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Lontano lontano...
Lontano lontano si fanno la guerra.
Il sangue degli altri si sparge per terra.
Io questa mattina mi sono ferito
a un gambo di rosa, pungendomi un dito.
Succhiando quel dito, pensavo alla guerra.
Oh povera gente, che triste è la terra!
Non posso giovare, non posso parlare,
non posso partire per cielo o per mare.
E se anche potessi, o genti indifese,
ho l'arabo nullo! Ho scarso l'inglese!
Potrei sotto il capo dei corpi riversi
posare un mio fitto volume di versi?
Non credo. Cessiamo la mesta ironia.
Mettiamo una maglia, che il sole va via.
Franco Fortini
consigliata da poetare.it
Congedo del
viaggiatore cerimonioso
Amici, credo che sia
meglio per me cominciare
a tirar giú la valigia.
Anche se non so bene l’ora
d’arrivo, e neppure
conosca quali stazioni
precedano la mia,
sicuri segni mi dicono,
da quanto m’è giunto all’orecchio
di questi luoghi, ch’io
vi dovrò presto lasciare.
Vogliatemi perdonare
quel po’ di disturbo che reco.
Con voi sono stato lieto
dalla partenza, e molto
vi sono grato, credetemi,
per l’ottima compagnia.
Ancora vorrei conversare
a lungo con voi. Ma sia.
Il luogo del trasferimento
lo ignoro. Sento
però che vi dovrò ricordare
spesso, nella nuova sede,
mentre il mio occhio già vede
dal finestrino, oltre il fumo
umido del nebbione
che ci avvolge, rosso
il disco della mia stazione.
Chiedo congedo a voi
senza potervi nascondere,
lieve, una costernazione.
Era cosí bello parlare
insieme, seduti di fronte:
cosí bello confondere
i volti (fumare,
scambiandoci le sigarette),
e tutto quel raccontare
di noi (quell’inventare
facile, nel dire agli altri),
fino a poter confessare
quanto, anche messi alle strette,
mai avremmo osato un istante
(per sbaglio) confidare.
(Scusate. È una valigia pesante
anche se non contiene gran che:
tanto ch’io mi domando perché
l’ho recata, e quale
aiuto mi potrà dare
poi, quando l’avrò con me.
Ma pur la debbo portare,
non fosse che per seguire l’uso.
Lasciatemi, vi prego, passare.
Ecco. Ora ch’essa è
nel corridoio, mi sento
piú sciolto. Vogliate scusare).
Dicevo, ch’era bello stare
insieme. Chiacchierare.
Abbiamo avuto qualche
diverbio, è naturale.
Ci siamo – ed è normale
anche questo – odiati
su piú d’un punto, e frenati
soltanto per cortesia.
Ma, cos’importa. Sia
come sia, torno
a dirvi, e di cuore, grazie
per l’ottima compagnia.
Congedo a lei, dottore,
e alla sua faconda dottrina.
Congedo a te, ragazzina
smilza, e al tuo lieve afrore
di ricreatorio e di prato
sul volto, la cui tinta
mite è sí lieve spinta.
Congedo, o militare
(o marinaio! In terra
come in cielo ed in mare)
alla pace e alla guerra.
Ed anche a lei, sacerdote,
congedo, che m’ha chiesto s’io
(scherzava!) ho avuto in dote
di credere al vero Dio.
Congedo alla sapienza
e congedo all’amore.
Congedo anche alla religione.
Ormai sono a destinazione.
Ora che piú forte sento
stridere il freno, vi lascio
davvero, amici. Addio.
Di questo, sono certo: io
son giunto alla disperazione
calma, senza sgomento.
Scendo. Buon proseguimento.
Giorgio
Caproni
consigliata da poetare.it
Paesaggio
Il campo
di ulivi
s'apre e si chiude
come un ventaglio.
Sull'oliveto
c'è un cielo sommerso
e una pioggia scura
di freddi astri.
Tremano giunco e penombra
sulla riva del fiume.
S'increspa il vento grigio.
Gli ulivi
sono carichi
di gridi.
Uno stormo
d'uccelli prigionieri
che agitano lunghissime
code nel buio.
Federico Garcia Lorca
Traduzione di Carlo Bo
consigliata da poetare.it
Gli emigranti
Cogli occhi spenti, con le guancie cave,
Pallidi, in atto addolorato e grave,
Sorreggendo le donne affrante e smorte,
Ascendono la nave
Come s'ascende il palco de la morte.
E ognun sul petto trepido si serra
Tutto quel che possiede su la terra.
Altri un misero involto, altri un patito
Bimbo, che gli s'afferra
Al collo, dalle immense acque atterrito.
Salgono in lunga fila, umili e muti,
E sopra i volti appar bruni e sparuti
Umido ancora il desolato affanno
Degli estremi saluti
Dati ai monti che più non rivedranno.
Salgono, e ognuno la pupilla mesta
Sulla ricca e gentil Genova arresta,
Intento in atto di stupor profondo,
Come sopra una festa
Fisserebbe lo sguardo un moribondo.
Ammonticchiati là come giumenti
Sulla gelida prua morsa dai venti,
Migrano a terre inospiti e lontane;
Laceri e macilenti,
Varcano i mari per cercar del pane.
Traditi da un mercante menzognero,
Vanno, oggetto di scherno allo straniero,
Bestie da soma, dispregiati iloti,
Carne da cimitero,
Vanno a campar d'angoscia in lidi ignoti.
Vanno, ignari di tutto, ove li porta
La fame, in terre ove altra gente è morta;
Come il pezzente cieco o vagabondo
Erra di porta in porta,
Essi così vanno di mondo in mondo.
Vanno coi figli come un gran tesoro
Celando in petto una moneta d'oro,
Frutto segreto d'infiniti stonti,
E le donne con loro,
Istupidite martiri piangenti.
Pur nell'angoscia di quell'ultim'ora
Il suol che li rifiuta amano ancora;
L'amano ancora il maledetto suolo
Che i figli suoi divora,
Dove sudano mille e campa un solo.
E li han nel core in quei solenni istanti
I bei clivi di allegre acque sonanti,
E le chiesette candide, e i pacati
Laghi cinti di piante,
E i villaggi tranquilli ove son nati!
E ognuno forse sprigionando un grido,
Se lo potesse, tornerebbe al lido;
Tornerebbe a morir sopra i nativi
Monti, nel triste nido
Dove piangono i suoi vecchi malvivi.
Addio, poveri vecchi! In men d'un anno
Rosi dalla miseria e dall'affanno,
Forse morrete là senza compianto,
E i figli nol sapranno,
E andrete ignudi e soli al camposanto.
Poveri vecchi, addio! Forse a quest'ora
Dai muti clivi che il tramonto indora
La man levate i figli a benedire….
Benediteli ancora:
Tutti vanno a soffrir, molti a morire.
Ecco il naviglio maestoso e lento
Salpa, Genova gira, alita il vento.
Sul vago lido si distende un velo,
E il drappello sgomento
Solleva un grido desolato al cielo.
Chi al lido che dispar tende le braccia.
Chi nell'involto suo china la faccia,
Chi versando un'amara onda dagli occhi
La sua compagna abbraccia,
Chi supplicando Iddio piega i ginocchi.
E il naviglio s'affretta, e il giorno muore,
E un suon di pianti e d'urli di dolore
Vagamente confuso al suon dell'onda
Viene a morir nel core
De la folla che guarda da la sponda.
Addio, fratelli! Addio, turba dolente!
Vi sia pietoso il cielo e il mar clemente,
V'allieti il sole il misero viaggio;
Addio, povera gente,
Datevi pace e fatevi coraggio.
Stringete il nodo dei fraterni affetti.
Riparate dal freddo i fanciulletti ,
Dividetevi i cenci, i soldi, il pane,
Sfidate uniti e stretti
L'imperversar de le sciagure umane.
E Iddio vi faccia rivarcar quei mari,
E tornare ai villaggi umili e cari,
E ritrovare ancor de le deserte
Case sui limitari
I vostri vecchi con le braccia aperte.
Edmondo De Amicis
consigliata da Marino Giannuzzo
La signorina Felicita ovvero
la Felicità
I.
Signorina Felicita, a quest'ora
scende la sera nel giardino antico
della tua casa. Nel mio cuore amico
scende il ricordo. E ti rivedo ancora,
e Ivrea rivedo e la cerulea Dora
e quel dolce paese che non dico.
Signorina Felicita, è il tuo giorno!
A quest'ora che fai? Tosti il caffè:
e il buon aroma si diffonde intorno?
O cuci i lini e canti e pensi a me,
all'avvocato che non fa ritorno?
E l'avvocato è qui: che pensa a te.
Pensa i bei giorni d'un autunno addietro,
Vill'Amarena a sommo dell'ascesa
coi suoi ciliegi e con la sua Marchesa
dannata, e l'orto dal profumo tetro
di busso e i cocci innumeri di vetro
sulla cinta vetusta, alla difesa...
Vill'Amarena! Dolce la tua casa
in quella grande pace settembrina!
La tua casa che veste una cortina
di granoturco fino alla cimasa:
come una dama secentista, invasa
dal Tempo, che vestì da contadina.
Bell'edificio triste inabitato!
Grate panciute, logore, contorte!
Silenzio! Fuga dalle stanze morte!
Odore d'ombra! Odore di passato!
Odore d'abbandono desolato!
Fiabe defunte delle sovrapporte!
Ercole furibondo ed il Centauro,
le gesta dell'eroe navigatore,
Fetonte e il Po, lo sventurato amore
d'Arianna, Minosse, il Minotauro,
Dafne rincorsa, trasmutata in lauro
tra le braccia del Nume ghermitore...
Penso l'arredo - che malinconia! -
penso l'arredo squallido e severo,
antico e nuovo: la pirografia
sui divani corinzi dell'Impero,
la cartolina della Bella Otero
alle specchiere... Che malinconia!
Antica suppellettile forbita!
Armadi immensi pieni di lenzuola
che tu rammendi paziente... Avita
semplicità che l'anima consola,
semplicità dove tu vivi sola
con tuo padre la tua semplice vita!
II.
Quel tuo buon padre - in fama d'usuraio -
quasi bifolco, m'accoglieva senza
inquietarsi della mia frequenza,
mi parlava dell'uve e del massaio,
mi confidava certo antico guaio
notarile, con somma deferenza.
"Senta, avvocato..." E mi traeva inqueto
nel salone, talvolta, con un atto
che leggeva lentissimo, in segreto.
Io l'ascoltavo docile, distratto
da quell'odor d'inchiostro putrefatto,
da quel disegno strano del tappeto,
da quel salone buio e troppo vasto...
"...la Marchesa fuggì... Le spese cieche..."
da quel parato a ghirlandette, a greche...
"dell'ottocento e dieci, ma il catasto..."
da quel tic-tac dell'orologio guasto...
"...l'ipotecario è morto, e l'ipoteche..."
Capiva poi che non capivo niente
e sbigottiva: "Ma l'ipotecario
è morto, è morto!!...". - "E se l'ipotecario
è morto, allora..." Fortunatamente
tu comparivi tutta sorridente:
"Ecco il nostro malato immaginario!".
III.
Sei quasi brutta, priva di lusinga
nelle tue vesti quasi campagnole,
ma la tua faccia buona e casalinga,
ma i bei capelli di color di sole,
attorti in minutissime trecciuole,
ti fanno un tipo di beltà fiamminga...
E rivedo la tua bocca vermiglia
così larga nel ridere e nel bere,
e il volto quadro, senza sopracciglia,
tutto sparso d'efelidi leggiere
e gli occhi fermi, l'iridi sincere
azzurre d'un azzurro di stoviglia...
Tu m'hai amato. Nei begli occhi fermi
rideva una blandizie femminina.
Tu civettavi con sottili schermi,
tu volevi piacermi, Signorina:
e più d'ogni conquista cittadina
mi lusingò quel tuo voler piacermi!
Ogni giorno salivo alla tua volta
pel soleggiato ripido sentiero.
Il farmacista non pensò davvero
un'amicizia così bene accolta,
quando ti presentò la prima volta
l'ignoto villeggiante forestiero.
Talora - già la mensa era imbandita -
mi trattenevi a cena. Era una cena
d'altri tempi, col gatto e la falena
e la stoviglia semplice e fiorita
e il commento dei cibi e Maddalena
decrepita, e la siesta e la partita...
Per la partita, verso ventun'ore
giungeva tutto l'inclito collegio
politico locale: il molto Regio
Notaio, il signor Sindaco, il Dottore;
ma - poiché trasognato giocatore -
quei signori m'avevano in dispregio...
M'era più dolce starmene in cucina
tra le stoviglie a vividi colori:
tu tacevi, tacevo, Signorina:
godevo quel silenzio e quegli odori
tanto tanto per me consolatori,
di basilico d'aglio di cedrina...
Maddalena con sordo brontolio
disponeva gli arredi ben detersi,
rigovernava lentamente ed io,
già smarrito nei sogni più diversi,
accordavo le sillabe dei versi
sul ritmo eguale dell'acciottolio.
Sotto l'immensa cappa del camino
(in me rivive l'anima d'un cuoco
forse...) godevo il sibilo del fuoco;
la canzone d'un grillo canterino
mi diceva parole, a poco a poco,
e vedevo Pinocchio e il mio destino...
Vedevo questa vita che m'avanza:
chiudevo gli occhi nei presagi grevi;
aprivo gli occhi: tu mi sorridevi,
ed ecco rifioriva la speranza!
Giungevano le risa, i motti brevi
dei giocatori, da quell'altra stanza.
IV.
Bellezza riposata dei solai
dove il rifiuto secolare dorme!
