituali consentiti per il corteggiamento, quelli per il matrimonio,
come l’inveterata abitudine di attribuire ai nati i nomi di avi
defunti che con il tempo svilupperanno le stesse malattie di chi han
preso il nome.
E’ un mondo popolato di spiriti, anzi in cui la presenza del diavolo
è costante, in cui pertanto il ricorso all’esorcistaè assai
frequente, un mondo che a prima vista potrebbe sembrare quello
dell’antica Arcadia, con la quiete dei campi, le lente processioni
per reclamare la pioggia o per evitare la grandine, maè anche un
mondo di grandi odi e di grandi amori, un mondo estremo, in cui
violenze bestiali si accompagnano a grandi slanci di solidarietà, una
società chiusa in un vago concetto di paese, i cui abitanti tutti si
conoscono, si guardano spesso in cagnesco, ma anche si aiutano.
Ci sono volute forse la guerra, la seconda, le violenze
dell’occupante tedesco, le distruzioni e poi l’immancabile
ricostruzione, con lo sviluppo industriale, a minare questa
immobilità e come un coccio troppo vecchio la civiltà contadina ha
cominciato a incrinarsi, con i giovani attirati irresistibilmente
dalla città, dal lavoro nell’industria, meno pesante di quello dei
campi, e poi, più velocemente di quanto non si pensi, il vaso siè
rotto, perché chiè rimasto a lavorare la terra ha dovuto, in
mancanza di braccia, ricorrere alle macchine, ha dovuto scoprire
nuove colture e nuovi metodi di coltivazione, gliè stato necessario
programmare, investire, diventando così un vero e proprio
imprenditore.
La mentalità poco a pocoè cambiata, mantenendo tuttavia qualche
tratto di quella vecchia, tenendo sempre ben in evidenza il diavolo,
quell’entità oscura che rappresenta il male in noi tutti, anche nei
santi. Sì, l’esorcista nonè sparito, ma ora contro la grandine si
usano i cannoni, contro la siccità l’irrigazione artificiale e la
famiglia, ormai di numero ridotto, nonè più legata alla stretta
gerarchia del tempo andato. Gli odi sono diventati inimicizie e la
solidarietà si limita per lo più a poche parole di circostanza.
Com’è lontano il mondo in cui trascorse la sua giovinezza Camon, ma
come appare vicino leggendo il suo libro, come si avverte la fatica
del duro lavoro, l’emozione che accompagna la narrazione quando si
parla di una giovinetta ospitata a seguito della famosa alluvione del
Po del 1951, quel contatto con una cittadina che apriva l’allora
giovane scrittore a un’altra realtà, sconosciuta e pertanto
mitizzata. Ecco allora che s’incrina un modo di vivere immutabile, si
sogna una vita diversa e quindi comincia, dapprima lenta, l’erosione
di una civiltà; sono pagine intense di quello che non si può chiamare
romanzo, ma quasi una confessione, il ricordo, con una punta di
rimpianto, di ciò che era e poi sparì.
Il libroè molto bello, con più di una pagina in cui emerge una vena
poetica sincera senza essere accorata, con tante figure, molte senza
un nome, in quanto emblematiche di un certo modo di vivere, ma che
destano curiosità, anche simpatia, immagini indistinte, ombre ormai
relegate a memoria per chi scrive e a esemplari protagonisti di una
società scomparsa per il fortunato lettore che vorrà scoprire radici
ormai per sempre sepolte.
Ferdinando Camon
è nato in provincia di Padova. In una dozzina di romanzi (tutti
pubblicati con Garzanti) ha raccontato la morte della civiltà
contadina (Il quinto stato, La vita eterna, Un
altare per la madre – Premio Strega 1978), il terrorismo (Occidente,
Storia di Sirio), la psicoanalisi (La malattia chiamata
uomo, La donna dei fili), e lo scontro di civiltà, con
l'arrivo degli extracomunitari (La Terraè di tutti).è
tradotto in 22 paesi. Il suo ultimo romanzoè La mia stirpe
(2011).
Il suo sitoè
www.ferdinandocamon.it
Renzo Montagnoli
22/10/2013
Vite doppie
di
Mario Caccavale
Arnoldo Mondadori Editore
Narrativa romanzo
Il gioco della verità
Il risvolto della originale copertina
riporta fra l’altro:….
“un gruppo di criminali cattura
l'imbarcazione sequestrando ospiti ed equipaggio. Condizione estrema,
estrema modalità di sopravvivenza. Leo propone un "gioco": ciascuno
deve narrare agli altri una memoria segreta, un episodio vissuto o
conosciuto mai rivelato prima. Dai crudi racconti emergono i tratti
più riposti del carattere dei protagonisti: da Christine, gelosa e
succube dell'amica Eliana, a Vito, uomo d'ordine incapace di
smascherare un collega, a Guido, intellettuale sgomento di fronte
alla grave malattia del contitolare della farmacia, che con Leo,
smagato dalla vita, intesse fitti dialoghi su temi esistenziali e
religiosi. Ma son tutte vere quelle storie o in realtà nascondono la
"doppiezza" dell'essere umano?..”
A leggere queste parole
sembrerebbe che il viaggio avventuroso di un gruppo di amici presenti
caratteristiche di un thriller, con i sequestratori che si
impadroniscono di un’imbarcazione in navigazione, con le inevitabili
successive peripezie.
Nonè così, però, o almeno loè solo in parte, perché l’intenzione
dell’autoreè tutt’altra. La sua vuole essere un’analisi attenta e
approfondita dei personaggi, mettendo a nudo il loro reale carattere,
che si mostra grazie al pericolo. In questo gioco che si snoda
durante il sequestro si svela così la vera natura di ognuno, si
mettono alla luce verità inconfessabili, insomma si alza il sipario
sulle apparenze. Sono esseri cinici, in cui l’esistenzaè un
palcoscenico in cui rappresentare una commedia con un copione già
scritto e in cui gli attori, nel loro intimo, non sono mai i
personaggi che interpretano.
Si tratta di un progetto ambizioso indubbiamente e in buona parte
anche riuscito, e questoè senz’altro il merito del libro.
Per quanto possa comprendere che nonè facile scrivere di certi
argomenti, devo però rilevare che lo stile di Caccavale , la sua
narrazione sono abbastanza grevi, con un ritmo che appare lento,
salvo rare pagine, e che se presenta il vantaggio di indurre il
lettore alla riflessione, però alla lunga finisce con stancare, e
così si arriva alla fine con sollievo. O forse ci si affatica nel
leggere perché anche noi, guardandoci dentro, cominciamo a ritrarre
l’impressione che le nostre vite siano due: quella esterna, in cui ci
sforziamo di omologarci, e quella interiore, profondamente diversa,
anche se ciè difficile ammetterlo.
Da leggere, comunque.
Mario Caccavale
(Napoli, 1937)è uno scrittore e giornalista.
Vive a Roma da sempre. Inviato ed editorialista per diversi
quotidiani e settimanali, ha svolto inchieste sulle nuove frontiere
della scienza, sul made in Italy, sul costume, sulla cultura e sullo
spettacolo. Ha scritto saggi di comunicazione politica e aziendale.
Ha pubblicato i seguenti romanzi:
-
Sulla soglia di Pietro (1997, Marsilio Editori)
-
L'illusionista americano (2001, Mondadori)
- Il
gioco dell'ombra (2005, Marsilio Editori)
-
Piano inclinato (2007, Mondadori)
- Una
notte, una vita (2010, Mondadori)
- Vite
doppie (2013, Mondadori)
Renzo Montagnoli
19/10/2013
La neve era sporca
di Georges Simenon
In copertina: Auguste Chabaud, Corridoio d’albergo (1907-1908)
Museum Bochum
Edizioni Adelphi
www.adelphi.it
Narrativa romanzo
Collana Gli Adelphi
Il delitto non paga
Simenon sarà sempre ricordato come l’inventore di quello
straordinario personaggio cheè il Commissario Maigret, di cui ha
scritto tanti libri.
Ma un autore prolifico come lui non poteva, giustamente, limitare la
produzione a una serie, peraltro ben riuscita, e allora ha scritto
romanzi, per lo più di genere noir, e tutti, tranne qualche raro
caso, di maggior valore. Nonè possibile al lettore dimenticare
opere come I fantasmi del cappellaio, Corte d’assise,
Il destino dei Malou, Pioggia nera, L’uomo che
guardava passare i treni, solo per citarne alcune. E sempre,
soprattutto in queste, si resta stupiti della capacità di Simenon di
descrivere in modo perfetto l’atmosfera, di sondare nei più piccoli
anfratti la personalità dei protagonisti. Fino a poco tempo fa non
ero riuscito a trovare un romanzo che si discostasse dall’eccellenza
a cui ormai mi ero abituato, ma, si sa, non tutte le ciambelle
riescono con il buco e, ahimé, la serie altamente positiva siè
improvvisamente interrotta in modo inaspettato con un noir scritto
durante il soggiorno di Simenon negli Stati Uniti. Mi riferisco a
La neve era sporca, che parla ancora una volta di una
mente malata, di cui l’omicidioè quasi naturale conseguenza. La
vicenda in séè valida, con la figura di questo diciannovenne Frank
che uccide per dimostrare a se stesso di essere adulto e all’altezza
dei criminali dell’ambiente in cui vive. Il delitto però non paga e
in un individuo ancora in formazione cominciano ad affiorare i dubbi,
le false certezze si incrinano, complice anche l’universale
sentimento dell’amore, e così piano piano tutto gli sembra diverso,
sciatto, perverso, inutile, tanto da non ribellarsi al destino che
gli riserverà un tragico epilogo.
Simenon dimostra ancora una volta la sua innata capacità di
analizzare, in tutte le sfaccettature, i suoi personaggi, un’analisi
fine in cui riesce a trovare anche una scintilla di salvezza.
Quello che invece non risulta - almeno a mio avviso - in linea con le
tradizionali capacità dell’autore belgaè la descrizione
dell’ambientazione, e non solo di quella, perché l’atmosfera appare
non palpabile, ma artificiosa. Nonè improbabile che il tutto derivi
dalla localizzazione della vicenda, che si svolge durante il secondo
conflitto mondiale in un paese indefinito dell’Europa Centrale, sotto
una dura occupazione che non sembra quella tedesca, bensì quella
sovietica. Del resto, come esposto in una nota introduttiva, lo
stesso Simenon nel corso di un’intervista a proposito di questo
romanzo precisò “L’importanteè che l’esercito di occupazione non
sia riconoscibile, di modo che l’opera abbia un carattere universale.
Anche se, a essere sincero, nella mia mente l’azione si svolge
nell’Europa centrale, e precisamente durante l’occupazione russa.
Ambienti e nomi sono quelli di una città austriaca o ceca.”.
Ecco, il non aver sperimentato direttamente il tallone dell’orso
russo ha costretto Simenon ha inventarsi una sorta di regime
oppressivo, in parte simile a quello nazista, ma che non corrisponde
a quello comunista, di cui probabilmente aveva alcune indicazioni,
incomplete, enfatiche, dai giornali americani, impegnati nella lunga
battaglia della guerra fredda.
E così, mentre ne I fantasmi del cappellaio l’ambiente,
l’atmosfera francesi appaiono al lettore del tutto naturali, qui
invece si riscontra un’artificiosità propria di chi siè abbandonato,
in mancanza di una diretta conoscenza, agli stereotipi della stampa.
Ne risulta così sì un regime oppressivo, ma che appare un frutto
della fantasia, perché nella realtà in quei posti e all’epoca della
vicenda la vita era ben più grama, cupa e angosciante.
Comunque, Simenonè sempre Simenon, quel grande scrittore capace di
avvincere il lettore con un’abilità spesso sconcertante e mi sento di
perdonargli una ciambella riuscita senza buco, perché l’impastoè
ancora buono e una stroncatura sarebbe fuori luogo e ingiusta, tanto
più che la letturaè senz’altro piacevole.
Insomma, più che una caduta,è una scivolata senza aver toccato
terra, edè per questo che concludo dicendo che La neve era
sporcaè senz’altro da leggere.
Georges Simenon,
nato a Liegi nel 1903, morto a Losanna nel 1989, ha lasciato
centonovantatré romanzi pubblicati sotto il suo nome e un numero
imprecisato di romanzi e racconti pubblicati sotto pseudonimi, oltre
a volumi di «dettature» e memorie. Il commissario Maigretè
protagonista di 75 romanzi e 28 racconti, tutti pubblicati fra il
1931 e il 1972. Celebre in tutto il mondo, innanzitutto per le storie
di Maigret, Simenonè anche, paradossalmente, un caso di «scrittore
per scrittori». Da Henry Miller a Jean Pauhlan, da Faulkner a
Cocteau, molti e disparati sono infatti gli autori che hanno
riconosciuto in lui un maestro. Tra questi, André Gide: «Considero
Simenon un grande romanziere, forse il più grande e il più autentico
che la letteratura francese abbia oggi»; Walter Benjamin: «… leggo
ogni nuovo romanzo di Simenon»; Louis-Ferdinand Céline: «Ci sono
scrittori che ammiro moltissimo: il Simenon dei Pitard, per
esempio, bisognerebbe parlarne tutti i giorni».
Le Centre d'études Georges Simenon et le Fonds Simenon de l'Université
de Liège si trovano all'indirizzo:
www.ulg.ac.be/libnet/simenon.htm.
Renzo Montagnoli
14/10/2013
Il dolore perfetto
di Ugo Riccarelli
Nota dell’autore
Arnoldo Mondadori Editore S.p.A.
Narrativa romanzo
Collana Oscar contemporanea
La grande storia nelle vicende di
due famiglie
“Appena qualche attimo prima di morire,
appoggiata al nocciòlo del giardino, l’Annina emerse dall’ombra in
cui la sua mente si era nascosta da molti anni e, all’improvviso, in
quei brevi istanti che la morte ancora le concesse, come se fosse in
volo rivide la casa col pino e la Mena che pregava appoggiata a un
angolo della madia, e di fronte alla Mena vide sua madre partorirla
urlando di un dolore che le sembrò perfetto, e solo alla fine, quasi
spiando, scorse la propria testa uscire da quel corpo rosso e gonfio
dallo sforzo, e sentì per l’ultima volta l’odore di viole del suo
fratello gemello che da dentro la pancia la spingeva nel mondo.
Fu come un lampo, uno starnuto di una forza così intensa che l’Annina
si dovette appoggiare con tutte e due le mani al nocciòlo per non
cadere, e il suo ultimo respiro le uscì in una voce flebile, quasi un
sussurro.
<<Ma guarda…>> disse, sorpresa da quello spettacolo stupefacente.
Poi lasciò che un sorriso le ammorbidisse la bocca, scivolò
lentamente verso la base del tronco, e là si fermò per sempre. “
Di Riccarelli non avevo mai letto nulla, sapevo
solo che era considerato un buon scrittore edè stata proprio la sua
recente scomparsa a indurmi a occuparmi di lui, a vedere se i giudizi
ampiamente positivi di critici di rango rispondessero a verità,
almeno secondo il mio metro di valutazione. Devo anche dire che
nutrivo il timore che tanti elogi non fossero meritati, ma quando ho
aperto questo libro e ho letto la prima pagina - che ho riportato
integralmente sopra - ho provato nel contempo una grande gioia e un
dolore perfetto. Una grande gioia perché mai mi era accaduto di
trovarmi di fronte a una descrizione così semplice, ma al tempo
stesso sublime, di una morte; un dolore perfetto per aver dubitato
delle qualità di questo narratore, una sorta di rimorso per un uomo
capace di scrivere in questo modo e già scomparso troppo presto. La
figura di questa Annina che ha perso la memoria e la ritrova nel
momento supremo, ricordandosi proprio della sua nascita, delinea in
un arco di tempo brevissimo i due momenti salienti della vita di ogni
essere umano: la sua comparsa sul mondo e la sua dipartita, due
eventi che sono il recto e il verso di una stessa medaglia, la vita.
è un destino, questo, che ci accomuna, maè ciò che siè stati e siè
fatto vivendo che lascia traccia di noi, e nelle storie di questo
stupendo romanzo il ricordoè sempre presente, partendo, nella saga
di due gruppi familiari, dall’Unità d’Italia per arrivare quasi ai
giorni nostri, storie di individui che s’incrociano con la grande
storia, che ne fanno parte, che contribuiscono a crearla. Alla
famiglia del Maestro, ispirata da nobili ideali e da un profondo
senso di libertà e di rispetto per la dignità di ogni uomo, si
contrappone quella dei Bertorelli, commercianti di maiali, più
inclini alla materialità, al guadagno e a un certo egoismo, piuttosto
che alla solidarietà.
Le vicende di queste due famiglie procedono parallele per un certo
periodo di tempo, ma poi accade che, con un matrimonio, si incrocino,
e sullo sfondo troviamo i grandi fatti, i moti popolari del 1900, le
cannonate di Bava Beccaris, la prima guerra mondiale, l’epidemia di
febbre spagnola, l’avvento del fascismo, il secondo grande conflitto,
l’occupazione tedesca, la resistenza, il difficile dopoguerra. Nelle
storie di queste due stirpi si legge la storia d’Italia, si legge con
piacere, perché non ha il carattere didattico e spesso impietoso dei
saggi, secondo un metodo che ha solo un precedente, lo stupendo
Cuore di pietra, di Sebastiano Vassalli.
Noi ritroveremo così anche le nostre radici nelle vicende di queste
due famiglie, segnate da fatti luttuosi, ma anche da grandi gioie,
una serie di accadimenti che incalzano in una narrazione sospesa fra
un realismo esemplare e un immaginario fiabesco, perfettamente
integrati, capaci di far sognare quando la realtàè troppo brutta,
insostenibile, smorzando i toni, svelenendo l’orrore di tanti eventi
tragici.
Riccarelli ha una grande leggerezza - ma meglio sarebbe dire
delicatezza - nello scrivere, frutto anche di una notevole
sensibilità che si riflette nei tanti personaggi, nelle loro gioie,
nei loro dolori. E al riguardo cos’è il dolore perfetto?è quello del
Maestro che pensa alle ingiustizie del mondo oppure quello di quando
va incontro alla morte con la forza solo dei suoi ideali,è quello di
Rosa che accomuna la violenza insensibile sul maiale ammazzato a
quella con cui il marito consuma il matrimonio, solo per fare degli
esempi.
Il dolore perfetto sarà anche quello che vi avvolgerà leggendo della
morte di non pochi protagonisti vissuti solo per testimoniare il loro
ideale di libertà, ma sarà anche quello che vi prenderà, giunti
all’ultima pagina, consapevoli che non ve ne sono altre di questo
capolavoro che tiene avvinti dall’inizio alla fine, scatenando
un’ondata emozionale da cuiè difficile sottrarsi.
Ugo Riccarelli
(Ciriè, Torino, 1954 - Roma 2013), di famiglia toscana, ha pubblicato
Le scarpe appese al cuore (Feltrinelli 1995, nuova edizione Oscar
Mondadori 2003), Un uomo che forse si chiamava Schulz (Piemme
1998, premio Selezione Campiello, nuova edizione Oscar Mondadori
2012), Stramonio (Piemme 2000, nuova edizione Einaudi 2009),
i racconti di Pensieri crudeli (Giulio Perrone 2006),
Diletto (Voland 2009) e Garrincha (Giulio Perrone 2013),
il saggio Ricucire la vita (Piemme 2011) e, per Mondadori,
L'angelo di Coppi (2001), Il dolore perfetto (2004, premio
Strega), Un mare di nulla (2006), Comallamore (2009),
La repubblica di un solo giorno (2011) e L'amore graffia il
mondo (2012, premio Selezione Campiello).
Renzo Montagnoli
10/10/13
La catastròfa
Marcinelle 8 agosto 1956
di
Paolo Di Stefano
Sellerio editore Palermo
www.sellerio.it
Narrativa romanzo
Collana La memoria
Una tragedia da non dimenticare
«Ma alla fine abbiamo mandato giù papà al
cimitero, mentre noi abbiamo rimasto qui in Belgio e non ce l'ho mai
domandato alla mamma, che ora ha novantasei anni, perché ha voluto
prendere questa decisione di non muoversi più dal Belgio».
È l’8 agosto 1956 a Marcinelle, nei pressi
di Charleroi, il turno di giornoè da poco iniziato alla miniera di
carbone del Bois du Cazier; in profondità c’è poca luce che
stranamente invece non manca in superficie, perché la giornata nonè,
come quasi sempre, grigia, ma c’è un bel cielo azzurro.
All’improvviso dense volute di fumo si sprigionano all’uscita del
pozzo numero 1:è da poco iniziato un disastro che condurrà alla
morte 262 dei 274 uomini impegnati al lavoro e di questi 262 ben 136
sono immigrati italiani.è la catastròfa, una parola metà dialetto e
metà francese, con cui verrà ricordata questa tragedia e di essa
parla Paolo Di Stefano in questo libro, frutto di ricerche, di
interviste ad alcuni dei pochi superstiti e ai familiari delle
vittime, un coro di voci che, se non reclama più giustizia, però si
leva affinché non si dimentichi, non cada nell’oblio, come del resto
stava accadendo, a tanti altri fatti luttuosi accaduti e che hanno
riguardato nostri connazionali all’estero e in patria.
Non dimentichiamo questi poveri emigranti, partiti dai loro paesi
dove facevano la fame, per avere un futuro meno nero e che invece
non ebbero futuro.
Fra l’altro, non andarono all’avventura, ma in base a un accordo
italo-belga che prevedeva l’invio di lavoratori in cambio di carbone,
di braccia, di cui il Belgio aveva disperatamente bisogno, contro
una fonte di energia indispensabile a un‘Italia che cercava di
risorgere dalle rovine della guerra.
Come sempre accade in caso di disastri in ambienti di lavoro le cause
non furono mai esattamente determinate, anzi quasi tutto venne messo
a tacere, con un processo farsa che punì, moderatamente, forse il
meno colpevole. Sta di fatto che, indipendentemente da chi e come
provocò l’incidente, questo avvenne in una miniera vecchia, dotata di
scarse misure di sicurezza, e per di più ci fu anche
disorganizzazione nei soccorsi, insomma un insieme di concause che si
tradusse in una vera e propria strage. Le interviste sono state
semplicemente trascritte da Di Stefano, salvo una sua breve
introduzione, e nel loro italiano scorretto e stentato hanno la forza
della verità, trasmettono al lettore un senso di dolore che a
distanza di tanti anni non siè placato. Sono donne ormai anziane,
quelle stesse che hanno affollato per giorni e giorni l’area
antistante la miniera, chiusa da cancelli, che hanno pianto, che si
sono disperate, che a volte si sono rifugiate in una temporanea
speranza, che hanno vissuto la tragedia con l’angoscia di non poter
rivedere, come poi accadde, i propri cari.
Ma ci sono anche uomini, alcuni superstiti, minati spesso dalla
silicosi, che con un filo di voce gridano la loro tristezza per gli
amici scomparsi e per una verità che nonè venuta e non arriverà mai.
E poi ci sono gli orfani e tutti in pratica lo divennero, anche le
mogli e i pochi superstiti, orfani di uno stato, quello italiano, che
si disinteressò completamente della loro sorte, che non fu mai
presente, nemmeno con un ministro, nei giorni angosciosi che
seguirono l’incidente. Lo stato fu loro distante come lo fu sempre,
anche quando quasi benedisse che il numero dei nostri emigranti era
in crescita. Non una grande e affiatata famiglia, quindi, bensì un
padre dispotico pronto sempre a fuggire dai propri doveri, allora
come anche oggi.
A fronte di questa umanità dolente troviamo i freddi verbali, le
perizie, le parole vuote, pregne di retorica, dei nostri politici,
fra i quali Giuseppe Saragat e Giovanni Leone.
Braccia contro carbone, schiavi contro l’energia per le fabbriche dei
nostri industriali, gente che partiva dal paese senza aver nemmeno
nulla da mangiare durante il viaggio, in fuga dalla miseria verso le
fauci della miniera.
Dobbiamo ricordarci di questi nostri emigranti, l’Italia deve a loro
molto di più di quanto - in pratica nulla -ha fino ad ora loro dato;
con il loro duro lavoro, con il loro sacrificio, hanno fatto
ritrovare alla loro nazione quella dignità che una guerra insensata
aveva cancellato.
Da leggere, per riflettere, ma soprattutto per non dimenticare.
Paolo Di Stefano,
nato ad Avola (Siracusa) nel 1956, inviato del "Corriere della Sera"
è stato capo delle pagine culturali. Laureato con Cesare Segre
all'Università di Pavia, ha debuttato nel giornalismo come
responsabile del ‟Corriere del Ticino” di Lugano. Ha lavorato per
l'Einaudi, e per il quotidiano ‟La Repubblica”. Attualmenteè
giornalista culturale del "Corriere della Sera".
Ha scritto, fra l’altro:
Minuti contati
(Scheiwiller, Milano 1990, Premio Sinisgalli), Baci da non
ripetere (Feltrinelli 1994, Premio Comisso); Azzurro troppo
azzurro (Feltrinelli 1996, Premio Grinzane Cavour); Tutti
contenti (Feltrinelli 2003, Superpremio Vittorini, Superpremio
Flaiano, Premio Letterario Chianti), Aiutami tu (Feltrinelli
2005, SuperMondello), Nel cuore che ti cerca (Rizzoli 2008,
Premio Campiello e Premio Brancati), Per più amore (Manni
Editore), La catastròfa (Sellerio 2011, Premio Volponi),
Giallo d'Avola (Sellerio 2013, Premio Viareggio-Rèpaci 2013).
Renzo Montagnoli
8/10/2013
L’isola senza ponte
Donne, uomini e storie di Sicilia
di Matteo Collura
In copertina:
Francesco Lojacono
Veduta dell’Acqua Santa (1865-70 circa)
Palermo, Fondazione Banco di Sicilia
TEA
www.tealibri.it
Saggistica
Viaggio
culturale
L’isola senza
ponteè una raccolta di racconti e saggi sulla Sicilia,
legati l’uno all’altro da un comune filo conduttore costituito dagli
scrittori, dalla letteratura, dalla paesaggistica e dalla storia di
quest’isola. Non si può pertanto definire un cahier de voyage,
anche seè fuor di dubbio che viè più di uno scritto che può
interessare un viaggiatore disposto a visitarla. In tal senso appare
più che probabile l’intenzione di chi intenda recarsi là di includere
fra le sue visite Racalmuto, il paese natio di Leonardo Sciascia,
così ben descritto nella sua atmosfera da Matteo Collura, oppure
cercare di sperimentare di persona il raffronto fra due promontori,
quello di Palermo e quello di Cefalù, a cui l’autore agrigentino ha
dedicato un capitolo di particolare fascino.
Lo scopo del libroè quindi ben altro e nonè un caso che il titolo
sia L’isola senza ponte, con nessun riferimento, peraltro, al
progetto, poi abortito, di erigere un ponte sullo stretto di
Messina. è un rivendicare una propria identità, senza che con
questo si possa parlare di spirito autonomista, identità come
peculiarità che fa di quest’isola una terra unica, nel bene e nel
male, e particolarmente viva, e proiettata verso nuovi percorsi in
campo letterario. Al riguardo Collura dedica ampio spazio a tre
autori di indiscusso eccelso valore: Giuseppe Tomasi da Lampedusa,
Luigi Pirandello e Leonardo Sciascia. Il suoè un viaggio geografico
sulla scia e alla ricerca di luoghi direttamente o indirettamente
connessi alla letteratura, un percorso in cui il locus
riverbera dell’artista e l’artista a sua volta lo riflette. Cosa
sarebbe stato Sciascia senza il suo stretto legame con il paese
natale? La stessa cosa, lo stesso quesito può essere posto per
l’agrigentino Pirandello, perchéè fuor di dubbio che esista
correlazione fra l’ambiente e chi ci vive.
Non mancano peraltro articoli su siciliani sconosciuti ai più e a
loro modo eroi, così come riuscito e precisoè il ritratto della
donna siciliana, per non dimenticare alcune curiosità, o enigmi, come
quello relativo al celebre quadro L’uomo ignoto, di Antonello
da Messina, con quell’inesplicabile sguardo che attrae e pure
sconcerta, una caratteristica forse inspiegabile, ma in effetti, chi
leggerà, potrà trovare un non improbabile chiarimento.
Resta fermo comunque il legame con Sciascia, di cui Collura ha
scritto spesso, e questa volta fornisce una spiegazione
dell’epitaffio scritto su un biglietto lasciato alla moglie affinché
venisse trascritto sulla sua lapide tombale, “
Ce ne ricorderemo, di questo pianeta”.
è una frase non da Sciascia e in effetti non fu ideata da lui, ma il
perché l’abbia così interessato da desiderare che costituisse un
messaggio dal suo riposo eterno ci viene compiutamente ed
elegantemente svelato da Collura, un autentico pezzo di bravura che
da solo vale il libro.
L’isola senza ponte, pur presentando qualche inevitabile
discontinuità fra un articolo e l’altro,è un’opera da leggere con
piacere, come al solito ben scritta e che arricchisce culturalmente,
oltre ogni più rosea aspettativa.
Matteo Collura
è nato ad Agrigento nel 1945. Autore, fra l’altro, del bestseller
Sicilia sconosciuta (Rizzoli 1984, 1997) e della versione teatrale
del romanzo si Sciascia Todo modo, scrive articoli di cultura per il
Corriere della Sera e vive a Milano.
Renzo Montagnoli
6/10/2013
Scarti di Magazzino
di Ivan Pozzoni
Avvertenza alla lettura di Antonino Contiliano
Casa Editrice Limina Mentis
www.liminamentis.com
Poesia
Collana Ardeur
La crisi economica in poesia
Che la poesia possa avere temi moltepliciè risaputo e fra questi,
certamente non secondario,è quello politico, avvalendosi la stessa
della forza della parola per portare avanti un discorso in genere
più incisivo, meno retorico di quello proprio del politico di
professione. E di poeti politici gli esempi sono tanti e tanto per
citarne uno assai noto ricordo semplicemente Trilussa. Tuttavia
ritengo doverosa una separazione fra chiè politico-poeta (e
all’epoca dell’Unione Sovietica ve n’erano non pochi), tutto teso a
osannare un’ideologia o un sistema e il poeta-politico, capace più
degli altri, di evidenziare i limiti di regimi e anche di sistemi
economici, al fine di rendere edotti di ciò che non va e perché non
va.
Fra questi ultimi includerei, indipendentemente dal suo orientamento
politico, anche Ivan Pozzoni, autore prolifico e di cui ho avuto
modo di leggere questa silloge dal titolo emblematico Scarti
di magazzino.
Complice l’attuale grave crisi economica questo poeta monzese ha
saputo sciorinare con versi di notevole efficacia i mali che sono
alla base del neoliberismo, più che una dottrina economica, una
rapina economica camuffata da sistema definito come il migliore
possibile, quasi idolatrato, al punto da creare permanenti squilibri
e ai più una vita asfittica, incolore, quasi vegetativa, oggetti
umani pronti ad essere buttati quando non servono più come accade
per gli scarti di magazzino.
I versi di Pozzoni non sono satirici come quelli di Trilussa, ma
inchiodano nella loro solare realtà, senza retorica, asciutti e
densi, quasi stilettate nel cuore della generale indifferenza. Al
riguardo esplicativi mi sembrano questi tratti da Milite ignoto
e riguardanti il triste moltiplicarsi dei caduti sul lavoro:…/
Marciavi vivido nell’aere mattutino / fremendo brame d’amore
adulterino, / senza intuire neanche di sfuggita / d’essere vittima
di un crudele carovita; / marciavi lesto senz’ombra di tristezza, /
diluendo i dubbi in avventatezza, / nei tuoi vent’anni di vita
amara, / chiamati a chiudersi dentro a una bara.
E nelle poesie successive ci sono tutti i nomi e i fatti della crisi
economica: dalla famigerata Lehman Brothers alla cassa integrazione,
dalla solitudine esistenziale all’anoressia, dai nuovi eroi agli
sconfitti di sempre, un giro panoramico sulla ruota di un mondo che
sembra girare all’incontrario.
Anche chi non si riconoscerà nei personaggi di questi versi scoprirà
però che l’unico rimedio all’indifferenza, spesso astratta, che ci
accompagna e in cui lenti ci ha rinchiuso il capitalismo
neoliberista,è il sorprenderci a pensare e a provare il timore di
finire un giorno come il vecchio dell’Hotel Acapulco (…./
Abbandonata, nel lontano 2026, ogni difesa / d’un contratto a tempo
indeterminato, / etichettato come squilibrato, / mi son rinchiuso
nel centro di Milano, / Hotel Acapulco, albergo scalcinato, /
chiamando a raccolta i sogni degli emarginati, / esaurendo i
risparmi di una vita / nella pigione, in riviste e pasti risicati. /
Quando i carabinieri faranno irruzione / nella stanza scrostata
dell’Hotel Acapulco 7 e troveranno un altro morto senza testamento /
chi racconterà la storia, ordinaria, / d’un vecchio vissuto
controvento?)
Da leggere, senz’altro.
Ivan Pozzoniè nato a Monza nel
1976; siè laureato in diritto con una tesi sul filosofo ferrarese
Mario Calderoni. Ha diffuso molti articoli dedicati a filosofi
italiani dell’Ottocento e del Novecento, e diversi contributi su
etica e teoria del diritto del mondo antico; collabora con numerose
riviste italiane e internazionali. Tra 2008 e 2012 ha curato i
volumi: Grecità marginale e nascita della cultura occidentale
(Limina Mentis), Cent’anni di Giovanni Vailati (Limina
Mentis), I Milesii (Limina Mentis), Voci dall’Ottocento
I II e III (Limina Mentis), Benedetto
Croce (Limina Mentis), Voci dal Novecento I, II
e III (Limina Mentis), Voci di filosofi italiani del
Novecento (IF Press), La fortuna della Schola Pythagorica
(Limina Mentis) e Pragmata. Per una ricostruzione storiografica
dei Pragmatismi (IF Press); nel 2009 sono usciti i suoi: Il
pragmatismo analitico italiano di Mario Calderoni (IF Press) e
L’ontologia civica di Eraclito d’Efeso (Liminamentis).è
direttore culturale della Limina Mentis Editore;è direttore de
L’arrivista - Quaderni democratici. In un’azienda della D. O.è
logistico.
Renzo Montagnoli
2/10/2013
Tutti contenti
di Paolo Di Stefano
Giangiacomo
Feltrinelli Editore
www.feltrinellieditore.it
Narrativa romanzo
Collana Universale Economica Feltrinelli
Alla ricerca del
proprio passato
Per poter vivere il
presente e pensare anche a un futuro diversoè indispensabile
conoscere il proprio passato, ritrovare quelle radici da cui
veniamo, e in effetti l’ignorare le proprie origini, gli anni
dell’infanzia e della pubertà, implica la mancata conoscenza di se
stessi, conduce a una vita asfittica e senza senso.
è questo il caso di Nino Motta, tipografo milanese in pensione,
coniugato, con due figli, che trascina un’esistenza del tutto
insoddisfacente, una situazione che lo spinge un giorno a partire
per la terra natale, la Sicilia, per ricostruire quell’infanzia di
cui ha solo barlumi di conoscenza: la Fortezza, l’orfanotrofio che
lo ha ospitato a lungo, padre Frasca, un sacerdote che ha fondato
quest’istituzione e alcuni nomi di compagni a cui presentarsi con
uno pseudonimo e in veste di giornalista che intende scrivere un
articolo appunto su la Fortezza. Il tutto con il timore che possa
spalancarsi una porta su un qualche cosa che presenti anche aspetti
negativi, ma vale la pena di rischiare per uno che del proprio padre
ha solo il ricordo di un cappello americano appeso all’attaccapanni
e della propria madre l’immagine di una donnina, avvolta in uno
stretto cappotto, e che sale alla Fortezza.
Così inizia un percorso che piano piano porterà le tenebre a
squarciarsi, rivelando anche aspetti spiacevoli, ma riportando alla
luce un “io” che era piattamente omologato a un presente senza
significati.
La conoscenza di se stesso, in un uomo di una sessantina d’anni, gli
dimostrerà il vuoto di un’esistenza non vissuta e gli farà ritrovare
la gioia di vivere, complice soprattutto una ragazza trentenne che
si aggregherà a lui nelle ultime fasi della ricerca. Può sembrare
che un amore sbocciato fra due individui con un divario di età così
elevato possa sfiorare il ridicolo, ma nonè così, perché se il
corpoè da vecchio, lo spirito di Nino Mottaè da giovane, proprio
di chi siè risvegliato da un lungo sonno e per la prima volta sa
che il suo giornoè appena cominciato.
Tutti contentiè scritto in modo pregevole da Paolo Di
Stefano, autore che ho conosciuto e apprezzato per il recente
Giallo d’Avola; le pagine non sono poche, ma scorrono veloci
e si desidererebbe che non finissero mai, in un intreccio a incastri
propri di un giallo, anche se giallo nonè, un’ autentica lezione di
stile, con tanti personaggi, ognuno con la propria personalità,
alcuni dei quali indimenticabili, in una narrazione che nulla lascia
al caso, sapiente nel ricreare l’atmosfera del passato, inserendola
in quella del presente, enigmatica senza essere astrusa, proposta al
lettore e non imposta, così che ognuno può farsi un’idea autonoma di
ogni protagonista. Pur se il linguaggioè asciutto, da giornalista,
Di Stefano non manca di un’attitudine poetica, che si esprime non
solo con azzeccate descrizioni dei panorami siciliani, ma che in
sordina, senza forzature, porta a momenti di intensa e rara
commozione in un romanzo che avvince in ogni momento e che svela
anche quanto immensa sia la forza dell’amore.
Leggetelo, andate insieme a Nino Motta alla ricerca del suo passato:
sarà un’esperienza indimenticabile.
Paolo Di Stefano,
nato ad Avola (Siracusa) nel 1956, inviato del "Corriere della Sera"
è stato capo delle pagine culturali. Laureato con Cesare Segre
all'Università di Pavia, ha debuttato nel giornalismo come
responsabile del ‟Corriere del Ticino” di Lugano. Ha lavorato per
l'Einaudi, e per il quotidiano ‟La Repubblica”. Attualmenteè
giornalista culturale del "Corriere della Sera".
Ha scritto, fra l’altro:
Minuti contati
(Scheiwiller, Milano 1990, Premio Sinisgalli), Baci da non
ripetere (Feltrinelli 1994, Premio Comisso); Azzurro troppo
azzurro (Feltrinelli 1996, Premio Grinzane Cavour); Tutti
contenti (Feltrinelli 2003, Superpremio Vittorini, Superpremio
Flaiano, Premio Letterario Chianti), Aiutami tu (Feltrinelli
2005, SuperMondello), Nel cuore che ti cerca (Rizzoli 2008,
Premio Campiello e Premio Brancati), Per più amore (Manni
Editore), La catastròfa (Sellerio 2011, Premio Volponi),
Giallo d'Avola (Sellerio 2013, Premio Viareggio-Rèpaci 2013)
Renzo Montagnoli
30/9/2013
Una finestra vistalago
di Andrea Vitali
Garzanti Libri
www.garzantilibri.it
Narrativa romanzo
Collana Gli Elefanti bestseller
Speravo fosse
meglio
Me ne ha parlato più
volte un caro amico, in modo suadente, direi anzi persuasivo. “A
te che piace la vita di paese Vitali fa al caso tuo e, considerato
che sei da sempre un estimatore di Piero Chiara, troverai nei libri
di questo autore lecchese le stesse atmosfere, le medesime
caratterizzazioni. Per cominciare, fossi in te, leggerei il suo
romanzo più famoso, vale a dire Una finestra vistalago.”.
Insomma, di fronte a tanta insistenza,è naturale che sorga la
curiosità e così ho provveduto a reperire il libro in questione che
già presenta una stranezza in copertina: il nome dell’autore a
caratteri cubitali e il titolo molto più in piccolo. Tuttavia, nella
quarta di copertina c’è molta più sobrietà, con alcuni succinti e
positivi giudizi di noti critici letterari. Cosi si va da “I
romanzi di Andrea Vitali sono una rarità, rappresentano campioni
dell’antica arte del racconto italiano.” di Antonio D’Orrico a “Un
talentuosissimo scrittore.” di Massimo Onofri.
Con tali favorevoli pareri in pratica non mi sarebbe rimasto che
leggere il romanzo solo per confermare valutazioni critiche di così
alto lignaggio, insomma non avrei dovuto far altro che bearmi di una
lettura di grandissimo livello.
E con la miglior predisposizione ho affrontato questo testo,
ravvisando, però, e devo dire con dispiacere, che già dalle prime
pagine l’accostamento a Piero Chiara miè parso fuori luogo, quasi
blasfemo. La vicendaè di paese, ma della caratura dei personaggi,
della loro descrizione, dell’intreccio, delle vene poetiche che
descrivono il paesaggio, per non parlare dell’ironia che stempera la
satira sottile, virtù queste proprie invece del grande romanziere
luinese, non ho trovato traccia.
Lo stesso di Vitaliè troppo sobrio, anzi la sua scrittura appare
elementare, tutta tesa a dare spazio alla trama, tralasciando gli
elementi determinanti, costituiti dalla tipica atmosfera di paese e
dalla particolare caratterizzazione dei personaggi; e anche la
vicenda, pur non disprezzabile,è basata su equivoci, su identità di
nomi e cognomi, quasi un richiamo alle opere teatrali di Georges
Feydeau.
Per quanto deluso, soprattutto perché le aspettative erano notevoli,
non posso tuttavia esimermi dal considerare Una finestra
vistalago un romanzo che tutto sommatoè di gradevole
lettura e che aiuta sen’altro a trascorrere un po’ di tempo, con
l’avvertenza però cheè inutile spèrare in un accrescimento
culturale, perché la sostanza é poca. Per quella è meglio affidarsi
ai libri di Piero Chiara.
Di
Andrea Vitali
(Bellano 1956) nel catalogo Garzanti sono presenti: Una finestra
vistalago (2003, premio Grinzane Cavour 2004, sezione narrativa,
e premio letterario Bruno Gioffrè 2004), Un amore di zitella
(2004), La signorina Tecla Manzi (2004, premio Dessì), La
figlia del podestà (2005, premio Bancarella 2006), Il
procuratore (2006, premio Montblanc per il romanzo giovane
1990), Olive comprese (2006, premio internazionale di
letteratura Alda Merini, premio lettori 2011), Il segreto di
Ortelia (2007), La modista (2008, premio Ernest
Hemingway), Dopo lunga e penosa malattia (2008), Almeno il
cappello (2009, premio Casanova; premio Procida Isola di Arturo
Elsa Morante; premio Campiello sezione giuria dei letterati;
finalista al premio Strega), Pianoforte vendesi (2009), Il
meccanico Landru (2010), La leggenda del morto contento
(2011), Zia Antonia sapeva di menta (2011) e Galeotto fu
il collier (2012).
Nel 2008 gliè stato conferito il premio letterario Boccaccio per
l'opera omnia.
Il sito di Andrea Vitaliè:
www.andreavitali.info
Renzo Montagnoli
27/9/2013
Qualcuno ha ucciso il generale
di Matteo Collura
In copertina: Gianni Provenzano, Reliquia garibaldina
Tea Edizioni
Narrativa romanzo storico
Un uomo da
non dimenticare
Giovanni Corrao, chi era mai costui?
Credo che ben pochi sappiano chiè, tantoè stato il colpevole oblio
a cui fu destinato dall’appena nato Regno d’Italia, che s’affrettò
a cancellarne la memoria dopo avergli tolto, con ogni probabilità,
la vita. Era un generale palermitano, garibaldino, distintosi per
coraggio, ascendente sulla popolazione siciliana e anche acume
tattico durante la gloriosa campagna dei mille iniziata proprio con
lo sbarco a Marsala e conclusasi, remissivamente, con l’incontro di
Teano fra Garibaldi e Vittorio Emanuele II.
Personaggio scomodo, questo Corrao, protagonista poi della
sfortunata spedizione che vide sull’Aspromonte il ferimento a una
gamba dell’eroe di Caprera, ma a differenza di quest’ultimo, sulla
via di un declino dovuto all’età e all’artrite che lo affliggeva
dolorosamente, l’ardimentoso siciliano era ancora nel pieno del suo
vigore con quarantuno anni ben portati, per quanto disilluso per il
verso che avevano preso le cose, ma sempre pronto a non tirarsi
indietro qualora ci fosse anche solo l’abbozzo di un tentativo
rivoluzionario.
Quest’uomo, dalle umili origini (svolgeva l’attività di calafato),
in fin dei conti era un puro idealista che aveva una visione sfumata
di una repubblica italiana, ma sempre fedele ai principi mazziniani
e al suo grande eroico generale, quel Garibaldi intrepido e
avventuroso fino a quando la salute e gli interessi del regno
sabaudo glielo consentirono; al nizzardo fu tuttavia riservata sorte
migliore, perché tanta era l’aureola che portava sul capo per le sue
imprese che era necessario servirsene per ammantare di gloria una
spedizione, tutto sommato conclusasi felicemente soprattutto per
l’azione corruttiva avviata dal Cavour; Corrao era assai più
pericoloso, perché nel fiore degli anni e tenacemente teso a
concretizzare una repubblica italiana in cui finalmente fossero
riconosciuti diritti inalienabili a tanti contadini siciliani e
anche alla moltitudine dei nuovi italiani, vessati dapprima dai
vecchi stati e ora da quello nuovo appena nato.
E fu così che un giorno del 1863 (era il 3 agosto) alle porte di
Palermo due colpi d’arma da fuoco troncarono la vita di Giovanni
Corrao e subito vi furono depistaggi di vario genere, mentre il
popolo dell’isola, ma anche molti nobili che l’amavano, provvidero a
solenni esequie. Ufficialmente si parlò di mafia, onde screditarne
la figura, ma chi aveva una visione più ampia non poté fare a meno
di pensare che se la mafia era l’esecutrice, il mandante stava più
lontano, veniva dal governo del nuovo stato italiano; pensò e non
gridò, perché il rischio di perdere la vita era quasi una certezza.
Poi fu compito dei governanti, fra i quali un vecchio compagno nella
lotta antiborbonica (quel marpione di Francesco Crispi), a far
dimenticare questa nobile figura, mai presente nei testi scolastici
fra i generali garibaldini, un colpevole oblio che con il
trascorrere degli anniè diventato vera e propria condanna
post-mortem.
A riparare ci ha pensato Matteo Collura con questo libro, a metà fra
saggio e romanzo storico, puntuale nella ricerca della
documentazione, in parte all’epoca volutamente distrutta,
proponendoci un personaggio che, uscito dalla nebbia, appare
splendente come il sole. Non viè dubbio che per lui l’autore nutra
una particolare simpatia, senza che però, per questo, finisca per
ingigantire un’immagine oltre quelli che erano i suoi effettivi
meriti.
La sua, così, diventa una narrazione avvincente e convincente, con
pagine che restituiscono al mondo momenti gloriosi e anche di
dolore, parte integrante della nostra storia, tassello, come tanti,
indispensabile per conoscerla.
Ci si appassiona, nel leggere, ma quando si arriva all’omicidio di
Corrao, atto scellerato inserito in un contesto paesaggistico di
straordinaria bellezza, per quanto le parole siano misurate e mai
enfatiche, nonè possibile evitare di lasciarsi prendere dalla
commozione nel vedere quest’uomo, gigantesco in tutti i sensi, privo
di vita nella polvere della strada, un destino crudele, simile a
quello che in seguito sarà proprio di chi si batterà, anche senza
speranza, per un mondo migliore e più giusto.
Da leggere, senza alcun dubbio.
Matteo Collura
è nato ad Agrigento nel 1945. Autore del bestseller Sicilia
sconosciuta (Rizzoli 1984, 1997) e della versione teatrale del
romanzo si Sciascia Todo modo, scrive articoli di cultura per il
Corriere della Sera e vive a Milano.
Renzo Montagnoli
9/9/2013
I Canti di Castelvecchio
di
Giovanni Pascoli
Rusconi Libri
Poesia
Dal nido di Castelvecchio
Giovanni Pascoliè indubbiamente uno dei
più grandi poeti che si sono affacciati su questa terra, maè anche
un caso umano, con una vita funestata da disgrazie familiari, di cui
la prima (l’assassinio del padre) lo catapultò, ancora dodicenne,
nel ruolo di capofamiglia, una posizione a cui mal si adattava,
tanto più che la mancanza di esperienza finì con il provocare
risentimenti di sorelle, errori su errori, di cui si sentiva più che
colpevole, portandolo negli ultimi anni della sua vita a rifugiarsi
nell’alcol.
Eppure, il talento innato, pur nei marosi di un’esistenza
travagliata, riusciva a emergere con poesie che ancor oggi
stupiscono per l’armonia, l’impianto e la profondità del pensiero
espresso.è questo il caso anche di I Canti di Castelvecchio,
frutto di un periodo relativamente tranquillo e sereno.
Castelvecchioè una frazione di Barga, in Garfagnana, e in questo
piccolo borgo Pascoli approdò nel 1895 con la sorella Maria, in una
casa che solo in seguito divenne di sua proprietà con i proventi
della vendita di alcune medaglie d’oro vinte in concorsi letterari.
Lì, il paesaggio agreste, il silenzio della natura gli fecero
sognare di poter ricostruire il nido familiare della sua gioventù, a
San Mauro. E tale era il desiderio di ritornare a quel nucleo
familiare che si era sfilacciato, con tante morti, nell’arco di poco
tempo, che rinunciò perfino a contrarre matrimonio con la cugina
Imelde Morri, opponendosi, anche se inutilmente, alle nozze della
sorella Ida, considerate un tradimento. Nonostante queste premesse,
il periodo trascorso a Calstevecchio fu uno dei migliori per il
poeta romagnolo, tanto che ne scaturirono, appunto, I Canti
di Castelvecchio.
Come tematiche questa raccoltaè simile a Myricae, con
quella predilezione per il mondo naturale che finisce con il
diventare l’emblema delle cose semplici, delle presenze umili. Più
rilevanteè invece l’impronta simbolista, con l’angoscia di chi non
riesce a togliersi dalla mente il pensiero della morte, una
situazione insostenibile che attanaglia il poeta e che lo porta ad
evadere facendo riemergere i ricordi della sua gioventù. Al riguardo
c’è una sezione di nove poesie intitolata Ritorno a San Mauro
cheè ben esplicativa di questa condizione, come in Casa mia
(Mia madre era al cancello. / Che pianto fu! Quante
ore! / Lì, sotto il verde ombrello / della mimosa in fiore! 7 M'era
la casa avanti, / tacita al vespro puro, / tutta fiorita al muro /
di rose rampicanti. /…). Si noti, in questo breve stralcio, come
la memoria ricomponga un’immagine cara, magari un po’ mitizzandola,
come accade per tutti i ricordi che ci paiono lieti, ma l’autentica
qualità deriva dallo sviluppo scenico, dai ritratti che si
ricollegano come lo svolgersi di una pellicola cinematografica.
Tuttavia l’immagine felice, quasi soave, ben prestoè soverchiata da
quel pensiero fisso, da quell’angoscia che gli rode dentro e che lo
porta inevitabilmente a considerare che con la vita il nostro
contratto può essere sciolto in ogni momento, senza sapere quando,
ma con la certezza che avverrà. E allora altre immagini, altre
parole s’innestano e predominano (…/E comprerò leggiadre / vesti
alle mie fanciulle, / e l'abito di tulle / alla lor dolce madre. - /
Così dicevo: in tanto / ella piangea più forte, / e gocciolava il
pianto / per le sue guancie smorte. / …. / - Oh! tu lavorerai / dove
son io? Ma dove / son io, figliuolo, sai, / ci nevica e ci piove!
-/…); ecco, l’incantesimo si rompe e il ricordo, da dolcemente
malinconico diventa triste, con l’angoscia che serpeggia nel
rammentare chi non c’è più. E ancor più esplicitoè in La
tessitrice, laddove una fanciulla morta tesse una tela in
cui riposerà nel suo sonno eterno accanto al poeta, che dell’amore
ha una visione propria di un miraggio, di un qualche cosa di vago,
portatore di felicità, ma su cui incombe, sempre, ossessiva, la
morte.
Fra sogno e realtà, fra illusioni e disinganni c’è più del sentire
di un animo poetico, c’è la vita con le sue poche gioie, un nulla se
si tiene a mente quell’ombra nera che ogni giorno trascorso sempre
più s’avvicina. Pessimismo Leopardiano? Forse, ma al poeta si chiede
l’ingrato compito di rapportarsi con la nudità della terra e leggi
cosmiche di cui si ignora il fondamento. Egli nonè che un piccolo
granello di quella terra, a inseguire risposte che mai verranno.
