Recensioni

Pagina iniziale

Tematiche e testi

Poetare | Poesie | Licenze | Fucina | Strumenti | Metrica | Figure retoriche | Guida | Lettura | Creazione | Autori | Biografie | Poeti del sito

Commenti     Poesie consigliate     La Giostra della satira     Commenti ironici    La Sorgente delle poesie

Questa pagina raccoglie le recensioni di romanzi, libri di racconti, volumi di poesia e di altro genere letterario (libri di saggi, viaggi, teatro, ecc.), film.

Leggere le modalità di  partecipazione e pubblicazione.
Altre recensioni

 Invia la tua recensione



Il maestro di giustizia di Marco Salvador Fernandel Edizioni
Narrativa - romanzo

Strano romanzo, questo di Salvador, e che mi ha impegnato non poco nella lettura, interrotta e ripresa più volte.
Direi che si può suddividere in tre parti, di cui una prima propedeutica, volta a delineare il personaggio principale che parla sempre in prima persona, una seconda in cui la protagonista, realizzando la sua femminilità, riacquisisce se stessa e un'ultima, molto più pregnante e di intensa spiritualità che chiude superbamente l'opera.
Che Salvador sia un ottimo scrittore penso non ci siano dubbi, ma che poi riuscisse a pensare e a parlare al femminile è stata una vera e propria sorpresa, peraltro piacevole.
C'è da dire piuttosto che la seconda parte, per certi versi non facile, è quella che mi è risultata meno gradevole, perché l'erotismo che vi è presente mi è sembrato a volte eccessivo. Per quanto non sia un bacchettone, tuttavia l'insistere su certe immagini, su certi particolari di un rapporto amoroso ha finito, anziché coinvolgermi ulteriormente, con il provocarmi un certo senso di disagio.
Non dico che, data la tematica e le finalità dell'autore non dovessero esistere pagine di erotismo, però, sempre a mio avviso, a volte Salvador è andato oltre misura.
E' un peccato, perché sarebbe bastato poco, magari qualche tono meno acceso e più sfumato, e Il maestro di giustizia sarebbe risultato un capolavoro, anziché essere, secondo me, un romanzo di sola pur eccellente fattura.
Nell'ultima parte l'autore è riuscito a ricreare una sorta di epoca ormai sparita, un'isola sperduta di spiritualità in mezzo a un mondo di ferocia. Nel ritorno alla sacralità della morte Salvador ci ha indicato la via per una vera vita, con mano lieve, senza mai indulgere a una commozione forzata, ma con la stessa naturalezza con cui gli abitanti di un villaggio rumeno respirano, amano e scompaiono.
Sembra di essere presenti, nei ritmi lenti, in quella sorta di muta fratellanza che accompagna gente in pace con la natura e con se stessa.
Alcune pagine, poi, mi sono sembrate di notevole bellezza e particolarmente pregnanti, come se l'autore avesse veramente vissuto una simile esperienza.
La morte che arriva in punta di piedi, il predestinato che l'accoglie in modo del tutto naturale, gli ultimi giorni di vita dell'amante della protagonista, lei che si trasforma da maestro di giustizia in essere umano con emozioni e amore, sono quanto di più bello Salvador potesse scrivere.
E anche le ultime righe sono nella completa logica che presiede alle vicende dei mortali, un autentico tocco da maestro.

Marco Salvador nasce il 10 novembre 1948 a San Lorenzo di Arzene (PN), dove tuttora vive. Ha pubblicato numerosi saggi sulle comunità rurali nel medioevo e sulle giurisdizioni feudali minori. Inoltre ha scritto cinque romanzi: Il longobardo (Piemme, 2004), La vendetta del longobardo (Piemme, 2005), L'ultimo longobardo (Piemme, 2006), La casa del quarto comandamento (Fernandel, 2004) e appunto Il maestro di giustizia (Fernandel, 2007).
Renzo Montagnoli


La donna che parlava con i morti di Remo Bassini Newton Compton Editori
Narrativa - romanzo

Romanzo difficile questo di Remo Bassini, quasi la ricerca di una prova della maturità letteraria, e non solo quindi una conferma della consapevolezza artistica delle opere precedenti.
Ritroviamo in questo testo elementi già presenti e radicati, soprattutto in "Dicono di Clelia", un intreccio di storie e di personaggi apparentemente non collegati, ma che poi finiscono con il convergere in un'unica visione comune che, nel caso specifico, è la realtà attuale, sempre frutto dei trascorsi, di quel passato attraverso il quale costruiamo poi il presente.
Non intendo considerarlo un romanzo di genere, perché la tensione emotiva propria del giallo è nel DNA di Bassini, né posso intenderlo come un testo in cui si sviluppa l'esoterismo, anche se questo finisce con l'essere presente, ma non costituisce l'elemento dominante.
A fare i conti con il passato sono tutti i protagonisti di questa vicenda e in primis quello principale, quell'Anna che di cognome fa probabilmente non a caso Antichi, quasi un emblema della finalità dello sviluppo narrativo. E' a lei soprattutto che l'autore rivolge la sua attenzione, in modo quasi ossessivo, perché è lei che dà il ritmo della narrazione, che si esprime attraverso una serie di flash back che rimandano di volta in volta a vicende passate.
E' una parte essenziale questa e il ricorso a continui tuffi nella memoria appare determinante nel delineare la vicenda, anche se devo ammettere che appesantisce un po' la fluidità del discorso, ma comprendo pure che, francamente, Bassini non aveva altre possibilità per il modo in cui ha impostato lo sviluppo del suo romanzo.
Come dicevo tutti i personaggi devono fare i conti con il loro passato e sono legati da un evento luttuoso che ha segnato la loro vita. Per Anna è la morte del padre Leone, per Fabrizio, il poliziotto di cui Anna è innamorata, è il decesso dell'adorata moglie; analoghe perdite sono quelle che toccano Mario, scrittore di successo imbarbarito dopo il suicidio di un figlio e per Antonio a cui viene a mancare l'amico fraterno. Ma ci sono anche altri tipi di lutti, quali quello di Roberto, abbandonato dalla moglie.
Questi personaggi che sono venuti a mancare assurgono a figure determinanti in chi è restato, figure che in vita non erano state giustamente valutate e su cui non era stato riversato l'affetto adeguato. Questi fantasmi ora bussano alla porta di individui che hanno la percezione di essere degli ingrati e che, a differenza di altri romanzi di Bassini dove hanno l'attitudine a risolvere i problemi con la fuga, qui fanno i conti con il loro passato, con rimorsi, con rimpianti, esami di coscienza sui quali tentare di ricostruire una vita, di avere un futuro.

Remo Bassini nasce a Cortona il 23 settembre 1956, ma vive da molti anni a Vercelli. Ha svolto molti lavori per poi approdare a quello di giornalista, diventando direttore de La Sesia.
Pubblicazioni: Il quaderno delle voci rubate (La Sesia), Dicono di Clelia (Edizioni Mursia), Lo scommettitore (Fernandel Editore), La donna che parlava con i morti (Newton Compton).
Renzo Montagnoli


Addii d'un rosso inconscio di Luigi Panzardi Magnetica Edizioni
Immagine di copertina di Luigi Panzardi
Narrativa - racconti

Quando ho intervistato l'autore in occasione dell'uscita del libro, gli ho chiesto, non avendolo ancora letto, il motivo di un titolo così strano e lui mi ha risposto che lo stesso annuncia, sia pur vagamente, l'esito drammatico dei racconti, i cui personaggi sono dotati di una personalità fuori dalla norma o a limite della stessa, o addirittura sono in preda alla follia.
Nell'introduzione al testo, scritta dallo stesso autore, viene rimarcato questo comune denominatore, citando la vita di Nietzsche, universalmente considerato un genio, razionale, logico e che poi all'improvviso finì con l'impazzire, quasi a voler dimostrare che è presente in ognuno di noi un lato oscuro che, poi, per motivi sconosciuti, può prendere all'improvviso la supremazia, trasformando una mente lucida in una folle.
Quindi l'obiettivo di questa raccolta di racconti non è per nulla facile, perché ci si addentra in un campo che continua a sfuggire alla logica, con caratteristiche e modalità che variano da individuo a individuo.
Lo sviluppo narrativo si avvale di un racconto lungo (La busta azzurra), in cui è più presente, al di sotto di un'apparente normalità, la radice della demenza, in questo caso quasi l'effetto di una successione genetica che porta la protagonista all'omicidio perpetrato quasi in tranche, in obbedienza al lato oscuro della personalità, sempre latente, ma che sembra esplodere con casualità, ricollegando un albero a una tragica vicenda familiare.
In questo racconto aleggia anche una certa aria di mistero, un senso di oppressione che per certi versi richiama la letteratura di genere, più incisivamente il gotico.
Questa sorta di horror psicologico è ancora più evidente in L'Assolo, dove in atmosfere nebbiose si dipana uno sdoppiamento della personalità che porta a un'imprevedibile conclusione.
Meno coerente nello sviluppo tematico, ma senz'altro assai riuscito è invece La pecora, dove il degrado, inteso in tutti suoi aspetti, porta a uno stato di rassegnata follia, intesa quale unica soluzione di un problema senza altri sbocchi.
Di sicuro effetto è poi Il custode del canile, in cui l'emarginazione diventa il campo di coltura di un disordine mentale da cui si può uscire solo con la morte.
Ne L'ultima estate di Alì l'autore cerca di trovare i motivi per i quali un essere umano si dà la morte, assieme ad altri ignari. Nella lucida follia del kamikaze c'è una sorta di rassegnazione, di mancanza di fede nella vita con totale dedizione alla morte, descritti a piccoli passi, una serie di immagini al rallentatore che non possono non coinvolgere.
La lettura di questa raccolta è senz'altro consigliabile.

Luigi Panzardi è nato a San Giorgio Lucano in provincia di Matera il 27 maggio 1942 e vive a Taranto. Ha già pubblicato due raccolte di poesie intitolate Parole bianche e Istanze e sogni.
Renzo Montagnoli


Mario e Menco  - i dottori de nna volta di Silvano Conti edizioni Edimond   -  Dicembre 2007
prefazione di Nicola Lucarelli
Immagini e copertina di Antonio Renzini
Prosa vernacolare  - 12 racconti

                                                                         Prefazione

Il dialetto umbertidese per Silvano Conti, non trova il suo esclusivo campo di espressione artistica nella poesia, ma anche nel settore narrativo, nel quale gli altri autori dialettali raramente si cimentano. La prosa dialettale appare in effetti meno frequentata per le difficoltà che essa presenta ad un autore che si vuole proporre come “immediato” e di facile comprensione. La poesia in questo senso incarna quell'immediatezza senza mediazioni che il dialetto sembra offrire rispetto al linguaggio colto. Come avevo già indicato nella prefazione alla silloge “Tal merollone e al tondo” la poesia dialettale – e Conti non smentisce la regola- si serve del ritmo più tradizionale e della rima come modo di espressione privilegiato, quasi a marcare una netta differenza con gli esiti artistici di una poesia più colta che privilegia l'espressione in una lingua più studiata e ricercata.
Nella prosa tutto ciò viene a mancare e l'espressione si deve fare per forza più studiata ed elaborata nel tentativo di mantenere, nello stesso tempo, la salutare immediatezza del dialetto e nel contempo, nella necessità di ancorarsi a più solide basi sintattiche – del dialetto s'intende- che derogano spesso in forme dalle cadenze espressionistiche, in ancestrali cantilene, negli usi e nei costumi veri, vivi, di un popolo vero e sanguigno. Un incedere cui le  poetiche,  che affiorano nei dodici racconti che Silvano ci propone, fanno da sfondo insieme ai luoghi ed alle persone. 
          Nella raccolta “Mario e Menco” l'autore ricorda delle figure assai note nell'epoca della sua adolescenza e della prima giovinezza, in primis i due protagonisti: i “dottori” fratelli Migliorati (Mariano e Domenico), ma anche un buon numero di altri personaggi caratteristici, assai noti nella nostra piccola città.
Mario e Menco erano i “dottori de nna volta”  che “érono schietti, magara anche m po sgarbati, ma sincéri, e quel ch'éon da dì, te l' diceon tal muso, senza tante nanne”. Nella prosa di Silvano queste due storiche figure risorgono, rivivono esattamente quali erano quando gli umbertidesi le avevano conosciute, quasi persone di famiglia, paterne e talora brusche a cui si doveva il rispetto dovuto a un familiare più esperto e autorevole.
I tempi sono cambiati ed anche i medici di oggi sono diversi da loro, forse più funzionali, come si dice ora, forse meno paterni perché più giovani e magari conosciuti come normali ragazzi prima di intraprendere la loro missione.
           Queste due figure che erano molto care agli umbertidesi – anche perché essi morirono, per così dire, sul campo, esercitando la loro professione – sono l'occasione per descrivere il paese della propria infanzia e della prima giovinezza che pare essere l'ideale habitat dell'opera dialettale di Conti.
Il dialetto appare infatti più indicato a descrivere il passato, il ricordo, quasi a testimoniare una memoria che trova nella lingua locale, se non l'unico mezzo espressivo, almeno quello da privilegiare.
L'esperienza dialettale appare già di per se una scelta legata al passato, a lasciare testimonianza di una lingua che per vari motivi – l'invadenza della televisione, la crescita del livello dell'istruzione media, emigrazioni ed immigrazioni sia nazionali che internazionali e una società che si fa sempre più multiculturale se ancora non del tutto multietnica- perde ogni giorni elementi sintattici e lessicali abdicando nei confronti dei nuovi linguaggi ed espressioni lessicali di “moda”.
Se nella prosa non si usa – com'è evidente – la rima, non passerà comunque inosservato il particolare ritmo della prosa di Silvano, che per la sua particolarità potrebbe essere definito una prosa in versi, tanto l'esperienza della poesia dialettale si avverte e influisce sulle sue scelte espressive.
La quantità di personaggi evocati nei racconti è notevole, sia per episodi realmente accaduti, sia per altri in cui la fantasia dell'autore si diletta a creare situazioni che sarebbero anche potute accadere veramente e quindi più che verosimili. Ci passano così davanti agli occhi le figure più tipiche della Umbertide che fu e ci fanno riflettere su come il paese che avevamo conosciuto nelle nostra infanzia ed adolescenza e che eravamo abituati a vedere come immutabile e quasi eterno nella tipicità sua e dei suoi più tipici personaggi, sia invece quasi improvvisamente mutato, rinnovato e quasi irriconoscibile dopo che il tempo ha fatto inesorabilmente il suo corso.
La lettura di questi brevi racconti ci fa capire che ciò che non abbiamo chiaramente percepito nel cambiamento continuo e inesorabile, perché anche noi coinvolti nello stesso o distratti dagli impegni di lavoro e dai problemi della vita, era che la gradualità dei mutamenti ci portava a pensare intimamente che le cose in fondo non sarebbero poi molto cambiate e che alcune particolarità che vedevamo come “punti fermi” non sarebbero mai andate perdute.
Silvano ci riporta bruscamente alla realtà e ci fa vedere come invece il paese e noi siamo cambiati, radicalmente, ineluttabilmente; in questo la forza del dialetto è, direi quasi, dirompente e di una valenza molto significativa che ne evidenzia l'importanza e direi -senza tema di smentite- l'esclusività in argomenti così strettamente collegati alla vita paesana.
Non voglio ancora trattenervi oltre e vi invito a quella che è la cosa più importante da fare con questi racconti : leggerli e godersi questo salutare ritorno ad un'epoca - abbellita dal ricordo dell'adolescenza e della giovinezza- che merita senz'altro una nostra riflessione per  guardare al futuro senza inutili conformismi, ma con la coscienza che per costruire qualcosa di veramente nuovo non si debba né dimenticare, né rinnegare il nostro passato.
Nicola Lucarelli

L’autore
Silvano Conti è nato ad Umbertide nel 1951 e nella cittadina umbra tuttora vive e lavora. Diplomato geometra, è impiegato in una importante azienda locale del settore metalmeccanico.
Personalità poliedrica che spazia dalla musica ( drummer in una formazione rock negli anni sessanta ), alla pittura, alla botanica, alla micologia di cui è profondo conoscitore. É autodidatta nella conoscenza del latino e studioso per diletto delle lingue vernacolari e dei dialetti che ne derivano.
Il filtro della vita ha trasformato, comprimendo il suo tempo libero, la sua predilezione naturale per la prosa, ma ha accentuato, elevendolo all’ennesima potenza, il valore intrinseco della sua poesia che esplode ad ogni lettura con significati intensi di rara magnitudine.
Ha pubblicato : Il significante 1985, poesia – “Frattaje – racconti satire e poesie in lingua frattigiana “ prosa-poesia; Aspettando l’attesa- immagini rumori odori del tempo che passa”, 1988, poesia-prosa; La canzona de Stinchi de Mavero 1995 poemetto, poesia vincitore premio letterario XXV Aprile ; Tal merollone e al tondo 1995, poesia-prosa; Sentieri d’aria – sguardi e grida dal cielo” 1995 poesia, “Catene e di rimando dettagli liberi e chiaroscuri” 1998, poesia.
Nicola Lucarelli


Canti celtici di Renzo Montagnoli Edizioni Il Foglio
Prefazione di Patrizia Garofalo
Immagine di copertina e fotografie
all’interno di Renzo Montagnoli
Elaborazione Grafica di Elena Migliorini
Collana Autori Contemporanei Poesia
Diretta da Fabrizio Manini
Poesia – poema 

 VOCAZIONE ALL’ASSOLUTO

E’ con grande piacere che mi accingo a parlare di Canti celtici di Renzo Montagnoli (Edizioni Il Foglio, pagg. 90, Euro 10,00), in quanto ho avuto modo di seguire passo passo sul suo blog www.armoniadelleparole.splinder.com la genesi del libro, e il privilegio di leggerlo appena uscito, per comporre un’intervista con lui pubblicata sul neonato sito dell’associazione [CaRtaCaNta©], che potete leggere qui.

Montagnoli è personaggio poliedrico: dominus del sito www.arteinsieme.net, è riuscito a coagulare attorno a sé poeti e scrittori interessanti che bazzicano il sottobosco della piccola e media editoria, contribuendo in maniera cospicua alla diffusione dei loro lavori, svolgendo un servizio appassionato, dettagliato e competente di trasmissione di informazioni, recensioni, estratti, interviste con autori, editori e editor che potrebbe esser preso seriamente a campione - dagli studiosi delle strategie di comunicazione - della trasversalità del web e delle sue infinite risorse in ambito di diffusione letteraria e culturale. Ma Renzo Montagnoli non finisce qui: è scrittore di racconti, apprezzabile fotografo e poeta della natura e della memoria, dalla voce difficile da eludere.

I 22 Canti che compongono la silloge esprimono un concept omogeneo, quasi programmatico nel porre l’accento sui valori fondamentali che contraddistinguono una civiltà che possa ancora dirsi tale. Non a caso l’interesse di Montagnoli per il mondo dei Celti si rivolge a precise loro caratteristiche, come i valori della comunità, della famiglia, a un contatto animistico con la natura – i celebri boschi celtici. Caratteristiche che il mondo odierno sembra aver perduto, nel dilagante consumismo, nella ricerca esclusiva del profitto, nella costruzione di paradisi artificiali, nello snaturamento dei valori più veri e di quelle conquiste della mente e dello spirito in grado di far progredire realmente la collettività. La soluzione, auspicata da Montagnoli in questa raccolta, è quella del ritiro nel sogno di un tempo arcaico, dal quale trarre nuova linfa vitale.

Il linguaggio dei Canti celtici è elegante e sorvegliato, ma senza artifici. La scrittura è piana e diretta, va al nocciolo della materia da esprimere, sollecitando le giuste corde. Sanguigna e vigorosa come solo quella di un bardo, cantore di una civiltà nobile e guerriera, sa esserlo. E il verso libero, modulato sulle assonanze ( “scorrere silente” e “rive verdeggianti”, ad esempio, ne  Il lungo fiume,  dove i due versi che si richiamano per assonanza, separati da un verso intermedio – il fiume? Infatti c’è pure la parola acqua – sono due novenari), su una quantità sillabica variabile, con qualche rima e riprese di parole o sintagmi, rende il tutto molto musicale. In alcuni componimenti il tono è dolente e malinconico; il poeta è attento a cogliere il palpito della natura o i fenomeni che intende indagare, con delicatezza e attenzione alle sfumature, quasi per non disturbare quella “musica lieve” che “viaggia nel tempo” (Musica e polvere). In altri canti la voce cresce d’intensità, aumenta il ritmo e la concitazione; in altri è impeto, epica della battaglia, in altri ancora un ammonimento morale.

 Riguardo ai temi, al termine di una lettura piacevole – come se avessi ascoltato una playlist di quella musica celtica che molto apprezzo e della quale Montagnoli è appassionato -, ora con quelle aperture ariose, trasognate, o nel ritmo serrato di una giga, tutta violini e thin wistle – qualcosa non mi tornava, non andava ad allinearsi con l’immagine che mi ero fatto di Renzo Montagnoli dalle cose che scrive e dai progetti che cura. E, metto subito le mani avanti: il problema era un certo mio smarrimento, l’incapacità di penetrazione del messaggio sotteso a questi Canti celtici.

Mi sono chiesto: come può il Montagnoli concreto dei suoi racconti, il narratore attento a compendiare nell’espressione creativa la propria esperienza di vita; di più, il Montagnoli che si è appropriato (pur appartenendo alla generazione della macchina da scrivere) così bene delle nuove tecnologie, in linea con l’evoluzione frenetica del mondo, caldeggiare una “fuga” nell’irrazionale, un sottrarsi alla volgarità e allo squallore del nostro tempo per rifugiarsi in un sogno e rievocare i fasti di un’antica civiltà?

 Non avevo impostato correttamente la questione: Montagnoli è incline a perseguire il suo obiettivo sperimentando, con modi imprevisti, “con quell’unica meta/che sfugge a ogni logica” (Cocci). E a una più attenta analisi quel mondo celtico non è un mondo-altro, bensì è un altro dei topoi dell’immaginazione, un luogo nel quale la voce del bardo – che rivela il suo spirito e parla per esso attraverso i Canti – invita il lettore a riappropriarsi del suo passato, per scongiurare in qualche modo quei “posteri già nati senza memoria” (Musica e polvere) o “l’immagine di un’umanità senza sogni, senza memoria e senza futuro” (Il lungo fiume), per non passare senza “lasciar traccia” (Il futuro nel passato), ultimo approdo che l’artista si prefigge. E l’imperativo etico è quello di un recupero dei valori più fondanti: la bellezza e l’amore, la comunità, un riguadagnato equilibrio con la natura e l’ambiente in cui viviamo. Questo il messaggio concreto e attuale dei Canti celtici.

 Ma c’è anche un ulteriore livello di lettura, più intimo, che riguarda l’esistenzialità dell’uomo Montagnoli, il rapporto interlocutorio che la sua poesia intrattiene con le forze che regolano l’universo. Da questa prospettiva, a ben guardarli, questi Canti celtici sono una vocazione all’assoluto. Alcuni dei canti rivelano questa attitudine fin dal titolo: Eternità, Il testamento, Il futuro nel passato, ma sarebbe interessante ripercorrere l’intero poema avanti e indietro, o zigzagando, cercando prove che convalidino questa ipotesi: “in quella immobilità del tempo” (Guerrieri sull’acqua); “lo scandire di Crono in un’unica infinita storia dell’umanità”(I segni del tempo); “la compagnia per l’eternità” (In memoria di un bimbo); “(…) per il breve tragitto/che ci condurrà alla casa del tempo infinito” (In mezzo scorre il fiume); “e vogliono correre verso il nulla” (Il mormorio del vento); “in un eterno istante” e “Pascoli del cielo infiniti” (I pascoli del cielo); “riscopre la continuità/infinita,/tra passato e futuro.” – dove l’aggettivo infinita costituisce da solo un verso – (Cocci); “uno sconosciuto riemerso dall’eternità” (Il testamento).
Sia che il paesaggio sia ravvivato dalla luce o avvolto da umide nebbie, l’immersione dello spirito è totale. E’ un nuovo paganesimo che mette in comunione con le cose, come se fosse l’esito di un rito antico, o l’estremo tentativo di comprendere le leggi che regolano il creato, quel “(…) mondo che è profondo in noi,/e che scompare nel volger di un attimo” (Guerrieri sull’acqua), enigma insondabile e meraviglioso, sospensione del moto, tregua agli affanni, un istante prima che la realtà ritorni e il sogno si nasconda “fino alla prossima alba” (Canto celtico).

L'autore
Renzo Montagnoli nasce a Mantova l’8 maggio 1947. Laureato in economia e commercio, dopo aver lavorato per lungo tempo presso un’azienda di credito ora è in pensione e vive con la moglie Svetlana a Virgilio (MN). Ha vinto con la poesia Senza tempo il premio Alois Braga edizione 2006 e con il racconto I silenzi sospesi il Concorso Les Nouvelles edizione 2006. Sue poesie e racconti sono pubblicati sulle riviste Isola Nera, Prospektiva e Writers Magazine Italia, oltre a essere presenti in antologie collettive e in e-book. È il dominus del sito culturale Arteinsieme (http://www.arteinsieme.net/).
Blog: http://armoniadelleparole.splinder.com/
Alberto Carollo


Canti celtici di Renzo Montagnoli Edizioni Il Foglio
Prefazione di Patrizia Garofalo
Immagine di copertina e fotografie
all'interno di Renzo Montagnoli
Elaborazione Grafica di Elena Migliorini
Collana Autori Contemporanei Poesia
Diretta da Fabrizio Manini
Poesia - poema

Un menestrello scomodo
La poesia di Renzo Montagnoli nasce dall'ascolto: e, come tale, è un dono.
Un dono della terra, dell'acqua, delle forze primordiali che popolano il mondo cercando un senso.
Canti celtici (Ed. Il Foglio, 2007) rappresenta questo viaggio di ricerca.
Il poeta, nei testi, trasfigura se stesso, diventa menestrello per scelta interiore e trascende dalla propria dimensione chiusa per aprirsi alla meraviglia, alla dimensione - altra: fatto, questo, che corrisponde ad una visione archetipa dell'esperibile, per cui l'ordine del mondo è un magma che si fa terra, materia, linea temporale perduta, pertanto evocata.
Le liriche -meglio, i capitoli della storia- muovono da questo universo onirico, quasi visionario: lasciano così una propria traccia, una cifra che sembra opporre in termini inconciliabili il passato e il presente, ma che, in realtà, è chiave di lettura della contemporaneità, sua denuncia insopprimibile. Distanza dall'oggi, forse? Protesta? O altro?
Sicuramente i vari movimenti delle strofe vivono come organismi autonomi e dotati di doppia natura: un primo corpo, se vogliamo lo sviluppo della canzone, rivolto ad un emisfero altro -purificato, oserei dire- dove tutto avviene ed è fermato in tradizioni e canti passati, dal vago sapore alchemico o quanto meno magico - evocativo; un secondo corpo, il congedo, in cui ossimoricamente il presente si fa urgente, chiave di volta scomoda, denuncia. Ed esiste in contrapposizione all'antico.
La costruzione formale delle liriche, dunque, acquista valore proprio perché figlia di questo progetto, dove la razionalità si incontra con l'irrazionale, la metafora, il vagheggiamento.
A livello lessicale, forti e continui sono i riferimenti al desiderio di trovare radici e, in opposizione, alla negazione dell'hic et nunc: è sufficiente citare il termine oblio , parola chiave già presente nel testo proemiale, o espressioni quali lavorio di secoli - non è più tempo - il tempo non esiste - senza memoria - senza futuro - tempo ormai finito.
A ciò fa eco la segreta speranza di scivolare su un'acqua silente, di dare un ultimo sguardo , quasi a ripercorrere il passato, trasformarlo in storia, cantarlo per esorcizzare il male, per rintracciare almeno un suo bagliore oggi, o quanto meno una vaga possibilità di futuro.

microantologia
da "Canti celtici" (Ed. Il Foglio, 2007)

I segni del tempo
Di strade tracciate nel tempo
restano immote pietre, segni di un passato
che l'oblio dell'uomo non degna di sguardo.
Lì ci sono le radici, quello che l'oggi non sarebbe
senza il lavorio dei secoli, lo scandire di Crono
in un'unica infinita storia dell'umanità.
Non è più tempo di dei, il tempo non esiste più.
Corre l'uomo senza avvedersi del presente,
dimentico del passato, orfano del futuro.
Ma quelle pietre restano e sole testimoniano
le lontane civiltà, avi che nacquero,
vissero e morirono perchè nel dopo
qualche cosa di loro rimanesse.
E invece ora
sono solo inerti sassi
che un giorno qualcuno getterà.
***
Eternità
C'è un sentimento senza tempo,
che si ritrova in ogni era,
un fremito uguale che sempre si ripete,
un incontro che non vuol mai terminare.
E voi lo provaste, in epoca antica,
quando ancora non si scriveva di questo,
fra capanne piantate nelle acque del lago,
fiere affamate all'intorno pronte a balzare
e Dei di cui ormai s'è persa memoria.
Ma l'amore è rimasto, oggi come ieri,
oltre ogni logica, oltre ogni confine.
Giacchè il tempo per voi era passato,
ci fu anima pietosa che rese gloria
a un sentimento imperituro nei secoli
e nell'abbraccio dell'ultimo anelito di vita
vi affidò alla morte
perchè i posteri un giorno sapessero
che tutto finisce,
tutto cessa,
fuorché la forza dell'amore.
(A due neolitici sconosciuti che gli scavi effettuati
nei pressi di Mantova ci hanno restituito nell'ultimo
abbraccio
)
Ivan Fedeli


Io, Parsifal Il Romanzo del Cavaliere del Graal di Joaquin Javaloys Tre Editori
Narrativa - romanzo

Nell'ultima di copertina c'è scritto questo:
"Parsifal, il mitico Re del Graal, e suo figlio Lohengrin, il Cavaliere del Cigno, sono i protagonisti di questo romanzo dove la leggenda si fonde con la Storia ad identificarli con i davidici Trencavel che guidarono la resistenza catara contro i Crociati in Occitania.
Una storia segreta che getta una luce nuova e sorprendente sull'eroe immortalato da Wagner e che incantò personaggi come Ludwig di Baviera e Adolf Hitler. "

In prefazione, peraltro, l' autore stesso dichiara che nell'opera svelerà il mistero del Graal del davidico Parsifal, attribuendo il merito di tale scoperta ai maestri medievali Flegetanis da Toledo e Wolfram von Eschenbach, che a suo tempo raccontarono i capitoli principali di questa storia realmente accaduta.
Per avvalorare questa affermazione, Javaloys fornisce, accanto a una cronologia dei fatti storici rilevanti, anche un quadro sinottico ove si definisce una corrispondenza fra i personaggi storici e quelli leggendari.
Il lavoro svolto è stato indubbiamente complesso, ma l'impressione che ho ritratto è che l'autore si sia trovato di fronte a una non facile scelta di percorso narrativo. Si deve essere detto: scrivo un saggio storico, oppure un romanzo storico, o addirittura un romanzo di fantasia, pur con agganci storici, dove l'aspetto esoterico sia dominante?
Probabilmente non è riuscito a darsi una risposta chiara, tanto che alcune pagine sono proprie di una ricerca storica, mentre altre sono un vero e proprio romanzo, con l'elemento magico presente, ma assai sfumato.
Ora, la valutazione dell'opera dipende molto dalle aspettative che il lettore si ritrae dalla stessa. Se desidera un romanzo di fantasia non ne sarà contento, ma se vuole farsi un'idea su chi erano Parsifal e Lohengrin, divertendosi a scorrere le pagine, che spesso sembrano condurre a una sequenza cinematografica, questo libro non potrà che piacergli.
I personaggi, cavalieri dell'epoca ben delineati nelle loro caratteristiche, prendono gradualmente forma e sostanza, dando vita a un intreccio che quasi costringe a seguire gli eventi che li vede protagonisti, tipo tornei, battaglie, assedi, avventure amorose anche.
Storicamente s'innesta poi la figura dominante e francamente esecrabile della Chiesa di Roma, tesa a fare crociate con scopi ufficialmente religiosi, ma con fini sotterranei ben più materiali. Questa è forse una delle parti migliori del libro, perché l'aspetto storico, se pur prioritario, finisce con l'essere raccontato in modo accessibile ai più, nonostante la complessità derivante da tutta una serie di intrighi che certo non mettono in buona luce l'opera del papato.
Nel complesso si tratta di un quadro medievale di pregevole fattura su fatti ed eventi a molti sconosciuti, ma che hanno una rilevanza di tutto riguardo nella storia europea, il tutto narrato con uno stile sobrio e anche accattivante. Penso si possa dire che questo libro costituisce l'occasione per saperne un po' di più e se considerato in tale funzione è sicuramente raccomandabile.
Renzo Montagnoli

L'autore
Joaquín Javaloys è uno scrittore amante della Storia.
Nato in Spagna ha vissuto in Italia, Francia e Stati Uniti conducendo per anni ricerche culminate nella pubblicazione di opere quali L'origine ebraica delle monarchie europee (Madrid, 2000) e Il Graal segreto dei Catari (Madrid, 2001).
Nel 2006 è uscita la versione spagnola di Io, Parsifal che ha riscosso grande successo e attenzione.
Renzo Montagnoli


L'ingrato di Sacha Naspini Editrice effequ
Narrativa - romanzo

Primo romanzo di Sacha Naspini, L'ingrato già rivela le indubbie qualità di questo giovane autore e che potrei sintetizzare in una scrittura matura, ma mai greve.
In effetti in questo libro si avvertono alcune linee base che poi si ritrovano, perfezionate e in piena sinergia, ne I sassi.
L'analisi psicologica approfondita, l'ambientazione definita nei suoi aspetti essenziali, quasi delle indicazioni, e una trama senza intoppi sono caratteristiche che appaiono proprie di Naspini e quindi non dovute al caso, delle vere e proprie fondamenta su cui contare per dare vita a nuove situazioni, a vicende che non sono mai ripetitive.
I pregi e i difetti della provincia (nel caso specifico un paesino toscano) sono il pretesto per una spietata denuncia della maldicenza, di questo vizio sottile, latente anche in persone insospettabili e che appare come una valvola di sfogo per frustrazioni sempre presenti.
Certo il maestro Calamaio, il personaggio principale, ha anche le sue stranezze, come quella di spiare le bambine quando vanno in bagno, ma quest'anomalia, che si limita a una semplice osservazione, appare quasi insignificante rispetto all'acredine, alla storia del tutto inventata che sorge in questo paesino e che attecchisce in modo estremamente rapido.
E non è che la vox populi lo condanni per questo spirito guardone, ma per qualche cosa di immorale che gli stessi creatori ignorano e che nasce come frutto di fantasticherie che si dilatano di bocca in bocca, come a dire che uno starnuto nel giro di tre vie diventa un boato.
No, a Calamaio gli si rinfaccia l'ingratitudine, non gli si perdona che lui, accolto in paese proveniente dalla città, non abbia accettato le regole ferree che regnano sovrane nel tempo e che rendono una comunità al tempo stesso carnefice e vittima di se stessa.
Per dirla più chiaramente, Calamaio ha violato i confini sacri non tanto dell'etico, ma del conformismo, delitto senza possibilità di appello in una società chiusa che può solo accettare o respingere.
Fatto il primo passo, la maldicenza si amplifica, trae forza dalla sua stessa debolezza di iniziare da una bolla di sapone, perché è evidente che si viene a creare un inconscio legame fra chi per primo ha cominciato e l'ultimo che chiude e riapre il cerchio, in una sorta di girotondo senza fine.
L'individuo preso di mira non ha più cittadinanza e vive un'emarginazione che è fatta di forzata solitudine e di dispetti ricorrenti, quasi fosse considerato un corpo estraneo da cui liberarsi.
Il pregio dell'opera sta proprio nella capacità che ha avuto Sacha Naspini di rappresentare questa realtà, che non è un caso limite, ma che invero è frequente, con quella distorta volontà di trovare a tutti i costi un capro espiatorio su cui sfogare le proprie pulsioni represse.
Renzo Montagnoli

L'autore
Sacha Naspini è nato a Grosseto nel 1976. Nel marzo 2006 ha pubblicato il suo romanzo d'esordio, "L'ingrato" (Editrice Effequ). Nel novembre dello stesso anno è uscito il tascabile "Il risultato" (Magnetica edizioni). Suoi racconti sono apparsi in varie antologie, tra cui: "Mia figlia Chiara" nella raccolta "Cattive storie di provincia"; "Le parole, le stelle" nella raccolta "Antologia del fantastico underground" (entrambe edite dalle Edizioni Il Foglio). Vari riconoscimenti letterari, tra cui: nel 2005 vincitore del premio nazionale "Canossa - Città di Bazzano" con il racconto "La vita comincia a quarant'anni"; segnalato al premio "Licurgo Cappelletti" con il racconto "I ragni"; tra i vincitori del "Premio Boccardi" con il racconto "Serenity Garden". Nel 2004 è stato finalista al premio internazionale "Massimo Troisi" con la favola villana "Marito mio!".
Nel settembre dell'anno in corso è uscito il suo secondo romanzo, I sassi (Edizioni Il Foglio, 2007)
In veste di grafico ha recentemente curato l'antologia di racconti "È stata pura gioia" (Edizioni Parole & Musica).
Nell'ottobre 2005 è uscito l'album "…il peggio è passato (?)", disco d'esordio dei Vaderrando (Ethnoworld - MI). Attualmente in lavorazione il progetto "Anomia". Sacha Naspini, oltre che essere "la voce" del gruppo, è l'autore di musiche e testi. Per contatti: www.vaderrando.it
Renzo Montagnoli