In quella tomba, tra le vane forme
di ciò ch'è stato e non sarà più mai,
bianca bella così che sussultai,
la Dama apparve nella tela enorme:
"é quella che lascò, per infortuni,
la casa al nonno di mio nonno... E noi
la confinammo nel solaio, poi
che porta pena... L'han veduta alcuni
lasciare il quadro; in certi noviluni
s'ode il suo passo lungo i corridoi...".
Il nostro passo diffondeva l'eco
tra quei rottami del passato vano,
e la Marchesa dal profilo greco,
altocinta, l'un piede ignudo in mano,
si riposava all'ombra d'uno speco
arcade, sotto un bel cielo pagano.
Intorno a quella che rideva illusa
nel ricco peplo, e che morì di fame,
v'era una stirpe logora e confusa:
topaie, materassi, vasellame,
lucerne, ceste, mobili: ciarpame
reietto, così caro alla mia Musa!
Tra i materassi logori e le ceste
v'erano stampe di persone egregie;
incoronato dalle frondi regie
v'era Torquato nei giardini d'Este.
"Avvocato, perché su quelle teste
buffe si vede un ramo di ciliege?"
Io risi, tanto che fermammo il passo,
e ridendo pensai questo pensiero:
Oimè! La Gloria! un corridoio basso,
tre ceste, un canterano dell'Impero,
la brutta effigie incorniciata in nero
e sotto il nome di Torquato Tasso!
Allora, quasi a voce che richiama,
esplorai la pianura autunnale
dall'abbaino secentista, ovale,
a telaietti fitti, ove la trama
del vetro deformava il panorama
come un antico smalto innaturale.
Non vero (e bello) come in uno smalto
a zone quadre, apparve il Canavese:
Ivrea turrita, i colli di Montalto,
la Serra dritta, gli alberi, le chiese;
e il mio sogno di pace si protese
da quel rifugio luminoso ed alto.
Ecco - pensavo - questa è l'Amarena,
ma laggiù, oltre i colli dilettosi,
c'è il Mondo: quella cosa tutta piena
di lotte e di commerci turbinosi,
la cosa tutta piena di quei "cosi
con due gambe" che fanno tanta pena...
L'Eguagliatrice numera le fosse,
ma quelli vanno, spinti da chimere
vane, divisi e suddivisi a schiere
opposte, intesi all'odio e alle percosse:
così come ci son formiche rosse,
così come ci son formiche nere...
Schierati al sole o all'ombra della Croce,
tutti travolge il turbine dell'oro;
o Musa - oimè! - che può giovare loro
il ritmo della mia piccola voce?
Meglio fuggire dalla guerra atroce
del piacere, dell'oro, dell'alloro...
L'alloro... Oh! Bimbo semplice che fui,
dal cuore in mano e dalla fronte alta!
Oggi l'alloro è premio di colui
che tra clangor di buccine s'esalta,
che sale cerretano alla ribalta
per far di sé favoleggiar altrui...
"Avvocato, non parla: che cos'ha?"
"Oh! Signorina! Penso ai casi miei,
a piccole miserie, alla città...
Sarebbe dolce restar qui, con Lei!..."
"Qui, nel solaio?..." - "Per l'eternità!"
"Per sempre? Accetterebbe?..." - "Accetterei!"
Tacqui. Scorgevo un atropo soletto
e prigioniero. Stavasi in riposo
alla parete: il segno spaventoso
chiuso tra l'ali ripiegate a tetto.
Come lo vellicai sul corsaletto
si librò con un ronzo lamentoso.
"Che ronzo triste!" - "é la Marchesa in pianto...
La Dannata sarà che porta pena..."
Nulla s'udiva che la sfinge in pena
e dalle vigne, ad ora ad ora, un canto:
O mio carino tu mi piaci tanto,
siccome piace al mar una sirena...
Un richiamo s'alzò, querulo e roco:
"é Maddalena inqueta che si tardi:
scendiamo; è l'ora della cena!". - "Guardi,
guardi il tramonto, là... Com'è di fuoco!...
Restiamo ancora un poco!" - "Andiamo, è tardi!"
"Signorina, restiamo ancora un poco!..."
Le fronti al vetro, chini sulla piana,
seguimmo i neri pippistrelli, a frotte;
giunse col vento un ritmo di campana,
disparve il sole fra le nubi rotte;
a poco a poco s'annunciò la notte
sulla serenità canavesana...
"Una stella!..." - "Tre stelle!..." - "Quattro stelle!..."
"Cinque stelle!" - "Non sembra di sognare?..."
Ma ti levasti su quasi ribelle
alla perplessità crepuscolare:
"Scendiamo! é tardi: possono pensare
che noi si faccia cose poco belle..."
V.
Ozi beati a mezzo la giornata,
nel parco dei marchesi, ove la traccia
restava appena dell'età passata!
Le Stagioni camuse e senza braccia,
fra mucchi di letame e di vinaccia,
dominavano i porri e l'insalata.
L'insalata, i legumi produttivi
deridevano il busso delle aiole;
volavano le pieridi nel sole
e le cetonie e i bombi fuggitivi...
Io ti parlavo, piano, e tu cucivi
innebriata dalle mie parole.
"Tutto mi spiace che mi piacque innanzi!
Ah! Rimanere qui, sempre, al suo fianco,
terminare la vita che m'avanzi
tra questo verde e questo lino bianco!
Se Lei sapesse come sono stanco
delle donne rifatte sui romanzi!
Vennero donne con proteso il cuore:
ognuna dileguò, senza vestigio.
Lei sola, forse, il freddo sognatore
educherebbe al tenero prodigio:
mai non comparve sul mio cielo grigio
quell'aurora che dicono: l'Amore..."
Tu mi fissavi... Nei begli occhi fissi
leggevo uno sgomento indefinito;
le mani ti cercai, sopra il cucito,
e te le strinsi lungamente, e dissi:
"Mia cara Signorina, se guarissi
ancora, mi vorrebbe per marito?".
"Perché mi fa tali discorsi vani?
Sposare, Lei, me brutta e poveretta!..."
E ti piegasti sulla tua panchetta
facendo al viso coppa delle mani,
simulando singhiozzi acuti e strani
per celia, come fa la scolaretta.
Ma, nel chinarmi su di te, m'accorsi
che sussultavi come chi singhiozza
veramente, né sa più ricomporsi:
mi parve udire la tua voce mozza
da gli ultimi singulti nella strozza:
"Non mi ten...ga mai più... tali dis...corsi!"
"Piange?" E tentai di sollevarti il viso
inutilmente. Poi, colto un fuscello,
ti vellicai l'orecchio, il collo snello...
Già tutta luminosa nel sorriso
ti sollevasti vinta d'improvviso,
trillando un trillo gaio di fringuello.
Donna: mistero senza fine bello!
VI.
Tu m'hai amato. Nei begli occhi fermi
luceva una blandizie femminina;
tu civettavi con sottili schermi,
tu volevi piacermi, Signorina;
e più d'ogni conquista cittadina
mi lusingò quel tuo voler piacermi!
Unire la mia sorte alla tua sorte
per sempre, nella casa centenaria!
Ah! Con te, forse, piccola consorte
vivace, trasparente come l'aria,
rinnegherei la fede letteraria
che fa la vita simile alla morte...
Oh! questa vita sterile, di sogno!
Meglio la vita ruvida concreta
del buon mercante inteso alla moneta,
meglio andare sferzati dal bisogno,
ma vivere di vita! Io mi vergogno,
sì, mi vergogno d'essere un poeta!
Tu non fai versi. Tagli le camicie
per tuo padre. Hai fatta la seconda
classe, t'han detto che la Terra è tonda,
ma tu non credi... E non mediti Nietzsche...
Mi piaci. Mi faresti più felice
d'un'intellettuale gemebonda...
Tu ignori questo male che s'apprende
in noi. Tu vivi i tuoi giorni modesti,
tutta beata nelle tue faccende.
Mi piace. Penso che leggendo questi
miei versi tuoi, non mi comprenderesti,
ed a me piace chi non mi comprende.
Ed io non voglio più essere io!
Non più l'esteta gelido, il sofista,
ma vivere nel tuo borgo natio,
ma vivere alla piccola conquista
mercanteggiando placido, in oblio
come tuo padre, come il farmacista...
Ed io non voglio più essere io!
VII.
Il farmacista nella farmacia
m'elogiava un farmaco sagace:
"Vedrà che dorme le sue notti in pace:
un sonnifero d'oro, in fede mia!"
Narrava, intanto, certa gelosia
con non so che loquacità mordace.
"Ma c'è il notaio pazzo di quell'oca!
Ah! quel notaio, creda: un capo ameno!
La Signorina è brutta, senza seno,
volgaruccia, Lei sa, come una cuoca...
E la dote... la dote è poca, poca:
diecimila, chi sa, forse nemmeno..."
"Ma dunque?" - "C'è il notaio furibondo
con Lei, con me che volli presentarla
a Lei; non mi saluta, non mi parla..."
"é geloso?" - "Geloso! Un finimondo!..."
"Pettegolezzi!..." - "Ma non Le nascondo
che temo, temo qualche brutta ciarla..."
"Non tema! Parto." - "Parte? E va lontana?"
"Molto lontano... Vede, cade a mezzo
ogni motivo di pettegolezzo..."
"Davvero parte? Quando?" - "In settimana..."
Ed uscii dall'odor d'ipecacuana
nel plenilunio settembrino, al rezzo.
Andai vagando nel silenzio amico,
triste perduto come un mendicante.
Mezzanotte scoccò, lenta, rombante
su quel dolce paese che non dico.
La Luna sopra il campanile antico
pareva "un punto sopra un I gigante".
In molti mesti e pochi sogni lieti,
solo pellegrinai col mio rimpianto
fra le siepi, le vigne, i castagneti
quasi d'argento fatti nell'incanto;
e al cancello sostai del camposanto
come s'usa nei libri dei poeti.
Voi che posate già sull'altra riva,
immuni dalla gioia, dallo strazio,
parlate, o morti, al pellegrino sazio!
Giova guarire? Giova che si viva?
O meglio giova l'Ospite furtiva
che ci affranca dal Tempo e dallo Spazio?
A lungo meditai, senza ritrarre
la tempia dalle sbarre. Quasi a scherno
s'udiva il grido delle strigi alterno...
La Luna, prigioniera fra le sbarre,
imitava con sue luci bizzarre
gli amanti che si baciano in eterno.
Bacio lunare, fra le nubi chiare
come di moda settant'anni fa!
Ecco la Morte e la Felicità!
L'una m'incalza quando l'altra appare;
quella m'esilia in terra d'oltremare,
questa promette il bene che sarà...
VIII.
Nel mestissimo giorno degli addii
mi piacque rivedere la tua villa.
La morte dell'estate era tranquilla
in quel mattino chiaro che salii
tra i vigneti già spogli, tra i pendii
già trapunti da bei colchici lilla.
Forse vedendo il bel fiore malvagio
che i fiori uccide e semina le brume,
le rondini addestravano le piume
al primo volo, timido, randagio;
e a me randagio parve buon presagio
accompagnarmi loro nel costume.
"Viaggio con le rondini stamane..."
"Dove andrà?" - "Dove andrò? Non so... Viaggio,
viaggio per fuggire altro viaggio...
Oltre Marocco, ad isolette strane,
ricche in essenze, in datteri, in banane,
perdute nell'Atlantico selvaggio...
Signorina, s'io torni d'oltremare,
non sarà d'altri già? Sono sicuro
di ritrovarla ancora? Questo puro
amore nostro salirà l'altare?"
E vidi la tua bocca sillabare
a poco a poco le sillabe: giuro.
Giurasti e disegnasti una ghirlanda
sul muro, di viole e di saette,
coi nomi e con la data memoranda:
trenta settembre novecentosette...
Io non sorrisi. L'animo godette
quel romantico gesto d'educanda.
Le rondini garrivano assordanti,
garrivano garrivano parole
d'addio, guizzando ratte come spole,
incitando le piccole migranti...
Tu seguivi gli stormi lontananti
ad uno ad uno per le vie del sole...
"Un altro stormo s'alza!..." - "Ecco s'avvia!"
"Sono partite..." - "E non le salutò!..."
"Lei devo salutare, quelle no:
quelle terranno la mia stessa via:
in un palmeto della Barberia
tra pochi giorni le ritroverò..."
Giunse il distacco, amaro senza fine,
e fu il distacco d'altri tempi, quando
le amate in bande lisce e in crinoline,
protese da un giardino venerando,
singhiozzavano forte, salutando
diligenze che andavano al confine...
M'apparisti così come in un cantico
del Prati, lacrimante l'abbandono
per l'isole perdute nell'Atlantico;
ed io fui l'uomo d'altri tempi, un buono
sentimentale giovine romantico...
Quello che fingo d'essere e non sono!
Guido Gozzano
consigliata da giuseppe gianpaolo casarini
Le
due strade
Tra le bande verdi gialle d'innumeri ginestre
la bella strada alpestre scendeva nella valle.
Andavo con l'Amica, recando nell'ascesa
la triste che già pesa nostra catena antica;
quando nel lento oblio, rapidamente in vista
apparve una ciclista a sommo del pendio.
Ci venne incontro; scese. «Signora! Sono Grazia!»
sorrise nella grazia dell'abito scozzese.
«Graziella, la bambina?» – «Mi riconosce ancora?»
«Ma certo!» E la Signora baciò la Signorina.
La piccola Graziella! Diciott'anni? Di già?
La Mamma come sta? E ti sei fatta bella!
«La piccola Graziella, così cattiva e ingorda!...»
«Signora, si ricorda quelli anni?» – «E così bella
vai senza cavalieri in bicicletta?» – «Vede...»
«Ci segui un tratto a piede?» – «Signora, volentieri...»
«Ah! ti presento, aspetta, l'Avvocato, un amico
caro di mio marito... Dagli la bicicletta.»