Da leggere? Ma senza alcun dubbio, anzi da leggere e rileggere, e
ancora così, senza mai essere sazi di bellezza.
Giovanni Pascoli
nasce a S.Mauro di Romagna il 31 dicembre 1855. All'età di dodici
anni perde il padre, assassinato da ignoti; a questa tragedia, se ne
aggiunge un’altra, perché la famigliaè costretta a lasciare la
tenuta di cui il padre era amministratore, perdendo la tranquillità
economica di cui fruiva. Ma le disgrazie si rincorrono e così in
poco tempo Pascoli perde la madre, una sorella e due fratelli;
prosegue gli studi a Firenze e poi a Bologna. Nella città felsinea
aderisce alle idee socialiste, fa propaganda e viene arrestato nel
1879; nel 1882 si laurea in lettere. Insegna poi greco e latino a
Matera, Massa e Livorno, cercando di riunire attorno a sé i resti
della famiglia e pubblicando le prime raccolte di poesie: "L'ultima
passeggiata" (1886) e "Myricae" (1891).
L'anno seguente vince la prima delle sue 13 medaglie d'oro al
concorso di poesia latina di Amsterdam. Dopo un breve soggiorno a
Roma, va ad abitare a Castelvecchio con una sorella e passa
all'insegnamento universitario, prima a Bologna, poi a Messina e a
Pisa; pubblica tre saggi danteschi e varie antologie scolastiche. La
sua produzione poetica prosegue con i "Poemetti" (1897) e i "I Canti
di Castelvecchio" (1903); sempre nel 1903 raccoglie i suoi discorsi
sia politici (nel frattempo era diventato nazionalista), che poetici
e scolastici nei "Miei pensieri di varia umanità". Succede poi al
Carducci nella cattedra di letteratura italiana a Bologna; pubblica
gli "Odi ed inni" (1907), le "Canzoni di re Enzo" e i "Poemi
italici" (1908-11). Abusa degli alcolici e si ammala di cirrosi
epatica. Nel 1912 le sue condizioni di salute peggiorano deve
lasciare l'insegnamento per curarsi a Bologna, dove muore il 6
aprile dello stesso anno.
Renzo Montagnoli
4/9/2013
L’adorabile Stendhal
di
Leonardo Sciascia
a cura di Maria Andronico Sciascia
Edizioni Adelphi
www.adelphi.it
Saggistica letteraria
Collana Piccola Biblioteca Adelphi
Come
lui non c’è nessuno
Scrive Sciascia,
riferendosi alla parola “adorabile” <<
Può darsi che questa
parola io l’abbia qualche volta scritta, e sicuramente più volte
l’ho pensata: ma per una sola donna e per un solo scrittore. E lo
scrittore – forseè inutile dirlo –è Stendhal.>>.
E in effetti fra tutti gli scrittori il prediletto dall’autore
sicilianoè proprio lui, Marie-Henry Beyle, più conosciuto come
Stendhal.
E non contento scrive spesso di Stendhal e al riguardoè da
ringraziare Maria Andronico, la moglie di Sciascia, se dopo la
scomparsa del marito ha raccolto questi scritti, dispersi in vari
libri pubblicati fra il 1970 e il 1990, in unico volume,
intitolandolo, molto opportunamente, L’adorabile Stendhal.
Il romanziere franceseè un vero e proprio punto di riferimento per
Leonardo Sciascia, per quella sua innata capacità di conoscere gli
uomini, di sapere entrare nel loro animo, svelandone tutte le
naturali contraddizioni; Stendhalè così un esempio da seguire non
solo nella vita, ma anche in campo letterario, un maestro a cui
ispirarsi e dai cui insegnamenti trarre occasioni e spunti per
scrivere a sua volta. Così può capitare che Casanova e Napoleone
siano rivisti in chiave stendhaliana; in particolare si resta
colpiti dall’ammirazione dell’autore siciliano per l’imperatore
corso, ma ciò non deve sorprendere, poichéè noto quanto Stendhal
amasse il Bonaparte; semmai, quel che può stupire,è l’infatuazione
di Sciascia, così amante della libertà, per un rivoluzionario presto
dimostratosi un tiranno.
Nel libro c’è una parte dedicata al viaggio di Stendhal in Sicilia,
un viaggio in realtà immaginato, perché il narratore francese, che
pure visitò in lungo e in largo l’Italia, non mise mai piede su
quell’isola, di cui però scrisse, arrivando perfino a raccontare
d’esserci stato, da incorreggibile mistificatore. E da questo
viaggio inesistente, imperniato su più di una mistificazione,
circostanza non infrequente in Stendhal, Sciascia trae spunti di
irresistibile ironia.
Maria Andronicoè stata particolarmente brava nel raccogliere questi
scritti organizzandoli strutturalmente seguendo quattro grandi linee
tematiche: le felici invenzioni di Stendhal, che sono una sua
caratteristica; l’autentica venerazione di Sciascia per il grande
narratore francese; l’ascendenza di Stendhal su molti altri autori;
l’influenza che ebbe su Sciascia nella sua spiccata preferenza per
la scrittura e nelle sue caratteristiche divagazioni sempre presenti
nelle sue opere.
Ecco, se credete di conoscere tutto di Sciascia dovete ricredervi e
leggere questo libro, in cui avrete occasione di scoprire molto di
più dell’autore siciliano che del romanziere francese.
è un testo quindi di particolare e notevole importanza la cui
lettura, pertanto,è senz’altro raccomandata.
Leonardo Sciascia
(Racalmuto,
8 gennaio 1921 – Palermo, 20 novembre 1989). E’ stato autore di
saggi e romanzi, fra cui: Le parrocchie di
Regalpietra (Laterza, 1956),
Il giorno della civetta (Einaudi, 1961), Il consiglio
d’Egitto (Einaudi, 1963), A ciascuno il suo (Einaudi,
1966), Il contesto (Einaudi, 1971), Atti relativi alla
morte di Raymond Roussel (Esse Editrice, 1971),
Todo modo (Einaudi, 1974),
La scomparsa di Majorana
(Einaudi, 1975), I pugnalatori (Einaudi, 1976), Candido,
ovvero Un sogno fatto in Sicilia (Einaudi, 1977), L’affaire
Moro (Sellerio, 1978), Il teatro della memoria (Einaudi,
1981), La sentenza memorabile (Sellerio, 1982), Il
cavaliere e la morte (Adelphi, 1988), Una
storia semplice (Adelphi, 1989).
Renzo Montagnoli
2/9/2013
I Bastardi di
Pizzofalcone
di
Maurizio de Giovanni
Edizioni Einaudi
Narrativa romanzo
Collana Stile Libero Big
Sette bastardi per un commissariato
Ricordate il film di
Robert Aldrich “Quella sporca dozzina”? Alla vigilia dello
sbarco in Normandia dodici galeotti dell’esercito americano sono
scelti e addestrati per compiere una pericolosa missione in
territorio nemico. Se questa riuscirà, torneranno liberi.
Nonè improbabile che Maurizio de Giovanni avesse in mente questa
pellicola quando ha scritto I bastardi di Pizzofalcone, il
secondo libro con protagonista l’ispettore Lojacono. Certo qui non
siamo in guerra, ma quasi, vista la delinquenza imperante. E poi non
sono dodici i bastardi, ma sette, tutti poliziotti che, per un
motivo o per l’altro, non sono graditi nei commissariati di Napoli e
che perciò vengono inviati a presidiare quello di Pizzofalcone,
decimato per una questione di una partita di droga sequestrata e poi
rivenduta da alcuni agenti. Se riusciranno nell’impresa di essere
efficienti, il Commissariato non verrà soppresso.Ecco queste sono le
analogie fra il film e il libro, mentre il resto, ovviamente,è del
tutto diverso.
Si nota in particolare il tentativo di de Giovanni di dare vita a
una serie di personaggi fissi che siano in grado di attirare
l’attenzione del lettore per diversi episodi, così come ha già fatto
per i romanzi con protagonista principale il commissario Ricciardi.
Tuttavia, a mio parere, la necessità di narrare dell’epoca presente,
fatta di magari inutile dinamicità, e di conquistare subito il
pubblico, ha impedito di delineare le caratteristiche
progressivamente, evidenziandole invece negli intermezzi che, in
questo romanzo, sono francamente un po’ troppi, tolgono il ritmo e
finiscono con l’affaticare.
Del resto anche per la figura di Giuseppe Lojacono si insiste un po’
troppo sulle sue caratteristiche somatiche, che lo fanno
assomigliare – e questoè ben poco probabile – a un cinese, così
come il personaggio del procuratore Laura Piras, bellissima donna,è
più definito per le caratteristiche estetiche che per la sua intima
natura.
De Giovanni, quindi, in un’epoca in cui ciò che contaè l’apparenza,
siè adeguato, ma il risultato letterario ne risente.
Se poi si considera il difetto, mutuato probabilmente dalla serie
televisiva La nuova squadra, di narrare di due diverse
indagini, togliendo continuità in tal modo a una blanda tensione
iniziale,è facile comprendere come l’opera finisca col mancare, non
solo di caratteristiche di originalità, ma del pathos cheè proprio
dei thriller.
Del resto la fragilità della trama giallaè sempre stata una
caratteristica dell’autore napoletano e qui, inoltre, per quanto
concerne la soluzione dell’omicidio, presenta anche poca
credibilità.
Insomma, ci sarebbe il caso di dire che l’autore dei romanzi con
Ricciardi e di quelli con Lojacono non sono la stessa persona: nel
primo caso si segue anche un fine letterario, nel secondo invece
l’obiettivoè puramente commerciale, con una sensazione di deja vu
che, per un appassionato di gialli come me, stona non poco.
Da leggere, comunque, anche se il successo di vendite non ne
testimonia la qualità, bensì é il frutto della notorietà dell’autore
ottenuta grazie alla riuscitissima serie con protagonista il
commissario Ricciardi.
Maurizio de Giovanni
nasce nel 1958 a Napoli, dove vive e lavora. Nel 2005 vince un
concorso per giallisti esordienti con un racconto incentrato sulla
figura del commissario Ricciardi, attivo
nella Napoli degli anni Trenta. Il personaggio gli ispira un ciclo
di romanzi, pubblicati da Einaudi Stile Libero, che comprende Il
senso del dolore, La condanna del sangue, Il posto di ognuno, Il
giorno dei morti, Per mano mia e Vipera(Premio
Selezione Bancarella 2013). Nel 2012 esce per Mondadori Il metodo
del Coccodrillo (Premio Scerbanenco),
dove fa la sua comparsa l'ispettore
Lojacono, ora fra i protagonisti della
serie dei Bastardi di Pizzofalcone,
ambientata nella Napoli contemporanea. Tutti i suoi libri sono
tradotti o in corso di traduzione in Francia, Germania, Inghilterra,
Spagna, Russia, Danimarca e Stati Uniti. De Giovanniè anche autore
di racconti a tema calcistico sulla squadra della sua città, della
qualeè visceralmente tifoso, e di opere teatrali.
Renzo Montagnoli
29/8/2013
Il maestro di Regalpetra
Vita di Leonardo Sciascia
di
Matteo Collura
TEA Edizioni
Biografia
Una biografia avvincente come un
romanzo
Quando di un autore siè letta la pressoché
totalità della sua produzione viene del tutto naturale sapere quanto
più possibile di lui, perchéè evidente che le sue opere
costituiscono, direttamente o indirettamente, un riflesso della sua
vita. Se poi questo scrittore si chiama Leonardo Sciascia, la
curiosità si accentua, perché in fin dei conti il suo essere
borghese e intellettuale a tutto campo, la sua maniacale ricerca
della verità e la preveggenza dimostrata in tanti suoi lavori sono
dati che connotano un artista di elevato valore riscontrabile in
ogni suo libro. L’ideale sarebbe poterlo conoscere direttamente,
instaurare con lui un’assidua frequentazione, ma ciò nonè quasi mai
possibile, e a maggior ragione per Sciascia, da tempo scomparso.
Certo, dall’attenta lettura delle sue opereè possibile ritrarre
un’immagine di lui, almeno per quanto concerne un suo essere
intellettuale del tutto libero e indipendente, impegnato con i suoi
lavori e anche direttamente, come testimoniato dal breve periodo di
consigliere comunale di Palermo e di quello più ampio come deputato
eletto nelle liste del Partito Radicale. Personalmente ho cominciato
a interessarmi di questo grande letterato dopo la visione del film
Il giorno della civetta, tratto dall’omonimo romanzo.
Pagina dopo pagina delle sue opere di narrativa e saggistica siè
formata in me un’immagine di Sciascia che tuttavia mancava di un
riscontro autorevole edè perciò con estremo interesse che ho preso
in mano Il maestro di Regalpetra, sottotitolato
Vita di Leonardo Sciascia, una corposa biografia scritta da
Matteo Collura. Trattasi di una lettura che presuppone la conoscenza
di almeno quelli che sono i maggiori libri del narratore di
Racalmuto (Il giorno della civetta, A ciascuno il suo, Il
contesto, Todo Modo, L’affaire Moro e Candido, ovvero Un
sogno fatto in Sicilia), tutte opere che, per i più diversi
motivi, evidenziano la specificità della produzione letteraria di
Leonardo Sciascia. E’ evidente che sarebbe meglio aver letto anche i
suoi saggi storici, tutti, nessuno escluso, di estremo interesse, ma
per poter comprendere il valore di questo artista sono dell’opinione
che i libri che ho citato prima possano essere sufficienti.
Matteo Collura mi ha stupito, poiché, abituato a lunghe biografie,
sovente grevi e riportanti fatti ed eventi che poco hanno a che fare
con la produzione letteraria di un autore,è riuscito nella
difficilissima impresa di fornirci un ritratto vivo, anzi direi
vitale, di Leonardo Sciascia, riportando tutto quanto – e solo
quello – il necessario per avere una completa cognizione di
un’esistenza, tutto sommato normale, ma non avulsa da un impegno
costante teso alla ricerca della verità.
E se questo libro inizia con lo scrittore, appena morto, ricomposto
nel suo letto d’agonia, il che potrebbe far temere una narrazione al
passato, invece con questa introduzione si delinea subito il
carattere del defunto e nelle pagine successive – e sono molte – lo
spazioè dedicato a una figura che già dall’infanzia dimostrava una
spiccata propensione per le lettere, pur in un contesto di
arretratezza economica, ma non certo culturale. Collura prende per
mano Sciascia, quasi fosse presente con lui, e così la biografia
diventa avvincente come un romanzo di grande qualità. Sono pagine e
pagine di vicende, di riflessioni, spesso sconosciute, con frequenti
ricorsi a incisi tratti dalle opere (soprattutto quelle che ho prima
citato) in correlazione con i comportamenti civili tenuti da
Leonardo Sciascia. Sembra di vederlo, in quella che può essere
definita una battaglia, intento a sostenere l’esistenza della mafia,
quando ufficialmente la si negava, a indicare in modo inequivocabile
la collusione fra questa criminalità e la politica, in particolar
modo con la Democrazia Cristiana, vista come un partito di
grassatori e corrotti, a richiamare ancora una volta l’attenzione
sugli intrecci subdoli e delittuosi che sono alla base del
sequestro e del successivo omicidio di Aldo Moro, il segretario di
quel partito da lui tanto avversato, ma che ora vittima di qualcosa
di potentemente tenebroso gli fa insorgere un senso di autentica
pietà. Nonè tenero nemmeno con i comunisti, quel partito con cui si
realizzerà uno scellerato compromesso storico con i democristiani,
compromesso con il potere di turno a cui sarà sempre disponibile,
come confermato anche dall’attuale governo, un intreccio fra
maggioranza e opposizione che viene a saldarsi in un'unica negativa
figura, giacché sarà il segno di una sottomissione volta a
beneficiare delle opportunità offerte da una reggenza corrotta e
avulsa dalle esigenze dei cittadini.
è possibile inoltre scoprire la religiosità di Sciascia, uno
Sciascia notoriamente razionale e seguace degli illuministi, ma che,
pur tuttavia, ha un modo suo di credere, di avere un sentore di
qualche cosa che regge il mondo come la sua vita. Se sorprende il
funerale con rito religioso, vista una sua quasi continua avversione
per la Chiesa (ma nei suoi scritti ha parlato anche di ecclesiastici
stimabili e meritevoli della massima considerazione), viè da dire
che il tutto rientra in una tipica visione borghese, volta a non
allontanarsi in modo drastico dalle consuetudini, più per un
riguardo nei confronti dei parenti che rimangono, che per
l’effettiva convinzione che un rito religioso debba suggellare la
traslazione di una salma da un luogo a un altro, dalla propria casa
al camposanto.
Quanto allo Sciascia scrittore emergono le sue caratteristiche
peculiari, quali la limpidezza della sua scrittura, la grande
capacità di non fermarsi all’apparenza, alla versione ufficiale dei
fatti, anzi di diffidarne sempre, la sua analisi attenta e
perspicace degli eventi, da cui trarre anche vaticini, preveggenze
che poi ebbero sempre puntuale riscontro. Ma questi sono elementi
che già ben conoscevo e che hanno trovato puntuale e circostanziato
riscontro in questa attenta e ben strutturata biografia.
Si comprende, quindi, perché Leonardo Sciascia sia unico e sia
grande, ma grande loè anche Matteo Collura, con una prosa non
enfatica, e nemmeno scarna, con quel che si potrebbe definire il
giusto per appassionare il lettore senza frastornarlo e senza
stancarlo.
Mi sembra superfluo il mio consiglio di leggere questa biografia, la
cui importanza e le cui qualità trovano rari riscontri in campo
letterario, tanto sono elevate da poter quasi parlare di un vero e
proprio capolavoro.
Matteo Collura
è nato ad Agrigento nel 1945. Autore del bestseller Sicilia
sconosciuta (Rizzoli 1984, 1997) e della versione teatrale del
romanzo si Sciascia Todo modo, scrive articoli di cultura per il
Corriere della Sera e vive a Milano.
Renzo Montagnoli
23/8/2013
La quinta stagione
di Fulvio Tomizza
Prefazione di Helena
Janeczek
Marsilio
Editori
www.marsilioeditori.it
Narrativa romanzo
Collana Tascabili / Biblioteca Novecento
Dal gioco
alla realtà
Ormai non sono pochi
i romanzi che ho letto di questo autore, opere che, per la loro
struttura, possono apparire storiche, biografiche e di pura
creatività, senza che tuttavia sia possibile identificare
esattamente ognuno di questi tre aspetti, essendo fusi, compenetrati
l’uno all’altro in modo del tutto perfetto.
Eppure, le vicende istriane, le descrizioni di questo territorio ai
margini orientali del confine italiano appaiono sempre in una luce
viva, propria di chi là ha vissuto per poi preferire espatriare, con
impressa tuttavia una nostalgia che di volta in volta si fa
malinconia e addirittura dolore.
Questo terzo romanzo di Tomizzaè ovviamente ambientato in Istria e
si svolge nel corso della seconda guerra mondiale, all’incirca dai
giorni immediatamente antecedenti l’8 settembre 1943 fino alla fuga
dei tedeschi, incalzati dall’avanzata degli alleati e dei partigiani
titini.
E’ un periodo insolito, perché agli inizi la guerraè ancora
lontana, per poi apparire improvvisamente e sconvolgere un
microcosmo di gente che ha sempre vissuto in un’immobilità
temporale, proprio della civiltà contadina, pur nell’avvicendarsi
di dominatori. E per quanto le etnie siano così diverse, resistono
in un equilibrio, per quanto fragile, ma cementato dal comune
destino, dal ricorso a un plurilinguismo, da un reciproco rispetto
di cui si perderà la memoria con l’avvento del regime del
maresciallo Tito.
Di quest’uomo nel libro si accenna appena,è presente, maè pur
lontano, una novità di cui si avvertono forse i pericoli, ma che in
quel periodoè solo una lontana eco, perché ciò che veramente
preoccupaè l’occupazione tedesca e con essa il volto tragico e
disumano di un conflitto bellico di cui in precedenza c’era stato
solo un vago sentore e magari qualche segno doloroso, come il
ritorno di un reduce privo di entrambe le gambe.
In questo contesto i ragazzini giocano alla guerra, quasi temono di
non prendervi parte, tantoè lontano il rombo dei cannoni, ma poi
l’orrore arriverà a toccare anche quei luoghi, romperà fili
intessuti da uomini che avevano trovato nella loro diversità un
motivo per convivere in pace. E dopo non sarà tutto più come prima,
si spezzerà un incantesimo e la protervia e la ferocia
dell’occupante tedesco martorierà quelle genti, troncherà
quell’immobilità sopravvissuta ad altre guerre, invariata nei
secoli, determinando gli inizi della fine della civiltà contadina.
E’ strano come, al riguardo, anche nei romanzi di un altro grande
scrittore, Ferdinando Camon, sia il tallone germanico a recidere
radici, a scuotere alle fondamenta una comune esperienza di vita che
aveva resistito inossidabile fin da epoche remote.
E se la chiave di lettura di La quinta stagione può
essere molteplice (romanzo di formazione, per quanto la guerra non
abbia nulla di formativo, storia di una comunità, che poi non
sarebbe mai stata più quella, valore dell’amicizia, un
affratellamento che fa maturare) non occorre dimenticare la bellezza
delle descrizioni, la semplicità di riti primordiali quali il
corteggiamento contrapposta alla solennità di una natura che per
dare pretende tutto, la crudele tensione di un conflitto e alcune
pagine che raggiungono, sempre senza enfasi, vette sublimi.
Tomizza ancora una voltaè riuscito gradualmente a trasmettermi
visioni e sensazioni a cuiè impossibile resistere e giunti
all’ultima pagina ci si accorge che questo territorio lontanoè ora
assai più vicino, impresso com’è dentro la memoria.
La letturaè indubbiamente raccomandata.
Fulvio Tomizza
(Giurizzani di Materada, Umago, 26 gennaio 1935 - Trieste, 21 maggio
1999). Figlio di piccoli proprietari agricoli, dopo la maturità
classica, si trasferì a Belgrado e a Lubiana, dove iniziò a lavorare
occupandosi di teatro e di cinema. Ma nel 1955, quando l'Istria
passò sotto la Jugoslavia, Tomizza, benché legato visceralmente alla
sua terra, si trasferì a Trieste, dove rimase fino alla morte.
Scrittore di frontiera, riscosse ampi consensi di pubblico e di
critica (basti pensare ai numerosi premi vinti: nel 1965 Selezione
Campiello per La quinta stagione, nel 1969 il Viareggio per
L'albero dei sogni, nel 1974, nel 1986 e nel 1992 ancora
Selezione Campiello rispettivamente per Dove tornare, per
Gli sposi di via Rossetti e per I rapporti colpevoli, nel
1977 e nel 1979 lo Strega e quello del Governo Austriaco per la
letteratura Europea per La miglior vita). Ha pubblicato:
Materada (1960), La ragazza di Petrovia (1963), La
quinta stagione (1965), Il bosco di acacie (1966),
L'albero dei sogni (1969), La torre capovolta (1971),
La città di Miriam (1972), Dove tornare (1974), Trick,
storia di un cane (1975), La miglior vita (1977),
L'amicizia (1980), La finzione di Maria (1981), Il
male viene dal Nord (1984), Ieri, un secolo fa (1985),
Gli sposi di via Rossetti (1986), Quando Dio uscì di chiesa
(1987), Poi venne Cernobyl (1989), L'ereditiera veneziana
(1989), Fughe incrociate (1990), I rapporti colpevoli
(1993), L'abate Roys e il fatto innominabile (1994), Alle
spalle di Trieste (1995), Dal luogo del sequestro (1996),
Franziska (1997), Nel chiaro della notte (1999).
Renzo Montagnoli
28/7/2013
Myricae
di Giovanni Pascoli
Rusconi Editore
Poesia
Collana I grandi classici
Il capolavoro di Giovanni Pascoli
Myricaeè probabilmente la raccolta poetica in
cui meglio si esprime il genio creativo di Giovanni Pascoli,è
un’opera di rilevante valore, anzi molto più esattamenteè il
capolavoro di questo genio romagnolo, e costituisce l’ultimo esempio
di poesia lirica classica, essendo anche al contempo un omaggio a
Publio Virgilio Marone. Infatti il titolo deriva da un verso della
quarta Bucolica del grande poeta latino: Non omnes arbusta iuvant
humilesque Myricae (Non a tutti piacciono gli arbusti e le umili
tamerici). E non poteva esserci miglior titolo, vista l’impronta
della silloge, in cuiè costante un dialogo introspettivo fra l’io
dell’autore e il mondo di piccole cose che lo circondano, elementi
di una natura mitizzata, densa di significati simbolici, a volte
struggentemente dolce e nelle composizioni finali permeata di
mistero, ma non mancano spazi evocativi, in cui forteè il senso del
dolore e l’immanenza della morte.
E’ indubbiamente una raccolta in cuiè possibile cogliere
l’evoluzione artistica dell’autore, considerando cheè stata scritta
in un arco di tempo piuttosto lungo (la prima edizione, di 22 poesie
è del 1891, l’ultima, di 150 componimenti,è del 1900, anche se,
negli anni successivi e fino al 1911, ci furono altre quattro
edizioni, frutto però non di aggiunte, bensì di modeste revisioni
stilistiche).
L’opera, al di là della sua valenza intrinseca, che la qualifica
appunto come capolavoro, presenta una varietà di argomenti e un
piacere di lettura ben difficilmente riscontrabile in analoghi
lavori di autori pur di grande lignaggio.
Se i ricordi sono immancabilmente presenti, e al riguardo cito la
celeberrima Rio Salto (Lo so: non era nella valle fonda /
suon che s'udia di palafreni andanti: / era l'acqua che giù dalle
stillanti / tegole a furia percotea la gronda. /…) in un
susseguirsi di suoni e di immagini di rara efficacia, se pur
assumono valenza di rilievo i pensieri, come in Il passato (Rivedo
i luoghi dove un giorno ho / pianto: / un sorriso mi sembra ora quel
pianto. / Rivedo i luoghi, dove ho già sorriso.../ Oh! come
lacrimoso quel sorriso!), risplendono i versi di una mistica
natura, un paesaggio bucolico, i lavori dei campi, la mansuetudine
di un bove, che simboleggia la forza di una grande umiltà (Al rio
sottile, di tra vaghe brume/ guarda il bove, coi grandi occhi: nel /
piano / che fugge, a un mare sempre più / lontano / migrano l'acque
d'un ceruleo fiume; /….).
Ricordi, natura, riflessioni sono i percorsi di una vita dell’uomo,
purtroppo nato con una durata a tempo, ignota, ma pur sempre
limitata, e nonè quindi un caso che il senso della morte sia sempre
presente, ben espresso da Il giorno dei morti (Io vedo (comeè
questo giorno, oscuro!), / vedo nel cuore, vedo un camposanto / con
un fosco cipresso alto sul muro. /…./ O casa di mia gente, unica e
mesta, / o casa di mio padre, unica e muta, / dove l'inonda e muove
la tempesta; /.. ). E’ una poesia struggente, che stringe il
cuore, assai lunga, ma con un ritmo costante, senza la benché minima
caduta, così lontana dalle stridenti retoriche di Gabriele
D’Annunzio,è una lirica tutta sostanza, nullaè lasciato al
virtuosismo che pure traspare analizzando versi che si scolpiscono
nel cuore.
è grande Pascoli e grandi sono le sue poesie, ancor oggi attuali,
perché la loro contemporaneità sta nell’immenso mistero della vita e
della morte, sta in una natura che a volte ci sembra dolce e amica,
altre invece aspra e feroce, sta nel nostro essere infinitamente
piccoli di fronte alla immensità del creato.
La lettura, quindi,è raccomandata senza il minimo dubbio.
Giovanni Pascoli (1855-1912)
Poeta tra i maggiori della poesia italiana moderna. Studia Lettere
sotto la guida di Giosué Carducci. Spirito inquieto e assetato di
giustizia, partecipa ai primi moti internazionalistici del 1879 e
venne arrestato. Con Myricae (1891) raggiunse l'espressione più
compiuta della sua poesia: la poetica del "fanciullino" attraverso
una nuova libertà stilistica e una nuova musicalità pronta a
cogliere le più sottili sfumature del sentimento umano.
Renzo Montagnoli
27/7/2013
Il metodo del coccodrillo
di Maurizio de Giovanni
Arnoldo Mondadori
Editore S.p.A.
Narrativa romanzo
Collana Oscar bestsellers
Il primo di
una nuova serie
Si
vede che cominciava a diventare imbarazzante scrivere solo del
commissario Ricciardi e in verità non mi sento di dar torto al bravo
de Giovanni: cristallizzarsi in una produzione con sempre lo stesso
protagonista a lungo andare non solo rende difficile inventare nuovi
episodi validi, ma anche il lettore, pure il più affezionato, tende
piano piano a disamorarsi. L’autore napoletano, per variare, aveva
due possibilità: scrivere romanzi del tutto autonomi l’uno
dall’altro, come hanno fatto Andrea Camilleri e Georges Simenon,
oppure dare vita a un nuovo personaggio protagonista di una serie
del tutto diversa. Nel primo caso ci sarebbe stato il rischio di
produrre opere di scarso interesse, ma personalmente credo che non
sarebbe stato il caso di de Giovanni; nella seconda ipotesi il
pericoloè rappresentato dal continuare a perpetuare, pur in forme
diverse, la felice intuizione nata con il commissario Ricciardi.
La sceltaè caduta su una nuova serie di episodi, in cui il dominus
è un ispettore di polizia, di nome Lojacono, un personaggio assai
diverso da Ricciardi, inserito pure in un contesto differente e in
altra epoca (l’attuale), ferma restando la città (Napoli).
Devo dire che, almeno da questo primo romanzo, il tentativo appare
apprezzabile, per quanto il risultato, nel complesso, sia a mio
avviso non del tutto soddisfacente.
Maurizio de Giovanni siè sforzato di estraniarsi da quei personaggi
che tanto gli hanno portato fortuna, ha pure tentato di cambiare lo
stile, eppure si ritrovano certe caratteristiche dei romanzi con
Ricciardi.
Per esempio, gli intermezzi, in cui dei protagonisti vengono portate
le riflessioni, sono presenti anche qui, con una differenza:
sembrano delle forzature, in contrasto con il ritmo dell’opera,
peraltro altalenante, e comunque ben più veloce degli episodi con
l’enigmatico commissario.
Inoltre, la trama gialla vera e propria, che prima faceva da sfondo
a ogni opera, qui assume una maggiore importanza, ma se in
precedenza la sua esilità veniva oscurata dalla bellezza dei
rapporti interpersonali, ora purtroppo si dimostra fragile nel
tentativo di darle un rilievo più importante.
In passato ho perdonato certi periodi in cui venivano espressi
retoricamente i sentimenti, anche perché l’epoca (il famoso
ventennio) era caratterizzato da questo modo di esprimersi, che ora
invece, in un secolo in cui tanto si corre per mai arrivare,
appaiono decisamente fuori tempo.
Nonostante queste stonature e pur in presenza di una certa
artificiosità che tanto richiama i numerosi polizieschi che
affollano le programmazioni televisive, Il metodo del
coccodrilloè un romanzo che si lascia leggere, che può
anche divertire, ma, almeno in questo primo episodio, resta un puro
e semplice giallo, dalla trama nemmeno tanto originale, anche se ciò
non toglie che possa costituire motivo per trascorrere piacevolmente
alcune ore senza porsi tanti problemi.
Quanto sopra per concludere che del libro la letturaè
consigliabile, ma i romanzi con il commissario Ricciardi sono tutta
un’altra cosa, anche per qualità.
Maurizio de Giovanni
nasce nel 1958 a Napoli, dove vive e lavora. Nel 2005 vince un
concorso per giallisti esordienti con un racconto incentrato sulla
figura del commissario Ricciardi, attivo nella Napoli degli anni
Trenta. Il personaggio gli ispira un ciclo di romanzi, pubblicati da
Einaudi Stile Libero, che comprende Il senso del dolore, La
condanna del sangue, Il posto di ognuno, Il giorno dei morti, Per
mano mia e Vipera(Premio Selezione Bancarella 2013). Nel
2012 esce per Mondadori Il metodo del Coccodrillo (Premio
Scerbanenco), dove fa la sua comparsa l'ispettore Lojacono, ora fra
i protagonisti della serie dei Bastardi di Pizzofalcone,
ambientata nella Napoli contemporanea. Tutti i suoi libri sono
tradotti o in corso di traduzione in Francia, Germania, Inghilterra,
Spagna, Russia, Danimarca e Stati Uniti. De Giovanniè anche autore
di racconti a tema calcistico sulla squadra della sua città, della
qualeè visceralmente tifoso, e di opere teatrali.
Renzo Montagnoli
26/7/2013
Lo splendore dell’aquila nell’oro
L’Italia di Enrico VII di Lussemburgo
di
Marco Tornar
Edizioni Tabula Fati
www.edizionitabulafati.it
Narrativa romanzo
Collana Nuove scritture
Fu vera gloria?
Sarà una questione di punti di vista, ma
personalmente non sono mai riuscito a vedere in Enrico VII di
Lussemburgo un personaggio di grandissima rilevanza storica,
rivestendo né più né meno i panni di tanti imperatori scesi in
Italia per rivendicare la loro supremazia, come Federico I
Hohestaufen (il Barbarossa), oppure Massimiliano I d’Asburgo.
Certo, Dante Alighieri nella Divina Commedia lo colloca nel
Paradiso, ma sul principio d’imparzialità del grande poeta nutro più
di un dubbio, avendo inserito nell’Inferno quel sant’uomo di
Celestino V.
Resta comunque un fatto: da noi Enrico VIIè praticamente uno
sconosciuto e a ciò Tornar ha inteso porre rimedio con questo
romanzo storico che parla dell’ultimo periodo di vita
dell’imperatore, dall’assedio di Firenze fino alla sua morte,
avvenuta presso Siena per la malaria e non, come all’epoca si
mormorava e si sostiene anche nell’opera, avvelenato con un’ostia
ingerita durante una Comunione.
Certo l’idea di un uomo teso a porre rimedio alla miriade di
staterelli italiani, riportandoli sotto l’egida imperiale, con il
contemporaneo tentativo di riportare la Chiesa alla sua originaria
funzione, svilendone il potere temporale, esercita un certo fascino,
ma la realtà, almeno quella conosciuta, ci mostra un chiaro
fallimento di una politica in funzione egemonizzante.
Di Tornar ho letto tempo fa un bellissimo romanzo storico, un
autentico capolavoro (Claire Clermont), ambientato in
epoca decisamente successiva e francamente l’aspettativa per questa
nuova opera era notevole.
Tuttavia, sono rimasto un po’ perplesso, vuoi per le caratteristiche
del personaggio principale, vuoi perché Tornar ha scritto un qualche
cosa che si avvicina più al saggio storico che a un romanzo storico,
pur cercando di dare corpo a una narrazione in cui fatti acclarati e
creatività potessero trovare il giusto equilibrio.
A mio avviso il tentativo nonè completamente riuscito, tanto che
quest’opera promiscuaè caratterizzata da una certa grevità, senza
che per questo riesca ad emergere nitidamente una figura di grande
rilievo politico ed umano, il che, oltre a essere un evidente
limite, non permette di comprendere perché Enrico VII sia stato
condannato all’oblio non solo ai suoi tempi (e lì la giustificazione
ci sarebbe pure: era troppo scomodo alle fazioni in lotta, i guelfi
e i ghibellini, senza dimenticare l’opposizione della Chiesa, ben
decisa a difendere i suoi privilegi terreni), ma anche
successivamente, e fino ai giorni nostri.
Le pagine non mancano di motivi d’interesse, ma il personaggio non
riesce a presentarsi vivo al lettore, anzi ha tutte le
caratteristiche del morituro, sconfitto nelle sue mire di completo
assoggettamento dell’Italia e di cessazione del potere temporale
della chiesa.
Certamente fu un sognatore, un uomo dotato di una profonda innata
religiosità che lo induceva a fantasticare di un mondo uniformato al
grande pensiero religioso e sociale di Cristo. Al riguardo le pagine
che parlano di questo suo ideale sono senz’altro le migliori di
tutta l’opera, e lì si avverte maggiormente la capacità dell’autore
di proporci il personaggio.
Forse non erano i tempi giusti per mettere in pratica questo alto e
nobile proposito, ma, se guardiamo le attuali vicende, i tempi
giusti sembrano una sempre più lontana chimera.
Da leggere, in ogni caso.
Marco Tornar
(Pescara 1960) ha pubblicato le raccolte di poesia Segni naturali
(Bastogi, Foggia 1983) e La scelta
(Jaca Book, Milano 1996); le prose
Rituali marginali (Bastogi, Foggia
1985) ed Errando di notte in luoghi solitari (Quaderni del
Battello Ebbro, Porretta Terme 2000); i
romanzi Niente più che l'amore (Sperling &
Kupfer, Milano 2004) e Claire
Clairmont (Solfanelli, Chieti 2010).
Ha curato l'antologia di poesia italiana La furia di Pegaso (Archinto,
Milano 1996).
Renzo Montagnoli
23/7/2013
Scarpette bianche
di
Arturo Bernava
Copertina di Vincenzo Bosica
Edizioni Solfanelli
www.edizionisolfanelli.it
Narrativa romanzo
Collana Biblioteca del Cigno
Una spy story italiana
Scarpette bianche,
il nuovo romanzo di Arturo Bernava,è sostanzialmente una spy story
italiana, ma giocata nell’ambito di un grande conflitto (la seconda
guerra mondiale) e circoscritta per buona parte delle pagine alla
realtà di un piccolo paese, prossimo a Chieti, città che fa da
palcoscenico nell’ultima parte dell’opera. La tensione c’è, c’è pure
un morto ammazzato, una vecchina dall’apparenza innocente, ma odiata
da molti per i suoi sporchi intrallazzi. Poi ci sono un prete
molisano, dalle mani grosse come pale, un maresciallo dei
carabinieri, esautorato di fatto dagli occupanti tedeschi e che
desidera onorare la sua divisa, due medici, uomo e donna, che
dapprima si guarderanno in cagnesco e poi finiranno con lo stimarsi
e anche più…; figurano inoltre un capitano delle SS, freddo,
glaciale, colto, amante dell’Italia, ma non degli italiani, un
bambino orfano, all’apparenza schizofrenico, un gerarchetto fascista
invaghitosi di una giovane vedova illibata, pronto a condurla
all’altare - ma il matrimonio non si farà, perché non si può fare -,
una bambina che ama la nonna paterna e che la cura con la massima
dedizione e c’è questa nonna, dal comportamento enigmatico, che
alterna momenti di lucidità a lunghi periodi di assenza.
Ci sono poi le scarpette bianche, che appaiono sporadicamente, pur
dando il titolo all’intera opera, ma che sono importantissime, come
chi, leggendo, capirà.
E infine (siamo nel periodo dal luglio 1943 al giugno 1944) ci sono
tanti che cercano dei documenti importantissimi, spariti durante la
fuga del re dopo l’8 settembre. Si tratta del famoso carteggio
Churchill – Mussolini, di primaria importanza per tutti i paesi in
conflitto.
A prima vista sembrerebbe uno di quei romanzi oggi in voga, fatto di
inseguimenti, di tranelli, di sparatorie, ma nonè cosi, anzi la
vicenda della ricerca di questi documenti, pur non secondaria, fa da
filo conduttore alla storia di un paese martoriato dalla guerra,
all’insensatezza di uomini privi della benché minima pietà, ai
ritratti puntuali e vivi di personaggi che a loro modo, e senza
saperlo, sono degli eroi; non manca poi l’amore, un’antica molla che
fra tante rovine permette di risorgere, di ritrovare una speranza di
vita che l’abbrutimento quotidiano aveva sepolto.
E sta in ciò l’autentico valore dell’opera, sta anche nelle
contrapposizioni di figure, nelle descrizioni, assai efficaci, di
tanta povera gente in fuga dalla guerra. Poi c’è anche la tensione
della vicenda spionistica che prende corpo dapprima lentamente e poi
quasi esplode nelle ultime pagine.
Bernava riesce a manovrare con perizia i non pochi personaggi, a
farli incrociare, narrando talora con ironia, a volte con
malinconica pietà, in un italiano sempre corretto e assai
scorrevole.
Credetemi, questo libro non attrae solo per la bella copertina, un
riuscitissimo fotomontaggio di Vincenzo Bosica, ma per l’equilibrio
generale, il ritmo costante senza cadute, per la simpatia di alcuni
protagonisti e l’antipatia di altri, per una vicenda tinta di giallo
che avvince e che si risolve con un finale logico e convincente.
Di conseguenza, la letturaè più che raccomandabile.
Arturo Bernava,
nato a Chieti nel 1970,è sposato con Barbara, dalla quale ha avuto
due figlie, Chiara e Maria Elena.
è stato premiato in oltre cento concorsi letterari.
Suoi racconti risultano pubblicati da numerosi editori, tra cui
Montedit, Kairos, Enrico Folci, PerVersi, La Kabbalà, inoltreè
presente in una decina di antologie di premi letterari.
Nel 2009, per la casa editrice Solfanelli, ha pubblicato il suo
primo romanzo dal titolo Il colore del caffè (Premio
Internazionale Città di Mesagne 2011, Premio Maria Messina 2011,
Premio Città di Eboli 2010, Premio Internazionale Golfo di Trieste
2010) ottenendo la piazza d’onore in altri quindici premi letterari.
Nel 2010è uscita una sua raccolta di racconti dal titolo
ELEvateMENTI (Tabula fati, Chieti), che, tra i vari
riconoscimenti, ha ottenuto anche la medaglia della Presidenza del
Senato al Premio Parco Maiella di Abbateggio.
Ha collaborato con alcune riviste periodiche, sia cartacee che
online, tra cui “Tuttoabruzzo” e “Arteinsieme” (quest’ultimo con la
pubblicazione di alcuni racconti).
Una sua biografiaè riportata nell’Enciclopedia degli autori
italiani, edita dall’Associazione nazionale “Penna d’autore”.
Fa parte del comitato di redazione della rivista “Abruzzo
letterario”.
Renzo Montagnoli
21/7/2013
Vipera
Nessuna resurrezione per il commissario
Ricciardi
di
Maurizio de Giovanni
Edizioni Einaudi
Narrativa romanzo
Collana Stile Libero Big
Una lettura sempre assai piacevole
E con questo sono sei i romanzi che hanno
come protagonista il commissario Ricciardi, una serie fortunata che
ha dato una giusta notorietà all’autore. I motivi di questo successo
stanno tutti nei personaggi che compaiono regolarmente in ogni
episodio: il commissario Ricciardi, un uomo affascinante e
misterioso, che annida nel suo intimo un dolore profondo che lo
porta a una malinconica solitudine esistenziale; la sua tata Rosa,
che lo accudisce edè di fatto una seconda madre, malata e avanti
con gli anni, con l’intenso desiderio di vedere accasato e
finalmente sereno quell’uomo di cui intuisce, senza saperne le
ragioni, l’intima sofferenza; la dirimpettaia Enrica, perdutamente
innamorata dal bel commissario, che la ama senza riuscire a
dimostrarglielo; il brigadiere Maione, l’aiutante fidato, uomo
aitante, pratico e dal cuore d’oro, che trova la sua pace fra le
braccia della moglie Lucia e i figlioletti che animano la sua
dimora; il dottor Modo, medico legale, nonché medico dell’ospedale,
in cui cura con dedizione e generosità gli ammalati, notoriamente
antifascista e un po’ anarchico; la cantante d’opera Livia,
bellissima donna, in vista nell’alta società romana, corteggiata da
tanti uomini, ma che ha occhi per uno solo, per lui, per Ricciardi;
il travestito Bambinella, confidente di Maione, di cuiè innamorato
e non contraccambiato; il vicequestore Garzo, carrierista, individuo
viscido, l’unico elemento negativo dei protagonisti fissi.
Se non bastasse già la notevole empatia che si instaura fra il
lettore e questi personaggi, c’è l’ambientazione di rara efficacia,
con una città, Napoli, in cui tanti vivono e lottano per
sopravvivere, e infine non bisogna dimenticare l’atmosfera: siamo
nella seconda metà del ventennio e si respira un’aria greve, un
nauseante lezzo di marciume di un regime che ha iniziato la china
discendente e che per proprio per questo compie ogni nefandezza,
usando sempre più il bastone per prolungare la sua agonia.
E la trama gialla? Sempre presente,è pur tuttavia relegata allo
sfondo del palcoscenico in cui si muovono i personaggi che prima ho
elencato. Non manca la tensione, ma nonè questa lo scopo di ogni
romanzo,è come se de Giovanni ricorresse agli omicidi e alla
ricerca dei colpevoli solo per narrarci delle sue creature, delle
loro giornate, delle loro illusioni, delle loro delusioni.
E cosìè anche per Vipera, dove l’omicidio nella sua
alcova di Maria Rosaria Cennamo, detta Vipera, la più bella
prostituta non solo del bordello Paradiso, ma di tutta Napoli, e le
conseguenti indagini sono un pretesto per mostrarci l’evoluzione dei
rapporti fra Ricciardi ed Enrica, per aggiornarci su Maione e
famiglia, per far rinascere, nonostante un rifiuto scostante, la
passione di Livia per il commissario. A ciò si aggiunge, e questoè
stato un colpo di genio, la disavventura del dottor Modo che, a
forza di manifestarsi antifascista, finisce con l’entrare nel mirino
della polizia segreta di regime. Ma non voglio dire altro, per non
scoprire la trama e in questa sede mi preme solo rilevare come più
passa il tempo, dopo ben sei romanzi la gradevolezza della lettura
rimanga inalterata. Almeno nel mio caso mi sono interessato
soprattutto all’’evolversi delle vicende dei protagonisti, relegando
la ricerca del colpevole a un accessorio, cheè ben costruito, maè
pur sempre non determinante nel giudizio. Maurizio de Giovanni sa
bene interpretare le miserie umane, non si erge a giudice, ma ha un
dono non comune: la pietà, pietà per le vittime e per i colpevoli,
pietà per una città e la sua gente che vivono alla giornata, pietà
per chi non la chiede, ma con il suo comportamento se la merita,
pietà per chi ama senza essere riamato.
Vipera
è un romanzo che merita indubbiamente di essere letto, uno di quei
libri da tenere sul comodino accanto al letto o fra le mani mentre
si prende il sole in spiaggia, un compagno fedele con cui
trascorrere ore di intenso meritato piacere.
Maurizio de Giovanni
nasce nel 1958 a Napoli, dove vive e lavora. Nel 2005 vince un
concorso per giallisti esordienti con un racconto incentrato sulla
figura del commissario Ricciardi, attivo nella Napoli degli anni
Trenta. Il personaggio gli ispira un ciclo di romanzi, pubblicati da
Einaudi Stile Libero, che comprende Il senso del dolore, La
condanna del sangue, Il posto di ognuno, Il giorno dei morti, Per
mano mia e Vipera(Premio Selezione Bancarella 2013). Nel
2012 esce per Mondadori Il metodo del Coccodrillo (Premio
Scerbanenco), dove fa la sua comparsa l'ispettore Lojacono, ora fra
i protagonisti della serie dei Bastardi di Pizzofalcone,
ambientata nella Napoli contemporanea. Tutti i suoi libri sono
tradotti o in corso di traduzione in Francia, Germania, Inghilterra,
Spagna, Russia, Danimarca e Stati Uniti. De Giovanniè anche autore
di racconti a tema calcistico sulla squadra della sua città, della
qualeè visceralmente tifoso, e di opere teatrali.
Renzo Montagnoli
18/7/2013
Nel fruscio feroce degli ulivi
di
Angela Caccia
Prefazione di Davide Rondoni
Fara Editore
www.faraeditore.it
Poesia
Collana Sia cosa che
Un’umiltà cheè anche grandezza
Il titolo mi ha lasciato un po’ perplesso,
poiché sono abituato a riconoscere negli ulivi, nelle loro forme
contorte dovute anche alla forza del vento, un albero che nel
dimostrare l’attaccamento alla vita infonde anche un senso di
serenità, di pace. Come può essere allora feroce il fruscio di
queste foglie, sospinte magari anche da una folata impetuosa? Ma la
domanda che mi sono postoè sbagliata e leggendo le poesie che
compongono questa silloge ho capito il perché, e di questo intendo
parlare, discettando sul significato di quel feroce fruscio
cheè poi un compendio sintetico del pensiero di questa autrice.
Uomo e natura, ma anche natura e uomo, un essere vivente che neè
parte integrante, immerso nella stessa, regolato al pari di alberi,
fiumi e perfino di inerti materiali come i sassi da una legge
perfetta, per noi del tutto incomprensibile e che perciò ci
intimorisce.
E’ per questo motivo che il fruscio diventa “feroce”, quasi
apocalittico, con la speranza tuttavia che questo vento ci possa
essere amico e di motivi di dubitarne ce ne sono parecchi, visto
come l’uomo si atteggia a essere superiore e perfetto, oltraggiando
la natura stessa.
Ma sarebbe semplicistico ridurre questa silloge solo a un rapporto
con il mondo che ci circonda, poiché gli svolgimenti interessano
temi diversi, ma al cui fondo c’è un’intensa vocazione di
trascendenza che accompagna la innata spiritualità a una matura
religiosità.
E tutto, anche analisi introspettive, si uniformano a questa
sostanza, senza la quale tutto scorrerebbe senza che ce ne
accorgessimo, ma tutto invece ha un senso e nulla accade per caso,
ogni cosa sembra scritta in un libro ignoto, in una commedia della
vita di cui siamo protagonisti, interagendo con gli altri, ponendoci
quesiti di cui anche la poesia non ha e non avrà mai risposta.
Lo stileè semplice, ma, attenzione, ciò non vuol dire che sia
elementare, bensì che Angela Caccia sa perfettamente ciò che vuol
dire e questoè esposto in modo chiaro, senza forse virtuosismi, ma
anche senza ombre, quelle ombre di cui spesso i versi di altri
autori sono infarciti, oscure per loro e ancor più buie per i
lettori.
Oggi troppo spesso si producono poesie la cui ermeticità, più che
frutto di un’ attenta elaborazione del proprio sentire,è il
risultato di un mancato approfondimento, di una cura superficiale,
che non offre scampo ai lettori, costretti a interpretazioni
dissimili e per lo più astruse.
Nonè il caso questo di Angela Caccia, che si propone limpida in
un’umiltà cheè la sua grandezza.
Nel fruscio feroce degli
uliviè una silloge
eccellente, capace di portare a continue riflessioni, ma che
s’addentra in punta di piedi nell’animo lasciando un corroborante
senso di serenità.
Da leggere, quindi, senza alcun dubbio.
Angela Caccia
si condensa in tre verbi che per lei focalizzano quell’agire
reiterato che aggettivizza: curare, giocare, viaggiare.
Amareè voce del verbo curare, e Angela ha
un piccolo grande mondo di affetti; un gioco nonè mai fine a sé
stesso,è un topos che riflette una precisa visione: negli scacchi
allena logica e creatività, la prima la lega alla terra, la seconda
la slancia; pigra ma col pallino di viaggiare – si addentra fuori
per ritrovarsi dentro – ama gli orizzonti ampi della poesia:una
stufetta appassionata / quattro ante di nuvole e di cielo / cicche a
metà dimenticate// e poi / ampiezze crinali precipizi / ali di
parole… // non sono qui / cercami altrove(sulla sua lapide in
sintesi: visse felice nei suoi verbi). Abita nella conchiglia doveè
nata, dov’è il calco dei suoi pensieri: Cutro in provincia di
Crotone. Tra i concorsi vinti: Piazzetta (Salerno), Siracusa, Feile
Filiochta International Poetry Competition 2003 (Dublino), Fiurlini
(Olanda), Colapesce 2011, medaglia Presid. Repubblica al premio
Insanamente 2012 (Rimini), Convivio 2012 (Giardini Naxos). Ha
pubblicato Il canto del silenzio (ICI, Napoli, 2004).
Renzo Montagnoli
14/7/2013
Mai visti sole e luna
di
Ferdinando Camon
Postfazione di Giorgio Bàrberi Squarotti
Garzanti Libri
Narrativa romanzo
Collana Gli elefanti Narrativa
Mai
dimenticare!
Devo ammettere che la lettura dei libri di
Ferdinando Camon riserva sempre grandi sorprese, e non solo per
quanto concerne il tema trattato, ma anche per come esso viene
esposto. Su quest’ultimo aspetto ritornerò in argomento
approfonditamente più avanti, perché credo che ben più importanti
siano i contenuti, tali da scuotere una naturale indolenza estiva
che mi porta a cercare prose facili e meno impegnative. No, con
Mai visti sole e luna,è d’obbligo leggere soffermandomi su
svariati punti, lasciandomi trascinare dalle apparenti digressioni
di cuiè infarcito il racconto e con le quali l’autore conduce per
mano a scoprire i reali e autentici significati di questa sua
fatica.