Fiori e fulmini di Cristina Bove - ed. Il Foglio

Le poesie raccolte in questo libro trattano tematiche care all’autrice, sulle quali compone versi in modi sempre originali e diversi, con uno stile in cui, oltre alla limpidezza e chiarezza espressive, risaltano il ritmo, la musicalità ed accenti malinconici e lirici. Tutti elementi che si colgono immediatamente e che trasportano il lettore nelle dimensioni fantastiche immaginate dalla poetessa.
La lettura procede in modo quasi inconsapevole, poiché si sente in ogni verso e in ogni poesia una leggerezza e una armonia che fanno pensare a una delle caratteristiche essenziali del “bello scrivere” di cui parla Italo Calvino nel suo libro “Lezioni americane”.
È un modo di scrivere, anche in versi, in cui la ricercatezza del lessico è tale da conferire levità, trasparenza quasi, alle immagini che vengono con esso evocate. E questa caratteristica è tanto più apprezzabile quanto più il contenuto poetico, di per sé, tratta temi che potrebbero essere ritenuti quasi “oppressioni dell’anima”, tormenti interiori, ricerca faticosa e sempre incompiuta di un senso nelle cose del mondo: temi di una “pesante” serietà indiscutibile.
Se dovessi condensare in poche parole la poetica di Cristina Bove, direi che essa consiste nella “ricerca della Verità ultima”. Con le sue poesie, infatti, Cristina ci guida a comprendere che non bisogna cercare lontano, in sfere e dimensioni metafisiche, ciò che è “dentro di noi”. Ci invita a provare meraviglia per il mistero dell’esistere; a stupirci e a commuoverci per tutto ciò che l’uomo realizza, crea, fa; a stupirci della scoperta di essere parte, infinitesima, sì, dell’universo, esattamente come tutte le cose esistenti, e di partecipare dell’essenza del mondo, in tal modo partecipando dell’essenza del “divino”.
Molte sono le poesie in cui questa dimensione divina viene ad essere chiaramente esplicitata come insita nella dimensione umana. Ma la magìa di queste poesie sta nell’attimo in cui la poetessa, ritrovata nella stessa essenza dell’uomo la verità che cercava, precipita immediatamente nel dubbio teoretico che la fa oscillare tra una fede saldissima in un al di là, punto di congiunzione tra l’origine e la fine dell’uomo, e l’impaccio dei riti inutili, fumi negli occhi di sprovveduti e spegnimento della luce dell’intelletto. In queste poesie raggiunge una liricità che è strettamente connessa all’intensità della sua ricerca e alla sua insaziabile sete di conoscere il vero senso dell’esistenza
Cito, a tal proposito, due soli esempi di poesie per tutte.
Una è la bellissima poesia “C’era qualcuno”, che ritengo essere una vera e propria “ode teoretica”: è un rifarsi a Qualcuno che plasma l’io nell’atto del suo “inizio”, sentirne il sorriso, le mani che operano la creazione e vederLo risplendere sul ciglio del “pozzo profondo”, contenitore dell’io che sta per avere origine, fino a vedere da Lui scaturire il Tempo; ed è in questo Tempo ormai divenuto “processo”, dinamismo, vita, che il Padre conosce il Figlio, attraverso scale armoniche, le parole, da Lui stesso inventate come simboli d’amore.
Ecco, in questi versi si ritrova il punto esatto da cui ha origine la conoscenza della Verità ed è sconvolgente la semplicità con cui la poetessa ci fa vivere questa sorta di incanto-magìa-mistero, svelandone la causa, il luogo, il modo, il tempo, facendoci apparire assolutamente divino, quello che è assolutamente umano, e riportandoci in tal modo da una dimensione esistenziale metafisica a una dimensione pregna di fisicità, di concretezza e di umanità che appare, tuttavia,  grazie al mistero svelato, appartenere ad una ancora più alta sfera, onnicomprensiva. E in effetti, in questa stessa scoperta la poetessa inserisce i concetti di immortalità dell’Anima e di eternità della Vita, non dimostrandone filosoficamente i relativi teoremi, ma semplicemente ampliandone i concetti che, anziché essere riferiti alle singole individualità, sono riferiti all’“in-sé” dell’una e dell’altra. Come dire: la “mia” vita ha il suo tempo, la “mia” anima muore con il mio corpo, ma “la Vita” è eterna e “l’Anima” è immortale.
L’altra poesia, emblematica del dubbio teoretico che attanaglia la poetessa e che sembra improvvidamente e improvvisamente destrutturare la sua poetica, è Oh Dio: un’invocazione del Suo intervento a fronte dei mali incessanti che opprimono il mondo, e la constatazione, (quasi irriverente, a tratti, per chi crede, ma in realtà richiamo e grido disperante e disperato), che Egli non dia alcun segno d’esistere. Tanto che, alla fine, la poetessa a Lui lascia i riti inutili, “cerotti per la coscienza”, considerati come panacea per tutti i mali del mondo che, invece, continuano ad attanagliare gli esseri umani; e per sé tiene “l’inferno / di questo nostro vivere / in cui siamo costretti ad inventarci / giudizi universali / e a raccontarci / di paradisi inutili / per non odiarti / oh Dio”.
Legati a questo grande e fondamentale tema della Verità ultima, pur nell’inquietudine che l’unica certezza sia l’essere incerti, sono i temi a carattere sociale che la poetessa affronta in altre poesie, così come il tema dell’amore, e le sue stesse inquietudini esistenziali presenti in moltissime poesie.
Le poesie attraverso le quali Cristina travasa sulla carta “tutto il dolore e la sofferenza spumeggiano nell’anima”, sono quelle più intessute di malinconia e di nostalgici appigli, sono versi delicati, intensi, che riempiono il cuore di tenerezza, mentre offrono una visione di sé come di donna che ha scelto la poesia come modus vivendi e mezzo per estrinsecare quel palpito divino che l’ha forgiata e “la vive”.
Un’ulteriore caratteristica che, oserei dire, domina i versi di Cristina Bove, è l’uso efficacissimo di metafore e di altre figure retoriche così come di particolari accorgimenti stilistici che danno uno spessore elevato non soltanto ai contenuti come tali, ma anche al suo background culturale che risulta essere molto ricco, ampio e diversificato.
Lèggere le poesie di questa raccolta, Fiori e Fulmini, significa rendere leggère le nostre ore, provare piacere nel seguire la fantasia della poetessa che ci fa volare con lei in altri mondi, e che ci fa sognare, dandoci comunque - anche e soprattutto - importanti segnali istruttivi e indicandoci delle vie nuove per comprenderci e per comprendere.
Carmen Lama


La casa della serva di Nino Montanari Fara Editore
Prefazione di Giuseppe Prosperi
Postazione di Stefano Martello
Copertina di Elvira Palgiuca

Dopo aver letto la prefazione, non si può non emozionarsi già dalla prima pagina di questo romanzo della memoria, soprattutto per uno come me che ha vissuto un certo periodo.
Si potrà obiettare che la vicenda non ha nulla di trascendentale, che non ci sono messaggi di grande portata, ma La casa della serva è un prezioso scrigno di ricordi di un'epoca che sembra ormai lontana mille e più anni.
In un paese sconvolto dalla guerra, dove la miseria è l'elemento dominante, la storia di Zvanin, questo bimbetto che è affetto da balbuzie e che non ama la scuola, è dipinta con un pennello d'artista, un susseguirsi di quadri che ben rendono l'atmosfera di un'Italia che cerca di risorgere.
L'analisi psicologica del protagonista principale è sapientemente intrecciata con quella dei comprimari, in una ricerca di identità che offre dignità a tutti, dal babbo Carlone al Barone, un povero scemo di guerra.
E di quel periodo c'è tutta l'atmosfera, con i comizi per le prime elezioni, l'evidente parzialità al riguardo della chiesa cattolica, la solidarietà tipica della povera gente, il paternalismo dei ricchi, la vecchia vaporiera che assurge a simbolo di rinascita.
Zvanin è un personaggio che non è possibile dimenticare, perché è vivo, quasi da toccarlo con mano; i suoi silenzi, le sue riflessioni, le sue paure, il suo modo di percepire la realtà sono un po' parte di noi, di quando avevamo quell'età, ma, soprattutto, vivevamo in quell'epoca.
In Montanari è evidente la nostalgia che sale pari passo con il ricordo e poco a poco dalla nebbia emergono le immagini che pure io ho visto: i banchi di scuola con il legno intriso d'inchiostro, la maestra che non aveva ancora perso il concetto di educazione dell'epoca fascista, le aule fredde, la sagra di paese.
Un mondo in cui ho vissuto e che è stato spazzato via da un altro di cui non vorrei aver ricordi.
Può sembrare una frase fatta dire che si stava meglio, quando si stava peggio, ma allora Zvanin aveva una sua dignità di essere umano, con tante speranze, sogni e illusioni, mentre oggi non sarebbe altro che il risultato di un copia-incolla di un bambino standard.
Questo romanzo di Nino Montanari è scritto in modo delizioso e merita tanto di essere letto.
Renzo Montagnoli

L'autore
Nino Montanari è nato a Villa Verucchio (RN) il 6 dicembre 1941 e vive a Rimini. Per lunghi anni ha svolto il lavoro di operaio, per approdare, poi, ad attività che più di altre
ha amato: insegnante nella scuola statale, animatore nell'extra scuola e, successivamente, dirigente scolastico fino a tempi recenti. Ama la lettura e il cinema. Coltiva, a livello amatoriale, il teatro e la musica. Ha collaborato a lungo con il Centro Educativo Italo Svizzero di Rimini.
È attualmente membro della Fondazione "Margherita Zoebeli", del gruppo di musica etnica della Romagna Uva Grisa e di altre associazioni culturali.
Renzo Montagnoli


Il tacere del pendolo di Antonello Bianchi Edizioni Il Foglio
Introduzione di Daniela Caracappa
Poesia - silloge

Il tacere del pendolo è certamente un titolo strano per una silloge poetica e può far immediatamente pensare a un tempo finito, cioè terminato per individuo che sia venuto meno.
Invece, non è niente di tutto questo, ma è un concetto particolare secondo cui per l'autore il tacere del pendolo è l'istante in cui un essere umano, totalmente preso dall'arte, dalla filosofia o dalla natura, riesce ad estraniarsi da ogni cosa che lo circonda e che non gli interessa, finendo per non avvertire nemmeno la realtà propria del tempo, e quindi del pendolo, lo strumento che lo misura per eccellenza.
Pertanto, poter idealmente bloccare lo scorrere del tempo finirebbe con il portare non tanto all'immortalità dell'individuo, ma del suo operato.
Concetto affascinante che porta come logica conseguenza al tema affrontato e svolto nella silloge, tutta imperniata sulla cognizione del tempo.
L'opera, costituita da 27 poesie a tema, è divisa in 5 sezioni con il preciso intento di agevolarne la lettura.
La prima di queste sezioni è dedicata al tempo breve, la seconda al tempo del conflitto, la terza al tempo dell'amore, la quarta al tempo della ragione e la quinta e ultima al tempo infinito.
Lo stile è del tutto personale ed è caratterizzato anche da una particolarità, cioè da richiami a piè di pagina per quei termini usati nei versi e che potrebbero risultare al lettore non del tutto chiari o comunque dubbi.
Devo dire, però, che il ricorso a questa interpretazione autentica è spesso superfluo, perché la lettura, oltre che gradevole, è anche sostanzialmente facile.
In questo senso non si può dire che Antonello Bianchi abbia voluto perseguire a tutti i costi una simbologia ermetica, preferendo, giustamente, lasciare la possibilità di meglio procedere a ponderate riflessioni sui concetti esposti.
E' una scrittura sul tempo, ma che stilisticamente procede a balzi, con un fluire contemporaneo, ma con affondi ogni tanto nel passato, con un evidente compiacimento a ripensare ai versi dei grandi aedi dell'antichità, che qui trovano giusta collocazione per quelle poesie dove la solennità del tema richiede una struttura più consona, senza tuttavia che venga mai meno la relativa semplicità della lettura.
Il tacere del pendolo è l'opera di esordio di Antonello Bianchi e, francamente, sono dell'opinione che questa silloge evidenzi una maturità letteraria da poeta vissuto, con quella capacità di destreggiarsi con i versi senza mai perdere di vista l'obiettivo prefissato, anzi nulla è lasciato al caso o a divagazione, ma tutto è funzionale allo scopo.
Renzo Montagnoli

L'autore
Antonello Bianchi nasce a Roma il 21 giugno 1974. I suoi primi approcci col mondo dell'arte risalgono al 1986, quando ascolta musica sinfonica e legge Rimbaud. Il 27 agosto 1990 scrive il suo primo componimento poetico titolandolo proprio con quella data che diverrà da allora in poi il suo nuovo genetliaco. Dal settembre 1992 prende parte a incontri di poesia. Qualche mese più tardi recita per la prima volta in pubblico alcuni suoi componimenti. Subito dopo è avvicinato da una giornalista del Corriere della Sera che riporterà poi l'intervista in un articolo pubblicato il 27 marzo 1993. A tutt'oggi vanta una produzione di quasi 300 componimenti lirici divisi in nove raccolte (di cui una in lingua inglese), due racconti brevi e un libello di filosofia che viene inserito nella sua tesi di laurea in Scienze della Formazione dal titolo "Allegoria dell'io e tripartizione della natura umana nell'antroposofia e nell'arte dell'educazione di Rudolf Steiner". Le sue raccolte hanno una determinata forma: ogni silloge contiene 27 poesie a tema divise in 5 sezioni, con note a piè di pagina. Egli crede, infatti, che una tale architettura possa assicurare una struttura organica e omogenea senza annoiare o risultare incomprensibile. I temi maggiormente trattati sono il rapporto tra il sé e l'altro-da-sé , la solitudine e la spiritualità, il pensiero e l'arte.
Il tacere del pendolo è la sua prima pubblicazione.
Renzo Montagnoli


Il passaggio di Leonardo Gori Hobby & Work
Narrativa - romanzo giallo

Questo romanzo è l'ideale continuazione del precedente Nero di maggio.
Infatti il teatro di scena è lo stesso (Firenze) e ritroviamo due personaggi di particolare spessore (il capitano dei Reali Carabinieri Bruno Arcieri, ora dei Servizi Segreti e aggregato agli alleati, e la sua fidanzata Elena Contini, ebrea nascosta per sfuggire alle deportazioni).
Cambia, tuttavia l'epoca: ora siamo nell'agosto del 1944 durante la battaglia per la liberazione di Firenze.
In Gori apprezzo molto la capacità di descrivere ambienti e situazioni con immediatezza, al punto che si ha l'impressione di assistere a una successione di immagini in movimento, proprio come in una pellicola cinematografica.
Avevo rilevato questa dote già in occasione della lettura di Nero di maggio, romanzo che mi ha notevolmente impressionato. Ebbene, ne Il passaggio, questa capacità si è ulteriormente evoluta, direi perfezionata e sembra proprio di vedere una città storica in pieno scontro bellico, direi che si avverte l'atmosfera tipica di morte e di paura in una serie di quadri di grande impatto emotivo.
La trama è imperniata intorno alla ricerca di un autentico tesoro, quel dipinto della battaglia di Anghiari di Leonardo da Vinci perso irrimediabilmente per la fretta di asciugare i colori. Sono in tanti e per diversi motivi impegnati in questa caccia, ricca di colpi di scena e di non pochi morti ammazzati, in una tensione che non viene mai meno dalla prima all'ultima pagina.
Certo che è naturale chiedersi come sia possibile sperare di trovare un dipinto su muro ormai irrimediabilmente perso, ma c'è una risposta logica e inconfutabile, pure nell'ambito della fantasia creativa dell'autore. Al riguardo non intendo rivelare nulla, perché mi sembra giusto che la ricerca in cui viene di fatto coinvolto anche il lettore non gli pregiudichi il piacere di esserne partecipe.
C'è un altro elemento, peraltro innovativo, rappresentato alla fine di ogni capitolo dalle riflessioni di un giovane fascista, un irretito da Pavolini, che dai tetti, in una sorta di delirio mistico e politico, spara agli alleati, ai partigiani e anche a ignoti cittadini. La sua lucida follia si inserisce come un tassello determinante nel mosaico degli eventi che riguardano la città e anche la caccia di cui ho detto.
In quella sorta di soliloquio si ritrovano tutte le caratteristiche di un regime irreale, retorico e sfrenato, in netto contrasto con le speranze di una nuova epoca, rappresentata dall'avvento degli alleati e dei partigiani. Eppure anche questo cecchino non è lì per caso e nell'epilogo dell'intricata vicenda sarà determinante.
Trecentoquarantasei pagine non sono poche, ma assicuro che si leggono quasi d'un fiato, a dimostrazione della valenza di questo romanzo, per certi versi migliore del già eccellente Nero di maggio.
Renzo Montagnoli

L'autore
Leonardo Gori è nato a Firenze l'1 gennaio 1957. Il suo romanzo d'esordio, nel 2000, è stato Nero di Maggio. A seguire ha pubblicato: nel 2002 "I delitti del Mondo Nuovo" e "Il passaggio", nel 2003 "La finale", nel 2004 "Lo specchio nero", nel 2005 "L'angelo del fango", con cui ha vinto il Premio Scerbanenco nell'ambito del Noir in Festival di Courmayeur, nel 2006, insieme a Franco Cardini, " Il fiore d'oro ", nel 2007 "Le ossa di Dio".
Renzo Montagnoli


Ai miei cari compagni Diario inedito di un neo-garibaldino di Luciano Bianciardi Edizioni Stampa Alternativa
Introduzione di Ettore Bianciardi

Non è facile per uno scrittore che va controcorrente ritagliarsi una collocazione nell'olimpo letterario e ancor di più lo è stato per Luciano Bianciardi, con quella visione critica, frutto dello spirito anarchico, con la quale osservava il mondo circostante.
Amava il Risorgimento, ma non quello falso e retorico che ancor oggi si insegna nelle scuole, ma la parte più scomoda di questo, cioè quella garibaldina, mazziniana e rivoluzionaria.
Questo gioiellino, che ho appena terminato di leggere, ne è un chiaro esempio ed è costituito da due racconti lunghi che hanno come tematica, rispettivamente, le cinque giornate di Milano e la spedizione dei mille.
Concepiti come un sogno, giacché ovviamente gli eventi non furono vissuti dall'autore, mescola sapientemente elementi dell'epoca ad altri più attuali, con una vena ironica che non potrà che stupire.
Sì, perché nel raccontare del passato, descrive anche il presente, che non può accettare, circostanza questa che l'ha sempre reso inviso al potere.
Scrive, a proposito delle cinque giornate di Milano "In questi cinque giorni di disordine ha regnato in città un ordine nuovo, spontaneo, entusiastico. Basti pensare che non è stato segnalato un solo caso di furto. Milano stava vivendo un clima morale del tutto nuovo. I ladri han ricominciato a rubare non appena è stato ristabilito il rispetto della proprietà".
Il concetto è tanto più evidente quando osserva che, cacciati gli austriaci, le istituzioni ripreso sovrane, con una progressiva disaffezione dei milanesi, che al ritorno di Radetsky ne furono contenti, tanto più che questi non fece rappresaglie, limitandosi intelligentemente a sanzionare grosse ammende ai più facoltosi, circostanza che indusse il popolo a credere che fosse ripristinata un po' di quella giustizia ed eguaglianza che era stata presente solo durante le cinque giornate, cioè fino a quando era durata la rivoluzione.
Bianciardi non nasconde una spiccata simpatia per Garibaldi, visto come un'idealista e fautore della rivoluzione permanente, e nello scrivere della spedizione dei mille fa emergere chiaro il suo disprezzo per la dinastia sabauda, già approcciato nel racconto delle cinque giornate, con una descrizione di Carlo Alberto e dell'entourage piemontese del tutto impietosa.
Ripercorriamo così le storiche vittorie dell'eroe dei due mondi, da Calatafimi al Volturno, su cui aleggia però sempre l'ombra sinistra dei Savoia.
E, anzi, in occasione dell'incontro di Teano, procede ad un'acuta osservazione, ribaltando tutta la storiografia ufficiale e trovando una logica spiegazione non solo dell'attuale arretratezza economica del meridione, ma anche della sfiducia di questo nelle istituzioni.
Tengo a precisare, peraltro, che in questo non dice nulla di nuovo di quanto già gli storici non allineati non sappiano, ma è come lo dice, evidenziando la stortura secondo la quale il Regno delle Due Sicilie, più progredito rispetto al Piemonte, in breve tempo si vide depauperato, burocratizzato e, diciamo pure la verità, schiavizzato. Ai meridionali non restò che la ribellione, fatta passare per brigantaggio, e che scatenò una repressione generalizzata, in pratica un vero e proprio genocidio.
E' un libro che si legge con immenso piacere, che fa meditare e che consacra, qualora ancora qualcuno avesse dei dubbi, la grandezza letteraria e umana di Luciano Bianciardi.
Renzo Montagnoli

L'autore
Luciano Bianciardi (Grosseto, 14 dicembre 1922 - Milano, 14 novembre 1971). E' stato giornalista, saggista e scrittore.
Le opere: I minatori della Maremma, 1956 (in collaborazione con Carlo Cassola); Il lavoro culturale, 1957; L'integrazione, 1960; Da Quarto a Torino, 1960; La vita agra, 1962; La battaglia soda, 1964; Aprire il fuoco, 1969.
Renzo Montagnoli


Le fiabe di Gramos di AA.VV. Edizioni City Angels Roma
Narrativa – raccolta di fiabe

Tu che mi leggi, ti prego, ascolta. Questo libro è un libro di fiabe, certo, come tanti. Più bello o più brutto, chissà. Non importa, non è questo il punto. Ti ho chiesto, per favore, di ascoltare. Sono un libro ma, dentro di me, c'è una voce che, purtroppo, è un lamento. É di un bimbo piccolo, si chiama Gramos. Lotta per la vita come un eroe. Ascoltalo. Ti sta dicendo Ciao, mi chiamo Gramos, vorrei ridere e giocare ma non posso. Ti sta dicendo Aiutami. Ti sta dicendo anche Ho una brutta malattia, ho paura. Ti sta dicendo Sei gentile a comprare questo libro che altre persone gentili hanno scritto e di cui migliaia di persone gentili, su una cosa chiamata internet, han parlato. Lui è Gramos. É un bambino. Vivrà grazie a tutti voi. E un po' anche a me, che sono solo un piccolo libro contro l'indifferenza (Remo Bassini).

Così sta scritto su l’ultima di copertina e direi che Remo Bassini non poteva esprimere meglio il senso e lo scopo di questo libro.

Al di là del valore intrinseco dell’opera, lo scopo della stessa è radicato nella volontà, già di chi ha contribuito con le fiabe, ma di cui voi che leggete potrete essere partecipi, di far sì che anche per Gramos ci sia una favola, in cui lui, povero bambino kosovaro e malato assai seriamente, è il protagonista. C’è una strega cattiva, una malattia che si chiama tirosinemia che impone diete particolari e una cura assai costosa per impedire che questo bimbo debba morire. E ci sono anche le forze del bene, noi e voi, che vogliono combattere questo maleficio, vogliono permettere che Gramos possa vivere.

Come in tutte le favole, la battaglia è fra il bene e il male, ma nel caso specifico c’è un orco che si chiama indifferenza, vinto il quale anche la strega cattiva dovrà andarsene via. Le armi per combattere sono alimenti speciali e i medicinali di una casa farmaceutica francese, tutti prodotti che costano (complessivamente circa 22.000 euro all’anno), che i genitori del bimbo non possono acquistare con le loro modeste risorse, benché sappiano che in difetto Gramos morirà. C’è tutta la disperazione della povera gente in questa favola che ha un andamento tragico, ma che il bene può trasformare in speranza, perché è necessario che il bimbo possa continuare a vivere nell’attesa che i progressi della medicina possano risolvere definitivamente la situazione e sconfiggere la strega cattiva.

Noi e voi vogliamo stare dalla parte del bene, desideriamo che la nostra vita abbia un significato per un altro essere umano, affinché, come tutte le favole, anche questa abbia un lieto fine.

Comprate questo libro per voi, per i vostri bambini, per i regali natalizi agli amici, compratelo soprattutto per Gramos, affinché possa avvertire il calore di mani amiche. In questo modo avrete realizzato qualche cosa di cui poter andare fieri: l’amore per un essere indifeso. E capirete quanto veramente sia bello donare, quanto ci accresca spiritualmente aiutare chi ne ha bisogno.

I proventi del libro, cioè i diritti spettanti agli autori delle fiabe, saranno devoluti interamente a questa nobile causa.

Potete acquistarlo esclusivamente al link http://www.lulu.com/content/1423738

Se volete contribuire con offerte, di seguito troverete le modalità, in uno con la storia di Gramos.  

                                               *************

Alla fine di giugno 2007, un appello viene lanciato dal blog sui senzatetto e sul sociale http://acmedelpensiero.blogspot.com  e ben presto viene ripreso su molti altri blog, forum e siti. Suona più o meno così:

Gramos Gashi è un bimbo kosovaro di 12 anni che nel 1999 è giunto in Italia con un volo militare, nella speranza di capire la ragione del suo corpicino malato: gravi problemi renali ed epatici, rarissima malattia metabolica: la tirosinemia.
La cura continua che Gramos deve affrontare comporta una dieta a basso contenuto di proteine, una somministrazione di vitamina D e soluzioni di sali minerali contenenti calcio e fosforo, e un farmaco peculiare prodotto a Parigi dalla ORPHAN che ha un costo elevatissimo.
In un anno solare v'è la necessità di circa 22.000 euro per le cure e soprattutto per non lasciare Gramos con la quasi certezza di una degenerazione cancerosa del fegato, oltre ad un grave danno renale che lo porterebbe al rachitismo.
Gramos ha bisogno del nostro aiuto per vivere sereno, molti si stanno industriando per aiutarlo, facciamo sentire anche la nostra voce. Le donazioni saranno gestite dall'Ospedale Pediatrico Bambino Gesù.
Chi si occupa di questo caso è l'Associazione S.o.S. Infanzia nel Mondo Onlus, Via Stazzo Quadro, 52, 00060, Riano (Roma).
Chi volesse fare una donazione: c/c bancario 3383 o 3385 Banca di Credito Cooperativo di Riano - abi 08787 cab 39350 cin X. Ricordate la causale: PRO GRAMOS.
Se volete maggiori informazioni per la trasparenza o solo per conoscere meglio la storia di Gramos chiamate Miriam (349.1953550) o Antonella (333.9382824) oppure scrivete a: sosinfanzianelmondo@tiscali.it.

Assieme all’appello c’è un video, una foto che mostra questo bambino dall’aria schiva, spaventata forse, nonostante la presenza accanto a lui della madre e di una delle volontarie che finora si è occupata di lui, qui in Italia.

La voglia di aiutarlo, di fare qualcosa, è prepotente quanto imprecisa, molti di noi si chiedono cosa si può fare, se davvero qualche persona di buona volontà, unita solo dai rapporti spesso aleatori che si creano in rete, possa fare qualcosa di concreto, qualcosa che davvero faccia la differenza, per questo bambino.

Si forma un gruppo di lavoro, si studiano strategie e appelli, una vera e propria raccolta fondi che ci permetterà di donare 3500 euro a Gramos, in meno di due mesi.

Non basta certo, siamo ancora lontani.

Ecco allora l’idea di questo libro.

Questo che terrai in mano, che  acquisterai attraverso internet, che è uscito da un lavoro gestito sulla rete, tra scrittori, blogger, persone di buona volontà, e i cui proventi saranno tutti per lui, per Gramos.

Ora, se tu ci stai leggendo, sappiamo che la risposta alla nostra domanda è sì: davvero, se lo si vuole sul serio, si può fare qualcosa.

Con il tuo acquisto migliorerai concretamente la vita di un bambino. E la tua.

Grazie, a nome di Gramos, della sua famiglia, dei medici e di tutti i volontari che si prendono cura di lui. Come te.

QUESTO LIBRO É UN MESSAGGIO D’AMORE. SE LO RICEVERAI IN DONO, REGALANE UNA COPIA A CHI AMI.          

E puoi conoscere meglio, e seguire, la storia di Gramos e di questo libro qui:
http://balenebianche.splinder.com/tag/gramos
http://acmedelpensiero.blogspot.com/search/label/Gramos
Renzo Montagnoli


 I sassi di Sacha Naspini Casa Editrice Il Foglio http://www.ilfoglioletterario.it/
Narrativa – romanzo

“””In fondo ogni uomo è una pietra, a suo modo. Ogni vita lo è. Le vite sono come i sassi, rotolano una accanto all’altra, cozzano, si rompono in frammenti; e i frammenti si scontrano con altri frammenti… Ogni vita è ricordo e possibilità di un’altra vita. Una vita può raccontare altre vite, o esserne il riassunto. Riassunto di un’identità, dove si capisce cosa porta qualcuno alle proprie scelte, cosa le comanda, se davvero esiste un libero arbitrio al di là del vortice dove ogni giorno ruotiamo di moto proprio, sulla spinta di altri moti che ci hanno toccato prima, che ci toccheranno…”””

Spesso si considerano i noir romanzi di pura evasione, ma mai si pensa di associarli ad altri non di genere e che per qualità rientrano di diritto nella buona letteratura.
Penso che questa omissione dipenda dal fatto che la trama è spesso, per non dire quasi sempre, l’elemento essenziale dell’opera, mentre altri aspetti, comunque importanti, sono meno curati, quando addirittura trascurati.
Non è così per I sassi, di Sacha Naspini, che non voglio considerare un semplice noir, pur essendo presenti tutte le caratteristiche di questo genere, in una storia complessa che se parte lentamente poi accelera gradualmente al punto da tenere letteralmente incollato il lettore. E del resto della vicenda non intendo parlare, di questa storia narrata in epoche alternate e con una conclusione degna di un maestro della penna.
Quello che invece mi preme evidenziare è l’aspetto letterario dell’opera, perché c’è qualità, e non poca, nelle 149 pagine di questo romanzo, aspetto tanto più rilevante ove si consideri la giovane età dell’autore, nato nel 1976. Alla base c’è una formazione culturale di tutto rispetto che consente di esprimere concetti non facili con apparente semplicità e mi riferisco in particolare alla figura complessa della protagonista, intorno alla quale è poi costruito l’intero canovaccio. Infatti ci sono alcune pagine che definirei prioritarie per l’opera e sono quelle in cui lei parla di se stessa al suo interlocutore, per il momento sconosciuto, e nelle quali si delinea sapientemente la sua personalità di bimba adottata che sa di non essere la figlia naturale dei genitori legittimi. Questo stato di appartenenza e di non appartenenza alla famiglia che la ospita, la sua proiezione del senso di solitudine sono pagine di autentica elevata letteratura. L’autore ben sapeva che quella parte del libro era determinante per reggere tutta l’impalcatura della vicenda, una sorta di fondamenta, e infatti non ha risparmiato negli elementi di sostegno, con una caratterizzazione di pregevolissima fattura.
Mi corre anche l’obbligo di evidenziare come l’atmosfera sia stata oggetto di attento studio e che i risultati al riguardo raggiungano livelli di eccellenza, nonostante le evidenti difficoltà di trattare di epoche diverse, di  più luoghi e di situazioni, che, pur concatenate, trovano giustificazione in quanto accaduto anni prima.
La vicenda, come ho già detto, è complessa, la protagonista e anche altri personaggi sono complessi, perché in fondo un essere umano è l’unione di tanti elementi, di qualità e di difetti, di atteggiamenti e di intimi convincimenti. In questo senso Naspini ha delineato delle figure vive, reali, che animano, quasi autonomamente dal suo creatore, l’intera trama. Questa quasi assenza dell’autore, che riesce a essere presente senza che ci si accorga, unita alla capacità di fornire indicazioni non elaborate degli ambienti e delle situazioni consente al lettore di avere una visione propria, di sviluppare la sua creatività, facendolo diventare partecipe. Non è un caso, infatti, se la lettura delle prime pagine, essenziali propedeuticamente, è stata lenta, ma poi è tale il senso di progressiva attenzione, quasi una crescente e ossessiva necessità di conoscere, di scoprire, che il testo viene quasi divorato. Non si riesce insomma a staccare gli occhi dal libro, con una fretta e un’ansia di arrivare in fondo, a quella pagina 149 che, girata, e bianca sul retro, ci fa provare il rammarico di essere giunti al termine.
Allora interviene una pausa di riflessione e ci si ricorda che c’è ancora qualche cosa da leggere, quella prefazione spesso trascurata e che nel caso specifico porta la firma di Walter Serra. Si tratta solo di una paginetta più qualche riga, dove si trova conferma delle sensazioni e delle emozioni, ancora vive e forti, provate durante la lettura del romanzo. Non c’è un moto di delusione, ma si è contenti di trovare conferma, in altra persona, del giudizio ampiamente positivo. Non è finita, però, perché nel foglio successivo è riportata una frase di Daniele Boccardi che dà tutto il senso all’opera, qualora non fosse stata compresa nella sua globalità:
Un bambino non è mai tutto suo padre.
Anche questo è un passo avanti (Genetica).
Leggete questo romanzo e capirete anche perché questa frase non è stata messa lì a caso, tanto per giustificare una pagina in più.
Renzo Montagnoli

L'autore
Sacha Naspini è nato a Grosseto nel 1976. Nel marzo 2006 ha pubblicato il suo romanzo d’esordio, “L’ingrato” (Editrice Effequ). Nel novembre dello stesso anno è uscito il tascabile “Il risultato” (Magnetica edizioni). Suoi racconti sono apparsi in varie antologie, tra cui: “Mia figlia Chiara” nella raccolta “Cattive storie di provincia”; “Le parole, le stelle” nella raccolta “Antologia del fantastico underground” (entrambe edite dalle Edizioni Il Foglio). Vari riconoscimenti letterari, tra cui: nel 2005 vincitore del premio nazionale “Canossa – Città di Bazzano” con il racconto “La vita comincia a quarant’anni”; segnalato al premio “Licurgo Cappelletti” con il racconto “I ragni”; tra i vincitori del “Premio Boccardi” con il racconto “Serenity Garden”. Nel 2004 è stato finalista al premio internazionale “Massimo Troisi” con la favola villana “Marito mio!”. In veste di grafico ha recentemente curato l’antologia di racconti “È stata pura gioia” (Edizioni Parole & Musica).
Nell’ottobre 2005 è uscito l’album “…il peggio è passato (?)”, disco d’esordio dei Vaderrando (Ethnoworld - MI). Attualmente in lavorazione il progetto “Anomia”. Sacha Naspini, oltre che essere “la voce” del gruppo, è l’autore di musiche e testi. Per contatti: www.vaderrando.it
Renzo Montagnoli


La guerra dei sordi di Laura Costantini e Loredana Falcone Maprosti & Lisanti Editore
Narrativa - romanzo

Non nascondo che era tanta la curiosità di leggere questo libro, scritto a quattro mani da due amiche virtuali.
In cuor mio, però, avevo il timore di restare deluso, insomma di trovarmi fra le mani un'opera appena accettabile, e ciò non tanto per sfiducia nei confronti delle autrici, quanto per la difficile tematica affrontata, con quell'eterna guerra fra israeliani e palestinesi, di cui molti, anzi troppi, hanno scritto, sovente abbracciando la causa di una delle parti in conflitto.
Aggiungo, poi, che mi destava perplessità l'ambientazione in un territorio ove le due scrittrici non erano mai state; anche il fatto che i due protagonisti principali fossero un palestinese e un'ebrea poteva lasciar intendere più una narrazione di una vicenda d'amore che un vero e proprio approfondimento delle cause di questo conflitto.
Diciamo, pure, per farla breve che temevo che ci fosse una diffusa superficialità.
Quindi ho preso fra le mani il libro con curiosità, ma anche con la riserva mentale di leggere qualche cosa di non piacevole, il che avrebbe provocato una mia mancata recensione, evento che avrei voluto evitare alle mie amiche.
Dibattuto in questi sentimenti, con un pensiero costante a come uscire dall'impasse di un eventuale mancato gradimento, ho iniziato a leggere.
Non racconto la vicenda per ovvi motivi, perché c'è una tensione, quasi da thriller, che porta all'epilogo e svelare, sia pure per sommi capi, la trama mi sembra francamente una mancanza di riguardo nei confronti delle autrici e, soprattutto, dei lettori.
Dopo questo lungo, ma indispensabile preambolo, verrà naturale chiedersi come ho trovato questo romanzo, il giudizio insomma che è maturato dentro di me.
Già il fatto che io sia qui a scriverne dovrebbe essere indicativo, perché La guerra dei sordi è un ottimo libro, per diversi motivi che delineo di seguito.
La trama è innanzitutto molto azzeccata, perché presenta tutto quanto può interessare un lettore: una zona di conflitto permanente, un amore fra due che dovrebbero essere nemici, una serie di colpi di scena mai ingiustificati e una stupenda conclusione.
Aggiungo che i riferimenti storici degli eventi sono precisi, la descrizione dei luoghi convincente, come se chi ha scritto vi avesse soggiornato a lungo, ma quello che più mi ha colpito è stata l'atmosfera di tensione e di insicurezza che le autrici sono riuscite a ricreare senza rendere cupo il tutto e lasciando quindi adito a delle possibili speranze.
Laura Costantini e Loredana Falcone, inoltre, hanno avuto la capacità di non cadere nel tranello di prendere le difese dell'uno o dell'altro contendente, evitando proprio l'aspetto politico della questione e invece evidenziandone le caratteristiche umane.
Non si sono poste in alto a osservare, ma hanno guardato dal basso, quasi mescolandosi fra gli ebrei da una parte e i palestinesi dall'altra, avvertendo le loro paure, l'insicurezza costante che accompagna da più di mezzo secolo la vita di due popoli, cercando di comprendere le ragioni dell'uno e dell'altro.
E la conclusione, le ultime pagine sono quanto di meglio potessero offrire come contributo per risolvere una situazione apparentemente insanabile.
C'è tanta umanità, tanto rispetto per gli altri in questo libro, ma soprattutto c'è la speranza che se gli uomini di tutti i giorni dell'una e dell'altra parte abbandonassero le motivazioni distorte della politica e delle religioni potrebbe nascere finalmente la pace.
Il libro, quindi, mi è piaciuto e ne consiglio vivamente la lettura.
Renzo Montagnoli

L'autore
Laura Costantini, giornalista e scrittrice è nata a Roma dove vive tutt'ora. Ha iniziato la carriera di giornalista nel 1994, lavorando presso il Tg5 e il quotidiano genovese <Il Secolo XIX>. Approdata poi alla stampa periodica, è stata per otto anni una delle firme del settimanale Rcs <OGGI>, occupandosi di cronaca e di spettacolo.
E' nel 2003 che viene chiamata nella redazione del programma di punta del day-time di RaiUno <La vita in diretta>, presso il quale lavora ancora oggi come inviata.
Impegni professionali che non l'hanno mai allontanata dalla sua vera passione: scrivere.
Soprattutto romanzi che spaziano nei generi letterari i più vari, ma sempre mantenendo un punto di vista tutto femminile, aiutata in questo da una collaborazione ormai ventennale con la sua compagna di penna, Loredana Falcone.

Loredana Falcone è nata a Roma, a Trastevere, cuore pulsante della città. Laureata in Lettere moderne presso l'Università degli Studi di Roma <La Sapienza>, ha scelto di rinunciare alla carriera nel mondo dell'insegnamento per dedicarsi alla famiglia e ai suoi due figli. La scrittura ha sempre avuto un posto di rilievo nella sua vita, così come lo studio della Storia Contemporanea. Anni di collaborazione con Laura Costantini hanno dato vita a storie appassionanti che vedono protagoniste le donne e ad una profonda amicizia.

Hanno pubblicato:
New York 1920 - il primo attentato a Wall Street Maprosti & Lisanti (2006)

Eibhlin non lo sa… Maprosti & Lisanti (2007)

La guerra dei sordi Maprosti & Lisanti (2007)

Stanno pubblicando online il romanzo inedito Le colpe dei padri.