Sorrise e non rispose. Condussi nell'ascesa
la bicicletta accesa d'un gran mazzo di rose.
E la Signora scaltra e la bambina ardita
si mossero: la vita una allacciò dell'altra.
Adolescente l'una nelle gonnelle corte,
eppur già donna: forte bella vivace bruna
e balda nel solino dritto, nella cravatta,
la gran chioma disfatta nel tocco da fantino.
Ed io godevo senza parlare, con l'aroma
degli abeti, l'aroma di quell'adolescenza.
– O via della salute, o vergine apparita,
o via tutta fiorita di gioie non mietute,
forse la buona via saresti al mio passaggio,
un dolce beveraggio alla malinconia.
O bimba, nelle palme tu chiudi la mia sorte;
discendere alla Morte come per rive calme,
discendere al Niente pel mio sentiere umano,
ma avere te per mano, o dolce sorridente! –
Così dicevo senza parola. E l'Altra intanto
vedevo: triste accanto a quell'adolescenza!
Da troppo tempo bella, non più bella tra poco,
colei che vide al gioco la piccola Graziella.
Belli i belli occhi strani della bellezza ancora
d'un fiore che disfiora e non avrà domani.
Al freddo che s'annunzia piegan le rose intatte,
ma la donna combatte nell'ultima rinunzia.
O pallide leggiadre mani per voi trascorse-
ro gli anni! Gli anni, forse, gli anni di mia Madre!
Sotto l'aperto cielo, presso l'adolescente
come terribilmente m'apparve lo sfacelo!
Nulla fu più sinistro che la bocca vermiglia
troppo, le tinte ciglia e l'opera del bistro
intorno all'occhio stanco, la piega di quei labri,
l'inganno dei cinabri sul volto troppo bianco,
gli accesi dal veleno biondissimi capelli:
in altro tempo belli d'un bel biondo sereno.
Da troppo tempo bella, non più bella tra poco,
colei che vide al gioco la piccola Graziella.
– O mio cuore che valse la luce mattutina
raggiante sulla china tutte le strade false?
Cuore che non fioristi, è vano che t'affretti
verso miraggi schietti, in orti meno tristi.
Tu senti che non giova all'uomo soffermarsi,
gittare i sogni sparsi per una vita nuova.
Discenderai al niente pel tuo sentiere umano
e non avrai per mano la dolce sorridente,
ma l'altro beveraggio avrai fino alla morte:
il tempo è già più forte di tutto il tuo coraggio. –
Queste pensavo cose, guidando nell'ascesa
la bicicletta accesa d'un gran mazzo di rose.
Erano folti intorno gli abeti nell'assalto
dei greppi fino all'alto nevaio disadorno.
I greggi, sparsi a picco, in gran tinniti e mugli
brucavano ai cespugli di menta il latte ricco;
e prossimi e lontani univan sonnolenti
al ritmo dei torrenti un ritmo di campani.
– Lungi i pensieri foschi! Se non verrà l'amore –
che importa? Giunge al cuore il buono odor dei boschi:
di quali aromi opimo odore non si sa:
di resina? di timo? e di serenità?... –
Sostammo accanto a un prato e la Signora china
baciò la Signorina, ridendo nel commiato:
«Bada che aspetterò, che aspetteremo te;
si prende un po' di the, si maledice un po'...»
«Verrò, Signora, grazie!» Dalle mie mani in fretta
prese la bicicletta. E non mi disse grazie.
Non mi parlò. D'un balzo salì, prese l'avvio;
la macchina il fruscìo ebbe d'un piede scalzo,
d'un batter d'ali ignote, come seguita a lato
da un non so che d'alato volgente con le ruote.
Restammo alle sue spalle. La strada, come un nastro
sottile d'alabastro, scendeva nella valle.
Volò, come sospesa la bicicletta snella:
«O piccola Graziella, attenta alla discesa!».
«Signora! arrivederla!» Gridò di lungi, ai venti:
di lungi ebbero i denti un balenio di perla.
Graziella è lungi. Vola vola la bicicletta:
«Amica! E non m'ha detta una parola sola!».
«Te ne duole?» – «Chi sa!» – «Fu taciturna, amore,
per te, come il Dolore...» – «O la Felicità!»
E seguitai l'amica, recando nell'ascesa
la triste che già pesa nostra catena antica.
Guido Gozzano
consigliata da giuseppe gianpaolo casarini
L'aquilone
C'è qualcosa di nuovo oggi nel sole,
anzi d'antico: io vivo altrove, e sento
che sono intorno nate le viole.
Son nate nella selva del convento
dei cappuccini, tra le morte foglie
che al ceppo delle quercie agita il vento.
Si respira una dolce aria che scioglie
le dure zolle, e visita le chiese
di campagna, ch'erbose hanno le soglie:
un'aria d'altro luogo e d'altro mese
e d'altra vita: un'aria celestina
che regga molte bianche ali sospese...
sì, gli aquiloni! È questa una mattina
che non c'è scuola. Siamo usciti a schiera
tra le siepi di rovo e d'albaspina.
Le siepi erano brulle, irte; ma c'era
d'autunno ancora qualche mazzo rosso
di bacche, e qualche fior di primavera
bianco; e sui rami nudi il pettirosso
saltava, e la lucertola il capino
mostrava tra le foglie aspre del fosso.
Or siamo fermi: abbiamo in faccia Urbino
ventoso: ognuno manda da una balza
la sua cometa per il ciel turchino.
Ed ecco ondeggia, pencola, urta, sbalza,
risale, prende il vento; ecco pian piano
tra un lungo dei fanciulli urlo s'inalza.
S'inalza; e ruba il filo dalla mano,
come un fiore che fugga su lo stelo
esile, e vada a rifiorir lontano.
S'inalza; e i piedi trepidi e l'anelo
petto del bimbo e l'avida pupilla
e il viso e il cuore, porta tutto in cielo.
Più su, più su: già come un punto brilla
lassù lassù... Ma ecco una ventata
di sbieco, ecco uno strillo alto... - Chi strilla?
Sono le voci della camerata
mia: le conosco tutte all'improvviso,
una dolce, una acuta, una velata...
A uno a uno tutti vi ravviso,
o miei compagni! e te, sì, che abbandoni
su l'omero il pallor muto del viso.
Sì: dissi sopra te l'orazïoni,
e piansi: eppur, felice te che al vento
non vedesti cader che gli aquiloni!
Tu eri tutto bianco, io mi rammento.
solo avevi del rosso nei ginocchi,
per quel nostro pregar sul pavimento.
Oh! te felice che chiudesti gli occhi
persuaso, stringendoti sul cuore
il più caro dei tuoi cari balocchi!
Oh! dolcemente, so ben io, si muore
la sua stringendo fanciullezza al petto,
come i candidi suoi pètali un fiore
ancora in boccia! O morto giovinetto,
anch'io presto verrò sotto le zolle
là dove dormi placido e soletto...
Meglio venirci ansante, roseo, molle
di sudor, come dopo una gioconda
corsa di gara per salire un colle!
Meglio venirci con la testa bionda,
che poi che fredda giacque sul guanciale,
ti pettinò co' bei capelli a onda
tua madre... adagio, per non farti male.
Giovanni Pascoli
consigliata da giuseppe gianpaolo casarini
Davanti San Guido
I cipressi che a Bólgheri alti e schietti
Van da San Guido in duplice filar,
Quasi in corsa giganti giovinetti
Mi balzarono incontro e mi guardâr.
Mi riconobbero, e - Ben torni omai -
Bisbigliaron vèr me co 'l capo chino -
Perché non scendi? perché non ristai?
Fresca è la sera e a te noto il cammino.
Oh si èditi a le nostre ombre odorate
Ove soffia dal mare il maestrale:
Ira non ti serbiam de le sassate
Tue d'una volta: oh, non facean già male!
Nidi portiamo ancor di rusignoli:
Deh perché fuggi rapido così?
Le passere la sera intreccian voli
A noi d'intorno ancora. Oh resta qui!-
- Bei cipressetti, cipressetti miei,
Fedeli amici d'un tempo migliore,
Oh di che cuor con voi mi resterei -
Guardando io rispondeva - oh di che cuore!
Ma, cipressetti miei, lasciatem'ire:
Or non è più quel tempo e quell'età.
Se voi sapeste!... via, non fo per dire,
Ma oggi sono una celebrità.
E so legger di greco e di latino,
E scrivo e scrivo, e ho molte altre virtù;
Non son più, cipressetti, un birichino,
E sassi in specie non ne tiro più.
E massime a le piante. - Un mormorio
Pe' dubitanti vertici ondeggiò,
E il dì cadente con un ghigno pio
Tra i verdi cupi roseo brillò.
Intesi allora che i cipressi e il sole
Una gentil pietade avean di me,
E presto il mormorio si fe' parole:
- Ben lo sappiamo: un pover uomo tu se'.
Ben lo sappiamo, e il vento ce lo disse
Che rapisce de gli uomini i sospir,
Come dentro al tuo petto eterne risse
Ardon che tu né sai né puoi lenir.
A le querce ed a noi qui puoi contare
L'umana tua tristezza e il vostro duol;
Vedi come pacato e azzurro è il mare,
Come ridente a lui discende il sol!
E come questo occaso è pien di voli,
Com'è allegro de' passeri il garrire!
A notte canteranno i rusignoli:
Rimanti, e i rei fantasmi oh non seguire;
I rei fantasmi che da' fondi neri
De i cuor vostri battuti dal pensier
Guizzan come da i vostri cimiteri
Putride fiamme innanzi al passegger.
Rimanti; e noi, dimani, a mezzo il giorno,
Che de le grandi querce a l'ombra stan
Ammusando i cavalli e intorno intorno
Tutto è silenzio ne l'ardente pian,
Ti canteremo noi cipressi i cori
Che vanno eterni fra la terra e il cielo:
Da quegli olmi le ninfe usciran fuori
Te ventilando co 'l lor bianco velo;
E Pan l'eterno che su l'erme alture
A quell'ora e ne i pian solingo va
Il dissidio, o mortal, de le tue cure
Ne la diva armonia sommergerà. -
Ed io - Lontano, oltre Appennin, m'aspetta
La Tittì - rispondea -; lasciatem'ire.
è la Tittì come una passeretta,
Ma non ha penne per il suo vestire.
E mangia altro che bacche di cipresso;
Né io sono per anche un manzoniano
Che tiri quattro paghe per il lesso.
Addio, cipressi! addio, dolce mio piano! -
- Che vuoi che diciam dunque al cimitero
Dove la nonna tua sepolta sta? -
E fuggìano, e pareano un corteo nero
Che brontolando in fretta in fretta va.
Di cima al poggio allor, dal cimitero,
Giù de' cipressi per la verde via,
Alta, solenne, vestita di nero
Parvemi riveder nonna Lucia:
La signora Lucia, da la cui bocca,
Tra l'ondeggiar de i candidi capelli,
La favella toscana, ch'è sì sciocca
Nel manzonismo de gli stenterelli,
Canora discendea, co 'l mesto accento
De la Versilia che nel cuor mi sta,
Come da un sirventese del trecento,
Piena di forza e di soavità.
O nonna, o nonna! deh com'era bella
Quand'ero bimbo! ditemela ancor,
Ditela a quest'uom savio la novella
Di lei che cerca il suo perduto amor!
- Sette paia di scarpe ho consumate
Di tutto ferro per te ritrovare:
Sette verghe di ferro ho logorate
Per appoggiarmi nel fatale andare:
Sette fiasche di lacrime ho colmate,
Sette lunghi anni, di lacrime amare:
Tu dormi a le mie grida disperate,
E il gallo canta, e non ti vuoi svegliare. -
Deh come bella, o nonna, e come vera
è la novella ancor! Proprio così.
E quello che cercai mattina e sera
Tanti e tanti anni in vano,è forse qui,
Sotto questi cipressi, ove non spero,
Ove non penso di posarmi più:
Forse, nonna,è nel vostro cimitero
Tra quegli altri cipressi ermo là su.
Ansimando fuggìa la vaporiera
Mentr'io così piangeva entro il mio cuore;
E di polledri una leggiadra schiera
Annitrendo correa lieta al rumore.
Ma un asin bigio, rosicchiando un cardo
Rosso e turchino, non si scomodò:
Tutto quel chiasso ei non degnò d'un guardo
E a brucar serio e lento seguitò.
Giosuè Carducci
La poesia prende spunto da un
viaggio in treno compiuto dallo stesso Carducci per tornare a
Bologna.
Durante il percorso, nel cuore della Maremma toscana, il poeta
ricorda i luoghi dell'infanzia,
con i cipressi alti e superbi che da Bolgheri vanno a San Guido in doppia
fila.
I momenti dell'infanzia, ricordati dalla visione dei cipressi e,
per ultimo, dall'immagine di Nonna Lucia,
si contrappongono al viaggio del poeta verso Bologna, dove
l'aspetta la Tittì, la sua cara bambina
consigliata da giuseppe gianpaolo casarini
Traversando la Maremma
Toscana
Dolce paese, onde portai conforme
l’abito fiero e lo sdegnoso canto
e il petto ov’odio e amor mai non s’addorme,
pur ti riveggo, e il cor mi balza in tanto.
Ben riconosco in te le usate forme
con gli occhi incerti tra ’l sorriso e il pianto,
e in quelle seguo de’ miei sogni l’orme
erranti dietro il giovenile incanto.
Oh, quel che amai, quel che sognai, fu in vano;
e sempre corsi, e mai non giunsi il fine;
e dimani cadrò. Ma di lontano
pace dicono al cuor le tue colline
con le nebbie sfumanti e il verde piano
ridente ne le pioggie mattutine.