Ancora una volta lo scenarioè quello agreste, il mondoè quello
contadino, lontano mille miglia dalle visioni idilliache delle
Bucoliche di Virgilio, una terra aspra su cui spezzare le reni per
trarre il necessario per il proprio sostentamento, una civiltà
sempre uguale nel tempo che l’industrialismo del dopo guerra ha
spazzato via. Uomini e natura, natura e uomini, quasi un’identità
che non lascia scampo: si viene al mondo sulla terra, alla terra si
ritorna quando si muore, in una vita già scolpita nella pietra del
tempo, fatta di poche gioie e di molti dolori.è un’esistenza dura e
loè ancora di più se si aggiungono alle tante difficoltà e
privazioni quotidiane una guerra (la seconda) e la feroce
occupazione tedesca.è il barbaro germanico che nell’assoluta
condizione di essere superiore schiaccia, tortura, uccide i
contadini, visti non come uomini, ma come paria, come individui
inferiori, eguali ai loro animali. Mi sale un brivido lungo la
schiena nel ricordarmi di certe nefandezze raccontate nel libro:
sono massacri del tutto inconcepibili che non possono trovare
giustificazione e le cui vittime gridano ancora giustizia, senza
essere ascoltate. Anzi, il tempo smussa, sfuma, la resistenza nelle
campagne diventa un evento lontano, talmente lontano che i figli dei
figli dei figli di quei protagonisti ora possono perfino chiedersi
se qualche cosa c’è stato, o ancor peggio non chiedono nulla, non
gli interessa, meglio ignorare il passato per vivere sradicati senza
uno scopo, succubi del presente.
E pur in questa tragedia, che si rincorre di pagina in pagina, e
nonostante l’esperienza dell’autore, perché l’aspetto autobiografico
nonè per nulla secondario, le capacità narrative sono sorprendenti,
accompagnate da un velo d’ironia che nel capitolo che dà il titolo
all’intera opera (Mai visti sole e luna) si trasforma nella
satira dell’alfabetizzazione serale.
Però il sipario si apre ogni volta sul mondo contadino e curiosa al
riguardoè la parte della contrapposizione fra campagna e città,
quest’ultima fonte di tanti guai, perfino della guerra, abitata da
individui incapaci di integrarsi, a differenza dei contadini, che
vivono nella natura e secondo i ritmi della stessa.
Convengo però con Giorgio Bàrberi Squarotti, autore della
postfazione, che giustamente scrive che leggere Mai visti sole e
luna come l’opera dell’estrema nostalgia contadina, dell’ultima
elegia di una cultura scomparsa, oppure come la rinarrazione, a
tanta distanza di decenni, della guerra e della resistenza e anche
degli anni che seguirono la guerra, significa ridurre alquanto il
significato di un’opera che porta invece in sé un messaggio di
universale portata. E qualeè questo messaggio? La società
moderna, in cui l’apparenza vela qualsiasi realtà, in cui tutti
sembrano felici senza esserlo, in cui la ricchezzaè la pietra di
paragone per definire qualità che non sono tali, impedisce di vedere
– a differenza di una civiltà contadina in quel tempo, nuda e
scarna, che non impone visioni artefatte, ma si presenta tale e
qualeè - la vera tragica condizione umana, immutabile da epoche
immemorabili: si nasce per poi morire e si paga il prezzo della
morte vivendo.
Quindi, questo libro porta diversi messaggi, anche se forse ce n’è
uno che all’autore interessa in modo particolare: l’importanza della
memoria. E in questo senso Ferdinando Camon ha ben presente il
concetto che, senza memoria, un fatto, per quanto aberrante e
tragico,è come se non fosse mai accaduto. Nonè quindi un caso se
nella dedica ha riportato a penna queste parole: non c’è
giustizia dopo le grandi stragi. E’ vero, la storia ce lo
insegna, l’armadio della vergogna nonè fantasia, ogni scusaè buona
per seppellire il passato, quando scomodo. E questoè un ulteriore
messaggio: il perdono interessato ai carnefici, senza pietà per le
vittime,è un trionfo di quell’animalità cheè in noi e che
puntualmente, qualora le circostanze lo richiedano, si ripresenta.
E veniamo all’esposizione, a un italiano parlato che ha il grande
pregio di essere corretto, bello ed efficace anche trascritto, con
periodi lunghi che non stancano, anzi incollano il lettore alla
pagina, con il ricorso non infrequente, ma esatto e insostituibile,
al dialetto, in un contesto generale che sembra porgere una realtà
in palmo di mano.
Camon deve aver voluto molto bene alla sua gente, a questi
campagnoli, spesso ottusi e in lotta perenne con una natura
indomita, un mondo ormai scomparso, sostituito da un’agricoltura
industriale anonima, come anonimi sono gli attuali agricoltori, così
diversi da quei contadini che nella loro umiltà non si sono mai
nascosti il destino di ogni uomo.
Mai visti sole e luna
è un romanzo stupendo, un vero e proprio capolavoro.
Ferdinando Camon
è nato in provincia di Padova. In una dozzina di romanzi (tutti
pubblicati con Garzanti) ha raccontato la morte della civiltà
contadina (Il quinto stato, La vita eterna, Un
altare per la madre – Premio Strega 1978), il terrorismo (Occidente,
Storia di Sirio), la psicoanalisi (La malattia chiamata
uomo, La donna dei fili), e lo scontro di civiltà, con
l'arrivo degli extracomunitari (La Terraè di tutti).è
tradotto in 22 paesi. Il suo ultimo romanzoè La mia stirpe
(2011).
Il suo sitoè
www.ferdinandocamon.it
Renzo Montagnoli
9/7/2013
Nibelung
e il Cigno nero
di
Fabrizio Corselli
Introduzione di Liliana Cosi
Prefazione di Matteo Veronesi
Linee Infinite Edizioni
www.lineeinfinite.net
Poesia poema
Poesia a
passo di danza
Fabrizio Corselliè
conosciuto come il Cantore dei Draghi, in quanto autore del
primo poema fantasy italiano (Drak’kast
– Storie di Draghi, pubblicato
da Edizioni della Sera); questa identificazione, però,è impropria,
in quanto il poeta palermitano ha una naturale inclinazione per la
mitologia, in particolare quella greca, in cui il suo spirito
creativo ha modo di sbizzarrirsi fra i tanti dei ed eroi. Perfino
nella costruzione dei suoi poemi, nella stesura dei versi, c’è un
richiamo continuo alla mito-poesia ellenica, i cui testi più
conosciuti sono l’Iliade e l’Odissea di Omero.è un genere, il suo,
che si potrebbe quindi definire epico, curato strutturalmente e
armonicamente, e opportunamente attualizzato, al fine anche di
renderlo più comprensibile. Tuttavia, pur in quest’ambito, Corselli
è alla continua ricerca di nuove prospettive, affinando
ulteriormente l’estetica e volgendosi a una poesia musicale che
coniughi il messaggio alla sua realizzazione, nell’intento di dare
vita a quello che potrebbe essere definito un poema sinfonico. Ci
prova anche con questo Nibelung e il Cigno Nero, da
lui stesso definito una suite poetica e come notorio, in campo
musicale, la suiteè un insieme di pezzi, scritti per un’orchestra,
legati fra loro e ideati per essere suonati in sequenza. Si tratta
di un proposito ambizioso e di assai difficile realizzazione, che
presuppone, oltre a un naturale talento, un lavoro lungo e snervante
di continuo cesello, al fine di pervenire a una armonia melodica,
senza per questo svilire i contenuti, e in cui di fatto i
protagonisti principali sono la Poesia e il Poeta, quest’ultimo
apparendo in via metaforica nella figura del cigno.
Quando prima ho evidenziato il richiamo ellenistico nonè stato a
caso, perché infatti questo poemetto già all’inizioè uniformato
alle opere di Omero, con quel primo brano, intitolato Musa, che
tanto fa venire in mente i primi versi dell’Iliade, un’introduzione
non solo evocativa, ma che consente di avere un’idea immediata di
quello che sarà il seguito.
Opera non certo facile, non rara, bensì unica, Nibelung e il
cigno Nero ha necessità di essere letta a voce, per
scoprirne l’armonia e al fine di cercare quella musicalità propria
della suite a cui tende, magari approssimandosi, ma senza
raggiungerla in pieno, in quanto materialmente impossibile per delle
parole che vorrebbero essere, ma non lo sono, delle note. Si
apprezza comunque il tentativo, si apprezza per l’equilibrio, per la
dinamica dello svolgimento, per i contenuti metaforici, da cui esce
l’immagine del Poeta come di un essere che conduce un’esistenza in
sospensione di tempo, né collocato sulla terra, né asceso alla
grandezza dei cieli, ma in un contesto quasi estatico, che lo relega
tuttavia in un limbo in cui l’angoscia e il sublime convivono, quasi
in funzione l’una dell’altro.
Quindi, sono dell’opinione che per questo lavoro maturo ci siano
qualità tali da caldeggiarne la lettura.
Fabrizio Corselli,
definito dalla critica italiana “Il Cantore di Draghi”,è uno
scrittore di poesia a carattere
epicomitologico e un saggista. Nato a Palermo nel
1973, vive e lavora come educatore a
Settimo Milanese. In qualità d’insegnante di Composizione poetica,
a partire dal 2001, cura a livello
didattico una serie di progetti letterari volti a promuovere la
Poesia presso scuole, biblioteche, librerie e associazioni.è autore
del primo poema fantasy italiano dal titolo Drak’kast
– Storie di Draghi, a cura di Edizioni della Sera di Roma. Presso la
stessa, cura la Collana Hanami (poesie
haiku). Altre pubblicazioni: volume antologico di poesia giapponese
InvernoHaiku (2012), in qualità di
curatore editoriale, e l’opera erotica “Enfer”,
a cura di Ciesse Edizioni.
Renzo Montagnoli
7/7/2013
Nessuna più
Quaranta scrittori contro il femminicidio
di
Autori Diversi
a cura di Marilù Oliva
Prefazione di Roberta Bruzzone
Elliot Edizioni
Narrativa racconti
Contro il femminicidio
Gli atti di violenza di cui sono vittime
le donne e in particolare gli omicidi hanno assunto nel nostro paese
una dimensione preoccupante, tanto che si impone la necessità di
analizzare il fenomeno e le sue cause, in particolarmente l’analisi
psico-sociologica degli uomini che li commettono, e ciò per arginare
il fenomeno, se non addirittura per risolverlo alla radice.
Si assiste infatti a un andamento involutivo che porta il maschio a
considerare la propria compagna un semplice oggetto di sua
proprietà, su cui sfogare le proprie frustrazioni e su cui imporsi
solo con la forza.
Marilù Oliva, scrittrice bolognese, siè fatta portavoce di questa
ormai indifferibile esigenza, coinvolgendo altri 39 narratori, e
curando l’edizione per Elliot di un’antologia di trentotto racconti
che hanno per tema la violenza sulle donne.
Se il fil rouge obbligato consente di avere un’uniformità di
svolgimenti, presenta tuttavia il limite dato da una certa
ripetitività che a volte può stancare, anche se fra gli autori
chiamati in causa ce ne sono alcuni assai famosi. Insomma, il temaè
unico, mentre il modo di svolgerlo dovrebbe essere alquanto diverso
da lavoro a lavoro, e in parte loè, presentando tuttavia sovente
una comunanza di stesura che non giova di certo alla gradevolezza
della lettura.
Nonè così, per fortuna, per tutti i racconti, poiché per alcuni
l’idea e la realizzazione presentano originalità che non possono non
passare inosservate e che conferiscono valore a questo libro.
Mi riferisco a Chiara, di Andrea Cotti, un
interrogatorio di un uomo che ha ucciso la moglie in stato
interessante, in cui si passa dal freddo rigore procedurale
all’emozione di un Pubblico Ministero donna che pure leiè incinta.
La scritturaè misurata, mai enfatica, composta con un tono di
distacco che non solo non banalizza, ma che accresce la valenza di
una trama che ha una sua spiccata originalità.
Di grande effetto poi, nella testimonianza “postuma” della vittima,
è Pensieri sull’acqua, di Andrea Novelli e Gianpaolo
Zarini; ben scritto, appare come un flash back nel flash back, ma
senza che ci siano cadute e appesantimenti in quella che finisce con
il diventare una bella prova di stile.
Che dire, poi, di Ciao mamma, di Marco Proietti
Mancini? E’ l’allucinante resoconto della violenza sessuale subita
da due donne, poi brutalmente uccise, raccontata in prima persona da
una delle vittime, come una lettera di addio alla mamma; sa
alternare momenti brutali ad altri toccanti, in un raro e perfetto
equilibrio.
E poi c’è un racconto cheè quello che più mi ha colpito per
l’originalità, per le felici intuizioni e perché l’autore ha saputo
evitare inutili retoriche, tanto che, pur non essendo
strappalacrime, muove a una sofferta commozione. Il brano s’intitola
Lettera a Laura, di Milvia Comastri, una lettera mai
spedita, uno sfogo di chi l’ha stilata per un’amica che ha lasciato,
pure lei vittima di un uomo, questo nostro mondo. Di più non dico,
ma invito a leggerla, come invito a leggere anche l’intera
antologia, perché le notizie di violenze che appaiono sui giornali
ci restituiscono solo volti anonimi, ci descrivono il dopo, il
ritrovamento del cadavere, magari con un accenno alla vita
tormentata della vittima; qui ciè dato di conoscere il prima,
l’angoscia, i nervi a pezzi, la disperazione, un lungo e crudele
calvario di cui la morteè solo l’atto finale e forse liberatorio
da un’esistenza che nonè vita.
Gli autori
Alessandro Berselli, Francesca Bertuzzi, Sara Bilotti,
Roberta Bruzzone, Mariangela Camocardi, Stefano Caso, Gaja
Cenciarelli, Milvia Comastri, Laura Costantini, Andrea Cotti,
Loredana Falcone, Vittoria A., Romano De Marco, Maurizio De
Giovanni, Caterina Falconi, Ida Ferrari, Alessia Gazzola, Francesca
Genti, Lorenza Ghinelli, Laura Liberale, Elisabetta Liguori,
Fabrizio Lorusso, Loriano Macchiavelli, Lara Manni, Marina Marazza,
Marco Marsullo, Massimo Maugeri, Raul Montanari, Gianluca Morozzi,
Andrea Novelli, Marilù Oliva, Cristina Orlandi, Flavia Piccinni,
Marco Proietti Mancini, Piergiorgio Pulixi, Paola Rambaldi, Susanna
Raule, Matteo Strukul, Marco Vichi, Cristina Zagara, Gianpaolo
Zarini.
Renzo Montagnoli
5/7/2013
Quer pasticciaccio brutto de via
Merulana
di
Carlo Emilio Gadda
Prefazione di Pietro Citati
Nota di Giorgio Pinotti
Garzanti Editore
Narrativa romanzo
La vita e questo romanzo sono un
“garbuglio”
La vitaè un gran “garbuglio” e inutili
sono gli sforzi per dipanare la matassa, tanto ciò cheè resta e a
questo concetto sembra improntarsi l’azione svogliata del
Commissario della Squadra Mobile di polizia Francesco “Don Ciccio”
Ingravallo, sulla cui esistenza tutto sommato tranquilla cadono
pressoché contemporaneamente le indagini per due misfatti perpetrati
nello stesso stabile di via Merulana: un furto a colpi di pistola
nell’appartamento della contezza Menegazzi e poi addirittura
l’omicidio della sua dirimpettaia, l’affascinante signora Balducci,
grande amica dello stesso Ingravallo, peraltro nascostamente
innamorato di lei.
Siamo negli ultimi anni venti, con il fascismo che ha consolidato il
suo potere e che aspira a mostrare al mondo un’Italia ordinata,
sicura, senza fatti delittuosi, un po’ con l’efficacia di leggi
eccezionali, ma soprattutto con il bavaglio alla stampa che di certe
cose non deve dar risalto. Ma seè possibile condizionare i
giornali,è assai difficile imbrigliare la voce popolare, sempre
sensibile a fatti di sangue, soprattutto quando le vittime non sono
personaggi oscuri.
Quindi si deve arrivare il prima possibile alla soluzione, oppure,
in caso di esito sfavorevole, si rende necessario calmare le acque,
sotterrare piano piano vicenda e personaggi, in modo che il nostro
“Mascellone” possa ostentare in tutta sicurezza la sua grinta
leonina.
Quasi a passo di gambero procede Ingravallo, nel mentre la vox
populi .deforma e amplia la realtà, cosicché tutti diventano
sospettati, ma non perseguibili, in quanto del reo o dei rei non c’è
il benché minimo indizio. E alla fine questo giallo resterà
irrisolto, anche perché la vicendaè solo un pretesto a cui l’autore
ricorre per mostrare da un lato le ipocrisie del fascismo e
dall’altro per guardare con sospettosa ironia la vita, come se
questa fosse una grande opera incompiuta, senza né capo né coda,
nonostante che gli uomini si arrovellino, non proprio tutti, ma una
buona parte, per trovarne il senso, per venire a capo di un
garbuglio che diventa sempre più intricato.
E’ una visione pessimista dell’esistenza sorretta tuttavia da una
vena di sottile autoironia che salva l’opera dal rischio di
scivolare nel ridicolo, un romanzo che in altre mani sarebbe
proceduto veloce e senza intoppi, pur senza giungere a una canonica
conclusione, ma che, a mio avviso, risulta gravato da digressioni
spesso inutili, non pertinenti, e da un linguaggio del tutto
inventato (una sorta di romanesco italianizzato) che se, sporadico,
sarebbe caratteristico, ma che invece quasi sempre ripetuto finisce
con lo stancare, anche perché l’autore non si propone, bensì si
impone al lettore e questoè un grave errore, una mancanza non solo
di umiltà, ma anche di professionalità.
Comprendo che lo scrittore ha cercato di coniare un linguaggio
nuovo, ma ciò non deve essere fine a se stesso, perché la parolaè e
deve essere considerata solo un mezzo con cui viene portato avanti
un discorso, con cui si lancia un messaggio, un tramite quindi per
comunicare.
E pensare che Gadda viene considerato uno dei grandi della
letteratura e può anche essere che lo sia, soprattutto per una
certa cerchia di critici che ha ignorato a lungo degli autentici
“grandi”, fra i quali, tanto per fare un nome, Primo Levi, il più
grande scrittore italiano del XX Secolo.
Vorrà dire che io non sono capace di giudicare, né io ho mai avuto
del resto la pretesa di essere considerato una voce prestigiosa; in
fondo sono un semplice lettore che azzarda delle critiche e se i
miei giudizi possono apparire fuori luogo, però da semplice lettore
mi permetto di dire che questo romanzoè stato da me scarsamente
gradito, sia per i contenuti, per niente profondi, sia per uno stile
barocco pesante come un macigno.
Con ciò non voglio dissuadervi dal prenderlo in considerazione, maè
bene che sappiate quello a cui andrete incontro.
Carlo Emilio Gadda
(Milano 1893 - Roma 1973) .
Nella città natale fece tutti i suoi
studi, fino a quelli di ingegneria. Combattente nella prima guerra
mondiale, fu fatto prigioniero e trasse da queste esperienze un
Giornale di guerra e di prigionia, pubblicato più tardi (1955).
Negli anni Venti svolse la professione di ingegnere, in Italia e
all'estero, collaborando nel frattempo alla rivista fiorentina “Solaria”,
nelle cui edizioni pubblicò gran parte delle sue prime opere
narrative: La Madonna dei filosofi (1931) e Il castello di
Udine (1934). Da Milano, dov'era tornato a stabilirsi, si
trasferì nel 1940 a Firenze, e qui risiedette quasi
ininterrottamente fino al 1950. Visse da allora a Roma, dove lavorò
per il terzo programma radiofonico fino al 1955. A partire dagli
anni Quaranta Gadda venne pubblicando le opere che lo hanno imposto
come una delle grandi personalità letterarie del Novecento italiano:
L'Adalgisa. Disegni milanesi (1944), affresco satirico della
borghesia meneghina agli inizi del secolo, corredato di note che
svolgono un controcanto saggistico; Il primo libro delle favole
(1952); Novelle dal ducato in fiamme (1953, premio
Viareggio), grottesca rappresentazione dell'ultimo periodo fascista;
Quer pasticciaccio brutto de via Merulana (1957, ma già
apparso su “Letteratura” nel 1946-47), un “giallo” ambientato nei
primi anni del fascismo, tra satira e tragedia; i saggi, le note
autobiografiche, le divagazioni, raccolte in I viaggi la morte
(1958) e Le meraviglie d'Italia (1964, con sostanziali
modifiche rispetto alla prima edizione del 1939); I racconti.
Accoppiamenti giudiziosi 1924-58 (1963); La cognizione del
dolore (1963, ma già pubblicato “a tratti” su “Letteratura”, nel
1938-41), una storia sarcastica e disperata, sottilmente
autobiografica, sullo sfondo di una Lombardia travestita da
Sudamerica; Eros e Priapo: da furore a cenere (1967), un
romanzo-saggio sul fascismo. Ha completato successivamente la
bibliografia gaddiana (ricca di altre opere minori) la pubblicazione
del primo romanzo scritto da G., La meccanica (1970) e di
altri inediti dei suoi primi anni di attività letteraria (Novella
seconda, 1971; Meditazione milanese, 1974; Romanzo
italiano di ignoto del Novecento, 1983).
Renzo Montagnoli
2/7/2013
Andrea
Camilleri
Un covo di vipere
Sellerio
editore Palermo
maggio
2013
Un
covo di vipere di
Andrea
Camilleri, il
ventunesimo libro sul commissario
Montalbano
e pubblicato
alla
fine di maggio, in realtà
è stato scritto nel 2008
come riporta Camilleri
nella nota
finale del testo letterario,
ma essendo troppo vicino
alla
pubblicazione de
La
luna di carta
del 2004, la casa
editrice Sellerio ha
preferito tenerlo congelato
nei suoi
archivi
fino
alla
data
odierna. Fatta
questa premessa
Un covo di vipereè
uno dei
romanzi
in cui Camilleri dà il
meglio di sé, scritto con mano
felice quando la
creatività prende e
sorprende chi scrive. La
storia
affrontata
è scabrosa
e
a tratti
indecorosa, ma
l’autore sa
trattarla
con estrema delicatezza
e trasfigurarla
in una sorta
di tragedia
greca. L’omicidio del ragioniere
Cosimo Barletta
apre scenari
oscuri ed inquietanti, la
vittima, uccisa
due volte da due
ipotetici
assassini,
è un essere fuori dai
limiti, ributtante, dal
fondo dell’animo sordido
e
amorale:
affarista
senza scrupoli, usuraio,
amante
compulsivo di giovani
donne ricattate
o comprate dal
vile denaro. L’indagine
si espande
a macchia
d’olio e dall’ucciso
ai due figli,
alle sue frequentazioni
femminili,
ne scaturisce
un universo umano pregno
di segreti e zone d’ombre, ma
è la famiglia
su cui si
accentra
la lente d’ingrandimento,
un covo di vipere
appunto, un gorgo oscuro
e nero che tutto inghiotte. In questo particolare
caso poliziesco,
bassezze,
vergogne, lettere
allusive e
misteriose, mettono
a nudo
aspetti inconfessati
dell’animo umano,
oscure colpe, equilibri scomposti, sesso e perversioni oltre ogni
freno morale. Montalbano,
insieme
al suo staff
investigativo Augello e
Fazio, procede per
indizi e deduzioni, scavando
nella vita
pubblica e privata
di Barletta,
il movente dell’omicidio
assume sempre più sfaccettature
complesse, non solo di vendetta,
di
interesse, ma
di qualcosa
di sotterraneo, indecifrabile
e indicibile che prende forma
e si
avvicina
a quella
verità inconfessabile
che gli dà le vertigini. Montalbano
è investito da un senso
di pudore di fronte
a certi sentimenti
atavici
che si ripudiano perché
repellenti, ma sommersi
nell’inconscio di tanti,
la sua
educazione sentimentale
nutrita da
letture e storie cinematografiche
gli ha insegnato
la comprensione e la
compassione, egli non dà
giudizi, quella che
potrebbe chiamarsi
disumana
ignobiltà poteva
definirsi
amore, se non come
diversamente? Montalbano
nei suoi soliloqui, quando
l’indagine
tocca
le sue corde più intime o scalfisce
la sua
personalità, sente la
sua
alterità nel
procedere secondo una
giustizia codificata
o
umana
che flette e si piega
a seconda
del contesto in cui deve
agire e
agisce come meglio crede
chiudendo il tragico caso
con compassionevole
dolore. L’intentoè quello di custodire la
dignità umana
quandoè offesa
oltre le intenzioni. Quello che sorprende in questo romanzo
è come Camilleri
riesca
ad equilibrare
scomode verità, presagi
nefasti e momenti di
vis comica ( le sue
farfantarie e nei confronti di
Livia
e nei confronti del questore…) e
arte/bellezza
( il quadro di
Rousseau,
il Doganiere,
inserito in un sogno/Sogno di
Yadwigha...).
Bellissimo e dolente
il ritratto del vagabondo,
pariva
Mosè, che fischia
come un usignolo il motivo della
canzone
Il
cielo in una stanza
e vive in una grotta.
Sembra una
figura estranea
alla
vicenda, un personaggio
aggiunto per dare
quella giusta
pennellata
al quadro
narrativo
d’insieme, ma … Più che
in
altri gialli
di Camilleri, Salvo
Montalbano
prende coscienza del suo
essere solipsistico, di come la
solitudine nutra ed
alimenti la
sua esistenza,
da
essa prenda
spunti di riflessioni che si sostanziano
in congetture investigative.
Nel lettore Camilleri
riflette ogni volta che
rispecchia una
realtà
altra
quasi come quando
si sente un fatto
agghiacciante
di cronaca,
ma con un valore
aggiunto, uno stato
d’animo guasto
come se venissero a franare
miseramente quelli che
sono i fondamenti
dell’illusione e delle
apparenze.
Nello specifico del libro, il diritto di vivere, di ricercare
la felicità o il mito
del successo diventa quasi
un dovere se non
addirittura
un’ossessione che trasforma
il sogno in un incubo per sé e gli
altri. Un romanzo
che sta
a metà tra
il noir e il dramma
psicologico, si legge con intensità perchéè l’intensità emotiva
che sostiene questo romanzo
e la formidabile
formazione culturale
dell’autore compresa
la sua
vocazione teatrale
e per i dialoghi e per
le inquadrature
delle scene.
Arcangela Cammalleri
Scelte vincenti
di AA. VV.
a cura di Alessandro Ramberti
Postfazione di Stefano Martello
Fara Editore
www.faraeditore.it
Narrativa e poesia
Collana Neumi
C’è anche del
buono
Fra i tanti concorsi
letterari di poesia e narrativa non mancano quelli indetti da
editori alla ricerca di nuovi autori e fra questi figura il concorso
Pubblica con noi delle Edizioni Fara, di cui quello
relativo al 2013 siè già concluso e si sono già avuti gli esiti,
tanto che Scelte vincenti raggruppa le opere
classificate in graduatoria nei primi tre posti per ogni sezione.
Premetto che la giuriaè autonoma, nel senso che nonè presente
l’editore, e questo mi pare anche corretto, al di là poi delle
decisioni assunte, sempre opinabili.
Sulle risultanze non sono d’accordo, perché in generale, e ora parlo
della sezione narrativa, ho trovato delle opere appena sufficienti e
il fatto che abbia pesato nell’assegnazione del primo posto a
Giorgio Diaz il richiamo a Raymond Queneau lo considero un elemento
non positivo, perché un artista per essere veramente tale deve
proporre qualche cosa di nuovo e in modo nuovo; ci sono richiami poi
a Gadda per il 2° ex-aequo (La vita di Bartolomeo, di
Marcello Zane), tanto che questi accostamenti sembrano una prassi
dei giurati. I due racconti terzi ex-aequo mi hanno lasciato del
tutto indifferente, in quanto pretenziosi, ma con poca sostanza.
Uno che invece ho trovato a mio avviso assai validoè il 2°
ex-aequo, Il vestitino rosso e altri racconti, di Giovanni
Carullo, in particolare “Nonè vero, Nora?”, di cui non
si può che apprezzare lo stile molto personale e immediato, che
coinvolge fin dalla prima riga, dando vita a un pathos in cui ci si
immerge come nella pioggia del violento temporale che fa da
palcoscenico alla trama.
Ben scritto, diretto, senza tanti fronzoli, caratterizzato da una
capacità di attenta e profonda analisi psicologica,è questa una
prosa di eccellenza con cui si presenta in modo limpido un narratore
che gli editori, e non solo Fara, dovrebbero tenere d’occhio.
Per la poesia valgono le stesse mie considerazioni della narrativa e
cioè che sono in totale disaccordo con i giurati, anche perché fra
tanti versi spacciati per poesia, e non lo sono, ho trovato una vera
chicca che, manco a dirlo, non siè classificata al primo posto,
bensì al secondo ex aequo (una domanda mi corre: ma perché tutti
questi ex aequo?).
Mi riferisco alle poesie di Ernesta Galgano, che scorrono
lievi e tranquille come un fresco ruscello di montagna, intrise di
una gioia serena che infonde una grande speranza. Ben strutturate,
armoniche, rappresentano per me quelle che dovrebbero essere le
poesie, e quindi non elucubrazioni contorte, oppure semiprose, di
cui oggi fin troppo si abbonda. E nonè che per questo non lascino
il segno, cioè non inducano a riflettere, anzi, anche quelle
religiose, nel dare la misura della nostra caducità, al tempo stesso
ci gratificano degli esiti di un’esistenza vissuta nella purezza di
un Amore cheè fede, speranza e intima trascendenza.
Per quanto ovvio, anche Ernesta Galganoè meritevole di particolare
attenzione.
Scelte vincenti, pertanto, proprio per la presenza dei
testi di Giovanni Carullo ed Ernesta Galgano merita di essere
senz’altro letto.
Giorgio Diaz
è nato a Livorno. Fin da bambino ha letto tanto, ma così tanto che a
un certo punto siè messo a scrivere per vedere se aveva imparato
qualcosa. Dato che andavano di moda i “gialli”, ha provato a
scriverne uno; inopinatamente ha vinto un concorso letterario,
grazie a un giallista doc, Andrea Pinketts, che lo ha presentato (Boja
déh!). Il nibbio dell’Uccellinaè scritto in un linguaggio
inventato, che mescola vernacoli e lingua colta, ispirandosi
(immeritatamente) ar Pasticciaccio; nonè stato un
bestseller, ma pazienza, ha avuto i suoi lettori. Lui ci ha preso
gusto e ha continuato sfruttando le opportunità dei concorsi
letterari in rete, e ha pubblicato qualche altro libro. Non ha più
smesso. Ama i suoi lettori e spera che loro amino lui. Vive e si
diverte a scrivere a Firenze. Ha pubblicato: Il
nibbio dell’Uccellina (Società Editoriale ARPANet, 2004,
vincitore del concorso 20/04/2004 con presentazione di Andrea G.
Pinketts); L’eroe della Grotta delle fate(Midgard Editrice,
Perugia, 2007, vincitore del Premio Midgard Historia); Lo
sgozzatore di cigni (Edizioni Montag, 2009); Il
bianco e il nero (Società Editoriale ARPANet, 2009);
La città della solitudine Lettere d’amore di una sconosciuta
(Altrimedia Edizioni 2010); Il mare ti accarezza in Giallo
Limone 2011, i migliori quindici racconti del premio letterario
“Giallo Limone 2011”, Robin edizioni, “I libri bianchi”, 2012.
Poesie: L’orologio in Pàssim, Antologia
Premio Letterario Panchina, III e IV edizione, 2011, I libri di Emil;
in Autori vari, La biblioteca d’oro, Poesie edizione 2011;Le
immagini, L’amica silenziosa in Antologia Versi creativi
2011, Edizioni creativa.
Giovanni Carullo
è nato ad Avellino circa quarantottoanni fa. Sposato, due figli e
sei cani. Laureato in sociologia, allevatore di terranova. Lavora
per mangiare e scrive per passione. Ogni tanto gli si accende dentro
il fuoco della scrittura e allora lascia che le fiamme divorino(!)
la sua anima e si riversino sulla pagina bianca di un foglio di
carta o di un documento word. Mai che la scrittura bruci anche
qualche grasso, però. Ma lui non dispera.è sempre grato a quanti
hanno apprezzato i suoi lavori, mai nessuno però gli ha proposto
pubblicazioni senza chiedergli contributi. Ha partecipato al
Laboratorio di Scrittura Creativa della scrittrice Antonella Cilento
a Napoli. Tra i premi per la narrativa: 1° (con il racconto brevePiacere
Marcello) al concorso Hi-tech 2002 sul sito
www.dillo.it ; 1° al Kriterion 2003; 3° al Kriterion 2004; 2° al
Kriterion 2011; 5° al premio internazionale Margherita Yourcenar
2004; 6° al premio internazionale Angela Starace 2004; finalista al
Città di Empoli – Domenico Rea 2004; 3° (con il racconto La
mascella serrata) al concorso L'Inedito 2003. Suoi racconti sono
stati pubblicati sulla rivista “Il Segnalibro”, sul sito
www.leggendoscrivendo.it, nonché nella raccolta Premio di
Rapolano 2004. Ha vinto il premio Energheia 2007 (Matera) miglior
testo per la realizzazione di un cortometraggio. Ha pubblicato con
Prospettiva Editrice la sua tesi di laurea: Il successo delle
Barbie Islamiche. Il racconto lungo La Bocca del Dragone
è pubblicato su
ilmiolibro.kataweb.it
Bresciano (valligiano) over 50, dopo
aver svolto attività di ricerca post laurea presso la Fondaçao
Blumenau (Stato di Santa Caterina, Brasile) grazie ad una borsa di
studio elargita dalla stessa, e ottenuto un collocamento presso
l’Università Autonoma De Madrid (Spagna) grazie al programma Europeo
Leonardo, Marcello Zane
ha imparato due o tre cose sulla salinità del sentimento e la
sapidità delle relazioni, restando, per dirla con il protagonista
del racconto, panciafichista ed irenico nella disposizione d’animo.
Nonostante abbia collaborato a vari uffici stampa pubblici e di
grandi aziende, scriva libri di carattere storico economico e faccia
parte di varie fondazioni culturali e comitati museali, insegni
comunicazione in una università, sia socio di una micro casa
editrice, trovo fortunatamente il tempo per… scrivere: naturalmente
di quel che lega i sogni agli uomini, le speranze alle evenienze ed
ogni briccica all’eternità.
Paolo Giammaroni
nato a Roma nel 1951,è d’origini umbre e sabino per scelta.
Giornalista economico, consulente in comunicazione, ha creato il
“Laboratorio di scrittura funzionale o di servizio”. Dopo vari libri
di saggistica, si sta dedicando alla forma breve: racconti, haiku,
romanzi brevi, oltre che canzoni e musiche di scena. Ha tradotto
Valery, Thich Nhat Hahn, Buarque de Hollanda. Per Rai International
ha curato sceneggiature di personaggi come Fallaci, Modugno, Stratos.
Laureato in filosofia,
Roberto Morpurgo
scrive poesie, aforismi, saggi, racconti, soggetti cinematografici,
pièces teatrali. Ha pubblicato in volume L’azzurro del mare
(poesie, Joker) Pregiudizi della libertà I (aforismi, Joker),
El Djablo (racconti, Puntoacapo, 2009). Ha diretto per la
scena e per la radio i suoi atti unici Tubor eL’Autoritratto.
Per Schegge d’Autore (RM) e per La corte della Formica (NA) ha
curato nel 2008 la messinscena e la regia del suo monologo
L’Isola; sempre al teatro Tordinona di Roma ha poi allestito e
diretto le sue pièces Bogey (2009), L’Appello (2010),
Pioggerellina nella stanza (2011), L’Intervista(2012).
Altre sue pièces sono andate in scena a Roma a cura della compagnia
Gnut. Dirige per
Puntoacapo la collana di teatro Il Porcospino. Ha vinto il
concorso La vita in prosa 2012 con il racconto Muette.
Imminente la pubblicazione in volume de L’Autoritratto per i
tipi di Falsopiano di Alessandria.
Vincenza Scuderi
nata a Catania nel 1972, dove
vive e dov’è
germanista presso l’università.
È
saggista, traduttrice, e defilatamente
ma fortemente poeta. La sua raccolta Accade soprattutto per la
strada, prima classificata nella sezione poesia del concorso
“Pubblica con noi 2013” di Fara Editore, ha visto una tranquilla
gestazione d’anni.
Sta lavorando a una seconda, forse meno lenta raccolta, e ad
ulteriori cose di cui dirà poi. Nelle sue vesti germanistiche si
occupa di poesia contemporanea (in particolare poesia austriaca
sperimentale), cultura visuale, gender studies, traduttologia, e
qualcos’altro. Fa parte dell’associazione-casa
editriceincerti editori (www.incertieditori.it).
enzascu@tiscali.it
Ernesta Galgano
dice di sé: «Ho sempre avuto
l'istinto e il piacere di trascrivere in versi le mie emozioni. Una
professione molto impegnativa mi ha assorbita completamente. Sono un
medico, ho fatto il chirurgo, quello vero, sul campo, in ospedali
italiani e in paesi emergenti come volontaria. Con la pensione e con
nuove emozioni ho ripreso a scrivere. Ho avuto riconoscimenti per
poesie e racconti in concorsi nazionali ed internazionali. Continuo
ad emozionarmi con la musica, con i viaggi, con il desiderio di
capire e consolare chi incontro sulla mia strada, anche con le
parole, assolutamente sincere.»
Luca Carboni
è nato a Fano (PU) nel 1973 e risiede a Pesaro. Dopo aver conseguito
la Laurea in Giurisprudenza presso l’Università di Bologna e
l’abilitazione all’esercizio della professione, lavora da più di
dieci anni presso l’Inail di Pesaro, lavoro che rivendica
orgogliosamente essere analogo a quello svolto dal suo idolo
letterario, Franz Kafka. Ha preso parte ai corsi di Poesia tenuti
all’Università dell’Età Libera di Pesaro dal Prof. Gianni D’Elia.
Sta ora frequentando i corsi di Filosofia Teoretica, Storia della
Filosofia antica e medioevale e Teologia Fondamentale presso l’I.S.S.R.
di Pesaro. Sue opere sono presenti in antologie on line e blog di
poesia, ma sicuramente il momento culmine della sua breve carriera
poeticaè rappresentato dalla partecipazione a “Primavera di
Poeti”,con letture tenute nella fascinosa Cripta di San Biagio,
nelle immediate vicinanze dell’Eremo di Fonte Avellana.
Michela Zanarella
è nata a Cittadella, Padova, il 01-07-1980. Vive e lavora a Roma.
Inizia a scrivere poesie nel 2004, e la sua poesiaè ora tradotta in
inglese, francese, spagnolo, arabo. Ha pubblicato sei libri Credo
(ed. MeEdusa), Risvegli(ed. Nuovi Poeti), (Vita, infinito,
paradisi (ed. Stravagario), Convivendo con le nuvole (ed.
GDS), Sensualità(Sangel Edizioni), Meditazioni al
femminile (Sangel Edizioni).è Premio Speciale “Poeti per la
Repubblica”nella 23^ Edizione Premio Nazionale di Poesia “Rosario
Piccolo” 2012.è tra i vincitori del
Premio Internazionale di poesia
Tredici, indetto dal Centro di Poesia Roma.
Mariangela Ruggiu
dice di sé: «Sono insegnante di
discipline scientifiche, amo la poesia da sempre, ma ho ripreso a
scrivere da pochi anni, sono solo dilettante nella poesia cercando
di non mancare mai di rispetto a quest’arte.
Non ho molto da raccontare, di me, penso che le poesie, una volta
scritte, diventino autonome dal loro autore, per questo sono felice
di lasciarle qui, perché vadano da sole. Intanto io continuo a
vivere la mia normale vita.»
Mario Campanino
è nato a Milano nel 1967 e siè
trasferito a Napoli all’età di dodici anni, pochi mesi prima del
terribile terremoto del 1980. Musicista e musicologo, appassionato
di volo, da sempre alla ricerca della“verità in scrittura” – per
parafrasare Cézanne e Derrida – ha già pubblicato alcune raccolte
poetiche su temi diversi. La vita concentrata in 1 moglie, 2 figli,
3 tartarughe, 2 cani e 1 criceto, tutto a Santa Maria a Vico (nella
provincia di Caserta) dove vive e legge pochissimo, e oramai solo
opere di Joyce.
Luca Immordino
nasce nell'autunno del 1974 in
Italia, da madre italiana e padre italiano: primi indizi di una
coerenza che lo porterà a scrivere per poter leggere e leggere per
poter scrivere. Appassionato di musica, poesia e arteè ancora oggi
alla ricerca del vero senso dell'esistenza; sembrava averlo trovato
nella pioggia, fino al giorno in cui scoprì gli ombrelli. Le sue
poesie sono dedicate quasi esclusivamente a sconosciuti/e, per cui
sentitevi pure tirati in ballo, se vi va.
Renzo Montagnoli
29/6/2013
Giallo d’Avola
di Paolo Di Stefano
In copertina: I corvi di Vittorio
Corona, 1926 circa (particolare)
Sellerio Editore
www.sellerio.it
Narrativa romanzo
Collana La memoria
Presunzione
di colpevolezza
In tutti gli ordinamenti giuridici moderni
vale il principio della presunzione d’innocenza e quindi nel
processo penale l’onere della prova della colpevolezza dell’imputato
ricade sulla Pubblica Accusa che, sulla scorta solo di prove certe,
imposta il suo iter, la sua azione in aula. Quindi non sussiste mai
la presunzione di colpevolezza, come anche espressamente evidenziato
dal secondo comma dell’art. 27 della nostra Costituzione, che così
recita: L’imputato nonè considerato colpevole sino alla
condanna definitiva.
Stupisce quindi quanto accaduto nel
lontano 1954 a Salvatore Gallo e a suo figlio Sebastiano, imputati
di avere assassinato Paolo Gallo, rispettivamente fratello e zio, e
di averne occultato il cadavere. Vero é che era notorio un
permanente stato di litigiosità e pure vero é che spesso Paolo
veniva aggredito e malmenato da Salvatore, ma da lì a imbastire un
processo senza uno straccio di prova, sulla base solo dei precedenti
pessimi rapporti,è senz’altro azzardato, anche perché per poter
parlare di omicidio necessitava la presenza di un cadavere, che
appunto non c’era. E che l’abbaglio venisse dalla Pubblica Accusa ci
può anche stare, ma che poi si riconfermasse nel collegio giudicante
in tutti e tre i gradi processualiè veramente inconcepibile. E
tanta era la sicurezza, viziata dalla presunzione di colpevolezza,
che si arrivò addirittura ad accusare di falsa testimonianza chi
aveva visto, vivo e vegeto, il cadavere. Fu solo grazie alla tenacia
di un avvocato e di un giornalista se finalmente, anche se in
notevole riardo, fu fatta giustizia, con la liberazione dal carcere
di Ventotene, dove scontava l’ergastolo, di un Salvatore Gallo ormai
ridotto a un relitto umano. Tutto bene, quindi? No, perché lo stato
è un Moloch mostruoso e si piega di fronte all’evidenza dei fatti,
ma non si spezza e si prende la sua rivincita. Non aggiungo altro
della trama, che ripercorre puntualmente un fatto realmente accaduto
e che non solo in Italia ebbe vasta risonanza.
Il merito di Paolo Di Stefanoè stato di
riproporcelo, fedele alle carte processuali, ma anche con la
capacità di trasmettere al lettore il pathos di una vicenda che si
snoda in una Sicilia arcaica, fra povera gente, ricca solo di
miseria, e per lo più anche ignorante. Il dramma dell’individuo
ingiustamente condannato viene delineato non per sollecitare la
commozione del lettore, ma per dimostrare come i preconcetti siano
sempre frutto di una illogicità che nasconde un’altra ignoranza,
quella di chi crede di sapere perché può giudicare, un enorme potere
che in mani sbagliate sancisce, inequivocabilmente, il trionfo
dell’ingiustizia.
Giallo d’Avola
è un legal thriller per nulla simile ai tanti, per lo più di autori
americani, che ogni tanto tornano ad affollare le librerie; qui si
rievoca e si fa tornare in vita un’epoca che molti non conoscono o
hanno dimenticato, in un’Italia che allora cominciava a beneficiare
del boom economico, che tuttavia appariva così lontano dai terreni
aridi e sassosi in cui contadini analfabeti si rompevano la schiena
solo per sopravvivere, senza speranza, un mondo statico e spesso
feroce, teatro di delitti anche familiari e in cuiè potuto perfino
accadere il dramma psicologico del “morto-vivo” di Avola.
Paolo Di Stefano sa scrivere bene, sa
coinvolgere il lettore con attenta gradualità e il suo “Giallo
d’Avola”è uno di quei romanzi che non si scordano
facilmente.
Paolo Di Stefano
è nato ad Avola (Siracusa) nel 1956.è inviato del «Corriere della
Sera». Ha pubblicato inchieste e romanzi, tra cui Baci da non
ripetere (1994, Premio Comisso), Tutti contenti (2003,
Superpremio Vittorini e Flaiano), Nel cuore che ti cerca(2008,
Premio Campiello e Brancati). Con questa casa editrice La
catastròfa. Marcinelle 8agosto 1956 (2011, Premio Volponi) e
Giallo d'Avola (2013).
Renzo Montagnoli
26/6/2013
99%
Per uscire dalle crisi generate dal sistema
neoliberista riprendiamoci il futuro partendo dal basso
di
Gianluca Ferrara
Introduzione di
Vandana Shiva
Dissensi Edizioni
www.dissensi.it
Riprendiamoci il nostro futuro
Dissensi nonè una grande casa editrice,
ma solo come dimensione, perché, per la peculiarità di andare
controcorrente, di avvisare sui pericoli che si corrono
quotidianamente per una struttura mondiale basata sull’iniquità e
l’asservimento,è invece di livello assai elevato, non solo per i
messaggi che propone, ma anche per il contenuto dei libri che
pubblica.è questo il caso di 99%, di Gianluca Ferrara, un
saggio analitico, ma anche propositivo, sulla sperequazione
esistente in tema di ricchezza, in cui meno del 2%è destinato
all’economia reale e più del 98% alla pura speculazione. Noi che
crediamo che il mondo sia mosso dalle leggi naturali del mercato
dobbiamo essere consapevoli che invece esiste una lobby di un numero
modesto di persone che lo regola per i suoi fini, che fa cadere e
condiziona i governi o addirittura scatena guerre. Si tratta di
quelli che vengono genericamente chiamati poteri occulti, una forza
spaventosa non votata al bene, ma al male. Il neoliberismo non ha
nulla di libertario, anzi tende a ingessare le vite secondo i voleri
dei suoi propugnatori e ricordiamo la colossale menzogna che vanno
sempre ripetendo: con noi si crea ricchezza. Ma questa non si
crea, si sposta dalla libera disponibilità, per legge naturale, di
tutta l’umanità alle mani avide di individui senza scrupoli, gretti
e anche feroci. Quindiè più che mai indispensabile cambiare, perché
è possibile, purché lo vogliamo. E questo libro scuote le coscienze,
porta dati certi e anche soluzioni, che non devono essere
considerate utopie, ma concretamente realizzabili; si deve
capovolgere il centro decisionale, che deve ritornare a essere in
basso, secondo un’autentica democrazia e non ciò che oggi viene
spacciata per tale e cheè invece solo un paravento di apparenze.
La terra, questo vecchio pianeta,è di tutti e quindi dobbiamo
riprenderlo a chi ce lo ha rubato e così anche le nostre vite,
cadenzate dai ritmi illogici dell’industrialismo e del consumismo,
devono essere liberate. E’ forse utopia questa?è forse
irrealizzabile ciò che alla logica sembra proprio di ogni essere
umano? No, non sarà certo facile, maè possibile.
Da leggere, non ve ne pentirete.
Gianluca Ferrara, laureato in Scienze Politiche a
pieni voti presso l'università Federico II di Napoli, ha collaborato
su Internet a riviste letterarie e culturali su argomenti
d'attualità e saggi a sfondo sociale.
Nel 2000 ha pubblicato “Viaggio nella droga proibita”
, presentato al Salone del Libro di Torino, e vincitore
del premio letterario internazionale “Mondolibro”,
è stato inserito in prestigiose antologie letterarie. Un saggio
sulla droga, la cui introduzioneè stata effettuata dall'onorevole
Ernesto Caccavale, che ha riscosso
notevole interesse tra gli addetti ai lavori. Ad esso hanno
partecipato attraverso interviste e testimonianze
l'ex commissaria europea Emma Bonino, il
ministro Maurizio Gasparri, il direttore del giornale di San
Patrignano Forquet.
Nel 2005 gliè stato conferito il diploma speciale dalla giuria del
Gran Premio Letterario Europeo Penna d'Autore.
Nel 2004 ha pubblicato il romanzo “Più forte del destino”
di cui si sono occupato diversi giornali e riviste tra cui:
Famiglia Cristiana, Il Mattino, La Nazione
, Il Convivio Il Manifesto . Di recente gliè
stato conferito un riconoscimento speciale della giuria del concorso
“Per non dimenticare” organizzato dalla Tavolozza edè risultato il
più votato da una giuria di studenti di venti scuole aderenti al
premio letterario “Per non dimenticare”.
Nel 2006 ha pubblicato due racconti esilaranti
“Racconti transgenici” che hanno riscosso un buon
riconoscimento di vendite e di critica. Nel 2006 ha pubblicato il
saggio “Dio non ha la barba” la cui introduzioneè stata curata da
padre Alex Zanotelli. Del testo ne hanno parlato radio, quotidiani e
TV nazionali. Ha ricevuto ottime recensioni edè stato presentato in
diversi luoghi anche in occasioni di manifestazioni culturali e a
sfondo sociale. Del 2010è il suo “Nonostante il Vaticano”
Renzo Montagnoli
Francis Scott
Fitzgerald
Il
Grande Gatsby
The Great Gatsby
Traduzione di Fernanda Pivano
Ed.
Oscar Mondadori
Grande nella vita che conduceva
grande nei sogni
che accarezzava
non
meno grande nella morte
tragica ed assurda.
Una storia dolce-amara di un eroe “Romantico” nell’America dei
ruggenti anni ‘20
T.
E. Eliot accolse Il grande
Gatsby come
Il primo passo fatto dalla narrativa americana dopo
Henry
James
Di questo romanzo
Il grande
Gatsby, pubblicato nel 1925,
è stato tratto un film di grande successo
con Robert Redford
e un altro appena uscito nelle sale cinematografiche con Leonardo Di
Caprio.
Nell’immaginario collettivo per quelli
che hanno una certa età
Gatsbyè identificato con il grande
attore Redford e nelle fattezze fisiche
e nel comportamento esteriore.
Il libro nelle prime 80 pagine
accenna a Gatsby come ad un personaggio
quasi fantomatico, ammantato di un passato leggendario e misterioso
che al pari di un anfitrione megalomane dà sfarzose feste nella sua
villa di Long Island.
L’io narrante è
il giovane Nick
Carraway che dal Middle West si trasferisce ad est di New
York per lavorare in banca come agente di borsa. Siamo negli Stati
Uniti dei ruggenti anni ‘20, quando uscito dalla
Grande guerra il paese vive tra il proibizionismo, i
fermenti paritari del suffragio femminile, il boom capitalistico, la
grande paura del bolscevismo, il gangsterismo: tratti contraddittori
di una società in grande trasformazione, dal sogno americano
all’ottimismo travolgente che poi alla fine del decennio porterà
drammaticamente al tracollo economico tutti. In questo
contesto sociale
Nick va ad abitare proprio vicino, alla destra della sua
villa, al colossale palazzo di Gatsby,
una copia accurata di qualche
Hótel
de Ville della
Normandia, con una torre da una parte, una piscina di marmo e più di
venti ettari di terreno. Di là la baia della mondanissima
East Egg
dove abita la cugina Daisy, fanciulla
viziata e superficiale e suo marito Tom,
fedifrago impenitente, e dove Nick
conosce la signorina Baker, giocatrice
di golf, con la quale avrà una breve e tiepida relazione amorosa.
Jay Gatsby
è un giovane elegante che
aveva superato da poco la trentina
di cui non si conosce chiaramente l’origine della sua fortuna
economica, ma di cui si vociferano loschi traffici ed illecite
relazioni. La ricercatezza nel
parlare rasentava l’assurdo, la pelle abbronzata del viso era liscia
e attraente, e i capelli corti avevano l’aria di essere aggiustati
ogni giorno. Questo giovane fascinoso ed in fondo
solitario pur essendo circondato da molteplici persone che affollano
la sua villa in un continuo andirivieni e si consumano serate
mondane e scintillanti nutre in cuore un amore giovanile per Daisy,
conosciuta tempo addietro e dalla quale ne
era innamorato.