Insieme gestiscono i blog: http://lauraetlory.splinder.com  e http://lestoriedilauraetlory.splinder.com 
Renzo Montagnoli


Intervento del Prof. Raffaele Rizzo alla Presentazione del libro
“Viaggio in V classe” di Aurelio Zucchi
Reggio Calabria 22/12/2006 – Istituto Augusto Righi

Un paio di anni fa fui invitato a cena dai ragazzi della IV B dell’anno scolastico 68-69. Accettai volentieri e mi recai al “Ritrovo del Sole” col pensiero rivolto ai giovani di quella classe. Sfilavano davanti a me ragazzi scalpitanti, desiderosi di bruciare le tappe, pieni di vita, gioviali, capelluti. Mi ero fermato a 36 anni prima. E non vi dico la mia sorpresa quando mi vidi circondato da uomini che, strada facendo, avevano perso i capelli e aumentato le circonferenze. Lo scorrere del tempo aveva lasciato i segni su quei ragazzi, ormai padri di famiglia ed affermati professionisti.
          Ora, Aurelio Zucchi ci riporta al magico momento della loro formazione sui banchi di scuola, per le strade, sulle spiagge, su un improvvisato campo di calcio, in un’osteria nei primi incontri d’amore. E lo fa con grande perizia. L’io narrante scruta il vissuto da angoli di visuale e da piani temporali diversi. Rievoca frammenti di vita, curiosità, esperienze, ulissismo, sogni, speranze, tensioni ideali. Rivisita un mondo fatto di semplici e schiette consuetudini. A volte il narratore si cala totalmente nelle vicende raccontate e ne rivive le emozioni. Altre volte se ne distacca, avverte la nostalgia ma non si abbandona a rimpianti eccessivi. La nostalgia, che pur costituisce la linfa lirica del racconto, è più sottesa che manifesta. Il rimpianto è anche rivolto alle fantasie di un tempo e ai sogni fioriti sulle spiagge assolate, contemplando il mare. Gli mancano i compagni di scuola, le battute di pesca, le cene, le conversazioni sostanziate da piccoli problemi, i trepidanti approcci amorosi, la quotidianità e la normalità di quel tempo. Altre volte ancora l’autore sorride compiaciuto o ironico vedendo, a distanza di molti anni, se stesso e i suoi amici che animano il palcoscenico della vita.
           Il racconto ha una sua impostazione sapiente in cui si alternano momenti descrittivi fortemente coinvolgenti, ampie pause meditative che servono anche a stemperare l’emozione quando si fa troppo intensa, riflessioni socio-politiche. Il senso della misura (est modus in rebus...) è una costante del romanzo. Le intemperanze e gli eccessi propri della giovinezza sono quasi del tutto assenti. I ragazzi della quinta B non amano gli estremismi del 68 e, come scrive Aurelio, “Non pretendono di sovvertire il mondo ma si accontentano di migliorarlo.”. Nel ’70 sono troppo impegnati con gli esami per innalzare barricate. Qualche volta preferiscono marinare la scuola per una bella passeggiata o per una partita di pallone sulla spiaggia di Scilla, si scatenano nel ballo, si concedono succulente spaghettate, ma sono fatti di ordinaria amministrazione per i giovani. Anche la processione di protesta con tanto di ceri, che li porta verso la nuova aula, già cappella dell’Istituto, è una trovata geniale ed efficace, ma contenuta e lontana da ogni eccesso.
            Questo senso della misura ha una sua “medietà” espressiva. Uso questo termine con il valore che gli attribuisce Binni a proposito delle Satire dell’Ariosto. Il tono discorsivo del racconto è sempre misurato come sono generalmente misurati i comportamenti. I sogni no. Essi spaziano e sostanziano le lunghe contemplazioni delle distese marine e dei tramonti sullo Stretto. Il ritmo del discorso è duttile e si adegua alla varietà delle situazioni via via rievocate. Ora lieve ora delicato, ora vivace e scoppiettante. La sua è una prosa sempre sorvegliata, attenta alle sfumature, capace di toccare tutte le corde dell’animo, di dipanare il gorgo delle sensazioni, di dipingere interni di vita familiare. Anche se l’autore, a volte, soprattutto nel dialogato, ricorre ad espressioni non castigate e dialettali, per quel tanto che basta per rendere percepibile il legame linguistico con la città teatro del racconto, rifugge da ogni volgarità e non ama i preziosismi fini a se stessi.
             Non disdegna, però, i pezzi di bravura. Ecco qualche esempio. Nel capitolo 35, la riflessione sul desiderio di capire e di essere capiti, offre lo spunto di cogliere, con puntigliosa scelta lessicale, la peculiarità dei suoi amici: “Ed essi (i professori)? Come noi facevamo con i loro, guardavano ai nostri sentimenti? Avevano messo a fuoco la sicurezza di Abramo, la saggezza di Arena, la praticità di Benedetto, l’onestà di Benestare, l’amicizia di Calabrese, la simpatia di Chiofalo, la brillantezza di Chirico, la regolarità di Crucitti, lo stile di Dattilo, la freschezza di Fallara, l’intelligenza di Filangieri, la modernità di Iaria, l’estro di Larcara, il coraggio di Mandica, la semplicità di Migali, l’efficienza di Morabito, l’ambizione di Pignata, l’equilibrio di Plutino, l’ordine di Praticò, la quiete di Ravazza, la trasparenza di Rognetta, la discrezione di Sgro, l’accortezza di Smeriglio, la timidezza di Spanti, la destrezza di Surace, l’effervescenza di Travia e infine... me?”
Raffaele, che tenta di carpire i segreti del registro, lasciato momentaneamente incustodito, viene colto con le mani nel sacco ma non si scompone e butta lì una frase che strappa l’applauso del temibile professore. La scena è di straordinaria efficacia descrittiva. La “drammaticità” della situazione viene stemperata dall’uso di espressioni e di parole volutamente esagerate che costituiscono una sorta di canzonatura interna di ciò che si dice. Raffaele viene definito “temerario, prode, eroe” poi dice una frase per nulla eroica che suscita ilarità.
            Ma sono più interessanti le pagine in cui la penna di Zucchi delinea con grande sobrietà la figura della madre, vero nume tutelare della famiglia, che vigila sui figli, trepida per loro, vive per loro.
           Mi piace ricordare rapidamente la figura di Sabrina, così diversa da Fabiana : “Da una parte l’austera immagine di Fabiana, rigidamente offerta senza scoppi e bollicine... dall’altra, la micidiale freschezza di Sabrina, morbidamente proposta senza lacci né silenzi.”
           
Dopo un’intensa scena d’amore, piena di pudore, il narrante domanda a Sabrina: “Con tua madre come va?” “E’ morta quando avevo nove anni”. Tutto qui. Il dramma di una sì grave perdita rimane inespresso ma è palpabile. E’ un piccolo esempio di sobrietà e di intensità espressiva.
            Forse alcune delle mie osservazioni vanno oltre le intenzioni del narratore ma ogni scritto di largo respiro e di grande spessore acquista vitalità dalle emozioni che genera, dalle riflessioni che suscita nel lettore. Se la lettura è gradevole, intrigante, se ti commuove, se ti fa sorridere o riflettere, se comunica qualcosa, l’autore è riuscito nel suo intento.
             Aurelio il suo messaggio lo ha mandato e lo ha fatto bene. Sta a noi coglierlo e rivitalizzarlo continuamente.

                                                                  firmato Raffaele Rizzo


Le vele di Astrabat di Antonio Messina Edizioni Il Foglio
Nota introduttiva di Monica Cito
In copertina La dama del drago di Angela Betta Casale
Realizzazione grafica di Oscar Celestini

Quando mi appresto ad aprire un libro di Antonio Messina avverto già una trepidazione, perché so che sto per avventurarmi in un universo sconosciuto, in un mondo situato su un piano dove l'irrealtà è il riflesso, mediato dalla mente dell'autore, della realtà che ci circonda e in cui siamo immersi.
Leggere le storie di questo grande scrittore è come fare un viaggio nell'onirico e perciò al primo impatto può apparire anche incomprensibile, tanto che consiglio vivamente una preventiva lettura dell'eccellente nota introduttiva di Monica Cito.
Personalmente non trovo grandi difficoltà perché affronto il testo con lo stesso metodo che adotto con la poesia, nel senso che mi lascio andare, mi astraggo completamente da ciò che mi circonda e senza la necessità di soffermarmi sui vari punti proseguo la lettura in modo piuttosto rapido, tanto che assai alla svelta arrivo al termine del testo.
Ritengo anche doveroso precisare che i generi a cui ricorre Messina per mostrarci il suo mondo generalmente non rientrano fra i miei preferiti, passando dal fantasy de La memoria dell'acqua al fantascienza-fantasy, visti certi richiami mitologici, de Le vele di Astrabat. Tuttavia, affronto la lettura senza nessuna ritrosia e mi immergo completamente in un'altra dimensione.
Non sto a delineare la trama, fatta di apparenti discontinuità, ma ci tengo a precisare che il lavoro concettuale già avviato con l'eccellente La memoria dell'acqua qui è diventato più chiaro, in questa ricerca, che non è solo letteraria, di fuggire dall'estrema materialità della vita corrente per rifugiarsi in un sogno, dove elementi del passato si accavallano, si fondono, si dividono, implodono con visioni del futuro, quasi a dimostrare come sia vero che il concetto di tempo sia solo umano.
In questo senso l'autore ci prende per mano per accompagnarci nella sua realtà, senza tuttavia imporcela, perché le immagini caleidoscopiche che ci scorrono davanti possono essere viste a nostro piacimento, con la possibilità così di costruirci un nostro sogno, un rifugio a cui approdare dopo la tormentata esperienza di una vacuità morale del mondo in cui siamo.
L'abilità di Antonio Messina è di avere una scrittura in bilico fra la prosa e la poesia, con l'innegabile vantaggio, così, di poter far apparire come concrete cose che non lo sono, una tangibilità che aiuta il lettore nella completa immersione in un mondo che reale non è.
Astrabat è un pianeta di Sabbie e di Ombre, dove c'è un vento miracoloso che riesce a rigenerare le cellule, così da permettere agli uomini di rinascere. Ma è anche una metafora della storia umana, di una continua serie di apogei e di decadenze, di nascite e di morti, in un disegno i cui motivi non ci è dato di conoscere e che annulla di fatto il tempo.
Può venire in mente il bellissimo film di Kubrick 2001 Odissea nello spazio, ma non è così, perché Le vele di Astrabat ha una sua dignità autonoma, ha una forza che scaturisce dalle parole e che può consentire, a chi l'accolga pienamente, di rendersi conto di quanto potrebbe essere bella la vita solo che noi lo volessimo, solo che rinunciassimo all'egoismo per percorrere insieme, solidalmente, il viaggio terreno.
Non ci sono forzature, né imperativi nel procedere del testo, ma solo una sottile pacata malinconia che induce ad accogliere a braccia aperte il messaggio filosofico che lo permea.
Le vele di Astrabat è un'opera di elevato valore, da leggere, rileggere, assaporare prima con il cuore e poi con la mente.
Renzo Montagnoli

L'autore
Antonio Messina nasce nel 1958 a Partanna, in provincia di Trapani. Vive a Padova. La sua prima opera di narrativa L'assurdo respiro delle cose tremule, incontra l'entusiasmo di molti lettori, ed anche la critica spende parole d'elogio. L'opera viene recensita su quotidiani, riviste telematiche e cartacee, e riesce a vendere un buon numero di copie in libreria, senza nessun supporto pubblicitario, grazie al passaparola dei lettori. Nel 2006 viene pubblicata la raccolta di racconti La Memoria dell'acqua - con introduzione di Elisabetta Blasi - per i tipi de Il Foglio Letterario, Piombino.
Altri racconti vengono singolarmente editi:
- da L'ombra nella Bottiglia è stato realizzato, nel [2005], un cortometraggio. Il progetto è partito su iniziativa del direttore artistico (Roberto Messina) del Teatro Scuola Grifo D'oro - nell'ambito di un concorso nazionale patrocinato dalla Regione Sicilia, provincia di Trapani, comune di Partanna, BBC Belice, Atp Trapani. Questo cortometraggio sull'alcolismo ha vinto nel [2005] il Primo premio a Città di Castello; il testo inoltre viene richiesto dalle migliori riviste telematiche e, pubblicato in cartaceo da Progetto Babele (Modena), da Tam Tam (Roma), nel [2005]
La Marea. Il racconto viene pubblicato, nel[2005], dalla rivista sarda Gemellae e richiesto dalle migliori riviste telematiche, anche internazionali: Casa da Cultura (Portogallo) Isla Nigra Sud America.
Alcune liriche sono presenti in qualificate antologie poetiche:
- E noi ad Amarci in antologia - Parole d'Amore, [2006]
Il Gesto in antologia- di I Segreti di Pulcinella, [2005]
Sogni di Carta in antologia Penna D'oca, [2005]
L'editore è Giulio Perrone, Roma
La lirica Fiumi di porpora compare nella sezione poetica della Biennale di Venezia-Repubblica.It.
Renzo Montagnoli


Viaggio in V classe di Aurelio Zucchi  Il Filo

La scuola negli ultimi decenni è diventata il capro espiatorio di tutti i mali sociali. Tra riforme e "controriforme", che si sono abbattute quasi annualmente sulla pelle degli alunni incolpevoli e, forse anche di più, su quella degli insegnanti, affannati a comprenderne disegni e significati, essa ha tuttavia retto all'inconsistenza e alla rozzezza di questo tempo dagli orizzonti annebbiati.
E forse la ragione sta nel fatto che tutta una generazione di insegnanti, ancora forgiata alle sudate carte, agli ideali alti della professione e al senso del dovere, ha continuato a svolgere il suo compito, nonostante tutto: guardando più alla pratica e all' utile didattico, che a tante contraddittorie teorie (pseudo) socio-pedagogiche "vocate" alla centralità dell'alunno, ma in verità più attente agli "indottrinamenti", funzionali soprattutto a redditizie carriere politiche.
Ce ne dà prova, e fa bene al cuore in questo contesto di totale disorientamento degli educatori, di sfiducia generale, e del "V - day" che non fa distinguo, un riuscito romanzo che, attingendo a piene mani al vissuto personale dell'Autore, ci regala un piccolo affresco di laboriosa e serena vita scolastica, neppure tanto lontana dall'oggi.
------------------------------------------------------------------------------------------

"Viaggio in V classe" d'Aurelio Zucchi, con intelligente prefazione di Pietro Zullino, è il romanzo in questione. L' Autore, alla sua prima prova letteraria, è il protagonista e l'io narrante di vicende tanto "normali" quanto nobilitate dalla scrittura e dal sentimento.
Il libro risulta essere solo a tratti "diario di bordo" di un gruppo di amici che frequentano tutti la stessa classe (la V B dell'Istituto Tecnico "A.Righi" di Reggio Calabria) e condividono il destino di giovani , appena usciti dall' adolescenza, inquieti per l' incerto avvenire, ma fiduciosi nelle proprie capacità e determinati dal bisogno: consapevoli delle difficoltà da superare e protesi verso l'agognata meta della maturità, restano sordi agli echi della contestazione sessantottina, né si lasciano coinvolgere dalla rivolta della loro città scippata del capoluogo.
Zucchi, che si rivede come "un povero ragazzo ricco di vita" ma senza scarpe o abiti firmati, produce una fotografia esatta di luoghi e di persone reali, indicati coi loro nomi, fedelmente sbalzati col cesello di un'acuta analisi dei caratteri e col ricorso a quella parlata diretta, un po' sguaiata e sopra le righe, di una "banda" in libera uscita , rotti i freni di una severa disciplina.
Dalle pagine del romanzo emerge un'umanità varia, quasi edificante, vista certamente col metro di poi di chi, allevato al senso del dovere e alle responsabilità, rivisita, con sereno giudizio critico e non senza qualche groviglio nostalgico, episodi di una quotidianità quasi scontata, ma sempre ravvivata dal calore dell'amicizia, dalla complicità di gesti, segreti, marachelle, vissuti spesso nell'alveo di una trasgressione più pensata che attuata, in ogni modo mai debordante e greve.
Per tante pagine dedicate alla ricerca di senso e di esperienze di vita, che hanno come costante l'allettante e misterioso mondo femminile, "Viaggio in V classe" si può considerare anche romanzo di formazione. Il viaggio "dentro" un'aula, con quanto vi accade di significativo, per l'Autore, nei rapporti tra gli alunni e tra questi e i docenti, apre scenari su altre dimensioni. Lo sguardo del protagonista, continuamente rivolto a cogliere, in ogni situazione, le emozioni e le ragioni dell'esistenza, proiettato già lontano ad esplorare possibili condizioni e realtà nuove, rappresenta metaforicamente il lento e faticoso distacco dall'età giovanile verso la maturità, non solo scolastica, con un futuro prossimo da costruire e non più da sognare.
Nell'affollato panorama di personaggi e ambienti, Zucchi indaga anche il personale, difficile distacco dagli affetti e dai luoghi della fanciullezza per il trasferimento a Roma della famiglia. Da quel momento il ricordo di quel gruppo affiatato di amici che "andavano a piedi e sognavano le macchine rombanti", sveglia a tradimento sopite malinconie, ritma certezze di un tempo ritrovato e, senza retorica, scioglie canti a una passata gioventù, coraggiosa e ottimista, contenta di poco, educata all'impegno e ai buoni sentimenti.
"Viaggio in V classe " è certamente il prodotto di un talento personale, ma i contenuti parlano di "valori", più che enunciati, vissuti in sintonia da un'intera comunità, e di una scuola che spronava alla meta e manteneva le promesse. Chi vuole intendere….intenda. Grazie Aurè!
Angela Ambrosoli


Canti celtici di Renzo Montagnoli Edizioni Il Foglio
Prefazione di Patrizia Garofalo
Immagine di copertina e fotografie
all’interno di Renzo Montagnoli
Elaborazione Grafica di Elena Migliorini
Collana Autori Contemporanei Poesia
Diretta da Fabrizio Manini
Poesia - poema

Nel suono di un’ arpa ho letto i “Canti celtici” di Renzo Montagnoli, vibranti della stessa intensa musicalità.
E’ l’anima del poeta che risuona in una sorta di incantamento, attraverso le voci che Renzo riesce a dare ai personaggi di un antico mondo affascinante, pervaso di mistero.
Ciò che il poeta riesce a comunicare con i suoi versi ricchi di lirismo e carica emotiva, travalica lo spazio ed il tempo, trasporta su ali di pura poesia.
Già dal primo canto si viene catturati dagli arpeggi che sembrano provenire dalle parole…
“Guerrieri sull’ acqua” evoca un paese notturno popolato di elfi e silfidi.
“Il lungo fiume” con la sua malinconica rassegnazione all’oltraggio di questa nostra attuale, cosiddetta, civiltà, ci sorprende assorti nel suo fluire.
“La fonte amica” è una vera fonte di rapimento, quasi ci si può specchiare nella luce del plenilunio, quasi vi ci si può immergere.
E come non restare ammaliati da “In mezzo scorre il fiume”?, La figura risaltante, che parla in prima persona, partecipe della natura, consapevole del breve arco che si percorre vivendo. Bellissima la chiusa.
“Il mormorio del vento” così evocativa, “…erano genti che calcavano quest’ umida terra…Non uomini, oggi, ma spettri.” Anche qui splendida chiusa.
E che dire della suggestiva, in qualche maniera visiva, “La ninfa del lago”? Si rimane in attesa, sperando nella fantastica, possibile riapparizione all’alba…”che già si annunciava con frecce di luce”.
“Musica e polvere”, qui Renzo riesce letteralmente a trascinarci nello scorrere del tempo, che tutto sgretola fino alla chiusa, formidabile, come tutte le altre di questo immaginifico poeta.
Posteri già nati senza memoria” è addirittura una raffica che coglie in pieno petto. E un senso di smarrimento pervade, con rassegnata malinconia, di fronte alla ineluttabile cancellazione delle umane radici.
“Eternità“ senza memoria, riflesso di un pensiero che abbraccia secoli e che, malgrado la polvere di ogni fine, non può che arrendersi alla forza dell’ amore che supera anche il tempo.
“Al Dio morente”, è una descrizione precisa e dolente di quella perdita di numi che, secoli addietro, erano percepiti vicini, a fare da tramite fra gli uomini e la natura, nei cicli ricorrenti e ineludibili della vita sulla terra, mentre oggi ci vede sempre più distanti, proni davanti a un Dio che abita i cieli ma nemmeno sa della nostra esistenza.
”Il Testamento” è un’ altra sentita e sottile interpretazione del poeta, è quasi scandita con i tempi del teatro tragico greco, immette nel monologo interiore dell’ uomo smarrito e impotente rispetto al mistero.
“Polvere”, e “Il futuro nel passato”, offrono, nell’ ossimorica visione, una scia di sogno, di nostalgica memoria.
La musica continua, con “Il sogno del vecchio”, per
…Una cavalcata, l’ ultima, per un saluto,
un definitivo commiato,
mentre cessa del tutto il vento del tempo.
Ancor domani sorgerà il sole,
per altri riprenderà il cammino
per dove il vecchio è alfine arrivato
.”
Qui finisce la musica e la lettura, ma si è ancora rapiti dalle pagine appena finite di leggere, non si riesce ad abbandonare la fatata atmosfera lunare, stillante di parole che fluiscono con l’ acqua.
La poesia di Renzo Montagnoli è contagiosa, ci si ammala di voglia di leggerne ancora, e se ne porta dentro, per sempre, l’ eco sospesa e sognante.
Cristina Bove

Renzo Montagnoli nasce a Mantova l’8 maggio 1947. Laureato in economia e commercio, dopo aver lavorato per lungo tempo presso un’azienda di credito ora è in pensione e vive con la moglie Svetlana a Virgilio (MN).
Ha vinto con la poesia Senza tempo il premio Alois Braga edizione 2006 e con il racconto I silenzi sospesi il Concorso Les Nouvelles edizione 2006.
Sue poesie e racconti sono pubblicati sulle riviste Isola Nera, Prospektiva e Writers Magazine Italia, oltre a essere presenti in antologie collettive e in e-book.
E’ il dominus del sito culturale Arteinsieme (www.arteinsieme.net/renzo/ )
Blog: http://armoniadelleparole.splinder.com/
Cristina Bove


Fiori e fulmini di Cristina Bove Edizioni Il Foglio
Collana Autori Contemporanei Poesia
Diretta da Fabrizio Manini
Prefazione di Renzo Montagnoli
Immagine di copertina di Cristina Bove
Elaborazione Grafica di Elena Migliorini
Poesia - Silloge

Il poeta riesce a guardare il mondo che lo circonda, trascendendo ciò che gli occhi vedono, e in questo Cristina Bove non si smentisce, perché in lei è presente questa straordinaria virtù ed è coeva con la capacità di trasmettere in modo chiaro, direi limpido, le sensazioni del suo animo.
Questa raccolta comprende un centinaio di poesie, solo una parte delle numerose che nel corso della sua vita ha saputo creare, senza mai essere ripetitiva.
In "Fiori e fulmini", pur nelle molteplici tematiche affrontate, riluce la mano sensibile che riesce a trasferire nel verso, con ammirevole semplicità, le più svariate emozioni, dal tormento di un ricordo allo sdegno per la sorte riservata ai più deboli.
L'animo di Cristina è uno specchio in cui si riflettono visioni che rimbalzano sulla carta pregne di intime considerazioni, una presa di coscienza che solo il confronto fra la realtà e il sentimento trasfigura in messaggi, ora soffusi, spesso silenziosi, e quasi mai in urla liberatorie.
C'è una visione dell'esistenza, anche nei suoi aspetti più tragici, che lascia alla speranza dell'amore, inteso nella sua accezione più ampia, quel dare spontaneo che gratifica anche senza risposta e che fa sentire più vivi, come in Amo le voci " Amo le voci che parlano sommesse che sanno dire senza farti male che scelgono il silenzio quando è bene tacere ", oppure in Brulicava di luci , una lirica di ispirazione quasi bucolica, dove il richiamo alla morte va a sottolineare l'amore per la vita, una sorta di antitesi che ne esalta il valore.
Ci sono liriche intimiste, dove il volgere gli occhi dentro di sé è il cercare di conoscere la risposta a tanti perché e al riguardo ritengo opportuno sottolineare il particolare spirito religioso presente in tanti versi, una visione della vita che esula dai dogmi delle religioni per sfociare nella dubbiosa consapevolezza che qualche entità a noi ignota presieda ai destini del mondo, ai passi che percorriamo ogni giorno, a fatti ed eventi a cui partecipiamo secondo un copione che non conosciamo, ma che qualcuno ha ben definito.
Domande logiche che tutti ci poniamo, ma che la sensibilità dell'autore sa volgere in possibili risposte che alla luce della ragione hanno un senso senza essere certe, perché l'unica realtà tangibile è la vita, è quel fluire del tempo che ci accompagna dalla nascita fino al distacco, un distacco che può anche essere mediato, come quando qualcuno a noi caro ci lascia senza che possiamo far nulla, un'improvvisa consapevolezza della nostra impotenza di uomini che crediamo di saper tutto, ma che ignoriamo il perché esistiamo.
Al riguardo struggente è A mia madre, laddove Cristina scrive " Mentre la vita che donasti a me non consentiva di donarla a te ", una traslazione di pensiero che porta dal pathos individuale a quello universale, una drammatica consapevolezza che il ciclo vitale non può essere modificato.
Più fiori che fulmini, perché anche nell'uso sapiente e mai ridondante delle metafore il verso, fluido, cristallino è al servizio della filosofia dell'autore, un concetto semplice, ma dalla grande portata per il bene del mondo: la vita è una sola, con aspetti negativi e altri positivi, ma merita in ogni caso di essere condotta fino in fondo, di amarla con tutte le proprie forze, il che non è un atto di egoismo, poiché ciò a cui si deve effettivamente aspirare sono gli autentici valori a fondamento di ogni civiltà, perché in essa innati e che l'umanità si è portata appresso nei secoli, ogni tanto dimenticandosene, nella rincorsa vana di feticci della felicità.
Un'ultima, doverosa annotazione: leggere le poesie di Cristina Bove è come entrare in un'altra dimensione, in un'atmosfera dolcemente sospesa che infonde una grande serenità.
Renzo Montagnoli

L'autore
Cristina Bove è nata a Napoli il 16 settembre 1942, Vive a Roma dal '63, anno in cui si è sposata. Da quando si ricorda ha sempre dipinto, scolpito, letto molto e qualche volta scritto, famiglia permettendo, poiché la sua stata alquanto numerosa e la sua vita intensa, ricca di eventi meravigliosi come la nascita dei suoi quattro figli, la creatività, gli amici, il miracolo di esserci ancora, sopravvissuta non sa quante volte.
Presente in diversi siti Internet con le sue poesie, è l'autrice appunto di "Fiori e fulmini", che costituisce al momento la sua prima pubblicazione in volume.
Renzo Montagnoli


Il diavolo custode di Luigi Balocchi Meridiano Zero
Narrativa - romanzo giallo

Ha quasi il ritmo di una ballata questo romanzo tutto centrato sulla figura di Sante Pollastro, per le cronache un bandito di Novi che ha imperversato, soprattutto fra le due guerre, ma per la realtà storica un ribelle.
Luigi Balocchi con uno stile del tutto particolare, che ricorre con misura al dialetto, con frasi brevi, incalzanti, riesce a fornirci un quadro completo di questa meteora dei diseredati.
Sì, perché le gesta di quest'uomo, indubbiamente contro la legge, sono animate da uno spirito di rivolta contro un sistema che opprime l'individuo, negandogli quella libertà che è suo diritto di nascita.
Sante Pollastro, il bel Santéin è anarchico senza saperlo, lo è per un istinto naturale che lo porta quasi in un gioco-sfida con se stesso a violare leggi che sembrano fatte apposta per consentire il predominio di alcuni uomini sugli altri.
Ha simpatie per il movimento anarchico, perché lo considera la testimonianza che il suo modo di condurre la vita ha un fondamento che non lo rende dissimile da altri che si battono e muoiono per un'ideale di libertà prima di tutto individuale.
Nel testo lo si definisce uno stirneriano naturale, ma lui di Max Stirner forse ha solo udito il nome, perché la base culturale per comprendere l'anarchismo non è presente. Lui è così, perché è nato così, in ciò confermando praticamente la teoria del filosofo tedesco.
Anche gli uomini della sua banda, pur riconoscendolo capo, appaiono come dei discepoli, soggiogati dalla sua forte personalità, ma con l'analoga predisposizione a rifiutare vincoli imposti dalle istituzioni, apparati creati per limitare la libertà degli uomini.
E' tutta una serie di avventure picaresche che si susseguono nelle pagine, con l'immagine memorabile del bel Santéin che corre a perdifiato in bicicletta e spara con mira infallibile ai lampioni, con gli assalti ai treni, con le rapine, ma anche con le feste fra amici, con gli amori rapidi e intensi, con parte dei bottini destinati a chi più ne ha bisogno.
Si delinea così la figura di un uomo a metà fra Robin Hood e Don Chisciotte, una miscela amalgamata in modo perfetto, che ne fa un personaggio a se stante, un mito anche per le polizie italiane e francesi che lo rincorrono, un avversario pericoloso, ma leale.
Un concetto di vita inteso come avventura permanente, dove forte e predominante è il vincolo dell'amicizia, dove bravate e allegria si alternano anche alla tristezza per la morte di un compagno.
Così, se esilarante appare il bel Santéin tutto nudo d'inverno quando si presenta per il servizio di leva, in modo da farsi passare per matto ed evitare quindi la certa destinazione per la fornace di morte del Carso (siamo durante la prima guerra mondiale), i ricordi del fido Emilio, ucciso dai Regi Carabinieri in un agguato in cui lui è scampato per miracolo, danno la misura di un uomo complesso, dotato di grande temerarietà, di slanci impetuosi, ma anche di malinconica nostalgia.
In un ambiente descritto in modo magistrale, con nebbie che sembrano avvolgerti, con il freddo di cui hai il sentore, Il diavolo custode è assai di più di un romanzo noir, di una riuscita biografia, è un intenso, vibrante, e per certi versi struggente, canto di libertà.
Renzo Montagnoli

L'autore
Luigi Balocchi nasce il 30 giugno 1961 a Mortara (Pavia). Ha collaborato in qualità di cronista di nera con vari quotidiani e settimanali locali.
È fondatore del gruppo di ricerca linguistica "La Brasca", volto al recupero della tradizione dialettale in chiave di proposta letteraria. Organizza pubbliche letture del repertorio vernacolare lombardo.
Renzo Montagnoli


GIOVINEZZA Partitura per mandolino e canto di Francesco Giubilei
Società Editrice Il Ponte Vecchio
Narrativa - Dialogo - intervista

In fatto di precocità non c'è dubbio che a scrivere un libro a 13 anni e a pubblicarlo a 15 rappresenti un po' un record. E' ovvio che però sorga spontaneo il dubbio sulla valenza di quest'opera, dal genere non facilmente determinabile.
Francesco Giubilei ha avuto la fortuna di avere un nonno che l'ha assecondato in questo lavoro, strutturato come un'intervista; infatti il signor Italo Giubilei è stato testimone, come tanti italiani dell'epoca, di un particolare periodo storico: il ventennio fascista.
E il nipote, avido di conoscere come tutti i ragazzini, ha posto all'avo delle domande, a cui sono state fornite risposte di opinione, ma che presentano un livello di equilibrio sicuramente encomiabile.
Non so se c'era nelle intenzioni la pretesa di scrivere una piccola storia del fascismo, ma ne dubito, perché allora l'impostazione sarebbe risultata diversa.
Resta comunque il tentativo di spiegare un fenomeno che ha visto il nostro paese sostanzialmente in accordo con il regime fascista fino allo scoppio della seconda guerra mondiale, circostanza da non sottovalutare, perché denota certe caratteristiche di noi italiani, caratteristiche presenti anche in Benito Mussolini che le seppe sfruttare per un certo tempo nel migliore dei modi.
Questo l'essere il tutto e il contrario di tutto ci accomuna in maggior o minor misura ed emerge nel corso dell'intervista, con la popolazione contenta per un certo piccolo benessere, ma che mal sopporta il pre-militare del sabato fascista, o che apprezza la puntualità dei treni, ma condivide le iniziative politiche del suo duce solo fino a un certo punto.
Come ho scritto prima, però, le risposte formulate dal nonno sono frutto di un'opinione individuale e come tale finiscono con l'avere una valenza limitata, se pure in linea generale è possibile concordare con le stesse, sulla base di esperienze analoghe avute da parenti che hanno vissuto lo stesso periodo.
Pur nella buona volontà dell'autore, il libro non ha una valenza storica, ma eventualmente di cronaca.
Comunque, è piacevolmente scritto e, credetemi, considerando la giovane età, è già stato realizzato molto.
Chissà che un giorno non ci sia possibile leggere un bel saggio storico di Francesco Giubilei, ma è inevitabile che dovrà passare del tempo, dovranno essere completati gli studi con il successivo inevitabile tirocinio di chi cerca di affrontare questo difficile compito di ricerca di una verità che non sarà mai quella definitiva.
Renzo Montagnoli

L'autore
Francesco Giubilei è nato a Cesena l'1 gennaio 1992. Frequenta il Liceo scientifico "A.Righi" nella sua città.
E' interessato a numerose iniziative in Internet in qualità di dominus (Caffè Storico Letterario, Historica), oppure di collaboratore (Lankelot). "Giovinezza Partitura per mandolino e canto" è il suo primo libro.
Renzo Montagnoli


Il Significante  di Silvano Conti -  prefazione di Giuseppina Bisogni -
Da un art. de  “ Il corriere dell’Umbria” del 21 Marzo 1986

Sapienti fonìe per un linguaggio attuale  - la poesia dell’ « impotenza » di Giuseppe Maradei
“ È l’impotenza dell’uomo/ che mi fa paura” – e  ancora – “ ho perso la gara col mondo “. Queste confessioni fanno parte del corredo poetico di Silvano Conti che, con il volume “ Il Significante” (Ed. Prhomos, Città di castello 1985 ) ci consegna una poderosa somma di echi esperienziali nutrite dall’esterrefatto presente privo di orpelli fantasiosi e incostante polvere d’oro d’illusioni. La presentazione del volume di Silvano Conti è stata curata da Giuseppina Bisogni ed il corollario grafico, si è avvalso della sensibilità del pittore greco - Takis Tsentemaidis -, conoscente e amico dell’ autore.
Non a caso si è voluto avviare questo intervento con le citazioni di due versi. Consideriamo che il talismano della comprensione possa affidarsi alla profezia del verso; in realtà gran parte della storia umana e lirica di Silvano Conti, a nostro parere, possono arpionarsi saldamente all’atmosfera introdotta da quei versi. Aggiungiamo a mo’ di chiusa a questo primo mosaico, la seguente asserzione : “ Siamo riusciti a levarci/ la fatica di vivere.” ( Tecnologia ). Questa prima trilogia di citazioni ci pare essenziale per delineare qualche motivo di poetica presente nel volume di Silvano.
A  determinare con maggiore precisione il nostro assemblaggio soccorre anche la stessa biografia del poeta. Silvano Conti ha vissuto in prima persona eventi di illusione e delusione del movimento studentesco, appartiene a quella generazione di giovani che al sogno ideale del 68 hanno bruciato le migliori energie creative e le speranze più impudiche. Sull’ara dell’impegno costante hanno sacrificato lo scorrere del tempo ed ancora hanno negli occhi il sinuoso dilagarsi del fumo che ha spazzato via l’utopia insieme agli anni. Non è, Silvano Conti, un rassegnato, né può definirsi un pentito. Semplicemente  si rende conto lucidamente che è inutile rincorrere i fantasmi del passato e non cede alla tentazione del rimpianto. La sua analisi ora si interiorizza ed altri sono i taselli esistenziali che aspira a vivere e comporre. Ora la vita gli appare attaccata “ ai pensieri/ e cade/ come uno straccio/ dal ramo più alto.” 
Così anche il rapporto amoroso è consapevole del disinganno al punto di far dire alla partner: “ Non sei stata mai mia/ neanche quando il corpo cantava/ perché la paura ci rovina/ perché non sono mai stato mio/ La paura/ guardava dall’alto”.
A questo punto ci sembra lecito avviare qualche notazione intorno ai motivi poetici. Da quanto si è potuto incastonare e con le riserve proprie legate al patrimonio di un volume, appare delinearsi una propensione alla realtà che non si può sfuggire nonostante poggi sulle ceneri della delusione. Silvano Conti evita il rifugio nella profondità ammaliante di un consolatorio lirismo. La consapevolezza della non presenza del mito si avverte anche quando s’abbandona al fascino delle citazioni favolistiche o si racchiude nell’alcova intima dei sobbalzi del cuore. Il frastuono metallico delle fabbriche ed il cupo cromatismo delle ciminiere avvertono continuamente che l’idillio deve fare i conti con il cemento. Anzi, il ricorso alla granitica fonìa del presente tecnologico e disumanizzante è per il poeta un sicuro sortilegio contro ogni forma di manierismo e sentimentalismo. Allora sgorga intera dal fondo della consapevolezza smitizzata la “impotenza” acquisita e selezionata come antidoto di nuovo ristoro da contrapporre al sogno irrazionale. La poesia dell’ “impotenza” trova il suo “significante” dalla vita stessa del poeta cos’ come “il gesto lieve “  e “Daniel”  ( il figlio di Silvano ) segnano il “ Significato”. Nasce una forza nuova che ha radici profonde perché carica d’attese compiute e “ l’impotenza “ si trasfigura in nuovo crepitio perché la storia riparta, seppure in punta di piedi.
Il linguaggio utilizzato da Silvano Conti è fatto di sapienti fonìe, anzi, spesso lo stesso evento lirico è giocato sulla variegata attitudine dei suoni. Vale la lezione, probabilmente, di Dino Campana e non sono assenti echi futuristi, dadaisti e surrealisti. C’è qualche strizzatine d’occhio a Mallarmé e qualche sorriso compiaciuto all’ideogramma. Con questo non si vuole assolutamente fare della poesia di Silvano Conti un paradigma di appartenenza a schemi ritmici o ad antiche scuole. Basta dire che la poesia di Conti trascina nel recente passato cui dona caratteri e movenze ben al di là di qualsivoglia citazione intellettualistica. È la poesia ad impossessarsi di tale recente passato ed a conferirgli tonalità senza tempo. La storia di un uomo non domato dal tempo e fresco di sentimenti, armonizza l’itinerario e lo trasogna per sempre
Giuseppe Maradei


Ultimo parallelo di Filippo Tuena Edizioni Rizzoli
Narrativa - romanzo

Occorrono capacità e coraggio per scrivere un libro simile. Per la prima mi dilungherò più avanti, per il secondo invece preferisco parlarne subito.
Premetto che, nella mia ignoranza, non avevo mai letto nulla di questo autore e se ho provveduto in parte a riparare questa negligenza lo devo soprattutto a Gian Paolo Serino, il cui articolo in proposito apparso su Satisfiction mi ha convinto della necessità di acquistare e leggere questo romanzo, ma non perché ha vinto il premio Viareggio, bensì per l'entusiastico consiglio di lettura del critico milanese, di cui condivido spesso i giudizi.
Ho parlato prima di coraggio e in effetti ne occorre per proporre una storia, vera, di esplorazione, genere stranamente non tenuto in considerazione dai lettori italiani; inoltre è un'opera di elevato livello culturale che cozza contro il generale appiattimento dell'attuale narrativa italiana, portata, nel migliore dei casi, a una lettura d'evasione adatta a un pubblico da tempo abituato a fiction e a reality che, di certo, non costringono a spremere le meningi.
Di ciò l'autore è ben consapevole perché altrimenti non avrebbe usato un linguaggio erudito, non avrebbe approfondito certi aspetti della vicenda, indifferente quindi alla ricerca di un eventuale successo commerciale.
Filippo Tuena ha inteso scrivere un prodotto culturalmente molto valido, ben sapendo che ciò da diverso tempo è negletto e il risultato è stato un'opera che senza ombra di dubbio può essere definita un capolavoro, alla stregua di quelle dei grandi classici.
La vicenda trattata è abbastanza conosciuta ed è la tragica spedizione del 1911, condotta dal britannico Robert Falcon Scott nell'Antartide, per la conquista del Polo Sud.
Però, non solo non se ne era scritto mai in modo così dettagliato ed esauriente, ma addirittura nessuno aveva pensato di ricavarne un romanzo.
Che cos'è il Polo Sud, se non un punto ideale sulla calotta di ghiaccio che ricopre un continente dell'emisfero australe?
Battuto da venti impetuosi, gelido, completamente deserto è una terra del tutto inospitale, ma per molti anni ha rappresentato una meta agognata, il desiderio intenso e ossessivo di tanti intrepidi esploratori.
Raggiungere il polo non era solo una sfida fra uomini e una natura inclemente, ma era molto di più, era la ricerca di se stessi, un tentativo di conoscere il proprio io misurandosi con forze impari.
Sappiamo dalla storia che il primo a raggiungere il Polo Sud fu il grande esploratore norvegese Roald Amundsen, ma, benché il suo nome appaia in questo libro, non ci è mai dato di vederlo, anzi l'autore lo circonda di un alone da divinità vichinga, sì che ci pare di vedere la sua slitta, trainata dai cani, correre sul ghiaccio veloce come un fulmine e dritta alla meta.
Lui è il vincitore, è l'uomo che ha sconfitto la natura, ma lo scopo di Filippo Tuena non è di parlare di eroi trionfanti, ma di ipotetici eroi ritornati nei ranghi della debolezza umana di fronte a fatti e a circostanze che, nonostante l'insuccesso, hanno destinato i lori nomi all'eternità.
Ecco, allora, perchè in questo libro si narra solo della infausta spedizione inglese guidata da Robert Falcon Scott, il cui esito è a tutti noto, ma che nelle parole dello scrittore assurge a dimensioni titaniche, a una sorta di sacrificio umano, quasi il destino degli uomini che perdono la sfida con gli dei.
E' stata una lettura sofferta, perché Tuena ha la rara capacità di coinvolgere chi si sofferma sulle sue parole, e così mi sono immerso in immense distese ghiacciate, ho visto uomini stremati che a braccia trainavano le slitte, ho avvertito il gelo entrarmi nelle ossa, mi sono amareggiato con la delusione di essere arrivato al polo non per primo, ho sofferto pene intense lungo la via di un ritorno che non ci sarà, mi sono rinchiuso in una fragile tenda convinto di essere senza futuro, mi sono accorto della presenza ossessiva, giorno dopo giorno, di un uomo in più.
E questa sensazione dell'uomo in più, che in effetti hanno provato diversi esploratori nei momenti in cui la fatica sembrava insormontabile, tale da esaurire ogni energia residua, ed espressa in una sorta di visione incerta di un altro incappucciato e avvolto in un mantello bruno, è stata abilmente sfruttata da Tuena.
Infatti, Scott non parla in prima persona, e nemmeno l'autore, ma a rendere estremamente coinvolgente il testo ci pensa l'uomo in più e così è attraverso i suoi occhi che seguiamo l'intera vicenda.
Al riguardo apro un'ideale parentesi, perché mi sono posto il problema di chi fosse mai questo essere che si crede di vedere, avvertendone la presenza.
Inizialmente ho pensato alla morte, ma, per quanto non improbabile, non mi convinceva questa soluzione e allora ho interpellato l'autore, al fine di confrontarmi e di avere un'interpretazione autentica.
In merito, di seguito riporto le precisazioni dell'autore:
" Non pensavo necessariamente alla morte, piuttosto a una divinità antartica che si desta con la presenza degli esploratori e si spegne con la loro partenza. Credo che non esistano divinità dove non vivono uomini che le possono vivificare. Più precisamente, riguardo al libro, lo spirito che accompagna gli esploratori, è di volta in volta lo scrittore che ne scrive e il lettore che ne legge perché che cosa siamo noi, quando scriviamo e leggiamo, se non coloro che accompagnano silenziosamente i personaggi di un libro nel loro andare?".
Ecco, quindi, un ulteriore elemento che dimostra l'intenzionalità dell'autore di coinvolgere attivamente il lettore e posso dire che ci riesce benissimo.
Chiudo l'ideale parentesi e ritorno alla trama.
Demoralizzati per non essere arrivati primi, esausti, sfibrati da mesi di marcia, Scott e i suoi quattro compagni prendono la via per l'eternità, un calvario senza testimoni, ma in parte ritrovato in due diari e in una macchina fotografica, una sorta di epitaffio mancante solo dell'evento finale, di quel trapasso, per stenti e freddo, ormai quasi desiderato come la soluzione migliore per chi ha fallito e sta soffrendo le pene dell'inferno.
Se nella fase preparatoria della spedizione e nell'avvicinamento alla meta la mano felice di Tuena non solo ha evitato di annoiare il lettore, ma anzi lo ha progressivamente reso partecipe, è proprio nel dramma finale che lo stile, la misurata pacatezza coinvolgono oltre ogni misura, in un lento, crescente, angoscioso stillicidio di eventi, di riflessioni, di tormenti interiori.
Non scrivo altro, perché Ultimo parallelo, come tutti i capolavori, ha bisogno di essere meditato, assimilato a gradi, con il trascorrere del tempo, per scoprire ogni volta qualche nuova traccia preziosa.
Renzo Montagnoli