Giosuè Carducci
consigliata da giuseppe gianpaolo casarini
A
Luigia Pallavicini caduta da cavallo
I balsami beati
Per te Grazie apprestino,
Per te i lini odorati
Che a Citerea porgeano
Quando profano spino 5
Le punse il piè divino,
Quel dì che insana empiea
Il sacro Ida di gemiti,
E col crine tergea
E bagnava di lacrime 10
Il sanguinoso petto
Al Ciprio giovinetto.
Or te piangon gli amori,
Te fra le dive Liguri
Regina e diva! e fiori 15
Votivi all’ara portano
D’onde il grand’arco suona
Del figlio di Latona.
E te chiama la danza
Ove l’aure portavano 20
Insolita fragranza,
Allor che a’ nodi indocile
La chioma al roseo braccio
Ti fu gentile impaccio.
Tal nel lavacro immersa, 25
Che fior, dall’Eliconio
Clivo cadendo, versa,
Palla dall’elmo i liberi
Crin su la man che gronda
Contien fuori dell’onda. 30
Armonïosi accenti
Dal tuo labbro volavano,
E dagli occhi ridenti
Traluceano di Venere
I disdegni e le paci, 35
La speme, il pianto e i baci.
Deh! perchè hai le gentili
Forme e l’ingegno docile
Vôlto a studi virili?
Perchè non dell’Aonie 40
Seguivi, incauta, l’arte,
Ma i ludi aspri di Marte?
Invan presaghi i venti
Il polveroso agghiacciano
Petto e le reni ardenti 45
Dell’inquïeto alipede,
Ed irritante il morso
Accresce impeto al corso.
Ardon gli sguardi, fuma
La bocca, agita l’ardua 50
Testa, vola la spuma,
Ed i manti volubili
Lorda, e l’incerto freno,
Ed il candido seno;
E il sudor piove, e i crini 55
Sul collo irti svolazzano,
Suonan gli antri marini
Allo incalzato scalpito
Della zampa che caccia
Polve e sassi in sua traccia. 60
Già dal lito si slancia
Sordo ai clamori e al fremito;
Già già fino alla pancia
Nuota . . . e ingorde si gonfiano
Non più memori l’acque 65
Che una Dea da lor nacque:
Se non che il Re dell’onde,
Dolente ancor d’Ippolito,
Surse per le profonde
Vie dal Tirreno talamo, 70
E respinse il furente
Col cenno onnipotente.
Quel dal flutto arretrosse
Ricalcitrando, e, orribile!
Sovra l’anche rizzosse; 75
Scuote l’arcion, te misera
Su la pietrosa riva
Strascinando mal viva.
Pera chi osò primiero
Discortese commettere 80
A infedele corsiero
L’agil fianco femineo,
E aprì con rio consiglio
Nuovo a beltà periglio!
Chè or non vedrei le rose 85
Del tuo volto sì languide;
Non le luci amorose
Spïar ne’ guardi medici
Speranza lusinghiera
Della beltà primiera. 90
Di Cintia il cocchio aurato
Le cerve un dì traéno,
Ma al ferino ululato
Per terrore insanirono,
E dalla rupe etnea 95
Precipitâr la Dea.
Gioìan d’invido riso
Le abitatrici olimpie,
Perchè l’eterno viso,
Silenzïoso e pallido, 100
Cinto apparìa d’un velo
Ai conviti del cielo;
Ma ben piansero il giorno
Che dalle danze efesie
Lieta facea ritorno 105
Fra le devote vergini,
E al ciel salìa più bella
Di Febo la sorella.
Ugo Foscolo - Le odi I (1803)
consigliata da giuseppe gianpaolo casarini
A Venezia
(Ode scritta alla vigilia della resa di Venezia il 19
Agosto 1849 nell'isola del Lazzaretto Vecchio,
dove l'autore si trovava di guarnigione)
È fosco l’aere
Il cielo è muto
Ed io sul tacito
Veron seduto
In solitaria
Malinconia
Ti guardo e lagrimo,
Venezia mia!
Fra i rotti nugoli
Dell’occidente
Il raggio pèrdersi
Del sol morente,
E mesto sibila
Per l’aria bruna
L’ultimo gemito
Della laguna.
Passa una gondola
Della città.
Ehi dalla gondola,
Qual novità?-
Il morbo infuria,
Il pan ci manca
Sul ponte sventola
Bandiera bianca!-
No, non, non splendere
Su tanti guai,
Sole d’Italia,
Non splender mai;
E sulla veneta
Spenta fortuna
Si eterni il gemito
Della laguna
Venezia! L’ultima
Ora è venuta;
Illustre martire
Tu sei perduta…
Il morbo infuria
Il pan ci manca
Sul ponte sventola
Bandiera bianca!…
Ma non le ignìvome
Palle roventi,
Né i mille fulmini
Su tre stridenti,
Troncaro ai liberi
Tuoi dì lo stame…
Viva Venezia!
Muore di fame!
Sulle tue pagine
Scolpisci, o Storia,
L’altrui nequizie
E la sua gloria,
E grida ai posteri
Tre volte infame
Chi vuol Venezia
Morta di fame!
Viva Venezia!
L’ira nemica
La sua risuscita
Virtude antica.
Ma il morbo infuria
Ma il pan ci manca…
Sul ponte sventola
Bandiera bianca!
Ed ora infrangasi
Qui, sulla pietra,
Finché è ancor libera
Questa mia cetra,
A te, Venezia,
L’ultimo canto,
L’ultimo bacio,
L’ultimo pianto!
Ramingo ed esule
In suol straniero,
Vivrai Venezia,
Nel mio pensiero;
Vivrai nel tempio
Qui del mio core,
Come l’immagine
Del primo amore.
Ma il vento sibila,
Ma l’onda è scura,
Ma tutta in tenebre
E’ la natura.
Le corde stridono
La voce manca…
Sul ponte sventola
Bandiera bianca!
Arnaldo Fusinato, Poesie
patriottiche
consigliata da giuseppe gianpaolo casarini
All'amica
risanata
Qual dagli antri marini
L’astro più caro a Venere
Co’ rugiadosi crini
Fra le fuggenti tenebre
Appare, e il suo vïaggio
Orna col lume dell’eterno raggio.
Sorgon così tue dive
Membra dall’egro talamo,
E in te beltà rivive,
L’aurea beltate ond’ebbero
Ristoro unico a’ mali
Le nate a vaneggiar menti mortali.
Fiorir sul caro viso
Veggo la rosa; tornano
I grandi occhi al sorriso
Insidïando; e vegliano
Per te in novelli pianti
Trepide madri, e sospettose amanti.
Le Ore che dianzi meste
Ministre eran de’ farmachi,
Oggi l’indica veste,
E i monili cui gemmano
Effigïati Dei
Inclito studio di scalpelli achei.
E i candidi coturni
E gli amuleti recano
Onde a’ cori notturni
Te, Dea, mirando obbliano
I garzoni le danze,
Te principio d’affanni e di speranze.
O quando l’arpa adorni
E co’ novelli numeri
E co’ molli contorni
Delle forme che facile
Bisso seconda, e intanto
Fra il basso sospirar vola il tuo canto.
Più periglioso; o quando
Balli disegni, e l’agile
Corpo all’aure fidando,
Ignoti vezzi sfuggono
Dai manti, e dal negletto
Velo scomposto sul sommosso petto.
All’agitarti, lente
Cascan le trecce, nitide
Per ambrosia recente,
Mal fide all’aureo pettine
E alla rosea ghirlanda
Che or con l’alma salute April ti manda.
Così ancelle d’Amore
A te d’intorno volano
Invidiate l’Ore;
Meste le Grazie mirino
Chi la beltà fugace
Ti membra, e il giorno dell’eterna pace.
Mortale guidatrice
D’oceanine vergini,
La Parrasia pendice
Tenea la casta Artemide,
E fea terror di cervi
Lungi fischiar d’arco cidonio i nervi.
Lei predicò la fama
Olimpia prole; pavido
Diva il mondo la chiama,
E le sacrò l’Elisio
Soglio, ed il certo têlo,
E i monti, e il carro della luna in cielo.
Are così a Bellona,
Un tempo invitta amazzone,
Die’ il vocale Elicona;
Ella il cimiero e l’egida
Or contro l’Anglia avara
E le cavalle ed il furor prepara.
E quella a cui di sacro
Mirto te veggo cingere
Devota il simolacro,
Che presiede marmoreo
Agli arcani tuoi lari
Ove a me sol sacerdotessa appari,
Regina fu; Citera
E Cipro ove perpetua
Odora primavera
Regnò beata, e l’isole
Che col selvoso dorso
Rompono agli euri e al grande Ionio il corso.
Ebbi in quel mar la culla,
Ivi era ignudo spirito
Di Faon la fanciulla,
E se il notturno zeffiro
Blando su i flutti spira,
Suonano i liti un lamentar di lira.
Ond’io, pien del nativo
Aër sacro, su l’itala
Grave cetra derivo
Per te le corde eolie,
E avrai, divina, i voti
Fra gl’inni miei delle insubri nipoti.
Ugo Foscolo Le odi, II,
(1803)
consigliata da giuseppe gianpaolo casarini
Canto notturno di un pastore errante
dell' Asia
Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,
Silenziosa luna?
Sorgi la sera, e vai,
Contemplando i deserti; indi ti posi.
Ancor non sei tu paga
Di riandare i sempiterni calli?
Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
Di mirar queste valli?
Somiglia alla tua vita
La vita del pastore.
Sorge in sul primo albore
Move la greggia oltre pel campo, e vede
Greggi, fontane ed erbe;
Poi stanco si riposa in su la sera:
Altro mai non ispera.
Dimmi, o luna: a che vale
Al pastor la sua vita,
La vostra vita a voi? dimmi: ove tende
Questo vagar mio breve,
Il tuo corso immortale?
Vecchierel bianco, infermo,
Mezzo vestito e scalzo,
Con gravissimo fascio in su le spalle,
Per montagna e per valle,
Per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,
Al vento, alla tempesta, e quando avvampa
L'ora, e quando poi gela,
Corre via, corre, anela,
Varca torrenti e stagni,
Cade, risorge, e più e più s'affretta,
Senza posa o ristoro,
Lacero, sanguinoso; infin ch'arriva
Colà dove la via
E dove il tanto affaticar fu volto:
Abisso orrido, immenso,
Ov'ei precipitando, il tutto obblia.
Vergine luna, tale
E' la vita mortale.
Nasce l'uomo a fatica,
Ed è rischio di morte il nascimento.
Prova pena e tormento
Per prima cosa; e in sul principio stesso
La madre e il genitore
Il prende a consolar dell'esser nato.
Poi che crescendo viene,
L'uno e l'altro il sostiene, e via pur sempre
Con atti e con parole
Studiasi fargli core,
E consolarlo dell'umano stato:
Altro ufficio più grato
Non si fa da parenti alla lor prole.
Ma perchè dare al sole,
Perchè reggere in vita
Chi poi di quella consolar convenga?
Se la vita è sventura,
Perchè da noi si dura?
Intatta luna, tale
E' lo stato mortale.
Ma tu mortal non sei,
E forse del mio dir poco ti cale.
Pur tu, solinga, eterna peregrina,
Che sì pensosa sei, tu forse intendi,
Questo viver terreno,
Il patir nostro, il sospirar, che sia;
Che sia questo morir, questo supremo
Scolorar del sembiante,
E perir dalla terra, e venir meno
Ad ogni usata, amante compagnia.
E tu certo comprendi
Il perchè delle cose, e vedi il frutto
Del mattin, della sera,
Del tacito, infinito andar del tempo.
Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore
Rida la primavera,
A chi giovi l'ardore, e che procacci
Il verno co' suoi ghiacci.
Mille cose sai tu, mille discopri,
Che son celate al semplice pastore.
Spesso quand'io ti miro
Star così muta in sul deserto piano,
Che, in suo giro lontano, al ciel confina;
Ovver con la mia greggia
Seguirmi viaggiando a mano a mano;
E quando miro in cielo arder le stelle;
Dico fra me pensando:
A che tante facelle?
Che fa l'aria infinita, e quel profondo
Infinito Seren? che vuol dir questa
Solitudine immensa? ed io che sono?
Così meco ragiono: e della stanza
Smisurata e superba,
E dell'innumerabile famiglia;
Poi di tanto adoprar, di tanti moti
D'ogni celeste, ogni terrena cosa,
Girando senza posa,
Per tornar sempre là donde son mosse;
Uso alcuno, alcun frutto
Indovinar non so. Ma tu per certo,
Giovinetta immortal, conosci il tutto.
Questo io conosco e sento,
Che degli eterni giri,
Che dell'esser mio frale,
Qualche bene o contento
Avrà fors'altri; a me la vita è male.
O greggia mia che posi, oh te beata,
Che la miseria tua, credo, non sai!
Quanta invidia ti porto!
Non sol perchè d'affanno
Quasi libera vai;
Ch'ogni stento, ogni danno,
Ogni estremo timor subito scordi;
Ma più perchè giammai tedio non provi.
Quando tu siedi all'ombra, sovra l'erbe,
Tu se' queta e contenta;
E gran parte dell'anno
Senza noia consumi in quello stato.
Ed io pur seggo sovra l'erbe, all'ombra,
E un fastidio m'ingombra
La mente, ed uno spron quasi mi punge
Sì che, sedendo, più che mai son lunge
Da trovar pace o loco.
E pur nulla non bramo,
E non ho fino a qui cagion di pianto.
Quel che tu goda o quanto,
Non so già dir; ma fortunata sei.
Ed io godo ancor poco,
O greggia mia, nè di ciò sol mi lagno.
Se tu parlar sapessi, io chiederei:
Dimmi: perchè giacendo
A bell'agio, ozioso,
S'appaga ogni animale;
Me, s'io giaccio in riposo, il tedio assale?
Forse s'avess'io l'ale
Da volar su le nubi,
E noverar le stelle ad una ad una,
O come il tuono errar di giogo in giogo,
Più felice sarei, dolce mia greggia,
Più felice sarei, candida luna.