I giovani amanti incuranti del
marito di lei si lasciano trascinare da
quello cheè un sogno d’amore non destinato a durare, un’euforia
adolescenziale li porta di nuovo uno nelle braccia dell’altra fino a
quando un tragico epilogo porrà fine a tutto ciò ( il destino
beffardo farà convergere parallelismi in apparenza divergenti). Il
giovane Creso bello come un dio a cui sembra il futuro irridere,
nasconde nel cinismo e nell’indifferenza apparenti una sorta di
malinconia che fa da sottofondo al suo esistere.
Gatsbyè l’archetipo del bello e dannato
che cova dentro spavalderia mista ad insicurezze e nel suo stesso
gioco mondano e disinvolto verrà
stritolato dagli ingranaggi di una società privilegiata che mal
tollera gli “altri”.
Quello del grande
Gatsbyè una rilettura tragica, il personaggio assume quasi i
connotati del tempo che vive in cui si aspira all’ascesa sociale, a
far soldi scegliendo la strade più facili,
ma non per questo più semplici, in cui il rischio e il pericolo
mordono in continuazione e l’adrenalina iniziale si trasforma in
sorta di sfinimento che logora e fagocita le forze. In questo senso
la figura di Gatsby, tratteggiata con un
particolare scavo psicologico, assurge ad eroe romantico prima
insegue con pervicacia programmatica la scalata sociale, poi
insegue un sogno d’amore mai sopito e poi infine la vita che
prematuramente e senza una ragione apparente finisce: un colosso
d’argilla che frana e crepa nelle sue stesse vulnerabilità.
Fitzgerald forse senza esserne del tutto
consapevole, anche se poi visse vicende familiari travagliate ( la
moglie Zelda…la malattia psichica, la
sua morte accidentale…), ha costruito un carattere umano in cui si
fonde l’assurdo con il tragico, crea
un vulnus sociale cheè
anche intimo, dopo l’ubriacatura ottimistica e il parossismo
farneticante c’è l’abisso che tutto inghiotte e annulla. La
conclusione del romanzoè amara, ma aperta alla speranza da parte
di Nick che pur nella consapevolezza
della caducità delle cose e della fatalità del vivere, il domani
sarà foriero di piacevoli aspettative.
E
mentre meditavo sull’antico mondo sconosciuto, pensai allo stupore
di Gatsby la prima volta che individuò
la luce verde all’estremità del molo di Daisy. Aveva fatto molta
strada per giungere a questo prato azzurro e il suo sogno doveva
essergli sembrato così vicino da non poter sfuggire più. Non sapeva
che il sogno era già alle sue spalle, in questa vasta oscurità
dietro la città…Gatsby credeva nella
luce verde, il futuro orgiastico che anno per anno indietreggia
davanti a noi. C’è sfuggito allora, ma non importa: domani andremo
più in fretta, allungheremo di più le braccia…e una bella
mattina…Così continuiamo a remare, barche contro
corrente, risospinti senza posa
nel passato.
In tutto il romanzo si respira
l’atmosfera ambigua del tempo, quel fervore progressista e
rivoluzionario, quel tendersi avanti sempre proiettati nel futuro.
Un’America, quella di quegli anni folli con l’americanismo ad
oltranza, il successo economico, l’isterismo del guadagno a
tutti i costi, la ricchezza come metro di giudizio dove non c’era
posto per i poveri, per i falliti, l’illusione che i mezzi di
prosperità fossero alla portata di tutti. Ma
la crisi era dietro l’angolo… Fitzgerald
mette in contrapposizione lo stile libero e raffinato di vita dei
ricchi e il loro cinismo brutale (vedi Daisy), la loro volgare ed
ottusa moralità. Lo scrittore riesce a dare vita con stile
suggestivo a questa galleria di figure
letterarie, modulando la scrittura con grande metodo, infatti la
tecnica narrativa di usare un narratore esterno mette il
lettore-spettatore a un livello di osservazione più alto di quello
sul quale stanno i personaggi e quindi da una distanza prospettica
ideale.
Forse il tempo ha appannato, ma solo con una leggera patina di
polvere questo tipo di romanzi, ma certamente
Fitzgerald si eleva un po’ al di sopra di
tanti altri scrittori statunitensi più o meno contemporanei.
Francis
Scott Fitzgerald,
romanziere
statunitense (Saint-Paul, Minnesota, 1896- Hollywood, 1940).
I romanzi e le raccolte di novelle:
Al di
qua del
Paradiso 1920,
Maschiette e filosofi 1920,
Belli e dannati 1922,
Racconti dell’età del jazz
1922, Il grande
Gatsby 1925,
Teneraè la notte 1926,
Tutti i giovani tristi
1926, Gli ultimi fuochi
rimasto incompiuto e pubblicato postumo nel 1941 dal critico e amico
Edmund Wilson con le indicazioni
predisposte dall’autore per il suo compimento.
Arcangela Cammalleri
8/6/2013
La primavera del lupo
di Andrea
Molesini
In copertina: Olio
su tela di Edvard Munch, 1903 (particolare).
Art and
Cultural History Museum, Lubecca
Sellerio
Editore
www.sellerio.it
Narrativa romanzo
Collana La memoria
Dagli occhi di un bambino
“E adesso sono triste anche se la mia
zuppa non scotta più e me la mangio con questo pane buono. Perché
delle volte la tristezza viene che non te l’aspetti, e così penso a
Mauriziada, penso a Lirlandese, penso a frate Ernesto. Loro sono là
fuori che camminano nel bosco sotto la pioggia, forse parlano con i
lupi, forse parlano con le faine, dormono nella tana delle volpi e
sono contenti che io e Dario stiamo al caldo di un fuoco, nella
baita, con la zuppa. Sono fatti di gocce, i morti, e si vestono con
gli aghi di pino, borbottano con le civette, entrano nei sogni per
ridere e piangere con noi, di noi, dell’aria, dei gufi, delle cose
che brillano come le pietre preziose, le stelle e tutto l’oro della
luna. Siete voi, Mauriziada frate Ernesto Lirlandese, quelli che mi
fido per davvero. Voi che non sento più le vostre voci quando c’è la
paura e c’è che si scappa. Voi che di notte siete la pioggia che
cade, le stelle che se allungo la mano vanno più in là, voi che di
notte siete il mio lupo e una musica che si allontana.”
Ho scoperto Andrea Molesini quasi per caso,
anche se lui in campo letterario non era di certo uno sconosciuto,
in quanto autore di libri di poesia, di saggistica, e traduttore
dall’inglese di opere soprattutto di Derek Walcott. Ricordo che era
l’anno 2010 e avevo letto una recensione di Ferdinando Camon al suo
primo romanzo (Non tutti i bastardi sono di Vienna),
recensione che mi aveva non poco incuriosito per le caratteristiche
del libro, ambientato nel corso della prima guerra mondiale al di là
del Piave dopo la tragica ritirata di Caporetto.
In quella occasione ho apprezzato la struttura, la narrazione
fluida, scorrevole, in un italiano impeccabile, e in generale
un’impostazione che, per quanto classica,è riuscita ad avvincermi
dall’inizio alla fine, una sorta di lungo adagio che, ogni tanto, si
impenna, ma senza mai arrivare a eccessi, insomma quello che si può
definire un libro scritto bene e senz’altro molto bello. E infatti
ha incontrato un notevole successo di pubblico e anche di critica,
ottenendo perfino premi prestigiosi, fra i quali il Comisso e il
Campiello.
Del tutto naturaleè stata quindi l’attesa per il suo secondo
romanzo, La primavera del lupo, uscito sempre per i tipi
della Sellerio nella prima metà dello scorso mese di maggio.
Infatti mi chiedevo se questa nuova opera avrebbe potuto
riconfermare le eccellenti qualità della prima, oppure se, come
abbastanza di frequente capita, il nuovo lavoro, magari pur
gradevole, sarebbe risultato inferiore al precedente.
L’ho letto, con immenso piacere, e mi sento tranquillamene di
affermare che Molesini ha confermato il suo talento.
La primavera del lupo presenta alcune analogie con il
precedente Non tutti i bastardi sono di Vienna (si svolge
durante una guerra, non la prima guerra mondiale, bensì la seconda,
e anche qui c’è un’occupazione, non quella dell’impero austriaco, ma
quella senz’altro più dura e crudele del terzo Reich). Queste le
analogie, poi, per il resto,è completamente diverso perfino come
impostazione e struttura.
La vicenda di un piccolo gruppo in fuga dai nazisti (si tratta di
due bimbi, di cui uno ebreo, di due anziane sorelle, pure esse
ebree, di una finta suora, a cui poi si aggregherà in circostanze
drammatiche un enigmatico disertore tedesco) potrebbe fare pensare
al classico romanzo d’azione, ma nonè così.
Infatti l’io narrante, di volta in volta,è Pietro, un bambino di
dieci anni, ed Elvira, la finta suora, un’alternanza che, oltre a
non stancare, dato l’inevitabile diverso modo di esprimersi,
presenta i punti vista dell’infante e dell’adulto che non sono mai
coincidenti.
Il primo riesce istintivamente a vedere ciò che più si avvicina
alla realtà, il secondo, ormai prigioniero della sua stessa logica,
ha un approccio ben diverso, frutto di più di un ragionamento che lo
porta ad avere una visione personale.
Ma la forza straordinaria di questo romanzo sta nel linguaggio del
bambino, nelle sue osservazioni che, ad differenza dell’adulto, non
sono frutto di laboriose riflessioni, ma che risultano istintive,
perfino nei suoi giudizi dei grandi. E’ ammirevole e anche
stupefacente la capacità di Molesini di esprimersi come se avesse
una decina d’anni, nel coniare frasi sgrammaticate, ma di grande
valore, un po’, insomma, come se fosse riuscito a retrocedere nel
tempo, alla ormai non più vicina infanzia.
E’ del tutto naturale, quindi, che Pietro desti una grande simpatia,
superiore a quella degli altri suoi compagni di fuga, ma il gruppo
va assottigliandosi nel lungo itinerario che li porta da Venezia a
risalire la valle dell’Adige per rifugiarsi in una laterale della
Val di Sole, un luogo adatto a ospitare dei fuggiaschi e dei
disertori e in cui c’è una baita di proprietà di Elvira. Sempre
sotto l’oscura presenza di una lussuosa Mercedes che li segue e su
cui si nota la presenza di un misterioso albino, un’ombra malefica
che aggiunge terrore alla paura, giungeranno poi alla meta, e mi
fermo qui, per non svelare il bellissimo finale che impreziosisce
ancora di più un romanzo veramente bello e più che mai avvincente.
Scoppiettante, con frequenti colpi di scena, con un ritmo sostenuto
e diverso a seconda dell’io narrante, per dirla con l’autore se
Non tutti i bastardi sono di Viennaè paragonabile a un’opera di
musica classica, La primavera del lupoè invece vero e
proprio jazz, ma mai stridente e perfettamente raccordato in un
equilibrio armonico di rara efficacia.
Credo che non sia necessario aggiungere altro, perché quando
un’opera parla da sé, con le sue qualità, con il suo linguaggio
semplice, ma non elementare,è solo opportuno evidenziare, non
occorrono spiegazioni, perché queste avvengono spontaneamente in chi
legge, tanto che scoprire pagina dopo pagina quanto sia avvincente e
appagante finisce con il diventare l’elemento determinante. E solo
alla fine resta il tempo per pensare e riflettere, e vi assicuro che
di occasioni, passi, frasi al riguardo ce ne sono certamente non
poche.
Buona lettura, quindi.
Andrea Molesiniè
l’autore di
Non tutti i bastardi
sono di Vienna,
pubblicato da questa casa editrice, che nel 2011 ha vinto, tra gli
altri, il Premio Campiello e il Premio
Comisso,
in corso di traduzione in inglese, francese, tedesco, spagnolo e
molte altre lingue. Nel 2013 Sellerio ha pubblicato anche
La primavera del
lupo.
Renzo Montagnoli
5/6/2013
La chiave a stella
di
Primo Levi
In copertina: Oskar
Nerlinger, Il treno del mattino, 1928, particolare. Berlino, Museum
fur Deutsche Geschrichte
Edizioni Einaudi
Narrativa romanzo
Collana ET Scrittori
Il lavoro come valore
È ben strana la vita: benché le eccelse
qualità di Primo Levi come scrittore fossero chiare, l’autore
torinese, per sua natura schivo e in quanto tale alieno
dall’allacciare rapporti stretti con gli intellettuali della sua
epoca e comunque dal mettersi in mostra, fu considerato un grande
della letteratura con un notevole ritardo, e nonostante fossero già
ben conosciute le sue opere migliori, frutto dell’esperienza
concentrazionaria (Se questoè un uomo e La tregua).
Al riguardo basti considerare che, nel corso di una interessante
conversazione con Ferdinando Camon,è emerso che ci volle un suo
articolo sul supplemento letterario del quotidiano “La stampa”
affinché il grande storico della letteratura Natalino Sapegno si
ricordasse di inserire il suo nome nella 44esima edizione del suo
manuale di storia letteraria, all’epoca il più conosciuto e studiato
sia ai licei che nelle università. Così anche Primo Levi ebbe il suo
nome su questo testo, ma con una dizione che riparava al precedente
errore : “E’ forse il più grande scrittore italiano del secolo.”.
è quindi con un certo stupore che ho notato che il primo libro di
esclusiva inventiva di Levi, cioè La chiave a stella, ha
ottenuto il riconoscimento di quello cheè forse il più importante
premio italiano, cioè Lo Strega. Premetto, a scanso di equivoci, che
questo romanzo, insolitamente ottimista, nonè cosa da poco, anziè
di eccellente livello, ma senz’altro inferiore a Se questoè un
uomo e a La tregua. Perché questi non siano stati
premiati rimane per me un mistero, lo stesso per il quale può
accadere che un grande scrittore venga ignorato da critica e
pubblico.
Penso, però, che dopo questo lungo preambolo, che ritengo doveroso,
sia giusto passare a parlare di questo inusuale romanzo.
In questi tempi di crisi economica, con un livello di disoccupazione
crescente e drammatico, La chiave a stellaè più che mai di
attualità. Il testo propone infatti l’alto valore del lavoro perché,
per dirla con l’autore, “Se si escludono
istanti prodigiosi e singoli che il destino ci può donare, l'amare
il proprio lavoro (che purtroppoè privilegio di pochi) costituisce
la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra: ma
questaè una verità che non molti conoscono.”; quindi non solo il
lavoro consente all’uomo di trarre i proventi necessari per il suo
sostentamento e di quello della sua famiglia, ma dona piacere a chi
lo esegue, un piacere in verità privilegio di pochi, come anche
evidenziato.
Qui si coglie in modo esemplare la figura dell’homo faber, di
colui cheè artefice del proprio lavoro e non a caso il protagonista
Libertino Faussone, detto Tino,è un operaio montatore in proprio,
che gira per il mondo, conoscendo altri paesi, altre abitudini, e
anche correndo dei pericoli. In uno di questi viaggi incontra in
albergo Primo Levi e trovando nello scrittore torinese un
ascoltatore attento narra diversi episodi della sua vita, sempre
legati all’attività svolta. Il linguaggio dei dueè assai diverso:
semplice, rozzo, elementare quello di Faussone, colto e raffinato
quello di Levi, ma entrambi si capiscono a meraviglia, perché amano
il loro lavoro e sono convinti che non ci sia nulla di meglio al
mondo per vivere in pace con se stessi.
Sono pagine molto piacevoli da leggere, sovente venate da ironia, e
poi questo Faussone riesce naturalmente simpatico, con quel suo
linguaggio ben poco colto, ma efficace, con una schietta sincerità,
propria di chi sa di non dover dimostrare nulla, perché lui, nel suo
campo,è uno dei migliori, capace non solo di usare le mani, ma
anche la testa, sovente coordinando il lavoro di molti altri operai,
insommaè quel che può dirsi un uomo realizzato e soddisfatto.
Il messaggio di Leviè chiaro: il lavoro in generaleè importante e
quello manuale, ben svolto, loè ancor di più, e questo non solo in
un ottica della produzione, ma in una visione più globale di una
umanità che alacremente travaglia per un proprio accrescimento
interiore, una realizzazione di se stessi, qualunque sia il livello
di responsabilità.
E’ un’idea forse un po’ utopistica, può anche richiamare certe
tendenze in auge nell’Unione Sovietica ai tempi di Stalin, ma quel
cheè certoè che il lavoro, utile a una collettività, loè in
quanto di utilità per ogni singolo componente, soddisfatto per
averlo ben eseguito.
Personalmente, pur concordando in buona parte con il pensiero di
Levi, ritengo che il lavoro possa rivestire quella componente
fondante della vita degli uomini solo se cambia il modello di
società, cioè se si perviene a un concetto di comunità più ampio ed
evoluto, non tanto rispondente alle teorie marxiste, bensì come
realizzazione del pensiero sociale cristiano
La chiave a stella
è un romanzo di sicuro interesse e che, senza per questo
considerarlo un capolavoro, risulta di eccellente qualità, tanto che
la letturaè senz’altro raccomandabile.
Primo Levi
(Torino 1919-1987) ha pubblicato presso Einaudi Se questoè un
uomo; La tregua; Storie naturali; Vizio di
forma; Il sistema periodico; La chiave a stella;
La ricerca delle radici. Antologia personale; Lilìt e altri
racconti; Se non ora, quando?; L'altrui mestiere;
I sommersi e i salvati. Sempre da Einaudi sono usciti postumi
i due volumi delle Opere; Conversazioni e interviste
(1963-1987);L'ultimo Natale di guerra; L'asimmetria
e la vita. Articoli e saggi 1955-1987;Tutti i racconti,
sempre a cura di Marco Belpoliti.
Renzo Montagnoli
25/5/2013
Il seminarista
di
Luisito
Bianchi
Sironi Editore
www.sironieditore.it
Narrativa
romanzo
Collana Indicativo presente
La vocazione
e la Resistenza
“ La sofferenza
del mondo stava identificandosi con la sua sottana e la sua sottana
con Dio e Dio con la sofferenza del mondo. Il cerchio si chiudeva,
senza possibilità di scappatoie. Lui non sapeva chi era Dio ma non
c’erano dubbi che Dio lo poteva trovare solo nella sofferenza del
mondo. Lui non sapeva che significasse farsi prete, ma era
altrettanto certo che, senza la sofferenza del mondo, non c’era
nessuna ragione per farsi prete.”
Scritto nella
prima metà degli anni ’70, come testimoniano le agende che riportano
la prima stesura, e fino a poco tempo fa inedito, Il seminarista
è pubblicato, in accordo con il “Fondo Luisito Bianchi” della
Fondazione Dominato Leonense, dall’editore Sironi, senza che siano
state apportate modifiche, così com’è nell’ultima versione
dattiloscritta e letta da Luisito Bianchi, purtroppo scomparso agli
inizi dello scorso anno.
Dall’autore di quel capolavoro cheè La messa dell’uomo disarmato
non mi sarei aspettato un’opera di così elevato valore, proprio
perché i capolavori, in quanto tali, sono quasi sempre unici nella
produzione letteraria di un autore.
Pertanto, dubitare, prima di aprire il libro, della sua elevata
valenza mi era apparso quasi logico, addirittura scontato, perché
mai e poi mai avrei pensato che un romanzo antecedente a quello
stupendo sulla Resistenza potesse essere così bello, travalicando le
normali attese per un testo che, dal titolo, avrebbe potuto solo far
pensare alla descrizione della vita in un seminario.
Invece, per quanto l’ambientazione sia proprio in una scuola per
preti, si va ben oltre il significato di una semplice vocazione, si
corre incontro al dilemma che sorge nel protagonista dopo l’8
settembre del 1943 fra la fedeltà a una chiamata spirituale e
l’impellente necessità di essere partecipi dell’evento storico e
unico della Resistenza dalla parte di coloro che lottano per alti
ideali di giustizia.
Nel personaggio principale si colgono i riflessi dell’autore,
dell’esperienza maturata nel periodo, ma il romanzo non può essere
considerato autobiografico (il protagonistaè di fantasia, il paese
natale e di residenza nonè Vescovato, la vicenda stessa e la sua
conclusione sono frutto di creatività), bensì il risultato di una
scelta travagliata che in coerenza a essa segnerà il percorso
terreno di Don Luisito Bianchi fino alla morte.
Vi può essere una giustizia divina, nel “dopo”, senza che esista
anche una giustizia terrena? Un sacerdote può conciliare la
dedizione spirituale, astraendosi dal mondo, come un pastore che non
corre a difendere il suo gregge quando questo viene assalito dal
lupo?
E così un ingresso in seminario di un ragazzino, avvenuto senza
ponderazione, quasi per gioco,è l’occasione per la ricerca di
un’autentica vocazione costellata da dubbi, da ripensamenti, e
questo in uno dei periodi più tragici della nostra storia, quello
che va dalla vigilia della seconda guerra mondiale fino alla
Liberazione.
La descrizione della vita in seminarioè quella di una scuola
militare, dove la forma prevale sulla sostanza, ma l’ironia
dell’autore tende a smussare gli spigoli, a non rendere
monotematica e arida la narrazione, con una levità encomiabile. E ai
tempi bui, quali quelli della guerra, prima incombente e che poi
esplode in tutta la sua drammaticità, l’autore contrappone
splendide descrizioni della natura, con pagine di autentica elevata
prosa poetica. Non c’è un personaggio fuori posto e per tutti,
nessuno escluso, si respira una vena di commossa simpatia.
Non mancano i turbamenti dell’età adolescenziale, che appaiono del
tutto naturali come sono l’attrazione per il bianco collo delle
ragazze, per i capelli, per il loro modo di parlare, non molti
accenni, ma tali da non passare inosservati, pur se trattati in
punta di penna.
Così, pagina dopo pagina, assistiamo alla maturazione del
protagonista, al suo atroce travaglio interiore fra dedicarsi solo a
Dio o imbracciare un’arma andando fra i partigiani, e come in una
sinfonia, il crescendo, soprattutto finale, rende in modo splendido
la tensione che corre sotto quella veste nera, fino a quando, più
per reazione istintiva a un atto di violenza gratuita che per
completa convinzione, prenderà la decisione, e qui la narrazioneè
così intensa e sublime che ho ultimato la lettura con le lacrime
agli occhi.
Non aggiungo altro, perché cosa si può dire ancora di un’opera
d’arte che parla di per se stessa, che scende poco a poco nell’animo
e si trova un angolino, piccolo, ma strategico, accanto al cuore?
Ci mancherà Luisito Bianchi, e a me mancherà moltissimo, ma resta il
ricordo e, soprattutto, oltre a un esempio di vita basata sulla
gratuità, rimarranno le pagine dei suoi libri, di cui questoè
l’ultimo, ma solo in ordine di tempo, perché quanto a qualità, a
contenuti e a piacevolezza nonè certo inferiore a La messa
dell’uomo disarmato, e per chi ha apprezzato questo capolavoro
dico solo che queste due opere sono fra le poche, in ambito
letterario, capaci di scuotere le coscienze infondendo tuttavia un
senso di profonda serenità.
Luisito
Bianchi
è nato a Vescovato
(Cremona) nel 1927,è stato ordinato sacerdote nel 1950 edè morto
nel 2012. Con Sironi ha pubblicato il capolavoro
La messa dell’uomo disarmato
(2002),
Come un atomo sulla bilancia
(2005),
I miei amici. Diari
(2008),
Le quattro stagioni di un vecchio
lunario (2010).
Renzo Montagnoli
16/5/2013
La mia vita davanti
di Silvia Verdoliva
Introduzione di Vincenzo Aiello
In copertina: Lo spartito, Marco
Verdoliva ©
Edizioni Creativa
www.edizionicreativa.it
Poesia
Collana Versi Creativi
Il punto della situazione
Si arriva sempre a una certa età della
vita in cui si rende necessario fare il punto della situazione,
volgersi all’indietro cercando ciò che di positivo e di negativo c’è
stato, insomma un bilancio della vita che serve poi per poter
guardare in avanti, cercando magari di dare una svolta alla propria
esistenza. Normalmente ciò accade quando siè un po’ avanti negli
anni, quando siè nell’autunno della propria vita; più raroè che
capiti prima, nel corso di quella primavera cheè la gioventù e che
ci illudiamo possa essere eterna. E’ questo il caso di Silvia
Verdoliva che con La mia vita davanti ripercorre il
suo cammino nell’arco dei primi trent’anni, un periodo certamente
non lungo, ma a ben guardare denso di avvenimenti e su cui tornare
poeticamente ha il significato di ravvivare un passato per dare
slancio al futuro.
E cosìè un fluire di sensazioni, di
osservazioni che inconsapevolmente, in quanto esperienza, hanno
condotto Silvia Verdoliva, attraverso un mare a volte tempestoso,
altre più calmo e amico, all’attuale approdo, ma non punto d’arrivo,
bensì di partenza per una nuova navigazione su altre basi e verso
mete nuove.
E’ una poesia intimistica, non di rado
metaforica, ma non per questo poco comprensibile,è una voce che
s’alza lieve e che a lungo, con la sua eco, resta, avvolge, chiede
solo d’essere ascoltata.
Edè la memoria una sorta di rimpianto per
un mondo perduto e che mai ritornerà, e allora il ricordo si colora,
si anima, a rincuorare, a svelenire la malinconia, come in Voglio
tornare a casa, dedicata alla nonna (Voglio tornare a casa, /
Lì dove il giocoè pulito di fango / ed il riso / sa ancora di
terra. / Voglio tornare a casa. / L’ la strada ha il sapore del pane
/ e l’acqua… vien giù sì, ma sa ancora di mare. /…), una felice
scelta creativa che offre efficacemente l’immagine di quello che era
un rifugio sicuro. Ci sono poi le stagioni, mitizzate, come un
periodo in cui queste erano vissute come sogno, oppureè oggi che
sono ricordate come in sogno (Da L’estate altrove - …/ Pur
a volte / Mi pare / Di capire / Che presto tornerà, / Con suoi
fuochi e paglie / Col mio mare assente / Di barche / E di presagi.
/….).
E così, fra le difficoltà di una vita, la
perdita di un amore che si credeva eterno, Silvia ripercorre il
passato, esamina, scruta, ma soprattutto si rende conto di come il
suo futuro non possa che essere basato sull’Amore, l’unico autentico
sentimento che consente di vivere.
Questa silloge, scritta in versi liberi,è
nel complesso ben strutturata, frutto anche di un’analisi attenta
dello stile di poeti affermati, e porta alla luce una voce nuova, il
cui talentoè suscettibile di futuri sviluppi, che mi portano a dire
che sentiremo ancora parlare di Silvia Verdoliva, il cui esordio
sulla carta stampataè senz’altro positivo e confortante.
Silvia
Verdoliva
Nel 2010 la poesia “Poeta in piena”è
stata inserita nell’Antologia “Il Federiciano” edita da Aletti
Editore. Da allora, la poesia ha investito appieno la sua vita ed
oggi neè parte indissolubile.
Negli ultimi due anni diverse sono state le partecipazioni a
concorsi e le inserzioni in antologie. Nel 2011è inserita sempre
nell’Antologia “Il Federiciano” la poesia “Lo Spartito”, inno alla
vita nuova attraverso la poetica della caduta. Nel 2012 in “Dedicato
a… poesie per ricordare vol. 10” di Aletti Editore viene pubblicata
l’opera nostalgica “A voi”, mentre l’originale “Neve… di nuovo”
riceve la segnalazione al Premio Letterario “Il Sentiero
dell’anima”.
Al Concorso “Il Club dei Poeti 2012” l’opera “Voglio tornare a
casa”, tra le più belle sino ad ora scritte e per il pubblico e per
la critica, si classifica al nono posto e nel contempoè pubblicata
in “Pagine da Cefalù- V Premio letterario Domenico Portera”.
Alla sua prima silloge dal titolo “Sdrucciolevoli pensier”- che
raccoglie i primi tredici componimenti scritti- la Giuria del
“Premio Internazionale Castrovillari - Pollino 2012” assegna il
terzo posto.
Tutte le poesie, dal 2007 al 2012, sono racchiuse oggi nella
raccolta “La mia vita davanti” edita da Edizioni Creativa.
Renzo Montagnoli
12/5/2013
Julie
Otsuka
Venivamo
tutte per mare
2012
Titolo originale
The Buddha
in the Attic
Ed. Bollati
Boringhieri
Romanzo
Di loro
alcuni lasciarono
un nome,
che
ancora
è ricordato con lode.
Di
altri non sussiste
memoria;
svanirono come se non fossero esistiti;
furono come se
non fossero mai stati,
loro e i loro
figli dopo di essi.
Siracide 44, 8-
Il tetto siè bruciato
ora
posso vedere la
luna.
Mizuta
Masahide
Venivamo
tutte per mare
di Julie
Otsuka
narra
la
prima immigrazione
giapponese negli Stati
Uniti,è un libro toccante
intessuto da una
scrittura mirabile:
lieve,
armonica,
musicale ed emozionante.
Come ebbe
a scrivere un criticoè
come un sussurro che
accarezza
ed ipnotizza e come
dichiara
la stessa
autriceè una
storia corale
di migliaia
di giovani donne giapponesi
- le cosiddette “ spose in fotografia”-che
andarono
in America
agli inizi del
Novecento.
Giovani sacrificate
e dalle famiglie
originarie per togliersi
il fardello della
dote per sposarle e per
avere una
bocca in meno da
sfamare
e dai futuri mariti
che le sfruttarono
senza
alcun cedimento emozionale.
Come tante emigrazioni
dolorose ma nello stesso
tempo piene di
aspettative, il racconto
inizia dal
viaggio per mare
di queste fanciulle
sprovvedute ed ingenue, tra
le mani hanno
la foto dei futuri mariti,
istantanee
di giovani che poi in realtà
erano o vecchi o laidi
ed insensibili e d’aspetto
tutt’altro
che gradevole. L’approdo
e l’adattamento
in terra straniera
tra le grinfie di uno
sconosciuto sarà spesso devastante:
una schiavitù
fisica e morale
dura da
sopportare se non con
estrema rassegnazione
e profonda sofferenza.
Senza
retorica o
spinte sentimentali
come l’occasione
imporrebbe, l’autrice ci
accosta
ad un mondo femminile,
quello orientale,(ma
l’animo femminile ha
connotazioni etniche?)
così dedito
alla
abnegazione
di se stesse e dei propri desideri più intimi da
colpire
al cuore il lettore, in
uno stile delicato e
scevro da sovrabbondanti
aggettivazioni.
Si dipanano
storie collettive, narrate
in prima persona
plurale, dolenti, non
prive,
a volte, di piccole e
brevi speranze,
intessute di sentimenti e stati
d’animo: paura,
incertezza, dolore,
sofferenza, nostalgia…
Acuta la
delusione per essere state
ingannate,
ogni promessa della
terra promessa
si rivela infondata
e l’amore sognato
infranto da
una realtà
miserevole e squallida.
La fatica
fisica fino
all’estremo, la
sottomissione
all’uomo fino
all’annullamento
di sé fanno di queste giovani
vittime sacrificali,
immolate in nome di una
più prospera e migliore
condizione di vita.
Se
i mariti
avessero detto la
verità nelle loro lettere - non erano
mercanti di seta,
ma raccoglitori
di frutta, non vivevano
in grandi case
con molte stanze, ma
sotto una tenda
o dentro un granaio
o
all’aperto,
nei campi, sotto il sole
e le stelle - non sarebbero
mai venute in America
a fare
i lavori che nessun
americano
rispettabile voleva
fare. Avevano
la schiena
forte e le mani
agili, resistenti e
disciplinati e dal carattere
docile: la migliore razza
di lavoratori
che l’America
avesse! Alcune
avevano
lasciato
in patria
anche dei figli e il
rimpianto di essi mordeva
l’animo… ”Sulla
nave non potevamo
immaginare
che
avremmo sognato
nostra figlia
ogni notte fino
al giorno della
nostra morte, e nel
sogno
avrebbe sempre
avuto tre
anni come l’ultima
volta che l’avevamo
vista: una
figura minuscola
con un kimono rosso scuro
accovacciata
ai margini
di una pozzanghera,
incantata
davanti
a un’ape
morta che galleggiava
sull’acqua!
E nei ricordi nostalgici
e nella
fatiche
e nelle umiliazioni
quotidiane si consumano
intere esistenze, nutrendo la
speranza
vana
che qualcuno si
accorgesse di loro e le
liberasse, e molte di
loro immaginavano
di ritornare in Giappone.
E in Giappone ritorneranno
tanti giapponesi,
maschi, trasferimenti
di massa,
evacuazione
d tutti gli stranieri
nemici dalla
costa,
al grido
Rimandiamoli
da
Tojo!
dopo
l’attacco
di Pearl
Harbor.
La narrazione
del libro
arriva
fino
agli
anni’40 quando
le generazioni dopo si
sono
americanizzate
sfuggendo sempre più
alle
consuetudini dei loro padri
e si sono conformate
alla
lingua e
alla
società statunitensi.
Il pregio
artistico di questo
libroè nel descrivere una
realtà dolorosa,
a tratti
spregevole, in una
lingua talmente
bella da
farsi
arte e l’arte
trasfigurare
la realtà
ed elevarla
a
dignità.
Julie Otsuka
è nata
in California.
Siè laureata
in Belle Arti
alla
Yale
University e ha
conseguito un Master of
Fine Arts
alla
Columbia University. E’
anche pittrice. Oggi
vive e lavora
a New York. Il suo primo
romanzo,
When
the Emperor
Was
Divine (2002), dopo
aver scalato
le classifiche con
duecentosessantamila
copie vendute negli Stati
Uniti,è considerato un
classico contemporaneo:
con questo libro, unanimamente giudicato
dalla
critica un capolavoro.
Julie
Otsuka
ha vinto l’Asian
American
Literary Award,
l’American
Library Association
Alex Award
e una
Guggenheim
Fellowship.
Arcangela
Cammalleri
La volpe, la
maschera e…altre favole di Fedro
di
Lorenzo Montanari
Progetto grafico e copertina di Monica
Frassine
Illustrazioni di Cristina Silingardi
Editrice La Scuola
www.lascuola.it
Narrativa per ragazzi
Le Fabulae
ri-raccontate
È un eccellente
lavoro questo di Lorenzo Montanari, in quanto riporta
all’attenzione, non solo dei bambini, ma anche degli adulti, le
famose Fabulae di Caio Giulio Fedro, vissuto fra la fine
dell’ultimo secolo a.C. e la metà del primo secolo d.C., epoca
quindi particolare che vide imperatori quali Augusto e Tiberio. Non
tutto ciè pervenuto della produzione di questo favolista, che trae
ispirazione dal grande Esopo, ma con una più completa proprietà
letteraria, raccontando con versi senari, senza tuttavia perdere di
vista la semplicità dello stile volto a dare immediatezza al
concetto esposto.
Montanari, cheè un bravo traduttore dal latino (ricordo al riguardo
La guerra gallica e La guerra civile, di Giulio
Cesare, già oggetto di mie recensioni), nel proporci le favole di
Fedro, ce le ri-racconta con un linguaggio più adatto ai giorni
nostri e anche con un adattamento più idoneo per essere comprese nel
loro effettivo significato dai bambini.
Il ricorso alla metaforaè d’obbligo e Fedro qui eccelle nel
porgerci le sue creazioni, a volte brevissime, ma sempre precedute o
seguite da sue riflessioni, che si concretizzano in un rapido
giudizio morale.
I difetti degli uomini sono quasi sempre portati alla luce da
animali, scelti non a caso in base alle loro caratteristiche che ben
si adattano alla vicenda, e se le bestie-personaggi fanno sorridere,
è però altrettanto vero che riconoscere nel loro comportamento
eventuali nostri difetti ci induce maggiormente a meditare, magari a
una riflessione volta, almeno nelle intenzioni, a sanarli.
Comunque, credo che più delle mie parole valga l’esempio e allora di
seguito ne riporto una, breve e famosa: La montagna partorisce
un topolino:
“ Una montagna stava per partorire e, per questo, lanciava
grida altissime. Giù, sulle pianure, l’attesa era febbrile. Ma dopo
tanti lamenti, urla, tremiti della terra…alla fine, venne fuori solo
un allegro topolino. Tutto qui!
Questa favoletta l’ho scritta per
tutti quegli uomini che, pur facendo un gran baccano con urla e
minacce, non cavano fuori un bel niente dal loro assurdo e
prepotente mettersi in mostra.”
Come avrete capito l’intento didascalico
è precipuo, ma nonè sterile insegnamento, bensìè finalizzato a un
piacevole apprendimento che nell’antica Roma non era riservato solo
ai bimbi, ma soprattutto agli adulti. Visti i tempi che corrono
credo proprio che anche questo libro debba essere letto da non pochi
uomini, soprattutto quelli che reggono le sorti del paese, nella
speranza che un’improvvisa, quanto mai necessaria illuminazione, li
faccia ravvedere.
In ogni caso la lettura non potrà che risultare piacevole e
senz’altro educativa, a conferma dell’antico concetto secondo il
quale ciò che si studia con divertimento si apprende meglio.
Lorenzo Montanari
(Castelfranco Emilia 09/04/1973), laureato in Lettere
ad indirizzo Filologico presso
l’Università di Bologna,è docente di Lettere di ruolo nella Scuola
Secondaria e dottore di ricerca in Filologia, dove ha anche
ricoperto incarichi sia come professore a contratto (per le cattedre
di Grammatica Latina e Didattica del Latino) sia come formatore SSIS.
Ha, inoltre, tenuto incontri di aggiornamento nelle scuole.è autore
di edizioni di classici latini (ha curato tutte le opere di Cesare
presso l’editore Barbera e un’antologia di
Quintiliano presso Cappelli) e di testi scolastici tra i
quali la collana «Nero su Bianco», dedicata alle abilità di
scrittura nel biennio della Secondaria di
Secondo Grado. Per l’editore «La Scuola», nella collana di Varia
«Orso Blu», ha pubblicato, nel 2011, «Pronto
soccorso dell’Italiano. Ortografia, punteggiatura,
congiuntivo».
Elenco delle pubblicazioni
·
A. Giordano
Rampioni, L.
Giancarli, L. Montanari, S.P.Q.R. – Alla scoperta
delle parole e della quotidianità di Roma antica, Cappelli
Editore, Bologna 2006. [ISBN:
9788837925062]
·
Giulio
Cesare, La guerra gallica, introduzione di G.
Cipriani
e G. M. Masselli, nuova traduzione e note di L. Montanari,
Barbera Editore, Siena
2006.
· L.
Montanari, Poesie d’amore,
Laboratorio di Poesia e di Scrittura Creativa, scheda
documentata della tesi di specializzazione in: C.
Bertacchini – M. R. Fontana (a cura di),
L’insegnante di qualità, vol. 2, CLUEB, Bologna 2006, pp.
197-208. [ISBN: 9788849124668]
· L. Giancarli,
L. Montanari, Quintiliano
– La scuola a Roma e il modello di oratore-cittadino, Antologia
da: Institutio Oratoria,
Cappelli Editore, Bologna 2007. [ISBN:
9788837911171]
·
autore
delle pagine di vita quotidiana e cultura romana nelle riviste
Audelescens e
Iuvenis (Eli
Editore) per l’anno scolastico 2007-2008.
·
Giulio
Cesare, La guerra civile, introduzione di G.
Cipriani
e G. M. Masselli (con un saggio di Federica Introna), nuova
traduzione e note di L.
Montanari, Barbera Editore, Siena 2008.
· L.
Montanari, Esercizi di
ortografia, punteggiatura e logica della frase, Cappelli
Editore, Bologna 2008. [ISBN:
9788837911355]
· L. Reggiani - L. Montanari,
Analisi sintattica con esercizi di potenziamento lessicale,
Cappelli Editore, Bologna 2008. [ISBN:
9788837911362]
· P. Bollini - A.
Ghiretti - A. Grillini - L. Montanari - B. Nanni - L.
Reggiani - N. Paggetti, Esercizi di scrittura funzionale.
Dal riassunto al saggio breve,
Cappelli Editore, Bologna 2008. [ISBN:
9788837911379]
·
autore
delle sezioni dedicate a Sallustio e a Tacito nell’antologia
scolastica: Anna Giordano Rampioni,
Canone in versi e in prosa, Cappelli Editore, Bologna 2008.
[ISBN: 9788837911386]
·
articolo:
L. Montanari, Un’occasione (forse) perduta. Una proposta
per la Secondaria di primo grado, in Anna Giordano
Rampioni, Manuale per l’insegnamento
del latino, Pàtron Editore, Bologna
2010. [ISBN: 9788855530873]
· L.
Montanari,
Ortopunzione, Cappelli Editore /
La Scuola, Brescia 2011. [ISBN:
9788837912093]
· L.
Montanari, Pronto soccorso
dell’italiano, La Scuola, Brescia 2011.
[ISBN: 9788835026839]
·
Giulio Cesare, La guerra gallica,
traduzione e note di L. Montanari, Rusconi, Rimini 2011.
[ISBN: 9788818027488]
·
Giulio Cesare, La guerra civile,
traduzione e note di L. Montanari, Rusconi, Rimini 2011.
[ISBN: 9788818027938]
· L.
Azzoni, B. Nanni, L. Montanari,
G. Carbone, Ratio.
Un metodo per il latino
(volumi 1 e 2), Laterza, Roma-Bari
2012. [ISBN: 9788842110170 e
9788842110385]
Renzo Montagnoli
8/5/2013
Nelle falesie dell’anima
o
delle umane emozioni
di
Gavino Puggioni
Prefazioni di Luca
Foddai e Danila Oppio
Il disegno di copertinaè di Debora Cabboi
Edito
in proprio
Poesia
Il libro potrà essere ordinato
direttamente all’indirizzo email
dell’autore:
puggioni.gavino@tiscali.it
al costo di euro 13. L’autore sarà felice
di inviarvelo, se lo desiderate, con una dedica personalizzata.
Un messaggio di speranza
“…Apritela quella porta! / la Terraè nostra
/ vogliamo viverla!”
Autore prolifico (in dieci anni questaè la sua quinta raccolta
pubblicata), Gavino Puggioni tuttavia non sacrifica la qualità alla
quantità, tutto volto a cercare dentro di sé gli anfratti più
nascosti della propria anima.
Anche questo Nelle falesie dell’anima, sottotitolato
o delle umane emozioni, si inserisce in un quadro
generale in cui il poeta sardo procede nella sua analisi
introspettiva non isolandosi, ma correlandosi con il mondo che ci
circonda. E in questo contesto mai viene a mancare l’impegno civile
volto al miglioramento dell’umanità, evidenziando le tante, per non
dire troppe incongruenze che la caratterizzano e che si manifestano
con diffuse ingiustizie e prepotenze e vessazioni sui più deboli,
in primis i bambini, a cuiè indispensabile dare un chiaro senso
di speranza, affinché per loro ci sia un futuro che non sia la
triste e crudele ripetizione del passato. Nonè quindi un caso se la
prima poesia della raccoltaè Il bambino con la chiave, un
piccolo che gira ovunque tenendo fra le mani la chiave simbolica che
può spalancare la porta su un mondo diverso, senza più soprusi e più
equo.
Tuttavia sarebbe riduttivo solo evidenziare l’aspetto civile di
questa poesia, perché la raccoltaè piuttosto corposa edè composta
da più sillogi con le quali vengono fatte emergere all’occhio del
lettore appunto le umane emozioni dell’autore, passando dalla forza
inusuale del silenzio ai malinconici versi delle liriche che
compongono “E si fa sera” , come in Ho sotterrato
pietre, oppure in Ho quasi finito.
Sono poesie che si propongono quasi con pudore, che chiedono, non
pretendono l’attenzione, così che il lettoreè da subito ben
disposto ad accogliere questi flussi di emozioni, a partecipare ai
sentimenti dell’autore, il che consente di meglio assaporare lo
scorrere fluido delle parole, con una comprensione del significato
pressoché immediata. Poesia semplice, si potrebbe dire, ma esprimere
concetti spesso profondi in modo del tutto intelligibile nonè da
tutti e quindi questoè un altro merito dell’autore.
E per quanto Puggioni con questi versi non nasconda un’amarezza di
fondo per come gira il mondo, tantoè il suo desiderio che prenda a
girare finalmente per il verso giusto, fra le pieghe lascia comunque
intravvedere una esile, ma indomita speranza. Facciamola pure nostra
e forse così il bambino riuscirà con la chiave ad aprire quella
porta.
Da leggere, senz’altro.
Gavino Puggioni
è nato a Porto Torres, ma
dall’età di dodici anni risiede a Sassari.
Scrive dal 1957
poesie e racconti brevi.
Ha collaborato per
l'Editrice Musicale Letteraria Il sole
d’oro di Genova.
Nel 2003, per Magnum
Edizioni – Sassari, pubblica Finagliosu,
racconti e ricordi dell'infanzia, e nel 2004,
dà alle stampe L’arcobaleno in giardino, sua prima
raccolta di poesie.
Nel 2007, con lo
stesso editore, pubblica Nel silenzio dei rumori, poesia, piccola
prosa e favole dedicate ai bambini.
Nel gennaio 2011
viene pubblicato il suo più recente
impegno poetico, nella silloge Le nuvole non hanno lacrime,
edito da Edizioni Il Foglio, di Piombino.
Ha collaborato al
quindicinale di politica e cultura Il Sassarese diretto da
Enrico Porqueddu e alla rivista di
cultura La Frisaia, diretta da
Gianni Sini
Ha partecipato a
numerosi concorsi letterari nazionali ed
internazionali di Poesia, ottenendo lusinghieri risultati.
Le sue poesie sono un
compendio di ricordi ma anche di visioni attuali, su un
mondo dove pare che l’indifferenza regni
sovrana e, puntando uno sguardo al futuro, si legge la
preoccupazione per le nuove generazioni, perché possano vivere su
una Terra priva di guerre e di dolore, colma di pace e armonia. Un
affidamento totale alla Speranza, ultima dea.
Poesie e piccole
prose rivelano i battiti del cuore e dell’anima di un uomo che ama,
che esalta e difende l’amore per tutti, in particolare per i bambini
di tutto il mondo, ai quali dedica delicate e sofferte poesie.
In questa silloge
emerge evidente lo spirito del poeta, dai forti sentimenti umanitari
e da un amore sviscerato per la sua Terra, per la natura e per
l’intera umanità.
Renzo Montagnoli
5/5/2013
Il trono d’oro
di
Marco Salvador
Edizioni Piemme
www.edizpiemme.it
Narrativa romanzo
La
riunificazione di due Principati
“ Non basta gridare
contro le tenebre, bisogna accendere una luce.” (S.Nilo)
Marco Salvador, dopo
tre romanzi storici, tutti editi da Piemme (La palude degli eroi,
L’erede degli Dei e Il sentiero dell’onore), in cui ha
narrato splendidamente della dinastia con capostipite Ezzelino da
Romano, con questo libro ritorna ai suoi Longobardi, di cui ha
scritto una riuscitissima e apprezzata trilogia, pure pubblicata da
Piemme (Il Longobardo, La vendetta del Longobardo,
L’ultimo Longobardo). Appare quindi evidente che lo scrittore
pordenonese ha una spiccata preferenza per questo popolo di origine
germanica che, fra il VI e l’VIII secolo occupò gran parte
dell’Italia fino a quando non fu sconfitto da Carlo Magno che finì
con il porre fine al loro dominio, almeno nell’Italia
settentrionale, perché in quella meridionale, in quella che fu
chiamata la Langobardia Minor, restarono indipendenti il Principato
di Salerno e quello di Capua.
In Il trono d’oro si narra appunto di questi due stati
longobardi e della loro riunificazione nell’unico signore Pandolfo
Capodiferro. La vicenda di per sé sarebbe intricata, fra guerre con
i bizantini, tradimenti, colpi di mano e se raccontata in prima
persona da Pandolfo, principe di Capua, potrebbe forse risultare
meno interessante, ma Salvador ha avuto un’idea felicissima,
inventando un personaggio, Teofilo, greco di Palermo fuggito dagli
arabi per non essere giustiziato, salvato dai longobardi e che in
breve diventerà un consigliere onesto e fidato e che tanto
contribuirà con la sua opera alla riunificazione.
Tuttavia, il predetto Teofilo nonè un personaggio di comodo, nonè
solo un artificio per narrare la storia, perché - e quiè tanto il
merito dell’autore pordenonese - assume una veste propria nel non
breve passaggio dalla condizione di fuggiasco a quella di elemento
di spicco della corte di Capua, in un processo di maturazione e di
formazione che finisce con il diventare un’altra storia nella
storia.
La mano di Salvador nonè mai greve, ma segue passo passo la sua
creatura, di cui svela poco a poco i tanti pregi e i pochi difetti,
e in questa ascesa socialeè costante la presenza di una virtù a cui
Salvador, a ragione, tiene tanto: l’onore.
E nonè un onore retorico,è l’impegno con tutte le proprie forze
per mantener fede alla parola data, per mai venir meno, costi quel
che costi, a un’onestà intellettuale che si sposa con una ferma
coerenza. Teofilo ha questa virtù e saprà sempre dimostrarla, anche
in un gioco complesso e pericoloso qualeè il tentativo di riunire
due stati sotto un unico scettro.Scritto, come al solito, in un
italiano più che corretto, con una perfetta definizione dei
personaggi e con un’ambientazione in cui volentieri ci si immerge,
Il trono d’oroè un romanzo a dir poco stupendo.
Marco Salvador
è nato a San Lorenzo, in provincia di Pordenone, nella casa in cui
vive tutt’oggi. Ricercatore storico, per professione e per passione,
con un interesse particolare per il Medioevo, ha pubblicato numerosi
saggi sulle comunità rurali nel medioevo
e sulle giurisdizioni feudali minori. Inoltre ha scritto i romanzi:
Il longobardo (Piemme, 1^ Edizione 2004, 2^ Edizione 2008),
La vendetta del longobardo (Piemme, 2005), L’ultimo
longobardo (Piemme, 2006), La casa del quarto comandamento
(Fernandel, 2004), Il maestro di giustizia (Fernandel, 2007),
La palude degli eroi (Piemme, 2009), L’Erede degli Dei
(Piemme, 2010) e Il sentiero dell’onore (Piemme, 2012).
Renzo Montagnoli
27/4/2013
ANDREA DE CARLO
VILLA METAPHORA
ROMANZO BOMPIANI 2012
(Cartello
azzurro appeso sulla terrazza di Villa Metaphora
con scritto a caratteri gialli in italiano inglese francese tedesco)
Lascia
qui il rumore del mondo, per tornare al suono dei tuoi pensieri.
E’ il paradiso
terrestre o l’inferno dantesco?
Come mettere delle
persone in un’isola
vulcanica, Tari, all’estremità del mediterraneo meridionale e farle
interagire tra
di
loro e tra la natura selvaggia e i suoi elementi scatenanti: uno
psicodramma con finale catastrofico.
Andrea
De Carlo in questo suo ultimo romanzo supera gli altri suoi scritti
e se stesso, si confronta con un’opera monumentale, 920 pagine
infuse di scibile ed esperienze letterarie notevoli.
Siamo
in un resort esclusivo, Villa
Metaphora,
sospeso tra le rocce, unica via d’accesso e di fuga il mare,
riservato ad una clientela
altamente
qualificata e selezionata con 14 personaggi che prefigurano
altrettanti tipi, caratteri ed entità ben definite. In ordine
di apparizione,
Lara
Laremi,
giovane scenografa italo-irlandese
al seguito della star Lynn
Lou Shaw,
dal precario equilibrio psichico, durante una sospensione del film
che sta girando la diva, l’isola le appare come un esilio
temporaneo, offerto dalla circostanze, per provare a dimenticare
quello che c’era prima, guardare altrove. L’architetto di successo e
di fama internazionale, Gianluca
Perusato,
l’artefice della ristrutturazione ex novo di Villa
Metaphora,
appartenuta al barone Canistraterra,
nonché proprietario; veleggiando tra le
isole del mediterraneo meridionale con amici e affittando
dammusi
imbiancati di calce, in testa gli girava l’idea di creare un piccolo
resort incastonato come un gioiello
nella roccia, davanti al grandioso spettacolo della natura. E dopo 5
anni di lavori e dissanguamento senza fine di capitali, si trova a
curare i mille dettagli indispensabili per portare la Villa allo
standard di eccellenza assoluta per
essere un luogo di vacanza privilegiato per persone privilegiate. Il
raffinato architetto aveva progettato un soft
opening, un’apertura graduale con pochi ospiti per rodare
con calma la struttura e portarla gradualmente a pieno regime. Ma
per un insieme assurdo di coincidenze sono arrivate due prenotazioni
irrepetibili a cui non può dire di
no.