L'autore
Filippo Tuena è nato a Roma nel 1953 e vive a Milano. E' laureato in Storia dell'arte.
Ha pubblicato:
Il tesoro dei Medici (Giunti Art & Dossier, 1987); Lo sguardo della paura (Leonardo, 1991), Premio Bagutta Opera Prima; Il tesoro dei Medici (De Agostani, 1992), in collaborazione con Anna Maria Massinelli; Il volo dell'occasione (Longanesi, 1994); Il diavolo a Milano (Ikonos, 1996); Cacciatori di notte (Longanesi, 1997); Tutti i sognatori (Fazi, 1999), Premio Super Grinzane-Cavour; La grande ombra (Fazi, 2001); La passione dell'error mio. Il carteggio di Michelangelo (Fazi, 2002); Quattro notturni (Aletti, 2003); Il volo dell'occasione (Fazi, 2004), nuova edizione; Le variazioni di Reinach (Rizzoli, 2005); Premio Bagutta; Il diavolo a Milano - nuova edizione e Fantasmi di Schumann a Manhattan (Carte Scoperte, 2005); Michelangelo. Gli ultimi anni (Giunti Art & Dossier, 2006); Ultimo Parallelo (Rizzoli, 2007), Premio Viareggio.
Sito web: http://digilander.libero.it/filippotuena/
Renzo Montagnoli


Charlette Itinerario di un amore di Gaspare Armato Lulu Edizioni
Copertina di Maria Catarina Alvarez
Poesia - silloge

L'amore è un sentimento che si presenta sotto molteplici aspetti, andando dall'emotività intensa, palpitante di quando nasce, alla malinconia appena frenata di quando non costituisce che un ricordo. In quest'ultimo caso si può parlare più di rimpianto, cioè di una sensazione che da un lato tende ad esaltare momenti di intimità e dall'altro subito frena un entusiasmo che già si rivela irripetibile.
La lettura delle 57 liriche di Gaspare Armato, Charlette Itinerario di un amore, mi ha indotto alla riflessione di cui sopra, perché, secondo me, è chiaramente avvertibile una rimembranza accentuata tipica dell'idealizzazione di un evento passato, lontano nel tempo, ma che è rimasto indelebile nella memoria.
Le poesie, strutturate a versi liberi, presentano comunque un'armonicità riflessiva, cadenzata da spazi precedenti parte del periodo, quasi a invitare il lettore a soffermarsi su situazioni emotive che nascono d'impulso dall'animo (Charlette proprio tu/ ancora tu/ premi il cuore/della brughiera/del fantasma mio).
E in questa rievocazione si passa dall'entusiasmo per riassaporati momenti di felicità a una progressiva constatazione che è solo sogno e che nulla sarà ripetibile ( Piove amica mia/ è una pioggia/che cade triste triste/ come me/nel lento sciupio/ delle giornate).
In questo percorso la conclusione, logica, è annunciata dall'avviarsi della rassegnazione (I mesi passano/gli anni scorrono/le righe/di questo quaderno/
si riempiono/col sudore/dei sogni
).
Il tutto finisce, come una mano stanca di scrivere, con l'ultima poesia, giustamente breve, per troncare un residuo di sogno e di speranza in un ritorno alla realtà consapevole sintetizzata con un aforisma (Si è troppo felici/per accorgersi/che la felicità/durerà un attimo).
Con questa silloge, di piacevole lettura, Gaspare Armato si conferma poeta dai sentimenti delicati espressi con tonalità tenue, quasi un sussurro della sua anima.
Renzo Montagnoli

L'autore
Gaspare Armato risiede e vive a Pistoia.
Le sue prime prove di scrittura iniziano oltre 24 anni fa quando pubblica la sua prima raccolta di versi Epistemi, era il gelido gennaio del 1983. Incoraggiato sia da una buona critica che da consigli di amici e conoscenti, rielabora le precedenti liriche e li ristampa, aggiungendone altre, nell'aprile del 1984 dal titolo Ex novo epistemi.
Nello stesso anno termina di scrivere il suo primo saggio storico, una fatica durata oltre un anno di ricerche e di lavoro: 41 mesi di guerra, un libro dove si parla dell'Italia e degli italiani nell'immane tragedia della Grande Guerra del 1915-1918. Il volume vede la luce nell'ottobre del 1984. Riceve premi e lusinghiere recisioni sia da quotidiani locali che da quelli nazionali.
Passano gli anni e nel 1986 pubblica un saggio botanico dal titolo Piante mediterranee per giardini, seguito nel 1990 da I giardini al mare: erano i primi libri in Italia che trattavano praticamente, pragmaticamente quel tema.
Ma la sua voglia di dedicarsi alla poesia continuava celatamente e nello stesso anno, 1990, raccoglie le sue ultime liriche in una raccolta a cui dà il titolo Charlette - Itinerario di un amore, era il fiorito mese di marzo. Poesie dal verso libero, di rara e curiosa composizione stilistica, è un libro da leggere ad alta voce, come fossero poesie teatrali.
Grazie al successo dei suoi due saggi botanici e spronato da un nuovo editore, nel maggio 1991 esce Piante esotiche per climi miti, una descrizione dettagliata, come le precedenti pubblicazioni, di specie adatte ai nostri climi, con la particolarità d'avere come base pratica l'esperienza decennale dell'autore.
Poi il silenzio, un lungo periodo di lavoro all'estero, un periodo segnato dalla riflessione, un periodo dedicato alla lettura, all'introspezione, alla vita del qua e ora.
Nel luglio del 2007, dopo oltre 17 anni di silenzio, decide di ripubblicare, rivedendo e correggendo, il volume Charlette - Itinerario di un amore.
Adesso sta portando a termine il suo nuovo saggio, un saggio dedicato a particolari eventi storici, Passeggiando per la storia - dal 1200 al 1800 -, che spera dare alle stampe prima della fine dell'anno.
Dirige, dall'anno scorso, il suo blog (www.babilonia61.splinder.com), blog che si occupa di storia, sua segreta passione da quando era giovane.
Renzo Montagnoli


Vita da jinetera di Alejandro Torreguitart Ruiz Edizioni Il Foglio
Traduzione di Gordiano Lupi
Copertina di Oscar Celestini

Juliana è una bella ragazza che vive con la madre e con il figlio Daglis, avuto da un marito tanto desiderato prima, quanto odiato poi per la sua violenza e da cui è fuggita.
Una situazione, quindi, quasi normale, se non fosse per il fatto che, per vivere, fa la jinetera, né più né meno che la nostra prostituta.
Ovviamente, non è una vocazione, ma una necessità quella di esercitare il mestiere più vecchio del mondo per poter mantenere la famiglia, per crescere il figlio, per farlo studiare nella speranza che un giorno, lui, si trovi in una Cuba diversa dall'attuale, dove un popolo è costretto ad arrangiarsi per mettere qualche cosa in tavola.
In pratica il romanzo è costituito dal racconto che fa Juliana della sua vita, fra episodi passati e presenti, ed è lei a parlare in prima persona, a narrare fatti e vicende all'autore che si è messo in testa di scrivere la sua storia.
L'escamotage dell'io narrante del protagonista e della presenza dello scrittore quale personaggio non è nuovo, ma nel caso specifico è reso con straordinaria abilità, conferendo alla vicenda un realismo quasi palpabile.
Juliana non è una figura negativa e non è nemmeno un'eroina, ma rappresenta la tragedia di un normale essere umano costretto a fare una vita che sicuramente, se i presupposti fossero stati diversi, non avrebbe nemmeno immaginato.
E così ci sono racconti di amplessi senza amore, di incontri occasionali che si rivelano poi delle colossali fregature, ma in un'atmosfera stanca, senza palpiti, perchè in assenza di speranze per l'avvenire Juliana accetta, accetta tutto come i normali incerti del mestiere.
Eppure è una donna viva, che ama il figlio, che saprebbe anche amare un uomo che non c'è, che sa accontentarsi di quelle piccole gioie che la vita, quella vita, può dare.
Fra queste ci sono anche i colloqui con Alejandro, lo scrittore, quasi una sorta di confessione liberatoria, perché lei ama parlare, ma soprattutto ama essere ascoltata, desidera che le sue parole assumano il significato di una piccola ribellione a un potere che la sovrasta e che solo pretende da lei, sia che si tratti del regime, sia che siano gli uomini dei suoi incontri, perché ha ancora una dignità, svilita certamente, ma non tanto da non poter comprendere che gli inermi, gli indifesi sono sempre in balia dei più forti.
In questo senso penso che l'autore sia ben riuscito a rendere la rassegnata desolazione di un popolo che, perdendo l'oggi, non vede il domani.
Renzo Montagnoli

L'autore
Alejandro Torreguitart Ruiz (L’Avana, 1979) scrive poesie e racconti per la rivista El Barrio, è poeta repentista e cantautore. Suona in un gruppo rock chiamato Esperanza. Ha esordito in Italia con il romanzo breve Machi di carta - confessioni di un omosessuale (Stampa Alternativa, 2003) che ha avuto un buon successo di critica e di pubblico. A gennaio 2004 ha pubblicato il romanzo breve La Marina del mio passato (Edizioni Nonsoloparole - Napoli) e a maggio 2005 il romanzo di ampio respiro Vita da jinetera (Il Foglio - Piombino) sul mondo della prostituzione. Alcuni suoi racconti di impronta politico-esistenziale sono stati pubblicati da quotidiani e riviste. Tra questi: Il Tirreno, Il Messaggero, La Comune, Container, Progetto Babele, Il Filo, L’Ostile, Happy Boys. Gordiano Lupi è il traduttore e il titolare per lo sfruttamento dei diritti sulle sue opere in Italia e per l’Europa.
Renzo Montagnoli


L'isola di Federico Regini Edizioni Il Foglio
Prefazione di Francesca Ria
Copertina di Elena Migliorini

L'isola è un romanzo di coscienza, di scoperta, anche meravigliata, di come possa esistere e si possa costruire una vita tutta nostra senza condizionamenti che ci portano alla completa omologazione.
Nel caso specifico l'isola è quella d'Elba, ma la vera "isola" è quella in cui siamo prigionieri, per consuetudini, per educazione, per un modo di vita imposto dagli altri.
Nonostante un inizio un po' verboso, ma utile per definire questa sorta di clausura che permea il protagonista, come del resto tutti gli uomini, questo romanzo prende quota gradualmente, grazie a una prosa snella e alla capacità dell'autore di creare nuove aspettative. C'è anche uno sfondo giallo, legato ad alcuni avvenimenti di "mala politica" accaduti veramente all'isola d'Elba, ma è ovviamente un pretesto, per quanto accortamente utilizzato, per dare una svolta, una soluzione ai problemi esistenziali del personaggio principale e dei suoi due amici.
In effetti, Regini sembra volerci dire che, per creare una propria vita, se non ci si riesce da soli, ci si può arrivare con l'amicizia.
E così, oltre alla libertà di poter rompere il guscio che ci circonda, l'altro modo di lettura di questo testo è dato dal valore dell'amicizia, grazie alla quale, infatti, il protagonista e i due suoi più fidati compagni di vita potranno infine vivere felici e contenti.
Regini ha saputo costruire una trama efficace, disegnando in modo preciso i personaggi, con un'ambientazione e un'atmosfera intensa come in un thriller, ma notevolmente realistica.
L'ho letto quasi d'un fiato e lo consiglio vivamente, perché, vi assicuro, non ve ne pentirete.

L'autore
Federico Regini nasce il 16-11-1971 e vive all'Isola d'Elba. Dipendente di un'azienda di credito, si diletta nel tempo libero a scrivere racconti e sceneggiature.
A settembre del 2000, fonda con Stefano Giorgini e Sergio Casella un gruppo di musicabareteatrale chiamato le "Mukke Pazze" di cui cura i testi e le sceneggiature. Nello stesso anno scrive lo spettacolo "Viaggio in America" (2000), rappresentato ripetutamente al teatro dei Vigilanti di Portoferraio. Successive revisioni lo hanno reso adatto a piazze e locali, dove il gruppo si è esibito regolarmente. Seguono le sceneggiature la "Divina trag(g)edia" (2003) e "Bar America" (2004).
E' in fase di stesura il nuovo spettacolo dal titolo "La notte del tassista", che probabilmente sarà proposto durante la stagione teatrale 2006/2007.
Dal 2002 è il presentatore (quando glielo fanno fare anche "cantante") del "De Andrè Day", rassegna musicale dedicata al cantautore genovese, curata ed organizzata dai BWP.
L'isola è il suo primo e, per ora unico, romanzo.
Renzo Montagnoli


Chissà, forse un giorno faremo l'amore sull'orlo del mare di Marcello Marabotti Otma Editore
Prefazione di Alessandra Volpi

Chissà, forse un giorno faremo l'amore sull'orlo del mare. Non fuorvii il titolo, curioso, accattivante. Un titolo che rimanda ad atmosfere baricchiane di cui forse vuole essere omaggio. Perché la raccolta di poesie con la quale Marcello Marabotti, giovane poeta milanese, classe 1985, si racconta per la prima volta al pubblico è in realtà permeata di una tessitura sintattica e concettuale estremamente eterogenea.
Poeta delle piccole cose soffuse di un lirismo dimesso di reminescenze sabiane, vicino all'impronta prosaica dell'ultimo Montale, Marabotti stupisce per la capacità tutta pascoliana di cogliere il mistero intrinseco della quotidianità fatta di situazioni, gesti, fugaci pensieri. Cantore della vita di cui narra con forte taglio autobiografico i legami affettivi, sensazioni, profumi, ambienti, Marabotti parla della vita attingendo a piene mani dalla propria: nascono così fulminei aforismi di oraziana memoria, lampi di eros di elegante bellezza, paesaggi o situazioni vivi nell'immediatezza del contingente o trasfigurati nel ricordo, affetti profondi. Nel silenzio interiore proteso a giungere al porto sepolto emergono verità nascoste, lanciate dalla catapulta del cuore, intrise di malinconia. Basta poco e tutto diventa poesia grazie alla naturalezza con la quale Marabotti esprime il sentimento vero, mai banale, mai scontato, anche quando l'essenza dell'attimo è stata già individualmente vissuta da generazioni di poeti.
Marabotti fotografa l'attimo con la sensibilità intuitiva dei veri poeti, quelli investiti dal sacro fuoco di Apollo, quelli che si fanno veggenti; non necessita di sperimentalismi linguistici a volte forzati per affermare la propria originalità nella speranza di tracciare solchi diversi. L'unicità del canto è una conquista. E Marabotti sembra essere sulla buona strada.

L'autore
Marcello Marabotti è studente presso la facoltà di Lettere all'Università Statale di Milano. 'Chissà, forse un giorno faremo l'amore sull'orlo del mare' è la sua prima raccolta di poesie. Ha pubblicato anche la poesia A lei nell'antologia 'Parole d'Amore' (Giulio Perrone Editore 2006). Collabora col quindicinale SegrateOggi dal 2005.
Cesare Sinigaglia


Ballate di vita di morte e d'amore di Fabrizio Manini Edizioni Il Foglio
Prefazione di Gordiano Lupi
Introduzione di Antonella Governi
In copertina disegno originale di Fabio Marangio
Poesia - Silloge

Della produzione poetica di Fabrizio Manini, di notevole pregio (al riguardo prego il lettore di leggersi le mie recensioni a Grigie distese e a Voglio che dio mi mostri il suo volto), fa parte anche un'opera di più ridotte dimensioni, ma sicuramente atipica sia per l'autore che per le produzioni correnti.
La ballata era un tempo molto diffusa e la sua ritmicità permetteva ai cantastorie di cantarla; spesso erano lavori che parlavano di vicende amorose o anche storiche, ma adatti soprattutto ad ascoltatori di poche pretese, quali potevano essere soprattutto i servi della gleba di almeno sette secoli fa.
Ciò non toglie che vi si siano cimentati, con opere di diverso e maggior valore, anche poeti famosi, fra i quali Petrarca e in tempi meno remoti Carducci, Pascoli, D'Annunzio.
In queste composizioni la tecnica è essenziale e quindi occorre non solo conoscere bene la metrica, ma esserne padroni. Infatti i versi sciolti e liberi mal si adattano al ritmo richiesto e soprattutto a quella sorta di ritornello armonico che è sempre presente.
Al riguardo Manini dimostra consapevolezza dei propri mezzi, ricorrendo a quartine a rime pure, talvolta baciate, altre più spesso alternate; tuttavia non si rifa alla tradizione italiana della ballata, cioè alle opere dei citati Petrarca, Carducci, ecc., di carattere più elegiaco, ma ai grandi specialisti francesi, fra i quali spicca quel François Villon, scapestrato e mezzo delinquente, al punto tale che, al di là del valore, è anche noto per la sua vita turbolenta.
Fabrizio Manini ha intitolato queste dodici ballate "Ballate di vita di morte e d'amore", perché in effetti ha inteso tracciare alcuni aspetti caratteristici dell'esistenza, con un occhio però di favore più per la morte che per la vita e per l'amore.
E indubbiamente Villon ha avuto un grande ascendente su di lui, ove si consideri che la fonte ispiratrice sono proprio le opere dell'autore francese.
Non a caso il riferimento è addirittura la famosa Ballade des pendus e anche nella silloge di Manini troviamo La ballata dell'impiccato (…dal cappio pietà/ brunito d'attesa/la tua fune saprà/che il mio culo pesa.).
Poi ci sono altre ballate che hanno tematiche diverse, ma nella maggior parte delle quali è presente la morte.
Del resto, nell'epoca d'oro di questa forma poetica, la morte, vista come figura, era quasi sempre presente, perché in fondo serviva anche a umanizzarla. Questa tendenza smitizzante era ripetuta anche nelle arti figurative, come nelle famose Danze Macabre che affrescavano le pareti di molte chiese con annesso cimitero.
E anche in Manini questa smitizzazione è presente, perché in fondo l'autore sembra volerci dire che la morte è una certezza, mentre la vita non lo è.
Peraltro l'opera ha una sua valenza anche perché prefigura quella che sarà la successiva produzione poetica dell'autore, e non tanto per la forma, quanto per i contenuti.
In particolare si ravvisa quelle tematica esistenziale propria di Grigie distese nella Ballata della noia, successivamente ripresa con alcune modifiche nella silloge testé citata, nonché nella Ballata della solitudine, segno evidente dell'evoluzione artistica e filosofica che l'autore nel tempo va portando avanti.
Del resto i prodromi di Voglio che dio mi mostri il suo volto si riscontrano, sia pure abbozzati, nella Ballata dell'amore e della morte, dove il concetto, che sarà in seguito più ampiamente espresso, qui è delineato in modo diverso, ma è pur sempre presente la contestualità fra l'amore affettivo e quello erotico, il primo rientrante con il pentimento nella raffigurazione divina e il secondo, con l'espiazione nella morte, simbolizzato da una sorta di diavolo salvificatore (…cerco l'oblio/dell'alito nero/ e invoco il mio/ destino e spero…;… baciarti la bocca/ a labbra di seta/ salvezza mi tocca/ in morte discreta…).
E' opera di facile e gradevole lettura, dove la tecnica, come precisato agli inizi, la fa da padrona, ma scorrendo le righe, quartina dopo quartina, se riuscirete a essere partecipi, non potrà non venire in voi il desiderio di canticchiarle, magari immaginandovi di essere su una piazza del '500, contornati da mocciosi che si accapigliano e da gente del popolo, che, estasiata, batte il tempo con i piedi.

L'autore
Fabrizio Manini è collaboratore de Il Foglio Letterario dal 2001. All'interno delle Edizioni Il Foglio è direttore della Collana Autori Contemporanei Poesia e della rivista ebook Carmina. Ha pubblicato anche Briciole d'eternità (Ed. Polistampa, 1997), Voglio che dio mi mostri il suo volto (Ed. Il Foglio, 2003), Grigie distese (Ed. Il Foglio, 2005).
Renzo Montagnoli


Orrori Tropicali Storie di vudù, santeria e palo mayombe di Gordiano Lupi Edizioni Il Foglio
Introduzione di Gianfranco Nerozzi
Copertina, disegni e fumetti di Oscar Celestini
Narrativa - raccolta di racconti

Già leggendo Nero tropicale avevo colto, pur se in forma embrionale, una caratteristica del tutto particolare di Gordiano Lupi e che in questa raccolta di racconti trova piena conferma.
Mi riferisco al fatto che questo autore scrive testi con finalità che vanno oltre i brividi e le tensioni proprie del genere horror, nel senso che tale struttura narrativa è un mezzo per riaffermare la dignità di ogni essere umano di essere liberato da qualsiasi potere, sia esso rappresentato da forze oscure e trascendenti, sia quello che deriva da un governo opprimente e dispotico.
I personaggi diventano quindi un emblema della volontà di riscatto del singolo di fronte a forze più grandi di lui.
Al riguardo Il mistero di Encrucijada, il romanzo breve che fa parte della raccolta, ne è un tipico esempio, dove non è difficile scorgere nella strega, che cerca di tornare in vita sottomettendo psicologicamente una ragazzina quindicenne, un regime che condiziona fin dall'infanzia e che solo con un atto di estremo coraggio di individui che cercano di capire con la loro testa potrà essere sconfitto. Non solo, ma anche il ricorso ad altri poteri costituiti, come nel caso specifico la chiesa cattolica, non può essere una soluzione, perché anche quello religioso è un regime e come tale non può capire ciò che è al di fuori della sua rigida struttura.
Come in Nero Tropicale l'ambientazione e l'atmosfera sono resi in modo esemplare e anche la tensione non è mai spasmodica, come se fatti al di fuori dell'umana comprensione in certi posti possano essere quasi una costante, addirittura un'abitudine.
Chi pensa di trovare un gotico tenebroso, dalle tinte forti, forse rimarrà deluso, ma personalmente preferisco questa versione sudamericana più ariosa, dove all'azione è preferita l'introspezione dei personaggi, con le loro reazioni e le loro angosce che finiscono con il conferire credibilità a vicende di fantasia.
Da solo Il mistero di Encrucijada vale già tutto il libro e, senza togliere nulla agli altri racconti presenti, questo romanzo ha il pregio non comune, pur in presenza di un ritmo blando, di centellinare accortamente fatti e situazioni, tenendo in tal modo sempre vivo l'interesse, e ciò dalla prima all'ultima pagina.
Gli altri brani, più corti, spaziano un po' in tutti i campi dell'horror, e così si va dalla moglie vampira de La pelle bruciata agli zombie di Un terribile rimpianto. Quest'ultimo è un autentico capolavoro, dove sprigiona in tutta la sua evidenza la caratteristica che ho evidenziato sopra, una sorta di parabola che stigmatizza chi si serve del suo potere per schiavizzare gli esseri umani. Credetemi, mai come leggendo questo racconto avvertirete un senso di profonda pietà per i morti viventi.
E per finire c'è Sangue tropicale, testo riuscito e già facente parte di Nero tropicale, ma qui è in versione fumetto, ad opera della capacità creativa e della mano artistica di Oscar Celestini.
Quindi i motivi per leggere questo libro sono tanti, ma ce n'è anche un altro, che ho lasciato per ultimo, ma non è da sottovalutare: il piacere di arrivare all'ultima pagina e il dispiacere che il libro sia terminato.
Renzo Montagnoli

L'autore
Gordiano Lupi (Piombino, 1960). Capo redattore de Il Foglio Letterario e Direttore Editoriale delle Edizioni Il Foglio. Collabora con Mystero e con la Casa Editrice Profondo Rosso di Roma. Pubblica racconti per X Comics, Blue e Underground Press. Scrive soggetti e sceneggiature per fumetti realizzati graficamente dal disegnatore Oscar Celestini (pubblicati su X Comics, Blue e Underground Press). Ha pubblicato: Lettere da Lontano (Tracce, 1998), Il mistero di Incrucijada (Prospettiva, 2000), L’età d’oro (Il Foglio, 2001), Il giustiziere del Malecón (Prospettiva, 2002), Le ultime lettere di Pilvio Tarasconi (Il Foglio, 2002), Per conoscere Aldo Zelli (Il Foglio, 2002). Ha tradotto i romanzi del cubano Alejandro Torreguitart Ruiz: Machi di carta (Stampa Alternativa, 2003), La Marina del mio passato (Nonsoloparole, 2003), Vita da jinetera (Il Foglio, 2005), Cuba particolar – Sesso all’Avana (Stampa Alternativa, 2007). I suoi lavori più recenti sono: Nero Tropicale (Terzo Millennio, 2003), Cuba Magica – conversazioni con un santéro (Mursia, 2003), Cannibal – il cinema selvaggio di Ruggero Deodato (Profondo Rosso, 2003), Un’isola a passo di son - viaggio nel mondo della musica cubana (Bastogi, 2004), Quasi quasi faccio anch’io un corso di scrittura (Stampa Alternativa, 2004), Orrore, erotismo e pornografia secondo Joe D’Amato (Profondo Rosso, 2004), Tomas Milian, il trucido e lo sbirro (Profondo Rosso, 2004), Le dive nude - vol. 1 - il cinema di Gloria Guida e di Edwige Fenech (Profondo Rosso, 2005), Serial Killer italiani (Editoriale Olimpia, 2005), Nemici miei (Stampa Alternativa, 2005), Il cittadino si ribella: il cinema di Enzo G. Castellari - in collaborazione con Fabio Zanello - (Profondo Rosso, 2006), Filmare la morte – Il cinema horror e thriller di Lucio Fulci (Il Foglio, 2006) e Orrori tropicali – storie di vudu, santeria e palo mayombe (Il Foglio, 2006).  Il suo ultimo libro è il saggio Almeno il pane Fidel – Cuba quotidiana (Stampa Alternativa, 2006). Di prossima pubblicazione: Il cinema di Sergio Martino (in collaborazione con Fabio Zanello). Pagine web: www.infol.it/lupi. E-mail per contatti: lupi@infol.it.     Ha preso parte ad alcune trasmissioni TV come Cominciamo bene le storie di Corrado Augias (libro Serial killer italiani), Uno Mattina di Luca Giurato (libro Serial killer italiani), Odeon TV (trasmissione sui Serial killer italiani) e La Commedia all’italiana su Rete Quattro (dove ha parlato di Gloria Guida e di commedia sexy). È stato ospite di alcune trasmissioni radiofoniche per i suoi libri e soprattutto per il saggio su Cuba intitolato Almeno il pane Fidel che sta facendo discutere. I suoi libri sono stati oggetto di numerose recensioni e segnalazioni che si possono leggere al sito ww.infol.it
Renzo Montagnoli


Italiæ Medievalis Historiæ di Autori Vari Edizioni Tabula Fati
Presentazione di Luca Molinini
Introduzione di Fulvia Serpico
Narrativa - antologia di racconti

Il premio letterario Philobiblion è un concorso per racconti brevi e inediti a tema medievale, che l'Associazione Culturale Italia Medievale ha promosso nel 2006 per la prima volta. Il nome attribuito al premio si ispira all'omonima opera del monaco benedettino Riccardo di Bury (1287 - 1345), cancelliere del re Edoardo II.
In questo volume sono raccolti i racconti finalisti, tutti di ottimo livello e in ogni caso di piacevole lettura.
Poiché il loro numero è modesto, essendo in tutto cinque, mi soffermerò su ognuno di loro.
Il pranzo del Dux Mediolani di Loredana Limone, opera che si è classificata al primo posto, è la cronaca esauriente del pranzo tenutosi nel 1395 per l'incoronazione di Giangaleazzo Visconti, il primo duca di Milano. Ho detto cronaca e in effetti si ha l'impressioni di leggere l'articolo di un ipotetico giornalista dell'epoca, un resoconto minuto e dettagliato di cibi, di ambiente, anche di tresche amorose che farebbe la gioia di qualche periodico attuale che si interessa della vita dei vip. E' indubbiamente interessante, ma anche un po' stucchevole e del racconto, come costruzione, ha ben poco.
Vallombrosa, di Vanes Fortini, secondo ex aequo, riesce a mescolare sapientemente il sacro al profano, con una vicenda forse paradossale, ma a cui l'irriverenza dell'autore ha saputo conferire una dignità letteraria non comune.
Il pozzo, di Cristina Sottocorno, pure secondo ex aequo, è una storia di un amore spontaneo che si scontra con la ragion di stato, una tematica abbastanza frequente nella narrativa che si ispira all'epoca medievale; un racconto che, tutto sommato, si lascia leggere, senza che però si scopra qualche cosa di nuovo.
Frate Francesco e Frate Leone, di Mauro Ursino, terzo ex aequo, è un bel racconto, scritto bene e che riesce a restituire quella spiritualità che all'epoca faceva da contraltare alle bassezze, quasi bestiali, dei potenti.
Il viaggio, una metafora della vita, compiuto da Francesco con un confratello ha pagine di profonde riflessioni che non possono lasciare indifferente il lettore.
Il re del nulla, di Fiorella Borin, pure terzo ex aequo, è un racconto stupendo, sia per trama che per costruzione della struttura. Anche in questo caso c'è un viaggio, vero, e metafora però anche della caducità del potere.
Renzo Montagnoli

Gli autori
Loredana Limone ha pubblicato la raccolta di fiabe Il Trenino Arlecchino e altre storie (Edizioni Associate), la fiaba Il Pesciolino Eolo (Coop. La Mongolfiera) per la divulgazione di un progetto di affido e due libri letterario-gastronomici dal titolo La cucina del Paese di Cuccagna (Il Leone Verde Edizioni) e Mangiare in Cascina (Atesa Editrice, con prefazione di Davide Paolini). Ha ricevuto diversi premi per la poesia, la narrativa e la drammaturgia; il suo testo teatrale Mosaici d’Amore è stato messo in scena a Milano e Reggio Emilia. È guida di letteratura gastronomica per il portale superEva, conduce il laboratorio di scrittura creativa gastronomica “Sapori letterari” e ha uno spazio radiofonico di recensioni librarie su Circuito Marconi.

Vanes Ferlini, quarantadue anni, abita a Imola e lavora a Bologna presso la Banca Nazionale del Lavoro. Ha compiuto studi tecnici e più tardi ha sviluppato l’interesse per la letteratura, iniziando a scrivere poesia per poi proseguire con la narrativa. Nel marzo 2004 ha pubblicato la breve raccolta di poesie Il poeta nudo (Montedit, Melegnano), risultata finalista al Premio Il portone (luglio 2004) e al Premio Emma Piantanida (aprile 2005). Nell’aprile 2006 ha pubblicato il volume D’oltresogno. Raccolta di novelle per ragazzi e per adulti sempre ragazzi (Montedit, Melegnano), 3° classificato nella Sezione narrativa per ragazzi alla 9a edizione del Premio “Firenze Capitale d’Europa” (Palazzo Vecchio, 16 dicembre 2006). Ha vinto inoltre numerosi concorsi per la poesia e la narrativa inedite.

Cristina Sottocorno è nata il 19 maggio del 1977 a Monza. Dopo il diploma in lingue, consegue la laurea in Relazioni pubbliche presso lo IULM di Milano con una tesi sulla Comunicazione delle Istituzioni Museali in rete. Grazie a due borse di studio, ha occasione di frequentare un master al prestigioso Istituto Europeo del Design di Milano e successivamente di fare un’esperienza lavorativa presso il Presidio Ospedaliero di Desio. Attualmente vive a Lissone, con il compagno e il loro viziatissimo jack russell Ares, e si destreggia fra il lavoro a tempo pieno per l’Assessorato all’Educazione di Monza e la sua inguaribile passione per la scrittura, la storia, le arti figurative e tutto ciò che riguarda l’umana conoscenza. Il racconto Anima sfregiata è stato selezionato nell’ambito del Concorso Racconti Metropolitani indetto da “Metro” (quotidiano gratuito a distribuzione nazionale) e l’Università Popolare di Roma (UPTER) e pubblicato nell’antologia Tropico d’asfalto e altri racconti (EDUP, Roma 2006).

Mauro Ursino è nato a Bologna nel 1958. È laureato in Ingegneria elettronica ed ha conseguito il dottorato di ricerca in Bioingegneria. È professore ordinario di Bioingegneria Elettronica e Informatica presso l’Università di Bologna, dove si occupa dello sviluppo di modelli matematici di sistemi fisiologici complessi. Insegna Elaborazione di dati e segnali biomedici e Sistemi intelligenti naturali e artificiali. I suoi studi recenti riguardano l’applicazione dei modelli matematici alle neuroscienze e ai processi cognitivi. Ha pubblicato quasi duecentocinquanta lavori scientifici, di cui oltre cento su quotate riviste internazionali. Nel 1991 gli è stato conferito il Premio Marotta dall’Accademia Nazionale delle Scienze. Coltiva da diversi anni la passione per la letteratura. Con il racconto Frate Francesco e Frate Leone si propone per la prima volta ai lettori.

Fiorella Borin, nata a Venezia nel 1955, è laureata in psicologia. Si è dedicata per qualche anno all’insegnamento di Scienze umane e Storia negli istituti superiori. Ha collaborato con l’Università di Padova e, in seguito, ha maturato qualche esperienza in seno a piccole case editrici. Da una quindicina d’anni si dedica con passione allo studio della storia di Venezia. Oltre duecento suoi piccoli lavori di narrativa, poesia e saggistica sono presenti in antologie e riviste. Ha pubblicato la raccolta di novelle La donna velata e altre storie (Firenze 1991), il romanzo breve Le putine del Canal Gorzone (Milano 2002), la raccolta di racconti La Signora del Tempio Nascosto (Bologna 2003), il racconto storico-fantastico Il bosco dell’unicorno (Tabula fati, Chieti 2004), e i due brevi romanzi storici Mir i dobro (Milano 2005) e La sciarpa azzurra (Perugia 2005) ambientati nella Venezia sfarzosa e beffarda del Cinquecento. Ha conseguito una novantina di primi premi in concorsi letterari nazionali e internazionali.
Renzo Montagnoli


Voglio che dio mi mostri il suo volto di Fabrizio Manini Edizioni Il Foglio
Prefazione di Taylor Grant Hauwkes
Introduzione di Alberto Peruzzi

E' difficile scrivere un commento critico di un testo di così elevata portata, ma anche per sua natura estremamente complesso, perché sinceramente parlare di entità supreme al di fuori dei canoni dogmatici istituiti dagli uomini di chiesa può apparire, oltre che profano, anche eretico.
Del resto quando un uomo rivendica una propria autonoma interpretazione di qualsiasi cosa di questo mondo finisce inevitabilmente per essere bollato con l'infamia propria di chi non vuol far parte delle regole rigide di un ordine costituito.
Ritengo, però, opportuno chiarire subito un concetto, sgombrando così quel dubbio che si potrebbe insinuare in un credente leggendo le prime poesie: l'autore non ha inteso innalzare un ode all'ateismo, anzi il poeta, per quel modo di vedere e di sentire del tutto autonomo, intende rivendicare una propria specifica visione della spiritualità.
In questo contesto, invece, emerge un evidente anticlericalismo, rivolto non tanto alla Chiesa, ma agli uomini della chiesa, nel senso che l'istituzione in sé non è criticabile, mentre altra cosa è il comportamento di chi la rappresenta.
Del resto, il rivendicare una propria religiosità individuale, al di fuori degli schemi rigidi creati da chi rappresenta la chiesa, se da un lato costituisce un'eresia, dall'altro realizza quell'identità spirituale fra uomo e divinità che è propria di una religione monoteista volta ad essere compresa dall'animo di ogni individuo.
La visione di Fabrizio Manini si attua attraverso un'evoluzione che dapprima porta a considerare Dio e il Diavolo due facce della stessa medaglia, ma poi finisce con il considerarli elementi che non riescono a trovare una collocazione logica nella mente umana proprio perché non è possibile dimostrare la loro esistenza.
A questo punto sembrerebbe scattare l'ipotesi di un testo ateo, ma subito viene fugata da un raziocinio che riesce a individuare come ragion d'essere l'Amore, in ambo i suoi significati, cioè quello puramente affettivo e quello erotico. Anche in questo caso sono due facce della stessa medaglia; però se il primo è l'amore di Dio e il secondo è quello del Diavolo, la visione percepibile concretamente dalla mente umana non è la contrapposizione a cui ci ha abituato la rigida e, per molti versi, illogica morale cattolica, ma la loro contemporanea presenza, una perfetta unione in mancanza della quale non può sussistere un concetto di vita salvifico.
Quindi, più che per lo stile, peraltro assai funzionale e piacevole, questa silloge assume una valenza per il concetto espresso, tanto da pensare che un filosofo si sia dilettato a esporre il suo pensiero con la poesia.
Il titolo della silloge, oltre che essere tratto da due versi di una delle liriche (MIODIO), riassume bene il significato di libertà di interpretazione, di dialogo muto fra uomo e spirito che solo può portare a una concezione religiosa in funzione dell'individuo che la vive, quindi lungi da dogmatismi, frutto di imposizioni di altri uomini.
A mio avviso, questa è un opera che conferma il talento di questo autore, capace di rendere in poesia concetti filosofici di notevole profondità.
Renzo Montagnoli

L'autore
Fabrizio Manini è collaboratore de Il Foglio Letterario dal 2001. All'interno delle Edizioni Il Foglio è direttore della Collana Autori Contemporanei Poesia e della rivista ebook Carmina. Ha pubblicato anche Briciole d'eternità (Ed. Polistampa, 1997), Ballate di vita di morte e d'amore (Ed. Il Foglio, 2002), Grigie distese (Ed. Il Foglio, 2005).
Renzo Montagnoli


I misteri delle soffitte di Carolina Invernizio Edizioni Il Foglio
Introduzione di Gordiano Lupi
Copertina di Elena Migliorini

Che cosa mi abbia indotto a leggere questo romanzo scritto da una prolifica autrice, vissuta nella seconda metà dell'ottocento e nei primi cinque lustri del millenovecento, mi è del tutto sconosciuto.
Non potrei nemmeno definirla curiosità, perché già in età giovanile avevo letto qualche cosa scritto da lei, non ritraendone tuttavia particolare piacere.
Eppure, la tentazione di mettere gli occhi in qualche cosa un po' al di fuori della norma è stata forte, così che sono stato indotto ad acquistare il volume.
Premetto che ci troviamo nell'ambito del cosiddetto romanzo d'appendice o anche con il termine più spregiativo di feuilleton, cioè una scrittura semplice, facilmente comprensibile soprattutto da parte della gente meno istruita, con trame molto arzigogolate, dove fioriscono tradimenti, dove il buono di turno è continuamente vilipeso, anche se il finale gli riserva sempre un riscatto.
Se volessimo fare un paragone a un genere attuale, che trova la sua forma espressiva però nel mezzo televisivo, è come la fiction, ma con una differenza essenziale: il feuilleton ha sempre intenti educativi, mentre l'altra è spesso totalmente priva di morale.
Per dirla in breve, culturalmente è meglio il romanzo d'appendice, cosa tanto più preoccupante se si considera che gli amanti della fiction hanno un grado d'istruzione ben superiore a quelli dell'epoca d'oro del feuilleton.
In questo volume di Carolina Invernizio è presente una struttura da giallo che, tuttavia, non è la finalità per cui è stato scritto, ma è solo il supporto per imbastire intorno una storia a tinte fosche di dolci dame tradite, di operaie belle come il sole, di giovani sinceri ed onesti, di un conte che è la malvagità in persona, tutte caratteristiche proprie del genere.
Lì uno se è buono lo è fino a diventare stupido e un altro se è cattivo è peggio del diavolo.
Sono personaggi al di fuori della realtà, dove invece è sempre presente in ognuno l'aspetto positivo accompagnato tuttavia, in grado più o meno accentuato, da quello negativo.
In verità questi stereotipi semplificano molto la comprensione del testo da parte di lettori spesso occasionali, di modestissima istruzione e di ceto sociale remissivo.
Un altro aspetto, poi, da tenere in considerazione è lo stile, dove l'eloquenza predomina non solo per bocca di nobili o dottori, ma anche di servette e di modesti operai.
In effetti, non sono a parlare i personaggi, ma l'autrice stessa, di cui si avverte continuamente la presenza con giudizi e consigli esposti per il tramite dei soggetti da lei creati.
Tuttavia, l'aspetto più significativo è che l'interesse alla lettura rimane inalterato, pagina dopo pagina, perché la Invernizio è capace di creare continue aspettative che inducono il lettore odierno, più smaliziato, a soprassedere a certe manchevolezze, quali l'impressione che i protagonisti stiano recitando, insomma che siano loro stessi attori di una trama preconfezionata.
E così, nonostante la lunghezza e una sempre presente verbosità, si giunge al termine, forse non appagati culturalmente, ma comunque consapevoli di aver trascorso qualche ora in modo gradevole senza aver affaticato la mente.
E' una sorta di archeologia della letteratura, una scoperta, in fin dei conti, di una narrativa minore che, tuttavia, non mi sembra inferiore a certi romanzi che oggi hanno successo, pur non avendo nemmeno il merito di interessare il lettore.
Renzo Montagnoli

L'autore
Carolina Invernizio (Voghera 1851 - Cuneo, 27 novembre 1916).
Scrisse per anni romanzi di appendice per La Gazzetta di Torino e poi per l'Editore Salani, che le pubblicò la bellezza di 123 libri.
Ebbe grande successo fra i lettori dell'epoca, ma assai meno fra i critici che, soprattutto, mal sopportavano lo sfondo gotico delle sue trame.
Renzo Montagnoli


Piuma leggera di Mara Faggioli Masso delle Fate Edizioni
Saggio introduttivo di Vittorio Vettori
In copertina "Ritratto di Marco" di Mara Faggioli
Poesia - raccolta

Fiorino d'oro alla XXII Edizione del Premio Firenze.
Vincitore del Premio Città di Vienna.