O forse erra dal vero,
Mirando all'altrui sorte, il mio pensiero:
Forse in qual forma, in quale
Stato che sia, dentro covile o cuna,
E' funesto a chi nasce il dì natale.
Giacomo Leopardi, canto
XXIII
consigliata da giuseppe gianpaolo casarini
Marzo 1821
Soffermati sull’arida sponda
Vòlti i guardi al varcato Ticino,
Tutti assorti nel novo destino,
Certi in cor dell’antica virtù,
Han giurato: non fia che quest’onda
Scorra più tra due rive straniere;
Non fia loco ove sorgan barriere
Tra l’Italia e l’Italia, mai più!
L’han giurato: altri forti a quel giuro
Rispondean da fraterne contrade,
Affilando nell’ombra le spade
Che or levate scintillano al sol.
Già le destre hanno strette le destre;
Già le sacre parole son porte;
O compagni sul letto di morte,
O fratelli su libero suol.
Chi potrà della gemina Dora,
Della Bormida al Tanaro sposa,
Del Ticino e dell’Orba selvosa
Scerner l’onde confuse nel Po;
Chi stornargli del rapido Mella
E dell’Oglio le miste correnti,
Chi ritorgliergli i mille torrenti
Che la foce dell’Adda versò,
Quello ancora una gente risorta
Potrà scindere in volghi spregiati,
E a ritroso degli anni e dei fati,
Risospingerla ai prischi dolor;
Una gente che libera tutta
O fia serva tra l’Alpe ed il mare;
Una d’arme, di lingua, d’altare,
Di memorie, di sangue e di cor.
Con quel volto sfidato e dimesso,
Con quel guardo atterrato ed incerto
Con che stassi un mendico sofferto
Per mercede nel suolo stranier,
Star doveva in sua terra il Lombardo:
L’altrui voglia era legge per lui;
Il suo fato un segreto d’altrui;
La sua parte servire e tacer.
O stranieri, nel proprio retaggio
Torna Italia e il suo suolo riprende;
O stranieri, strappate le tende
Da una terra che madre non v’è.
Non vedete che tutta si scote,
Dal Cenisio alla balza di Scilla?
Non sentite che infida vacilla
Sotto il peso de’ barbari piè?
O stranieri! sui vostri stendardi
Sta l’obbrobrio d’un giuro tradito;
Un giudizio da voi proferito
V’accompagna a l’iniqua tenzon;
Voi che a stormo gridaste in quei giorni:
Dio rigetta la forza straniera;
Ogni gente sia libera e pèra
Della spada l’iniqua ragion.
Se la terra ove oppressi gemeste
Preme i corpi de’ vostri oppressori,
Se la faccia d’estranei signori
Tanto amara vi parve in quei dì;
Chi v’ha detto che sterile, eterno
Saria il lutto dell’itale genti?
Chi v’ha detto che ai nostri lamenti
Saria sordo quel Dio che v’udì?
Sì, quel Dio che nell’onda vermiglia
Chiuse il rio che inseguiva Israele,
Quel che in pugno alla maschia Giaele
Pose il maglio ed il colpo guidò;
Quel che è Padre di tutte le genti,
Che non disse al Germano giammai:
Va’, raccogli ove arato non hai;
Spiega l’ugne; l’Italia ti do.
Cara Italia! dovunque il dolente
Grido uscì del tuo lungo servaggio;
Dove ancor dell’umano lignaggio
Ogni speme deserta non è:
Dove già libertade è fiorita,
Dove ancor nel segreto matura,
Dove ha lacrime un’alta sventura,
Non c’è cor che non batta per te.
Quante volte sull’alpe spïasti
L’apparir d’un amico stendardo!
Quante volte intendesti lo sguardo
Ne’ deserti del duplice mar!
Ecco alfin dal tuo seno sboccati,
Stretti intorno ai tuoi santi colori,
Forti, armati dei propri dolori,
I tuoi figli son sorti a pugnar.
Oggi, o forti, sui volti baleni
Il furor delle menti segrete:
Per l’Italia si pugna, vincete!
Il suo fato sui brandi vi sta.
O risorta per voi la vedremo
Al convito dei popoli assisa,
O più serva, più vil, più derisa
Sotto l’orrida verga starà.
Oh giornate del nostro riscatto!
Oh dolente per sempre colui
Che da lunge, dal labbro d’altrui,
Come un uomo straniero, le udrà!
Che a’ suoi figli narrandole un giorno,
Dovrà dir sospirando: «io non c’era»;
Che la santa vittrice bandiera
Salutata quel dì non avrà.
Alessandro Manzoni
consigliata da giuseppe gianpaolo casarini
Coro dell’atto terzo dell'Adelchi
ripristinato nella sua originaria integrità
(I versi in corsivo sono quelli che mancano all’Adelchi,
quale venne pubblicato vivente l’autore,
in obbedienza ai voleri della Censura austriaca.)
Dagli atrii muscosi, dai Fori cadenti,
Dai boschi, dall’arse fucine stridenti,
Dai solchi bagnati di servo sudor,
Un volgo disperso repente si desta;
Intende l’orecchio, solleva la testa
Percosso da novo crescente romor.
Dai guardi
dubbiosi, dai pavidi volti,
Qual raggio di sole da nuvoli folti,
Traluce de’ padri la fiera virtù:
Ne’ guardi, ne’ volti confuso ed incerto
Si mesce e discorda lo spregio sofferto
Col misero orgoglio d’un tempo che fu.
È il volgo gravato dal nome latino
Che un’empia
vittoria conquise e tien chino
Sul suol che i
trionfi degli avi portò;
Che, in torbida
voce, qual gregge predato,
Dall’Erulo avaro
nel Goto spietato,
Nel Vinnulo
errante, dal Greco passò.
S’aduna
voglioso, si sperde tremante,
Per torti sentieri, con passo vagante,
Era tema e desire, s’avanza e ristà;
E adocchia e rimira scorata e confusa
De’ crudi signori la turba diffusa,
Che fugge dai brandi, che sosta non ha.
Ansanti li vede, quai trepide fere,
Irsuti per tema le fulve criniere,
Le note latebre del covo cercar;
E quivi, deposta l’usata minaccia,
Le donne superbe, con pallida faccia,
I figli pensosi pensose guatar.
E
sopra i fuggenti, con avido brando,
Quai cani disciolti, correndo, frugando,
Da ritta, da manca, guerrieri venir:
Li vede, e rapito d’ignoto contento,
Con l’agile speme precorre l’evento,
E sogna la fine del duro servir.
Udite! Quei forti che tengono il campo,
Che ai vostri tiranni precludon lo scampo,
Son giunti da lunge, per aspri sentier:
Sospeser le gioie dei prandi festosi,
Assursero in fretta dai blandi riposi,
Chiamati repente da squillo guerrier.
Lasciar nelle sale del tetto natio
Le donne accorate, tornanti all’addio,
A preghi e consigli che il pianto troncò:
Han carca la fronte de’ pesti cimieri,
Han poste le selle sui bruni corsieri,
Volaron sul ponte che cupo sonò.
A
torme, di terra passarono in terra,
Cantando giulive canzoni di guerra,
Ma i dolci castelli pensando nel cor:
Per valli petrose, per balzi dirotti,
Vegliaron nell’armi le gelide notti,
Membrando i fidati colloqui d’amor.
Gli
oscuri perigli di stanze incresciose,
Per greppi senz’orma le corse affannose,
Il rigido impero, le fami durar:
Si vider le lance calate sui petti,
A canto agli scudi, rasente agli elmetti,
Udiron le freccie fischiando volar.
E
il premio sperato, promesso a quei forti,
Sarebbe, o delusi, rivolger le sorti,
Por fine ai dolori d’un volgo
stranier?
Se il petto dei forti premea simil
cura,
Di tanto apparecchio, di tanta
pressura,
Di tanto cammino, non era mestier.
Son donni pur essi di lurida
plebe,
Inerme, pedestre, dannata alle
glebe,
Densata nei chiusi di vinte città.
A frangere il giogo che i miseri
aggrava,
Un motto dal labbro dei forti
bastava;
Ma il labbro dei forti proferto non
l’ha.
Tornate alle vostre superbe ruine,
All’opere imbelli dell’arse officine,
Ai solchi bagnati di servo sudor.
Stringetevi insieme l’oppresso
all’oppresso,
Di vostre speranze parlate
sommesso,
Dormite fra i sogni giocondi d’error.
Domani, al
destarvi, tornando infelici,
Saprete che il forte sui vinti
nemici
I colpi sospese, che un patto
troncò.
Che regnano insieme, che sparton le
prede,
Si stringon le destre, si danno la
fede,
Che il donno, che il servo, che il
nome restò.
Alessandro Manzoni
consigliata da giuseppe gianpaolo casarini
Per le nozze della
sorella Paolina
Ad Angelo Mai
I. |
'Na predica de mamma consigliata da giuseppe gianpaolo casarini |
Un consiglio di mamma Gli amici? Ti aprono le braccia finché fai comodo e fintanto…che "hai"; però, dovessi trovarti nei guai figlio mio, ti sbattono la porta in faccia. Tu sei ancora giovane, e questa vitaccia non la conosci; ma quando sarai più grande, finalmente capirai se il mondo è un campo fertile, o melmaccia. Quel che dico non sono scemenze; quel che ti dice mamma, i suoi pensieri tienteli bene a mente: son sentenze. Ché a questo mondo pieno di belluini vuoi sapere chi son gli amici veri ? Vuoi proprio saperlo? Sono i quattrini! Cesare Pascarella Traduzione di Armando Bettozzi |
Lu labbru consigliata da giuseppe gianpaolo casarini |
Il labbro Dimmi, dimmi piccola ape: dove vai di buon mattino? Non c'è cima che rosseggia del massiccio a noi vicino; trema ancora, ancora brilla la rugiada in mezzo ai prati: fai attenzione a non bagnarti le ali d'oro delicate! Fiorellini sonnacchiosi dentro i verdi lor bottoni stanno ancora stretti e chiusi con le teste penzoloni. Ma l'aluccia s'affatica! Ma tu voli e fai cammino! Dimmi, dimmi, piccola ape, dove vai di buon mattino? Cerchi miele? E se è per questo chiudi le ali e non stancarti; io t'insegno un luogo certo dove sempre hai da succhiare: lo conosci l'amor mio, Nice mia dagli occhi belli? Tra le labbra ci ha un sapore, un piacere senza fine; sopra il labbro colorito del mio caro, amato bene resta il miele più squisito: succhia, succhialo, che viene, Giovanni Meli, ode VI Traduzione di Santi Cardella |
Li
galoppini consigliata da giuseppe gianpaolo casarini |
Gli scrocconi Ieri, a Sant'Apollinare, un collegiale al termine di una predica in tedesco, divise tutte le persone in due sale, e a quelli più altolocati volle offrire un rinfresco. In una fece entrare il cardinale con gli amici del Micco e padron Fieschi; e nell'altra la gente dozzinale che viaggia col cavallo di San Francesco. Per questa sala in cui erano gli appiedati cominciarono a passare i camerieri pieni di sottocoppe di gelati. Macché! alla sala dei cavalieri non arrivò un bel nulla: perché questi affamati fecero sparire persino i bicchieri. Gioacchino Belli |
Li surci consigliata da giuseppe gianpaolo casarini |
I topolini Un topolino di testa sventata aveva preso la via dell’aceto e faceva una vita disordinata con gli amiconi del suo giro. Lo zio cercava di riportarlo sulla retta via ma zappava nell’acqua perché quello era reso audace e per di più aveva leccato lo strutto, esperto di taverne e case di piacere. Finalmente la gatta lo beccò, lui grida: “Zio!Zio!”. Con interno dolore lo zio si rode per il rammarico, poi dice: “Il tuo caso mi costerna, ma ora mi cerchi, pendaglio di forca! Paga per quando andavi alla taverna”. Giovanni Meli
|
La poesiola qui proposta è dell’abate palermitano Giovanni Meli (1740 – 1815) da tutti segnato a dito come “onnisciente” per la sua vasta erudizione, negli orientamenti di gusto classicista ed arcadico, nelle idee sostenitore di un razionalismo e di un riformismo piuttosto blandi. Annoverato tra le cosiddette "quattro coroncine", con Carlo Porta, Carlo Goldoni, Giuseppe Gioachino Belli (da affiancare alle "tre corone" di Dante, Petrarca e Boccaccio), Giovanni Meli nacque in Sicilia nel Settecento, da Antonio di professione orefice e da Vincenza Torriquas, durante la monarchia riformista di Carlo III di Borbone. In questo periodo, il buon governo del Viceré Caracciolo favorì, grazie ad una serie di riforme, la rinascita della vita culturale e civile, specie a Palermo. Giovanni Meli raggiunse notorietà in tutt'Italia aderendo ai modi e allo stile dell'Arcadia con una dimensione tutta sua e con l'uso della lingua siciliana. Venne educato presso le scuole dei padri Gesuiti e si appassionò giovanissimo agli studi letterari e filosofici soprattutto della corrente illuministica, che – nata in Francia – allora imperava in Europa. Il Meli non mancò di coltivare anche da autodidatta i classici italiani e latini e fra i contemporanei gli Enciclopedisti francesi da Montesquieu a Voltaire, trovando ispirazione per un poemetto giovanile rimasto incompiuto, Il Trionfo della ragione |
Fiöla de scarpulì consigliata da giuseppe gianpaolo casarini |
Figlia di calzolaio Io figlia di calzolaio mi pavoneggiavo con le ciabattine rosse in pelle coi fiorellini traforati inchiodate dal suo papà. Io, figlia di
calzolaio |