Lucia
Moscatigno
è la giovane bruna e formosa tarese,
assistente manager e amante dell’architetto. La coppia americana
Shaw-Neckhart,
costituita dalla star delirio delle folle, impasticcata e
alcolizzata, capricciosa e volubile e il marito Brian guru della
LifeSolving tm,
risolve i problemi interpersonale,
su qualunque scala, maè impotente alle intemperanze dementi della
moglie. La
gentile coppia d’altri tempi Tiziana
e Giulio Cobanni,
raffinata e adusa a comportamenti molto formali e controllati.
Paolo
Zacomel,
ex studente universitario, convertitosi allo stato di natura, in
un’inconscia adesione letterale al mito del buon selvaggio, vive
isolato tra le rocce, in un atteggiamento da
primitivista
settecentesco, alla ricerca di legno per ricavarne mobili
di estrosa e pregiata fattura per Villa
Metaphora.
Di giorno vive
all’aria aperta
intento ad attività puramente concrete, la sera si dedica
alla lettura di Čechov.
Carmine
Alcuanti
tarese,
cugino di Lucia, marinaio e tuttofare nella Villa,è una forza
belluina della natura, un tutt’uno con
il paesaggio rupestre e selvaggio dell’isola: adoratore
incondizionato della Dea Lynn
Lou Shaw,
un’apparizione da venerare, in un servilismo da idolatra si presta a
tutte le richieste bislacche della diva americana.
Simone Poulanc,
la snob francese con la puzza sotto il naso, sotto le mentite
spoglie di turista di lusso, devota della vacanza status symbol si
nasconde la giornalista tagliente e dalla penna corrosiva, venuta
sull’isola per saggiare ed eventualmente stroncare il
resort. I coniugi tedeschi
Brigitte e
Werner Reitt, fuggiti
da Francoforte precipitosamente, lui banchiere
di altissimo profilo internazionale, a seguito di uno
scandalo deve sparire agli occhi del pubblico e dei mass media fino
all’evolversi degli eventi. Pur nella caduta umana e morale anche
nei momenti peggiori egli siè sempre attenuto rigorosamente al
terzo imperativo categorico di Kant,
Agisci in modo che la tua volontà possa istituire una legislazione
universale. IL cuoco spagnolo
Ramiro
Juarez
e il suo assistente, nativo del luogo
Federico.
Ramiroè l’astro nascente della cucina
tecno-emotiva
la cui preparazione dei piatti deve lasciare in uno stato di
semi-insoddisfazione: come se si sfiorasse la grazia e nello stesso
istante la
si
perdesse. Comparirà anche l’assistente del banchiere tedesco
Mathias
Baumgartner
e irromperà potremmo dire di straforo,
il politico, l’onorevole-disonorevole
Piero Gomi,
esemplare della politica italiana tanto vituperata e messa alla
berlina dai cittadini. Infine come comparse completano il quadro
umano le due cameriere dell’isola Amalia e Teresa, due apparizioni
solo fulminee ( un fotografo e un pilota di
elicottero) e una comitiva di volgari e parvenu russi.
La
trama ruota intorno ai personaggi ciascuno con il suo ruolo ben
costruito, i cui caratteri rappresentano altrettante sfaccettature
umane, modelli che si replicano universalmente; il quadro che si
componeè quello della società contemporanea con tutti i suoi
aspetti contraddittori. Ciascuno parla e pensa secondo la sua
collocazione sociale e il suo retroterra
culturale, per cui i registri linguistici sono tanti ed aderenti
come una seconda pelle ad ciascuno dei protagonisti della vicenda. A
volteè una sovrapposizione furiosa di lingue, accenti, registri,
opinioni, intenzioni, convinzioni. Soliloqui o monologhi interiori,
estremamente sprezzanti come sputi,
venati di autoreferenzialità o
autogiustificazionismo. E per non farsi
mancare nulla De Carlo si inventa la
lingua tarese, parlata a
Bonarbor, il paesino sotto le pendici
del vulcano La Muntagna
Matri, un idioma non scritto, senza una
grammatica codificata, una contaminatio linguistica quale
risultante delle molteplici invasioni e dominazioni sull’isola, una
fusione di : latino, spagnolo, inglese, francese, perfino
portoghese.
Eppure in questo paesaggio
magnifico la cui vista sulle rocce scoscese e sul mare sconfinato
moltiplica in un lampo il senso di distanza dal mondo, altri scenari
umani e naturali complicheranno e trasformeranno il corso degli
eventi, tutta una serie di circostanze quanto mai orchestrata
sovvertirà quella che doveva essere una vacanza rilassante e
fuori da
ogni luogo comune. Riflessioni filosofiche, considerazioni, morali,
invettive pedestri, credenze popolari e superstizioni ataviche e
locali sono la trama dell tessuto
narrativo, alto e squisito linguaggio si alterna ad espressioni
scurrili e volgari. Un’altra commedia umana? Con
risvolti tragici? Il pregio di
Andrea De Carloè quello di essere come un grande direttore
d’orchestra dove ogni singolo strumento suona alla perfezione e
tutti si armonizzano come una musica non dissonante, ma espressione
di ogni sensazione umana. La visione d’insiemeè un’apocalittica
rappresentazione dei nostri tempi, uno sfracello
totalizzante di costumi morali, un deterioramento progressivo che
porterà, se non ci ha già portato ad una mutazione genetica, mentale
e comportamentale. Una della
conseguenze della
nostra società multimediale,è la perdita di valore delle parole. In
altri tempi si poteva assurgere a grandi ruoli o essere uccisi per
quello che si diceva, oggi, per lo meno nel mondo occidentale,
chiunque può dire e ritrattare quello che
gli pare, -basta guardare i politici- e nessuno si sognerà di
rimproverarglielo per più di cinque minuti. Nessuno se ne ricorderà,
soprattutto. Le parole sono strumenti usa-e-getta:
il tempo di pronunciarle, e appena ottenuto lo scopo si
buttano
via. Forse perché mutuando quello che diceva
Friedrich Nietzsche, i pensieri
sono le ombre delle nostre sensazioni e perché le parole a loro
volta
non sono che le ombre dei nostri pensieri?
Un libro con tratti
ironici, drammatici e avvincenti che non necessità di una lettura
continua, si può tralasciare, riprendere in più tempi e non si perde
né il corso dei fatti né il senso di quello che si legge perché ha
molteplici interpretazioni quante o perlomeno molte dell’animo
umano.
Andrea
De Carlo
è nato a Milano. Ha scritto
Treno di panna,
Uccelli da gabbia e da voliera, Macno,
Yucatan, Due di due, Tecniche di seduzione,
Arcodamore,
Uto, Di noi tre, Nel momento, Pura
vita, I veri nomi, Giro di vento, Mare delle verità, Durante,
Leielui.
I suoi romanzi sono tradotti in 26 paesi.
Arcangela Cammalleri
23/4/2013
Frammenti di sale
di Mariangela De Togni
Foto della copertina: dalle Vedrette di Ries
di Alessandro Ramberti
Fara Editore
www.faraeditore.it
Poesia
Collana Sia cosa che
Mistico abbandono
C’è
una spiritualità soffusa nelle liriche che compongono questa
silloge, un’ascesi che si concretizza in un abbandono mistico frutto
di interazione con il Creato, un afflato spontaneamente riflesso in
chi vi si considera solo umile parte, senza pregiudizi, né animo di
prevaricazione.
In fondo nella natura, che ci comprende, possiamo sempre ritrovare,
purché lo vogliamo, quell’energia trascendente, quel senso
dell’immenso da cui la frenesia collettiva di una vita irrazionale
ci allontana sempre di più.
Chi si aspettasse da una suora poesie prettamente religiose non
potrà che restare deluso, per quanto l’impregnante spiritualità, la
continua meraviglia che sgorga dalla penetrazione nella natura
assurgono inevitabilmente a una profonda devozione per Chi ha creato
questa meraviglia. E le parole fluiscono armoniose, si susseguono,
si concatenano intrise di stupore, dando luogo a un’atmosfera
sospesa che avvince e convince il lettore. Sembra che sia l’anima a
parlare, a raccordarci con lo spirito immenso della natura,
un’energia inesauribile da cuiè piacevole farsi travolgere.
Ma ci sono anche riflessioni esistenziali, stacchi da quella
trascendenza a cui ci si volge, pur tuttavia misurati, constatazioni
che acquisiscono consapevolezza sul chi siamo, da dove veniamo e
dove andiamo, come in Beduini dell’eterno (Vestiti di
foschia / come fantasmi d’una carovana / di sabbia siamo / anche
noi. / Beduini dell’eterno / accampati / sotto le tende / della
vita. / E attendiamo. / Che la stella ricompaia / nella notte / a
guidarci sulla pista / del nostro destino.).
La cognizione del presente, la nostra materialità soccombente al
fato nonè quindi disgiunta dalla possibilità di cercare, andando
oltre il nostro semplice contingente, le risposte a tutti quei
perché che consciamente, o inconsciamente, ci assillano fin da
quando muoviamo i primi passi. E Mariangela De Togni ha cercato, ha
sempre cercato, trovando la soluzione di questi assilli in un’Entità
superiore, che si manifesta nei prodigi del creato (…/ Ti ho
sempre cercato. / Nella luce che cambia / le sponde della mia terra.
/ Nei grappoli del glicine viola. / Nei carruggi ombrosi di pilastri
/ e archi dove si rincorrono / eco profonde / intrise di lontananza
/ e di essenze./…).
In un’epoca in cui spesso il poeta appare disorientato sul senso
dell’esistenza trovare chi lo cerca guardando fuori e scrutandosi
dentro, in una correlazione del tutto spontanea, appare la soluzione
universale per dare un’impronta alla propria vita, per ritrovare
quel candore che la civiltà tecnologica ha soffocato. Nonè forse il
sesto senso, che più non abbiamo, maè la cognizione di far parte di
un disegno talmente grande e complesso da non poter essere capito;
resta sempre, comunque, la gioia di esserne protagonisti, se pur
alquanto umili, granelli di sabbia mossi dal vento divino.
E tutto questo con versi armoniosi, con una musicalità che appaga
l’orecchio, ma che consente anche al messaggio di fluire leggiadro
fino al cuore.
Frammenti di saleè una gran bella silloge, completa,
equilibrata, una di quelle, poche, che nel tempo si tornerà a
rileggere con vero piacere.
Mariangela De Togni
è nata a Savona.è suora orsolina.
Insegnante, musicista, studiosa di musica antica, membro
della Accademia Universale “G. Marconi” di Roma.
Ha pubblicato, tra il 1989 e il 2011, undici sillogi poetiche. Tra i
titoli (per i dettagli si rimanda al Profilo bio-bibliografico):
Non seppellite le mie lacrime, Nostalgia, Una Voceè il mio
silenzio, Chiostro dei nostri sospiri, Profumo di cedri, Un saio
lungo di sospiri, Nel sussurro del vento, Flauto di canna, Nel
silenzio della memoria, Cristalli di mare, Fiori di Magnolia.
è presente in vari e accreditati studi critici su antologie e
riviste letterarie, anche on-line (bombacarta.com
-
flannery.it -
farapoesia -inpurissimoazzurro.it
-
lastanzadinightingale.blogspot.it). Ha ottenuto numerosi
premi e segnalazioni di merito in concorsi letterari. Tra i più
recenti: “Le Stelle” (Savona), “Abbazia del Cerreto” (Lodi), “Borgo
Ligure” (La Spezia), “Premio alla Carriera” (Santuario Madonna di
Gaggio), “Val di Magra - Roberto Micheloni” (La Spezia), “Borgo
Ligure” (Santa Margherita Ligure), “Città di Salò”, “Portus Lunae”
(Sestri Levante), “Satura - Città di Genova”, “Versi di mare”
(Roma), “Il Golfo” (La Spezia), “Ibiskos” 2011 per un Racconto
breve.
Le
è stata dedicata la «Lettera in versi» n. 21 a cura di Rosa Elisa
Giangoia, gratuitamente scaricabile nel sito:
bombacarta.com/le-attivita/lettera-in-versi
Federica Galletto le ha dedicato il blog La mia
contemplazione all’indirizzo
www.mariangelade. blogspot.it
Renzo Montagnoli
21/4/2013
Manuale del rivoluzionario
di
Gabriele D’Annunzio
a cura di Emiliano
Cannone
Copertina di Otto Dolci
Tre Editori
www.treditori.com
Saggistica
L’unica prevedibilità era
l’imprevedibilità
Ritengo opportuno da subito chiarire un
legittimo dubbio e cioè se effettivamente Gabriele D’Annunzio abbia
scritto questo Manuale del Rivoluzionario. Non lo fece e
quindi il lavoro del curatore Emiliano Cannoneè consistito nel
raccogliere articoli, passaggi di opere dannunziane, discorsi dello
stesso, raccordandoli al fine di dimostrare un innato spirito
rivoluzionario che caratterizzò negli scritti e nei comportamenti il
poeta pescarese.
Siè trattato, indubbiamente, di una fatica improba per portare alla
luce qualche cosa di nuovo di questo straordinario personaggio, così
inconsueto e fuori da ogni canone da poter dire di lui che l’unico
comportamento prevedibile era la sua imprevedibilità.
Proprio per questo, cioè per comprendere gli scopi di questo libro,
sono dell’opinione che una volta tanto la lettura della quasi sempre
negletta introduzione sia da considerarsi indispensabile, perché
altrimenti si corre il rischio di perdersi nei meandri di parole,
ritraendo impressioni che assai facilmente non risulterebbero in
linea con gli intenti del curatore.
Maè mio dovere effettuare un’ulteriore premessa: D’Annunzio come
autore e come personaggio non rientra nel mio sentire.
Lui era troppo “tutto e il contrario di tutto”, io sono fermamente
coerente, lui era genio dell’inventiva, io sono teso a una costante
razionalità volta a conseguenze deduttive. Siamo cioè nettamente
agli antipodi, ma ciò non toglie che D’Annunzio mi abbia comunque
sempre interessato e l’abbia visto e continui a vederlo come uno che
avrebbe potuto segnare una svolta nell’evoluzione dell’umanità e che
invece non la realizzò.
Visse in un’epoca caratterizzata da una degenerazione del
parlamentarismo assai simile all’attuale, un mondo in disfacimento a
cui il vate pescarese intendeva contrapporre una Vita nova,
un ideale appena abbozzato, basato su alcune caratteristiche del
socialismo, ma più imparentato con l’anarchia, e quindi
inconcludente e destinato all’insuccesso, come provò anche
l’esperienza fiumana.
Per certi aspetti tendente a un comunismo di tipo sovietico (e la
copertina ci mostra un D’Annunzio-Lenin che arringa le masse), ma
senza la dittatura tipica del marxismo-leninismo, e quindi
irrealizzabile, portato a un fiero nazionalismo, frutto di un
sentimento patriottico intriso di retorica, D’Annunzio, tuttavia,
non può essere considerato né un precursore, né un sostenitore del
fascismo, movimento più reazionario che rivoluzionario. Ma
l’ambiguità dell’uomo fu tale che non solo non avversò il fascismo,
ma vi giunse a patti, in modo tale che ne ottenne benefici per un
suo silenzio-assenso. Certamente vero invece fu il fatto che
Mussolini e il fascismo fecero propri alcuni motti e simboli di
D’Annunzio, sempre con il tacito consenso dell’interessato. Insomma,
per dirla breve, fu uno che seppe tenere i piedi in più scarpe, per
ovvi vantaggi personali, in primo luogo per soddisfare quell’eterna
sete di denaro necessario a una vita fin troppo dispendiosa.
Ecco, grazie a questo libro e al lavoro di Cannone, si hanno
ulteriori tasselli per delineare la personalità non certo semplice
di D’Annunzio, di volta in volta intellettuale, letterato,
guerriero, politico, idealista e amante della bella vita, una
poliedricità di comportamenti che se hanno fatto di lui uno dei
protagonisti di quel periodo di tempo che va dalla seconda metà del
XIX secolo fino a quasi l’inizio della seconda guerra mondiale, pur
tuttavia finiscono con il limitare le possibilità di un giudizio
compiuto, ancor oggi basato, almeno a livello popolare, su pochi
elementi eclatanti e quasi sempre inesatti.
Quindi, cercare di comprendere chi fuè restituire alla storia e
alla memoria un ulteriore contributo di verità, che deve andare
oltre qualsiasi grado di giudizio; in questo senso sono
dell’opinione che Manuale del rivoluzionario possa essere di
non poco aiuto.
Emiliano Cannone
è nato a Lecce nel 1976. Ha conseguito il dottorato di ricerca in
italianistica presso l’Università del Salento, discutendo una tesi
dal titolo Lingua, stile e poetiche nel ciclo delle prose di
Giuseppe Parini.
Ha rivolto i suoi interessi anche ad autori quali Nievo e Svevo.
è inoltre autore della trasposizione in italiano contemporaneo del
Trattato della pittura di Leonardo da Vinci e ha curato la
traduzione italiana di Martiri della scienza di D.
Brewster, opere entrambe
di imminente pubblicazione.
Renzo Montagnoli
18/4/2013
Il
Codice da Vinci
di Dan Brown
Arnoldo Mondadori
Editore S.p.A.
Narrativa romanzo
Collana Omnibus
stranieri
La storia tradita
Nonè mia abitudine scrivere stroncature,
perché se un’opera non mi piace, chiudo la pagina e penso ad altro;
tuttavia, quando quel libro sembra raggiungere un successo
planetario, faccio sempre un esame di coscienza per cercare di
comprendere i motivi per cui invece il mio gradimento sia risultato
nullo. A volte rileggo anche l’opera e poi, se secondo i miei
criteri la stessa continua a non incontrare i miei favori, allora, e
solo allora, parte la stroncatura.
Il lancio del Codice da Vinciè stato a
suo tempo una grossa operazione di marketing, un bombardamento
mediatico senza precedenti, tanto che a non comprarlo c’era quasi da
vergognarsi. Personalmente non l’ho acquistato, ma in cambio me ne
sono state donate tre copie da altrettanti soggetti diversi.
Ho iniziato a leggerlo con la miglior
predisposizione in quanto supponevo fosse un romanzo storico del
tipo di quelli scritti da Ken Follett e invece mi sbagliavo.
Si tratta di un thriller che parte con le
migliori intenzioni e che poi lungo il percorso si sgonfia,
infarcito di falsità e menzogne che nelle intenzioni dell’autore,
tuttavia, sarebbero verità storica.
Ne ho segnate alcune che sono particolarmente
eclatanti e che meritano un intervento.
Preciso tuttavia che Dan Brownè
particolarmente bravo nel raccontare delle mezze verità adattandole
pro domo sua.
In particolare mi riferisco al fatto che Gesù
non sia morto sulla croce, che avesse sposato Maria Maddalena e che
da questa unione fossero nati dei figli capostipiti di una
discendenza regale, i Merovingi. La notizia nonè nuova, perché
appare in un testo precedente, scritto da tre inglesi, Il Santo
Graal, pubblicato in lingua italiana sempre da Mondadori nel
1982. Non solo, però, perché questa supposta verità risulterebbe da
un numero consistente, anche se imprecisato, di documenti messi al
sicuro da una società segreta (Il Priorato di Sion). Al riguardo nel
libro di Brown si precisa che questo Prioratoè una setta realmente
esistente; del resto nel 1975 presso la Biblioteca Nazionale di
Parigi sono state trovate alcune pergamene conosciute come Les
Dossiers Secrets in cui sarebbero contenute queste stravolgenti
rivelazioni. Tuttavia si tratta di falsi, come ammesso dagli stessi
compilatori. Del resto il Priorato di Sionè stato fondato nel 1956
da Pierre Plantard, e cioè non molti secoli prima, e dalla sua
costituzioneè stato caratterizzato dalla produzione di diversi
documenti, vere e proprie falsificazioni, tese a ripristinare la
monarchia in Francia, di cui, guarda caso, per discendenza
merovingia, Plantard sarebbe stato il legittimo pretendente. In
questa tela di ragno sono ricompresi anche Les Dossiers Secrets,
opera dello stesso Plantard, sul cui contenuto, in buona fede, anche
se con pochi scrupoli, i tre inglesi fecero affidamento per
scrivere Il Santo Graal. Ora, all’epoca in cui invece Dan
Brown provvide a stilare il Codice Da Vinci, la falsità di
quei dossier era già nota edè quindi evidente che o lui non lo
sapeva, oppure che ha preferito ignorarlo.
Nella seconda ipotesi nonè improbabile che lo
storico inglese volesse screditare la Chiesa cattolica, ma ci si
domanda, e non si ha risposta, perché mai, con tanti fatti negativi
che possono essere imputati all’istituzione ecclesiastica, si sia
preferito costruirne uno fasullo. L’ipotesi, mia,è che fanno molto
più notizia presunte rivelazioni su ciò cheè alla base della
chiesa, magari smitizzando la figura del Cristo, non più divina, ma
semplicemente terrena. Ma, se anche fosse, cosa cambierebbe? Un ateo
troverebbe una parziale conferma alle sue teorie, ma non potrebbe in
ogni caso negare il pensiero sociale e spirituale di un Cristo uomo,
pensiero la cui valenzaè inalterata da duemila anni e lo sarà per
sempre.
Per il resto il thrillerè di modesta
levatura, troppo veloce e semplicistico nella conclusione, insomma
nonè più di un normale prodotto di intrattenimento, eppureè stato
un best seller incredibile. Sono quasi sicuro però che una gran
parte di chi lo ha letto non se ne ricordi più, oppure ne abbia una
vaga memoria come di una qualche cosa che doveva essere per forza
bella perché tanti, ma veramente tanti, la leggevano.
Non mi sento però di sconsigliarne la lettura,
purché la stessa venga eseguita con spirito critico, senza restare
abbagliati da rilevazioni spacciate per verità e che invece sono
solo dei grossolani falsi.
Dan Brown, prima di diventare uno dei più acclamati
autori di thriller,è stato professore universitario e storico
dell'arte. I suoi libri, Crypto, La verità del ghiaccio, Angeli e
Demoni, Il Codice da Vinci e Il simbolo perduto, tutti
pubblicati in Italia da Mondadori, sono bestseller nel mondo.
www.danbrown.com/
Renzo Montagnoli
14/4/2013
Dalle parti degli infedeli
di
Leonardo Sciascia
Nota dell’autore
Edizioni Adelphi
www.adelphi.it
Narrativa
Collana Piccola biblioteca Adelphi
Fedele nei secoli
“…Forse le non più floride condizioni
di salute di vostra Eccellenza possono essere la causa non ultima di
un simile stato di cose, nonostante lo zelo ed il vivo
interessamento di Vostra Eccellenza. Edè per questo che questa S.
Congregazioneè pronta a venirLe incontro qualora Vostra Eccellenza
ritenesse di dover prendere una qualche decisione per il maggior
bene delle anime. Voglia pertanto l’Eccellenza Vostra aprirmi
confidenzialmente il Suo animo e farmi conoscere quelle decisioni
che il Signore non mancherà di ispirarLe.”
Quando ho aperto questo librettino, già
dalle prime pagine mi era sorto il sospetto di uno Sciascia che, a
dispetto nel suo noto anticlericalismo, giunto a una certa età, per
quelle straordinarie metamorfosi che colpiscono gli uomini quando il
pensiero per la dipartita riprende a balenare nella mente, avesse
avuto un generale ripensamento e, in uno con il riaccostamento alla
fede, si fosse instaurata una devozione anche verso coloro che la
professano e la predicano. Ma mi sono sovvenuto del fatto che al
testo si accompagna una nota dell’autore che, anziché agli inizi,è
stata posta in fondo, a soluzione quasi di un giallo, o meglio di un
dilemma, e che fuga del tutto questo sia pur legittimo sospetto. Ciò
non toglie che, per amore della verità e con essa del trionfo della
giustizia, Sciascia abbia scritto un’opera che rivaluta pienamente
monsignor Angelo Ficarra, vescovo di Patti, uomo senz’altro di fede
e in essa realizzato, ma ahimè distante da quei giochi politici e da
quegli affari terreni a cui la Chiesa, come istituzione, ci ha da
sempre abituato.
Dalle pagine emerge limpida la figura di questo sacerdote che, per
non essersi piegato ai giochi politici che nell’immediato dopoguerra
vedevano contrapposti in uno scenario spesso violento i
democristiani e i comunisti, fu tormentato per un decennio affinché
si dimettesse dall’incarico, con lettere subdole in cui il non detto
è più lancinante di ciò cheè inveceè scritto. Sciascia, in
possesso del carteggio fra il prelato e la Congregazione
Concistoriale, rivela al mondo la crudele ingiustizia patita da un
uomo che altri non voleva essere che un semplice uomo di fede.
è un continuo stillicidio di velate minacce a cui il vescovo viene
sottoposto, con lusinghe che nascondono il veleno di una serpe, ma
che non intaccano la ferma volontà dell’uomo di non dimettersi, in
quanto consapevole di essere vittima di un grave torto.
E’ bellissimo leggere queste missive, soprattutto quelle che vengono
dal Vaticano, in cui tanti florilegi mascherano una volontà ferrea
di stroncare, di indurre monsignor Ficarra ad ammettere delle colpe
o ad accettare un giudizio sulle sue condizioni di salute che non
rispondono al vero. Si tratta di una tecnica sopraffina che già
veniva usata nell’epoca del terrore staliniano, cioè reiterare le
pressioni affinché l’indagato non si ritenesse vittima, ma
diventasse reo confesso. Vengono alla mente certi interrogatori
dell’Inquisizione, con l’unica differenza che nel caso del vescovo
di Patti non c’è una tortura fisica, ma condizionamento psichico.
Eppure Monsignor Ficarra resiste come certi martiri del primo
cristianesimo e a suo modo vincerà, perché verrà sollevato
dall’incarico con una promozione, che ha il sapore però del colpo di
grazia. Sarà nominato, infatti, titolare arcivescovile di Leontopoli
di Angustamnica. Viene da chiedersi dove si trovi questo posto, ma a
questo provvede l’autore nella citata nota, da leggere senza ombra
di dubbio per comprendere la crudele beffa che colpì il povero
vescovo, diventato responsabile in pratica del nulla.
Il libroè assai interessante, a tratti addirittura divertente,
grazie alle puntualizzazioni e alle riflessioni di Sciascia e la
figura di Monsignor Ficarra, pagina dopo pagina, emerge luminosa, in
contrasto con l’istituzione religiosa, fedele nei secoli ai suoi
machiavellismi.
Leonardo Sciascia
(Racalmuto,
8 gennaio 1921 – Palermo, 20 novembre 1989). E’ stato autore di
saggi e romanzi, fra cui: Le parrocchie di
Regalpietra (Laterza, 1956),
Il giorno della civetta (Einaudi, 1961), Il consiglio
d’Egitto (Einaudi, 1963), A ciascuno il suo (Einaudi,
1966), Il contesto (Einaudi, 1971), Atti relativi alla
morte di Raymond Roussel (Esse Editrice, 1971),
Todo modo (Einaudi, 1974),
La scomparsa di Majorana
(Einaudi, 1975), I pugnalatori (Einaudi, 1976), Candido,
ovvero Un sogno fatto in Sicilia (Einaudi, 1977), L’affaire
Moro (Sellerio, 1978), Il teatro della memoria (Einaudi,
1981), La sentenza memorabile (Sellerio, 1982), Il
cavaliere e la morte (Adelphi, 1988), Una
storia semplice (Adelphi, 1989).
Renzo Montagnoli
7/4/2013
il
senso del SEMPRE
di
Franca Canapini
Prefazione di Neuro
Bonifazi
In copertina foto dell’autrice
Edizioni Helicon
www.edizionihelicon.it
Poesia
Una sinfonia sulla vita
Franca Canapini non miè sconosciuta; di lei ho già letto e
recensito Stagioni sovrapposte e confuse (Montedit, 2010),
una silloge in cui le stagioni non sono quelle astronomiche, ma
esprimono metaforicamente il ciclo della vita, e Tra i solstizi
(Aletti, 2011), altra raccolta di poesie volta a una
interiorizzazione, a un approfondimento intimo alla scoperta di se
stessa. In ogni caso la tematica ricorrenteè l’uomo e il tempo, il
suo breve percorso in cui si affanna a comprendere
l’incomprensibile, un desiderio tanto più forte quanto più
trascorrono gli anni.
Non mi sono quindi meravigliato di una nuova riproposizione
dell’argomento con questa recente silloge dal titolo emblematico
Il senso del SEMPRE; certo, l’esperienza maturata, lo
scavo sempre più profondo danno luogo a un’opera, che pur
nell’ambito del fil rouge così caro all’autrice, si presenta
rinnovata, ma non si tratta di un’operazione di semplice restyling,
bensì questa volta di uno svolgimento più ambizioso, secondo una
consecutio logica che unita alla musicalità dello stile,
caratteristica propria della Canapini, inducono, per tempi, ritmi e
scelte, a considerarla una sinfonia, sulla vita e intorno alla vita.
Al riguardo basti pensare che inizia con un Preludio (Sono nata
quando vendemmiano le viti / le melagrane accendono le siepi;…)
che in effetti introduce al tutto facendo balenare nel lettore
l’idea che al tempo passato ci si debba richiamare, più che a un
paradiso perduto, a un’epoca irrinunciabile e non più proponibile,
così distante dall’attuale, frenetica, tutta protesa alla rapida
realizzazione di falsi scopi, rincorrente un futuro inevitabilmente
uguale e avaro di soddisfazioni morali.
Oggi tuttoè diverso, il sognoè bandito e così anche la luna non
incanta più (…Spegniti luna! Ho perso / la leggerezza
dell’infanzia / l’euforia per i giochi a nascondino / il candore
dell’anima che teme; / dentro le tue quinte / non sono più capace di
giocare. /…).
Senza che ci sia tristezza, resta comunque un velo d’amarezza, con
quella consapevolezza che deriva dal volgersi all’indietro per
cercare il senso della vita; sì, c’è anche un po’ di rimpianto,
perché in fondo gli anni da tempo andati appaiono come fantasmi che
emergono dalle brume di un oblio che il ricordo cerca di diradare.
E’ questa memoria il sale della vita, la certezza, unica, di aver
vissuto, ma noi piccoli uomini, la cui esistenzaè breve come il
battito d’ali di una farfalla, ci sforziamo comunque di sognare, per
continuare (…è tempo di lasciare il campanile / salutare le vie
della città / tentare l’incerto e la fortuna /…).
E così, fra un accordo di violini, un rombar di timpani, un acuto di
trombe, la sinfonia propone le sue note per arrivare a un finale in
cui Franca Canapini, memore di una certa inclinazione per il “mito”
e anche l’epica, chiude nel migliore dei modi la composizione. Ma
non c’è solo la forza dei versi, lo scandire sillabico, il
rincorrersi delle parole a esaltare dei o semidei, c’è molto di più,
con quella conclamata consapevolezza della nostra fragilità, con
l’anelito a rifugiarsi nel sogno perché la realtà di un’esistenza a
tempo determinato potrebbe anche farci impazzire (da Don Quijote –
Eppure vedevo giganti, a frotte / - e dite che erano pale di
mulini. / C’era la nebbia e il vento / (desolata Mancia) / - e forse
calpestavo la neve delle cime. /).
Ecco, la ricerca nonè finita, continua, pur nella certezza che alle
domande Chi sono? Da dove vengo? Dove vado?, non c’è
risposta.
Il senso del SEMPRE ritaglierà sicuramente uno spazio
nell’animo di chi legge, perché tema e svolgimento sono assai
interessanti, ma soprattutto il primo ha il carattere
dell’universalità.
Franca Canapini
è nata a Chianciano Terme (Siena). Vive,
con la sua famiglia, ad Arezzo, dove ha svolto l’attività
di insegnante fino all’anno scorso. Nel
2010, essendo risultata vincitrice del
Premio Internazionale di Poesia Jacques Prévert
2009, leè stata pubblicata dalla casa editrice
Montedit la raccolta poetica Stagioni sovrapposte e
confuse, che ha ottenuto il terzo premio ex-aequo Tagete
2010. Nel 2011 ha pubblicato per Aletti Editore la silloge Tra
in solstizi, reperibile anche in eBook.
Suoi lavori si trovano in alcune antologie e riviste di poesia, in
vari siti e blog culturali e nel suo blog personale:
www.lieve2011.wordpress.com
Renzo Montagnoli
2/4/2013
Trinacria
Park
di
Massimo Maugeri
Prefazione di Valerio Evangelisti
Edizioni e/o
www.edizionieo.it
Narrativa romanzo
Collezione Sabot/age
diretta da Colomba
Rossi
e
curata da Massimo Carlotto
Gli infiniti volti della verità
In
un’epoca in cui l’apparenza, o meglio le apparenze, perché di
qualsiasi persona o evento abbiamo tante immagini sovente fra loro
discordanti, ritorna più che mai attuale la “Crisi dell’io” ,
teoria che Pirandello già descrisse mirabilmente nel 1900.
Queste identità, che nell’individuo non sono mai univoche, sembrano
oggetto di particolare attenzione negli autori siciliani e al
riguardo basti pensare a Leonardo Sciascia con quella sua analisi
fredda e per nulla disincantata delle personalità e dei fatti ed
eventi dalle stesse provocate. Non stupisce, quindi, se Massimo
Maugeri, autore contemporaneo, di fronte a un moltiplicarsi delle
sfaccettature della realtà non si inserisca in questo filone
analitico con questo Trinacria Park che nonè un
thriller, pur avendone alcune caratteristiche, né un saggio
antropologico, pur presentandone elementi, bensìè una riuscitissima
rappresentazione di una società cheè corrotta e corruttibile,è
amorale ed immorale,è gravata da complessi di colpa senza che con
ciò intenda porvi rimedio,è insomma l’immagine complessa di una
fase involutiva della teoria dell’evoluzione naturale.è un
argomento cheè indubbiamente complesso e che affrontato
direttamente potrebbe anche irritare il lettore e allora Maugeri ha
avuto la felice idea di parlarne con un romanzo dal percorso
lineare, pure nella sua tortuosità, ricorrendo alla metafora,
inventando un’isola, Montelava, cheè l’immagine speculare della
Sicilia, la quale a sua volta riflette un mondo in cui viviamo
brancolando nel buio, in preda a inconsce paure, senza una meta e in
balia dei canti di interessate sirene, a cui non crediamo, ma a cui
finiamo per affidarci.
L’autore, uomo del suo tempo, succube come noi, cerca tuttavia di
portarci gradualmente a una presa di coscienza, a ribaltare un
palcoscenico precostituito in cui la recita della vitaè una
commedia che mani sconosciute dirigono, con esperti attori che fanno
da abili imbonitori e con il pubblico, attonito gregge, che al
tempo stessoè carnefice e vittima della stessa irrealtà di cui
avverte l’esistenza, ma a cui si lascia andare.
C’è l’ambizione di togliere i coperchi alle pentole del diavolo e
Maugeri, nonostante le difficoltà, ci riesce e ci porta per mano a
conoscere la complessità degli individui, nel loro contesto fasullo,
senza tentare di accertare una sicura verità, ma inducendoci a
ragionare affinché diventiamo perfettamente consapevoli che ciò che
appare nonè mai quel che é.
Resta alla fine un velo d’amarezza nel constatare che noi, e siamo i
più, recitiamo la nostra esistenza da indistinte generiche comparse.
Trinacria Parkè un romanzo senz’altro meritevole di
attenta lettura.
Massimo Maugeri,
è nato a Catania nel 1968. Collabora con le pagine culturali di
magazine e quotidiani. Fra i suoi libri
ricordiamo il romanzo Identità distorte (Prova d'Autore, 2005), il
volume Letteratitudine, il libro - vol. I -
2006-2008 (Azimut, 2008), la raccolta di racconti Viaggio all'alba
del millennio (Perdisa
Pop, 2011), il volume Letteratitudine, il libro - vol. II -
2008-2011 (Historica, 2012). Ha creato e
gestisce Letteratitudine (www.letteratitudine.it), e conduce "Letteratitudine
in Fm" su Radio Hinterland.
Renzo Montagnoli
27/3/2013
Andrea Camilleri
La rivoluzione della luna
Sellerio
editore Palermo 2013
La memoria
Nel vicereame
spagnolo in Sicilia governò, per un giro di luna, una donna.
Nella Rivoluzione della luna
Andrea Camilleri, ritorna al romanzo di matrice storica.
Nella nota in appendice al libro, Camilleri rende noto al lettore da
quali archivi storiografici ha attinto la storia che siè accinto a
narrare. In tutte le cronologie dei Viceré di Spagna in Sicilia non
si fa menzione che tra la morte del Viceré di Spagna in Sicilia
Angel de Guzmán,
nel 1667, e la successione nella carica del cardinale
Luis Fernando de
Portocarrero, la Sicilia per 27 giorni fu
governata da una donna.
Solo nell’opera di Francesco Paolo Castiglione,
intitolata
Dizionario
delle figure, delle istituzioni e dei costumi della Sicilia storica
(Palermo, Sellerio, 2010) e
nel terzo volume della Storia
cronologica dei Viceré di G. E. Di
Blasi, edita nel 1975 dalla
Regione sicilianaè accennata, ma solamente, in poche righe, la
storia di donna Eleonora che per volontà testamentaria del marito
divenne Viceré. Evento eccezionale in quell’epoca:
una donna, l’unica ad assurgere a un così
alto incarico politico ed amministrativo. Donna Eleonora poi
venne destituita, in quanto donna
impossibilitata ad assumere l’autorità di Legato nato dal Papa,
titolo indivisibile da quello di Viceré. A sollevare la questione
era stato il Vescovo di Palermo, escluso dal Sacro Regio Consiglio
dal Viceré Donna Eleonora e che si lamentava di essere perseguitato
da lei.
Sono solo pochi accenni al governo di un Viceré donna, tra l’altro
per solo 27 giorni, ma bastevoli per darne l’immagine di una donna
dalle doti politiche ed umanitarie estremamente
eccellenti. Sue alcune leggi quali
l’abbassamento del prezzo del pane, la creazione del Magistrato del
Commercio che riuniva le 72 maestranze palermitane. Rimise in vigore
il Conservatorio per le vergini pericolanti, quello delle vecchie
prostitute, chiusi per mancanza di fondi e la Dote Regia e del
Conservatorio delle Maddalene pentite,
infine la riduzione del numero dei figli per ottenere i benefici
concessi ai “padri onusti”. Insomma una
femminista ante litteram, con una
visione moderna della giustizia e dell’equità sociale.
Fin qui la storia “vera”, ma naturalmente, come dice l’autorevole
autore, essendo una narrazione romanzesca le libertà di scrittura
diventano tante: la fantasia di Camilleri vola a briglie sciolte per
il gusto dell’invenzione e di esasperare come attraverso uno
specchio deformante la stessa realtà già
di per sé stravolta.
è un carosello di pantomime, effetti caricaturali, la realtà storica
del secolo XVIIè vivisezionata attraverso una
lente d’ingrandimento dei vizi, dei costumi libertini,
delle dabbenaggini, dell’opportunismo più
bieco e meschino. E’ la fiera delle vanità, dei soprusi più abietti,
delle violenze perpetrate ai deboli e a giovani
fanciulle orfane, alla mercè
libidinosa di laidi nobilastri e chierici senza freni. In questo
quadro miserevole affonda Camilleri la sua vis comica al pari di un
novello Giovenale, mette in rilievo le
bassezze più recondite dell’animo umano, l’immoralità diffusa, in
una Palermo della nobiltà ad alto tasso di licenza per l’illegalità
e la licenziosità, mentre eleva a simbolo di beltà, alto senso
morale ed elevato grado di perizia politica e diplomatica una
donna: Eleonora di Mora, spagnola sì, ma di famiglia siciliana,
ristata
orfananedda all’età di deci anni.
Una
vinticinchina, d’una
biddrizza da fari spavento,
d’abbagliare e far rimanere affatati.
Nera di capelli e di occhi, ammantata di
una regalità connaturata che ammalia e toglie il fiato.
L’immagine muliebre che adombra Camilleriè un peana alla donna, una
celebrazione della sua beltà in omaggio non solo alle attraenti
forme fisiche, ma alla sua intelligenza, acume e perspicacia.
Il mondo femminile da Camilleriè tratteggiato sempre con un senso
di rispettosa adesione, compartecipa con animo femminile ai
sentimenti e ai risentimenti di esso.
Le sedute del Sacro regio Consiglio sono delle farse da commedia
dell’arte, i sei consiglieri, componenti
il suddetto consiglio, sono delle maschere tragiche, ciascuna
annidata ha una macchia, un crimine di diversa natura e rivoltano
in bizantine manomissioni le leggi secondo il proprio interesse e a
scopo di lucro.
L’ouverture del libroè già di per sé un capolavoro: l’inizio di una
seduta del Consiglio con tutto il suo cerimoniale ridicolo, con
movenze e riverenze cortigiane, fautore di una politica farsesca,
dispensatrice di favori e leggi ad
personam. Il resto del raccontoè un
crescendo senza sosta in due alterità:
libidine, indegnità, corruzione da una parte, limpida onestà,
rettitudine e senso morale dall’altra. Alla conclusione della storia
si eleva un canto a celebrare il breve regno di Donna Eleonora:
ventotto giorni ci mette la luna a
girare intorno alla terra e un giro di luna fu il suo regno, ma fece
della notte giorno chiaro e bastò a fare del dolore meno amaro, nel
cuore della gente c’è una luna piccola, quellaè lei che vi regna di
splendore.
Come il libro è un misto di storia ed
invenzione, degno di un romanzo classico così la lettura suscita
nel contempo indignazione civile e ridanciano umorismo.
La duplicitàè uno sei segni identificativi
di questo scritto, a parer mio, a prova di ciò anche l’uso doppio
della lingua: il siciliano alla Camilleri e il piacevole e personale
italo-spagnolo parlato da Donna
Eleonora.
Un felice romanzo storico, uno tra i più riusciti senz’altro del
nostro grande Andrea Camilleri.
Arcangela
Cammalleri
24/3/2013
SERENA DANDINI
FERITE A MORTE
Rizzoli
Controtempo 2013
Narrativa-saggistica
Cortometraggi in scrittura di donne - vittime grondanti di sangue
In “Ferite a morte” di Serena Dandini (Rizzoli,
2013), il tema del
femminicidioè trattato in modo
originale e toccante.
Il libroè strutturato in due parti: la prima parteè narrativa,
mentre nella seconda parte dello scritto il fenomenoè riportato in
modo statistico e scientifico, avvalendosi dell’aiuto della
ricercatrice del CNR Maura
Misiti che ha approfondito l’argomento.
Inizio il commento dall’appendice.
Cos’è il
femminicidio?
Il femminicidio
è un fenomeno tristemente e angosciosamente diffuso a livello
mondiale. Gli omicidi basati sul genere sono una realtà di
fronte alla quale sia le autorità
competenti che la società civile devono impegnarsi a porre fine.
Rashida Manjoo,
relatrice speciale delle Nazioni Unite per la lotta contro la
violenza sulle donne, ha presentato il rapporto sugli omicidi di
genere che sono culturalmente e socialmente radicati, continuano
a essere accettati, tollerati e
giustificati, e l’impunità costituisce la norma. Le donne che sono
soggette a continue violenze, che sono costantemente discriminate,è
come se vivessero nel “braccio della morte”, con la paura di essere
giustiziate.
Il rapporto ricostruisce l’origine del termine con cui
si indica questo fenomeno. Usato sin
dall’inizio del XIX secolo per indicare
gli omicidi di donne, la
parola femmicidio ricompare negli slogan
delle femministe negli anni Settanta e poi nel
1992 quando la studiosa Diana Russell la
utilizza nei suoi libri per parlare della forma estrema di violenza
da parte dell’uomo contro la donna “perché donna”. Nel 2006 la
parlamentare femminista messicana Marcela
Lagarde conia la
versione
femminicidio,
di cui si serve per definire
“la forma estrema di violenza di
genere contro le donne, prodotta della violazione dei suoi diritti
umani in ambito pubblico e privato, attraverso
varie condotte misogine”.
Per Rashida Manjoo
c’è inoltre molta ipocrisia in chi, in Occidente, continua a
definire gli omicidi basati sul genere “delitti passionali”, come
risultato di comportamenti individuali, oppure “delitti d’onore”,
come effetto di pratiche sociali o culturali, nei Paesi orientali.
Tale dicotomia esprime una concezione superficiale e stereotipata
che riguarda tutte le donne del mondo.
Le forme
di femminicidio
Tra la altre forme dirette di
femminicidio sono comprese:
-
le uccisioni di
donne in situazioni di guerra;
-
le donne
bruciate in casa a causa della dote in alcuni Stati dell’Asia
meridionale;
-
gli omicidi
delle donne indigene e aborigene;
-
le forme
estreme di accanimento sui corpi delle donne assassinate dalla
criminalità organizzata e dai gruppi paramilitari;
-
per la pratica
del Sati le vedove indiane indotte a
bruciare vive sulla pira funeraria del marito;
-
l’aborto dei
feti di sesso femminile e l’infanticidio delle bambine in Cina, in
India e Bangladesh.
Ma esistono anche
forme di femminicidio indiretto, come i
decessi dovuti a:
-
aborti
clandestini,
-
traffico degli
organi umani,
-
crimine
organizzato,
-
mancanza di
cure mediche e di alimentazione adeguata per le bambine,
-
pratiche
tradizionali dannose come le mutilazioni dei genitali femminili.
E l’elenco
potrebbe continuare infinito in un agghiacciante giro del mondo
degli orrori.
Il libro
di Serena Dandini sul
femminicidio
Come racconta nella prefazione,
Serena Dandini
ha voluto rendere visibile tutte quelle storie
di donne che hanno pagato con la vita il fatto stesso di essere
donne: mogli, ex mogli, sorelle, figlie,
fidanzate, ex fidanzate. In presa diretta la conduttrice-autrice
partendo dalle protagoniste che non ci sono più vuole farle
finalmente parlare, vuole che queste donne siano libere, almeno da
morte, e raccontare la loro versione dei fatti. Da
questo assunto rivivono in
rappresentazioni icastiche, folgoranti e dolenti a volte amare ed
ironiche gli attimi fatali della loro vita, come se da morte
il loro sguardo e il loro animo considerassero il
proprio destino già tracciato e, come si usa dire, annunciato. Le
loro urla di disperazione, le loro voci di
aiuto sono rimaste inevase, nonostante spesso gridassero le
loro umiliazioni e sofferenze. Con accenti e registri diversi,
queste donne confessano la loro solitudine nel portare
addosso un fardello di dolore così grande
da rimanere inascoltato e spesso con caparbietà masochistica negato;
massacrate di botte, lapidate, bruciate dagli uomini e spesso dai
loro uomini. Serena
Dandini rende onore a questa macabra
galleria femminile e con pietosa adesione ne
delinea i tratti psicologici e le ferite
dell’animo e del fisico.
“Ferite a morte” nasce come evento teatrale:
voci recitanti al femminile di artiste,
giornaliste e amiche per sostenere la Convenzione No More!, le
associazioni e i centri antiviolenza e fa tappa in alcune grandi
città italiane. Il libroè
dedicato a Carmela Petrucci,
la ragazza palermitana uccisa per difendere la sorella dalla
violenza dell’ex fidanzato. Le donne recitanti hanno ai piedi le “zapatos
rojos”, le scarpe rosse come quelle
dell’artista Elina Chauvet, che
stanno facendo il giro in molte piazze
del mondo dopo essere partite da Ciudad
Juárez, città messicana situata nello
stato di Chihuahua al confine con gli USA, separata da
El Paso in Texas solo da un fiume, il
Rio Grande: città di frontiera nel nord del Messico che insieme a
Guatemala City,è considerata una delle città più violente del
pianeta. A farne le spese sono giovani donne
rapite, torturate, violentate, uccise e mutilate. Il fenomeno
potrebbe anche essere legato al mercato del sesso, alla produzione
di snuff movies
o alla tratta di esseri umani.
“Ferite a morte”è un libro intenso e
lacerante, fa soffrire e commuovere. E’
strutturato in brevi storie, come cortometraggi,
tinte di sangue, in un linguaggio acuto e corrosivo, ma anche
lieve ed ironico. Da leggere perchéè la testimonianza, la memoria,
la denuncia, grazie alla libertà della scrittura, di tante vittime,
donne come le altre.
L’autrice
Serena Dandini
in tv ha ideato e condotto programmi come
La tv delle ragazze, Avanzi,
Pippo Chennedy Show, L’ottavo nano,
Parla con me, The Must Go
Off. “Ferite a morte”è
il suo terzo libro, il primo di narrazione, dopo i successi
di Dai
diamanti non nasce niente. Storie di vita e di
giardini e Grazie per quella
volta, pubblicati sempre con
Rizzoli.
Arcangela
Cammalleri
Viaggio in V Classe
di Aurelio Zucchi
Nota dell’autore
Prefazione di Pietro Zullino
In copertina foto di Aurelio e Luigi Zucchi
Gruppo Albatros Il
Filo
www.gruppoalbatrosilfilo.it
Narrativa romanzo
Ritorno al passato
Non ci si lasci ingannare dal titolo, in quanto
non si tratta di un viaggio in treno, le cui carrozze, come noto,
prevedono solo due classi, bensì siamo di fronte a un romanzo
autobiografico in cui l’autore racconta di una parte della sua
gioventù, limitatamente a quella che lo vede allievo, prima della IV,
poi della V classe, dell’Istituto Tecnico per Geometri.
Premetto che non ci troviamo di fronte a vicende rocambolesche o
picaresche, ma a una banale esperienza scolastica inserita in un
preciso contesto sociale (quello del Mezzogiorno) che più incide per
le prospettive successive al diploma che per una condotta di vita
nel corso degli studi.
Il tutto trae origine dalla decisione improvvisa del padre
dell’autore di ottenere un trasferimento della propria attività (è
un bigliettaio della locale Azienda Municipale Autobus) a Roma,
nell’ottica che nella capitale ai figli siano riservate quelle
possibilità e opportunità di lavoro che la città di attuale
residenza (Reggio Calabria) nonè in grado di offrire. Così tutta la
famiglia, piuttosto numerosa, si trasferisce nella capitale, tranne
Aurelio, che per motivi scolastici, resta in loco, ospite di una
zia, per completare gli studi con il conseguimento del diploma.
Ripeto che la vicendaè del tutto banale, ma la capacità dell’autore
riesce a trarne elementi utili per una narrazione cheè in grado di
interessare e coinvolgere il lettore, soprattutto quello di una
certa età, simile a quella dello scrittore, in quanto ritrova certi
spunti e momenti di un vissuto che li accomuna, come i primi
benefici effetti del miracolo economico italiano e un certo
desiderio di autonomia e di libertà che all’epoca andava sempre più
affermandosi.
L’abilità di Zucchi sta nel raccontare cose normalissime con una
grazia che gli deriva dalla sua naturale tendenza alla poesia, con
un occhio di riguardo a tutti i personaggi, che sono tanti ( basti
pensare ai compagni di classe).
Si constata così che esistevano legami assai forti, cementati in
anni di comuni studi, tanti compagni di viaggio, di un viaggio
ovviamente metaforico, poiché si tratta del percorso in un
itinerario affrancante dagli obblighi della minore età e proiettato
all’ingresso completo nella vita e nel mondo degli adulti.
Siè trattato indubbiamente del periodo più bello per Aurelio, ma
anche per tutti, lettori compresi, poiché la gioventùè un
irripetibile sogno di libertà che non avrà più uguali
successivamente.
Le passeggiate lungo il mare, le prime uscite in auto, che erano per
lo più catorci, la fidanzatina, le feste, gli scambi d’opinione, gli
entusiasmi improvvisi, ma anche le cocenti delusioni, che pur
tuttavia non lasciavano segni, sono la riscoperta di un passato che
tanto prometteva di quello che poi non si sarebbe ottenuto, e giunti
a una certa età il solo ripensarvi muove a una malinconica
commozione, alla mestizia di un paradiso perduto.
Ecco, Zucchi, nel ricordare quel suo periodo, ha fatto di più di una
testimonianza storica, anche se personale; ha infatti fatto
riemergere un comune sogno a cui, nei giorni non più verdi, anzi
sempre più grigi,è piacevole abbandonarsi.
Da leggere, senza dubbio.