Questa raccolta di poesie di Mara Faggioli, frutto di una poliedricità di aspetti, potrebbe essere riassunta, dopo lettura, in due semplici parole: soave semplicità.
La sintesi mi sembra quanto mai corretta nel caso specifico, ma quali sono gli elementi che hanno portato a identificare un lavoro di elevato impegno intellettuale con una terminologia così breve?
Lungi dal sentirmi influenzato dal saggio introduttivo di Vittorio Vettori, per quanto ben scritto, ma poco esplicativo dell'opera dell'autrice, ho proceduto soffermandomi su quei versi che più di altri hanno acceso in me sensazioni, a volte contrastanti, ma sempre pacate.
E così è possibile notare come l'autrice ripercorra sentimenti e ricordi come un sogno che riaffiora dalle brume del passato a rammentare, nella frenesia dell'oggi, la serenità di momenti vissuti molto tempo indietro, ma la cui percezione sensoria è rimasta inalterata, se pur latente, e che all'improvviso rivive in pochi semplici versi.

Antica terra

Antica terra
dove il passo leggero
ha lasciato segni profondi
se con gli occhi
ti abbraccio
ancor posso udire
il tuo lieve respiro.


Oppure:

Nessuno
potrà rubarmi
i sogni:
seduti sulle nuvole
se ne stanno
in attesa
di slanciarsi
in volo.


O anche:

Come in autunno,
gli alberi
esausti e stanchi
lascian cadere le foglie
e quasi con sollievo
le regalano al vento,
così, forse,
anche l'uomo,
dalla sua vita
si separa
senza rimpianto
né dolore.


Sono emozioni, sentimenti che traboccano e mediati dal sogno si stemperano, con una leggiadria che è propria della soavità.
Per quanto, poi, le poesie siano caratterizzate spesso da una molteplicità di interpretazioni, queste hanno invece una linearità, una semplicità che, pur non precludendo ad ognuno una lettura con considerazioni non unanimi, presentano però una indiscutibile traslazione in versi dell'intima natura dell'autrice, un vero e proprio specchio dell'anima in cui è piacevole soffermarsi con lo sguardo.
Renzo Montagnoli

L'autore
Mara Faggioli, poetessa, scrittrice, scultrice
Nata a Firenze il 3 giugno 1950, risiede da oltre venti anni a Scandicci (FI).
Divide il suo tempo e la sua sensibilità artistica fra scultura e letteratura. Le sue opere riescono a coinvolgere con incisività e nello stesso tempo con delicatezza e soavità di espressione, toccando spesso temi che fanno riferimento ai valori multiculturali, alla solidarietà ed alla fratellanza fra i popoli per affermare che l'arte deve saper parlare al cuore della gente.

Nel 2001 ha pubblicato "Dedicato a Lorenzo"- Ed. Helicon e nel 2004 la raccolta poetica "Piuma Leggera"- Ed. Masso delle Fate, con saggio introduttivo di Vittorio Vettori, vincitrice del prestigioso
1° premio "Fiorino d'Oro" al Premio Firenze-Europa e del Premio "Città di Vienna". (1^ ristampa 2005).
Parte dei proventi della vendita del libro sono devoluti ai Padri Missionari Comboniani per l'Ospedale St.Mary's Maternity di Khartoum in Sudan che si occupa di assistenza alle madri ed ai bambini.
Fa parte della giuria del Premio Letterario di Poesia "E. Mazzinghi"
Ha curato la prefazione alla commedia in vernacolo "Amleto i' vinaio" di M. Recchia.
Collabora con la rivista d'Arte "Pegaso".
Ha partecipato al progetto di "Educazione alla lettura ed alla poesia" con gli studenti della scuola media.
Il Comitato del Premio Titano della Repubblica di S. Marino con il patrocinio dell'Interreligious and International Federation for Word Peace le ha conferito il titolo di "Promotore di una cultura di pace".
E' impegnata in attività no-profit in ambito culturale e sociale.
E' stata inserita dalla Commissione Nazionale dell'UNESCO nel sito web della "Babele Poetica" in occasione della giornata mondiale della poesia 2003 e 2004.
Sue poesie sono state tradotte in rumeno, greco, russo, polacco, inglese, francese e pubblicate in Romania nella rivista d'arte Lamura.
Targhe alla carriera conferite dall'Accademia Culturale Le Tre Castella della Repubblica di S.Marino e dal Circolo Culturale e Poetico "Mario Luzi" di Boccheggiano (GR).
Ha fatto parte della Delegazione del Centro d'Arte Modigliani partecipando all'VIII Mostra d'Arte contemporanea italo-franco-russa a Pantin (Parigi) sia come scultrice che come poetessa nell'ambito della manifestazione letteraria.
E' Membro permanente dell'Accademia Culturale Le Tre Castella della Repubblica di San Marino.
E' inserita nel "Dizionario degli Autori Italiani del Secondo Novecento", "Letteratura Italiana - Poesia e narrativa dal Secondo Novecento ad oggi"; "Donne in Arte"; "Atlante Letterario Italiano"; "Arte e Pensiero "; "Canzoniere d'amore"; "Le donne: la storia, le storie" realizzato da Auser Coop; "Poesia e Musica"; "Poeti e Poesie della Toscana"; "Scrivere" ed in varie antologie e riviste letterarie e d'arte.
Si è classificata al 1° posto a numerosi concorsi letterari nazionali e internazionali ed è stata premiata presso la sede del Parlamento Europeo di Bruxelles per il "Grand Prix de Poésie".
Ha ricevuto la "Colomba d'argento" ad Assisi per il Concorso "In volo per la pace".
Come scultrice ha partecipato a mostre personali e collettive in Italia ed all'estero.
Di particolare rilievo internazionale la Mostra itinerante del Comitato Promotore della Pietra Lavorata del Comune di Castel S.Niccolò "Omaggio a Francesco" allestita nella Cripta della Basilica di S.Croce a Firenze, nella Chiesa delle Stimmate a Roma, nella Basilica Superiore di S.Francesco ad Assisi, nella Basilica di S.Francesco ad Arezzo, al Santuario della Verna, al Palazzo Chigi di S.Quirico d'Orcia, alla Basilica di S. Francesco a Pisa, alla Chiesa di S.Andrea a Montevarchi.
Una sua opera di scultura è stata scelta per la copertina del libro di poesie "Adiacenze e lontananze" di Ninny Di Stefano Busà, Presidente per la Lombardia dell'Unione Italiana Scrittori.
Sue sculture si trovano in collezioni private in Italia, Germania e Canada ed in permanenza presso i Comuni di Firenze, Montelupo F.no, Castel S.Niccolò e Greve in Chianti.
Renzo Montagnoli


Soggettiva di Aristide Bellacicco Prospettiva Editrice
Narrativa - raccolta di racconti

Sull'ultima di copertina c'è scritto che i racconti di questa raccolta sono il frutto di un lavoro durato circa due anni, ore sottratte al riposo dopo la fatica del giorno, magari strappate anche al sonno.
Quanto sopra per evidenziare che il desiderio di concretizzare le proprie idee, di dare sfogo alla creatività è quasi sempre un bisogno impellente, una sorta di vocazione che non tiene conto necessariamente dello sbocco commerciale, ma che riflette uno stato d'animo teso a comunicare sensazioni ed emozioni.
Io conoscevo già Aristide Bellacicco come narratore prima della pubblicazione di questo volume che, detto per inciso, premia un autore con caratteristiche sue peculiari un po' al di fuori della norma.
Tanto per dare un'idea, assai di frequente i suoi racconti non terminano con un vero e proprio finale, ma lasciano una sospensione che induce il lettore a immaginare come si sarebbe conclusa la storia, una libertà di interpretazione che rende ancor più interessante ogni prosa.
Il volume consta di 19 racconti, assai eterogenei come trama e anche come genere, pur se definirli dei mainstream è forse un po' troppo approssimativo.
Certo, l'impronta di quasi tutti è realistica, ma Bellacicco si concede anche qualche apertura al noir e perfino al fantastico.
L'autore, partendo da situazioni concrete, si dimostra un acuto osservatore del mondo nelle sue inevitabili piccolezze e ha il merito, e anche la capacità, di non voler imporre il suo punto vista, lasciando però trasparire fra le righe una vena di sottile ironia, una sorta di compiacimento che sembra voler significare che la vita è così, con i suoi alti bassi, con pregi e difetti, ma che in ogni caso è meglio del non esserci.
Proprio per questo motivo e per lo stile non appesantito da inutili fronzoli ed orpelli è una scrittura che non può non riuscire gradevole al lettore, anche perché non gli impone sforzi di elucubrazioni mentali per arrivare a comprendere, e quindi questo volume mi sembra particolarmente adatto per passare qualche ora in completo relax, magari distesi su una spiaggia, sotto l'ombrellone.
Renzo Montagnoli

L'autore
Aristide Bellacicco nasce a Roma nel 1955. Svolge l'attività di medico e scrive nel tempo libero. Ama la musica barocca, i quartetti d'archi di Beethoven e il blues, soprattutto quello tradizionale.
Flaubert, Kafka, Dostoevskij e, fra i moderni, Raymond Carver e Cormac Mc Carthy sono fra i suoi autori prediletti, ma, sopra tutti, ama i tragici greci.
Ha un grande trasporto per il cinema, in particolare il neorealismo, gli americani di qualità (Altman, Scorsese, M. Cimino, De Palma ecc.) e Takeshi Kitano.
Soggettiva è la sua prima pubblicazione.
Renzo Montagnoli


Non ti dimentico di Carmen Fasolo Edizioni Il Foglio
Prefazione di Saverio Vasta
Introduzione, immagine di copertina e fotografie di Carlo Riggi

Non ti dimentico.

Tu sei tutto per me,
le mie scarpe e le mille strade
che percorrerò.

Anche quelle che
Non ci faranno incontrare mai.

Il tormento di un amore finito è la fonte di ispirazione delle 30 poesie che costituiscono questa silloge, il cui titolo è fornito dalla lirica di cui sopra e che ben rappresenta il particolare stato d’animo dell’autrice, quella sorta di malinconico furore che si accompagna sempre al termine di una relazione.

E’ quel periodo in cui ci si contorce perché in fondo si ama ancora, è quel lasso di tempo in cui, ben consci che tutto è finito, non si vuole accettare la situazione.
Si potrà obiettare che è cosa normalissima ed è anche vero, ma è doveroso sottolineare come Carmen Fasolo sia riuscita a veicolare le sensazioni, le emozioni anche violente, in poesie di grande impatto e di pregevole stile.
Aggiungo che l’idea di inserire ogni tanto le splendide e pertinenti fotografie in bianco/nero di Carlo Riggi, oltre a dare respiro alla lettura, presenta l’indubbio vantaggio di materializzare i sentimenti espressi dai testi poetici.
E’ un felice connubio questo fra lettere e fotografie, che apporta un ulteriore motivo di pregio a un’opera di per sé assai valida.
Il percorso di presa di coscienza dell’evento segue un perfetto ordine logico, dipanandosi fra le nebbie di sentimenti che appartengono già al filo della memoria, nella ricerca di un valido motivo per accettare la realtà (hai acceso il tuo silenzio/e hai chiuso gli occhi,/mentre me ne andavo/senza fare altro rumore).
Piace, inoltre, rilevare la semplicità stilistica, il fluire breve delle parole che offre un’immediatezza di coinvolgimento tale da rammaricarsi di essere arrivati all’ultimo verso.
Renzo Montagnoli

L'autore
Carmen Fasolo nasce nel 1978 a Barcellona Pozzo di Gotto (ME), dove prevalentemente vive.
E’ docente di Psicologia e Informatica.
Si occupa anche di CyberPsicologia.
Ha fondato e dirige il giornale telematico http://www.barcellonapg.it/ e la rivista culturale Zoom. Collabora anche con altre testate giornalistiche.
Ha già pubblicato Verso un punto che non vedo (2005).
Blog: http://nontidimentico.splinder.com/
Renzo Montagnoli


Cuba particular Sesso all'Avana di Alejandro Torreguitart Ruiz Edizioni Stampa Alternativa
Traduzione di Gordiano Lupi
Narrativa - romanzo

Di Alejandro Torreguitart Ruiz, giovane autore cubano, avevo già letto il racconto lungo La marina del mio passato, che mi aveva impressionato favorevolmente per la capacità di creare un'atmosfera di malinconica esistenza con un esplicita riaffermazione della libertà individuale contro ogni imposizione del regime.
Là era una narrazione dove l'elemento centrale era un vecchio rassegnato che trovava rifugio solo nel suo mare, con pagine finali di intensa commozione e di un lirismo che forse per questo l'ha fatto accostare al ben più noto Il vecchio e il mare di Hemingway.
Con Cuba Particular Ruiz cambia completamente registro, fornendoci una cronaca nuda e cruda della realtà del suo paese, una sorta di verismo che non può lasciare indifferente il lettore.
Le case particular, a Cuba, sono quelle autorizzate dal governo a ospitare turisti stranieri e quella di Isabel, ex comunista che ha perso ogni fiducia in ciò che credeva, è ancora più particular, perché la vecchia villa di calle veintitrés è una sorta di alcova, dove vanno e vengono personaggi di varia natura, ma tutti legati da un unico scopo: fare sesso.
C'è così un ampio campionario di turisti, ben delineati nelle loro caratteristiche, che si alternano a occupare le stanze della casa.
L'occhio di Torreguitart ce li descrive anche impietosamente, nella loro veste di colonizzatori del sesso, ma non c'è mai disprezzo e solo fra le righe si può intuire un certo sdegno per chi in fondo non è capace di amare.
Su un livello diverso si trovano le occasionali, o anche fisse, compagne di questi uomini; sono ragazze cubane costrette dalla necessità a vendersi, con la speranza per qualcuna di arrivare anche a sposarsi, per lasciare quel mondo di giorni sempre uguali, dove incontrastata domina la rassegnazione.
Come nelle telenovela nascono rapporti, sbocciano speranze, crescono illusioni, crollano certezze, e poi tutto ricomincia, in un'atmosfera in cui i sentimenti veri, quando ci sono, vengono impietosamente mortificati da paure per il passo che si vuol compiere, da quel desiderio inconscio di preferire il pressoché certo niente a un futuro forse migliore, ma più spesso brumoso.
Isabel, la proprietaria, osserva, consiglia, organizza come una regista e finisce con il diventare il fulcro di tutto il romanzo, la voce fuori campo che commenta.
Sua è la frase "Questo ha prodotto la rivoluzione. Ai tempi di Batista Cuba era il casino degli americani. Adesso è il casino del mondo.", suoi sono certi atteggiamenti e giudizi come il fatto che solo lei possa criticare il regime, perché presente e perché ha creduto a una rivoluzione che nel tempo si è tramutata in una dittatura da caudillo sudamericano.
Torreguitart ha un occhio di riguardo per questa donna che ha vissuto gli anni pieni di speranza del regime castrista e che ora si limita a gestire la casa particular, per sopravvivere, anche se lei, a differenza delle ragazze che la frequentano, nate dopo, può contare sul ricordo di un ideale, pur se tradito, e questo le permette di vivere, in uno con l'amore, non interessato, per il suo compagno Paco.
Per chi è venuto al mondo nel periodo speciale, quello della ristrettezza economica, non c'è memoria di un passato, ogni giorno si apre solo con la certezza che nulla cambierà e che se si vuol sopravvivere bisogna gettare in fondo al pozzo la propria dignità di essere umano.
In fin dei conti, il romanzo di Torreguitart, pur nel suo drammatico realismo, finisce con il diventare un omaggio alla rivoluzione cubana, ai suoi ideali, che nel tempo un regime dispotico, lontano dai suoi stessi cittadini, ha per primo tradito.
Renzo Montagnoli

L'autore
Alejandro Torreguitart Ruiz (L’Avana, 1979) scrive poesie e racconti per la rivista El Barrio, è poeta repentista e cantautore. Suona in un gruppo rock chiamato Esperanza. Ha esordito in Italia con il romanzo breve Machi di carta - confessioni di un omosessuale (Stampa Alternativa, 2003) che ha avuto un buon successo di critica e di pubblico. A gennaio 2004 ha pubblicato il romanzo breve La Marina del mio passato (Edizioni Nonsoloparole - Napoli) e a maggio 2005 il romanzo di ampio respiro Vita da jinetera (Il Foglio - Piombino) sul mondo della prostituzione. Alcuni suoi racconti di impronta politico-esistenziale sono stati pubblicati da quotidiani e riviste. Tra questi: Il Tirreno, Il Messaggero, La Comune, Container, Progetto Babele, Il Filo, L’Ostile, Happy Boys. Gordiano Lupi è il traduttore e il titolare per lo sfruttamento dei diritti sulle sue opere in Italia e per l’Europa.
Renzo Montagnoli


Grigie distese di Fabrizio Manini Edizioni Il Foglio
Introduzione di Taylor Grant Hawkes
Copertina di Elena Migliorini

Non so se succede anche a voi, ma a me capita sempre così.
Prendo in mano una silloge e comincio a leggere; all’inizio trovo sempre un po’ di difficoltà, una sorta di atteggiamento di cauto approccio che, per fortuna, viene superato con un semplice ragionamento, che consiste poi in un atto di umiltà, quasi una sottomissione al messaggio del poeta di turno.
Per comprendere e apprezzare la poesia si deve necessariamente avere la massima disponibilità ad ascoltare quanto l’autore ci dice.
La stessa cosa è accaduta con Grigie distese e, lirica dopo lirica (in totale sono 101), sono arrivato alla fine con la piena consapevolezza di aver letto un’opera di notevole gradimento. Di norma, in questi casi, esce spontaneo un aggettivo, che può essere bella, magnifica, stupenda, ma che in questo caso è stato il frutto di un nuovo conio, e così mi è sfuggito dalle labbra un’intensa, quasi a voler qualificare, più che la soddisfazione, l’intera sua costruzione. Preciso che intensa è stato il primo della serie, perché poi è seguito un mirabile e infine un realistica.
Subito dopo, scatta l’inevitabile domanda: perché?
Questa volta, complice il caldo afoso, che rallenta i riflessi e impigrisce la mente, prima di rispondere con le mie considerazioni a questo quesito di rito, quasi inavvertitamente ho incautamente letto, cosa che invece di solito faccio solo dopo aver scritto la recensione, l’introduzione di Taylor Grant Hawkes, poeta e saggista americano.
Ebbene, queste poche righe sono state scritte in modo talmente esauriente che ho finito con il pormi  un’altra domanda: che scriverò ora?
Per farla breve, ho deciso, nella circostanza, di mutare completamente il mio modus operandi e dopo questa premessa, forse un po’ lunga, anche barbosa, ma a mio avviso indispensabile, di seguito potrete leggere la mia recensione.
La noia, non quella che ci prende ogni tanto, quando siamo insoddisfatti temporaneamente della nostra esistenza, è alla base di questa silloge.
E’ una noia che trova origine in un contesto esistenziale:

 Anche oggi/chiude gli occhi/chi non trova posto/nel tacito patto/di esistenza/fra il milite ignoto/e la trincea del nulla.  (NOIA I).

Del resto già il titolo dell’intera raccolta è di per sé esplicativo. Fra tutti i colori quello più opprimente è il grigio, un colore non colore, una massa uniforme che ci isola dagli altri e che separa noi dalla realtà, come una nebbia persistente. Se poi aggiungiamo una distesa di questo colore, possiamo comprendere come l’isolamento sia totale, come profondo e insanabile sia il senso di solitudine di chi riesce a vedere oltre le immagini, a differenza di chi opera sulle apparenze.
E’ un rifiuto insanabile di fare parte di qualche cosa in cui non si crede, è una lenta presa di coscienza di ciò che si è, di quello che non si è e di nient’altro.

 A un eroe inutile/è concessa solo/ la forza di odiare/i giorni che si ripetono (da Noia LXXXIII).

In un trauma interno, in un conflitto fra la comprensione del proprio stato e il ripudio della possibilità di essere parte del mondo omologandosi, scaturisce un’ emozione catartica quale l’odio.
E’ il passo indispensabile nell’enfasi cosciente della sensazione, ossessiva, del tempo che scorre per giungere a un lucido stato di pazzia,  con cui si finisce con l’accettare quel destino, quel fardello che altri portano senza sapere.
La silloge termina con una lirica stupenda, un omaggio di un essere rassegnato alla nemica, ma in fondo amica, perché propria del suo sentire: sempre, eternamente la noia.
E così, con la Ballata della noia, si conclude un’opera non solo di elevato livello stilistico, ma di pregnante, rilevante analisi psico-filosofica, dove le risultanze dell’introspezione diventano una visione più generale della vita, di quello che gli altri sono incapaci di avvertire.
Renzo Montagnoli

L'autore
Fabrizio Manini
è collaboratore de Il Foglio Letterario dal 2001. All’interno delle Edizioni Il Foglio è direttore della Collana Autori Contemporanei Poesia e della rivista ebook Carmina. Ha pubblicato anche Briciole d’eternità (Ed. Polistampa, 1997), Ballate di vita di morte e d’amore (Ed. Il Foglio, 2002), Voglio che dio mi mostri il suo volto (Ed. Il Foglio, 2004). È prossimo alla discussione della tesi per la laurea magistrale in psicologia.
Renzo Montagnoli


I sorrisi del pensiero di Silvano Notari Libreria Editrice Urso
Introduzione di Giuseppina Rossetto
In copertina: acquerello di Livia Corradi
Poesia - raccolta

Silvano Notari ama definire Sorrisi del pensiero le poesie, tanto che ne ha scritta una dove ne parla, e anche molte altre, fra le quali quelle che fanno parte di questa raccolta, caratterizzata da diverse tematiche.
Si passa così dalla natura all'analisi del proprio io, all'amore e anche l'indignazione per come vanno le cose nel mondo.
Poiché è evidente che la nostra infanzia e l'ambiente che ci circonda riverberano su di noi, Silvano non si smentisce e quella sua origine contadina si ritrova anche nel ritmo pacato delle liriche, che sembrano seguire il corso naturale delle stagioni; anche quando, poi, si hanno improvvise accelerazioni, motivate dallo sdegno, le stesse si riconducono poi a un'osservazione non esplicitata, ma sottintesa: tutto passa, gli uomini scompaiono, i fatti entrano nei ricordi, ove lentamente sbiadiscono, mentre la terra resta, sempre.
Questo legame, proprio di una civiltà contadina, è forte e vivo nell'animo del poeta e addirittura prorompe in alcune poesie, dove la natura non è impersonale, ma addirittura un soggetto con cui dialogare, l'amico fidato, sincero, mai subdolo, con cui confidarsi.
Sono forse, queste, le liriche migliori della raccolta, dove la spontaneità riviene proprio dal sentirsi parte di un mondo scremato dagli uomini.
Aggiungo che Silvano Notari, con quella caparbietà e tenacia contadina, ricerca continuamente in se stesso, per donarcele, quelle emozioni che in lui sono da tempo presenti al punto di essere ormai parte della memoria.
Per quanto un testo poetico si possa spesso prestare a diverse interpretazioni, quelli presenti in questa raccolta sono lineari nella rappresentazione del messaggio, una semplicità che, nel caso specifico, è un valore, sommando la freschezza a una spontaneità che li rende di gradevolissima lettura.
Renzo Montagnoli

L'autore
Silvano Notari nasce il 15 luglio 1950 in una casa colonica di Monteveglio (BO).
Figlio unico, di famiglia contadina, è cresciuto a contatto con la natura e la vita semplice dei campi e dei boschi che conserva ancora nel cuore e ispira il suo pensiero poetico.
Dopo 38 anni di lavoro (ha iniziato giovanissimo), oggi si gode gli anni della pensione dedicandosi alle sue due passioni: la poesia e il teatro.
E' socio assiduo del Laboratorio di Poesia del Circolo La Fattoria di Bologna.
Ha già pubblicato Poesie. Una vita di poesie…le poesie di una vita (SPP, 2004).
Renzo Montagnoli


Il vizio oscuro dell'Occidente. Manifesto dell'Antimodernità di Massimo Fini Marsilio Editori
Saggio storico filosofico

La lettura dei saggi storico filosofici di Massimo Fini è quanto di più facile ci possa essere: nessuna elucubrazione complicata, nessun contorsionismo, ma una scrittura chiara e per certi versi semplice.
In lui si apprezza una coerenza invidiabile che si manifesta in ogni libro, con il perseguimento di un obiettivo, con la sempre più ampia esplicitazione di una teoria che parte da dati di fatto incontrovertibili e che giunge a indicare una soluzione su cui molti non potranno essere d'accordo, ma che di fatto è l'unica possibile.
L'industrialismo è un mostro che divora le esistenze, che sviluppa una società sempre più insoddisfatta e che si regge solo su una politica di potenza e di dominio.
L'analisi può sembrare spietata, ma è estremamente realistica, una circostanza che pone il pensiero di Fini al riparo da critiche costruttive perché nulla avrebbero da opporre.
In questo libro si parte dal famoso attentato alle Torri Gemelle di New York per giungere, per gradi, all'amara constatazione che ciò che ci sembra una condizione vita perfetta non lo è sicuramente.
La posizione egemone degli Stati Uniti che vuole imporre ovunque la democrazia e con essa il suo modo di vita è la cartina di tornasole che prova in modo inequivocabile che l'attuale sistema socio economico è malato, in quanto insane sono le sue basi.
Si vive per produrre, oltre le proprie necessità, e quindi si inventano nuovi bisogni; questo è il frutto dell'aver sostituito, come elemento di centralità del sistema, l'uomo con l'economia, un macroscopico errore che ha votato l'umanità all'infelicità.
Questo meccanismo assurdo ha comportato una serie di riflessi sulla struttura sociale, ovviamente negativi, che in epoca preindustriale non esistevano: la disoccupazione, l'accrescimento stratosferico della ricchezza di pochi e l'immiserimento della quasi totalità degli abitanti del pianeta.
L'illuminismo ha invocato tanto la libertà e l'uguaglianza, sancita a chiare lettere in tutte le costituzioni, ma negli effetti pratici c'è chi è più libero e più uguale. Insomma, come si è creato un processo senza freni ad incrementare la produzione, si è introdotto un analogo meccanismo che spinge a raggiungere sempre più elevati livelli di carriera, perché non si tratta solo di maggiore retribuzione stare su un gradino più alto, ma è soprattutto il convincimento di poter fruire di una condizione sociale privilegiata.
Ci si accorge quindi di non essere uguali a chi ci sta più sopra e nemmeno a chi ci sta più sotto, ma ogni successo di posizione che otteniamo provoca un'effimera felicità, perché subito ci si deve attivare per salire più in alto.
Giustamente, rileva Fini, in epoca medioevale le classi sociali erano sancite e non si poteva passare dall'una all'altra, perché era un ordine costituito, magari con richiami fasulli al diritto divino, ma il plebeo sapeva che la sua era una condizione che non poteva che essere accettata. Nell'evoluto mondo attuale scoprire che, nonostante sia sancita l'uguaglianza, questa di fatto non esista finisce con il traumatizzare l'individuo, con il farlo sentire vittima di un sistema che opera eternamente il Bene, ma realizza sempre il Male.
La soluzione di un ritorno alla società preindustriale può sembrare semplicistica e inattuabile, ma allo stato dei fatti è l'unica via percorribile: la stessa si concretizzerà quando il sistema collasserà, e non tanto per opera del fondamentalismo islamico, nemico della modernità, quanto per il fatto che le genti, frustrate, esasperate, non crederanno più in un meccanismo perverso che ha loro tolto il piacere di vivere e di sperare.
Il vizio oscuro dell'Occidente è un libro da leggere in ogni caso, sia che ci si trovi in sintonia con l'autore, sia nel caso contrario, perché la realtà che ci viene mostrata è inoppugnabile.
Renzo Montagnoli

L'autore
Massimo Fini, di padre toscano e di madre russa, nasce sul lago di Como il 19/11/1943. Dopo la laurea in giurisprudenza e diversi lavori minori approda nel 1970 al giornalismo, dapprima all'"Avanti", poi al "Giorno". Attualmente lavora per il "Giorno", "Il Gazzettino", "La Nazione" e "Il Resto del Carlino". Ha pubblicato: 'La Ragione aveva Torto?' (Camunia 1985, ripubblicato da Marsilio in edizione tascabile nel 2004); 'Elogio della guerra' (Mondadori 1989 e Marsilio 1999); 'Il Conformista' (Mondadori 1990); 'Nerone, 2000 anni di calunnie' (Mondadori 1993); 'Catilina, ritratto di un uomo in rivolta' (Mondadori 1996); 'Il denaro, "sterco del demonio"' (Marsilio 1998); "Dizionario erotico, manuale contro la donna a favore della femmina", (Marsilio 2000); "Nietzsche, L'apolide dell'esistenza" (Marsilio 2002), "Il vizio oscuro dell'Occidente" (Marsilio 2003) ; "Sudditi" (Marsilio 2004); "Il ribelle dalla A alla Z" (Marsilio 2006).
Renzo Montagnoli


Versi dal silenzio  a cura di Francesca Innocenzi  Edizioni Progetto Cultura

Il libro
L'idea di un'antologia di poeti Rom nasce da un autentico interesse per la cultura di questo popolo e, nel contempo, da una passione letteraria vissuta in maniera spregiudicata, come occasione di disvelamento di realtà altre, senza schematismi né chiusure preventive. La tradizione millenaria della gente delle carovane è stata, nel corso dei secoli, costantemente misconosciuta; nonostante gli indubbi progressi compiuti negli ultimi decenni, il patrimonio culturale romanì rimane per lo più circoscritto in un ambito ristretto, mentre manca un'informazione seria e approfondita in circuiti più ampi. L'augurio è che la pregnanza archetipica della poesia e la sua intrinseca capacità evocativa costituiscano il primo passo per sconfiggere stereotipi e resistenze e creino le premesse per un incontro tra i Rom e i gagè (i non Rom). La valorizzazione di una tradizione artistica nei suoi vari generi può tradursi nel riconoscimento di identità troppo a lungo negate: la letteratura Rom non nasce dalla richiesta di elogi solenni ma dalle ineliminabili sfaccettature di una cultura che esige di essere, oggi più che mai, conosciuta.

Una poesia a caso

PAULA SCHÖPS
Nota scrittrice Rom altoatesina, Paula Schöps è autrice di apprezzati componimenti poetici e narrativi; particolarmente evidenti nella sua scrittura sono le problematiche della donna e dell'infanzia.



OLOCAUSTO DIMENTICATO
Silenzio, desolazione, oscura notte
il cielo è cupo, pesante di silenzio!
Aleggia nell'aria la nenia della morte!
Da queste pietre, grigie pietre,
da ogni rovina, dalle cornici infrante,
esala disperazione di sangue e lacrime.
Il mio spirito s'impiglia nel filospinato
e la mia anima s'aggrappa alle sbarre,
prigioniera in casa nemica!
Chi sono? Nessuno! Chi sei? Nessuno!
Voi Sinti chi siete? Nessuno! Solo ombre,
nebbia! Nebbia che per abitudine è rimasta
prigioniera della più grande infamia
della storia dell'uomo!