Angelo Maria Canossi (Brescia, 23 marzo 1862 – Brescia, 9 ottobre 1943) è stato un poeta italiano. Fu definito il Poeta della brescianità. Dopo le scuole primarie ed il ginnasio, frequentò il liceo di Desenzano e successivamente si iscrisse all'Istituto Superiore di Letteratura a Firenze dove però non arrivò a conseguire la laurea. Nel 1882 frequentò l'Università della Sorbona a Parigi e per un paio di anni viaggiò per mezza Europa scrivendo alcuni brillanti servizi giornalistici. Nel 1884, ritornò a Brescia dove lavorò per alcuni mesi nella redazione del quotidiano La Sentinella Bresciana. In seguito fondò il Guasco, prima quindicinale umoristico e poi quotidiano di informazione, ed ancora diede vita alle importanti riviste L'Illustrazione bresciana e Brixia mantenendone per poco la direzione. A partire dal 1914 inizia a soggiornare a Bòvegno ridente località alpina che ispirerà gran parte della sua opera, e, sempre in quell'anno, comparve la sua prima raccolta di poesie in dialetto bresciano, alla quale fecero seguito altre opere dialettali di rilevante importanza tanto da condurlo alla partecipazione nel 1925 al 1º Congresso della Poesia Dialettale svoltosi a Milano. La sua opera riscosse un notevole successo e se il suo nome non ebbe una più ampia eco lo si deve principalmente alla difficile accessibilità del dialetto bresciano. Dopo la partecipazione al Congresso Dialettale, Angelo Canossi ricevette l'incarico dall'Ateneo di Brescia di allestire il vocabolario del dialetto bresciano, opera che però non riuscì a concludere. |
A poexia
dialettale consigliata da giuseppe gianpaolo casarini |
La poesia dialettale E fra i moderni lirici, per non citare di quelli che hanno i testicoli più solidi, il Meli, il Porta, il Belli, hanno forse meno merito di certi capilista delle nostre Muse e apostoli della Scuola Naturalista? E forse il loro vernacolo non è vera poesia perché è pronto e facile e senza astruseria? Ma dunque non buttiamolo troppo giù, questo dialetto, con la scusa che è ignobile e di abito negletto, invece guardate di renderlo più nobile, e pulito, delle scorie troppo rudi, cercate di ingentilirlo, scegliendovi i vocaboli, la forma e l’andamento, secondo quanto richiede il tono del singolo argomento, e non fate sfoggio inutile di termini volgari, cedendo al lenocinio di rendervi popolari, di frasi a doppio senso, scurrili accanagliate, senza ragione plausibile, senza necessità! […] guardate se è possibile usare di tanto in tanto, frasi e vocaboli che sappiano di italiano; non sarà il vero vernacolo del Piano di Sant’Andrea, ma quello che di solito parla la borghesia, la quale, per consuetudini di vita e l’istruzione, ha, senza essere nobile, un po’ d’educazione.) Nicolò Bacigalupo |
Rassa nostran-a Ai Piemontèis ch’a travajo fòra d’Italia Dritt e sincer, còsa ch’a son, a smìo: teste quadre, polss ferm e fidigh san: a parlo pòch, ma a san còsa ch’a dìo: bele ch’a marcio adasi, a van lontan. Saraié, murador e sternighin, mineur e campagnin, saron e fré: s’ai pias gargarisé quaich bota ‘d vin, j’é gnun ch’ai bagna ‘l nas për travaié. Gent ch’a mërcanda nen temp e sudor: – rassa nostran-a libera e testarda – tut ël mond a conòss chi ch’a son lor e, quand ch’a passo… tut ël mond ai goarda: “Biond canavsan con j’euj color dël cel, robust e fier parei dij sò castei. Montagnard valdostan dai nerv d’assel, mascc ëd val Susa dur come ‘d martei. Facie dle Langhe, robie d’alegrìa, fërlingòtt dës-ciolà dij pian verslèis, e bielèis trafigon pien d’energìa che për conòssje ai va set ani e ‘n meis. Gent ëd Coni: passienta e ‘n pò dasianta ch’a l’ha le scarpe gròsse e ‘l servel fin, e gent monfrin-a che, parland, a canta, ch’a mossa, a fris, a beuj… come ij sò vin. Tut ël Piemont ch’a va cerchesse ‘l pan, tut ël Piemont con soa parlada fiera che ‘nt le bataje dël travaj uman a ten auta la front… e la bandiera”. O bionde ‘d gran, pianure dl’Argentin-a “fazende” dël Brasil perse ‘n campagna, i sente mai passé n’ ”aria” monfrin-a o ‘l ritornel d’una canson ‘d montagna? Mine dla Fransa, mine dl’Alemagna ch’ël fum a sercia ‘n gir parei ‘d na frangia, vojautre i peule dì s’as lo guadagna, nòstr ovrié, col tòch ëd pan ch’a mangia. Quaich vòta a torno e ij sòld vansà ‘d bon giust ai rendo ‘n ciabotin o ‘n tòch ëd tèra e ‘nlora a ‘nlevo le soe fiëtte ‘d sust e ij fiolastron ch’a l’han vinciù la guèra. Ma ‘l pì dle vòlte na stagion përdùa o na frev o ‘n maleur dël sò mësté a j’anciòda ‘nt na tomba patanua spersa ‘nt un camposanto foresté.* Nino Costa |
Razza
nostrana Ai piemontesi che lavorano fuori dall’Italia Dritti e sinceri, cosa sono, appaiono: teste quadre, polso fermo e fegato sano: parlano poco, ma sanno quel che dicono: anche se camminano adagio, vanno lontano. Magnani, muratori e selciatori, minatori e contadini, carradori e fabbri: se gli piace “gargarizzare” qualche bottiglia di vino non c’è però nessuno che sia più bravo nel lavorare. Gente che non risparmia tempo e sudore: – razza nostrana libera e testarda – tutto il mondo conosce chi essi sono e, quando passano… tutto il mondo li guarda: “Biondi canavesani con occhi colore del cielo, robusti e fieri come i loro castelli. Montanari valdostani dai nervi d’acciaio, maschi della val Susa duri come dei martelli. Facce delle Langhe, rubiconde di allegria, furbacchiuoli disinvolti delle pianure vercellesi, e biellesi trafficoni pieni d’energia che per conoscerli ci vuol sette anni e un mese. Gente di Cuneo: paziente e un po’ lenta che ha le scarpe grosse e il cervello fino, e gente monferrina che, parlando, canta, che spumeggia, frizza, bolle… come i suoi vini”. Tutto il Piemonte che va a cercarsi il pane tutto il Piemonte con il suo linguaggio fiero che nelle battaglie del lavoro umano tiene alto la fronte… e la bandiera. O bionde di grano pianure dell’Argentina, “fazende” del Brasile perse nella campagna, non sentite mai passare un’ ”aria” monferrina o il ritornello di una canzone di montagna? Miniere di Francia, miniere di Germania che il fumo cinge in giro come una cortina, voi lo potete dire se se lo guadagna, il nostro operaio, quel tozzo di pane che mangia. Qualche volta tornano e i soldi risparmiati onestamente gli rendono una casettina e un po’ di terra e allora allevano le loro figliolette assennate e i ragazzoni che hanno vinto la guerra. Ma il più delle volte una stagione perduta o una febbre o una disgrazia del loro mestiere li inchioda in una tomba ignuda sperduta in un camposanto forestiero… Nino Costa |
*L’Autore allude al padre, come lui “biond canavsan con j’euj color dël cel”, morto oltre oceano in emigrazione. Dalla raccolta Sal e peiver, Torino, ©Viglongo, 1998 (10° edizione). L’intera opera poetica di NINO COSTA è pubblicata da Viglongo in edizioni ricondotte agli originali, con presentazioni di A. Viglongo consigliata da giuseppe gianpaolo casarini
Rassa nostran-a è una delle Cento poesie di Nino Costa,
pubblicate, su concessione dell’Editore Viglongo, in un volume della collana
“La biblioteca di Papa Francesco, Corriere della Sera-La civiltà cattolica,
2014, con la Prefazione di Albina Malerba e Giovanni Tesio, che qui di
seguito trascriviamo: |
Esàm ad quinta in campagna L’è cùme s’avdèss un’innuzént a e mur ch’l’implora du boch d’sperénza. Ach’sé, me at sint, babìna da i oc vird e spavanté, inciudéda in te nir dlà lavagna che t’soffi paròli culòr d’uraziòn. Leo Maltoni consigliata da giuseppe gianpaolo casarini |
Esame di quinta in campagna È come se vedessi un’innocente al muro che implora due soldi di speranza. Così io ti sento, bimba dagli occhi verdi e spaventati, inchiodata nel nero della lavagna che soffi parole color di preghiera. Leo Maltoni |
Cesenatico, è morto il poeta e giornalista
Leo Maltoni È deceduto ieri, all’età di 80 anni, Leo Maltoni poeta, scrittore, cultore della Romagna e di Cesenatico in particolare. La città lo ricorda con le parole del Sindaco Matteo Gozzoli: “Nella serata di ieri si è spento Leonardo Maltoni, giornalista, scrittore, intellettuale, pensatore, insegnante, poeta e tanto altro. Mi fermo qui con i titoli perché, per quel poco che l’ho conosciuto, sono sicuro che non gradirebbe troppi giri di parole. Non ho fatto in tempo a conoscere a fondo Leo, ho avuto l’onore di collaborare alla redazione de ‘Il Cicloturista’, l’organo ufficiale della Fausto Coppi che lui ha contribuito a far crescere. Ho avuto modo di parlare con lui questa estate durante un bel pranzo di pesce insieme al figlio Giacomo e all’amico Giorgio Grassi. In quella occasione mi ha raccontato moltissime storie della Cesenatico che non c’è più e – nonostante la salute – aveva voglia di scrivere e di raccontare la Romagna d’altri tempi e come ha scritto nel suo ultimo racconto ‘di altri uomini'”. Personaggi, storie e ricordi che continueranno a vivere nei suoi racconti e nei suoi versi. Porgo le più sentite condoglianze, a nome mio e dell’Amministrazione Comunale, alla famiglia e a tutti i parenti. Ciao Leonardo, grazie!”. Pubblicato mercoledì 23 novembre 2016 alle 11:22 |
A na
fruta Lontàn, cu la to pièl sblanciada da li rosis, i ti sos una rosa ch’a vif e a no fevela. Ma quant che drenti al sen ti nassarà na vòus, ti puartaràs sidina encia tu la me cròus. Sidina tal sulisu dal solàr, ta li s-cialis, ta la ciera dal ort, tal pulvin da li stalis… Sidina ta la ciasa cu li peràulis strentis tal còur romai pierdùt par un troi di silensi. Pier Paolo Pasolini consigliata da giuseppe gianpaolo casarini |
A
una bambina Lontana, con la tua pelle sbiancata dalle rose, tu sei una rosa che vive e non parla. Ma quando nel petto ti nascerà una voce, porterai muta anche tu la mia croce. Muta sul pavimento del solaio, sulle scale, sulla terra dell’orto, nella polvere delle stalle. Muta nella casa, con le parole strette nel cuore, ormai perduto per un sentiero di silenzio. (Traduzione di Pier Paolo Pasolini) |
Marzo Marzo: nu poco chiove e n’ato ppoco stracqua torna a chiovere, schiove, ride ‘o sole cu ll’acqua. Mo nu cielo celeste, mo n’aria cupa e nera, mo d’’o vierno ‘e tempesta, mo n’aria ‘e Primmavera. N’ auciello freddigliuso aspetta ch’esce ‘o sole, ncopp’’o tturreno nfuso suspireno ‘e vviole. Catarì!…Che buo’ cchiù? Ntiénneme, core mio! Marzo, tu ‘o ssaie, si’ tu, e st’ auciello songo io. Salvatore Di Giacomo consigliata da giuseppe gianpaolo casarini |
Marzo Marzo: un po' piove e dopo un po' cessa di piovere: torna a piovere, spiove, ride il sole con l'acqua. Ora un cielo celeste, ora un'aria cupa e nera: ora le tempeste dell'inverno, ora un'aria di primavera. Un uccello freddoloso attende che esca il sole: sopra il terreno bagnato sospirano le viole... Caterina!...Che vuoi di più? Cerca di capirmi, cuore mio! Marzo, lo sai, sei tu, e quest'uccello sono io. (Traduzione di P. P. Pasolini) (testo da Napoli eterna musa, 1994) |
E 'ndeveno cussì le
vele al vento... E 'ndéveno cussì le vele al vento lassando drìo de noltri una gran ssia, co' l'ánema in t'i vogi e 'l cuor contento sensa pinsieri de manincunia. Mámole e mas-ci missi zo a pagiol co' Leto capitano a la rigola; e 'ndéveno cantando soto 'l sol canson, che incòra sora 'l mar le sbola. E l'aqua bronboleva drío 'l timon e del piasser la deventava bianca e fin la pena la mandeva un son fin che la bava no' la gera stanca. Biagio Marin consigliata da giuseppe gianpaolo casarini
|
E andavamo così, le vele al
vento... E andavamo così, le vele al vento lasciando dietro di noi una gran scia, con l’anima negli occhi e il cuor contento senza pensieri di malinconia. Fanciulle e ragazzi seduti giù a pagliolo con alla barra Leto capitano; andavamo cantando sotto il sole canzoni, che ancora volano sul mare. L’acqua ribolliva dietro il timone e dal piacere diventava bianca, persino la penna suonava: fin che la bava non era stanca. Biagio Marin |
MATRIX
Tutto sfuma
consigliata da giuseppe gianpaolo Casarini
Consolazione
Un rifugio soltanto
(Da “I Canti di Castelvecchio”. La poesia è composta da 5
strofe di 7 versi novenari e l'ultimo senario che termina con la parola sera).