Aurelio
Zucchi
è nato il 7 febbraio del 1951 a Reggio Calabria, città in cui ha
vissuto fino al 1970, quando con la famiglia siè trasferito a Roma,
dove tuttora risiede e svolge la professione di agente di commercio
nel settore industriale. Poeta per indole naturale, ha pubblicato
nel 2010 la silloge Appena finirà di piovere (Global Press
Italia), mentre Viaggio in V classe ha segnato il suo esordio
come narratore.
Renzo Montagnoli
22/3/2013
1912 + 1
di Leonardo Sciascia
In copertina: Julio Romero de Torres. Viva el pelo, 1928
(Museo Julio Romero de Torres, Cordova)
Adelphi Edizioni
www.adelphi.it
Narrativa
Collana Fabula
Innocente, anche se colpevole
Negli ultimi anni della sua vita, quasi pago
dei successi ottenuti dai suoi romanzi, ma più probabilmente perché
la vena creativa si era un po’ esaurita, Leonardo Sciascia prese
spunto da fatti realmente accaduti per una loro rivisitazione,
chiamando gli scritti infatti Cronachette. E taleè anche
1912 + 1, titolo alquanto strano, ma che, come vedremo in
seguito, ha una sua precisa ragion d’essere. E’ del 1913 il fatto
della cronachetta, sicchéè logico pensare che lui fosse un po’
superstizioso, ma così nonè, perché quella votata agli scongiuriè
ben altra persona, un altro scrittore allora in grande spolvero;
questi, benché meridionale – e di conseguenza per lui il 13 doveva
essere considerato un numero fortunato – per una repentina
infatuazione per il Nord dell’Italia, ove soggiornerà a lungo fino
alla morte, iniziò a vedere il 13 come sinonimo di jella, di
sfortuna nera e allora prese a non citarlo, tanto che in uno dei 50
esemplari dell’edizione su papier de Hollande del Martyre del Saint
Sebastien, scritto direttamente in francese da Gabriele D’Annunzio
durante il suo non breve soggiorno ad Arcachon, ove si era rifugiato
incalzato dai creditori, figura una dedica autografa <<à Fernand
Charles Ecot “Chaque flèche est pour le salut.” Gabriele d’Annunzio,
7 jiun 1912 + 1>>. Questo libro entrò nella biblioteca di Sciascia
che non poté fare a meno di notare la stranezza della data e alla
luce della sua scarsa stima dell’autore abruzzese mise bene il
rilievo la circostanza agli inizi della cronachetta. A parte questo
inciso, il fatto non riguarda direttamente il vate nazionale, se non
per quella atmosfera di fulgide apparenze e di squallide realtà che
sembravano caratterizzare l’inizio del XX secolo, con la conquista
della Libia e la feroce repressione dei ribelli, con le classi
sociali ben delineate e talmente chiuse da risultare impenetrabili.
Edè appunto da un incontro fra un ceto superiore e uno inferiore
che nasce il fatto, con la contessa Maria Tiepolo, moglie del
capitano di Stato Maggiore Carlo Ferruccio Oggioni, che l’8 novembre
1913 uccide con un colpo di pistola sparato quasi a bruciapelo
l’attendente del marito, il bersagliere Quintilio Polimanti, nella
vita civile falegname, ma ribattezzato dai giornali ebanista per
cercare di rendere meno evidente la differenza di classe. Il
processo che ne seguìè l’occasione per Leonardo Sciascia di mettere
in risalto vizi privati e pubbliche virtù, spesso con un’ironia
dirompente, da cui esce un quadro per nulla lusinghiero degli uomini
in genere e di quel particolare contesto sociale.
Sono continue annotazioni, riflessioni che accompagnano gli atti del
procedimento che, come non poteva che essere prevedibile, si
concluderà con l’assoluzione dell’assassina. Il sostegno
indispensabile alle forze armate, appena uscite vittoriose dalla
campagna di Libia, e il patto Gentiloni che chiamava alle urne i
cattolici, prima diffidati dal pontefice, a patto che il parlamento
si attenesse rigorosamente ai principi cristiani, non cedesse alla
tentazione di fare una legge sul divorzio e considerasse pertanto la
famiglia una e indivisibile influenzarono i giurati e così accadde
che un colpevole, peraltro reo confesso, anche se a suo dire per
difendere la propria onorabilità, diventasse di colpo innocente, in
un iter che di verità univoche non ne ebbe, ma tante, tantissime, in
un contesto fatalmente pirandelliano, in cui apparenza e realtà si
confondono, confondendo anche chiè chiamato a giudicare.
Nonè certo un capolavoro di Sciascia, che tanti peraltro ne ha
scritti, ma 1912 + 1è uno di quei libri, di
gradevolissima lettura, a cui ci si affida con fatalismo constatando
che il nuovo secolo, il nostro, porta troppi segni del precedente,
tanto che le somiglianze son più delle differenze, e credo che se
fossero ancora in vita Pirandello e Sciascia si limiterebbero a
sorridere, come per dire “che novità! Ve l’avevamo già detto, no?”.
Leonardo Sciascia
(Racalmuto,
8 gennaio 1921 – Palermo, 20 novembre 1989). E’ stato autore di
saggi e romanzi, fra cui: Le parrocchie di
Regalpietra (Laterza, 1956),
Il giorno della civetta (Einaudi, 1961), Il consiglio
d’Egitto (Einaudi, 1963), A ciascuno il suo (Einaudi,
1966), Il contesto (Einaudi, 1971), Atti relativi alla
morte di Raymond Roussel (Esse Editrice, 1971),
Todo modo (Einaudi, 1974),
La scomparsa di Majorana
(Einaudi, 1975), I pugnalatori (Einaudi, 1976), Candido,
ovvero Un sogno fatto in Sicilia (Einaudi, 1977), L’affaire
Moro (Sellerio, 1978), Il teatro della memoria (Einaudi,
1981), La sentenza memorabile (Sellerio, 1982), Il
cavaliere e la morte (Adelphi, 1988), Una
storia semplice (Adelphi, 1989).
Renzo Montagnoli
20/3/2013
I Malavoglia
di
Giovanni Verga
a cura di Sergio Campailla
Newton Compton Editori
www.newtoncompton.com
Narrativa romanzo
Collana Grandi Tascabili Economici
L’immutabilità del proprio status
“Un tempo i Malavoglia erano stati
numerosi come i sassi della strada vecchia di Trezza; ce n’erano
persino ad Ognina, e ad Aci Castello, tutti buona e brava gente di
mare, proprio all’opposto di quel che sembrava dal nomignolo, come
dev’essere.”
Dei romanzi di Giovanni Verga questoè
indubbiamente il più conosciuto, anche perché oggetto di studio
nella scuola italiana.
Si tratta di un’opera di notevole valore, una storia corale di una
famiglia di pescatori di Aci Trezza, un paesino vicino a Catania. E’
una vita dura quella che conducono i Toscana, soprannominati
Malavoglia per pura e semplice antifrasi, in quanto di voglia di
lavorare ne hanno in abbondanza.
La loroè una famiglia patriarcale facente capo a Padron ‘Ntoni e
che si avvale per l’attività di un’imbarcazione dall’emblematico
nome di Provvidenza. Il capostipite, vedovo, dimora presso la casa
del nespolo insieme con il figlio Bastiano, detto Bastianazzo,
sposato con Maruzza, da cui ha avuto cinque figli. Vivono tutti alla
giornata, ma dignitosamente, in una sorta di perenne immobilità fino
a quando ‘Ntoni, il maggiore dei figli di Bastianazzo, viene
chiamato nel 1863 alla leva militare del nuovo Regno d’Italia;è una
bocca in meno da sfamare, ma sono anche braccia in meno per il
lavoro, così che il vecchio, padre e padrone, decide di tentare
un’avventura, al di fuori della consueta attività. Compra infatti
una partita di lupini, che poi risulteranno avariati, da un suo
compaesano chiamato Zio Crocifisso per via del suo incontenibile
pessimismo. La merceè affidata al figlio Bastianazzo affinché vada
a rivenderla a Ritorto, ma nel corso del viaggio per mare la barca
naufraga, il carico va a fondo e il giovane muore. Di colpo, da un
affare sperato si arriva a una disgrazia immane, perché non solo c’è
la perdita di Bastianazzo, ma occorrono i soldi per pagare la
partita di lupini e per riparare la Provvidenza.
Purtroppo la tragica vicenda nonè che l’inizio di una serie di
disgrazie che colpiscono i Malavoglia, che sembrano diventati di
colpo predestinati alle sciagure.
La visione di Vergaè decisamente pessimistica e sa cogliere
quell’immobilità di tempo che caratterizza le sue genti, con
quell’impossibilità di mutare il proprio status, in una lotta con il
destino da cui si esce sempre soccombenti. Anzi, a voler tentare di
modificare la propria sorte, non può che riuscirne una peggiore
dell’originaria, secondo il concetto che nullaè concesso all’essere
umano per una sua elevazione; pescatori a giornata erano i
Malavoglia e pescatori a giornata rimarranno, così come altri
personaggi delle sue celebri novelle ai quali si può e si deve
guardare con compassione.
E’ certamente un ritratto crudo, e forse anche crudele, delle genti
siciliane dell’epoca dell’autore, il quale ha la tendenza di
accettare come immutabile l’ordine delle cose, anche se questo
stringe la vita in una morsa senza speranza.
No, nonè possibile cercare di migliorare le proprie condizioni
economiche, perché inevitabilmente si finirà male e solo chi si
adatta al ruolo predestinato si salverà. Ecco, appunto, la
condizione immutabile di cui anche l’autoreè partecipe, nella sua
mediocre qualità di piccolo nobile di campagna, i cui frutti sono
scarsi al punto da rendere costante la continua ricerca di denaro
per mantenere il decoro del titolo, senza speranza di andare oltre
le barriere invisibili, ma possenti, dello status sociale.
Al di là di questa tematica, ricorrente in Verga, I Malavoglia
si fa apprezzare per lo stile del tutto particolare e in cui
predominano i dialoghi e quella capacità di astrazione che tende a
evidenziare l’oggettività del narrato, lasciando ampia e completa
libertà di interpretazione al lettore, una caratteristica propria
del verismo di cui Verga e De Roberto sono senz’altro i maggiori
esponenti.
E corre l’obbligo anche di evidenziare come nonostante si tratti di
opera scritta nella seconda metà dell’ottocento il linguaggio non
appaia desueto e anzi presenti una propria forza dirompente che il
lettore non potrà che apprezzare.
Quindiè per tutto questo che I Malavogliaè
considerato un capolavoro, un grande classico meritevole di studio
ed approfondimento, proprio per questo rientrante nei programmi
scolastici.
Da leggere, senza dubbio.
Giovanni Verga
nacque nel 1840 a Catania, dove
trascorse la giovinezza. Nel 1865 fu a Firenze e successivamente a
Milano, dove venne a contatto con gli ambienti letterari del tardo
Romanticismo. Il ritorno in Sicilia e
l’incontro con la dura realtà meridionale indirizzarono dal 1875 la
sua produzione più matura all’analisi oggettiva e alla resa
narrativa di tale realtà. Morì a Catania nel 1922. Di Verga la
Newton Compton ha pubblicato I Malavoglia, Mastro-don
Gesualdo, Storia di una capinera e Tutti i
romanzi, le novelle e il teatro.
Renzo Montagnoli
19/3/2013
Claudia Manuela Turco,
Glenn amatissimo – Il cane che mi salvò
la vita, Como, Edizioni Il Ciliegio, aprile 2013
(Collana “Percorsi”, formato cm 15x23 con alette)
Riguardo a Glenn amatissimo, Lucia Gaddo Zanovello ha
scritto: Miè capitato in questi giorni di incontrare un libro
bellissimo «di quelli che lasciano il segno, che non si
possono dimenticare e che possono cambiare le persone»…«Non si
tratta di un romanzo comune, ma della narrazione di un’insolita
storia d’amore, molto ben scritta, delicata, originale e strutturata
da esser letta d’un fiato, senza annoiare mai, nonostante la lunga
sequela di particolari-verità che arricchiscono e fondano la
vicenda e l’interesse che può sollecitare nonè riferibile solo agli
amanti degli animali»…«La vitaè un attimo, che sia lunga un
minuto o cent’anni,è pur sempre un attimo; questo libro mette
l’accento sul godimento della felicità del cosiddetto poco o nulla,
a disposizione di tutti, che tanti di noi non sanno più dove
ritrovare, sui significati veramente autentici della vita, e su di
un’etica senza ipocrisie, realtà alle quali i nostri giovani non
sono quasi mai sensibilizzati; l’opera può contribuire a sviluppare
in loro quel senso del sacrificio di sé, al di là di ogni proprio
tornaconto, per il bene dell’altro, a cui nessuno più li ammaestra o
che non hanno ancora incontrato nella loro vita e forse non
incontrerebbero mai».
Il volumeè strutturato in due parti. La prima si intitola
Bambini di serie B edè un racconto o romanzo
breve. Questa sezione introduttiva dona una
prospettiva diversa (più ampia e più precisa al tempo stesso) a
tutta la storia seguente, la seconda parte dell’opera, il romanzo
vero e proprio che vede protagonista Glenn. Bambini di serie B
concentra forti picchi drammatici, indispensabili per penetrare a
fondo l’essenza della storia del cane (esempio di vita vera), ma ci
fa anche subito capire che non ci troviamo di fronte al solito libro
canino. Non si può parlare di Letteratura di genere nell’accezione
negativa corrente (che vede il suo corrispettivo in certa
filmografia), se non per riabilitare tale categoria. Il lettore può
avere la sensazione di ricevere un invito a indovinare possibili
corrispondenze tra realtà e finzione, ma ne ricaverà soprattutto
utili riflessioni sui meccanismi interni all’opera e che presiedono
alla creatività. Molto interessante, in particolare, il passaggio
dalla terza persona dei Bambini di serie B alla narrazione in
prima persona fatta dalla donnacane in Glenn amatissimo.
Questo slittamento di prospettiva consente di non scivolare mai nel
patetico, nel facile sentimentalismo o di apparire glaciale, dovendo
affrontare traumi dal punto di vista narrativo. Il sentimento rimane
autentico, intatto nella sua forza. La donnacane non racconta molto
di sé, per lasciare al cane il ruolo di protagonista. In Bambini
di serie B colpisce la precisione chirurgica del gergo medico
relativo alle patologie di Pypee e Gordon, usato nei riferimenti
alle cartelle cliniche. Il racconto arriva come una freccia
(dice Lucia Gaddo Zanovello). Mostruose e agghiaccianti sono le
parole legate alla sfera della malattia, nella loro asetticità
medica. Ma Franz Kafka disse:
«Una volta mi ruppi una gamba,/ fu la più bella esperienza della mia
vita». L’evento più triste e quello più felice a volte possono avere
dei punti di contatto, come nella storia di Glenn. In Bambini di
serie B leggiamo: «Ci sono luoghi ove una bestemmia vale una
preghiera e una preghiera equivale a una bestemmia. Ci sono creature
che hanno troppo sofferto per colpa dell’uomo. E allora nessun uomo
potrà porre rimedio. A un solo essere, a un’unica anima potranno
veramente appartenere e legarsi, per trovare riscatto»…«A Gordon
mancava solo la parola»…«Pypee aveva trascorso i primi sei
anni di vita andando fuori e dentro da un canile-lager che si
chiamava… ospedale»…«Le cartelle cliniche continuavano a espandersi:
incisione in sede trocanterica, Scheletrizzata la metafisi
prossimale del femore previo repere rx, Osteotomia intertrocanterica
asportando un cuneo mediale, previa infissione di una vite di
Scaglietti nel collo femorale si derota e si varizza il collo
femorale, con una seconda vite si esegue osteosintesi
dell’osteotomia, nella parte esterna del focolaio di osteotomia si
pone il cuneo osseo precedentemente prelevato medialmente»…«A sei
anni, finalmente, un giorno le fu detto che poteva cominciare
davvero a camminare. Ma, abituata a stare quasi sempre a letto, era
terrorizzata»…«Dopo anni di ulteriori traumi e disgrazie arrivò
Gordon, il Principe Azzurro, il cane dai tanti nomi, dalle tante
vite. Bello come il sole, immenso come il mare, forte come le
montagne di Raibl. Un labrador biondo in miniatura. Diventò subito
la bussola d’oro di Pypee, il suo daimon: l’animale
che le stava sempre accanto era la sua anima, lei soffriva se gli
succedeva qualcosa». Facile capire che Gordon e Pypee sono Glenn e
la donnacane di Glenn amatissimo, così introdotto da
Bambini di serie B.
Impossibile ingabbiare in una sinossi la trama di questo libro. In
breve, possiamo dire che l’incontro tra la donnacane e Glenn pareva
proprio predestinato. La condivisione della malattia li rende molto
forti. Il lettore non potrà dimenticare certe immagini, come quelle
delle persone che si affacciano alle finestre per salutarli e
applaudire al miracolo del cagnolino tanto coraggioso che,
zoppicando zoppicando, siè conquistato una nuova vita. Ha
conquistato il mondo.
Glennè il protagonista anche della poesia “In ritardo, ma non
troppo tardi”, vincitrice del Premio Animo Animale 2010 (la giuria
era composta da una classe scolastica), il cui titolo potrebbe
idealmente riassumere il libro: «E così anche il sogno di Glenn si
avverò:/ percorremmo insieme mari e monti,/ città e campagne, in
lungo e in largo,/ zoppicando zoppicando entrambi, all’unisono,/
come i battiti dei nostri cuori.// Siamo stati così felici, ma così
felici,/ da poter considerare/ addirittura una nostra amica/ la
malattia».
In Glenn amatissimo emerge quel che accomuna il cane e
l’umano nella sofferenza, ma anche nella gioia. Quel che distingue
questa storia da tante altreè il fatto che il protagonista cane e
la sua compagna umana formano davvero un unico essere. Di
conseguenza chi scrive riesce a penetrare nell’anima, nella mente
dell’animale. Non vi sono più barriere, né fisiche, né culturali. Le
vicende minimali della giornata di un cane vengono viste in modo
illuminante. Mangiare, dormire, passeggiare non passano più in
secondo piano come banali bisogni fisiologici, bensì aprono una
porta su un mondo sommerso, ignorato, spesso nemmeno lontanamente
immaginato. L’argomento “popolare” viene sviscerato in modo
innovativo, soddisfacendo le aspettative del lettore e, al tempo
stesso, sorprendendolo. Vengono abbattuti pregiudizi e luoghi
comuni. Nonè vero che un cane vecchio, cheè rimasto molti anni
in canile, debba necessariamente essere difficile da gestire.
Poiché Glenn e la donnacane trascorrono 24 ore su 24 insieme,
possono venire notate le raffinate (e sfuggenti ai più) sfumature di
pensiero del cane, in un clima di intimità e complicità. Sono stati
trasformati in dialoghi vivaci ed efficaci, gli stati d’animo e i
pensieri che i comportamenti di Glenn svelano attraverso il suo
corpo, le sue “espressioni”. In questo spaccato di vita canina la
psicologia e il comportamentismo si integrano in una visione
complessa. Il lettore potrà spesso dire, immergendosi in queste
pagine: «Non ci avevo pensato, maè proprio così!».
In una molteplicità di toni e suggestioni (frequenti i giochi di
parole e gli episodi spiritosi) prevale la leggerezza di scrittura,
perché i problemi si affrontano e superano. Vengono
oltrepassati i filtri della parola, per giungere al più profondo
nucleo emozionale del vivere. Non la scrittura, bensì la vita,
affiora in primo piano. L’importanza del messaggio richiede
semplicità e discrezione da parte dell’autore, e non ostentazione di
originalità e virtuosismo, peraltro ampiamente dimostrati in altri
contesti e qui osservabili in particolare nei Bambini di serie B.
Il ritmo catturante felicemente si sposa a un lessico morbido e
fluido, capace di creare aloni di bellezza. La semplicità necessaria
è solo apparente; in realtàè voluta e studiata.
Glenn amatissimo si colloca
tra diversi generi e tocca molteplici argomenti edè concepito sia
per il lettore comune (inevitabile pensare a Marley o Sprite;
spiccano la vivacità dei dialoghi e la voce inconfondibile del
cane), sia per il lettore più esigente (con squarci poetici,
metafore originali:
«Alle mie spugnette rosse danzanti»; «Nel cuore dei cani/ alberga
l’anima di poeti estinti»), poiché
all’immediatezza del linguaggio non corrisponde un appiattimento del
testo. L’operaè adatta sia a un pubblico adulto, sia ai ragazzi.
Una lettura consigliata sia agli amanti degli animali, sia a chi li
teme ma vuole superare le proprie fobie.è adatto anche al lettore
anziano e alle coppie che vogliono adottare un animale o avere un
figlio.
Biografia (canina) e conformità al “dato storico” (il personaggio di
Glennè fedele alla realtà, quanto gli fa da contorno non loè
sempre; la collana “Percorsi”è dedicata a storie vere), romanzo e
poesia, letteratura colta e popolare, si sovrappongono alla luce di
una rinnovata sensibilità. Perché la storia di Glenn - cane vecchio
e malato, che non sperava più di avere una famiglia –è la storia di
un’anima.
Glenn amatissimo
presenta punti
di contatto con opere canine dei nostri tempi come I cani non
mentono sull’amore di Jeffrey M. Masson, Ascolta il tuo cane
di Jan Fennell, e con classici come Sirius di Olaf
Stapledon, Topsy di Marie Bonaparte, Cane e padrone di
Thomas Mann, Niki – Storia di un cane di Tibor Dèry o con le
storie narrate da Chesterton, Kipling, Lawrence, Jack London,
Virginia Woolf (Flush. Biografia di un cane). Affinità
risultano rintracciabili pure in libri come La vita segreta dei
cani e La vita sociale dei cani di Elizabeth Marshall
Thomas, o ne I poteri straordinari degli animali di Rupert
Sheldrake. Il cane protagonistaè accostabile a Marley, ma la
sua love story con un’umana ricorda La donna e la scimmia di
Peter Høeg. Taluni squarci richiamano Umberto D. (De Sica/
Zavattini), ma soprattutto Il Mio Cane Skip, capolavoro di
Willie Morris. Anche i momenti più drammatici “scivolano via” grazie
a una scrittura aperta al sorriso. Un taglio divertente e una
prospettiva ottimistica prevalgono, malgrado la presenza di non
pochi picchi drammatici.
L’opera ha trovato un lettore sensibile già nell’illuminato editore,
come dimostra la filosofia ben precisa adottata dalle Edizioni Il
Ciliegio: «Il contenuto dei nostri libri ha come guida l'ispirazione,
la creatività e l'espressione
leggera e profonda dei colori dell'anima. Il Ciliegio si
caratterizza per l'attenzione al mondo: del sentimento, della
spiritualità, del bambino, della comunicazione, del fantasy, del
benessere, del noir, del giallo e della ricerca del sé. Ogni
libroè unico e speciale, una piacevole sorpresa per chi lo
riceve in dono. Ci diverte pensare ad essi come a delle
piccole ciliegie rosse e invitanti, tante per tutti i
gusti: dai più raffinati a quelli più curiosi nella ricerca della
passione che un frutto rosso sa trasmettere». Una piccola curiosità:
Glenn amatissimoè uscito nel mese di aprile 2013, proprio in
coincidenza con il decimo anniversario della fondazione della casa
editrice.
Il coraggio di Glenn (vero e proprio eroe romantico) viene
presentato con delicatezza e con una sensibilità ancora in anticipo
sui tempi. Glenn e la donnacane, invece di vivere tante avventure
sfrenate, forse avrebbero dovuto risparmiare un po’ le loro gambe
martoriate. O forse no. Perché quando si trova la propria anima, e
non semplicemente l’anima gemella, tuttoè qui e ora.
Claudia Manuela Turco si occupa di letteratura canina sul sito
www.lordglenn.com. Al centro della sua opera,
l’umanità degli animali e l’animalità dell’uomo. Sta scrivendo il
“Ciclo di Glenn”. Con l’augurio che Glenn amatissimo possa
contribuire a cambiare la mentalità di molta gente, per salvare le
creature che non hanno voce, ritrovando se stessi.
Il libro ha ispirato il Premio Letterario
“Lord Glenn”.
Marco Baiotto
N.B.: Nel contesto di un ampio
progetto culturale di sensibilizzazione sulle tematiche riguardanti
gli animali, per contribuire a cambiare la mentalità delle persone,
è stata scritta la storia di Glenn amatissimo, un cane
anziano e malato che non aveva più speranze di venire adottato.
L’autrice del romanzo devolverà la percentuale a lei spettante per
le copie vendute al Rifugio di Villotta (www.rifugiodivillotta.org),
Associazione di cuiè Presidente e Fondatrice Aurora Bozzer e che a
breve diventerà Fondazione. Dice Marina del Rifugio di Villotta: "La
superficialità e la cattiveria di alcune persone non cambieranno
mai, ma noi comunque ci auguriamo di poter incontrare sulla nostra
strada gli animali più sfortunati, curarli amarli e rispettarli e
poi trovare loro persone splendide". L’acquisto del libro dà
diritto a partecipare al Premio Letterario “Lord Glenn”. In
palio trofei che verranno spediti gratuitamente ai vincitori.
Potrete raccontare le vostre esperienze in prosa o poesia o
commentare questo o un altro libro che viè piaciuto, inviare
riflessioni per un dibattito in difesa degli animali, fotografie con
il vostro cane/gatto e Glenn amatissimo, proporre idee e
iniziative. Verrà pubblicata una selezione dei materiali
pervenuti. Per ordinare il libro:
info@edizioniilciliegio.com; per informazioni e invio di
materiali:
www.lordglenn.com (Ciclo di Glenn),
lordglenn@libero.it
Breve
curriculum di Marco Baiotto
Marco Baiotto ha
pubblicato i libri di poesia Duetti Solisti (2003; con
illustrazioni di Gianni Sesia della Merla e CD-ROM), Il Ballo
delle Monete (2004), Duetti Solisti II (2005).
Lavora
nell’informatica e, in letteratura, siè distinto nell’ambito della
“bit generation”. Opere digitali, talvolta, accompagnano i suoi
versi.
Fondatore de “I
Cavalieri della Poesia”, ha collaborato a siti internet e riviste
culturali e di varia umanità, nonché a volumi collettanei. Suoi
scritti, saggi critici e recensioni, poesie o articoli, compaiono
in: “Poeti e Poesia”, “Fermenti”, “La Mosca di Milano”, “Capoverso”,
“Il Convivio”, “Inchiostro”, “Fiorisce un cenacolo”, “Arenaria” ecc.
Incluso ne La
poesia onesta di Vittoriano Esposito (Bastogi), ha conseguito
sensibili riconoscimenti nella partecipazione a premi letterari
nazionali e internazionali.
Sue opere sono
consultabili nelle biblioteche dell’Istituto Italiano di Cultura
delle seguenti capitali: Lisbona, Salonicco, Istanbul, Zurigo,
Tunisi, Toronto, Sydney, Stoccolma, Melbourne, Bucarest, Città del
Messico.
Collabora assiduamente da qualche
anno con uno dei riferimenti italiani a livello di servizi online
dedicati agli scrittori,
www.literary.it.
Dopo anni di collaborazioni non
retribuite e di tanta passione e dedizione pro patria …
ottiene, a cavallo tra 2012 e 2013, l’abilitazione all’Ordine dei
Giornalisti pubblicisti del Friuli Venezia Giulia.
18/3/2013
Conversazione con Primo Levi
di Ferdinando Camon
Presentazione
dell’autore
Disegno e grafica di copertina di Guido Scarabattolo
Guanda Editore
www.guanda.it
Saggistica
Collana Quaderni della Fenice
Il dilemma di Primo Levi
Due scrittori, assai noti (Primo Levi aveva già
scritto e pubblicato Se questoè un uomo e La
tregua, Ferdinando Camon, benché più giovane, era già
conosciuto per Il Quinto Stato, La vita eterna,
Occidente e Un altare per la madre), si
incontrarono nei primi anni ’80, per la precisione il primo contatto
diretto avvenne nel 1982 a Torino, città in cui Primo Levi era nato
e risiedeva; ce ne furono successivamente degli altri, tanto che
l’ultimo fu nel 1986.
Quella che doveva essere un’intervista di Camon a Levi divenne una
vera e propria conversazione, che pur obbedendo a una scaletta di
domande predisposte dal primo e concordate con il secondo, si rivelò
uno scambio di opinioni di grandissimo interesse. Deve essere dato
atto a Ferdinando Camon di aver ben interpretato i desideri dei
lettori, più che mai curiosi di conoscere qualche cosa di più di
questo grande autore, testimone e vittima della Shoa, per sua natura
persona assai umile e che ha sempre cercato di parlare attraverso le
sue opere.
Ma cosa spinse Camon a contattare Levi per intervistarlo? Questaè
la prima domanda che ho rivolto allo scrittore padovano che mi ha
risposto, come sua consuetudine, in modo esauriente e senza
reticenze. Mi ha detto che era stato spinto da un complesso di
colpa, in quanto figlio di quella civiltà dell’Europa occidentale
che nel tempo ha preso di mira gli ebrei, con un lavorio di
esclusione durato diversi secoli e giunto al suo culmine con la
follia nazista volta al loro sterminio.
Beninteso questo senso di colpaè una radice che uno si porta
appresso per atti compiuti, magari molto tempo prima che nascesse,
dal mondo di cui fa parte, da una civiltà che si crede esemplare e
che invece nasconde in un’atavica avversione per gli ebrei, un
nocciolo di inciviltà ancor oggi difficilmente scalzabile, atteso un
serpeggiante dilagare dell’ostracismo per tutti quelli che non ne
sono membri.
Come dice Camon, per lui andare da Levi era come andare a Canossa, e
forse ha avvertito tanto di più questo senso di colpa in quanto
cristiano e anche cattolico, proprio per la constatazione che il far
parte di un credo religioso porta inconsciamente a vedere gli altri,
cioè quelli di fede diversa, come degli estranei.
E’ stato però fortunato, perché Levi sì era ebreo, ma non
praticante, anzi non credente, per quanto in lui ci fosse una
continua ricerca che andava oltre l’umana comprensione
dell’Olocausto, ma anche di una relazione fra questo e un eventuale
Entità superiore. Quando a conclusione della conversazione Levi dice
“C’è Auschwitz, quindi non può esserci Dio,” aggiunge poi a matita
sui foglio sui quali la stessaè trascritta “Non trovo una soluzione
al dilemma. La cerco, ma non la trovo”è evidente che l’uomo era
impegnato in un logorante, ma anche angosciante tentativo di dare
una risposta logica, razionale, che andasse oltre l’atto di fede, in
pratica una certezza che per lui e per noiè del tutto impossibile.
Questa conversazione, in cui si misurano due intellettuali di
diversa matrice religiosa,è stata ben orientata in nove temi,
svolti con scambio di opinioni, non sempre coincidenti, e che
inducono il lettore a riflettere, magari esponendo un pensiero anche
dissimile, tanto che più di una volta, e questoè accaduto a me,
nasce proprio la voglia di potersi inserire nel colloquio che non
risulta di un asettico accademismo.
Il diavolo nella storia, La colpa di essere nati, Cos’era il
lager, La Germania allora e ora, Perché scrivere, Lager nazista e
lager comunista, La nascita di Israele, Le opere, L’uomo e la
chimica, sono questi gli argomenti su cui si è svolta la
conversazione e, se pur non siè arrivati a conclusioni di verità
assolute, lo scambio di pareri, le osservazioni puntuali e razionali
a cuiè sempre stata improntata costituiscono un contributo
importante che, senza arrivare a conclusioni certe e definitive, pur
tuttavia rappresentano un arricchimento di cui tutti possono
beneficiare.
In fondo ci troviamo di fronte a due persone che non desiderano
imporre le loro idee, ma che vogliono solo capire, e questoè
l’altro aspetto di pregio di questo libro, perché alla fine non ci
sono né vinti, né vincitori, ma si resta consapevoli che qualche
cosa siè fatto, che un altro passo verso la conoscenza siè
compiuto.
Devo dire che mi sarebbe piaciuto poter intervistare Levi, ma non
credo proprio che avrei potuto dare vita a una conversazione così
interessante come invece ha fatto Camon e l’impressione che alla
fine si ritrae é che questi due uomini, di estrazione diversa, sono
più simili di quanto non si possa immaginare e pagina dopo paginaè
piacevole lasciarsi condurre quasi per mano da entrambi in un
percorso altamente gratificante e che porta a una grande sensazione
di serenità, la stessa che si raggiunge quando siè consapevoli di
un accrescimento del proprio patrimonio culturale.
Per quanto ovvio, Conversazione con Primo Leviè
sicuramente e ampiamente raccomandabile.
Ferdinando Camon
è nato in provincia di Padova. In una dozzina di romanzi (tutti
pubblicati con Garzanti) ha raccontato la morte della civiltà
contadina (Il quinto stato, La vita eterna, Un
altare per la madre – Premio Strega 1978), il terrorismo (Occidente,
Storia di Sirio), la psicoanalisi (La malattia chiamata
uomo, La donna dei fili), e lo scontro di civiltà, con
l'arrivo degli extracomunitari (La Terraè di tutti).è
tradotto in 22 paesi. Il suo ultimo romanzoè La mia stirpe
(2011).
Il suo sitoè
www.ferdinandocamon.it
N.B:
Il link per leggere l’intervista da me effettuata a Ferdinando Camon
è questo:
http://www.arteinsieme.net/renzo/index.php?m=80&det=11279
Renzo Montagnoli
17/3/2013
Cristina Bove - Mi hanno detto di Ofelia -
Ed. Smasher 2013
Recensione a cura di M. Carmen Lama
"Mi hanno detto di Ofelia"è un titolo assai intrigante per questa
nuova silloge di Cristina Bove, che sembra sempre essere giunta
all'apice del suo discorso poetico e invece constatiamo che con ogni
sua nuova opera l'apice si sposta indefinitamente e si rimane con la
sensazione (di per sé piacevolissima) di un'illusione ottico-mentale,
anticipatrice di nuove attese… in un crescendo che non ha mai fine.
Ofeliaè un personaggio tragico, una donna immersa nel fiume della
sua vita-morte, del cui dramma viene a conoscenza l'amato-amante
Amleto, ma solo quando questo siè ormai consumato. E lo stesso
Amleto non ha consapevolezza della realtà della donna e
dell'accaduto, né di se stesso. Cristina Bove entra perfettamente
nel personaggio di Amleto per mostrargli la sua in_coscienza di
uomo, mentre gli fa confessare di aver saputo della tragedia di
Ofelia ma di non credere, o meglio, di non sapersi decidere a
credere alla realtà del fatto e della stessa vita-morte dell'amata,
personaggio nel quale pure la poetessa si identifica, con lo scopo
implicito di rappresentare simbolicamente il destino tragico che la
donna in quanto tale molto spesso subisce.
Dare voce alle donne attraverso le sue poesie,è una funzione che
Cristina svolge con profonda empatia, e dare spazio ad Ofelia già
nel titolo di un'opera in cui molte sono le poesie che attraversano
la fatica dell'essere donna, in una società e in un mondo monco,è
una scelta simbolica forte.
Diventa per il lettore una prima chiave di lettura dei testi poetici
presentati in questa raccolta.
Ma ci sono altre aperture, così come ci sono altri incontri con la
stessa anima poetica di Cristina Bove.
Nonè semplice trasferire in una poesia il proprio sentire,
facendosi nel contempo carico di rappresentare un vissuto che
appartiene anche ad un universo più vasto del proprio.
Ma l'opera poetica di Cristinaè una fucina in continua evoluzione,
dove la regia sapiente della poetessa consiste nel creare sempre
nuove forme con un materiale di base reso duttile dalle sue stesse
idee. L'uso del linguaggio, infatti,è sorprendente sia per gli
accostamenti lessicali arditi, sia per le immagini originali
composte, sia per le atmosfere che può respirare chi oltrepassa la
soglia del suo laboratorio poetico.
Edè proprio grazie a questo sperimentare sempre nuove forme che la
poesia di Cristina emerge.
La sua ricercaè incessante e profonda, il mondo che scandagliaè
quello invisibile ai più, ma che a lei semplicemente si mostra,
richiedendole soltanto un'immersione, come in apnea, e un ascolto
attento della vita che nel profondo della psiche e del mondo si
svolge.
Questa fondamentale caratteristica del lavoro poetico di Cristina,
comune soltanto ai veri poeti,è una modalità legata alla ricerca
della coincidenza, e quindi dell'unità, tra l'essere e la realtà.
Soltanto nella visione poetica (o nel sogno) quest'unità può essere
vissuta come tale, maè necessario successivamente risalire in
superficie, (o destarsi dal sogno) per rielaborare la visione.
Trovarsi immersi in una sorta di atemporalità, in un'assenza di
tempo, fa sì che all'essere proprio si restituisca la "purezza"
originaria, che coincide con l'assoluto, edè questa l'unica
condizione in cui per pochi istanti si vive la realtà così come essa
è, con_fusa con l'essere, unità assoluta che soddisfa la ricerca
poetica.
La poesia salva l'invisibile che si mostra per qualche istante. E
l'invisibileè come un fantasma, intercessore del tempo, che appare
per un momento, prima che la corrente del fiume del tempo lo
trascini via, solo per un istante, poiché nonè sua natura il
durare, l'estendersi nel tempo, perché questo lo altererebbe nel suo
"essere". Può tornare, sì, ma se si ferma un istante lo fa per
ottenere l'unica cosa che può salvarlo: essere fissato in un istante
perenne. Edè proprio quest'azione del fissare l'istante, la visione
fugace, quello che si richiede al poeta e quello che Cristina Bove
fa con le sue poesie. Un sogno o una visione possono essere salvati,
rendendoli visibili, facendoli entrare nel mondo della realtà cheè
quella del tempo, quindi attraverso la rielaborazione cosciente del
risveglio, del ritorno in superficie, e della presa di coscienza di
quel cheè stato e della scrittura poetica.
Tale condizione si addice ad ogni essere umano, ma molto spesso (e
comunemente) non siè capaci di discendere nelle profondità della
propria anima, né di ascoltarne i richiami o di decifrarne i
messaggi, neppure quando nella totale inconsapevolezza sono i sogni
ad alimentare la nostra psiche.
Per il poeta inveceè un aspetto imprescindibile e loè tanto più
quanto più si affina la sua sensibilità. Diventa, alla fine, il suo
habitus psico-mentale. Edè anche, possiamo dire, la realizzazione
del sé. Che però nonè mai finita, mai definitiva, se ci atteniamo a
quanto, in merito a ciò, ha chiaramente espresso Maria Zambrano in
tutto il percorso filosofico del suo pensiero.
Ogni essere umano ha bisogno di rinascere ogni giorno, e compie
questa sua rinascita attraverso il risveglio dal sogno e la
rielaborazione dello stesso o, per il poeta, attraverso la
rielaborazione delle sue visioni dell'invisibile, della ulteriorità
del reale, o, in altri termini, attraverso l'intuizione della
trascendenza di tutte le cose, degli esseri umani e dei viventi in
generale.
Cristina Bove, a mio modo di vedere incarna al più alto grado
l'essenza poetica, perché questa coincide con il suo essere la
persona cheè.
Nelle sue poesie, in particolare in quelle di questa raccolta, si
trova la sua anima dislocata, anche a piccoli frammenti, nei versi,
nelle figure retoriche, nei ritmi, nella liricità.
Anche quando una poesia parla di cose minime, di oggetti comunissimi
e che si potrebbero definire insignificanti, a maggior ragione per
questo aspetto vi si coglie un frammento lirico perché l'anima
abbandonata alle minimalia sembra essere rassegnata. E questa
scoperta segna inevitabilmente l'animo di chi legge.
In poesie come Bora, Una ciotola, Huaca,
Riflesso marginale, Sbalordire, Perché la resa,
Minime (?) COSE, Per aspera, VERSO IL TACERE,
Daojiao, Legend, Fuori dal campo,è eclatante
questo sentimento di marginalità in cui si sente risiedere la
poetessa, e la lettura dei versi, se rallentata al ritmo del cuore
di Cristina mentre “sentiva” quello che ha scritto, conduce
immediatamente nei dintorni di una con_divisione del sentire.
Non una volta, ma più e più volte, leggendo e rileggendo le poesie
di Cristina_Ofelia, ho provato questo senso di vicinanza con la sua
anima, con il suo sentire profondo, qualcosa che mi fa essere
partecipe di una vita SubLIMINALE, interiorità sofferta e
lirica, appunto.
Senza pretendere di esaurire l’analisi delle poesie di questa
silloge in una breve recensione, vorrei tuttavia segnalare due
poesie per me fondamentali per individuare il senso più autentico
anche di tutte le altre, proprio perché le ritengo emblematiche di
un sentimento vitale che in qualche modoè scosso dalla vita stessa
che procede su binari non previsti o non auspicati, come spesso
accade per chiunque. Si tratta delle poesie Porta e Di
solitudini.
La prima: Riconobbi la soglia
/ una fotografia fatta di vento /
lo riportava a me dall’infinito
// Il camino era spento e la finestra / si spalancava
sull’eternità // le distanze incolmabili generavano spazio
/ su gradini sbreccati ero seduta / di crepa in crepa
/ a rattoppare il tempo.
La seconda: Alla tua solitudine lo posso raccontare
/ dei miei pensieri cavi, e delle notti / calate sulle
rive di soppiatto. / Tu la conosci,è specchio al tuo
sottrarti / anche la mia / ch’è sabbia, neve, voli e
/ speronate a picco. // A te lo posso dire, fatta di
nebbia io sono / quindi nei vuoti d’aria m’abbandono /
per una tregua minima / se vuoi / tu che ti specchi
nel mio nulla / puoi, nella forma del buio, / porgere
la tua mano alla mia assenza.
Non occorre commentare, credo. La bellezza e il senso di queste
due poesie confermano (ovviamente, per me) il messaggio che ho
recepito, sotteso nel complesso di tutte le poesie della silloge, e
che ho cercato di esplicitare con questa recensione.
E in conclusione di questo breve resoconto della “mia” lettura della
silloge Mi hanno detto di Ofelia, vorrei sottolineare, se ce
ne fosse bisogno, l’eleganza dello stile di Cristina Bove,
l’originalità e la personalità di ogni suo componimento, che
inutilmente ci si sforzerebbe di incanalare in una qualche corrente
poetica.
E in conclusione di questo breve resoconto della "mia" lettura
della silloge Mi hanno detto di Ofelia, vorrei sottolineare, se ce
ne fosse bisogno, l'eleganza dello stile di Cristina Bove,
l'originalità e la personalità di ogni suo componimento, che
inutilmente ci si sforzerebbe di incanalare in una qualche corrente
poetica.
Sono poesie, le sue, frutto di un vissuto di immedesimazione nella
vita di tutti i giorni e nella vita sociale, umana e universale,
frutto anche di una cultura molto ampia che affiora in molti modi, e
frutto di una sensibilità fine, di un'intelligenza intuitiva
straordinaria, di una generosità insita nel DNA del suo animo che le
rende molto naturale darsi, attraverso le poesie, agli animi
sensibili dei suoi lettori.
27 febbraio 2013
M. Carmen Lama
M. CARMEN LAMA
PRIGIONIERE DEL SILENZIO
ALETTI EDITORE
ROMA, 2010
…Ma c'è una morte/ che accomuna molte,/è una morte vissuta/a
piccole dosi al minuto…
Mi piace presentare il libro Prigioniere del silenzio di
M. Carmen Lama, nel giorno della Festa della Donna (1),
perchéè ispirato dalle vicende esistenziali delle donne e dedicato
"Alle Donne di ogni paese del mondo…" e "Agli uomini veri,
che amano l'anima delle donne…".
E' una vasta raccolta di poesie, quasi monotematica, difficile da
analizzare nei dettagli proprio per la sua vastità, che
richiederebbe varie riletture per essere gustata pienamente e
sviscerata nei numerosi spunti di riflessione che può offrire;
perciò, in questo scritto, mi limiterò ad una sommaria visione
d'insieme, dal punto di vista di ciò che più ho sentito e più mi ha
colpito.
Ti aspetti la voce di donne percosse, stuprate, schiavizzate; di
donne che lavorano duro e non hanno alcun diritto; di quelle
donne-madri che a milioni e milioni, in questo nostro mondo, hanno
procreato, allevato e protetto la prole; ed hanno vissuto, lavorando
faticosamente, solo di doveri nei confronti di figli, mariti e
parenti. Ma nonè così. Qui troviamo la denuncia di una violenza
meno plateale, quasi invisibile e perciò poco percepibile
all'esterno; difficile da identificare e definire. Per quanto
l'autrice ci dica che siè ispirata alle vicende di donne di ogni
parte del mondo (e noi le crediamo), il disagio esistenziale
femminile che rispecchia nelle sue poesieè soprattutto quello della
donna liberata giuridicamente, ma ancora prigioniera degli
atteggiamenti d'incomprensione dei suoi bisogni profondi da parte
dell'uomo. Perciò questa variegata raccolta di voci provenienti da
tutto il mondo risulta quasi un coro, per lo più femminile, che
diviene infine Voce unica a lamentare, gridare, denunciare ciò che
non va nel rapporto con i nostri uomini; e a incitare ad un
cambiamento di atteggiamenti sostanziale e positivo per tutti:
"Tu, maschio,
che vivi solo di te stesso -
non uomo,
solo maschio!
Assente,
nella tua presenza.
Debole
Nella tua arroganza
che credi forza.
Nonè così
che immaginavo
il nostro futuro insieme:.." (Coro di donne)
Carmen Lama ha il merito grande di aver puntato il dito
sull'incomunicabilità delle anime (per me energia vitale,
proveniente dall'inconscio) che porta alla violenza del silenzio e
alla disconferma del proprio valore, con conseguente rinuncia alle
proprie aspirazioni, sacrificio di sé, esaurimento della forza
vitale e depressione. Perché non si può essere sereni se vengono
meno le speranze. "Solitudine, tristezza, malinconia, angoscia"
possono far implodere l'anima e annientare:
"Il loro peso
di piombo
non mi permette
di volare…" (Il tempo della gioia)
"…Signore,
ti prego,
non tradire le speranze
non illudere i sognatori
non deludere gli amanti
della Vita
come hai fatto
con me" (Ascoltando Chopin)
"…E non gli resta nulla.
Era l'ultimo appiglio
ma non se ne cura
non reagisce più -
Povero cuore
a brandelli!..." (È lì)
"…Le parole sono fuoco.
Prova a verificare
la condizione e il prezzo
da pagare
se tieni una bomba
-innescata- dentro l'anima!" (Pazzia?)
"Il mio sentire
giace
in una bara bianca.
L'anima bambina
muore
ogni giorno di più." (Il mio sentire)
"…la mia esistenza
non vale niente." (Volo, di sera)
"Non sono niente
per nessuno.
Mai nessuno
Che m'abbia detto:
ti voglio bene
perché ci sei,
perché sei come sei." (Mai nessuno)
"Stare con le persiane chiuse tutto il giorno
quando fuori c'è il sole
che a cascate riempie di calore
e di luce primordiale
il prato, il cielo, il mare…" (Aspetterò tempi migliori)
La donna, per essere felice, ha bisogno soprattutto di attenzione,
comprensione, dialogo:
"Non voglio ricordi,
voglio attenzioni -
tenerezze - sempre -
qui e ora…" (Ricordare)
Non ti ho sognato,
amore,
questa notte,
perché il mio mondo
è pieno di te
da sempre.
La differenza
tra i due mondi
è questa. E io per te
ci sono solo quando…
…poi
non esisto più. (Non ti ho sognato)
Ho citato solo alcuni versi, ma l'intera raccoltaè cosparsa di
versi simili, in cui la donna chiede di non essere ingabbiata e
appiattita in un ruolo, ma compresa nella sua globalità di essere
umano unico e irripetibile (come in Synaham).
Lo stile di Carmenè funzionale ad una poesia di denuncia sociale ed
è caratterizzato per lo più dal verso breve, dalla parola chiara,
semplice, immediata, vibrante di protesta; ritmato da consonanze,
assonanze, allitterazioni; talvolta arricchito da metafore o
allegorie e spesso da efficaci chiuse sferzanti, di grande effetto
espressionistico. Mancano quasi del tutto i temi della natura e
dell'eros; quello che interessa all'autriceè il dialogo interiore
della donna con la propria "anima" e con l'"altra metà del cielo",
che disattende sempre le sue più intime aspettative. Si percepisce,
l'inerzia, il buio, il freddo; il bisogno vitale di Amore e la
triste scoperta dell'ambiguità e imprendibilità di questa " favola
bella che ieri m'illuse, che oggi t'illude, o Ermione" (come diceva
D'Annunzio):
Tormento d'amore
(wicer)
L'amore, quello vero,
se esiste,
dev'essere un gigante.
E tra i giganti, il Re.
Tutto MAIUSCOLO.
Di nobile lignaggio.
Sempre scortato
da damigelle e paggi:
quali l'Intensità, l'Infinito,
l'Eterno presente,
il Desiderio,
che più s'esaudisce
più a dismisura cresce.
E poi l'Unicità
E l'Appartenenza,
perché no!?
Posso testimoniare
Che l'ho sperimentato
Questo AMORE.
E un bel nome ho anche dato
A sua Maestà: l'ho chiamato
INFINITO.
Ché mi sembrava
Il nome più appropriato.
Ma non ho mai compreso
come funzioni
la freccia di Cupido:
se solo un cuore
s'impegna di trafiggere
e l'altro anestetizza
che amore strano crea?
Forse
bisogna accontentarsi
di amare e basta,
senza ritorno alcuno?
Se così fosse
che lo si sappia almeno.
Semplicemente.
Per non disperarsi.
E gli si cambi nome,
per favore!
Lo si chiami Re invisibile.
O soltanto
Batterio microscopico.
O ancora meglio,
signor Nulla.
Esplicitaè anche la denuncia dell'ansia provocata dal sovraccarico
di responsabilità, delegate troppo spesso ancora a noi donne, come
quella educativa nei confronti dei figli:
Si paga
Un attimo di distrazione
verso i nostri figli
si paga
con brucianti sensi di colpa
che accendono incubi atroci
e annientano l'anima.
Da questa morte
non si risorge.
In tanto sperdimento di speranze disattese e pesanti responsabilità,
la strada per uscire dalla paralisi emotiva, la troviamo nell'ultima
poesia della raccolta, e appare come una indicazione alla donna (ma
anche a tutti gli esseri umani) di cercare nella propria storia quei
"minimi bagliori" vitali che diano la forza per esprimersi:
Spieghettare la vita
Spieghettare la vita
scorgerne minimi bagliori
farsi di questi
nodi stretti al cuore
per non lasciarli
mai spegnere
o sparire.
E quando il vento
spira forte - mancino -
e ti sconquassa l'anima
rifugiati nelle asole
del tuo silenzio fido.
Riaccendi quei bagliori -
ché ne rischiarino il buio
immeritato
e alle trombe dai fiato.
Si esce dalla lettura del libro, carichi dell'infelicità provocata
dalla mancanza di intesa, comprensione, dialogo, rispetto e
accettazione tra i sessi.
L'autrice ha raggiunto il suo scopo principale: lasciare impresso
nell'immaginazione dei lettori il senso di profonda tristezza di
molte donne, perché si cerchi di modificare in meglio la situazione.
Sono poesie che pongono l'enfasi sul disagio esistenziale e
riguardano tutti noi, per cui, più che fermarti ad apprezzarle dal
punto di vista estetico, ti stimolano a specchiartici e a dialogarci
per modificare anche i tuoi atteggiamenti; in questo senso sono
poesie psico-filosofiche.
Personalmente, durante la lettura, ho sentito il bisogno di
ripercorrere le tappe legislative che hanno portato la donna
italiana alla parità giuridica con l'uomo (vedi in nota), per
cercare di capire meglio cosa ciè successo. E, ripercorrendo la
storia di questa faticosa e contrastata conquista dell'uguaglianza
giuridica, in un primo tempo, miè venuto da concludere
ottimisticamente che le nostre leggi, liberando la donna
dall'asservimento, offrono, oggettivamente, la possibilità ai
singoli individui di scegliere il loro bene in piena libertà di
coscienza e senso di responsabilità.
Però, riflettendo meglio, ho dovuto considerare che queste leggi
sono state approvate solo da una maggioranza risicata di popolo e
che esiste ancora una parte nutrita di italiani/e maschilisti/e,
anche sotto mentite spoglie; a volte pure spoglie inconsapevoli. E
di uomini ("maschi", direbbe Carmen) misogini.
La liberazione femminileè un fenomeno così recente e così
inusitato, rispetto all'intera storia dell'umanità, che, temo, dovrà
passare moltissimo tempo prima che psicologicamente donne e uomini
si assestino serenamente su questa nuova realtà.