Edizioni Progetto Cultura 2003 S.r.l.
Via San Roberto Bellarmino, 6 - 00142 Roma
Tel.: 0697617077 E-mail: info@progettocultura.it  Web: www.progettocultura.it


Una vita negata di Franca Maria Bagnoli Casa Editrice Il Foglio
Introduzione di Rossella Anelli

Da un po' di tempo leggo opere di qualità, cioè che lasciano il segno sia per lo stile che per la tematica.
Sono libri editi dalla Casa Editrice Il Foglio, a cui mi pare giusto tributare un piccolo plauso per la capacità di selezione e per la politica editoriale volta a privilegiare prodotti di ottimo livello, quando non addirittura eccellente.
Una vita negata di Franca Maria Bagnoli è un romanzo scritto come si deve e, soprattutto, parla di valori soffocati nell'antichità, ma che non trionfano neppure nell'epoca odierna.
Abbiamo sempre considerato - perché così ci è sempre stato raccontato - che Santippe, la moglie di Socrate, tediasse il marito con le sue continue sfuriate, che insomma il povero filosofo fosse una vittima di una donna bisbetica e insopportabile.
Il testo della Bagnoli, nel narrarci di questa vita di coppia, ribalta questo concetto che si è perpetuato nel tempo, vestendo Santippe di una nuova dignità che ne fa un personaggio di importanza ben superiore a quella del marito.
Per far ciò si basa proprio su quella storia che viene ora ad essere confutata e in particolare sulle abitudini di vita, sull'aspetto sociologico della società ateniese.
Premetto che ci sono tutti i motivi per credere che Santippe in effetti fosse la vittima di un sistema che vedeva il matrimonio come un negozio giuridico volto a rafforzare la struttura sociale della democratica Atene, con la moglie destinata solo a procreare per la continuazione della specie e il rafforzamento dello stato, oltre a provvedere alle normali faccende domestiche. Quindi, un rapporto basato su una convivenza totale, sul principio che le decisioni comuni spettavano a entrambi i coniugi, non solo non esisteva, ma era addirittura impensabile.
Sarebbe riduttivo, però, limitare l'analisi di quest'opera alla sola condizione della donna in quella società, perché Franca Maria Bagnoli, attraverso Santippe, va ben oltre, contesta la mancanza di libertà di una civiltà, pur fulgida, ma estremamente classista, tanto da considerare normale la condizione della schiavitù, con un'inclinazione tuttavia a mostrare più tolleranza per l'uomo, al punto che solo il maschio schiavo poteva affrancarsi.
Quindi una struttura sociale rigida, ferrea, dove perfino la religione aveva la funzione di conservare lo status quo, imponendo Dei creati secondo le esigenze dei dominanti.
Il riscatto di Santippe, che riceve schiave come amiche, diventa un emblema della dignità umana laddove sostituisce alle divinità correnti un Dio costruito secondo il suo modo di sentire, un amico che non ha bisogno di cruenti sacrifici per essere benevolo, ma che è dentro l'individuo e che assume sempre di più le caratteristiche della coscienza di una donna che ama il suo uomo a tal punto da giustificarlo per il suo comportamento verso di lei, perché anche lui è parte di quel sistema che ha sempre accettato e che lo condurrà alla morte, senza ribellione, da perfetto integrato in un meccanismo di cui è contemporaneamente artefice e vittima.
Scritto in modo assolutamente delizioso, con una scorrevolezza che impone la lettura quasi d'un fiato, misurato nelle descrizioni - pur splendide - al fine di lasciare ampio spazio di immaginazione, Una vita negata è molto di più di un testo che si propone di riabilitare la figura di una donna, ma è un commosso, stupendo grido di libertà.
Renzo Montagnoli

L'autore
Franca Maria Bagnoli è nata a Roma. Ha studiato al Liceo Giulio Cesare e all'Università La Sapienza dove si è laureata in filosofia con il massimo dei voti. Ha insegnato nei Licei, classico e scientifico e poi nell'Istituto magistrale di Pescara.
Nel 1998 una sua favola, La giraffa ficcanaso è risultata tra le 10 vincitrici del Concorso Andersen. Nel 1992 un suo racconto lungo ha ottenuto una segnalazione dalla Commissione del Concorso "Luigi Petroselli", organizzato dal Comune di Roma. Nel 1998 è stata invitata da Dacia Maraini alla trasmissione di RAI2 "Io scrivo, tu scrivi" per discutere il suo romanzo breve Una vita negata. Nel 2004 le Edizioni Qualevita di Sulmona hanno pubblicato una sua raccolta di favole e racconti per ragazzi prefata dalla Professoressa Anna Oliviero Ferrarsi.
Ora, da pensionata, tramite Internet pubblica testi e racconti su siti letterari.
E' il dominus, insieme a Pietro Sassi, dell'eccellente sito culturale Internet Francamente (http://www.francamente.net/) . 
Renzo Montagnoli


La memoria dell'acqua di Antonio Messina Edizioni Il Foglio
Introduzione di Elisabetta Blasi
Copertina di Danilo Messina e Oscar Celestini

L'armonia è quella sensazione di elevazione dello spirito che ci rende quasi invincibili; è una forma d'amore, la forma d'amore più completa che esista in tutto l'universo. Per arrivare a questa forma d'elevazione spirituale ci sono voluti parecchi secoli, e l'istinto è fondamentale per attivare il processo.
Avevamo compreso che solo con la ragione non si arrivava a nulla, a parte vivere un'esistenza materiale e per certi versi fragile e misera. Con l'armonia, invece, tramite la memoria dell'acqua, si poteva sondare un mondo che appariva lontano, quel mondo che la tua amica scrittrice aveva giustamente definito Ottembre: una realtà percepibile solo con l'immaginazione…


Questa raccolta di racconti di Antonio Messina è un'opera di alto impatto filosofico, il cui messaggio appare chiaramente sintetizzato nella parte sopra riportata.
In un mondo quale il nostro, dominato dalle ferree regole della logica e del pragmatismo, i nostri occhi non riescono a vedere oltre le immagini che per la nostra mente rappresentano la realtà, una limitazione che anziché fortificarci ci indebolisce, ci toglie il piacere di vivere, ci rende schiavi della nostra limitata conoscenza.
Per vivere un'esistenza degna di essere chiamata tale occorre perciò che convivano, in perfetto equilibrio, l'istinto, l'armonia e il sogno.
E questo libro, infatti, non è da leggere con gli occhi, con quella razionalità che nel passare dei tempi si è radicata a tal punto dal farci diventare incapaci di comprendere se non nei ristretti termini di regole che ci siamo create.
E' da leggere invece con il cuore, istintivamente, immergendoci nei mondi senza tempo che l'autore utilizza per ambientare le vicende di supporto al suo concetto filosofico. Apparentemente, si potrebbe dire che i racconti fanno parte del genere fantasy, ma non è proprio così, perché invece ci troviamo di fronte a delle raffinate metafore, perfettamente integrate in una prosa poetica che fa scorrere dolcemente le pagine, riga dopo riga.
E il ritorno all'istinto è imprescindibile dal rientrare in umiltà a far parte della natura, di smettere quella superbia che ci illude di essere a conoscenza dei suoi segreti.
E' una natura, quella dipinta da Messina, che è personaggio nei racconti, che crea quell'atmosfera di sogno a cui lasciarsi andare e così troviamo venti che serpeggiano fra i dirupi innevati, cieli che sembrano coperte di raso, una magica luna che nella notte immobile cambia il colore ai gerani, periodi di alto lirismo, visioni oniriche che conducono all'estasi.
Se il messaggio è filosofico, la forma utilizzata è di una apparente lievità, una sorta di carezza che scende dritta fino al cuore, ottenuta anche con il ricorso agli ossimori, che in un mondo vagheggiato di sogno e di irrazionalità trovano una loro precisa collocazione, come un riflesso di luce in un quadro surrealistico (la quiete che agita il cuore; il silenzio urlante).
Preciso che fino a ora ho scritto solo del primo racconto, di quella Memoria dell'acqua che dà il titolo alla raccolta, oltre a essere quella portante del messaggio.
L'opera però comprende altri due racconti lunghi: La piuma degli angeli, a tema religioso, e Polvere nel vento, dedicato al valore della scrittura.
In verità, poi, ci sono altre sei prose, assai più brevi, ma dei veri e propri squarci su stati d'animo, espressi prevalentemente tramite dialoghi, quasi degli incipit di eventuali successivi lavori.
Se ho preferito soffermarmi sul primo racconto, non è perché gli altri siano qualitativamente inferiori, ma solo perché in questo il pensiero di Antonio Messina finisce con l'essere di introduzione ai successivi e dilaga, nella sua concettualità, in modo chiaramente esplicativo, conducendoci per mano alla scoperta di un mondo che ignoravamo.
Quindi è un'opera innovativa, di elevato valore, che, ripeto, richiede per essere compresa solo lo sforzo di abbandonare il nostro pragmatismo, lasciandoci andare, senza remore e timori, al fluire delle parole.
Renzo Montagnoli

L'autore
Antonio Messina nasce nel 1958 a Partanna, in provincia di Trapani. Vive a Padova. La sua prima opera di narrativa L'assurdo respiro delle cose tremule, incontra l'entusiasmo di molti lettori, ed anche la critica spende parole d'elogio. L'opera viene recensita su quotidiani, riviste telematiche e cartacee, e riesce a vendere un buon numero di copie in libreria, senza nessun supporto pubblicitario, grazie al passaparola dei lettori. Nel 2006 viene pubblicata la raccolta di racconti La Memoria dell'acqua - con introduzione di Elisabetta Blasi - per i tipi de Il Foglio Letterario, Piombino.
Altri racconti vengono singolarmente editi:
- da L'ombra nella Bottiglia è stato realizzato, nel [2005], un cortometraggio. Il progetto è partito su iniziativa del direttore artistico (Roberto Messina) del Teatro Scuola Grifo D'oro - nell'ambito di un concorso nazionale patrocinato dalla Regione Sicilia, provincia di Trapani, comune di Partanna, BBC Belice, Atp Trapani. Questo cortometraggio sull'alcolismo ha vinto nel [2005] il Primo premio a Città di Castello; il testo inoltre viene richiesto dalle migliori riviste telematiche e, pubblicato in cartaceo da Progetto Babele (Modena), da Tam Tam (Roma), nel [2005]
La Marea. Il racconto viene pubblicato, nel[2005], dalla rivista sarda Gemellae e richiesto dalle migliori riviste telematiche, anche internazionali: Casa da Cultura (Portogallo) Isla Nigra Sud America.
Alcune liriche sono presenti in qualificate antologie poetiche:
- E noi ad Amarci in antologia - Parole d'Amore, [2006]
Il Gesto in antologia- di I Segreti di Pulcinella, [2005]
Sogni di Carta in antologia Penna D'oca, [2005]
L'editore è Giulio Perrone, Roma
La lirica Fiumi di porpora compare nella sezione poetica della Biennale di Venezia-Repubblica.It.
Ai primi di settembre uscirà il suo prossimo lavoro, Le Vele di Astrabat, edite sempre da Il Foglio.
Renzo Montagnoli


A quella vecchietta del metro se la rivedo le spacco il culo e altri racconti di Vincenzo Trama
Edizioni Il Foglio

Devo essere sincero e perciò vi dico il motivo per cui ho lasciato questo libro a giacere un po' sul comodino: il titolo.
Infatti quelle parole messe una dietro l'altra a significare qualche cosa di inequivocabile mi provocavano una duplice sensazione: una di naturale curiosità, l'altra di repulsione, perché mi balzava subito agli occhi l'immagine di una vecchietta, magari una povera pensionata, mentre veniva brutalizzata sul marciapiedi della metropolitana.
Poi, una sera mi sono deciso e mi sono detto che mal che vada, se dopo le prime righe capisco che è una vaccata, lo butto.
E invece dalla prima pagina sono passato senza accorgermene all'ultima, nonostante un certo linguaggio trasgressivo che probabilmente è proprio dei giovani d'oggi. Anzi, direi che questa forma espressiva è essenziale in questo caso alla narrazione, costituita da una serie di episodi che trovano origine nell'adolescenza.
Un filo comune, a parte il linguaggio, è dato dall'ironia e dal paradosso, caratteristiche che addirittura sono prorompenti, anzi dissacranti di molti aspetti del mondo degli adulti.
In questo Vincenzo Trama riesce a dimostrare un'originale vitalità che sembra esulare dalla sua giovane età, perché osservare la nostra società con occhio critico non è difficile, ma riuscire a coglierne gli aspetti grotteschi per costruire sugli stessi una vicenda che porta a ridere, lasciando però un retrogusto amaro, è proprio di scrittori che hanno alle spalle una lunga esperienza non solo letteraria, ma anche umana.
E nemmeno a farlo apposta il racconto che mi ha impressionato più favorevolmente è proprio quello che dà il titolo alla raccolta. Non preoccupatevi, perché non viene brutalizzata nessuna vecchietta, ma è una vicenda spassosa di un grafomane e delle cure per guarirlo, con un corollario di personaggi che rappresentano, all'estremo, comuni figure che ci stanno intorno.
Se volete un libro da leggere in spiaggia, questo di Vincenzo Trama fa al caso vostro: scorre veloce e diverte, anche se alla fine vi sorgerà spontaneo un dubbio, una sorta di tarlo che vi farà pensare che quel che si è letto è la realtà di cui siamo parte, volutamente esagerata nelle caratteristiche, ma è la nostra vita attuale.
Renzo Montagnoli

L'autore
Vincenzo Trama nasce nel marzo del 1981. Oltre a questa raccolta, ha pubblicato ancora con Il Foglio in Sex Condicio, raccolta di racconti di vari autori.
Renzo Montagnoli


Versi tra le sbarre di AA.VV. a cura di William Navarrete  Edizioni Il Foglio
Poesia - raccolta

Conosciamo tutti l'impegno di Gordiano Lupi in difesa di quella libertà di opinione che il fondamento di ogni società civile, libertà che è invece è perseguitata a Cuba dal regime di Fidel Castro. Questa presa di posizione dell'autore ed editore toscano non è tanto politica come una certa sinistra, sbagliando, si sforza di sostenere, ma è etica, nella stringente logica che viene ignorata in certi paesi e secondo la quale al primo posto deve esserci la dignità dell'uomo in quanto tale.
In questo contesto c'è un impegno costante di Gordiano Lupi a diffondere le voci che non possono arrivare a noi e ciò viene attuato anche con delle pubblicazioni, come quest'antologia poetica, curata dall'esule e scrittore cubano William Navarrete.
Si intitola "Versi fra le sbarre" e in effetti sono voci che provengono dalle prigioni della repubblica caraibica, sfoghi, umanissimi e di valore letterario, di autori che hanno patito o addirittura stanno scontando la reclusione solo per rivendicare di essere uomini liberi.
Quello che più sorprende leggendo queste liriche è l'assenza di odio, sono una protesta civile e dignitosa, uno sfogo temperato da quella malinconia poetica che ha il pregio di arrivare direttamente al cuore, in un rapporto quasi diretto fra autore e lettore.
E così si partecipa alla loro sofferenza, si avverte palpabile quel desiderio di libertà che non è quello di poter varcare il cancello del carcere e tornare alla famiglia, ma è quello ben più alto di pretendere che all'uomo non siano imposte barriere e sbarre alle sue idee.

Ragazza che cammini sul ponte,
e tieni in mano margherite,
fammi essere il ponte dove vivi,
o l'acqua tremolante del tuo ponte.

(da "Lei e il ponte" di Mario Enrique Mayo Hernandez)

oppure

La notte è una macchia quasi eterna.

Io distribuisco tutta
La solitudine del mondo.

( da "Rimedio" di Raul Rivero Castaneda)

O ancora

Quando torni, papà?
chiede il bambino a suo padre
che dall'altro capo del filo
non sa cosa rispondere.

(da "Quando torni, papà? di Omar Moises Ruiz Hernandez)

Sono sentimenti, emozioni proprie di ogni essere umano e non albergano di certo nel cuore di delinquenti incalliti quali vogliono essere fatti passare dal regime.
Credetemi, a leggere i versi di questa raccolta ci si commuove, viene istintivo allungare la mano per incontrare quella di questi poeti della libertà.
Renzo Montagnoli

Autori
I loro nomi
Ricardo Gonzales Alfonso, Regis Iglesias Ramirez, Mario Enrique Mayo Hernandez, Jorge Olivera Castello, Raul Rivero Castaneda, Omar Moises Ruiz Hernandez, Manuel Vazquez Portal.
Renzo Montagnoli


Mal di pietre di Milena Agus Edizioni nottetempo
Narrativa - romanzo

Mal di pietre è quasi una saga familiare di tre generazioni e ruota tutto intorno alla figura della nonna, sofferente di calcoli renali, il cosiddetto mal di pietre, che però finisce con l'essere più un mal d'amore.
In questa storia c'è una freschezza, una lievità con cui si spazia dalla realtà al sogno in modo accattivante, raccogliendo l'immediata simpatia del lettore che corre sulle righe per arrivare a una conclusione, che non anticipo, ma che è un vero e proprio tocco di genialità.
La vicenda si svolge prevalentemente in una Cagliari dominata dal sole e dal vento, tranne un breve excursus in una Milano nebbiosa e di abitazioni degradate. In questa ambientazione regna sovrana la figura della nonna paterna (l'io narrante è la nipote), una bellissima donna che cerca l'amore in tutti gli uomini di cui viene a conoscenza, senza però che questi corrispondano al sentimento. Le delusioni, poco a poco, diventano ossessioni e la donna finisce, nei momenti di crisi, per rinchiudersi in soffitta, dove si strappa i capelli e si ferisce alle braccia, quasi a voler sfogare contro il suo bel corpo l'angoscia di non essere riamata.
Per quanto ovvio, nella gente che la circonda, incapace di discernere fra pazzia e sofferenza dell'animo, finisce per l'essere considerata una che non ci sta con la testa e quasi non par vero ai genitori della donna quando uno sfollato (siamo durante la guerra), vedovo, la chiede in sposa, per sdebitarsi dell'ospitalità ricevuta.
E' un'unione senza amore, una sorta di vincolo di coniugio imposto dalla legge e dagli usi, con i due sposi che se ne stanno nel letto l'uno distante dall'altro. Il marito soddisfa le sue esigenze sessuali nel bordello e allora la moglie, al solo fine di risparmiare i soldi delle marchette per comprare il tabacco della pipa che lui fuma, si sostituisce alle prostitute, come loro senza amore.
Il gesto della donna non è inconsulto, ma una forma di ringraziamento per un uomo che la stima e la tratta nel migliore dei modi, ma ancora manca l'amore, quello che troverà, durante un periodo di cure termali sul continente, in un reduce, mutilato di una gamba.
Nove mesi dopo nascerà un bambino e ci si chiede giustamente di chi è figlio. Il legittimo marito non viene nemmeno sfiorato dal dubbio e riversa nel bimbo quell'amore che ha fatto mancare alla moglie, a cui arriva, tuttavia, per il tramite di quella creatura.
Il ricordo del reduce, però, è sempre nella mente della donna, una sorta di sogno che l'accompagnerà fino alla morte, quasi a voler significare che l'unico modo per accettare la realtà è quello di trovare una via di sfogo nell'idealizzazione di ciò che è il nostro massimo desiderio.
Quindi, la trama è quanto mai variegata e tale da interessare il lettore che, peraltro, si trova agevolato nella fase di assimilazione dalla particolare forma di scrittura dell'autrice, una specie di lingua parlata di grande efficacia, anche se, a mio avviso, può nuocere il frequente ricorso a vocaboli in dialetto sardo che, obbligando ad andare a vedere la nota esplicativa, finisce con il creare un po' di fastidio.
E' un po' una moda quella di utilizzare ogni tanto il vernacolo, ma la logica dice che è da farsi solo quando la sua resa è sensibilmente migliore di quella della lingua italiana.
Ecco, questo è l'unico appunto che mi permetto di fare a un'opera che è un autentico gioiellino.
Renzo Montagnoli

L'autore
Milena Agus è nata a Genova da genitori sardi e vive a Cagliari, dove insegna italiano e storia in un istituto superiore tecnico-professionale. Ha un figlio che studia pianoforte a Parigi. Alcune case editrici sarde hanno pubblicato suoi racconti. Il suo primo romanzo Mentre dorme il pescecane (nottetempo 2005) ha avuto due ristampe in pochi mesi e grandi riconoscimenti critici.
Renzo Montagnoli


Long Evening Shadows di Peter Russell Casa Editrice Il Foglio
Poesia – raccolta
Traduzione di Franca Alaimo
Introduzione di Franca Alaimo
Postfazione di Maurizio Maggioni

 Long Evening Shadows (Lunghe ombre della sera) è una raccolta di 16 liriche scritte dal grande poeta britannico dal 21 febbraio al 21 luglio 2001. E’ un titolo che ha un valore metaforico, perché l’approssimarsi della sera è inteso come il progressivo decadimento fisico della vecchiaia, ed è anche profetico, considerato che l’autore, in precarie condizioni di salute e quasi cieco, morirà nel 2003.
Accanto a versi dedicati ai temi propri della malattia risaltano, di fulgida luce, quelli propri della splendida bellezza della vita e del mondo.
Questo dualismo, fra il sentore di essere prossimi alla fine dell’esistenza e il compiacimento per quanto di meraviglioso offre la natura, mi hanno richiamato subito l’immagine di una grande figura della storia, quella dell’imperatore romano Publio Valerio Traiano Adriano.
Anche là, immortalato nelle celebri pagine della Yourcenar, c’è un uomo conscio dell’imminente fine e
che tuttavia si estasia ancora alle bellezze di un mondo che è prossimo a lasciare.
Direi che c’è anche una corrispondenza nel concetto di spiritualità, quasi a dimostrare che l’essenza dell’essere umano è rimasta inalterata nel tempo.
Là è sintetizzata nell’emozionante Animula Blandula Vagula, qua invece in Dunque, che succede?
Diversa è la concezione religiosa, con un Russell cristiano, ma con una visione tutta sua di carattere filosofico più che teologico, che finisce con l’accostarlo inevitabilmente ad Adriano: il Paradiso esiste, ma non è dove viene canonicamente situato; è invece uno stato particolare della mente, il massimo dell’estasi.
Ebbene questa sorta di trascendenza, che separa lo spirito dal corpo, non è propria del momento della morte, ma può avvenire anche in vita e questo grazie alla poesia.

Il mistero della musica
Il mistero della musica, il mistero della poesia,
La Bellezza, trono latente del Paradiso,
La capacità di riconoscerla, nota solo al saggio.
E’ un dono, come la Grazia che non si può comprare
Col denaro, la cultura o l’esperienza, il potere,
O le preghiere o le sante omelie,
Ma spogliandosi d’ogni egoistica finzione,
Una rimembranza di immortalità.
……..

 E’ fuor di dubbio che il Saggio è il lettore che, spogliandosi di se stesso, accoglie il seme della parola coltivato nella terra fertile dell’animo dell’autore.
Scritto così può sembrar complesso, ma Peter Russell ha tremendamente ragione.
Infatti quando, dimentico di me stesso e del mondo che mi circonda, leggo una lirica di notevole bellezza avverto sempre una soffusa sensazione di profondo e sereno appagamento, un vero e proprio stato  di estasi.
E anche nei versi di cosciente cognizione del proprio decadimento (Divento vecchio, senile insomma, e rimbambito) trovo che quel flusso dinamico di emozioni raggiunge la mia mente, con una nota malinconica che infonde comunque serenità, perché tutto è nell’ordine delle cose e basta saper cogliere il poco che ci è offerto perché la vita continui a stupirci (…Sebbene disperato (annaspo per la mia tazza) Ho tirato fuori sette sonetti, davvero ben fatti, oggi).
E il dolore per la perdita della vita è inteso più come l’impossibilità di continuare a creare (…Spenta ormai la luce della fantasia…).
Rimiriamo, allora,  ancora una volta il bello che ci circonda, diamo spazio alla fantasia per trasmettere l’emozione di certe visioni, affinché palpitino nel cuore del lettore (Campi e campi di margherite gialle – Il fuso verde – Luce solare).
Definire poesie queste composizioni sembra quasi riduttivo, perché sono musica, genialità, acute e profonde riflessioni; sono lo spirito di un uomo fatto parola.
Un doveroso cenno alla traduttrice mi sembra necessario, perché il suo è un lavoro spesso oscuro, ma trasporre in un'altra lingua delle poesie implica anche una sintonia con l’autore, un immedesimarsi che non è certo facile e, considerato che l’armonia strutturale della versione originale è rimasta inalterata anche in italiano, Franca Alaimo merita un particolare plauso.
Renzo Montagnoli

L'autore
Peter Russell (Bristol, 1921 – Castelfranco di Sopra, 2003).
Influenzato da Yeats, ebbe modo di conoscere Pound e Eliot, che lo aiutò anche finanziariamenteCondusse  una vita molto movimentata, con soggiorni, più o meno lunghi, in diversi paesi del mondo. Nel 1982 approdò in Italia, in Valdarno. Di fatto il nostro paese divenne quello di elezione, a lui caro per l’ambiente naturale e per aver dato i natali a poeti che stimava molto, fra i quali soprattutto Petrarca.
Russell amava i ritmi semplici, l’osservazione della quotidianità, i riferimenti mitologici, i valori e i simboli della natura. Candidato al Nobel, è stato considerato uno dei maggiori poeti del modernismo del novecento.
Renzo Montagnoli


Qualcuno uccida mio padre di Domenico Petrolino Edizioni Il Foglio
Narrativa

Chi si aspetta del pietismo, una vicenda strappalacrime, non potrà che restare deluso, perché "Qualcuno uccida mio padre" è un veemente e lucido atto di accusa contro le illogicità umane.
La vicenda, autobiografica e veritiera, tranne la soluzione finale, è di per sé scarna: un padre che si ammala, che è colpito da uno di quei mali che non perdonano e per cui non vi è nessuna speranza di guarigione, l'accanimento terapeutico che prolunga le sue sofferenze oltre ogni ragionevole limite, la morte liberatoria procurata dal figlio.
Nonostante sia una storia che non pochi di noi conoscono, per avere avuto un familiare o un amico nella stessa situazione, proprio per questo motivo è invece tutta da leggere, perché Petrolino osserva, scruta oltre il velo di apparente verità, ci mette a confronto con noi stessi, con le nostre indifferenze, con l'accettazione supina di dogmi veri e propri, e non solo religiosi, ma anche laici.
Che senso ha soffrire tanto per dover morire, che logica c'è nell'accanimento terapeutico, se non la fredda sperimentazione di uomini di scienza, ma senza coscienza?
E anche la religione ha le sue incongruenze, quella religione che esiste solo in funzione della morte, perché se l'uomo non avesse una fine non dovrebbe ricercare il senso di una vita nel dopo.
Ma c'è illogicità anche in noi stessi, in quella paura della morte, del salto nel buio, indipendentemente che siamo religiosi o meno, e finiamo con l'accettare così qualsiasi cosa, anche una vita non vita, pur di restare.
In questo libro si affronta il problema dell'eutanasia sotto molteplici aspetti: quello etico, quello religioso e anche quello legislativo (non è un caso il richiamo alla "Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo").
Le domande sono tante, ma Petrolino giustamente non fornisce risposte definitive, limitandosi a evidenziare le contraddizioni delle teorie garantiste. Il suo è un modus operandi lucido, razionale, al di fuori di tanti paradigmi che sembrano scritti apposta per confondere l'evidenza dei fatti: chi può decidere della propria vita è solo il diretto interessato.
E allora, se in piena coscienza questi, nell'impossibilità di guarire, in preda ai dolori più atroci, chiede la morte, perché non accontentarlo?
Di fronte a una vita ormai senza dignità gli si può concedere almeno una morte con dignità.
E questa è logica, ferrea, stringente, contro la quale non c'è principio religioso o anche laico che possa opporsi, se non con la negazione dell'uomo come essere vivente e pensante.
E' un libro da leggere e da meditare, perché un giorno potrebbe capitare anche a noi.
Renzo Montagnoli

L'autore
Domenico Petrolino è nato a Rivoli (TO) l'8 ottobre 1972. Laureato in Economia, svolge un'attività imprenditoriale.
Qualcuno uccida mio padre è la sua prima opera.
Renzo Montagnoli


Una terra chiamata Alentejo di José Saramago Edizioni Einaudi
Narrativa - romanzo

L'Alentejo, che vorrebbe dire al di là del Tejo, meglio conosciuto da noi come Tago, si trova a est di Lisbona ed è una terra destinata esclusivamente all'agricoltura.
Non sono trascorsi molti anni da quando l'immagine di questi territori propri dell'Europa del Sud richiamava subito alla mente i grandi latifondi, poco coltivati e con metodi quasi primitivi da miseri braccianti, sottopagati e in balia del potere dei padroni.
Una terra chiamata Alentejo (il titolo originale è Levantado do Chao) è stato scritto da José Saramago nel 1980 e racconta la storia secolare di una famiglia di braccianti in quel territorio.
Sono quattro generazioni della famiglia Mau-Tempo (Maltempo, un nome quanto mai emblematico) che vengono a comporre questa saga contadina, il cui elemento d'unione è la miseria più nera, in un periodo che va dalla fine della monarchia, attraversa gli anni neri del regime di Salazar e si conclude con la luce della rivoluzione dei Garofani (25 aprile 1974).
Nel corso di questo lungo periodo, mentre in Europa avvengono sconvolgimenti che incidono profondamente sulla storia, in questo remoto angolo, quasi dimenticato da Dio si passa dalla dura e inclemente battaglia per sopravvivere alle lotte per ottenere una condizione di vita almeno dignitosa.
Sì, perché quello che manca a questi miseri contadini è la dignità dell'essere umano, è la speranza in un futuro diverso. In balia dei latifondisti, sfruttati con orari di lavoro propri degli schiavi, aggrappati a una religione che diventa ulteriore mortificazione, vista la connivenza fra il clero e i padroni, si nasce, si vive e si muore in un'inedia provocata dai patimenti, dalle fatiche, dalle ingiustizie e dalla penuria di alimenti.
E' inevitabile, dato l'argomento, che la mente corra subito allo splendido I Malavoglia di Giovanni Verga, il cui verismo fece conoscere realtà per convenienza sempre sottaciute.
In Saramago è evidente la formazione marxista che distingue la sua opera da quella di Verga, quest'ultima non ideologica e pertanto assai più cruda ed immediata.
Però, se anche si avverte nelle righe il pensiero politico dell'autore portoghese, resta un'immagine indelebile di un mondo arcaico e di torti, dove solo un elemento pare non partecipe, pur assumendo di fatto la caratteristica di personaggio principale: il paesaggio.
Infatti il romanzo inizia con " La cosa più importante sulla terra è il paesaggio…" e le descrizioni di Saramago sono veramente splendide, tanto che sembra di vedere le pianure, i sughereti, i temporali improvvisi, perfino i rilievi.
Se non bastasse questa eccelsa capacità dell'autore, del tutto particolare è la forma della scrittura utilizzata, uno stile personale, una specie di scrittura orale che inserisce il parlato nel racconto, senza che vi siano pause o addirittura, spesso, punteggiatura.
In tal modo viene a essere vivacizzata la narrazione, necessariamente lenta altrimenti per l'assenza di eventi determinanti, e l'impressione che se ne ricava è che Josè Saramago esca dalle pagine e lì davanti a noi prosegua nel suo racconto, con una voce dal tono a volte acceso, ma più spesso ironico, una sorta di amico che ci partecipa le sue riflessioni su un mondo alla rovescia.
Una terra chiamata Alentejo è un autentico capolavoro.
Renzo Montagnoli

L'autore
José Saramago è nato a Azinhaga, in Portogallo, il 16 novembre 1922. Ancor in età giovanile si è trasferito, con la famiglia, a Lisbona, dove ha frequentato l'Università che ha dovuto abbandonare per difficoltà economiche, adattandosi a fare i più svariati lavori (fabbro, correttore di bozze, giornalista). La svolta della sua vita avviene quando entra nell'editoria come direttore letterario e di produzione.
Il suo primo romanzo ("Terra del peccato") è del 1947, ma non ottiene successo, anche perché vige il feroce regime di Salazar.
La seconda giovinezza, o meglio la riscoperta delle capacità di scrittore, avvengono però solo dopo lo scoppio della Rivoluzione dei Garofani.
Saramago, iscritto da tempo al partito comunista, vede aprirsi un mondo non fatto più di chiusure dittatoriali e può esprimere liberamente il suo grande talento.
Si succedono così tutta una serie di opere che rivelano al mondo un grandissimo autore: "Manuale di pittura e calligrafia", "Una terra chiamata Alentejo", "Memoriale del convento", "L'anno della morte di Riccardo Reis", "La zattera di pietra", "L'assedio di Lisbona" e " Il Vangelo secondo Gesù ".
A suggello di queste elevate capacità artistiche viene il Nobel per la letteratura, conferitogli nel 1998 e nonostante un vero e proprio vespaio di polemiche, attizzate soprattutto dal Vaticano.
Attualmente vive a Lanzarote.
Renzo Montagnoli


Con il cuore leggermente indolenzito di Claudia Priano Aliberti Editore

Durante una fredda notte d'inverno, una donna di nome Lidia scompare senza lasciare traccia. Martine, la sua amica di sempre, una donna dal passato misterioso, sarà quella che darà l'allarme. Ed ecco che la storia comincia, con una telefonata a Chiara, secondogenita di Lidia ed io narrante di questa storia.
È in questo modo che i figli, Chiara, Margot e Bruno, che per anni non si sono più visti o cercati, dovranno incontrarsi, passare del tempo insieme, chiarire delle cose importanti e fare i conti con il dolore di una famiglia frammentata. Ma soprattutto ognuno dovrà fare i conti con sé stesso. Ed ecco che riappaiono anche altri personaggi: il padre, i vicini di casa, parenti e amici che saranno coinvolti in questa storia. E ancora altri personaggi, a tratti buffi, ma mai macchiette. Una vicenda convincente, vera, che arriva al cuore. Soprattutto ben scritta, specie nei dialoghi, essenziali e asciutti. Un romanzo corale e intenso. Affronta temi duri, come il disagio psichico, la paura, l'abbandono e i conflitti familiari. Ma in un modo particolare, che è quello di non cadere mai nel melodrammatico. Anzi, riesce ad arrivare a toccare corde profonde commuovendo e facendo anche ridere. I suoi personaggi, a volte al limite del grottesco, sanno farsi amare dal lettore. Tutti, nessuno escluso, anche quelli più perfidi. Molte le citazioni letterarie, ma, come è scritto sulla copertina del libro, quella di Sylvia Plath, che l'autrice ama molto, e si vede, " Forse non sarò mai felice, ma stasera sono contenta". Questa frase, tratta dai "Diari" della Plath, pubblicati da Adelphi, è senza dubbio il messaggio che la Priano vuole dare nel narrare la vita, dove non ci sono certezze, spesso molta fatica, ma anche dove, attraverso la sofferenza, si possono vivere momenti di grande serenità e complicità con l'Altro. Anche se diverso da noi. Basta smettere di averne paura.
Camilla Resta


Nero di Maggio di Leonardo Gori Hobby & Work
Narrativa - romanzo giallo

In un caldo maggio del 1938 a Firenze ci sono la visita di Hitler, i frenetici preparativi della città per il memorabile evento, due omicidi di prostitute assai giovani, un capitano dei Reali Carabinieri dotato di notevole intuito, la sua fidanzata, ebrea, che vuole dare un senso alla vita con un gesto clamoroso, un giovane gerarca di primissimo piano e tutto un contorno di personaggi di assoluta credibilità.
Il ricorso a una ricostruzione storica esemplare conferisce una dignità letteraria di notevole livello a un romanzo giallo, ben congegnato e con una trama avvincente, densa di pathos che resiste benissimo fino alla soluzione finale.
L'impressione che ho avuto è che l'autore sia ricorso al thriller come un pretesto, per descrivere invece atmosfere e personaggi di un epoca nemmeno tanto lontana e questo è il pregio principale dell'opera.
Fra l'altro è addirittura superlativa la capacità che ha avuto nel delineare la figura dell'alto gerarca fiorentino, nel romanzo senza nome, ma facilmente identificabile in Alessandro Pavolini, il più nazista dei fascisti, uomo colto, brillante, costantemente in preda a un delirio di rinnovamento accompagnato da uno spietato cinismo.
I dialoghi fra Bruno Arcieri, l'abile capitano dei Reali Carabinieri e questo personaggio di primo piano, affabile, ma anche crudele, sono la parte migliore di un romanzo in cui l'aspetto storico è a mio avviso predominante.
La meticolosa ed esatta ricostruzione del corteo che porta dalla stazione ferroviaria al centro Hitler e Mussolini è stupefacente per il coinvolgimento del lettore, a cui pare addirittura di trovarsi presente, fra la folla assiepata ai lati delle strade.
Un altro elemento da non sottovalutare è poi il conflitto fra il profondo senso di giustizia del capitano Arcieri e il concetto della stessa, del tutto personale e delirante, del gerarca.
Quindi, non solo un bel giallo, avvincente e ricco di tensione, ma anche un grande affresco storico che riesce a darci una visione di un'Italia alla vigilia della seconda guerra mondiale, un paese che inizia ad avvertire i primi sintomi di un piccolo benessere, senza accorgersi che è il miglioramento, apparente, del moribondo prima del decesso.
Del resto l'apparenza domina su tutto, ogni cosa deve sembrare fulgida anche se non lo è e i problemi non esistono, perché basta non parlarne, caratteristiche che, purtroppo, ricompaiono anche ai nostri giorni.
Renzo Montagnoli

L'autore
Leonardo Gori è nato a Firenze l'1 gennaio 1957. Il suo romanzo d'esordio, nel 2000, è stato proprio Nero di Maggio. A seguire ha pubblicato: nel 2002 "I delitti del Mondo Nuovo" e "Il passaggio", nel 2003 "La finale", nel 2004 "Lo specchio nero", nel 2005 "L'angelo del fango", con cui ha vinto il Premio Scerbanenco nell'ambito del Noir in Festival di Courmayeur, nel 2006, insieme a Franco Cardini, " Il fiore d'oro ".
Renzo Montagnoli


Fatherland di Robert Harris Arnoldo Mondadori Editore
Narrativa - romanzo thriller

Mettiamo il caso che la seconda guerra mondiale non si fosse conclusa come ben sappiamo e che invece avesse vinto la Germania di Adolf Hitler, come si potrebbe immaginare un simile scenario?
Robert Harris ha voluto provarci e ci ha regalato un thriller-fantasy di assoluto interesse, al punto che dallo stesso è stato tratto un film dall'omonimo titolo e di grande successo.
Senza svelare nulla di particolare a chi fosse interessato a leggere quest'opera, dico semplicemente che il quadro di questa ipotetica situazione è stato disegnato dall'autore in modo convincente, presentando anche alcune analogie con la situazione socio-politica attuale.
In pratica, siamo nel 1964 e il grande Reich è proprio grande, tanto che si estende dal fiume Reno fino alla catena degli Urali. Tuttavia, l'ex blocco sovietico non è per nulla pacificato, con i bolscevici che danno vita a un'attiva resistenza.
Hitler, all'apice del suo trionfo, è un uomo di 75 anni, vecchio e senza particolari stimoli. Il presidente americano Joseph Kennedy preannuncia una sua visita a Berlino al fine di coltivare una possibile distensione fra i due imperi. Per quanto il Reich appaia monolitico, quasi indistruttibile agli occhi degli avversari, in effetti è corroso da un profondo malessere, alimentato dalla caduta degli ideali imposti dal partito nazista, dalla violenza e dalla corruzione che dilaga ovunque e dagli inevitabili attriti con le diverse etnie, spesso assimilate solo a seguito di conquista.
In questo clima di corrosiva tensione, il ritrovamento del corpo di un gerarca nazista nelle acque di un laghetto situato nei più esclusivi ed elitari complessi residenziali rappresenta l'inizio di una vicenda che vi terrà senz'altro con il fiato sospeso, in un susseguirsi di rivelazioni e di colpi di scena che vi accompagneranno fino alla conclusione.
E' una lettura piacevole e per nulla impegnativa, tanto che questo libro può essere un motivo di evasione per le prossime vacanze estive, sia che riposiate all'ombra di un pino in montagna, sia che siate distesi su un lettino in una spiaggia assolata.
Renzo Montagnoli

L'autore
Robert Harris è nato nel 1957 a Nottingham, in Inghilterra. Scrittore e giornalista televisivo inglese è famoso soprattutto come scrittore di romanzi thriller. Fra questi, oltre a Fatherland (1992), Enigma (1995), Archangel (1999), Pompei (2003), Leonardo e la macchina infernale (2006) e Imperium (2006).
Renzo Montagnoli


I giovedì della signora Giulia di Piero Chiara Arnoldo Mondadori Editore
Narrativa - romanzo

Esiste il delitto perfetto? Non pochi autori del genere "giallo" hanno affrontato questa ardua prova, con risultati più o meno soddisfacenti, o credibili.
Piero Chiara, che non è possibile definire un autore di genere, ha voluto provarci, mettendo anche a frutto la lunga frequentazione degli ambienti giudiziari derivante dal suo lavoro e ne é uscita così, più che un romanzo, una presceneggiatura, perché lo scopo originale era di realizzare un adattamento televisivo, che poi si concretizzò nell'opera con lo stesso titolo trasmessa in cinque puntate nel 1970 dalla radio-televisione italiana e che ebbe grande successo.
Indubbiamente il fatto che sia stato scritto in funzione di uno spettacolo televisivo fa sì che in questo lavoro si avverta meno la mano felice dell'autore, così bravo a descrivere con sottile finezza gli ambienti di una certa provincia italiana negli anni del dopoguerra.
E in effetti la narrazione si presenta necessariamente schematica, pur non mancando la consueta abilità nel figurare i personaggi, ma con un tono più distaccato, quasi di cronaca giornalistica.
Come in tutti i gialli che si rispettano c'è il commissario di polizia, uomo accorto e capace, ma veritiero, e non un mostro di bravura. Proprio per questo appare più funzionale alla trama e finisce con il dare risalto all'abile piano architettato da un omicida di notevole intelligenza. Sì, perché l'enigma non viene sciolto neppure alla fine, tanto che il processo penale si concluderà con un'assoluzione per insufficienza di prove.
La lettura è veramente appassionante, perché poco a poco ci si lascia coinvolgere dallo stimolo pressante della ricerca della verità, a cui si viene indirizzati in modo mirabile. Tuttavia, quando si crede di aver fatta piena luce sulla vicenda, altrettanto razionalmente ci viene proposta una soluzione di uguale validità, a cui possiamo prestare anche fede, ma che viene a complicare terribilmente le cose, tanto che alla fine il verdetto assolutorio ci sembra la più logica delle conclusioni.
Ci si chiede: chi sarà il colpevole, o saranno entrambi colpevoli?
Non c'è risposta, e in questa sospensione, in questa tipica incertezza ritroviamo il Chiara autore di quei romanzi di provincia che terminano in modo non definitivo, come, per esempio, in "Vedrò Singapore?".
Dimenticavo: è un opera che si legge in un fiato e che poi invece fa arrovellare il cervello, in un'impossibile ricerca della verità che, forse, nemmeno l'autore conosceva.
Renzo Montagnoli

L'autore
Piero Chiara nasce a Luino il 23 marzo 1913, in una famiglia di origini siciliane.
Studia in vari collegi religiosi, ma poi abbandona la scuola, completando da autodidatta la propria formazione culturale.
Dipendente di un'amministrazione statale, vive, durante gli anni del fascismo, la più chiusa e al tempo stesso più eccitante vita di provincia: lunghe letture, il gioco e gli intrighi d'amore.
Data la sua naturale indole al dissenso, diviene inviso al fascismo, al punto che il Tribunale Speciale emette una severa condanna nei suoi confronti e che evita unicamente con la fuga in Svizzera.
Terminata la guerra, ritorna in Italia con un'aureola di antifascista, che gli sarà di aiuto nel reinserimento nell'Italia repubblicana.
Inizia un periodo di fervida creatività che lo porta ad abbandonare il lavoro nell'amministrazione statale per dedicarsi unicamente alla scrittura.
Nascono così i romanzi Il piatto piange, La spartizione, 1964; Il balordo, 1967, con cui vinse Il Bagutta; Il Pretore di Cuvio, 1973; La stanza del vescovo, 1976; Il cappotto di astrakan, 1978; Vedrò Singapore?, 1981, oltre a molti altri, una produzione tutta di notevole livello, dove la capacità dell'autore di scrivere con equilibrio, di non indulgere mai alla volgarità anche nelle storie più scabrose, non viene mai meno.
Piero Chiara muore a Varese il 31 dicembre 1986.
Renzo Montagnoli


Alloggio vista mare e altri racconti di Cesarina Bo ExCogita Editore
Narrativa - racconti

Dopo "Attrazioni e distrazioni" , edito sempre da ExCogita nel 2004, Cesarina Bo ritorna con quest'altra raccolta, costituita da un romanzo breve e da dodici racconti.
In quest'ultimo lavoro lo stile asciutto e senza enfasi dell'autrice si è ulteriormente affinato, rendendo in tal modo la lettura facile, rapida e gradevole.
Per quanto le vicende siano di fantasia parlano di personaggi che esistono nella vita di tutti i giorni, per lo più figure non di spicco, anzi dei veri e propri antieroi, con le loro stranezze, le loro paure e soprattutto l'immancabile solitudine.
Il romanzo breve, che dà il titolo al volume, è quanto mai esplicativo, con la storia del Mandelli, un ufficiale di marina in pensione, misogino, sempre timoroso dei giudizi dei compaesani e che trova sfogo nell'aridità della sua vita unicamente guardando il mare, quell'immensità che lo aiuta stranamente a ritrovare un equilibrio interiore, che nemmeno l'amore di una donna, una vicina, gli può donare.
Si potrà forse obiettare che in fin dei conti il personaggio è di una stranezza che rasenta la pazzia, ma di esseri con tante manie che finiscono per condizionare la loro esistenza il mondo è pieno, come per esempio il Professor Melotti dell'ultimo racconto, valutatore per una casa editrice e poeta in incognito che sogna un successo che si trasformerà in una beffa.
L'ambito creativo di Cesarina Bo in effetti è popolato da tanti protagonisti che sono sostanzialmente degli illusi delusi, dei perdenti, degli esseri umani che trovano difficile vivere secondo i canoni della società a cui appartengono, ma sono vivi perché reali. Per certi versi questi autoemarginati finiscono con il destare tenerezza, perché ai nostri occhi appaiono indifesi, come il Lorenzo di Passione, un anziano che vive solo per leggere e che si procura i libri prendendo quelli abbandonati sui treni, oppure il Luigi de La Prima Comunione, un bambino che osa comunicare la scoperta della propria sessualità.
E' una galleria di personaggi ben delineati e inseriti in trame idonee, senza forzature, una sorta di "candid camera" che è piacevole guardare.
Renzo Montagnoli

L'autrice
Cesarina Bo nasce nel 1956 in provincia di Torino dove resede anche attualmente. Laureata in Matematica, insegna questa materia in un istituto superiore.
Ha già pubblicato la raccolta di racconti "Attrazioni e distrazioni" (ExCogita, 2004).
Renzo Montagnoli


Istanze e sogni di Luigi Panzardi  Edizioni Il Filo
Poesia - raccolta

Nel Poeta è sempre presente una solitudine interiore che lo spinge a comunicare con gli altri tramite i versi. E' un secondo io, sempre presente, ma che in momenti di particolare tensione emotiva trova un suo sfogo guidando la mano a comporre riflessioni, urla di sdegno, silenzi che parlano più di qualsiasi voce.
Ritroviamo questo pathos anche nella raccolta poetica di Luigi Panzardi, caratterizzata da una quarantina di liriche dalle tematiche più disparate, dall'osservazione della natura alla dolorosa immagine dei diseredati.
In ogni caso è sempre presente la consapevolezza della caducità della vita, della conclusione di un ciclo con la morte, un evento accettato con una rassegnazione stanca.
Al di fuori di canoni stilistici ben precisi, si può far rientrare tuttavia questo modo di poetare nel post-ermetismo, riprendendo da quest'ultimo alcune caratteristiche che impongono al lettore un'attenta lettura e rilettura, onde comprendere, peraltro senza soverchie difficoltà, il senso del messaggio.
Aggiungo che c'è una costante linearità dell'esposizione, a volte accompagnata da incisi in funzione rafforzativa, in una stesura dal lessico non complesso, quasi comune, che non impedisce tuttavia il raggiungimento di un'armonia semplice, ma funzionale.
Valga un esempio per tutti quella che, a mio parere, è la lirica più riuscita, dove il contrasto fra il desiderio di una donna emarginata e la realtà del mondo è espresso senza enfasi, e proprio per questo induce a una più ampia e serena riflessione.