Che mi ami tu lo dici
proposta da Piero Colonna Romano (Quando scienza e poesia s'incontrano)
Questa poesia, dell'ottimo Roberto Soldà, è apparsa nel
libro "La decima musa" di Vincenzo Schettino (edit. Firenze University Press,
2016) e nella rivista di chimica "La chimica nella scuola del 2000", in questa
assieme a "Entalpia", altra notevole poesia del nostro amico.
Cristalli di ATP
Bellissima mendica
Qui mira e qui ti specchia,
Uom di povero stato e membra inferme
Sovente in queste rive,
Come d'arbor cadendo un picciol pomo,
Ben mille ed ottocento
E tu, lenta ginestra,
E tu, lenta ginestra,
LEGGENDO «IL MAGO» DI SEVERINO FERRARI
Rondine
Canto Novo
Di una sola cosa ti prego mio Signore
The Rainbow
Dar allegranza
Sono meno solo adesso
Hai dato ordine
Sonetto 18: Posso paragonarti a un giorno d’estate?
Madonna, il fino amor
Trattengo il fiato
Allora sono proprio le mie parole
Amore è uno desio
Elogio del sonetto
Psiche
Funerale senza tristezza
La poesia che propongo alla vostra lettura ha conseguito un attestato di merito nel concorso di poesia “Il sonetto”, organizzato recentemente dalla “Nobil Contrada del Bruco” di Siena ’U gira…suli Il gira…sole
Sicilia, ’nta ’n’aricchia t’aiu a parrari
Sicilia, in un orecchio ho da parlarti
S’ammuccia nicu nicu ’nta li grutti
Si cela piccolino nelle grotte
Ma doppu comu fa ’stu schifïusu Ma dopo
come fa questo folletto
e dda mi lassa stupitu e cunfusu e là mi
lascia attonito e interdetto Santi Cardella (proposta da Piero Colonna Romano)
Una volta sognai
Mi piace il verbo sentire
(proposta da Piero Colonna Romano)
Imagine there’s no heaven Immagina non esista paradiso It’s easy if you try è facile se provi, No hell below us nessun inferno sotto noi, Above us only sky sopra solo cielo. Imagine all the people Immagina che tutta la gente Living for today viva solo per l’oggi.
Imagine there’s no countries Immagina non ci siano nazioni, It isn’t hard to do non è difficile da fare: Nothing to kill or die for niente per cui uccidere e morire And no religion too nessuna religione. Imagine all the people Immagina tutta la gente Living life in peace che vive in pace.
You may say I’m a dreamer Puoi dire che sono un sognatore, But I’m not the only one ma non sono il solo, I hope someday you’ll join us spero che ti unirai a noi un giorno And the world will be as one e il mondo vivrà in armonia.
Imagine no possessions Immagina un mondo senza la proprietà, I wonder if you can mi chiedo se ci riesci, No need for greed or hunger senza bisogno di avidità o fame, A brotherhood of man una fratellanza fra gli uomini. Imagine all the people Immagina tutta la gente Sharing all the world che condivide il mondo.
You may say I’m a dreamer Puoi dire che sono un sognatore But I’m not the only one ma non sono il solo, I hope someday you’ll join us spero che ti unirai a noi un giorno And the world will live as one e il mondo vivrà in armonia.
consigliata
da Piero Colonna Romano
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi
Notti dei sensi
εὕδουσι δʼ ὀρέων κορυφαί τε καὶ φάραγγες πρώονές τε καὶ χαράδραι φῦλά τʼ ἑρπέτ' ὅσα τρέφει μέλαινα γαῖα θῆρές τʼ ὀρεσκώιοι καὶ γένος μελισσᾶν καὶ κνώδαλʼ ἐν βένθεσσι πορφυρέας ἁλός· εὕδουσι δʼ οἰωνῶν φῦλα τανυπτερύγων. Con traduzioni di grecisti eccelsi: (ovviamente tutto tratto da Wikipedia)
"Dormono
le cime dei monti e le gole, i picchi e i dirupi, e le
schiere di animali, quanti nutre la nera terra, e le fiere
abitatrici dei monti e la stirpe delle api e i mostri negli
abissi del mare purpureo; dormono le schiere degli uccelli
dalle ali distese". Dormono de’ monti le vette e le valli e i picchi e i burroni e quanti esseri, che fogliano e che serpono, nutre la nera terra, e le fiere montane e la schiatta delle api e i mostri nei gorghi dell’iridato mare, e dormono degli uccelli
i popoli,
dall’ampio alare Dormono le cime de’ monti e le vallate intorno, i declivi e i burroni; dormono i rettili, quanti nella specie la nera terra alleva, le fiere di selva, le varie forme di api, i mostri nel fondo cupo del mare;
dormono le
generazioni degli uccelli dalle lunghe ali.
Dormono le grandi cime dei monti, e i dirupi e le balze, e i muti letti dei torrenti; dormono quanti strisciano animali sopra la terra nera; e le fiere montane, e le famiglie delle api; dormono i mostri giù nel fondo del buio-ceruleo mare; dormono gli uccelli
dalle lunghe ali distese. poesie proposte da Piero Colonna Romano
Settembre
Ho pena delle stelle
Acque lombarde
(per riflettere, divertirsi ed imparare)
Sogno mare
Inno all'amore
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Sables mouvants
|
Sabbie mobili |
What A Wonderful
World |
Che mondo
meraviglioso |
Le isole fortunate. Mezzanotte
Racconto molto Se l'occhio
solare del firmamento
Ave Maria
affitta il mio cuore Amarezza Sono un vagabondo
Ho visto quando il mare ti ha lambita Ho copiato su un quaderno nuovo i numeri di telefono non tutti quelli di chi conoscevo ma non sento da tempo li ho buttati via è come dimenticare a comando come svuotare una soffitta si tengono le cose buone si gettano quelle consumate ma loro sono vivi, sono persone vive e chiedersi se i piccoli dolori che a volte ci nascono dentro senza un motivo o un preavviso vengono quando qualcuno fa lo stesso con noi Francesco Tomada consigliata da Salvatore Cutrupi
La
leggenda di Teodorico Mettemo le sbarre ar Campidojio. |
Ulysses O Mytho é o nada que é tudo. O mesmo sol que abre os céus É um mytho brilhante e mudo - O corpo morto de Deus, Vivo e desnudo. Este, que aqui aportou, Foi por não ser existindo. Sem existir nos bastou. Por não ter vindo foi vindo E nos criou. Assim a lenda se escorre A entrar na realidade. E a fecundala decorre. Em baixo, a vida, metade De nada, morre. Fernando Pessoa consigliata da Piero Colonna Romano |
Ulisse Il mito è il nulla che è tutto lo stesso sole che svela i cieli è un mito lucente e muto- il corpo morto di Dio, vivente e nudo. Questi, che qui approdò, fu per non essere l'esistente. Senza esistere ci bastò. Venne per non essere venuto e ci creò. Così la leggenda si tramanda entrando nella realtà, ed a fecondarla decorre. La vita, in basso, metà del nulla, muore. |
Talvolta quando al tramonto passeggio stanco pel Corso (ch'è vuoto), uno che incontro dice, forte, il mio nome e fa: "buona sera!" Allora d'un tratto, lì sul Corso ch'è vuoto, m'imbatto stupito alle cose d'ieri e sono pur io una cosa col nome. Quando ti stringo la mano e tu ripigli sicuro il discorso di ieri, non so qual riverbero giallo di ambigua impostura colori di dentro l'atto di me che t'ascolto. Fingo d'essere con te e non ho cuore a dirti d'un tratto: "Non so chi tu sia!" Amico, in verità, non so chi tu sia. E come tu vuoi ch'io rinsaldi l'oggi all'ieri labbra d'abisso, ferita divaricata dell'infinito? Mi fermi per via chiamandomi a nome, col mio nome di ieri. Ora cos'è questo spettro che torna (l'ieri nell'oggi) e questa immobile tomba del nome? Tepido letto del nome, sicura casa dell'ieri! Soffice lana dei sofferti dolori, sosta ombrosa delle gioie lontane. Nave sul mare. Zattera di naufraghi. Ma l'oggi è, via, come una cateratta aperta. Nubi cangianti nell'abissale cavo del cielo. Non v'è altro eterno che l'attimo. Pietosamente mascheri alla mia disperazione la tua felicità. Sei chiuso nella tua gioia com'io nel mio dolore. Dallo scoppio della mia gioia, come una ferita, il tuo soffrire. Compiuto il mio desiderio, con stupefazione, ecco il tuo pianto. Ma ciascuno si dibatta nel suo oggi, carcerato nella cella. Da:Frammenti Giovanni Boine consigliata da Angelo Michele Cozza
Gelsomino Ruotando e roteando nella spirale m'avvolgo e da un orbitale viola ad uno giallo dinamico salto. Ma tu che al crepuscolo nell'isola del mio silenzio approdavi stasera più non sei a portata di mano. Vana la preghiera: "accenditi luna, accenditi luna bella. Portami, luna, la buona novella". Allora la mia anima tasta il silenzio con la parola cercando ancora la soglia. Apri la tua porta, spalancala come una volta. Lascia uscire la luce dall'orizzonte degli eventi. Ancora scaturisca il suo fascio a trecentomila chilometri al secondo. Roberto Soldà consigliata da Piero Colonna Romano E’ certo, amore, il corpo è una merce che scade il corpo parla ma non chiarisce proprio niente, e intanto la mia carne si affloscia e brucia come un’organza disordinata, perchè la decrepita giovinezza seguita a dolermi negli occhi come una vampa che mi ustiona di giorno, di notte. L’amore è un mistero che davvero non so risolvere, mi affanno nel suo consumarmi come in una corona di spine. Alda Merini consigliata da Ida Guarracino
L'Erba ha così poco da fare -
Non si ama con il cuore,
I vostri vecchi
Una sorella ho nella nostra casa La poesia
io ti ho offerto il mio corpo
La semplicità-Vento
Figlia d'azzurro cobalto
Magna Grecia e dintorni
Sempre verde d'alloro
Femminicidio
Petali al vento
LA CARMAGNOLE ( 1792 )
Sables mouvants
Tu sei come una terra
" ...è l’America, si, nun c’è quistione,
Vangando
Il colore del Silenzio
Castelli in aria
As mãos de meu
pai
Porque há nas tuas mãos, meu velho pai,
Virá dessa chama que pouco a pouco,
longamente,
E é, ainda, a vida
Le mani di mio
padre
Perché
c’è nelle tue mani, mio vecchio padre, questa bellezza che si chiama
semplicemente vita.
Nascerà
da questa fiamma che poco a poco, a lungo, venisti alimentando nella
terribile solitudine del mondo Se saprai starmi vicino, Labirinto Liu Yung Visite a sorpresa Un giorno Voglio amarti e attraversarti Ma l'amor mio non muore Sono già solo A un geometra Perch'i' no spero di tornar giammai Ars poetica Splendessero lanterne Le nuvole Alla Musa Istanti Attesa È vero Canzone d’amore Alla mia destra N. 1042 Solitudine.
Questo amore
Intervista con Atropo
"Ascolta come mi batte forte il tuo cuore"
Da lontano
Amore non èamore se muta quando scopre un mutamento
Un sorriso
Attaccati ad una foglia di
faggio La statistica
Ode al primo giorno dell'anno
Natale
Una notte d’inverno
Er terno
Attesa
Chiaro di luna
Sonetto di sterpi e limiti
Blues in Memoria
La montagna s’affliggeva
Magnà e dormì
Il poeta. 1. Nummeri
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Testo dell'"Inno alla Gioia" di F. Schiller
"An die Freude" |
"Inno alla Gioia" |
Le bestie
e er crumiro Mi chiama talvolta la tua voce e non so che cieli ed acque mi si svegliano dentro: una rete di sole che si smaglia sui tuoi muri ch'erano a sera un dondolio di lampade dalle botteghe tarde piene di vento e di tristezza. Altro tempo: un telaio batteva nel cortile e s'udiva nella notte un pianto di cuccioli e bambini. Vicolo: una croce di case che si chiamano piano, e non sanno ch'è paura di restare sole nel buio. Salvatore Quasimodo consigliata da Anileda Xeka
L'incontro de li sovrani
Carità cristiana
La verità Insinuarsi... Forse la vita migliore
sul tempo e sulla gravità è
passare senza lasciare tracce,
passare senza lasciare un'ombra
sulle pareti...
Forse prendere con
la rinuncia? Cancellarsi dagli specchi?
Così, come Lermontov nel Caucaso,
insinuarsi senza inquietare le rocce.
Forse il migliore diletto
è, col dito di Sebastian Bach,
non sfiorare l'eco dell'organo?
Sfaldarsi senza lasciare le ceneri
per l'urna...
Forse prendere con
l'inganno? Farsi cancellare dalle latitudini?
Così, insinuarsi nel Tempo come
nell'oceano, senza inquietare le acque...
(Marina Ivanovna Cvetaeva)
consigliata da Carmen
Il Giuramento di Pontida [Quando il mio caro fratello] Quando il mio caro fratello passava l’ultimo olmo (degli addii, disposti in filari), le lacrime erano più grandi degli occhi.
Quando il mio caro amico doppiava l’ultimo promontorio (dei sospiri della mente: ritorna!), gli addii erano più grandi delle mani.
Quasi le braccia lasciassero le spalle e le labbra restassero indietro a supplicare! La favella aveva perso i suoni, il metacarpo aveva perso le dita.
Quando il mio caro ospite… - Signore, guardaci! - le lacrime erano più grandi degli occhi umani e delle stelle atlantiche… (Marina Ivanovna Cvetaeva, 26 marzo 1923)
- Consigliata da Carmen - Cyrano Sables mouvants Giochi ogni giorno Il vostro amico è il vostro
bisogno saziato.