La tensione etica ispiratrice delle leggi della seconda metà del
Novecento, oggi, più che consolidata, sembra spenta e ovunque si
percepisce il rischio di un ritorno istintivo alla sopraffazione
dell'uomo sulla donna. (Vedi la proposta di Legge sul Femminicidio,
come strumento legislativo di difesa).
Le donne non possono e non devono abbassare la guardia. La
liberazione, anche oggi, passa soprattutto attraverso l'autonomia
che dà un lavoro e quindi un reddito proprio, e la forza di
relazionarsi con l'uomo alla pari, analizzando, oltre al
comportamento maschile, anche il proprio, per rendersi coscienti dei
potenti archetipi stratificatisi in migliaia di anni nell'animus
femminile
(tra i più importanti le figure di Maria, di Eva e quella del magico
principe azzurro).
In questo senso la lettura di Prigioniere del silenzio (oltre a
farsi apprezzare nella sua essenza poetica)è senz'altro di grande
aiuto: alle donne per riflettere sulle loro piccole/grandi verità,
agli uomini per conoscere meglio la sensibilità femminile e imparare
a rapportarvisi.
CONQUISTA DELL'UGUAGLIANZA GIURIDICA DELLA DONNA IN ITALIA
1946- DIRITTO DI VOTO
1948- ART. 3 della COSTITUZIONE
1 dicembre 1970 - Legge 898 (istituzione del DIVORZIO)
12/maggio/1974 referendum abrogativo del divorzio. La legge NON
viene abrogata.
Successive modifiche L. 436/1978; L. 74/1987
L. 151/1975. NUOVO DIRITTO DI FAMIGLIA - Abolisce la figura del
capofamiglia e la donna e l'uomo hanno pari diritti doveri.
Legge 22/5/1978 n.104- INTERRUZIONE VOLONTARIA DELLA GRAVIDANZA,
ratificata dalla consultazione referendaria del 1981.
2011- Legge sulle QUOTE ROSA:
La legge prescrive che a partire dal 2012 i Cda delle aziende
quotate e delle società a partecipazione pubblica dovranno essere
composti per un quinto da donne. Dal 2015 la quota rosa dovrà salire
a un terzo.?
(1) Per l'origine della Manifestazione Internazionale della Donna
consiglio di leggere la pagina di Wikipedia perché, supportata da
una buona bibliografia, ci chiarisce come sia nata e si sia diffusa,
sfatando la leggenda che l'accompagna.
Franca Canapini 14/3/2013
Marco Polo
di Maria Bellonci
R.C.S. Libri S.p.A.
Biografia
Collana BUR Scrittori Contemporanei
Un viaggio affascinante
Come certamente noto Il Milioneè un saggio biografico
scritto da Rustichello da Pisa sotto dettatura di Marco Polo
allorché entrambi, presumibilmente nel 1298, si trovavano
prigionieri di guerra dei genovesi.
Vi si descrive il viaggio nel lontano oriente compiuto dalla
famiglia mercantile veneziana dei Polo (Marco appunto, il padre
Niccolò e lo zio Matteo), un itinerario che appassionò subito i
lettori del XIII secolo e che ancor oggi affascina.
Stupisce anche l’interesse al riguardo di Maria Bellonci, legata
com’è stata al Rinascimento italiano e alla vita di corti ben
diverse da quelle che si trovano nel Milione, ma forse lo stupore ha
una spiegazione nell’ascendente che questo libro ha sempre
manifestato nei lettori. Quel mondo quasi sconosciuto, così diverso
dall’Italia medievale, quegli spazi infiniti, un grandissimo sovrano
come Kublai Khan, autentico signore e padrone di quel mondo sono
aspetti che giustificano ampiamente il successo di quel libro, fonte
di ispirazioni di altri testi successivi, come Le città
invisibili di Italo Calvino.
In questo Marco Polo Maria Bellonci rilegge
quest’opera e ci racconta, con il suo ineguagliabile stile, questo
viaggio avventuroso nell’impero del Gran Khan, partendo appunto dal
momento in cui Marco Polo, prigioniero dei genovesi dopo la
sfortunata battaglia di Curzola, detta questa sua esperienza a un
altro detenuto, Rustichello da Pisa. E se Il Milione ha una
nascita alquanto originale, altrettanto si potrebbe dire di questo
libro della Bellonci; infatti l’origineè una sceneggiatura per il
Marco Polo televisivo, trasmesso a puntate nel 1982; da
questo lavoro in funzione del piccolo schermo la scrittrice
piemontese ha tratto appunto il suo Marco Polo.
Indubbiamente diverso dai suoi testi famosi, quali Lucrezia
Borgia, Segreti dei Gonzaga e Rinascimento privato,
mantiene tuttavia il rigore di una biografia strettamente attinente
alla vita del protagonista, con una felice trasposizione narrativa
che rende il tutto assai più scorrevole e di grande gradimento da
parte del lettore.
Senza essere didascalico,è caratterizzato dalla capacità di
lasciare alla fantasia di chi legge immaginare, vedere con i propri
occhi ciò che opportune e mai troppe indicazioni rendono possibile.
Certo non ci troviamo di fronte a personaggi come Lucrezia Borgia o
Isabella d’Este, ma quel mondo lontano, che solo da non molto tempo
ci sembra più vicino, rivive in un’aureola di meraviglia e mistero
che non sgomenta, ma attrae irresistibilmente. Il palazzo estivo di
Kublai Khan, costituito da una miriade di tende, l’incontro con i
Lama del Pamir e con i mitici pescatori di balene, il rito del
matrimonio tra bambini morti emergono da queste pagine, si offrono
prepotentemente per farci capire un mondo che all’epoca appariva
talmente lontano dall’occidente da essere considerato inabitabile e
inabitato, e invece anche là si nasceva, si viveva, ci si amava, si
combatteva e si moriva, né più né meno come in ogni angolo di questa
terra, a ogni latitudine, in ogni epoca. Se la distanza geografica
era immensa, Marco Polo fece sentire vicini gli abitanti di quelle
terre lontane e Maria Bellonci ha saputo, in questa sua
trascrizione, mantenere lo spirito dell’esploratore veneziano, la
cui presenza, pur se discreta,è quella di un uomo che vuole
conoscere, desidera sapere,è pronto a tendere un mano per innalzare
un ponte ideale fra Occidente e Oriente.
Da leggere, senza dubbio.
Maria Bellonci, di origini
piemontesi, nacque a Roma nel 1902 ed esordì nel 1939 con
Lucrezia Borgia, che vinse il premio Viareggio. Insieme al
marito Goffredo diede vita nel 1947 al premio Strega. Tra i suoi
libri: Segreti dei Gonzaga, Pubblici segreti, Tu,
vipera gentile, Marco Polo. Rinascimento privato
esce nel 1985, l'anno precedente la morte dell'autrice.
Renzo Montagnoli
8/3/2013
Ricostruire la democrazia
La “tela di Penelope” delle riforme elettorali
di Giorgio Galli e
Daniele Vittorio Comero
Edizioni Solfanelli
www.edizionisolfanelli.it
Saggistica politica
Collana Intervento
La democraziaè una chimera
Che nel nostro paese esista la democrazia sta
scritto solo nella Costituzione poiché nella realtà questa non
esiste e quanto più la si invoca e la si richiama tanto più la si
allontana. Se nonè certo pensabile una democrazia come quella
ateniese, frutto di volta in volta dell’incontro della volontà di
tutti i cittadini, tuttaviaè in forza del sistema elettorale che
può essere o meno avvicinata, senza che mai ci sia la possibilità di
realizzarla completamente. Con il sistema proporzionale, senza
correzioni se non l’introduzione di una soglia di sbarramento per
evitare un’eccessiva frammentazione, c’era la certezza che la quasi
totalità delle idee e dei movimenti ad esse riconducibili potessero
trovare una loro rappresentanza in parlamento, cheè l’unica fonte
del potere legislativo, mentre il governo neè dipendente, in quanto
svolge costituzionalmente una funzione esecutiva. Nel tempo, però,
il potere dei cittadini elettoriè sempre stato più ridotto con
modifiche alle leggi elettorali volte a privilegiare uno status
quo della classe politica, ovviamente in danno dei mandanti,
ridotti al semplice ruolo di soggetti ininfluenti, impossibilitati a
cambiare una situazione, né più né meno come accade in regimi
dittatoriali in cui le elezioni hanno funzioni di mera apparenza.
L’introduzione del mattarellum e poi del nefasto porcellum,
in base al quale si sono tenute anche le recenti votazioni, ha di
fatto spossessato l’elettore del suo potere di scelta, tanto che non
esistono opzioni volte a privilegiare i candidati, di fatto imposti
dalla logica dei partiti che lasciano l’unica possibilità di
scegliere quella o quell’altra coalizione. Se vi sembra poca cosa,
dico solo che siamo tornati indietro di un secolo e mezzo, all’epoca
degli statuti monarchici che, rappresentando mere concessioni dei
sovrani, di fatto impedivano al popolo di incidere sulla conduzione
dello stato.
Ricostruire la democrazia, questo libro di un
centinaio di pagine, ha come scopo appunto di evidenziare quanto
ormai siamo lontani dal concetto di democrazia, prendendo in esame i
sistemi elettorali passati e quello vigente, nonché le proposte di
modifica dello stesso, invocate a gran voce dai vari partiti e
sempre rinviate, perché il porcellum rappresenta l’optimum
per chi vuole mantenere inalterato il proprio potere, con effetti
però anche nefasti, poiché, come accaduto per le recenti elezioni,
il diverso e opinabilissimo sistema del premio di maggioranza per la
Camera e il Senato porta di fatto a una difficile e spesso
impossibile governabilità.
Nel 1993 Gianfranco Miglio sosteneva che bisognava temere chi vuole:
<<… prevedere prima delle elezioni le maggioranze e quindi i
risultati delle elezioni. Non ho trovato mai qualcosa di più
profondamente antidemocratico di questo modo di pensare. Questo
intendersi prima come si andrà d’accordo. L’essenza del sistema
rappresentativo sta nella non prevedibilità dei risultati. Il
carattere moralizzatore dei giudizio dei cittadini riposa proprio
sulla sua non-prevedibilità. Chi deve governare, edè portato a un
certo punto a compiere degli atti illegittimi o comunque illeciti
moralmente, deve sapere che c’è un giudice che tace, non si esprime,
ma che al momento del voto si farà sentire. Questaè l’essenza della
democrazia.>>.
E la risposta fu Miglio estromesso dal governo, nuova legge
elettorale con il tatarellum solo per le regioni, per
approdare infine a quella porcata cheè proprio il porcellum
che pone l’elettore di fronte a un quadro già prestabilito,
togliendogli così possibilità di intervenire per incidere sulle
future scelte, riducendolo di fatto a un organo consultivo.
Ma visti i malumori che salgono sempre più forti dal basso e che si
sono concretizzati nel voto di protesta al Movimento 5 Stelle,
maggioranza e opposizioneè da un po’ che parlano di adottare una
nuova legge elettorale, con proposte che come la tela di Penelope
vengono portate avanti di giorno e disfatte di notte, e in ogni caso
con arzigogolamenti volti a mantenere lo status quo.
Ce n’è quindi abbastanza per sentirsi, scusate il termine, mazziati
e cornuti, una situazione che non esito a definire incresciosa e che
all’indomani dei risultati elettorali, dove nessuna dichiara mai di
aver perso, gli unici autentici sconfitti sono solo gli elettori.
E’ da leggere questo libro, per capire, anche per arrabbiarsi, ma
soprattutto per avere coscienza di quanto del nostro potere ciè
stato tolto, in pratica tutto.
Giorgio Galli, già docente di
Storia delle dottrine politiche presso l’Università degli Studi di
Milano,è uno dei maggiori politologi italiani. La sua produzione di
storicoè orientata prevalentemente alla storia contemporanea
italiana, in particolare al Secondo Dopoguerra. Tra i primi successi
Il bipartitismo imperfetto. Comunisti e Democristiani in Italia
(Il Mulino, Bologna 1966). Oltre a classiche indagini di scienza
politica, incentrate soprattutto sulla recente storia politica
italiana, come Storia del partito armato (Rizzoli, Milano
1986), Storia dei partiti politici europei (Rizzoli, Milano
1990), I partiti politici italiani (Rizzoli, Milano 1991),
Mezzo secolo di Dc (Rizzoli, Milano 1993), Affari di Stato
(Kaos Edizioni, Milano 1991), Piombo Rosso (Baldini Castoldi
Dalai, Milano 2004), Pensiero Politico Occidentale. Storia e
Prospettive (Baldini Castoldi Dalai, Milano 2010) e a un’intensa
attività di commento giornalistico svolta in varie sedi e in
particolare attraverso il settimanale “Panorama”, Galli ha
intrapreso ricerche più complesse e originali sull’intreccio fra
vicende e dottrine storico-politiche e una serie di tradizioni e
culture che il moderno ha più o meno relegato nel grande contenitore
dell’irrazionale o del pre-razionale.
Dopo il grande affresco storico dell’Occidente misterioso di
Baccanti, gnostici, streghe, i vinti della storia e la loro eredità
(Rizzoli, Milano 1987), ripubblicato aggiornato col titolo
Cromwell e Afrodite. Democrazia e culture alternative (Kaos
Edizioni, Milano 1995), Giorgio Galli ha prodotto lavori più
delimitati ma non meno suggestivi come Hitler e il nazismo
magico. Le componenti esoteriche del Reich millenario (Rizzoli,
Milano 1989), Politica ed esoterismo alle soglie del 2000
(con Rudy Stauder, Rizzoli, Milano 1992), Le coincidenze
significative. Dalla politologia alla sincronicità (Solfanelli,
Chieti 1992), Noi e le stelle. L’astrologia verso il 2000 nelle
lettere ad “Astra” (con Rudy Stauder, Rizzoli, Milano 1994),
La politica e i maghi. Da Richelieu a Clinton (Rizzoli, Milano
1995), fino ad Alba magica. Le elezioni italiane e il New Age
della scienza politica (con Giuliano Boaretto, Edizioni della
Lisca, Milano 1996), a La Magia e il Potere. L’esoterismo nella
politica occidentale (Lindau, Torino 2004) e Esoterismo e
politica (Rubbettino, Soveria Mannelli 2010).
Sempre dedicati alle storie dei principali partiti politici,
segnaliamo Storia della DC (Kaos Edizioni, Milano 2007), e
Storia del socialismo italiano (Baldini Castoldi Dalai, Milano
2007). Di recente pubblicazione La svastica e le streghe.
Intervista sul Terzo Reich, la magia e le culture rimosse
dell’Occidente (Hobby & Work, Milano 2009), e Pasolini.
Comunista dissidente (Kaos Edizioni, Milano 2010).
Daniele Vittorio Comero
esperto
elettorale, da molti anni membro del Comitato scientifico della
Società Italiana di Studi Elettorali - SISE. Laureato in Scienze
Politiche all’Università Statale di Milano, diplomato in Statistica
all’Università Cattolica di Milano, lavora presso l’Osservatorio
Elettorale a Milano, si occupa anche di statistica
socio-demografica.
Giornalista pubblicista, direttore del periodico “Civica”, ha
collaborato con i periodici: “Notizia Oggi”, “Italia Magazine” e
“Tradizione”. Ha inoltre pubblicato: Partititi storici e nuove
formazioni, con Giorgio Galli (Franco Angeli, Milano 1992),
Il modello dell’Elezione diretta, con Giovanni Mottola (Prometheus,
Milano 1998), Milano al voto, con Giancarlo Rovati (Prometheus,
Milano 1999), La Macchina Elettorale (Civica, Milano 20022),
Modello Grande Milano (Civica, Milano 2004).
Membro delle missioni internazionali in Russia in occasione delle
elezioni presidenziali (1991 e 1996). Relatore in numerosi convegni,
in ultimo al Consiglio regionale del Piemonte sui sistemi elettorali
per il Parlamento (2011).
Renzo Montagnoli
Andrea Camilleri
Il tuttomio
Ed.
Mondadori gennaio 2013
Romanzo
Di rosso sangue si tinge l’ultimo noir di Camilleri!
Dies irae
per l’incauto lettore che ha comprato e letto il libro!
Ancora una figura femminile, al centro della storia
di
Iltuttomio,
romanzo scritto in una lingua italiana controllata,
formale, senza sbavature e piuttosto fredda ed impersonale.
Se non si sapesse cheè stata scritta da
Camilleri questa vicenda, si penserebbe ad un autore anonimo, non
ben identificato. Merito allo scrittore che si cimenta in svariati
generi letterari, ma la dimensione del romanzo borghese tout court
nonè, a mio modesto parere, un suo valore aggiunto.
Più che la trama, un cesello di parti diverse (A.C.nella
nota finale parla di tessere per
comporre il mosaico femminile) in cui si combinano (o
scombinano?) elementi psicologici, cronaca nera in salsa anni 50/60
e altro non ben decifrabile,è lo stile che lascia perplessi.
La linguaè usata senza fantasia e scardinamenti che fanno la
differenza, la sintassi paratattica dà stilisticamente un ritmo
monocorde e piatto. Già in Il
tailleur grigio e in
Un sabato, con gli
amici…Camilleri aveva tentato la carta del dramma borghese,
disegnando donne manieristiche, con basico scavo interiore, così
cartonate da apparire finte e senza anima. Belle di quella
perfezione fumettistica e poco credibile, motivate da traumi o manie
devianti, specchi fedeli di manuali psichiatrici, da
risultare donne finte e improponibili.
Modelli femminili da riviste patinate, ma sporcate da recessi
retroattivi. In questo stereotipato quadro muliebre il
titolo Il
tuttomio,è l’antro segreto
in cui si rifugiano le malefatte di Arianna, una sorta di
nomen omen…
il labirinto…Teseo…il Minotauro.è una giovane di trentatré anni,
sposata ad un uomo più vecchio e con difficoltà sessuali, dotata di
bellezza rovinosa, segnata da esperienze che ne hanno frantumato
l’essere: una donna a segmenti, un assemblaggio difficile da
ricomporre dietro la facciata del perbenismo e della solidità
economica conquistata. Gli uomini che compaiono nella sua vita sono
artefici del suo destino o marionette nelle sue mani; Arianna nelle
intenzioni dell’autore dovrebbe apparire quel tipo di donna che
irradia seduzione, ammalia e brama sesso
compulsivo e selvaggio, misto ad un’innocenza fanciullesca,
quasi disarmante, ma questo mix mal si concilia con il quadro
d’insieme. Insomma, Arianna risulta un
personaggio cartaceo insulso, le sue voglie così prevedibili che il
lettore, presumo io, o a mio avviso, non solo non aderisce ad esso,
ma se ne ritrae prendendone le distanze: questo non vuol dire cheè
un personaggio negativo, e come tale rende l’idea, nonè così:è
solo stampato sulle pagine come un disegno di linee senza profondità
prospettiche. Io, come migliaia e migliaia di
altri lettori, amo Camilleri e leggo indiscriminatamente
quasi tutto quello che produce, ma questo suo lavoro lo trovo
irritante, brutto e inutile da leggere. Dies
irae lectoris!
Non voglio essere blasfema,
ma il Maestro ci ha abituati a
tutt’altra letteratura e si sa che le
abitudini sono vizi perniciosi ai quali siamo abbarbicati e a volte
invece di essere indulgenti verso chi si stima e si ammira, siè
intransigenti e si pretende il meglio.
Io non sono una critica professionista o blasonata e la mia
stroncatura non avrà nessun valore, ma la libertà
di espressioneè un diritto inalienabile.
Arcangela
Cammalleri
3/3/2013
Rinascimento privato
di Maria Bellonci
In copertina: Bronzino Ritratto di Eleonora da Toledo con il figlio
Giovanni (part.) Firenze Galleria degli Uffizi
Arnoldo Mondadori
Editore
Narrativa romanzo
Collana Oscar classici moderni
Isabella e
Maria
“ Ho scoperto che la mia condizione di donna nonè predominante in
assoluto e non m’impedisce di diventare un essere compiuto, purché
io non sia ingannata da me stessa. Ho imparato a vivere senza
freddezze e senza spasimi non rinunciando perç alla ribellione e
all’insorgere dei sentimenti.
Né diminuisce la mia facoltà di rendermi ragione. Ecco perché,
vanitosa come sono sia pure temperatamente, non mi ha fatto
vacillare lo scritto satirico di un uomo traditore del suo
intelletto, Pietro Aretino, che non avendo mai avuto da me denaro o
doni, mi ha accusato di essere vecchia con i denti falsi e il viso
imbellettato. Certo, sono tutte cose vere che ad una ad una hanno
aiutato la natura quando siè allontanata da me la giovinezza.”
È l’anno 1985
allorché viene pubblicato Rinascimento privato,
l’unico autentico romanzo storico di Maria Bellonci, un’opera
grandiosa, frutto di un lavoro durato una ventina d’anni e ultimato
appena in tempo (l’autrice infatti verrà a mancare nel 1986). A
differenza di altri suoi libri, particolari in quanto trattasi di
storia narrata, qui invece troviamo un fervido sviluppo della
fantasia, una grande capacità di spaziare pur ancorandosi agli
autentici fatti accaduti, in poche parole una rilevante e
insospettabile creatività.
Si tratta di una autobiografia immaginaria di Isabella d’Este,
personaggio di primo piano in epoca rinascimentale, donna di grande
intelligenza, dotata di un naturale istinto politico, quanto mai
indispensabile in un’epoca turbolenta che vedeva il territorio
italiano meta di conquiste straniere. Sposa a soli sedici anni di
Francesco Gonzaga diventa così la marchesana di Mantova, un ruolo
apparentemente di secondo piano, per una che era figlia di una
regina e sorella del duca Alfonso d’Este.
La sua abilità fu tale che non solo riuscì a conservare
l’indipendenza del piccolo marchesato, ma ottenne anche di poterlo
elevare al superiore rango di ducato. La sua corte fu una delle più
colte dell’epoca, animata da artisti di grande valore che lì
trovarono le porte aperte e la più ampia libertà di espressione,
tanto che si potrebbe dire che, se oggi Mantovaè considerata una
delle più importanti città d’arte italiane, il meritoè soprattutto
di Isabella d’Este.
La sua vita vide lo sgretolarsi delle speranze italiane di un’unità
nazionale, anzi il nostro suolo divenne spesso terreno di contesa di
Spagna e Francia, con gli inevitabili lutti e rovine. Eppure,
Isabella e la sua corte restarono un faro unico e splendente in un
‘Europa in ebollizione, un luogo di pace circondato da guerre.
Il personaggio e l’epoca quindi non potevano non destare l’interesse
di Maria Bellonci, che già molto aveva appreso durante la
preparazione di Lucrezia Borgia.
Lungi dal volerne scrivere una biografia - che pure sarebbe
risultata di notevole impatto storico-letterario, ma forse un po’
greve, data l’ampiezza del periodo e l’invero rilevante numero degli
accadimenti - l’autrice ha inteso conservare, pur nel più scrupoloso
rispetto di quanto effettivamente avvenuto, una certa autonomia,
immaginando che sia Isabella d’Este che parli di sé, tanto che il
romanzo inizia e termina nel 1533 nella Stanza degli orologi, decine
di congegni meccanici amati dalla marchesana, a scandire un tempo
mai uguale.
E’ lei che, ormai quasi alla fine del viale del tramonto (morirà
nel 1539), ritorna con la mente indietro negli anni, ripercorre la
sua vita, ci porta per mano dentro la storia complessa di un’epoca.
Il linguaggio usatoè moderno, ma impreziosito da una certa patina
d’antico, dal ricorso, non frequente peraltro, a termini allora di
moda e oggi ormai desueti, in un mirabile equilibrio che non solo
non stanca il lettore, ma lo avvince sempre di più.
E poi c’è un’autentica chicca, un’invenzione geniale, cheè
rappresentata dalle lettere (che non sono mai esistite) che un
ecclesiastico inglese, Robert de la Pole, invia a Isabella, lettere
a cui lei mai risponde.
Perché sono così importanti? Per due semplici, ma notevoli motivi:
l’amore platonico del mittente serve a mostrarci un’Isabella
dapprima risentita, poi sempre più interessata, per un segreto che
nonè di stato, ma solo suo, per un’amicizia che nonè amore, maè
sempre di più un affetto che finirà con il divenire reciproco; in
tal modo Maria Bellonci completa la descrizione di un personaggio
regale, austero, ma anche dotato di una notevole intima sensibilità,
una donna insomma a cui grazia e di femminilità non mancano di
certo. L’altro motivoè costituito dal fatto che in tal modo veniamo
a conoscenza di fatti importanti dell’epoca che non hanno magari
toccato direttamente Isabella e di cui lei non avrebbe potuto
raccontare, il che nonè poco, perché così si ha una visione
generale pregna di un’oggettività che arricchisce le vicende
storiche della marchesana, integrandole, mostrandocele da un punto
di vista diverso, da un orizzonte più ampio.
Per le opere precedenti di Maria Bellonci non ho lesinato gli elogi,
tutti meritatissimi, considerandole dei veri e propri capolavori, e
mi trovo ora in difficoltà a giudicare un lavoro la cui qualità va
oltre l’immaginabile, perché, libera di sviluppare la propria
creatività, l’autrice ha profuso tutte le sue energie e le sue
eccelse qualità in un ritratto di una donna in cuiè presumibile
cercasse dei punti di contatto. I frequenti ritrovi della marchesana
con gli amici letterati ricordano un po’ gli incontri della domenica
in casa Bellonci e nonè forse un caso se le affermazioni di Maria
e Isabella vengono anche a coincidere. Entrambe donne sono riuscite
a entrare nella storia, a essere ricordate più dei loro mariti, che
pure non erano certi degli sconosciuti. E la malinconia degli ultimi
anni di Isabella, ormai vedova, e di Maria, pure lei privata del
marito, accomuna idealmente i due personaggi, tanto che potrei
definire questo libro il testamento spirituale dell’autrice, che ha
saputo, in più di una pagina, trasmettere al lettore le vibrazioni
del suo cuore, ha dotato di un tocco magico e sublime le memorie di
una donna che procede lentamente verso il buio.
Rinascimento privatoè assolutamente imperdibile.
Maria Bellonci, di origini
piemontesi, nacque a Roma nel 1902 ed esordì nel 1939 con
Lucrezia Borgia, che vinse il premio Viareggio. Insieme al
marito Goffredo diede vita nel 1947 al premio Strega. Tra i suoi
libri: Segreti dei Gonzaga, Pubblici segreti, Tu,
vipera gentile, Marco Polo. Rinascimento privato
esce nel 1985, l'anno precedente la morte dell'autrice.
Renzo Montagnoli
21/2/2013
Silvinia
di Giuseppe Bonaviri
Introduzione di Sarah Zappulla Muscarà
Edizioni Bompiani
Narrativa romanzo
Collana Tascabili narrativa
Nullaè più presente del passato
Giuseppe Bonaviri, romanzo dopo romanzo, non
finisce di stupirmi, mai uguale pur nell’ambito di un itinerario
logico che ha accompagnato nel tempo la sua produzione. Se si parte
dalla prima opera, Il sarto della strada lunga, edito nel
1954, e che può essere considerata di stampo naturalistico, quasi
nel filone verghiano pur evidenziando a sprazzi quei riferimenti
onirici più accentuati in lavori successivi, e si procede nel tempo
si arriva a La divina foresta, del 1969, quasi un poema, la
cui scrittura immaginativa prende definitivamente corpo e svincola
da quello che può essere un’osservazione di stampo realistico per
confluire magmaticamente in una trascendenza delle cose, in
particolare della natura, le cui sensazioni, elaborate
inconsciamente e metabolizzate, si esplicitano in un fantasmagorico
caleidoscopio di immagini quasi surreali.
Negli anni successivi questi ricordi infantili, che con il
susseguirsi delle età dell’autore inevitabilmente sfumano, diventano
più sostanza del loro significato che figure, paesaggi e storie
relative. Poco a poco risultano il frutto di una proiezione onirica,
di un mondo lontano mescolato fra la fantasia di un bimbo e quella
più creativa di un adulto. E’ così che fioriscono metamorfosi e
allegorie, un segno distintivo dello scrittore di Mineo, sempre più
incline a mediare la realtà oggettiva con le soggettive sensazioni
della stessa.
Ed é questo anche il caso di Silvinia, romanzo pubblicato nel
1997, che rievoca la dolorosa epopea dei nostri emigranti, in
particolare di quelli siciliani, dall’Etna a Manhattan, alla ricerca
della piccola Silvinia. Leiè una fornaia che porta insieme ad altre
bimbe la farina in fornerie site in un vulcano spento, da cui escono
pani fragranti, che vengono riportati e distribuiti fra le genti
dell’isola. Sparisce, non si sa dove sia finita, tutti la cercano,
in particolare il padre fornaio Salvatore Casaccio che si reca
perfino in America, nel caso sia là (si noti che questiè un
personaggio reale, nonno materno di Giuseppe Bonaviri).
Il viaggio per mareè un’ulteriore occasione per dare sfogo alla
grande fantasia dell’autore con immagini che ricordano le
illustrazioni della Divina Commedia di Doré, o che rievocano
atmosfere melvilliane, in un crescendo proprio dell’opera sinfonica
che trova il suo naturale e definitivo acuto in una Manhattan
allegorica, brulicante di immigrati riuniti per commemorare il
quinto anniversario della scomparsa di Silvinia e dove il funerale
dello stesso Salvatore Casaccio assume una ridondanza creativa che
vede partecipi il sindaco Fiorello La Guardia, Charlie Chaplin che
veste i panni di Charlot, celebri protagonisti dei cartoni animati,
quali Paperino, la Bella addormentata e perfino un attore come James
Stewart, in un caos e una sarabanda infernali, che visivamente
possiamo ritrovare solo in certe pellicole di Federico Fellini.
La nozione di tempo viene ad essere così annullata, passato e
presente diventano un unicum e il corso della vitaè visto da un
adulto con gli occhi di un bambino. Nullaè dovuto al caso, siamo un
istante nell’eternità e il candore di quest’uomo lo spinge a
raccontare con altrettanta apertura d’animo una storia che può
essere vista come la metafora dell’esistenza, di quella inutile
ricerca di se stessi a cui mai si approda se non quando si lascia il
mondo.
Comunque le interpretazioni possono essere e probabilmente sono
molteplici, perché quel discorso della farina che diventa pane, per
poi essere distribuito, ricorda tanto l’eucaristia, qui forse vista
non sotto l’aspetto propriamente religioso, ma come partecipazione
di ognuno all’umanità a cui tutti dovrebbero dare per poter
ricevere, insomma al di là della fantasmagoria che balza agli occhi
ci sono messaggi ben più profondi, occasioni di riflessione, di
ritorni sulle pagine, di soste più o meno prolungate, in ogni caso
indifferibili, se si vuol cercare di entrare in sintonia con questo
grandissimo scrittore.
Giuseppe Bonaviriè nato a Mineo,
in Sicilia, nel 1924. Il suo primo romanzo Il sarto della
stradalunga apparve nel 1954 nella collana dei “Gettoni” diretta
da Elio Vittorini per Einaudi. Fra le sue opere di maggior rilievo:
Il fiume di pietra (1964), La divina foresta (1969),
Notti sull’altura (1971), Novelle saracene (1980),
Il dormiveglia (1988), Ghigò (1990), Il dottor Bilob
(1994), Il vicolo blu (2003), L’incredibile storia di un
cranio (2006). Nei tascabili Bompianiè uscito Silvinia
(2007), sempre a cura di Sarah Zappulla Muscarà.
Sarah Zappulla Muscarà,
ordinaria di Letteratura Italiana nell’Università di Catania e
incaricata di Letteratura Teatrale Italiana e di Storia e Critica
del Cinema, si occupa di narrativa, teatro e cinema tra Otto e
Novecento, di edizioni di testi e carteggi inediti. A sua cura sono
apparsi nei Tascabili Bompiani Tutto il teatro in dialetto di
Luigi Pirandello e Tutto il teatro di Stefano Pirandello (in
collaborazione con Enzo Zappulla), Giovannino, Un bellissimo
novembre, Gli ospiti di quel castello, Roma amara e dolce di
Ercole Patti, Un posto tranquillo di Enzo Marangolo,
Silvinia di Giuseppe Bonaviri.
Renzo Montagnoli
18/2/2013
Andrea Vitali
Regalo di nozze
2012
Ed.Garzanti
Romanzo
Al centro del romanzo Regalo di
nozze di
Andrea
Vitali è una Fiat 600,
bianca, evocatrice di quei mitici anni ’60 del boom economico, in
cui l’Italia per la prima volta usciva dalle anguste dimensioni
dell’Italietta
olografica e retorica precedente.
L’io narrante è il ventinovenne Ercole
Correnti che in quel di Como sta per sposarsi. Nel rivedere sul
lungolago una Fiat 600 bianca come quella
che 20 anni prima aveva comprato suo padre Amedeo, si lascia
pervadere dal ricordo di quella mitica gita con il padre, la madre
Assunta e lo zio Pinuccio, figura ineffabile di scapolo
trentottenne.
Siamo a Bellagio sul lago di Como dove
la famiglia Correnti trascorre la sua blanda routine, il
capofamiglia Amedeo prima impiegato al catasto di Como e poi
segretario notarile, la moglie casalinga e il figlioletto Ercole di
nove anni, a completare il quadretto c’è lo zio materno Pinuccio,
nato gagà, come soleva
dire la sorella. É consuetudine che lo zio Pinuccio ceni spesso a
casa di Ercole e racconti le sue doti
affabulatorie che tanto incantavano le
donne e millanti di essere un mediatore d'affari per i grandi
produttori di seta del comasco. Un
personaggio affascinante agli occhi ammirati del piccolo Ercole,
quel giorno della gita in cui per la prima volta sentirà l’odore del
mare indescrivibile a parole, come diceva
la sua maestra e vedrà in lontananza le onde splendenti di sole,
sarà un’avventura indimenticabile ed emozionante. Solo dopo
vent’anni e, casualmente da sua madre,
Ercole verrà a conoscenza dei retroscena
che si celavano dietro quel primo viaggio per lui in automobile.
L’utilitaria uno degli status simbol di
quegli anni costituirà per Ercole un totem della sua infanzia e il
tramite del suo legame e con il padre e con lo zio.
Vitali ci ha
abituati alle atmosfere brumose e lacustri, alla caligine estiva che
appesantisce i pensieri e rallenta le azioni, ad una sorta di
malinconia del tempo andato illustrato come una cartolina color
seppia. Nella tranquillità apparente della provincia serpeggia
un’inquietudine di fondo, ma velata e
implicita, senza clamori e impeti improvvisi. I suoi
racconti sembrano istantanee, dove il
tempoè fermo e i personaggi si muovono in retrospettiva, tutto
scorre come immagini proiettate su uno schermo. La realtàè come
assorbita da una luce ombrata, sfumata e quello che all’apparenza
sembra in superficie calmo, sottende
segreti o retroscene, ma non colpi di
scena che fanno sobbalzare il lettore. La scrittura piana e
riposante non risente degli urti degli eventi
narrati, nonè gravata da particolari o ingegnosi costrutti
sintattici. Scorre lieve e regolare come un fiume in pianura, non
c’è il pericolo di inciampare o di faticare per sentieri lessicali
impervi, chi legge ha l’impressione di seguire un percorso sicuro la
cui metaè certa. Lo stile calibrato, la chiarezza espressiva non
sono limiti artistici di un’opera letteraria, un genere letterario
di intrattenimento nonè un semplice
divertimento, intrattenere il lettoreè la forza trascinatrice di
uno scritto e questo libro intrattiene e piacevolmente.
Di Andrea Vitali
(Bellano 1956) nel catalogo
Garzanti sono presenti: Una
finestra vistalago (2003,
premio Grinzane Cavour 2004, sezione
narrativa, e premio letterario Bruno Gioffrè
2004), Un amore di zitella
(2004), La signorina Tecla Manzi
(2004, premio Dessì),
La figlia del podestà
(2005, premio Bancarella 2006),
Il procuratore (2006, premio
Montblanc per il romanzo giovane 1990),
Olive comprese (2006,
premio internazionale di letteratura Alda Merini, premio lettori
2011), Il segreto di
Ortelia (2007),
La modista (2008, premio
Ernest Hemingway),
Dopo lunga e penosa malattia
(2008), Almeno il cappello
(2009, premio Casanova; premio Procida Isola di Arturo Elsa Morante;
premio Campiello sezione giuria dei letterati; finalista al premio
Strega), Pianoforte vendesi
(2009), Il meccanico
Landru (2010),
La leggenda del morto contento
(2011), Zia
Antonia sapeva di menta (2011) e
Galeotto fu il collier
(2012).
Arcangela
Cammalleri
15/2/2013
Le campane di Bicêtre
di
Georges Simenon
Traduzione di Laura Frausin Guarino
Adelphi Edizioni
www.adelphi.it
Narrativa romanzo
Collana Biblioteca Adelphi
Uno sguardo all’indietro
Che Georges Simenon
sia un abile costruttore di trame gialle o noirè del tutto
scontato, così come sia notoria la sua capacità di non limitarsi
solo a un’accurata e logica descrizione della vicenda, ma sappia
andare in profondità sondando l’animo dei protagonisti e ricreando
mirabilmente atmosfere in cui il lettore ami immergersi.
Nonè invece così frequente il caso che l’autore di lingua francese
intraprenda un’altra via, diversa dal romanzo di genere, anzi se ne
discosti in modo evidente, di modo da essere considerato un
narratore a tutto campo, senza essere etichettato come un giallista,
attribuzione che peraltro, nel suo caso, non può e non deve
considerata restrittiva e dequalificante.
Simenon, infatti, ha l’ambizione di proporsi al pubblico anche come
scrittore di trame in cui le tensioni emotive proprie del poliziesco
vengono sostituite da vicende che sono il pretesto per un’analisi
approfondita dell’Io dei protagonisti.
è questo il caso di Le campane di Bicêtre, romanzo
piuttosto lungo (sono 261 pagine) che, nel toccare alcuni argomenti
cari all’autore ( l’ostentata apparenza della classe borghese)
intende rappresentare una presa di coscienza del personaggio
principale, tale René Maugras, direttore del più importante
quotidiano francese, ricco, potente, che vanta amicizie altolocate e
che all’improvviso vede stravolta la sua vita da un aneurisma che
gli provoca la paralisi della parte destra del suo corpo. Ricoverato
in un ospedale pubblico, anziché in una clinica privata, per poter
avere le migliori cure possibili, l’uomo, in quell’improvviso stato
di dipendenza da altri, nel tempo che trascorrere più lento, in
quanto i suoi ritmi sono necessariamente cambiati, provvede a un
progressivo esame della sua vita, stendendo un bilancio per nulla
soddisfacente.
Riscopre in lui, osservando gli
altri (vecchietti che sopravvivono nell’ospedale), un barlume di
umanità di cui non aveva più memoria, rivede come in una pellicola
cinematografica le sue umili origini, la lotta per arrivare al
successo, le donne di cui siè innamorato, ma che non ha saputo
amare, il tutto pressoché immobile in un letto, che assume le
caratteristiche di giaciglio della coscienza.
Sembra deciso a cambiare, a dare una svolta alla vita per recuperare
il tempo perduto, ma con i progressi della pur lenta e non
definitiva guarigione, con i contatti sempre più frequenti con quel
mondo che, quando stava male, lo disgustava, i buoni propositi
verranno meno.
E’ un romanzo ambizioso, in cui forse Simenon ha voluto
rappresentare metaforicamente se stesso, è un libro che assume il
carattere di una confessione per una colpa originale, possiamo dire
innata e che, per quanto contrastata, finisce con il ritornare.
Siamo fatti così edè inutile che cerchiamo di cambiarci sembra dire
Simenon. La vitaè un eterno contrasto fra ciò che siamo e ciò che
vorremmo essere, una tenzone da cui finiremo con l’uscire sempre
vinti e mai vincitori.
Lo stileè il solito di Simenon, misurato, sostenuto da un ritmo
lento, ma non piatto, che riesce ad avvincere il lettore, nonostante
le dimensioni dell’ambiente (una grigia camera d’ospedale), ritmo
che solo verso le ultime pagine accelera per giungere, forse un po’
bruscamente, all’ultima, un lieto fine, si potrebbe dire, se non
fosse per quel ritorno alla vita di prima che continuerà
inconsciamente a non soddisfare René Maugras.
E’ un ottimo romanzo, per quanto presenti appunto questa disarmonia
fra quasi tutto il corpo dello stesso e la parte finale, un
passaggio prevedibile, ma un po’ troppo brusco.
In ogni casoè senz’altro da leggere.
Georges Simenon,
nato a Liegi nel 1903, morto a Losanna nel 1989, ha lasciato
centonovantatre romanzi pubblicati sotto il suo nome e un numero
imprecisato di romanzi e racconti pubblicati sotto pseudonimi, oltre
a volumi di «dettature» e memorie. Il commissario Maigretè
protagonista di 75 romanzi e 28 racconti, tutti pubblicati fra il
1931 e il 1972. Celebre in tutto il mondo, innanzitutto per le
storie di Maigret, Simenonè anche, paradossalmente, un caso di
«scrittore per scrittori». Da Henry Miller a Jean Pauhlan, da
Faulkner a Cocteau, molti e disparati sono infatti gli autori che
hanno riconosciuto in lui un maestro. Tra questi, André Gide:
«Considero Simenon un grande romanziere, forse il più grande e il
più autentico che la letteratura francese abbia oggi»; Walter
Benjamin: «… leggo ogni nuovo romanzo di Simenon»; Louis-Ferdinand
Céline: «Ci sono scrittori che ammiro moltissimo: il Simenon dei
Pitard, per esempio, bisognerebbe parlarne tutti i giorni».
Le Centre d'études Georges Simenon et le Fonds Simenon de l'Université
de Liège si trovano all'indirizzo:
www.ulg.ac.be/libnet/simenon.htm.
Renzo Montagnoli
11/2/2013
Triplo
di Ken Follett
Traduzione di
Patrizia Aluffi
Mondadori Editore
Narrativa romanzo
Alta tensione
Se
mi dovessero chiedere qualè l’autore che attualmente più di ogni
altroè in grado di scrivere romanzi avventurosi e notevolmente
avvincenti, risponderei senza esitazione: Ken Follett. Infatti, ciò
che mi colpisce di più nel narratore galleseè la sua grande
creatività, che fa sì che non risulti mai ripetitivo, nonostante che
la sua produzione non sia limitata a poche opere.
Inoltre, c’è da rilevare il suo stile innegabile grazie al quale
riesce a confezionare storie spesso intricate senza mai essere
greve, anzi dimostrando una piacevole leggerezza che il lettore non
può che gradire, attribuendo a non pochi suoi romanzo la qualifica
di scritti d’evasione, buoni per passare il tempo sì
appassionandosi, ma senza per questo dover impegnare la mente oltre
misura. Se poi invece si desidera qualche cosa di più impegnativo e
che impone necessarie riflessioni, ci si può rivolgere ad altri suoi
lavori, fra i quali a mio avviso I pilastri della terraè il
più riuscito, raggiungendo livelli di assoluta eccellenza.
Quindi, una delle caratteristiche di Ken Follettè la poliedricità
che dimostra anche in questo Triplo, la cui trama può
essere definita ad alta tensione.
Ci
sono tutti gli ingredienti di una spy story avvincente: il reduce
dai campi di sterminio nazisti, cheè l’eroe di turno, i cattivi che
vogliono distruggere lo stato d’Israele, il carico di uranio di una
nave da rubare, tranelli, inseguimenti, continui colpi di scena, e
perfino, ciliegina sulla torta, una storia d’amore, il tutto
abilmente amalgamato, confezionato con la massima cura, insomma una
ghiottoneria per gli appassionati del genere. Non aggiungo altro,
perché sarebbe ingiusto anticipare troppo, mentreè invece più che
logico che sia il lettore a scoprire pagina dopo pagina la
piacevolezza di questo libro, che ha un solo limite, piccolo se
vogliamo, ma c’è edè dato dai troppi personaggi, una girandola di
nomi che a volte scombussola e complica le cose; inoltre un po’ più
di approfondimento del carattere dei protagonisti non sarebbe stato
superfluo, rendendo gli stessi più reali agli occhi di chi legge.
Comunque il risultatoè più che soddisfacente e quindi mi sento di
consigliarlo, soprattutto agli appassionati di questo genere e a chi
abbia bisogno di un po’ di svago, senza che vi sia la necessità di
impegnarsi troppo.
Ken Follett
è nato a Cardiff nel 1949 e vive a Londra. Laureatosi in filosofia
all'University College di Londra, ha lavorato come giornalista. La
sua straordinaria carriera di scrittore inizia nel 1978, con
l'exploit di La cruna dell'Ago.
Un successo mondiale hanno ottenuto anche
i successivi romanzi (tutti editi da Mondadori):
Triplo,
Il codice Rebecca, L'uomo di Pietroburgo, Sulle ali
delle aquile, Un letto di leoni, I pilastri della
terra, Notte sull'acqua, Una fortuna pericolosa,
Un luogo chiamato libertà, Il terzo gemello, Il
martello dell'Eden, Codice a zero, Le gazze ladre,
Il volo del calabrone, Nel bianco e Mondo senza
fine.
Nel 2010 La caduta dei giganti, primo romanzo della trilogia
"The Century",è stato a lungo al primo posto nelle principali
classifiche nel mondo. In Italia, tutti i suoi romanzi sono
pubblicati da Mondadori.
Sito web:
http://www.ken-follett.com/
Renzo Montagnoli
6/2/2013
Tempo di vivere, tempo di morire
di
Erich Maria Remarque
Arnoldo Mondadori Editore
Narrativa romanzo
Collana Oscar scrittori moderni
La riconquista della coscienza
Remarque, a
venticinque anni dalla pubblicazione del suo indiscutibile
capolavoro Niente di nuovo sul fronte occidentale,
ritorna al tema a lui più caro, la guerra, con Tempo di
vivere, tempo di morire.
Cambia il conflitto, non più la prima guerra mondiale, bensì la
seconda, ma qui la vita del fronte, quello orientale, appare quasi
marginale. Il romanzo inizia con un soldato tedesco (Ernst Graeber)
che sembra accettare malvolentieri una licenza di due settimane, che
trascorrerà a casa, ma questa non c’è più, distrutta dai
bombardamenti aerei, e non si trovano nemmenoi genitori, forse
deceduti a seguito della stessa incursione che ha demolito la sua
abitazione. Va alla loro ricerca, in compagnia di un commilitone,
pure lui in cerca della moglie dispersa. Sarà un viaggio dalla
portata più ampia della distanza percorsa, con un progressivo
risveglio della coscienza soggiogata dal nazismo, in ciò aiutato
anche da una ragazza che incontra casualmente, di cui si innamora e
che sposerà. La licenzaè breve, eppure in questo arco di tempo,
vengono meno le certezze, nascono interrogativi ai quali non riesce
a dare risposta e che troverà invece nel vecchio professor Pohlmann,
un insegnante di religione decisamente antinazista. Così, quando
tornerà al fronte, sarà un uomo diverso, il percorso di formazione
siè concluso ed Ernstè diventato un uomo libero di pensare e che
ora vede tutto diversamente. Ma ogni catarsi ha un costo e le colpe
del passato esigono la loro riparazione nel presente. Non aggiungo
altro, per non togliere al lettore il piacere del finale magistrale
di un romanzo stupendo, quasi al livello di Niente di nuovo
sul fronte occidentale.
Remarque, cheè sempre stato contro ogni guerra, loè anche qui, ma
non si limita a questo; luiè tedesco,è consapevole della colpa del
suo popolo per gli orrori del conflitto, per quelli dei campi di
sterminio, e l’angoscia di questa colpaè riversata nel romanzo, un
desiderio di capire lo sbaglio e di pagarne le conseguenze, affinché
nulla di quanto c’è da vergognarsi possa di nuovo accadere.
Tempo di vivere, tempo di morire é un libro che
avvince, che trascina e fa meditare, uno di quei romanzi che
giustamente si possono definire indimenticabili.
Erich Maria Remarque, pseudonimo
di Erich Paul Remark, nacque a Osnabruck il 22 giugno 1898 e morì a
Locarno il 25 settembre 1970.
E’ uno dei più grandi scrittori tedeschi, inviso al nazismo, al
punto che ne 1931 riparò in Svizzera e successivamente negli Stati
Uniti. Famoso per il suo celebre romanzo pacifista Niente di
nuovo sul fronte occidentale, pubblicò numerose opere di
narrativa, fra le quali Tre camerati, Arco di trionfo,
Tempo di vivere, tempo di morire, L’obelisco nero,
La via del ritorno, Il cielo non ha preferenze.
Renzo Montagnoli
2/2/2013
La strana giornata di Alexandre Dumas
di Rita Charbonnier
In copertina: Jean Baptiste Greuze,
Il cappello bianco, © Bridgeman / Archivi Alinari
Edizioni Piemme
www.edizpiemme.it
Narrativa romanzo storico
Chiappini o d’Orleans?
Dopo aver scritto di Nannerl Mozart, sorella del ben più noto
Amadeus, nel suo riuscitissimo La sorella di Mozart,
Rita Charbonnier ha pensato di cimentarsi con un altro personaggio
realmente esistito, tale Maria Stella Petronilla Chiappini (Modigliana,
16 aprile 1773 – Parigi, 23 dicembre 1843).
Ma se Nannerl era edè tutto sommato un personaggio conosciuto, chi
è mai questa signora romagnola?
Premetto subito che coloro che ne sanno qualcosa si dividono
immancabilmente in convinti assertori della sua storia, oppure in
fieri avversari, o anche, come nel mio caso, in scettici.
Questa signora non sarebbe stata la figlia dello sbirro Lorenzo
Chiappini e di Vincenza Diligenti, coniugi di umili condizioni,
bensì di Louis Philippe Joseph d’Orleans e di Louise Marie Adélaide
de Bourbon Penthièvre, di cui il primo era un discendente di Anna
d’Austria e la seconda di Luigi XIV, insomma il famoso re Sole.
Infatti, per ragioni dinastiche e proprietarie, Louis Phlippe aveva
bisogno di un figlio maschio, che la consorte, ancora una volta
incinta, non riusciva a dargli; dopo laborioso ricerche si trovò a
Modigliana, grazie alla collaborazione della contessa Camilla
Borghi-Biancoli, una gestante, così quando i due parti avvennero
pressoché in contemporanea (una vera e propria stranezza), il
maschio nato da Vincenza Diligenti fu sostituito con la femmina di
Louise Marie Adélaide, operazione effettuata dietro un generoso
compenso al Chiappini.
Poi, le vicende della vita fecero sì che il neonato, a cui fu
attribuito il nome di Luigi Filippo I, duca d’Orleans, diventasse re
dei francesi, e che invece la femmina, Maria Stella Petronilla
diventasse anch’ella nobile, grazie al matrimonio con un lord
inglese, e, morto questi, a un’altra unione nuziale con un barone
russo. Fra l’altro, la fanciulla, diventata donna e in età non più
giovane, appreso di questo scambio, cercò inutilmente di farsi
riconoscere la reale paternità.
Comeè possibile rilevareè una storia del tutto particolare, anche
se non infrequente (già nel 1850 circolavano voci che Vittorio
Emanuele II non fosse il figlio di Carlo Alberto, ma di un macellaio
fiorentino, a cui peraltro assomigliava in modo strabiliante). Sono
vicende che non possono che appassionare il popolino e che se
tradotte su carta nel 1800 costituivano quel genere di romanzi
chiamati feuilleton, di cui Alexandre Dumas padre era fra i
più acclamati autori.
E infatti, molto opportunamente, Rita Charbonnier non ha voluto
scendere in questo genere, diciamo pure francamente inferiore alla
sua produzione, ma, attratta dalla storia e, a quanto mi sembra di
aver capito, convinta delle ragioni della protagonista, ha voluto
parlarne con un’invenzione letteraria estremamente efficace. In
pratica ha creato un incontro fra Dumas e Maria Stella, con la scusa
dell’astrologia di cui la donnaè una cultrice, portando i due
personaggi a colloquiare, in particolare lei, tesa a raccontare la
sua straordinaria vita affinché il grande narratore francese la
trasponesse in un romanzo.
L’ideaè geniale anche perché da un lato c’è chiè convinto
assertore delle sue rivendicazioni nobiliari (lei) e dall’altro uno
scettico (lui) altalenante fra il credere e non credere, risoluto
poi alla fine a non scrivere il romanzo.
Aggiungo, subito, che il libro consta di 368 pagine, ma scritte in
modo così avvincente e per nulla greve, al punto che si leggono
quasi tutte d’un fiato. E questoè uno dei tanti aspetti positivi
dell’opera, perché ve ne sono anche altri e ben più importanti.