Davanti allo specchio di una vetrina
Paralizzata, guarda la vetrina,
gode per la lussuria dei colori esposta.
Un fragore di luci bianche
avvolge il nero vestito di seta giacente,
imperlato, come un cielo gremito di stelle.

Raspa con le mani il vuoto della borsetta,
ha l'animo agghiacciato dalla fame,
ha il cuore dentro che urla stupito,
chiede di sapere perché non può
correre sull'azzurro del mare.

Alle spalle il fiume gonfio e lento sta,
della folla di uomini e macchine,
scorre sullo schermo a due dimensioni:
una è ricchezza, l'altra è povertà.


Ecco, in questi versi c'è tutto lo sdegno per un mondo che accetta solo se stesso, c'è il naturale desiderio, il sogno di una donna per un abito che non può comprare, con quella mano che inconsciamente cerca quello che non c'è nella borsetta. Come tutti i sogni lo scontro con la realtà impone la domanda del perché altri sì e lei no.
E la risposta è nell'ultima quartina, con quel fiume di un'altra umanità che scorre insensibile, lasciando sulle sponde chi non può percorrerlo.

Basterebbe questa lirica a dare valore a una raccolta che ne presenta altre di significativo rilevo.
Renzo Montagnoli

L'autore
Luigi Panzardi è nato a San Giorgio Lucano in provincia di Matera il 27 maggio 1942 e vive a Taranto. Ha già pubblicato una raccolta di poesie intitolata Parole bianche.
Renzo Montagnoli


L'ombra del vento di Carlos Ruiz Zafón Mondadori Editore
Narrativa - romanzo

Nei primi giorni dell'estate del 1945 il proprietario di un piccolo negozio di libri usati porta il figlio undicenne al Cimitero dei Libri Dimenticati, un luogo sito nel cuore della città vecchia di Barcellona e in cui migliaia di libri di cui non si ha più nemmeno memoria vengono sottratti all'oblio. Daniel, così si chiama il fanciullo, entra in possesso di un libro intitolato L'ombra del vento, che cambierà tutto il corso della sua vita.
La storia di Daniel, dalla pubertà fino alla maturità, si svolge in una Barcellona tetra e piovosa, oppressa da una cappa di nebbia e immersa nel cemento e nello smog. Di pari passo con la lettura del libro procede la vita del personaggio principale con strette analogie fra realtà e fantasia, fino a un punto in cui l'esistenza di Daniel si confonderà con la trama del volume che potremmo anche definire "maledetto", perché tutta una serie di elementi, quali antiche dimore con segreti inconfessabili e con spiriti che le animano, palazzi fatiscenti popolati da mostri finiscono con il richiamare la grande tradizione del romanzo gotico.
La grande abilità di Zafón è di illuminarci su quella che doveva essere la vita negli anni cinquanta in Spagna, sotto il regime franchista, una vera e propria cappa di piombo in cui la popolazione si aggira incerta, in un misto, non esattamente divisibile, di amore e odio per il Generalissimo.
L'intenzione dell'autore, però, non è quella di delineare un periodo politico, anche se calza a pennello con il gotico, ma di tributare un omaggio alla scrittura, alla creatività che le è insita, realizzando un romanzo in un romanzo, in una sorta di gioco indubbiamente complesso, ma di grande efficacia.
Se qualcuno può storcere il naso pensando a un romanzo gotico scritto non da un inglese o da un tedesco, ma da uno spagnolo, sbaglia certamente, perché Zafón non fa altro che appropriarsi di tematiche che sono proprie della cultura europea, impreziosendole con caratterizzazioni del tutto iberiche. Al riguardo, significativo è il riuscitissimo personaggio di Fermin Romero, con la sua morale superiore a quella della classe dominante, nonostante una vita vissuta quasi da emarginato, e che richiama in modo perfetto la figura del picaro, con quello spirito d'avventura animato da un'ideale e con la miseria esteriore che cela un animo ricco di altruismo.
Dell'altra caratterizzazione, cioè la cupa dittatura franchista ho già accennato prima, anche se ritengo opportuno aggiungere che non mancano le frecciate alla Chiesa per la sua complicità con un regime che si professa difensore della cultura cattolica, ma che in nome di questa compie ogni genere di nefandezze.
Il mistero, in questo contesto, appare quindi quasi naturale e di mistero si tratta, perché pagina dopo pagina, nel mentre ci verrà svelato il perché di tante cose, altre ne sorgeranno di enigmatiche, anche se non del tutto incomprensibili.
L'aspetto più straordinario è che il ritmo e la tensione non vengono mai meno; inoltre, tanto è il desiderio del lettore di arrivare alla fine per scoprire la soluzione del tutto, ma altrettanto è il timore che l'ultima pagina chiuda per sempre quell'atmosfera magica e sospesa che lentamente, senza ce ne accorgessimo, è scesa su di noi.
Indubbiamente si può parlare di un testo avvincente, di rara potenza ed efficacia, scritto con uno stile misurato e suadente. Certo, l'invenzione di cui ho già accennato e che alla fine di questo periodo ripeterò, attribuisce un'originalità fuori dal comune e che, resa con maestria, mi induce ad affermare che questo libro nel libro, questa storia nella storia, costituiscono un'opera di tale qualità da renderne consigliabile vivamente la lettura.
Renzo Montagnoli

L'autore
Carlos Ruiz Zafón è nato a Barcellona nel 1964. L'ombra del vento è il suo primo romanzo, anche se ha già scritto due autentici best-seller nel campo della letteratura per ragazzi, e vanta una notevole esperienza di sceneggiatore a Hollywood.
Renzo Montagnoli


Balene Bianche di Sabrina Campolongo Michele Di Salvo Editore
Narrativa - raccolta di racconti

Sabrina Campolongo, giovane autrice milanese, fa il suo esordio letterario con questa raccolta di racconti che parlano di amore, un amore non vissuto però, una sorta di inconsapevole attrazione che muove i personaggi, essenzialmente femminili, fatta eccezione per Michelino, un bambino in preda a un'infatuazione tipicamente infantile.
Il tema non era certo facile, perché è meno arduo scrivere di qualche cosa di cui il personaggio è cosciente; e invece ci troviamo di fronte a quelle sensazioni non facilmente descrivibili che potremmo definire più proprie dell'innamoramento.
La mano leggera della Campolongo riesce a trasmettere questa sorta di momento psicologico con lo svolgimento delle trame, i cui attori interpretano di volta in volta diverse tipologie dell'essere umano, passando dalla modella insoddisfatta all'anziana prostituta ormai rassegnata.
Personalmente, fra i sette racconti le mie preferenze vanno a:
Nora Nora Nora, una storia di emarginazione sociale, in cui la dimensione dello squallore viene mitigata da un affetto quasi materno della prostituta Nora per Samuele, un ragazzo anche lui segnato irrimediabilmente dalla vita;
Lei deve essere Erica, in cui questo innamoramento lascia spazio a tante possibili soluzioni, non esclusa quella di un'infanzia che mai ritornerà;
Le mani delle sante, dove il personaggio del bimbo Michelino riesce ad avere tutta l'innocenza della sua età di fronte a un turbamento di cui non riesce ancora a trovare una spiegazione logica.
Lo stile non è involuto, anzi è funzionale al ritmo, volutamente calmo, della narrazione e contribuisce alla piacevole lettura di questa raccolta.
Quello di Sabrina Campolongo è quindi un esordio positivo e ora è naturale attendersi da lei una conferma, magari con un romanzo.
Renzo Montagnoli

L'autore
Sabrina Campolongo è nata il 16 agosto del 1974, nel milanese. Dopo aver conseguito un diploma linguistico, ha lavorato come impiegata fino al 2003, quando ha deciso di concedersi il tempo per occuparsi dei suoi due bambini e per scrivere.
Nel 2000 il suo primo romanzo giallo, tuttora inedito, è stato scelto tra i sei finalisti del premio Alberto Tedeschi (giallo Mondadori).
Nel 2005 uno dei suoi racconti è apparso sulla Writer's Magasine Italia, edita da Delosbooks e un altro ha vinto il concorso letterario Ore contate ed è stato pubblicato sulla relativa antologia, curata da Ibis edizioni.
Nel marzo 2007 pubblica, con Di Salvo Editore, il volume di racconti Balene Bianche.
Sito Internet: http://balenebianche.splinder.com/
Renzo Montagnoli


Il filo d'inchiostro Piccolo manuale per l'aspirante autore che non vuol essere un pollo da spennare
di Maurizio J. Bruno e Piera Rossotti Pogliano Edizioni Tabula Fati
Manualistica

Maurizio J. Bruno, fondatore del Rifugio degli esordienti e animatore di Danae, e Piera Rossotti Pogliano, che dirige la sezione di Lettura Incrociata del Rifugio degli Esordienti, nonché il catalogo di Danae, in forza dell'esperienza acquisita hanno provveduto a scrivere questo manuale di indubbio interesse, una sorta di vademecum per un autore esordiente che abbia in animo di pubblicare il suo lavoro.
Volutamente schematico come un libretto di istruzioni per l'uso ha il pregio non comune di fornire risposte precise a numerose domande.
Si va così dagli strumenti per scrivere, con consigli perfino sull'uso del personal computer, alla protezione degli inediti dal plagio, fino a utilissimi esempi pratici di sinossi e di lettera di accompagnamento per un editore.
Non si tralascia nulla in questo prezioso libretto e infatti troviamo anche il capitoletto dedicato ai premi letterari e alle agenzie letterarie.
E' una lettura agevole che aiuta non poco chi è a digiuno in materia nel districarsi in un mondo che ha le sue insidie, spesso travestite da sirene.
Quindi, poiché la schematicità è essenziale, gli approfondimenti sono necessariamente limitati, ma questo, nel caso specifico, è un vantaggio, perché ne risulta un uso pratico estremamente efficace.
L'opera si conclude con un glossario di termini specifici assai utile anche per chi si ritenga un autore già esperto (sfido a trovare uno che sappia dire esattamente che cos'è il colophon) e con una pratica sitografia per aree di interesse.
Per quanto ovvio, ritengo questo manuale uno strumento non solo necessario, ma addirittura indispensabile.
Renzo Montagnoli

Gli autori
Maurizio J. Bruno nasce a Pinerolo (TO) nel 1964, ma cresce e si forma in Campania, per poi trasferirsi a Roma e infine in Abruzzo, dove vive attualmente. Ingegnere e progettista di una delle più note aziende italiane di elettronica e informatica, a metà degli anni Novanta riscopre l'interesse per la scrittura e per l'editoria, che aveva già coltivato da bambino e, dopo la pubblicazione del suo primo giallo tecnologico, RALF, decide di impegnarsi concretamente al fianco degli scrittori italiani non ancora famosi. Nel 1998 fonda il sito internet Il Rifugio degli Esordienti, tuttora punto di riferimento per gli scrittori alla ricerca di un editore, e nel 2002, insieme ad altri inguaribili utopisti, dà vita a DANAE, un'associazione di Scrittori, Librai ed Editori che si occupa della promozione e della distribuzione di libri già editi ma scritti da autori ancora poco noti. Attualmente, oltre che nel folle tentativo di correggere le storture del mondo editoriale italiano, è impegnato nella scrittura del suo terzo romanzo, come sempre pieno di tecnologia e di misteri.

Piera Rossotti Pogliano, laureata in Lingue e Letterature Straniere Moderne e in Comunicazione Interculturale, ha insegnato all’Istituto di Filologia Romanza dell'Università di Liegi e oggi si dedica all’inserimento delle nuove tecnologie nella didattica delle lingue straniere. Appassionata da sempre di letteratura (soprattutto francese) e di storia, fa parte del gruppo di inguaribili utopisti di cui parla Maurizio J. Bruno, è impegnata da molti anni nella selezione e nella promozione di narratori e poeti esordienti, e dirige dal 1999 la sezione di Lettura Incrociata del Rifugio degli Esordienti e dal 2002 il catalogo di DANAE. Ha curato tre antologie di narratori esordienti, R@cconti senza rete (Napoli, Di Salvo), Oltrel@rete (Roma, Proposte Editoriali) e Ventid@llarete (Perugia, Graphe.it), e ha pubblicato i romanzi storici Il diario intimo di Filippina de Sales, marchesa di Cavour (Torino, L'Angolo Manzoni) e Il ventre pieno di farfalle (Roma, Robin Edizioni).
Renzo Montagnoli


La stanza del vescovo di Piero Chiara Mondadori Editore
Narrativa - romanzo

Fra tutte le opere di Piero Chiara questa è quella che ha più le caratteristiche del romanzo, per completezza nello sviluppo della vicenda e perché ha un finale che lascia aperte diverse possibilità.
Vi sono anche altri elementi che concorrono ad attribuire questa classificazione, non presente in altri lavori dell'autore, con caratteristiche più di racconti lunghi, cioè di storie compiute, che iniziano e si concludono senza ulteriori prospettive.
Mi riferisco, in particolare, all'accuratissima ambientazione storica (siamo nell'immediato dopoguerra), alla struttura del giallo (presente peraltro anche in altre opere, come per esempio I giovedì della signora Giulia), nonché, soprattutto, alla rilevante introspezione psicologica dei personaggi, delineati in modo veramente mirabile. Al riguardo assume uno spessore di grande valore il ritratto di Matilde, una giovane vedova in cui è sempre presente il rimpianto per il matrimonio non consumato e la carica erotica, pronta a esplodere da un momento all'altro. La descrizione di questo status è di alta scuola e rivela un notevole studio della psicologia femminile.
Chiara però si supera con la figura dell'Orimbelli, un personaggio enigmatico, dalla doppia contorta personalità e che è di fatto l'autentico protagonista del romanzo. Costui è uno che vive di ricordi, soprattutto della guerra d'Africa, ma è sostanzialmente un frustrato, fallito come avvocato e che, se ha un po' di soldi, è solo per aver sposato una moglie ricca, ma brutta.
Poi ci sono figure di contorno, altrettanto ben delineate, fra le quali l'autore stesso che narra in prima persona, ovviamente non con il suo vero nome; al riguardo, quell'incertezza della vita, quel desiderio di cambiare, restando comunque se stessi, propri di Chiara, sono sempre ben presenti.
Ho accennato prima all'ambientazione e ritengo ora doveroso parlare dell'atmosfera, sonnacchiosa e decadente, in cui si svolge la vicenda. C'è così un lago Maggiore che alterna momenti di luce ad altri cupi, c'è un giallo che non è lo scopo della narrazione, ma è funzionale strettamente alla trama, tanto che si intuisce subito l'identità del colpevole.
Non è però la ricerca dell'assassino lo scopo vero dell'opera, ma le motivazioni del delitto, l'analisi profonda della psicologia del reo, le reazioni dei personaggi di contorno, secondo un susseguirsi di scene che si ricollegano perfettamente, senza accentuazioni di ritmo, ma con una logica di inequivocabile validità.
L'insieme di questi elementi mi portano a concludere che La stanza del vescovo è una delle migliori opere della letteratura italiana del novecento.
Renzo Montagnoli

L'autore
Piero Chiara nasce a Luino il 23 marzo 1913, in una famiglia di origini siciliane.
Studia in vari collegi religiosi, ma poi abbandona la scuola, completando da autodidatta la propria formazione culturale.
Dipendente di un'amministrazione statale, vive, durante gli anni del fascismo, la più chiusa e al tempo stesso più eccitante vita di provincia: lunghe letture, il gioco e gli intrighi d'amore.
Data la sua naturale indole al dissenso, diviene inviso al fascismo, al punto che il Tribunale Speciale emette una severa condanna nei suoi confronti e che evita unicamente con la fuga in Svizzera.
Terminata la guerra, ritorna in Italia con un'aureola di antifascista, che gli sarà di aiuto nel reinserimento nell'Italia repubblicana.
Inizia un periodo di fervida creatività che lo porta ad abbandonare il lavoro nell'amministrazione statale per dedicarsi unicamente alla scrittura.
Nascono così i romanzi Il piatto piange, La spartizione, 1964; Il balordo, 1967, con cui vinse Il Bagutta; Il Pretore di Cuvio, 1973; La stanza del vescovo, 1976; Il cappotto di astrakan, 1978; Vedrò Singapore?, 1981, oltre a molti altri, una produzione tutta di notevole livello, dove la capacità dell'autore di scrivere con equilibrio, di non indulgere mai alla volgarità anche nelle storie più scabrose, non viene mai meno.
Piero Chiara muore a Varese il 31 dicembre 1986.
Renzo Montagnoli


Fatale appuntamento a Parigi di Gabriele Tristano Oppo Edizioni Tabula Fati
Narrativa - romanzo

Il 25 luglio 2000 è stata apparentemente una data qualsiasi. Provate a chiedervi dove eravate e cosa avete fatto quel giorno e con ogni probabilità non ve ne ricordereste se non per il fatto che è accaduto qualche cosa di particolare rilievo. Infatti, il volo dell'Air France da Parigi a New York fu appena abbozzato, perché il fiore all'occhiello della tecnica aeronautica anglo-francese, il supersonico Concorde, cadde subito dopo il decollo. Rivedo ancora le immagini dei telegiornali che mostrano l'aeromobile con una scia di fuoco e poi il luogo dell'impatto, che provocò la morte, oltre che dei passeggeri, anche di alcuni abitanti della zona, e mentre si snodano le sequenze rammento che all'epoca ero in un albergo della costa garganica.
Il fato, il destino che sembra presiedere a ogni istante della nostra vita ci viene riproposto in questo bel romanzo di Gabriele Tristano Oppo, una narrazione a metà fra la realtà della cronaca e la fantasia dell'autore.
Ci vengono così proposte le storie di quel 25 luglio di alcuni personaggi che furono protagonisti della tragedia, o per esservi periti, o per esservi scampati in modo del tutto casuale.
L'andamento della narrazione è frutto di un abile regia che riesce a comporre tasselli di vita autonoma, che finiscono per essere indissolubilmente legati dall'evento. E tutto questo sullo sfondo di una Parigi non da cartolina, ma immersa pienamente nel suo tempo.
Si indaga sulla psicologia degli attori, sui loro sentimenti, sui moti d'animo, ma con una mano leggera e discreta che conferisce al racconto un senso di benevola pietà per il destino che di lì a poco ai più sarà riservato.
Se in una prima parte c'è la presentazione di questi inconsapevoli attori e nell'ultima e terza parte viene ricostruito il dopo, cioè i giorni successivi alla tragedia, con il dolore dei familiari superstiti e la naturale gioia dei sopravvissuti, la seconda parte è quella più cruciale, perché fotografa gli ultimi istanti di vita delle vittime e di quelli che invece miracolosamente scamperanno. Questa fase intermedia è generalmente la più difficile perché può accadere che lo scrittore tenda a indulgere al compassionevole, ma in questo romanzo non accade. L'autore riesce infatti a mantenersi abilmente al di fuori della vicenda, con un distacco che perfino nei concitati istanti della caduta dona alla narrazione una realtà quasi oggettiva.
Scritto con mano sicura e abilmente strutturato Fatale appuntamento a Parigi è un romanzo di qualità e che si legge con piacere.
Renzo Montagnoli

L'autore
Gabriele Tristano Oppo è nato a Oristano. Laureato in Medicina e Chirurgia all’Università di Cagliari. Specialista in Ostetricia e Ginecologia e in Medicina Legale. Libero docente di Clinica Ginecologica presso l’Università di Modena. Primario del reparto di ginecologia dell’Ospedale di Arezzo fino al 1992.
     Ha pubblicato più di centotrenta contributi scientifici originali su varie Riviste italiane e straniere. La sua attività letteraria è stata apprezzata in occasione di numerosi concorsi di poesia, ottenendo diverse segnalazioni e premi.
     Socio fondatore e Presidente dal 1997 dell’Associazione degli Scrittori Aretini “Tagete”.
    
Ha pubblicato:
Il coraggio e i giorni, poesie (La Felce, Modena 1966); Countdown, poesie americane (Lodigraf, Lodi 1971); Se un’estate la solitudine..., racconti (Piccolo Teatro, Arezzo 1980); Il tuo essere donna, poesie (Lalli, Poggibonsi 1988); Storie di genetica ambiguità, due romanzi brevi (Solfanelli, Chieti 1992); Poker di donne, racconti (Tabula fati, Chieti 1997); Il rischio di amare, romanzo (Tabula fati, Chieti 1998); Pietro Aretino, saggio (Centro Studi Aretini, Arezzo 1998); Andrea Cesalpino, saggio (Centro Studi Aretini, Arezzo 1998); D’Annunzio e la terra d’Arezzo, saggio (Centro Studi Aretini, Arezzo 1998); Poesie per la memoria di un giorno, poesie (Centro Studi Aretini, Arezzo 1998); Giramondo, poesie (Alberti Editore, Arezzo 2001); D’Annunzio e la Sardegna, saggio (Accademia Casentinese di Lettere ed Arti, Borgo alla Collina 2002); Una donna tra due divise, romanzo (Tabula fati, Chieti 2002); Due colpi di pistola e Intrigo diplomatico a Londra, due commedie in tre atti (Ed. Le Maschere, Arezzo 2003); Barbarella. Il grande romanzo d'amore di Barbara Leoni e Gabriele d’Annunzio, romanzo storico (Tabula fati, Chieti 2004); Gli aretini nella storia dell’arte medica, saggio (Centro Studi Aretini, Arezzo 2004); L’arpa celtica, romanzo (Schifanoia Editore, Ferrara 2005); Morte in do minore, musical thriller (Edimond, Città di Castello 2006); Telefoninovelas. Viaggio attraverso l’Italia dei cellulari, racconti (Edimond, Città di Castello 2006); Fatale appuntamento a Parigi, romanzo (Tabula fati, Chieti 2007).

Renzo Montagnoli


Guerra sulle Alpi (1915 - 1917) di Fritz Weber Mursia Editore
Storia

Fritz Weber, che durante la Grande Guerra combatté dall'altra parte, cioè fu per noi un nemico, si rivela uno storico appassionato e al tempo stesso equilibrato e dotato di innata umanità.
Questo volume, che parla di gesta compiute sulle montagne, anche a quote impervie, è un commosso omaggio al sacrificio di tanti e un riconoscimento sincero del valore dei nostri soldati.
Si parte così dall'altopiano di Lavarone ove effettivamente Weber prestò servizio per arrivare, un po' più in là, al Col di Lana, dove si combatté una battaglia fra le più sanguinose e che si concluse solo con l'esplosione della mina che avevano predisposto i genieri italiani con un lungo e pericoloso lavoro.
Emergono così figure di notevole rilievo, fulgidi esempi di uomini temprati, già famosi, ma che diventano immortali immolandosi in una guerra crudele e senza risparmio di colpi, come nel caso della famosa guida alpina Sepp Innerkofler.
Le notevoli quote a cui si svolgono i combattimenti, il freddo, la neve, il ghiaccio saranno di volta in volta alleati dell'una o dell'altra parte, anche se alla fine l'unico vero vincitore sarà la natura.
Ci sono descrizioni di notevole effetto, narrazioni di eventi che se non fossero riscontrabili avrebbero dell'incredibile, come la città nel ghiaccio della Marmolada, perforata da lunghe gallerie costruite sia dagli italiani che dagli austriaci, cunicoli che a volte addirittura si incontravano.
Resta la magia della natura a far da testimone agli orrori di una guerra fra uomini che, in altre epoche, si sarebbero invece calorosamente salutati lungo gli impervi sentieri delle Alpi.
Renzo Montagnoli

L'autore
Fritz Weber (1895-1972) combattè durante la prima guerra mondiale con il grado di tenente di artiglieria dell'esercito austro-ungarico. Altre sue pubblicazioni, edite tutte da Mursia, sono "Tappe della disfatta" e "Dal Monte Nero a Caporetto".
Renzo Montagnoli


Buio a Stromboli di Ugo Amati Edizioni Tabula Fati
Narrativa – romanzo

Stromboli, anni 70. L’isola non è ancora il paradiso turistico agognato da tanti, ma è un’isola scarsamente abitata, immersa in un mare infido e in una natura selvaggia, quasi morta se non fosse per il vulcano che di continuo fa sentire il suo cupo brontolio.
Ad essa approda nel 1974 l’autore, designato quale medico condotto di Ginostra, un paesino piccolo e di poche anime.
Perché il Dr. Amati, peraltro all’epoca assai giovane, ha scelto di isolarsi laggiù?
E’ quello che sapremo leggendo il libro, che ha tutte le caratteristiche dell’autobiografia, peraltro limitata a un periodo di tempo breve, ma ritenuto dall’autore di notevole importanza.
Là, dove non esiste nemmeno la luce elettrica, dove si finisce con il tornare a una vita quasi primitiva, è possibile riflettere sul proprio passato e meditare sui giorni a venire.
Amati, che è medico psichiatra, ci offre ottime pagine di descrizione dell’ambiente, di conoscenze umane, rafforzate dalla solitudine proprie dell’isola, ma spesso indugia professionalmente sulle riflessioni, rendendole poco in sintonia con la narrazione, con un cambio di registro che a volte può anche stancare.
In questi casi ho letteralmente evitato di assimilare e ho preferito proseguire con l’aspetto narrativo, che è invece di buon livello e che riesce gradualmente a trasmettere un senso di serenità, proprio di chi ritrova se stesso a contatto con la natura. E’ in questa chiave, in effetti, che deve essere letto il romanzo, un eccellente quadro di un’epoca e di un ambiente che non ci sarà possibile ritrovare.
Renzo Montagnoli

L'autore
Ugo Amati è vissuto in Francia dove è stato in analisi con Jacques Lacan e dove ha lavorato presso la clinica La Borde diretta da Jean Oury.
     Psichiatra, psicanalista, è autore di numerose opere sui processi della creazione estetica e sullo spazio della follia. Alcune sue opere sono state tradotte e pubblicate all'estero. Vive e lavora a Roma.
     Tra le sue opere: Lo spazio della follia (Bertani, Verona 1974), L'uomo e le sue pulsioni (Melusina, Roma 1994), Arte, terapia e processi creativi (Borla, Roma 1996), L'anoressia dello spazio (Borla, Roma 1999), Gnosi e psicanalisi (Borla, Roma 2002), La psichiatria negata (Borla, Roma 2003), La pulsione di Orfeo (Borla, Roma 2004), La luce. Dialogo tra uno psichiatra e un pittore (Il Veliero, Pesaro 2007), Se Freud si fosse fermato a Rimini (Alpes, Roma 2006).
Renzo Montagnoli


La pensione Eva di Andrea Camilleri Arnoldo Mondadori Editore
Narrativa - romanzo

Dopo la lettura, gradevole, ma sinceramente nulla di più, del "Il colore del sole", non mi sarei aspettato, prendendo in mano questo "La pensione Eva", di imbattermi in un gran bel romanzo, uno dei migliori in assoluto fra i numerosi scritti da Camilleri.
In verità lo scrittore siciliano tende a puntualizzare in una nota finale: "Quanto scritto intende essere semplicemente una vacanza narrativa che mi sono voluto pigliare nell'imminenza degli ottanta anni."
Se questa è una vacanza narrativa, consiglio vivamente a Camilleri di prendersene altre.
La nota prosegue:"Oltretutto, alla lettura credo che presenti difficoltà minori di altri miei romanzi. E persino il titolo è diverso dai miei soliti."
Effettivamente, nonostante lo strano linguaggio che caratterizza tutta la produzione di Camilleri, risulta assai più comprensibile del solito.
Sempre leggendo la nota: "Desidero avvertire che il racconto non è autobiografico, anche se ho prestato al mio protagonista il diminutivo col quale mi chiamavano i miei famigliari e i miei amici. E' autentico il contesto. E la pensione Eva è veramente esistita…".
La precisazione è doverosa, in quanto si ha l'impressione che il racconto sia autobiografico e forse, in parte, lo è, perché certi turbamenti adolescenziali sono propri di tutti gli esseri umani.
Se la trama principale è la nascita, il successo e poi la fine, drammatica, di una casa di tolleranza che ha la sede a Vigata, si allacciano altre vicende, non sempre secondarie, che hanno il pregio di fornirci una visione viva e realistica di un'epoca.
Tutto ruota, in effetti, intorno alla figura di Nenè che si presenta fin dall'inizio con i suoi dodici anni e che poi chiude la narrazione al raggiungimento della maggiore età.
I turbamenti sessuali di questo fanciullo, i giochi con la cuginetta, le paure di non essere abbastanza uomo sono raccontate con mano leggera, senza mai indulgere al laido, anzi non è infrequente un sorriso di comprensione alla luce della naturale innocenza del protagonista.
Non deve comunque stupire che Camilleri, a ottanta anni, si sia messo a scrivere dell'amore carnale, perché vi sono degli illustri precedenti e tanto per citarne uno mi permetto di fare il nome di Garcia Marquez con "Memoria delle mie puttane tristi". In effetti, sono dell'opinione che, giunti a una certa età, riesca più facile scrivere proprio dei turbamenti giovanili, vivi mentalmente nel ricordo, ma privi ormai della pulsione fisica del ricordo stesso.
Questo Nenè, che si scopre, o meglio si illude di essere Casanova, ci condurrà dentro la famosa pensione, ci renderà partecipi di avventure varie, mentre la voce narrante ci porterà gradualmente a conoscere la tragedia, nell'isola, della seconda guerra mondiale, in pratica fino allo sbarco anglo americano.
La descrizione degli eventi bellici è quanto di meglio ci si possa attendere: poche, sapienti incisive immagini e il lettore percepisce chiaramente lo stato di tensione derivante dai bombardamenti, lo sfascio di un regime e la psicosi della gente ormai in balia degli eventi.
Non stupisce, poi, la simpatia dell'autore per le ospiti della pensione, persone deboli, con storie familiari spesso tragiche, e come è ben noto Camilleri ha sempre un occhio di riguardo per gli umili e i diseredati.
L'ambientazione è resa in modo mirabile, la mano è felice e lieve nel trattare argomenti un po' scabrosi, la trama è avvincente, i vari personaggi sono azzeccati, la lettura è agevole.
Insomma, non è possibile pretendere di più da un libro.
Renzo Montagnoli

L'autore
Andrea Camilleri (Porto Empedocle, 1925), regista di teatro, televisione, radio e sceneggiatore. Ha insegnato regia presso l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica. Ha pubblicato numerosi saggi sullo spettacolo e un volume, I teatri stabili in Italia (1898-1918). Il suo primo romanzo, Il corso delle cose, del 1978, è stato trasmesso in tre puntate dalla TV col titolo La mano sugli occhi. Con questa casa editrice ha pubblicato: La strage dimenticata (1984), La stagione della caccia (1992), La bolla di componenda (1993), Il birraio di Preston (1995), Un filo di fumo (1997), Il gioco della mosca (1997), La concessione del telefono (1998), Il corso delle cose (1998), Il re di Girgenti (2001), La presa di Macallè (2003), Privo di titolo (2005), La pensione Eva (2006); Il colore del sole (2007); e inoltre gli altri romanzi con protagonista il commissario Salvo Montalbano: La forma dell'acqua (1994), Il cane di terracotta (1996), Il ladro di merendine (1996), La voce del violino (1997), La gita a Tindari (2000), L'odore della notte (2001), Il giro di boa (2003), La pazienza del ragno (2004), La luna di carta (2005), La vampa d'agosto (2006).
Renzo Montagnoli


Vedrò Singapore? di Piero Chiara Mondadori Editore
Gli Oscar - Edizione 1983
Narrativa - romanzo

Il destino spesso è strano. Vedrò Singapore?, probabilmente uno dei romanzi migliori di Piero Chiara, fu edito nel lontano 1981, ottenendo fin da subito un considerevole successo di critica e di vendite (in circa un anno si parla di 500.000 copie). Ci furono poi successive ristampe, ma da un po' di tempo il libro non è più nel catalogo dell'editore, come se avesse esaurito l'originaria spinta iniziale. Ed è un vero peccato che non sia reperibile se non su qualche bancarella di libri usati, perché questo romanzo è il frutto di una maturità, che se aveva fatto gridare al miracolo all'uscita de Il piatto piange, qui si rivela in tutta la sua complessità che Piero Chiara ha saputo tradurre in poche e semplici parole: "Era lei, la Ilde, a quarant'anni, che veniva dall'avvenire, dal futuro, a dirmi che la vita è quella che è, orribile, ma sopportabile."
Il senso di rassegnazione alle vicende umane, quella sorta di impotenza a opporsi al destino, tanto che vale la pena di lasciar fare, di non angustiarsi, di agire d'impulso, è più che mai presente in quest'opera, ambientata, per così dire, fuori casa, fra le solitarie valli di quell'Italia orientale acquisita a seguito della prima guerra mondiale. Se l'ambiente però non è più quello di Luino e del lago Maggiore i personaggi e le storie acquisiscono una comune identità, tanto da confermare che ogni mondo è paese, soprattutto quando le realtà sono rappresentate da villaggi di pochi abitanti, dove tutti si conoscono e dove la familiarità è quasi d'obbligo.
L'epoca, poi, è la stessa di quella de Il piatto piange, quegli anni 30 in cui il fascismo sembrava ormai consolidato e la rassegnazione era la caratteristica comune di chi credeva che la libertà non sarebbe più tornata. Una vita fatta di circoli chiusi, di spirali, in cui i personaggi si muovono lasciandosi andare, una ricerca del modo di trascorrere il tempo che sfocia in continue abitudini: questo è il mondo, inserito in quell'epoca, che così bene Piero Chiara sa descrivere.
Fra l'altro il personaggio principale è proprio l'io narrante, trasferito in quei lontani posti dalla natia Luino, o meglio dalle onde del Lago Maggiore, come esordisce lui stesso a un certo punto. E' un uomo che più che vivere sopravvive, senza interessi (nemmeno quello del lavoro) e che ritrova un po' il piacere dell'esistenza nelle compagnie.
Se le vicende del romanzo, a corredo del filone principale, sono numerose, bene articolare e spesso spassose, i personaggi di contorno sono uno più azzeccato dell'altro, perfino nei nomi.
Così si incontra il terribile e temuto Mordace, un caporione fascista che in quelle lontane terre vigila e dispone per italianizzare e fascistizzare tutti gli abitanti, oppure il Pretore Merdicchione, l'ex magistrato Carlo Fohn, ora ridotto a ladro di polli, il tavolarista Andrea Zciuka che nasconde nei locali della pretura un'amante da caravanserraglio, il procuratore delle imposte Palateo, di orribile bruttezza, che va a letto con la bella promessa sposa del corazziere, l'avvocato Grisella che vive veramente solo nel momento del suicidio, la conturbante Brunilde, che si nega a tutti, ma che poi si avvia al meretricio in casa d'appuntamenti.
Un campionario vario di esseri umani, tutti accomunati dal fatto di essere dei falliti e dalla consapevolezza di questo loro destino, dona al romanzo, in una serie di incastri, uno spessore di notevole rilievo.
L'emblematico finale non fa altro che rafforzare il pessimismo di Chiara: al personaggio principale, a seguito di una sua disavventura, viene offerta la possibilità di non pagarne le conseguenze, a patto che accetti di essere allontanato. Ob torto collo acconsente all'essere imbarcato con la qualifica di scrivano su un bastimento diretto a Singapore. "Vedrò Singapore?" si chiede allora di fronte alla prospettiva di un cambiamento radicale della propria vita. Ma, forse portato dal vento, gli arriva un sussurro: "Torna alle onde del Lago Maggiore". Il romanzo finisce nell'incertezza: si imbarcherà o ritornerà a Luino? Sono propenso a credere alla seconda ipotesi: anche se ci si lascia trasportare dal destino, la vita è meno orribile se si torna alle origini. E poi una decisione importante non è nella natura del protagonista che sembra dirci: meglio la certezza di una vita da poco che l'incertezza di un'altra vita assai probabilmente ancor da poco.
Renzo Montagnoli

L'autore
Piero Chiara nasce a Luino il 23 marzo 1913, in una famiglia di origini siciliane.
Studia in vari collegi religiosi, ma poi abbandona la scuola, completando da autodidatta la propria formazione culturale.
Dipendente di un'amministrazione statale, vive, durante gli anni del fascismo, la più chiusa e al tempo stesso più eccitante vita di provincia: lunghe letture, il gioco e gli intrighi d'amore.
Data la sua naturale indole al dissenso, diviene inviso al fascismo, al punto che il Tribunale Speciale emette una severa condanna nei suoi confronti e che evita unicamente con la fuga in Svizzera.
Terminata la guerra, ritorna in Italia con un'aureola di antifascista, che gli sarà di aiuto nel reinserimento nell'Italia repubblicana.
Inizia un periodo di fervida creatività che lo porta ad abbandonare il lavoro nell'amministrazione statale per dedicarsi unicamente alla scrittura.
Nascono così i romanzi Il piatto piange, La spartizione, 1964; Il balordo, 1967, con cui vinse Il Bagutta; Il Pretore di Cuvio, 1973; La stanza del vescovo, 1976; Il cappotto di astrakan, 1978; Vedrò Singapore?, 1981, oltre a molti altri, una produzione tutta di notevole livello, dove la capacità dell'autore di scrivere con equilibrio, di non indulgere mai alla volgarità anche nelle storie più scabrose, non viene mai meno.
Piero Chiara muore a Varese il 31 dicembre 1986.
Renzo Montagnoli