L’amore dei vecchi
Il verme conquistatore
Se mi ami non piangere
Tre fiammiferi accesi
Tre
fiammiferi accesi uno per uno nella notte Consigliata
da Carmen
Sulla riva
'A livella Indizi Kimi de ite
buji de ite – Sii te stesso – 14 marzo 2011 Italia Uomo sii
attento! (da Verrà la
morte e avrà i tuoi occhi) La notte
nell'isola Come d'amore
si parlava Questo amore
Romolo e Remo n.
1535. Finis
(bronzo su marmo) Inno
all'amore Ascolta il
passo breve delle cose
La Mosca 'nvidiosa Dev’esserci… All'ombra Campanilismo |
|
Funeral blues Stop all the clocks, cut off the telephone, Prevent the dog from barking with a juicy bone, Silence the pianos and with muffled drum Bring out the coffin, let the mourners come. Let aeroplanes circle moaning overhead Scribbling on the sky the message He Is Dead, Put crêpe bows round the white necks of the public doves, Let the traffic policemen wear black cotton gloves. He was my North, my South, my East and West, My working week and my Sunday rest, My noon, my midnight, my talk, my song; I thought that love would last for ever: I was wrong. The stars are not wanted now: put out every one; Pack up the moon and dismantle the sun; Pour away the ocean and sweep up the wood; For nothing now can ever come to any good. W. H. Auden - Consigliata da Kati - |
Blues in memoria Fermate tutti gli orologi, isolate il telefono, fate tacere il cane con un osso succulento, chiudete i pianoforte, e tra un rullio smorzato portate fuori il feretro, si accostino i dolenti. Incrocino aeroplani lamentosi lassù e scrivano sul cielo il messaggio Lui è Morto, allacciate nastri di crespo al collo bianco dei piccioni, i vigili si mettano guanti di tela nera. Lui era il mio Nord, il mio Sud, il mio Est ed Ovest, la mia settimana di lavoro e il mio riposo la domenica, il mio mezzodì, la mezzanotte, la mia lingua, il mio canto; pensavo che l'amore fosse eterno: e avevo torto. Non servon più le stelle: spegnetele anche tutte; imballate la luna, smontate pure il sole; svuotatemi l'oceano e sradicate il bosco; perché ormai più nulla può giovare. (Traduzione di Gilberto Forti) |
CANTO POESIA PAROLA Se anche cantassi come gli angeli, ma non amassi il canto, non faresti altro che rendere sordi gli uomini alle voci del giorno e alle voci della notte. ================================ Parole sussurrate La mente soppesa e misura, ma è lo spirito che giunge al cuore della vita e ne abbraccia il segreto; e il seme dello spirito è immortale. Il vento può soffiare e placarsi, e il mare fluire e rifluire: ma il cuore della vita è sfera immobile e serena, e in quel punto rifulge una stella che è fissa in eterno. Kahlil Gibran "Il profeta" - consigliata da Carmen - La vetta Er grillo
zoppo Poesia illegittima Scrivere una poesia Amicizia Saggezza |
Alla luna
1247
Scirocco
La morte non è niente.
La neve cade |
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La canción de Pablo Compañera, vendrán a preguntar por mí; si yo he sido, dónde estoy, si usted sabe adonde fue su marido. (Usted levanta la vista, mira, calla, está pensando: Pablo andará por la tierra su bandera enarbolando. Una bandera de trigo, de pan y de vino, levantando. Por el camino, a los hombres irá ensenãndo la libertad.) Compañera, buscándome vendrán aquí, un retrato, una carta, algún signo para dar con mi rastro. (Usted recuerda mis manos, ya no piensa, está soñando: Pablo se fue navegante por un mar de sangre joven, con su rebelde destino, sin pan y sin vino, anda luchando. Su corazon guerrillero olvida en las calles la soledad.) Compañera, vendrán a preguntar otra vez, si me ha visto, si le escribo, si usted sabe adonde fue su marido. (Usted los mira a los ojos, con ternura va pensando: Pablo es un hombre que sabe que la vida está cambiando, los compañeros lo llevan hacia el alba caminando. Y si le ponen cadenas, irán otros brazos por libertad.) Pablos hay muchos y andando por la tierra van cantando con sus banderas de trigo, de pan y de vino, van luchando. Pablos hay muchos y andando por la tierra van cantando. Daniel Viglietti Nato a Montevideo il 24 luglio 1939, diplomato al conservatorio in chitarra, armonia e contrappunto. consigliata da Sandro Sermenghi |
La canzone di Pablo Compagna, verranno a chiederti di me; cosa ero, dove sono, se tu sai dove è andato tuo marito. (Tu alzi gli occhi, guardi, taci, mentre pensi: Pablo sarà in giro per la terra con la bandiera al vento. Una bandiera di grano, di pane e di vino, in alto. Lungo il cammino, agli uomini mostrerà la libertà.) Compagna, verranno qui a cercarmi, una foto, una lettera, qualche segno per seguire le mie tracce. (Tu ricordi le mie mani, non pensi più, sogni: Pablo sta navigando in un mare di sangue giovane, col suo destino ribelle, senza pane né vino, per lottare. Il suo cuore di guerrigliero dimentica la solitudine sulle strade.) Compagna, verranno ancora a domandarti se mi hai visto, se ti scrivo, se sai dove è andato tuo marito. (Tu li guarderai negli occhi, e penserai con tenerezza: Pablo è un uomo che sa che la vita sta cambiando, i compagni lo portano verso l'alba camminando. E se gli mettono catene, altre braccia andranno in cerca di libertà.) Di Pablo ve ne sono molti che vanno per la terra cantando con le loro bandiere di grano, di pane e di vino, combattendo. Di Pablo ve ne sono molti che vanno per la terra cantando. Daniel Vigliett |
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Balaustrata di brezza per appoggiare stasera la mia malinconia G. Ungaretti consigliata da Carmen
Un dono
Corpo di donna...
Preghiera alla poesia
Il termine
Il pigro
Malumore di primavera
Spedita a nord in una notte di pioggia
Sulla piana Leyou
Viaggio ad ovest del Gansu
Attracco al Qinhuai
Gita in montagna
Pietà per il contadino. Parte seconda
Ottobre
Pietà per il contadino. Parte prima
Visita all'eremita assente
Le stagioni umane L'abito dorato
Neve sul fiume
Pietra in attesa del suo uomo
Autunno
Canto di primavera
Invito a Liu XIX
Canto di corte
La nuova sposa
Canto del fiume meridionale
Occupata Notte d'autunno. Al
consigliere Qiu
Che garbo ha
Suono di liuto
Nostalgia primaverile
Risentimento
Partenza di buon'ora dalla città di Baidi
Guardando la cascata del monte Lu
Il tuo nome Torre della Gru Gialla:
addio a Meng Haoran che va a Guangling
A Wang Lun
Nostalgia notturna
Rifugio tra i bambù
Filastrocca della Pace
Versi d'occasione
Nove settembre: nostalgia per i fratelli ad est delle montagne
A Yuan Ershi che parte per l’ovest
Pensiero amoroso
Guardando la neve sul Zhongnan
Rimorso di fidanzata
Alba di primavera
Su per la Torre della Cicogna
Canto di Liangzhou
Dalla terrazza di Youzhou
Ritorno al paese natio
Passando il fiume Han
di solito così
Lode all'oca
I Muri
La passeggiata
Nel crepuscolo
Un mantello
Il più bello dei mari
Mio signore Elegia Versi scritti nella cella Gli offesi Gli indios scendono da
Mixco Mio padre così parco di
parole
Nacchera A giorni alterni sono io
la Luna Canto degli ultimi
partigiani
Cronache
A lungo durerà il mio viaggio
Piove nel sonno mio, piove
sul fiume Il mio cielo El remordimiento Finitezza Dalla soglia di un sogno |
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Le passanti Io dedico questa canzone ad ogni donna pensata come amore in un attimo di libertà a quella conosciuta appena non c'era tempo e valeva la pena di perderci un secolo in più. A quella quasi da immaginare tanto di fretta l'hai vista passare dal balcone a un segreto più in là e ti piace ricordarne il sorriso che non ti ha fatto e che tu le hai deciso in un vuoto di felicità. Alla compagna di viaggio i suoi occhi il più bel paesaggio fan sembrare più corto il cammino e magari sei l'unico a capirla e la fai scendere senza seguirla senza averle sfiorato la mano. A quelle che sono già prese e che vivendo delle ore deluse con un uomo ormai troppo cambiato ti hanno lasciato, inutile pazzia, vedere il fondo della malinconia di un avvenire disperato. Immagini care per qualche istante sarete presto una folla distante scavalcate da un ricordo più vicino per poco che la felicità ritorni è molto raro che ci si ricordi degli episodi del cammino. Ma se la vita smette di aiutarti è più difficile dimenticarti di quelle felicità intraviste dei baci che non si è osato dare delle occasioni lasciate ad aspettare degli occhi mai più rivisti. Allora nei momenti di solitudine quando il rimpianto diventa abitudine, una maniera di viversi insieme, si piangono le labbra assenti di tutte le belle passanti che non siamo riusciti a trattenere. Fabrizio De André Consigliata da Massimo Reggiani |
Les passantes Je veux dédier ce po ème A toutes les femmes qu'on aime Pendant quelques instants secrets A celles qu'on connaît à peine Qu'un destin différent entraîne Et qu'on ne retrouve jamais A celle qu'on voit apparaître Une seconde à sa fenêtre Et qui, preste, s'évanouit Mais dont la svelte silhouette Est si gracieuse et fluette Qu'on en demeure épanoui A la compagne de voyage Dont les yeux, charmant paysage Font paraître court le chemin Qu'on est seul, peut-être, à comprendre Et qu'on laisse pourtant descendre Sans avoir effleuré sa main A celles qui sont déjà prises Et qui, vivant des heures grises Près d'un être trop différent Vous ont, inutile folie, Laissé voir la mélancolie D'un avenir désespérant Chères images aperçues Espérances d'un jour déçues Vous serez dans l'oubli demain Pour peu que le bonheur survienne Il est rare qu'on se souvienne Des épisodes du chemin Mais si l'on a manqué sa vie on songe avec un peu d'envie A tous ces bonheurs entrevus Aux baisers qu'on n'osa pas prendre Aux cœurs qui doivent vous attendre Aux yeux qu'on n'a jamais revus Alors, aux soirs de lassitude Tout en peuplant sa solitude Des fantômes du souvenir On pleure les lèvres absentes De toutes ces belles passantes Que l'on n'a pas su retenir Antoine Pol |
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Oggi
ventuno marzo Inno
alla bellezza Amo il mare Foglio di via La rassegna di Novara Nebbia La poesia Rosso e
azzurro Autunno a Knokke Zoute Da
"Monologo" - I Forse un mattino andando in un’aria
di vetro Imagine Agave L'amore? Di che
è mancanza Attesa Dasein Pater La terra e la morte. Il bambino che gioca Sono una creatura Ali spezzate Lettera Zenit
Sedere a una tavola ignota. Se io potessi vivere un'altra volta
la mia vita Non perdere mai la speranza
nell’inseguire i tuoi Sogni, Neve sul fiume Tu che ritorni Incredibile della serva L'immortalità Non perdere mai la speranza
nell’inseguire i tuoi Sogni, Un grido alla vita
Come sono pesanti i giorni, Tempo reale 1057.
Donna che apre riviere Nella partita giocata È quel che è Viaggio con un fantasma Il condor Non amano la luce Sei tanto lontano Il cerchio d'acqua Sei bella come... Notte Lapide Poesia patata |
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Sikur të isha më pak Sikur të kuptoja më pak, Më pak do të isha. Do më mjaftonte buka e zezë Dhe errësira e syrit. Gjumin do e bëja pa gërrvishje, pa vetvrasje shpirtin. Do të kisha marrë medalje Për heshtjet prej ari. Nënshtrimi do të bëhej karrigeja E dhjamit tim të përgjumur. Më pak do të vuaja, Po të isha më pak. Nazmi Roli -Consigliata da Anileda Xeka- |
Se fossi di meno Se capissi di meno, Di meno sarei. Mi basterebbe il pane nero E il buio degli occhi. In sonno farei senza graffi Senza suicidio l’anima. Avrei preso medaglie Per il mio silenzio d’oro La sottomissione diverrebbe la sedia Del mio grasso assopito Di meno soffrirei, Se fossi di meno Nazmi Roli -Traduzione di Anileda Xeka- |
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Sii paziente
verso tutto ciò che è irrisolto nel tuo cuore e ... cerca di amare le domande, che sono simili a stanze chiuse a chiave e a libri scritti in una lingua straniera. Non cercare ora le risposte che non possono esserti date poiché non saresti capace di convivere con esse. E il punto è vivere ogni cosa. Vivi le domande ora. Forse ti sarà dato, senza che tu te ne accorga, di vivere fino al lontano giorno in cui avrai la risposta. Rainer Maria Rilke -Consigliata da Anileda Xeka- Francesca Arrivavi nella notte e c'erano fiori tra le tue mani ora arriverai da una confusione di gente da un chiasso di parole su di te. Io che ti avevo vista tra le cose primeve m'infuriavo a sentirti nominare in posti qualsiasi. Magari mi scorressero onde fresche nella mente e il mondo si seccasse come foglia morta o come guscio di soffione per sciogliersi in aria così da ritrovarti di nuovo, sola. Ezra Pound -Consigliata da Tinti- Di Narciso Parlerò di ricci Serra ogni porta Primo amore Vola alta,
parola cresci in profondità, [ Il giorno più felice ] Ulisse Morte nell’oblio Strade Continuità Il Lampo Bambino, Armonia
della sera Da "la terra e la morte" I progettisti sgobbano Inno Pari agli dei mi sembra
Io come sono solo sulla terra Sogni Due No non aggiungerò Poesia |
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