Considerata la capacità di Rita Charbonnier di analizzare l’animo
umano, di portare alla luce anche le caratteristiche più nascoste,è
semplicemente splendida nel delineare i personaggi, i cui due
principali non sono come si potrebbe supporre Maria Stella e Luigi
Filippo I, bensì la prima e Vincenza Diligenti, quella che può
essere definita la madre adottiva. Da un iniziale rapporto di
conflittualità – benché la prima non sappia ancora di non essere la
sua vera figlia – si arriva, attraverso un percorso, anche doloroso,
a un riconoscimento di amor filiale, privilegiato rispetto a quello
che nasce dalla legittimazione di una nascita, perché il genitoreè
chi ti alleva, chi si prende cura di te, chiè capace di
confortarti, di riprenderti, di esserti vicino anche da lontano. E’
veramente ricreata bene la trasformazione di Maria Stella, dall’odio
verso Vincenza, alla riconoscenza, all’affetto che, se anche forse
nonè ancora amore,è comunque un sentimento talmente forte e
coinvolgente da riassumersi nel pianto sincero della figlia alla
morte di quella madre che, se anche non l’ha generata, siè comunque
comportata come tale, nonostante che Vincenza non avesse mai goduto
dell’amore materno, in quanto allevata in un ospizio di trovatelli.
E un particolare significato ha pure quello dell’astrologia, degli
oroscopi fatti a Dumas, dei vaticini, di cui comunque precisa Maria
Stella non ci può esser certezza. Indubbiamente gli astri hanno il
loro influsso, ma per ognuno di noi esiste un destino che solo in
parte crediamo di modificare;è quel fato che ci accompagna
dall’alba al tramonto della vita, che riserva alla protagonista
gioie e anche immensi dolori, ma che le riserverà la soddisfazione
nel suo ultimo periodo di esistenza di scoprire che un genitore
adottivo nonè diverso da uno naturale e che in fondo Vincenza, se
non era nobile per origini, lo era senz’altro d’animo.
La strana giornata di Alexandre Dumasè un libro che
resta nel cuore.
Rita Charbonnier,nata
a Vicenza, ha vissuto a Matera, Mantova, Genova, Trieste, per poi
stabilirsi a Roma. Ha fatto studi musicali e ha frequentato la
Scuola di Teatro dell’Istituto Nazionale del Dramma Antico di
Siracusa.è stata attrice e cantante in teatro, recitando al fianco
di celebri artisti. In seguito siè dedicata alla scrittura e, dopo
aver collaborato come giornalista con riviste di spettacolo, ha
iniziato a scrivere sceneggiature e infine romanzi, La sorella di
Mozart, La strana giornata di Alexandre Dumas e Le due
vite di Elsa, tutti molto apprezzati dai lettori.
Renzo Montagnoli
1/2/2013
PAOLO GIORDANO
IL CORPO UMANO
Romanzo
Mondadori 2012
Cos’è una famiglia?
Perché scoppia una guerra?
Come si diventa un soldato?
Anche se ce lo restituissero, questo
paesaggio della nostra gioventù,
non sapremmo più
bene che farne.
ERICH MARIA REMARQUE
Niente di nuovo
sul fronte occidentale
Un plotone di giovani soldati, al comando del maresciallo Antonio
Renè, parte per una missione in
Afghanistan senza sapere però che il luogo di destinazioneè uno dei
più pericolosi del conflitto: la
forward
operating base “fob”
Ice, nel distretto del Gulistan, “Un
recinto di sabbia esposto alle avversità”
. Sul posto li aspetta il tenente medico,
ortopedico, Alessandro Egitto, il protagonista di buona parte del
libro, la sua storia famigliare intricata s’intreccia con le
azioni militari, in un parallellismo
convergente. Le vite di ognuno diventano quelle degli altri, lontani
dagli affetti sempre complessi e contraddittori trovano nella
forzata convivenza momenti di scontro e di solidarietà inaspettati.
Durante la missione i lori ricordi si
ridisegnano secondo contorni più netti, rivedono i loro fallimenti,
i loro errori, le loro speranze e l’ansia di deludere chi li
aspetta: tanti conti in sospeso che al ritorno vogliono con
convinzione rimettere a posto. Ciascuno porta una parte di sé
ancora irrisolta, la missione diventa quasi una sorta di riscatto,
di ricomposizione del proprio io, la condivisione del momento più
importante della loro vita al centro del deserto e di un cerchio di
mezzi corazzati, li cambierà profondamente, li segnerà
completamente. Negli anni successivi alla missione, ognuno dei
ragazzi s’impegnerà a rendere la propria vita irriconoscibile, per
cancellare i ricordi dell’esistenza precedente come se non fosse
realmente accaduta, o perlomeno, non a loro.
Dimenticare era come scavare una trincea tra presente e passato.
Riappropriarsi della nuova vita senza sovrapporsi a quella prima. I
soldati prima di partire seguono un ciclo di lezioni propedeutiche,
36 ore di lezioni frontali in cui ricevono un’infarinatura di storia
mediorientale, ragguagli tecnici sulle complicazioni strategiche del
conflitto, informazioni meno formali sulle distese di marijuana e
ragguagli da coloro i quali avevano prestato
servizio sul territorio. Prima del trasferimento
viene concessa un fine settimana di licenza, giusto il tempo
di salutare chi la moglie, chi la fidanzata, chi l’amante
occasionale e chi come il caporalmaggiore Ietri,
il più giovane della compagnia e anche il più sprovveduto, e questo
sarà oggetto di scherno da parte di Cederna,
l’unico a sapere della sua goffaggine con le donne, la madre. Il
capitano Masiero, il colonnello Ballesio,
Mitrano, anche lui preso di mira da
Cedernaè lo zimbello della
fob, Torsu,
Camporesi, Zampieri,
l’unica soldatessa e tanti altri,
ciascuno con il proprio destino, le proprie fragilità…Da quattro
mesi sono attestati alla fob Ice,
all’imbocco nord della valle del Gulistan,
non lontano dalla provincia di Helmand,
dove le milizie americane avevano combattuto per ripulire i villaggi
dagli insorti. I marines
avevanocostruito
un avamposto di 4 ettari in una zona strategica e bonificato
alcuni villaggi circostanti, “la bolla di sicurezza” che si estende
per un paio di km attorno alla base, ma all’interno ancora vi sono
forme di guerriglia. Dopo una parentesi con i Georgiani, la
fobè passata al comando italiano, essa
si presenta in condizioni disastrose, poche
baracche con buchi, senza bagni, solo l’armeriaè in
condizioni decenti. In questo ambiente
ostile e primitivo i soldati italiani si trovano a vivere tra la
noia, tra battute volgari da caserma, lontani dalla civiltà e in
mezzo ad una natura sconosciuta, al vento che scarnifica il viso e
brucia gli occhi, a temperature che raggiungono i 50 gradi; essi
sopportano l’attesa di uno scontro che appare sempre più
irrealistico. Durante la notte solo con se stessi sentono nel
silenzio l’attività del loro corpo, il battere
dei loro cuore, lo scorrere del sangue, sentirsi vivi solo
perché il corpo funziona meccanicamente perché la mente si annienta
nel chiedersi il senso di tutto, dell’essere soldati, della guerra,
la paura sempre in agguato, pronti a sparare con le Browning o ad
avvistare un IED,
Improvised
Esplosive Device, una bomba
fatta in casa, che fa saltare in aria un Lince o ad intercettare i
razzi dell’RPG…
L’autore attraverso la storia della “fob
Ice” indaga sulle dinamiche umane che si
concretizzano in eccezionali circostanze e sulle guerre moderne
celate sotto mentite spoglie di tutela dei diritti umani Questa
guerra come tantissime altri eventi belliciè una guerra schifosa,
la più schifosa di tutte. Nonè una guerra pulita questa. Nonè una
guerra equilibrata. Una guerra in cui i nemici non si vedono, ma il
nemico bersaglia con quello che ha a disposizione e da ogni parte.
In uno stile essenziale e pulito, senza particolari figure retoriche
Giordano va nella profondità delle guerre
sia quelle militari sia quelle familiari e interiori.
Paolo Giordano
è nato a Torino nel 1982. Con il suo primo romanzo, La solitudine
dei numeri primi 2008, pubblicato in oltre 40 paesi, ha ottenuto
numerosi riconoscimenti fra cui il premio Strega e il premio
Campiello Opera Prima. Collabora con il
“Corriere della Sera” e con “Vanity
Fair”.
Arcangela Cammalleri
29/1/2013
Mi hanno detto di Ofelia
di
Cristina Bove
Prefazione di Anna Maria Curci
Postfazione di Francesco Marotta
Edizioni Smasher
www.edizionismasher.it
Poesia
Sperimentazione poetica
Scrivere poesieè un’arte, un’arte allo stato
puro, perché la trasposizione su cartaè la naturale conclusione di
un’idea, di uno spunto sorto nella mente e poi inconsapevolmente
ricreato nella stessa, ampliando i termini, puntualizzando, cercando
forme che possano meglio sviluppare quell’intuizione alla base della
quale c’è un processo cognitivo e di esperienze di cui abbiamo una
coscienza che sovente non riusciamo a spiegarci.
Tutto questo per dire che una poesia nonè solo il frutto di una
innata creatività, ma anche del nostro status culturale che
ci porta a trasporla nelle forme più varie, azzardando anche
sperimentazioni, affinché sia sempre presente una dinamica volta a
un’ideale, anche se non completamente raggiungibile, perfezione.
Cristina Bove, poetessa che seguo da anni, applica da molto tempo
questa sperimentazione e ce ne offre un risultato in questa silloge,
Mi hanno detto di Ofelia, il cui titoloè anche quello di una
poesia che neè parte.
Ora, appare anche ovvio che cercare nuovi percorsi espressivi non
può offrire né un’uniformità di risultati, né può sortire liriche
tutte completamente riuscite, ma resta il fatto che i tentativi sono
sempre indice di una continua ricerca e sono esempi di una costante
evoluzione volta a meglio proporre le proprie idee.
Così nella lettura di questo libro ho trovato poesie che, a mio
avviso, se non trovano una grazia di esposizione, sono però idonee a
trattare argomenti spesso piuttosto complessi, e altre che, al
contrario, pur se molto gradevoli, vanno meno in profondità.
Non c’è niente di strano edè tipico della sperimentazione, grazie
alla quale sarà poi possibile fondere in un unico complesso di versi
gradevolezza e approfondimento.
Così, se troviamo una poesia come Appuntimenti (addensate
tra costole / discostate dagli archi / io violoncello tra laringe e
cuore / sonorità profondo / lungo le corde d’improvviso / in gola /…)
di non certo facile comprensione, un insieme di invenzioni che
sembrano slegate, pur tuttavia, un po’ più avanti, ci imbattiamo in
Inamovibile (Porgo la mia stanchezza / il mio mondo di
pace provvisoria / a Chi dei dubbiè padre / e non mi schiodo /
dalle porte murate dove in salvo / sto cercando di vivere l’azzardo
/ dei miei giorni in penombra /…), riuscitissima, sia come
svolgimento del tema, sia come equilibrio strutturale e armonico.
Potrei fornire altri esempi perché le poesie non sono poche (se non
ho contato male, sono sessanta), ma preferisco non farlo al fine
unico che sia il lettore a scoprire pagina dopo pagina questa
raccolta che, più che un’opera compiuta, è un cantiere, dei cui
lavori in corso possiamo vedere i vari stati d’avanzamento, senza
dimenticare che mai e poi mai l’opera risulterà finita, perché il
poeta che si ferma non ha più nulla dire, se non lamentarsi di una
vena creativa e di un interesse ormai scemati.
E’ infatti proprio il caso di dire che chi si fermaè perduto, anzi,
nel caso del poeta, chi si ferma non riesce più a raggiungere
l’arte.
Da leggere, senz’altro.
Cristina Bove
é nata a Napoli il 16 settembre
1942, vive a Roma dal ‘63. Ha cominciato da piccolissima a
disegnare, a nutrire la passione per la lettura. In seguito si é
dedicata alla scultura e alla scrittura. Negli ultimi tempi si
esprime soprattutto in poesia.
Ha pubblicato tre raccolte di poesie per la casa editrice Il Foglio
Letterario:
Fiori e fulmini
(2007)
Il respiro della luna (2008)
Attraversamenti verticali (2009)
E’ presente in diverse antologie:
Antologia di Poetarum Silva (a cura di Enzo Campi)
Auroralia (a cura di Gaja Cenciarelli)
La ricognizione del dolore (a cura di Pietro Pancamo)
Antologia del Giardino dei poeti (a cura sua e di altri poeti)
Sito web:
http://cristinabove.wix.com/cantonianimati
I blog:
http://ancorapoesia.wordpress.com/
http://giardinodeipoeti.wordpress.com/
http://imieilibriediti.blogspot.com/
http://intervistevarie.blogspot.com/
Altre risorse:
Blog culturale di Ed Warner-Poesia
Renzo Montagnoli 27/1/2013
I sommersi e i salvati
di Primo Levi
Prefazione di
Tzvetan Todorov
Posftazione di Walter Barberis
In copertina: elaborazione grafica particolare del ciclo di
affreschi di Luca Signorelli, Cattedrale di Orvieto, Cappella della
Madonna di San Brizio© Sandro Vannini / Corbis
Edizioni Einaudi
Saggistica storica e antropologica
Collana Super ET
Affinché non
si ripeta
«Se
comprendereè impossibile, conoscereè necessario, perché ciò cheè
accaduto può ritornare, le coscienze possono nuovamente essere
sedotte ed oscurate: anche le nostre».
Primo Levi
Quarant’anni dopo di Se questoè un uomo, Primo Levi torna a
scrivere dei Lager, non con un romanzo, oppure con una
puntualizzazione di quella che fu la sua tragica esperienza di
recluso, bensì per effettuare un’attenta e approfondita analisi del
sistema dei campi di concentramento come mezzo per affermare il
potere assoluto, nonché, altro aspetto di rilevante interesse, per
evidenziare i comportamenti degli esseri umani, sia a livello
individuale che collettivo, così come determinato dalla vita non
vita del Lager. Il suo approccio nonè per niente enfatico, anzi
Levi dimostra una straordinaria lucidità, come se il tempo trascorso
dall’evento di cuiè stato vittima avesse smussato quella carica
interiore di rabbia e di dolore; anzi, ritiene opportuno premettere
come la memoria sia sempre fallace e come l’aspetto temporale, cioè
gli anni trascorsi, possano nuocere alla trattazione per
involontarie omissioni, oppure trasgressioni dei fatti accaduti.
L’autoreè un uomo di scienza e come tale persegue quotidianamente
la ricerca della verità, nel suo caso tanto più importante non per
comprendere, ma per poter determinare come un orrore simile sia
potuto accadere. Non si tratta solo di un’analisi storica, ma anche
di un’indagine antropologica le cui risultanze non sono fini a se
stesse, ma travalicano il fatto, di per sé un unicum fino ad
ora, al fine di conoscere, affinché non si debba ripetere. In questo
modo Levi trova delle risposte che sono basilari per una corretta
interpretazione della storia del secolo scorso e per una definizione
stratigrafica delle caratteristiche individuali e sociali dell’uomo
contemporaneo. Fra l’altro, ho rilevato la straordinaria visione
d’insieme che porta l’autore a proiettare la tragedia dell’olocausto
ad analoghi avvenimenti successivi che hanno interessato popoli che
noi europei ben poco conosciamo, come per esempio la follia omicida
del regime di Pol Pot in Cambogia.
E’ questo il risultato delle risposte alle domande che consistono
essenzialmente in una metodologica ricerca della verità. Levi si
chiede, infatti, quali siano le strutture gerarchiche su cui basa un
regime autoritario, quali sono i metodi per annichilire un
individuo, per distruggere insomma la sua personalità, quali
rapporti intercorrono fra i carnefici e le vittime, come può
sussistere una forma di collaborazione, la cosiddetta zona grigia.
Tutto questo costituisce questo splendido saggio, diviso
schematicamente in capitoli che trattano di volta in volta un
argomento, con le inevitabili domande accompagnate da risposte del
tutto logiche, che costituiscono per l’autore non la verità
assoluta, ma un’interpretazione, e in questo credo di poter dire che
tuttavia si avvicina di molto alla realtà oggettiva. Devo pure
riconoscere a Levi che già il titolo del libro ci offre uno spaccato
esatto della divisione degli internati fra quelli inevitabilmente
destinati alla morte (lo erano tutti, ma la maggior parte,
annichilita, si lasciava andare, non reagiva), cioè cosiddetti
sommersi, e i salvati, quelli che si arrangiavano, magari con un
lavoro particolarmente richiesto (sarto, ciabattino, muratore, ecc.)
e che nonostante tutto cercavano di porre ostacoli al loro crudele
destino di morituri, vale a dire insomma chi lottava ancora per
sopravvivere. A differenza del suo romanzo più famoso (Se questo
è un uomo), anche qui da testimone l’autore va oltre la
ristretta visione del suo essere per giungere a una visione, che
potrei dire universale, dei comportamenti, sia degli internati, che
degli aguzzini, in cui cerca di trovare le attenuanti (l’educazione
ricevuta, l’indottrinamento). Ma c’è anche una terza categoria,
fuori dai reticolati, cioè il popolo tedesco, cheè poi la più
importante, perché l’aver creduto prima ciecamente a un populista
come Hitler, subendone il fascino, e l’averlo poi assecondato sono
pregiudiziali senza le quali non ci sarebbero state né la guerra, né
la Shoah; e quel cheè peggioè il silenzio indifferente dei tanti
che pur non essendo aguzzini, sapevano e tacevano, a loro modo in
preda a una sottomissione della propria personalità a quella
artefatta costruita dal nazismo. Per loro in effetti di scuse non ce
ne sono edè proprio per questo comportamento, per questa ardente o
indifferente assuefazione a un regime, che la tragedia potrebbe
ripetersi, in altre zone, in altre forme, con vittime diverse.
Levi sembra volerci ammonire affinché mai e poi mai una
collettività, un popolo, affidino il loro destino a un potere
assoluto, con un mandato irrevocabile con cui viene segnata la sorte
non solo dei mandatari, ma soprattutto dei soggetti più deboli, di
coloro che un regime, anche per nascondere le sue incapacità e
scelleratezze, va ad indicare di volta come i responsabili di
fallimenti, capri espiatori dati in pasto alle belve dell’odio e
dell’indifferenza.
La lettura nonè solo consigliata, maè caldamente raccomandata.
Primo
Levi
(Torino 1919-1987) ha pubblicato presso
Einaudi Se questoè un uomo; La tregua; Storie
naturali; Vizio di forma; Il sistema periodico;
La chiave a stella; La ricerca delle radici. Antologia
personale; Lilìt e altri racconti; Se non ora, quando?;
L'altrui mestiere; I sommersi e i salvati. Sempre da
Einaudi sono usciti postumi i due volumi delle Opere;
Conversazioni e interviste (1963-1987);L'ultimo Natale
di guerra; L'asimmetria e la vita. Articoli e saggi
1955-1987;Tutti i racconti, sempre a cura di Marco
Belpoliti.
Renzo Montagnoli
24/1/2013
Lucrezia Borgia
di Maria Bellonci
Introduzione di Alcide Paolini
In copertina:
Bartolomeo Veneto, Flora (Part.)
Presunto ritratto di Lucrezia Borgia, Francoforte Stadelsches
Kunstinstitut
Arnoldo Mondadori
Editore
Narrativa romanzo
Un grandioso
affresco rinascimentale
Corre l’anno 1939 quando esce in lingua italiana, per i tipi della
Mondadori e in lingua inglese per i tipi della Phoenix,
Lucrezia Borgia, un’ampia ed esauriente biografia che va dal
1492, allorché il padre Rodrigo viene eletto pontefice, alla sua
morte, avvenuta nel 1519, probabilmente per setticemia. Si tratta di
un’opera monumentale, frutto di un lungo periodo di ricerche nei più
svariati archivi, edè la prima di Maria Bellonci, un esordio
clamoroso, visto il successo da subito incontrato, e che fra l’altro
le valse il Premio Viareggio, e la sua diffusione in moltissimi
paesi del globo. Già da allora si delineava chiaro lo stile di
questa storica e narratrice piemontese, uno stile che, pur non
scostandosi dalle risultanze emerse dai carteggi, non solo nonè mai
greve, ma addirittura avvincente, tanto lega il lettore al filo del
discorso con una continuità che non viene mai meno, con un ritmo per
lo più incalzante che lascia tuttavia lo spazio per ponderate
riflessioni e per pagine più quiete, in cui si sviluppa un
linguaggio di soffusa poeticità che dà respiro a un lavoro
innegabilmente complesso. In buona sostanza Maria Bellonciè in
grado di narrare la storia, intessendo una trama senza voli di
fantasia, se non per le personali considerazioni in ordine ai vari
protagonisti. Che Lucrezia Borgia di per sé sia un personaggio di
estremo interesseè fuor di dubbio edè stata vista dagli storici
via via come diabolica avvelenatrice, soprattutto per quelli che
all’epoca trovavano vantaggiosa questa definizione, oppure come
fanciulla infelice perché piegata alla ragion di stato,
fondamentalmente innocente, ma purtroppo succube del padre e del
fratello Cesare. Al primo, come scrive Maria Bellonci, somigliava
nel suo modo gioioso d’aver fede in tutte le promesse del futuro;
ma si può anche aggiungere che ne era la figlia anche per una innata
carnalità, di cui tuttavia all’epoca nessuno si meravigliava; abile
nel condurre anche una signoria, differiva dal genitore e dal
fratello in quanto immune da una smania di grandezza volta a
costituire uno stato dominato dai Borgia, anche in danno della
Chiesa stessa. E per far questo, non esitavano a ricorrere alle arti
diplomatiche per legare, tramite uno sposalizio, questa o quella
signoria, così come utilizzavano metodi più spicci, come
l’eliminazione fisica di un avversario, pratiche entrambe che,
tuttavia, erano in quel periodo storico assai diffuse. A questo
puntoè indubbio doversi chiedere chi in realtà sia stata Lucrezia
Borgia? Fra accusatori e difensori dei Borgia Maria Bellonci si pone
in una prospettiva diversa, come appunto risulta da alcune righe di
una Nota generale posta al termine dell’opera. Scrive: Scrivendo
questa storia, ho inteso non tanto di rifare il secolare processo ai
Borgia, quanto di rappresentarli nel loro modo quotidiano, caldo e
naturale di stare al mondo, in una prospettiva umana di individui,
non mostruosa di criminali. E poiché ho preso a narrare
particolarmente di Lucrezia Borgia, aggiungerò che ellaè stata di
tutta la famiglia la più maltrattata, e dagli accusatori e dai
paladini: un vero destino da donna.
E’ così che, se Rodrigo e Cesare Borgia sono particolarmente
invisi – ma come ho scritto prima il loro comportamento era diffuso
all’epoca - , a Lucrezia per il solo fatto di essere donna e di
quella famiglia vengono da un lato attribuiti i più nefasti crimini
e dall’altro invece la si evidenzia come una succube, un essere
privo di personalità, appunto a conseguenza del suo essere femmina.
Non era né l’una, né l’altra, era invece un essere pieno di vitalità
che nella sua esistenza ebbe da scontare quella parentela che tanto
spaventava, perché le mire di Cesare, sostenute da suo padre, non
erano limitate territorialmente, ma abbracciavano idealmente
l’intera Italia.
Maria Bellonciè riuscita in un difficile compito, cioè rendere
giustizia alla storia e allo stesso tempo alla dignità di una donna
che aveva l’unico torto di appartenere alla famiglia Borgia.
In una narrazione senza respiro, minuziosa nei fatti come nelle
descrizioni dei personaggi e delle atmosfere, emerge la figura di
una donna che in pratica ebbe a conoscere un po’ di felicità solo
dopo la scomparsa del padre ed il crollo dei sogni di conquista del
fratello. Lei che fu sposa, per breve tempo, di Giovanni Sforza ( i
due non si amavano) e poi del duca di Bisceglie, il suo primo
autentico amore, ucciso dai sicari di Cesare - il che potrebbe
avvalorare le voci di un loro rapporto incestuoso, ma sono solo mere
supposizioni, perché di certo non viè nulla di concreto – troverà
la pace e l’appagamento come donna nel rustico, ma suo modo
fascinoso Alfonso d’Este. Ferrara diventerà per lei la seconda
patria e piano piano riuscirà, se non a farsi amare, almeno a farsi
rispettare dai suoi cittadini.
Quanto alla tresca con il cognato Francesco Gonzaga viene di molto
ridimensionata, nel senso che se si trattò di vera attrazione (lei
bellissima, lui non bello, anzi bruttino, ma dotato di una
particolare personalità) il tutto si risolse in una schermaglia
amorosa di tenore platonico, all’epoca peraltro molto in voga.
Grazie alle ricerche e ai documenti reperiti negli archivi, di
Lucrezia si viene a sapere pressoché tutto: dei favolosi vestiti che
indossava, della sua preziosa collezione di monili d’oro e di pietre
preziose e perfino dei componenti la sua corte personale.
Fra guerre combattute e battaglie diplomatiche emergono, escono
dall’ombra, per poi infine ritornarvi, personaggi famosi, come
l’Ariosto, il Bembo, lo Strozzi, tutti letterati che le corti
cercavano di attrarre e che Lucrezia annoverò fra i suoi
frequentatori.
Ebbe molti figli, fra cui l’erede al ducato, ma i parti sfibrano,
stancano una donna, la indeboliscono e così a 39 anni, alla sua
ottava gravidanza, ebbe un parto prematuro; la bimba sopravvisse, la
madre penò ancora due giorni fino a esalare l’ultimo respiro. E qui
Maria Bellonci si supera, con le ultime righe che raggiungono
vertici sublimi. Lucrezia rivede la sua vita, la sua partenza da
Roma per Ferrara: Forse a questo rombo che sembra arrivare da un
tempo remotissimo, da un’eternità umana, con una voce che ha tanto
di magia quanto di antica incuorante serenità, i terrori finivano di
sbandarsi per dar luogo ad una stanchezza lunga, filata, vicina alla
pace. Era venuto il momento di non aver più paura. Lucrezia guardava
in viso suo padre come al momento della loro separazione, quel
nevoso mattino d’Epifania. E come allora sospirò appena, quando
qualcuno disse che bisognava partire.
Ecco, senza volerne fare un’eroina, non vorrei che l’epitaffio
dicesse Qui giace Lucrezia, sposa e madre esemplare, ma
semplicemente Qui giace Lucrezia, che amò la vita senza toglierla
ad alcuno.
Il libroè sicuramente stupendo, un grandioso affresco
rinascimentale dipinto con mani sapienti ed equilibrate.
Maria Bellonci,
di origini piemontesi, nacque a Roma nel 1902 ed esordì nel 1939 con
Lucrezia Borgia, che vinse il premio Viareggio. Insieme al
marito Goffredo diede vita nel 1947 al premio Strega. Tra i suoi
libri: Segreti dei Gonzaga, Pubblici segreti, Tu
vipera gentile, Marco Polo. Rinascimento privato
esce nel 1985, l'anno precedente la morte dell'autrice.
Renzo Montagnoli
20/1/2013
Il volo
del calabrone
di Ken Follett
Traduzione di Annamaria Raffo
Arnoldo Mondadori Editore
Narrativa romanzo
Collana Oscar bestsellers
Una lettura gradevole
Ken Follettè indubbiamente uno scrittore prolifico e autore di
romanzi di successo, dei veri e propri best seller, caratterizzati
da trame avvincenti e da ritmi sostenuti. E’ forse uno dei rari casi
in cui grandi volumi di vendita si accompagnano a opere
qualitativamente valide, anche se non possono essere definire delle
pietre miliari della letteratura mondiale, fatta eccezione per
I pilastri della terra, romanzo di ambientazione storica
che si eleva decisamente sulla produzione del narratore gallese.
Il volo del calabrone,
scritto nel 2002 e incentrato su una resistenza poco conosciuta come
quella danese nel corso della seconda guerra mondiale, rientra fra i
lavori di sicuro interesse e di piacevole lettura, senza arrivare a
poter essere definito un capolavoro.
Non mancano una vicenda intrigante, né personaggi ben delineati,
mentre l’atmosferaè meno curata che in altri romanzi, insomma la
trama, frutto di pura invenzione,è l’aspetto più qualificante
dell’opera. Non si respira un’aria di paura e di sospetto quale
quella che doveva gravare sulla Danimarca durante l’occupazione
nazista, anzi la cappa opprimente della tirannia hitlerianaè appena
abbozzata e questoè il limite del romanzo, che sarebbe riuscito
molto meglio se Follett avesse cercato di tratteggiare più
compiutamente le follie di una dittatura sanguinaria, anziché
privilegiare la vicenda, fatta di innumerevoli colpi di scena e che
ha il pregio di tenere costantemente desta l’attenzione del lettore.
Come ho precisato prima, Il volo del calabroneè
quindi un romanzo che, più che indurre a riflessioni, può essere il
gradevole compagno di salotto nelle sere d’inverno, o di ombrellone
in una calda giornata al mare.
Lettura di svago, pertanto, e in questo il romanzo riesce benissimo,
ma non chiedetegli di più, perché l’autore sembra non aver voluto
altro che questo.
Ciò non toglie che possa interessare una vasta gamma di lettori,
perché, molto saggiamente, nonè presente solo l’azione, ma, come si
conviene a un autore che si propone a un vasto pubblico, lascia
spazio anche a una storia d’amore, tormentata sì, ma con
l’inevitabile e tanto auspicato lieto fine.
Da leggere, comunque.
Ken Follett
è nato a Cardiff nel 1949 e vive a Londra. Laureatosi in filosofia
all'University College di Londra, ha lavorato come giornalista. La
sua straordinaria carriera di scrittore inizia nel 1978, con
l'exploit di La cruna dell'Ago.
Un
successo mondiale hanno ottenuto anche i successivi romanzi (tutti
editi da Mondadori):
Triplo,
Il codice Rebecca, L'uomo di Pietroburgo, Sulle ali
delle aquile, Un letto di leoni, I pilastri della
terra, Notte sull'acqua, Una fortuna pericolosa,
Un luogo chiamato libertà, Il terzo gemello, Il
martello dell'Eden, Codice a zero, Le gazze ladre,
Il volo del calabrone, Nel bianco e Mondo senza
fine.
Nel 2010 La caduta dei giganti, primo romanzo della trilogia
"The Century",è stato a lungo al primo posto nelle principali
classifiche nel mondo. In Italia, tutti i suoi romanzi sono
pubblicati da Mondadori.
Sito web:
http://www.ken-follett.com/
Renzo Montagnoli
16/1/2013
Mitologie domestiche dell’anima
di
Antonio Messina
Prefazione di Ilaria Dazzi
Postfazione di Renzo Montagnoli
Immagine di copertina: Il Mantello
della Festa
di Angela Betta Casale
Edizioni Il Foglio
www.ilfoglioletterario.it
Poesia
Una finestra sull’anima
Il mitoè una proiezione metafisica del nostro
sentire,è una realizzazione di un qualcosa che, se pur in noi,è
tanto al di sopra del nostro normale cogitare da cercare di dargli
una veste divina o semi-divina con cui poter coglierne l’essenza,
quel che di incomprensibile che ci arrovella, ci trascina, ci lascia
stupefatti e tramortiti.
Con questa sua breve silloge Antonio Messina, forse più noto come
narratore, benché la sua prosa sia il frutto di una metamorfosi di
un istinto innato di carattere poetico, ci regala una sequenza di
liriche sospese in quello spazio-tempo incerto che va oltre il
divenire quotidiano, trasfigurando eventi e ricordi in un’atmosfera
se non mistica, almeno magica.
Dell’anima, soprattutto, si parla, di quell’impalpabile spirito
vitale cheè fonte e motore della nostra esistenza, un’entità
incorporea cheè in noi, di cui non avvertiamo la presenza, ma che
auspichiamo vi sia, perché altrimenti non troverebbero altra
spiegazione le sensazioni, le emozioni, le idee creative. Edè
qualche cosa che va oltre di noi, che ci sovrasta, che gi guida
senza che ce ne accorgiamo, uno spirito talmente libero da non poter
essere rinchiuso anche nel caso che il nostro corpo venga costretto,
tormentato, torturato, un flusso di vita che muove i nostri passi,
che indirizza le nostre mani, che ci fa amare, che ci rende
dipendenti dalla sua volontà.
In questo contesto si delineano poesie dai toni sommessi, ma non per
questo indecise, si disegnano versi che spaziano oltre il limite del
quotidiano orizzonte per proiettarsi in un empireo in cui cercare di
vedere rispecchiata questa nostra anima.
E’ un flusso di coscienza che trascina l’autore, e con lui il
lettore, in una visione dall’alto di una realtà che si capovolge, si
contorce, nel tentativo, per lo più riuscito, di spiegare ciò che ci
accade, ciò che si muove indifferente intorno a noi, ogni cosa,
fatto o evento che sembra lì per caso, ma cheè frutto del percorso,
spesso incomprensibile, di un tempo che segue indifferente la scia
del destino.
Poesia filosofica potrebbe essere definita questa di Messina e in
effetti loè, non semplice, ma non incomprensibile, una ricerca
all’interno di noi che mai terminerà, pur dando ogni volta frutti
insperati.
Leggere questa sillogeè aprire una finestra sulla nostra anima.
Antonio Messina
nasce nel 1958 a Partanna, in
provincia di Trapani. Vive a Padova. E’ poeta e narratore.
Pubblicazioni:
L’assurdo respiro delle cose
tremule (L’Autore Libri
Firenze, 2003), La memoria dell’acqua (Edizioni Il Foglio,
2006), Le vele di Astrabat (Edizioni Il Foglio, 2007),
Dissolvenze (Edizioni Il Foglio, 2008), Ofelia e la luna di
paglia (Il Foglio, 2009); Nebular (Il Foglio, 2011).
Renzo Montagnoli
12/1/2013
La polvere sul cucù
di
Vito Moretti
Edizioni Tabula Fati
www.edizionitabulafati.it
Narrativa raccolta di racconti
Collana Nuove scritture
La grandezza degli umili
“ …Il viso di Ettore riprese forma al chiarore che si rovesciava dal
taglio della porta e la strada sembrò per poco animarsi nelle sue
ombre e nei suoi bracci notturni; pareva anzi che la luna, uscita
all’improvviso dai brandelli di due nuvole, rotolasse con il suo
disco sui cespugli e sui tetti prima di tornare ad abbuiarsi nel
gelo della notte….”
Di
Vito Moretti, autore di alcuni volumi di saggistica e soprattutto di
sillogi poetiche avevo letto Luoghi, una raccolta di
riuscite poesie ispirate da viaggi, fra le quali quelle frutto di
un itinerario in Terrasanta mi avevano colpito in modo particolare
per la capacità di percepire con il cuore e tradurre in versi ciò
che va oltre la razionalità matematica del lavoro della mente. In
particolare, in quelle e in altre, avevo rilevato una religiosità
non di maniera, ma frutto di un’innata sensibilità nei confronti
della natura, ispiratrice quasi mistica e fonte di latenti
opportunità per volgersi alla trascendenza. Ora, questa raccolta di
21 racconti, intitolata La polvere sul cucù, conferma
il mio giudizio positivo sulle qualità dell’autore.
Si tratta di prose certamente non lunghe, con tematiche diverse,
scritte con una creatività del tutto particolare, dal risultato
assai gradevole, nelle qualiè presente la vocazione di estensore di
versi, tanto che questi brani possono essere definiti vere e proprie
prose poetiche, sia per l’armonia che le accompagna, sia per un
generale equilibrio di struttura, in grado di sintetizzare vicende e
concetti.
Ciò che accomuna inoltre i racconti sono i protagonisti, esseri
umili, ma dotati di una grande carica umana che li rende attori
unici e principali, portatori di un linguaggio di pace che li eleva
a simboli di come dovrebbe essere l’uomo se segue, per intima
convinzione, il pensiero del Cristo. Siamo in presenza di una
religiosità al di fuori dei vincoli ben precisi della Chiesa e che
riscopre una spiritualità innata che nel messaggio di Gesù trova la
sua definitiva affermazione.
Dal sacerdote che vive la Messa in Le mani del prete alla
sofferta, ma convinta rinuncia di Teresa in Il fiume nella notte,
senza dimenticare l’ascetica figura di Michele in Il martedì
della visita, si esplicita un corale messaggio che, senza
esaltare i personaggi in se stessi, ci porta a considerare una
natura umana fondamentalmente tesa al bene, qualora lontana dalle
spire tentatrici del denaro e del potere.
E’ una mano felice quella dell’autore, che mai s’impone sul lettore,
ma che gli porge vicende attraenti in cui lo sfondo armonico della
poesia offre un considerevole contributo. Così le descrizioni dei
paesaggi risaltano come panorami nei quadri del Canaletto, mentre le
atmosfere, nel complesso pacate, tranne che nel drammatico Il
presagio del gelo, sono sempre frutto di un’attenta
ricostruzione che avvolge il lettore fin dalle prime righe. In
Moretti ci sono sensibilità e delicatezza, rispetto per gli esseri
umani quando essi vivono e magari soffrono per la loro dignitosa
umiltà; e anche i temi scabrosi sono affrontati in punta di penna,
tanto da riuscire perfino a colorare di un soffuso e tenue rosa una
relazione omosessuale (L’altro bene).
Sono brani che nel complesso risultano di elevato valore, che
riescono a coinvolgere e che, pagina dopo pagina, portano a una
grande serenità.
E’ evidente che ci troviamo di fronte a un lavoro assai valido,
ampiamente meritevole di lettura.
Vito Moretti,
originario di San Vito Chietino, risiede
a Chieti.è poeta in lingua e in dialetto e critico letterario. Ha
esordito con alcuni poemetti sul finire degli anni Sessanta e,
successivamente, ha dato alle stampe
varie raccolte di versi, un libro di racconti e alcuni volumi di
saggistica.è tradotto nelle principali lingue moderne.
Renzo Montagnoli
9/1/2013
Alexander
McCall Smith
Utili consigli per
il buon investigatore
Titolo originale The
Double Comfort Safari
Club
Traduzione di
Serena Bertetto
Una nuova
avventura di Mma
Ramotswe, la «Miss
Marple» africana
Ed.
Guanda 2012
Narratori della Fenice
Quarta di copertina. «La serie di Mma
Ramotswe siè trasformata in un ricco
arazzo dalle sfumature straordinarie.»
The
Wall Street Journal
Una storia così semplice da apparire elementare: ma nella levità
della scrittura di McCall
Smith la profondità ci appare come fuoco
che arde nella brace.
L’investigatrice
Precious Ramotswe dirige la
Ladies’
Detective Agency n.1,
l’unica del Botswana gestita da donne,
insieme alla signorina Grace
Makutsi, sua assistente detective (come
ama precisare quando si presenta), due figure femminili originali ed
imperdibili. Mma
Ramotsweè dotata di conciliante bontà
di cuore, sagace quel tanto da conferirle un’aura d’insindacabile
autorità generata sia dall’esperienza sia dalle consuetudini del suo
paese. L’occhialuta segretaria, Makutsi,
è così tanto permalosa che interpreta alla lettera quanto le
viene detto, appassionata di proverbi,
maniacale, efficiente e precisa anche nelle insignificanti dinamiche
d’ufficio. Eppure dovrà subire un
affronto che rischia di incrinarne la fiducia e le prospettive
future. Seppure i casi da sbrigliare siano pochi
e perlopiù storie di tradimenti, di piccole riscossioni di denari o
di raggiri, entrambe le detective ci mettono tutto l’impegno e la
devozione dei loro animi e caratteri. Nel
Botswana, uno dei paesi africani più
gradevoli e pacifici al mondo, ancora ingenuo e appena sfiorato
dalla corruzione del progresso più deteriore e consumistico, la
trama con i suoi personaggi si muove in un’atmosfera d’impalpabile
incanto e, al massimo, la malvagitàè la gelosia morbosa della zia
del fidanzato Phuti
Radiphuti della signorina Makutsi
o le arti ammalianti di Violet
Sephotho che
irretisce maschi sprovveduti. I metodi investigativi
della due donne sono talmente empirici e
oserei dire alla buona che l’unica arma che usanoè l’ascolto
comprensivo delle persone implicate in un caso e poi c’è quel noto
brivido che accompagna la signora Ramotswe
ad ogni svelamento del “mistero”.
L’agenzia dispone di un magro conto cassa
perché le entrate sono scarse a tal punto che tra i collaboratori si
annoverano i meccanici dell’officina del marito della nostra
ineffabile investigatrice. La normalità dell’agenziaè interrotta
dall’arrivo di una lettera dall’America scritta da un avvocato di
St Paul,
esecutore testamentario di una signora di nome Estelle
Grant, mancata da poco. La turista
americana ha lasciato una piccola eredità consistente in tremila
dollari alla guida di un safari camp in mezzo alla natura durante
un suo viaggio in Botswana
quattro anni prima e nel mese di giugno perchè si era
mostrato molto gentile con lei che si era sentita trattata come un
membro della famiglia. Il problemaè che non ricordava né il nome
del safari camp né della guida e quindi tocca all’agenzia
rintracciarlo sulla base della sola data. L’indagine offre
l’occasione alle due donne di intraprendere un viaggio verso il
selvaggio nord, in the road, affascinante e magico, ricco
di incontri, a contatto di una natura
incontaminata dove gli animali allo stato brado danno una sorta di
inquietudine all’avventura, all’autore la magia di descrivere luoghi
e paesaggi mitici nella fantasia di noi europei. Alla conclusione
del caso la datrice di lavoro e la sua assistente ritorneranno più
unite di prima in un legame rinnovato di complice amicizia.
Siamo lontani dalle atmosfere torbide
o gotiche o inquietanti di tanti polizieschi o
noir o
crime che dir si
voglia, così come siamo distanti dai caratteri a tutto tondo
di eroici investigatori infallibili o
disillusi o tormentati e borderline e da
killer psicopatici che nutrono il lato oscuro di ognuno di noi. Non
c’è un intreccio investigativo nel senso di costruzioni e meccanismi
ad incastro che conducano a risoluzioni
inattese o ad effetto. Neppureè
descritto un universo criminale costituito da organizzazioni o
infiltrazioni mafiose, da traffici di droga, ma una piccola
cittadina, Gaborone, tranquilla e
soporifera sotto il caldo e cocente sole africano dove le virtù
delle buone maniere ( Nonè
alzando la voce che si cambiano le persone, Mma
Ramotswe) e della convivenza
possono essere messe in discussione da pregiudizi e pettegolezzi
locali, dettati più che altro da discutibile curiosità tutta umana.
Non ci aspetteremo situazioni emotivamente
travolgenti da action movie,è un lento scorrere della vita
d’altri tempi, per noi occidentali, senza stress e frenesie e brame
né di potere né di ricchezza. Nonè un quadro idilliaco o zuccheroso
della realtà, perché non sempre le tinte fosche sono riconducibili
ad una scrittura iperrealistica ed
impegnata. Siamo talmente abituati ad un linguaggio letterario in
cui spesso si privilegiano le parole rare
o difficili del vocabolario, sperimentazioni linguistiche ardite e
spesso artificiose che ci sorprende quando uno scrittore adotta una
piana e lineare scrittura e lo bolliamo, in modo sbrigativo, come
banale o peggio ovvio e scontato. Non mi sembra proprio il caso di
McCall Smith
che con bonaria ironia ci disegna un mondo di piccoli uomini che
nelle quotidiane occupazioni umili e non di capitale importanza per
la comunità dimostrano dignità professionale e comportamenti morali
assolvendo i loro impegni con grande
adesione e minuzia. Esempio il marito di Mma
Ramotswe, il signor JLB
Maketoni, ottimo meccanico e brava
persona, tratta tutte le macchine da riparare come se fossero le
proprie, non ama i messaggi ambigui, ma la maniera esplicita di
esprimersi: “E’ sempre meglio
dire esattamente ciò che si vuole dire”. Spesso si
abbandona a riflessioni tipo:
pochissimi esseri sono quasi perfetti, quelli che ce la mettevano
tutta, ma non arrivavano ad essere assolutamente impeccabili; pochi
individui erano davvero cattivi, un numero molto ridotto e poco
evidente in un paese come il Botswana,
dove lui aveva la
grande
fortuna di vivere. Persone felici di
essere come sono e di trovarsi dove si trovano, anche se
nessun paeseè assolutamente perfetto, il
Botswana ci va molto vicino, in un felice connubio con la
natura e i suoi cicli, non alterata o oltraggiata dall’uomo e dà i
suoi frutti e nutre le sue creature.
La campagna scorreva in un tappeto
grigioverde di arbusti e si allungava a
vista d’occhio fino al punto in cui gli affioramenti rocciosi delle
colline segnavano la fine della terra e l’inizio del cielo. Con le
piogge era spuntato un fitto manto d’erba fresca tra gli alberi; il
che era un bene, perché presto si sarebbe trasformato in grandi
quantità di quel dolce foraggio che ingrassava.
Ed era un bene perché bestiame grasso
voleva dire persone grasse, non soprappeso, ma ben nutrite e
dall’aspetto prosperoso.
Si può chiudere questa nota di
commento con le riflessioni conclusive che la signora
Ramotswe distilla con
ricche sfumature
positive. “Saper
prendere la vita nel modo giustoè un dono inestimabile, non
lamentarsi della vita né dare la colpa agli altri quando la causa
dei nostri mali siamo noi.
Sii felice di
essere chi sei e di vivere dove vivi, e cerca di trasmettere
agli altri la felicità, la gioia e la consapevolezza che sei
riuscita a conquistare per te stessa. Si possono chiudere gli occhi
per pensare alla terra che ci ha dato la vita e il respiro, e a
tutti i motivi per i quali siamo felici
di starci, con le persone che conosciamo, con le persone che
amiamo.”
Saranno forse parole semplici e
buone, ma spesso la grandezza o la piacevolezza
sta nelle piccole cose alle quali non diamo importanza perché
diamo troppa importanza a noi stessi.
A mio parere una piacevole lettura.
Autore.
Alexander McCall
Smith, nato e cresciuto in Africa,è
professore di diritto presso l’Università di
Edimburgo edè stato vicepresidente della commissione per la
genetica in Gran Bretagna. Guanda ha
pubblicato, della serie di Precious
Ramotswe e della sua
Ladies’
Detective Agency N.1:
Le Lacrime della giraffa, Morale
e belle ragazze, Un peana per le Zebre, Il tèè sempre
una soluzione e tanti
altri. Della serie 44
Scotland Street: 44
Scotland Street e Semiotica,
pub e altri piaceri.
La raccolta di racconti su Edimburgo
Storie di una città,
dove McCall Smith
compare come autore insieme a
Irvine Welsh
e Ian Rankin.
Arcangela Cammalleri
5/1/2013
L’uomo che guardava passare i treni
di Georges Simenon
Traduzione di Paola
Zallio Messori
In copertina: Léon Spilliaert, Plage 1909
Adelphi Edizioni
www.adelphi.it
Narrativa romanzo
Collana Gli Adelphi
L’altro Io
L’uomo che guardava passare i treni,
scritto nel 1938, ha tutte le parvenze di un noir, anche se lo scopo
di Simenon non era tanto quello di narrare una vicenda criminale,
bensì di analizzare la psiche di un individuo, piccolo borghese, che
a un certo punta della sua vita si ribella a un’esistenza calma e
agiata, scoprendo in se stesso una personalità latente intollerante
nei confronti di quel mondo in cui ha sempre vissuto.
La sua presa di posizione, il cambiamento radicale che la
caratterizza, nonè un frutto di un calcolo maturato lungamente, ma
è un’improvvisa scelta quasi inconsapevole.
E così Kees Popinga, così si chiama il protagonista, abbandona per
sempre quell’immagine di onesto, corretto, meticoloso impiegato e
buon padre di famiglia per cercare di cancellare, in uno con il suo
passato, anche quelle caratteristiche di appartenenza a un ceto
borghese, fatte di consuetudini e apparenze anche stucchevoli.
In questa ribellione, che lo porterà anche all’omicidio, c’è una
lunga fuga dal mondo in cuiè sempre stato, che finisce però con il
diventare anche una fuga da se stesso, da quell’inconscia
personalità per anni celata e repressa da una parvenza di perbenismo
a cui, altrettanto inconsapevolmente, si era abbandonato.
Entra talmente nel suo nuovo personaggio da trovare sempre nuove
giustificazioni per il suo operato, per la sua furia criminale che
tuttavia non traspare esteriormente se non nei momenti in cui i
freni inibitori, totalmente rimossi, fanno sfociare il suo
comportamento in una violenza accompagnata dalla cieca lucidità di
un uomo che ricerca e trova considerazioni auto giustificatorie al
punto di ritenersi un perseguitato dalla polizia.
Il suoè il delirio di un folle che solo in ultimo, ormai braccato,
lascia spazio a qualche momento di lucidità, che se non gli porta un
senso di colpa, pur tuttavia riscopre sprazzi di quella coscienza
borghese, che gli sembra così lontana e irraggiungibile, ma di cui
ha una vaga nostalgia, un ricordo di un mondo in cui tutto quadrava
per il meglio, almeno in apparenza, mentre ora la sua condizioneè
quella di una bestia in fuga e senza speranza.
Popingaè tuttavia un fallito e anche la scorciatoia che cercherà di
prendere per risolvere definitivamente il problema di una nuova
esistenza, verso cui prima si sentiva fortemente attratto e che ora
invece mostra tutti i suoi limiti, finirà miseramente e chiuderà
così il suo ciclo vitale in una clinica psichiatrica, in cui,
rassicurato dalle mura che impediscono un confronto con la realtà
esterna, riuscirà a realizzare perfettamente se stesso, un mondo
tutto suo, una specie di limbo in cui i medici non potranno capire
nulla di lui, e, soprattutto, altrettanto lui di se stesso.
In fin dei conti, come tanti personaggi di Simenon, il protagonista
è un uomo all’apparenza normale, fino a quandoè inserito nel
tessuto sociale in cui ha sempre vissuto, ma poi scatta qualche
cosa, a volte anche un’inezia, e l’uomo si trasforma; non c’è nulla
di più complesso della psiche umana, tanto che a nessuno di noiè
dato il privilegio di conoscerci fino in fondo e Simenon non era
dissimile da noi, anzi in lui erano presenti mediocrità e genialità,
quest’ultima riservata alla sua corposa produzione letteraria. Del
Simenon privato forseè meglio non parlare, non ricordare l’egoismo
che lo caratterizzava, la sua ambiguità durante l’occupazione
nazista, il trattamento umiliante riservato alle sue amanti,
una doppia personalità che peraltro non deve stupire, come se in noi
esistessero due nature, ci fossero due io.
E Kees Popingaè il simbolo di questo doppio che poi Simenon
riuscirà a delineare ancor più mirabilmente in un altro romanzo,
I fantasmi del cappellaio.
Anche il titolo, del resto, ci offre nella sua sinteticità il
vagheggiamento onirico del protagonista che cerca di immaginare come
siano i passeggeri, figure indistinte dietro i finestrini,
inconsapevoli attori della vita, e quelle carrozze che corrono sulle
rotaie possono benissimo rappresentare per noi il confuso e convulso
percorso dell’esistenza, ma per Popinga sono solo un sogno, una fuga
da quella realtà che d’improvviso non può più accettare.
Mi sembra inutile dilungarmi ulteriormente, se non per un consiglio
d’obbligo: leggetelo, non ve ne pentirete.
Georges Simenon,
nato a Liegi nel 1903, morto a Losanna nel 1989, ha lasciato
centonovantatre romanzi pubblicati sotto il suo nome e un numero
imprecisato di romanzi e racconti pubblicati sotto pseudonimi, oltre
a volumi di «dettature» e memorie. Il commissario Maigretè
protagonista di 75 romanzi e 28 racconti, tutti pubblicati fra il
1931 e il 1972. Celebre in tutto il mondo, innanzitutto per le
storie di Maigret, Simenonè anche, paradossalmente, un caso di
«scrittore per scrittori». Da Henry Miller a Jean Pauhlan, da
Faulkner a Cocteau, molti e disparati sono infatti gli autori che
hanno riconosciuto in lui un maestro. Tra questi, André Gide:
«Considero Simenon un grande romanziere, forse il più grande e il
più autentico che la letteratura francese abbia oggi»; Walter
Benjamin: «… leggo ogni nuovo romanzo di Simenon»; Louis-Ferdinand
Céline: «Ci sono scrittori che ammiro moltissimo: il Simenon dei
Pitard, per esempio, bisognerebbe parlarne tutti i giorni».
Le Centre d'études Georges Simenon et le Fonds Simenon de l'Université
de Liège si trovano all'indirizzo:
www.ulg.ac.be/libnet/simenon.htm.
Renzo Montagnoli |