Una terra per Siran di Manuela Avakian  Prospettiva Editrice

AVAKIAN, una scrittrice testimonia l’Armenia.
Manuela Avakian, col suo romanzo d’esordio “Una terra per Siran”, ci conduce fra il popolo armeno.
Prende spunto dalla propria vicenda familiare, per raccontarne l’ingiustizia dell’esilio. La sua narrazione ha ambientazioni storico geografiche precise. Ci accompagna in Armenia a scandalizzarci del suo sangue, poi in Etiopia, infine in Italia, riuscendo a farci vivere usanze e mentalità di ciascuna etnia. Quasi assaporiamo i piatti armeni cucinati dalla protagonista, Siran. Con lei ci affacciamo sulle tukul in Africa. Dal suo salotto vediamo le rotonde capanne di fango, ne sentiamo il puzzo di sporcizia e malattia mentre gli indigeni ci coinvolgono nelle loro esistenze, distinguiamo le case a luci rosse ancora più sudice per la sifilide. Poi il disagio per le stagioni italiane sconosciute all’Africa e lo stupore per i suoi paesaggi di uliveti e boschetti di ginepro. Per finire ad imprimere orme sul bagnasciuga, con la certezza di calpestare finalmente la propria terra.
E con Siran soffriamo per l’inflizione di un’educazione troppo turchizzata. Non vero retaggio armeno, ma assimilazione di una cultura “nemica”. Con lei ci ribelliamo ma alla fine versiamo lacrime quando il padre ammette la sua troppa durezza.
La storia è una dei protagonisti del romanzo. Primo paese al mondo ad adottare il Cristianesimo come religione di stato, l’Armenia, anche per essa, è da sempre teatro di conflitti. È’ raccontata durante il genocidio, movente dell’emigrazione della famiglia Hagopian. Quello più recente del 1915/1916, in cui i Giovani Turchi inseguirono il mito della Grande Turchia anche orrendamente massacrando minoranze. L’Armenia ne aveva già subito uno precedente, scatenato dal sultano dell’impero ottomano Abd – ul – hamid II negli anni 1894/1896 e ne portava ancora le ferite.
Sangue. E ancora sangue. Tutt’ora sangue, in questa terra senza pace.
Il 20 gennaio 2007, la stampa ha riportato l’omicidio del giornalista e scrittore armeno Hrant Dink, già condannato per offesa all’identità turca. Lo stesso reato per i quali sono stati condannati altri due scrittori, il premio nobel per la letteratura Orhan Pamuk e la scrittrice, questa volta turca ma grande amica di Dink, Elif Shafak per il libro “Il bastardo di Istambul”. Come Dink, hanno scelto di rimanere in patria per amore della propria terra e dei propri avi, pronti al sacrificio sino alla morte. Si potrebbero citare anche altri nomi, piuttosto noti nel mondo, che hanno stabilito di superare la neghittosità tipica orientale ed esporsi in prima persona. In Turchia l’incognita del successo di raggiungere l’unico vero baluardo della libertà rimane l’islamismo. La sua violenza e radicalità sono purtroppo ostacoli difficilmente superabili.
Sangue. Tutt ‘ora sangue. E sangue chissà per quanto ancora.
Antonia Arslan, conosciuta scrittrice e giornalista italiana, testimonia il sopruso attraverso le vicissitudini della propria famiglia, col suo primo romanzo “La masseria delle allodole”. In tono colloquiale, come in una chiacchierata accanto al camino, ci presenta affettuosamente i suoi cari. Scevro d’odio, il romanzo narra da una situazione iniziale di agiatezza al tramonto di gran parte dei componenti della famiglia. Sempre distintasi per l’ottima reputazione ed educazione, la famiglia Agopian insegnava ai propri bambini a non mostrare dolore. L’educazione esige compostezza. Facile, quando il dolore è un gioco. Quando dura il momento di una foto. I piccoli armeni, in posa d’avanti ad una macchina fotografica, giocavano a dissimulare quello dei calci e pizzichi che si tiravano a vicenda. Chi sarebbe apparso più bravo? Ignoravano che presto ne sarebbe toccato uno terribile, solo da urlare.
Un piccolo dolore soffocato può avere impedito di gridarne uno molto più forte? La troppa educazione e fiducia nella rettitudine degli altri, può aver ostacolato il riconoscimento del pericolo e il fuggire in tempo? E nel silenzio le donne della famiglia subirono l’inquadramento in massacranti marce, pause in campi profughi, e ogni sorta di violenza. Ma a loro, alle sopravvissute, essendo gli uomini tutti sterminati, toccava accusare. La loro voce, ancora troppo poco ascoltata, incrimina attraverso una loro discendente. Donna e scrittrice.
Avakian si associa alla Arslan nel traghettare la sua famiglia dall’inferno dell’Armenia alla salvezza in Italia. Entrambe descrivono atrocità senza falsi pudori, perché la guerra non merita veli. Narrano gli abusi che si accavallarono sommergendo un popolo nell’asfissia del dolore, togliendoli ogni traccia d’umanità. Lo denunciano tutti i personaggi. Ad uno secondario, Heripsime, Avakian dedica i versi di Primo Levi
“Considerate se questa è una donna,
senza capelli e senza nome
senza più forza di ricordare
vuoti gli occhi e il grembo
come una rana d’inverno …..”
Heripsime nelle forzate marce della morte. Heripsime nei campi di concentramento. Heripsime, nel dolore e nel silenzio. Chi grida per lei? Chi piange per lei? Chi l’ha conosciuta? Chi sapeva del suo martirio? Sofferenza e solitudine. Un popolo malvagiamente offeso e circondato dal silenzio, nonostante l’impietoso spettacolo dei suoi cadaveri ammucchiati ovunque. Vittime su vittime.
Un emblema.
È’ così che succede sempre. Il genocidio è solo un’amplificazione del quotidiano. La sofferenza è vissuta fra l’indifferenza di tutti. La sofferenza educata, quella che si ha pudore di manifestare, non viene colta. Quella gridata rompe temporaneamente il muro dell’indifferenza, giusto il tempo di farsi compatire. Ma rimane sempre sola. Unico vero possesso incondivisibile. Diventa il modo di sentire, il filtro attraversato dagli avvenimenti della vita che ne dimensiona la gravità. Rende succubi. Come il padre di Siran.
Affronto su affronto. Genocidio e silenzio. Conosciuto quello degli ebrei. Ancora soffocato dalla magistratura turca quello armeno. La ribellione dell’autrice per l’ingiustizia è esplicita. Persino gli ebrei sono da invidiare. La loro tragedia, in ogni modo commemorata, esalta la loro sorte. Gli armeni sono a tutti sconosciuti e la loro sciagura addirittura negata. In effetti Avakian, del tutto incapace di distacco, non racconta con freddezza cronografia gli avvenimenti che hanno influito pure sulla sua vita.
Al contrario dell’Arslan, che incentra il suo romanzo sul genocidio, Avakian oltrepassa la travagliata odissea dei progenitori e ci racconta il presente in Italia. Siran, vive tra noi, insegna, decide di divorziare, si apre ad un’intramontabile storia d’amore, si riconcilia coi genitori e, soprattutto, ritrova se stessa. È una donna in cerca della propria identità. Per conoscersi percorrere a ritroso la propria esistenza, sino a gridare, alla fine del romanzo, “sono armena!” finalmente consapevole del significato.
Dalla nascita Siran è vissuta da esiliata, in cerca di una patria accogliente. “Quale mai sarà il luogo dei miei sorrisi. Ma io sono stanca, stanca di girare, di cercare un posto che forse non c’è”. Sogna di far parte integrante di una ben determinata società, dai confini fisici prestabiliti. Invece, troppo spesso “Siran si sentì sospesa in uno strano spazio/tempo che non apparteneva a nessun luogo. Per una come lei che aveva quel profondo bisogno di appartenere, la sensazione era insostenibile. Appartenere ad una terra, ad un popolo. Avere delle origini”. Nel corso del romanzo questa necessità si esterna con espressioni sempre diverse. Siran si percepisce esule. Figlia di gente strappata alla propria esistenza, di rimpianti trasmessi per generazioni, straniera priva di connotati distinguibili fra gente indifferente. L’unico riconoscimento della propria identità le viene dall’uomo che l’ha veramente amata. Vittorio, solo leggendo il nome sul registro delle presenze dei docenti, sa tutto di lei. Dal suo arrivo in Italia, Siran aveva avuto moti di stizza per l’ignoranza palesata da chiunque e dalla superficialità nel non volerne sapere di più. Vittorio la sorprese per la sua cultura. E proprio la cultura, tanto amata da Siran, fu freccia e linfa del loro amore.
Il romanzo ha due dimensioni. Accanto alla narrazione troviamo Siran che si espone in prima persona scrivendo tenere lettere. Nel confronto liberatorio con il foglio bianco riversa la sua vera essenza, permettendo ai suoi sentimenti di fluire sinceramente. I pensieri scorrono cercando di convergere nella sua dimensione. Si racconta, si analizza, si ricorda, versa lacrime nel tornio della propria mente per forgiare la sua armonia. E ci riesce. Siran diventa consapevole di se e trova la forza di camminare verso il futuro nella terra che finalmente sente propria.
Angela Plati

L'autore
Manuela Avakian scrittrice trentenne tarantina esordisce col romanzo “Una terra per Siran” Prospettiva Editrice. Il romanzo è stato premiato dal Collegio Pontificio di Roma, finalista al premio Calver, recensito da testate giornalistiche anche nazionali tra cui La Repubblica e addirittura internazionali come il New York Review of Books. Il romanzo è adottato nelle scuole come testo di lettura. Ha pubblicato su “Nuovi Argomenti” il racconto “Un destino nell’hadig”.
Angela Plati


Camp Attack di Larry Lisca Casa Editrice I Sognatori
Copertina e disegni di Francesca Santamaria
Satira

Non avete mai frequentato un campeggio?
Non importa, perché in questo libro il luogo è un pretesto per parlare della nostra società, dei suoi difetti, che poi sono i nostri, e infatti non mancherete di accorgervi di avere una o più delle caratteristiche delle tipologie di personaggi che Larry Lisca è riuscito a descrivere così bene.
Diciamo che si ride, e spesso, ma il fatto che ci possiamo rispecchiare in queste caricature fa sì che il riso sia amaro.
Francamente, però, era da diverso tempo che, leggendo, non avevo occasione di divertirmi, un po' perché di testi che inducano all'ilarità ce ne sono pochi e anche perché certamente non è facile far ridere ed è comunque assai più difficile che far piangere.
Definire la tipologia dell'opera di Larry Lisca non è cosi semplice e anche lui in un'intervista riportata a fine volume non la considera un romanzo, né un saggio, né una guida.
Secondo me è una sorta di riflessione satirica, in cui l'ironia spesso sfocia nella comicità, dove la zampata arriva quando meno l'aspetti, senza tuttavia essere una pochade.
Le osservazioni sono pertinenti e puntuali, e quindi le tipologie dei personaggi non sono inventate, e in ogni caso ciò che conferisce rilievo all'opera è lo stile con cui i concetti vengono esposti, una sorta di humor all'inglese che evita possibili pesantezze e che comunque permea ogni riga, stemperando l'eventuale impertinenza di alcune affermazioni.
Quindi una lettura agevole, tanto che ho letteralmente divorato il libro, che non è solo comicità, ma soprattutto è occasione di opportune riflessioni.
Peraltro, Larry Lisca, in mezzo a tutti i suoi personaggi ne individua al termine uno a cui riserva un trattamento ben diverso. Mi riferisco al lettore, l'unico che non cerca di apparire diverso da quello che è, il solo che nella frenesia vacanziera non viva in funzione degli altri, ma si appaghi meditando sulle righe del volume che ha in mano.
La circostanza è tanto più piacevole, perché l'autore, nella sua prima opera, ha voluto tributare un commosso omaggio a quanti aspirano effettivamente a conoscere attraverso la lettura. Per questi non c'è satira, ma solo tanta simpatia.
Come al solito, la veste tipografica è eccellente e, oltre all'indovinata copertina, Francesca Santamaria ci regala all'interno anche dei riusciti disegni, in linea con i personaggi presi di mira.
In buona sostanza, se volete divertirvi, se amate la risata, se volete fermarvi un attimo a guardare con occhi disincantati voi e gli altri, questo è il vostro libro.
Renzo Montagnoli

L'autore
Larry Lisca, pseudonimo di Leonardo Lisca, nasce a Lecce nel 1956. Camp Attack è il suo primo volume; ora sta scrivendo un romanzo umoristico.
Renzo Montagnoli


Spiegazioni con mare e altri elementi di Gabriel Impaglione Editrice UNI Service
Poesia - Silloge

Nei versi di questa silloge si riflettono le condizioni dell'autore di essere parte di due patrie: quella originaria, derivante dalla sua nascita, dalle sue esperienze giovanili e in cui è maturata la visione politico-poetica del mondo, e quella acquisita con il suo matrimonio con Giovanna Mulas.
Il mare divide questi due regni di vita, ma anche li unisce, perché i punti contatto, i sentimenti, le emozioni si fondono in una universalità dell'esistenza che ci fa ben dire che non esistono confini, ma distanze, che non vi sono nazionalità, ma uomini che esprimono un comune sentire in lingue diverse.
Del resto di questo impegno non solo poetico, ma anche politico Gabriel Impaglione ci ha già detto molto con Carte di Sardinia, ma là in una dimensione più astratta, con una veemenza che qui si sfuma nella quotidianità dei comportamenti, nell'appagamento di una serena vita familiare, come un Ulisse che, dopo tanto peregrinare, è approdato finalmente alla sua Itaca, ma che anela a che tutti abbiano la possibilità
di ricongiungersi alle loro piccole isole-famiglie .
Ecco appunto la mirabile fusione fra il discorso politico e quello poetico, la forza stemperata dall'affetto, ma proprio per questo più incisiva.

Domande

Come si dice Pace perché si capisca?
Posso scrivere Fraternità in tutti gli idiomi?
Se non ti nomino posso dire Amore con tutte le lettere?
Perché chiamano globalizzazione l'imperialismo?
Perché all'imperialismo dicono democrazia?
Si può dire Libertà nei saloni dell'ONU?
Fu una goccia di sogno il principio di tutti i mari?
Come spiegarmi quando mi guardi?


Un poeta non ha se non tante domande.
…….

Ecco, mi sono permesso di riportare i primi versi di questa poesia, peraltro molto lunga, unicamente come esempio di quanto ho scritto sopra.
Aggiungo, inoltre, che la componente armonica, l'equilibrio fonetico è sempre presente e costituisce, nella lingua originale, una caratteristica consolidata dell'autore, e infatti, opportunamente, i testi sono riportati anche in versione spagnola.
Renzo Montagnoli

L'autore
Gabriel Impaglione (BsAs.1958) poeta e giornalista argentino.
Alcune sue pubblicazioni: "Echarle pájaros al Mundo" (Ediciones Panorama, BsAs, 1994), "Breviario de Cartografía Mágica" (El Taller del Poeta, Galicia, 2002), "Poemas Quietos" (Antol. Editorial Mizares, Barcelona, 2002), "Bagdad y otros poemas" (El Taller del Poeta, Galicia, 2003), "Letrarios de Utópolis" (Linajes Editores, México, 2004), "Cuentapájaros" (Taller del Poeta, Galicia), "alala" (Taller del poeta, España, 2005), "Carte di Sardinia" (UNI Service, 2006).
Dirige la rivista letteraria Isla Negra, coordina edizioni in italiano e sardo di Isola Nera e Isola Niedda. Collabora con varie riviste d'oltreoceano.
Renzo Montagnoli


Segreti dei Gonzaga di Maria Bellonci  Mondadori Editore
Narrativa - romanzo storico

Dopo la lettura dello splendido "Memorie di Adriano" di Margherite Yourcenar è stato istintivo riprendere in mano un romanzo storico per certi versi analogo e di indubbio valore.
Mi riferisco a "Segreti dei Gonzaga" di Maria Bellonci, edito per la prima volta nel 1947 e poi soggetto a più ristampe, di cui l'ultima risale al 2001.
In proposito, a parte le epoche diverse, non è difficile riscontrare molti tratti comuni fra le due opere.
In effetti ci si chiede se Maria Bellonci abbia inteso scrivere un trattato storico o un romanzo storico, ma la risposta che ci si può dare al termine della gratificante lettura è difforme dalla domanda.
Troviamo infatti una ricerca minuziosa e approfondita dei documenti a sostegno della trama, rileviamo una esauriente dissertazione storica dove la Bellonci non si lascia mai trasportare da voli di fantasia, ma che ha anche e soprattutto il pregio di attuare uno scandaglio psicologico dei personaggi, entrando nel loro animo.
L'abilità dell'autrice è di avvincere sulla base di dati rigorosamente rispettati, restando in un limbo indefinibile fra storia e romanzo, una capacità tutta sua, una dote unica potremmo dire, grazie all'abbinamento fra la profonda conoscenza scientifica e l'umanità e sensibilità della scrittrice, fuse in modo impercettibile, ma con effetti di grande rilevanza.
La narrazione della corte mantovana, del suo ambiente regale e sontuoso si riveste di un'insolita amarezza, a cui non poco contribuisce la crudeltà delle vicende, un comune denominatore che anima la ragione dinastica, la morbosità del sesso e dell'amore, il fasto, inutile di fronte alle leggi della vita.
In questo modo emerge un quadro di un periodo di questa grande dinastia che, anziché lasciare i personaggi nelle crude pagine della storia, li fa rivivere con tutti i loro difetti, le loro debolezze proprie di ogni essere umano, com'era un tempo e com'è anche ora.
Ci troviamo di fronte a un'opera di grande pregio e se forse l'accostamento a "Memorie di Adriano" può sembrare azzardato, perfino impertinente, posso dire, a mio parere, che anche "Segreti dei Gonzaga" è un capolavoro.
Renzo Montagnoli

L'autore
Maria Villavecchia Bellonci (Roma 30 novembre 1902 - 13 maggio 1986) esordisce come scrittrice con la biografia di Lucrezia Borgia (Mondadori), opera tradotta in più lingue e di notevole successo.
Appassionata di storia, dove era un'autorità, e di letteratura, nel 1947 diede vita con Guido Alberti, proprietario della nota industria di liquori, al Premio Strega, che lei stessa ottenne nel 1986, anno della sua morte, con Rinascimento privato (Mondadori).
Le altre sue pubblicazioni sono Marco Polo (Rizzoli), Delitto di Stato (Mondadori), Tu vipera gentile (Mondadori), Pubblici segreti (Mondadori) e Segni sul muro (Mondadori).
Renzo Montagnoli


Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar Edizioni Einaudi
Narrativa - romanzo storico

"Piccola anima smarrita e soave, compagna e ospite del corpo, ora t'appresti a scendere in luoghi incolori, ardui e spogli, ove non avrai più gli svaghi consueti. Un istante ancora, guardiano insieme le rive familiari, le cose che certamente non vedremo mai più… Cerchiamo d'entrare nella morte a occhi aperti…"

Con i versi della poesia che Adriano scrisse lo stesso giorno della morte termina lo stupendo romanzo di Marguerite Yourcenar.
Frutto di un lavoro di ricerca durato anni, di un'indagine attenta e laboriosa, rappresenta un ritratto di fulgida bellezza di questo imperatore.
Come raccontare la storia di un uomo, del suo modo di vedere, di ascoltare, di sentire, dando un quadro della sua grandezza? Come riconoscergli l'immortalità, una vita oltre la morte?
L'autrice parte da dati storici, da tracce, da scritti anche autografi e, anziché narrare la sua vita, fa parlare lo stesso Adriano, che ripercorre le tappe della sua esistenza, in una sorta di monologo interiore, per mezzo di una lunga lettera che scrive a Marco Aurelio.
E' un uomo vecchio, malato, ormai incapace di sopportare i pesi di governo quello che ci viene rappresentato, in una sorte di poema d'amore alla vita.
E così Adriano racconta della sua ascesa agli alti gradi militari, le campagne di guerra condotte con capacità nonostante lui ami la pace, il rispetto per l'avversario mai definito nemico, il desiderio di conoscenza che non lo abbandonerà poi, il matrimonio di convenienza che lo lascerà insoddisfatto, le astuzie e gli intrallazzi per arrivare al trono, l'amore per il giovane Antinoo, il dolore disperato per la sua morte, sentimenti, emozioni e passioni di un uomo per il quale tuttavia il senso del dovere e dello stato vengono sopra ogni cosa, in quella responsabilità, che avverte sempre presente, della bellezza del mondo.
E lui è uomo in tutto, anche nel vivere la sua morte, nelle profonde riflessioni del suo ultimo scorcio di vita, nell'accettazione rassegnata del destino, consapevole della gravità del suo stato, nei suoi sentimenti di riconoscenza per chi gli è sempre stato vicino e che non l'abbandonerà fino al momento fatale.
In questo contesto l'autrice ha il merito di essersi messa al servizio del personaggio, quasi nella veste del messaggero che porterà la lettera; sempre fedele ai fatti, tutto il resto è affidato alla sua grande sensibilità.
Ne esce un Adriano di grandissimo spessore, ma uomo come noi, alla continua ricerca di un modo per conciliare dovere e felicità, sentimenti e intelligenza, sogni e realtà.
Così, mentre consegna le sue spoglie mortali all'Ade, l'autrice ne immortala il ricordo in un autentico capolavoro della letteratura, un libro da leggere e rileggere, un raro esempio del felice incontro di due grandi: Publio Elio Traiano Adriano e Marguerite Yourcenar.
Seguono poi i Taccuini di appunti, con i quali si può verificare l'accurata meticolosità del lavoro intrapreso, nonché l'interessante resoconto della traduttrice Lidia Storoni Mazzolani.
Renzo Montagnoli

L'autore
Marguerite Yourcenar, pseudonimo di Margherite de Crayencour, nasce a Bruxelles l'8 giugno 1903 e muore a Mount Desert il 17 dicembre 1987, dopo una vita avventurosa ed errabonda. Le sue opere principali sono Alexis o il trattato della lotta vana (1928), Il colpo di grazia (1939), L'opera al nero (1968) e, soprattutto, Memorie di Adriano (1951).
Renzo Montagnoli


Dare voce al silenzio di Patrizia Garofalo  Edizioni Il Foglio  Poesia - Silloge

Il silenzio
Affretta
I passi del tempo
E
Inghiotte parole

Infreddolito
Ornato di neve
Si è dissolto
Muto


Non avevo mai letto una lirica di Patrizia Garofalo, ma aprendo quasi per caso, come un segno del destino, il volume contente la sua silloge alla pagina 53, laddove il mio dito si è inserito senza nessuna volontà, quasi attratto, ho trovato la poesia di cui sopra.
Sarebbe riduttivo dire che questi pochi versi mi hanno fortemente impressionato, perché in effetti è stata una piacevolissima sorpresa il constatare la straordinaria vena creativa e stilistica.
Poche, pochissime parole composte in perfetto equilibrio, in una sintesi di raro effetto che mi ha condotto a un giudizio positivo e che ha trovato poi conferma anche nelle altre liriche, pur se questa mi sembra, ma è ovviamente solo la mia opinione, la più riuscita.
Del resto, Il silenzio, è citato anche in chiusura della esauriente prefazione di Attilio Mauro Caproni, come un passo necessario per l'autore, una volta che ha svelato a se stesso e agli altri l'inconscio del suo animo, una sorta di abbandono che non è rifiuto, ma autonomia di realizzazione concreta di ciò che è il proprio pensiero.
La silloge si dipana in una sorta di diario, in un susseguirsi di puntualizzazioni, di trasposizioni della propria vita interiore, una sorta di autoanalisi da cui scaturisce l'immagine che, pur dentro di noi, ci è sconosciuta prima di intraprendere questo lavoro di indagine.
In effetti, tutto quanto non appare esteriormente ci è spesso ignoto, è una sorta di silenzio che occupa l'animo e che attende solo la nostra verifica per risuonare, quasi un grido di liberazione del nostro io.
Una tematica quindi complessa, non facilmente sviluppabile, e ciò nonostante l'autrice è riuscita nel compito e in modo anche egregio.
Per quanto concerne l'aspetto stilistico mi limito ad osservare come nell'essenzialità del verso assumano rilevanza, anche formale, le parole, studiate, meditate e infine armonizzate al fine di giungere a un equilibrio di sonorità e di tempi.
Renzo Montagnoli

L'autore
Patrizia Garofalo vive e insegne lettere a Ferrara.
Ha pubblicato 4 libri di poesie:
Ipotesi di donna (1986, Edizioni Corbo);
Le bambole non si pettinano (1992, Edizioni Corbo);
Terra di nomadi (1996, Casa Editrice Poesia Contemporanea);
Mare d'anime (2003, Schifanoia).
Ha sceneggiato per il teatro il suo primo testo che è stato rappresentato da più parti tra cui LA Polivalente di Ferrara.
Renzo Montagnoli


La prima guerra mondiale di Keith Robbins  Arnoldo Mondadori  Editore Storia

Di libri sulla prima guerra mondiale ne sono stati scritti tanti, e non mi riferisco ai romanzi, peraltro numerosi e assai noti come "Niente di nuovo sul fronte occidentale" di Remarque o "Addio alle armi" di Hemingway, ma ai saggi storici.
Non intendo citare le opere generali e corpose di Keegan, di Willmott o di Ferguson, e nemmeno la storiografia specialistica in ordine all'aspetto militare dal punto di vista strategico, oppure tattico (vedasi l'opera assai valida di Basil Liddell Hart "La prima guerra mondiale. 1914-1918").
Quella che mancava era una trattazione organica e completa, ma resa facilmente comprensibile per un comune lettore, cioè un qualche cosa di esauriente, ma non da addetto ai lavori.
Ha provveduto a questa necessità Keith Robbins, che, in questo volumetto proposto da Mondadori fra gli Oscar e quindi a un prezzo accessibile, riesce nel quasi impossibile compito di fornire una visione d'insieme del conflitto scritta in modo accattivante e anche con apprezzabile sinteticità.
Il metodo adottato è quello di procedere per argomenti e per ciascuno di questi evidenziare solo gli aspetti più salienti.
Così le cause del conflitto sono parte del primo capitolo, a cui segue l'andamento delle operazioni belliche, visto più da un generale punto di vista strategico che da quello tattico; successivamente c'è un'ampia trattazione riguardante gli armamenti, poi si passa agli scopi dei belligeranti e, posteriormente a un'analisi del fronte interno, si perviene all'esperienza della guerra, con i riflessi letterari, i problemi demografici e quelli morali.
Penso che di più non si possa pretendere, alla luce anche di una sostanziale imparzialità di giudizi dell'autore, che non risparmia da critiche nemmeno i suoi connazionali.
Per chi desidera conoscere un'epoca che ha segnato, e continua a segnare, gli anni successivi, senza dover sudare le proverbiali sette camicie per comprendere, mi sento di affermare in tutta tranquillità che questo libro è perfettamente rispondente allo scopo.
Renzo Montagnoli

L'autore
Keith Robbins insegna Storia Moderna all'Università di Glasgow.
Le sue più importanti pubblicazioni sono: Sir Edward Grey, The Abolition of War, The Eclipse of a Great Power: Modern Britain 1870-1975, Nineteenth-century Britain: integration and diversity.
Renzo Montagnoli


Il cimitero dei giocattoli inutili e altri racconti calpestati di Aldo Moscatelli Casa Editrice I Sognatori
Narrativa - raccolta di racconti

Non ho mai capito perché buona parte dell'editoria ignori le antologie di racconti scritti da un solo autore (per quelli, per così dire a più mani, invece c'è un certo mercato). Eppure spesso il risultato può essere migliore di un romanzo che, se non piace, non vende. Nel caso dei racconti, invece, può essere che se ne trovi qualcuno meno gradevole insieme ad altri che invece possono considerarsi riusciti. Inoltre, è di più rapida e di più facile lettura un racconto rispetto a un romanzo, se non altro perché, per il numero più ridotto di pagine, ogni storia finisce lì e non c'è bisogno di andarsi a rileggere i precedenti quando si riprende in mano il libro.
Dopo questa premessa vengo a parlare di questa bella antologia di Aldo Moscatelli, giovane autore, nonché editore, che ha anche pubblicato un romanzo, il noir L'orologio di cenere.
Questi racconti sono stati scritti, con mano sicura, in un arco di tempo piuttosto lungo (dieci anni), ma non rivelano la differenza epocale di creazione, anche perché, se pur diversi nelle trame, li unisce un filo comune, rappresentato dalle tante domande che l'autore si pone in ordine alle problematiche fondamentali dell'esistenza. Insomma, sono una sorta di discorso filosofico, per nulla abbozzato, anzi molto approfondito, elaborato in modo da renderlo accessibile alla maggior parte dei lettori, indipendentemente dagli studi effettuati.
Com'è riuscito in questo intento? Aldo Moscatelli ha dato alla maggior parte dei racconti un'impronta favolistica, senza però cadere nella stucchevole morale propria di non poche fiabe. L'autore, infatti, si pone il problema e cerca una soluzione, non imponendola poi al lettore.
Ecco come è possibile discorrere dei "massimi sistemi" senza ricorrere ad affastellanti orpelli o a pesanti elucubrazioni.
Quindi è una lettura piacevole e peraltro anche veloce,
proprio perché la levità dell'esposizione dispone a un'assimilazione totale.
Complessivamente i racconti sono dieci e mi sembra che parlare di tutti sarebbe un po' troppo; di conseguenza provvedo a fornire un piccolo cenno solo di quelli che, secondo il mio metro di giudizio, sono più validi.
Lo specchio di fango, che non ha una struttura favolistica, è chiaramente un brano contro la guerra, di un acceso antimilitarismo - che troveremo poi anche in un altro racconto -. E' un vero proprio urlo, o come si suole dire, un pugno allo stomaco, un risultato raggiunto evitando abilmente la retorica e smorzando i toni con accenni poetici.
La nuova morte ha un sapore fantascientifico, ma al di là della trama, pur pregevole, è di assoluto rilievo la riflessione sulla vita e sulla morte.
Etereo poi è L'onda che tentò di parlare agli uomini, dove filosofia, poesia e narrazione si fondono in modo esemplare, dando vita a un racconto che infonde una profonda serenità.
Il mio preferito, però, è La storia del melo e della triste piantina, il più favoleggiante di tutti, ma anche il più concreto nelle conclusioni. Sono dell'idea che sarebbe piaciuto tanto anche a Esopo.
L'altro racconto antimilitarista è Il soldato semplice Gordonpim, con una trama asservita perfettamente allo scopo, senza una parola di più e senza una di meno.
Non cito gli altri racconti, ma tengo a precisare che sono ugualmente validi e godibili.
Da ultimo un piccolo cenno all' Aldo Moscatelli editore; il volume presenta ottime caratteristiche, del genere di quelle che si riscontrano nelle pubblicazioni delle grandi case editrici e anche la rilegatura appare molto robusta; da segnalare l'eccellente realizzazione della copertina, in bianco e nero, a opera di Francesca Santamaria.
Renzo Montagnoli

L'autore
Aldo Moscatelli (1978) è nato a Grottaglie (TA) e vive a Lecce. Laureato in filosofia, ama scrivere fin da quando era adolescente. Indignato per il comportamento vessatorio della grande editoria, ha costituito, unitamente a Francesca Santamaria, la casa editrice I Sognatori al fine di dare spazio agli autori esordienti in modo chiaro e senza oneri per loro.
Le sue pubblicazioni: L'orologio di cenere (2006, I Sognatori); Il cimitero dei giocattoli inutili (2006, I Sognatori).
Renzo Montagnoli


Nemici miei di Gordiano Lupi Stampa Alternativa Narrativa - libello

Non è facile trovare libri scritti con intenti dissacratori, ma supportati da una piacevole ironia che alleggerisce l'enfasi del discorso, finendo con il divertire il lettore.
Devo essere sincero, prima di tutto con me stesso: Renzo, avresti mai immaginato che Gordiano Lupi, il narratore di storie horror ambientate a Cuba, sarebbe stato capace di scrivere un libello nei confronti dell'attuale mondo letterario, smussando i toni epici con un'ironia sottile, un humor quasi britannico?
No, lo ammetto: non credevo che la cosa fosse possibile.
E invece "Nemici miei" è un'indagine accurata, anche spietata della letteratura italiana attuale, condotta con mano sicura e con l'occhio attento al lettore, affinché possa conoscere, indignarsi, ma comunque senza che in lui sorga il legittimo desiderio di abbandonare per sempre il piacere di leggere un libro.
Va dato merito, infatti, a Gordiano di avere evidenziato i mali del mondo editoriale senza che il lettore venga indotto a una repulsione, salvando così quelle piccole imprenditorialità che sembrano, al momento, le uniche - se pur deboli - forze in grado di contrastare quella letteratura del nulla che viene imposta dai grandi gruppi.
Non sfugge nessuno della filiera libraria all'occhio attento di Lupi: in primis gli autori, ma anche i recensori, le riviste culturali, gli editori, gli agenti letterari, i giornalisti e perfino le scuole di scrittura, un gigantesco apparato che si regge mediante uno scambio continuo di favori e di alleanze.
E se forse qualcuno non potrà essere d'accordo con uno o più dei nomi degli autori citati a disistima, resta sempre il fatto che emerge chiaro un quadro di un mondo che dovrebbe essere culturale e che invece non lo è.
E' da anni che osservo questa realtà, tanto che ho scritto più di una riflessione al riguardo, e non posso, pertanto, che trovarmi d'accordo con il giusto sfogo di Lupi. Ho detto sfogo, come un discorso fra sé e sé, scritto come tale e infatti è un italiano parlato quello del libro, un italiano anche incavolato, con punteggiatura frammentaria, con quegli errori che emergono solo quando ci si inalbera, come in un dialogo che resta all'interno. Sottolineo questo, perché su IBS ci sono dei giudizi che lamentano certi errori grammaticali, segno che i loro estensori non hanno compreso il significato del testo, né conoscono altre opere di Lupi, di natura diversa e pertanto scritte in quel linguaggio corretto che è proprio di questo autore.
Sono 122 pagine che mi hanno divertito, strutturate come un dizionario e infatti alla lettera A) troviamo "Agenti letterari", poi "Ammaniti Nicolò", e a seguire in perfetto ordine alfabetico, fino all'ultima W, nel caso specifico "Wu Ming".
Quale è il personaggio che mi ha divertito di più? Collina Pier Luigi, sì, proprio lui, il famoso arbitro di calcio, pure scrittore.
Del resto, se molti aspiranti narratori inseguono il sogno di essere pubblicati, consci però dell'estrema difficoltà, questo non accade a personaggi noti, le cui incursioni in campi diversi da quelli che sono loro propri non solo fanno costume, ma vengono caldamente incoraggiate da certi editori, indipendentemente dal livello qualitativo dell'opera.
Soprattutto l'importante è scrivere il nulla, cioè niente che possa costituire un minimo di letteratura. Ci penserà poi la filiera produttiva a imporre il prodotto, la cui qualità solo per qualche raro caso è buona.
Con ciò non deve passare né la voglia di leggere, né la voglia di scrivere; nel primo caso è necessario evitare quasi tutti i best seller per non essere impallinati; nel secondo ci si può sempre rivolgere a qualche piccola casa editrice e lì, se il prodotto è valido, c'è qualche probabilità che un sogno si traduca in realtà.
Renzo Montagnoli

L'autore
Gordiano Lupi (Piombino, 1960). Capo redattore de Il Foglio Letterario e Direttore Editoriale delle Edizioni Il Foglio. Collabora con Mystero e con la Casa Editrice Profondo Rosso di Roma. Collabora con Contro Radio di Firenze per recensioni sul cinema italiano anni Settanta. Pubblica racconti per X Comics, Blue e Underground Press. Scrive soggetti e sceneggiature per fumetti realizzati graficamente dal disegnatore Oscar Celestini (pubblicati su X Comics, Blue e Underground Press). Ha pubblicato: Lettere da Lontano (Tracce, 1998), Il mistero di Incrucijada (Prospettiva, 2000), L'età d'oro (Il Foglio, 2001), Il giustiziere del Malecón (Prospettiva, 2002), Le ultime lettere di Pilvio Tarasconi (Il Foglio, 2002), Per conoscere Aldo Zelli (Il Foglio, 2002). Ha tradotto i romanzi del cubano Alejandro Torreguitart Ruiz: Machi di carta (Stampa Alternativa, 2003), La Marina del mio passato (Nonsoloparole, 2003) e Vita da jinetera (Il Foglio, 2005). I suoi lavori più recenti sono: Nero Tropicale (Terzo Millennio, 2003), Cuba Magica - conversazioni con un santéro (Mursia, 2003), Cannibal - il cinema selvaggio di Ruggero Deodato (Profondo Rosso, 2003), Un'isola a passo di son - viaggio nel mondo della musica cubana (Bastogi, 2004), Quasi quasi faccio anch'io un corso di scrittura (Stampa Alternativa, 2004 - due edizioni in un anno), Orrore, erotismo e pornografia secondo Joe D'Amato (Profondo Rosso, 2004), Tomas Milian, il trucido e lo sbirro (Profondo Rosso, 2004), Le dive nude - vol. 1 - il cinema di Gloria Guida e di Edwige Fenech (Profondo Rosso, 2005), Serial Killer italiani (Editoriale Olimpia, 2005 - duemila copie vendute nei primi tre mesi); Nemici miei (Stampa Alternativa, 2005), Le dive nude Il cinema di Gloria Guida e Edwige Fenech (Profondo Rosso, 2006); Almeno il pane, Fidel (Stampa alternativa, 2006).
Renzo Montagnoli


Il colore del sole di Andrea Camilleri  Mondadori Editore  Narrativa romanzo 

E’ strano questo romanzo di Andrea Camilleri: non è un giallo, anche se ne ha i presupposti, e non è storico, anche se alcuni riferimenti sono certi.
Probabilmente l’autore si è divertito a narrare sotto forma di un improbabile diario un periodo della vita di Michelangelo Merisi, meglio conosciuto come il Caravaggio.
E appunto le pagine che dovrebbero essere state scritte dal grande pittore costituiscono il fulcro di tutto il libro e se Camilleri non deve aver faticato molto per inventare certi eventi, data la vita avventurosa e sregolata del protagonista, non poco si è dato da fare per imitare il modo di scrivere dell’epoca (il 1600), rivelando un notevole virtuosismo nel far convivere i tipici contrasti di quel linguaggio con la limitata scolarità del Caravaggio.
Non solo questo, però, perché l’autore si azzarda a fornirci una spiegazione di quegli inimitabili giochi di luci e di ombre, tipici delle opere di quest’artista, spiegazione da cui trae origine il titolo del romanzo.
Per quanto si tratti, a mio avviso, di un’opera minore, soprattutto se raffrontata con le altre più riuscite di  carattere storico quali La concessione del telefono e La presa di Macallè, ha il pregio di offrire una piacevole e rilassante lettura, indicata soprattutto per ritemprare la mente dopo una faticosa giornata di lavoro.
Renzo Montagnoli

L'autore
Andrea Camilleri (Porto Empedocle, 1925), regista di teatro, televisione, radio e sceneggiatore. Ha insegnato regia presso l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica. Ha pubblicato numerosi saggi sullo spettacolo e un volume, I teatri stabili in Italia (1898-1918). Il suo primo romanzo, Il corso delle cose, del 1978, è stato trasmesso in tre puntate dalla TV col titolo La mano sugli occhi. Con questa casa editrice ha pubblicato: La strage dimenticata (1984), La stagione della caccia (1992), La bolla di componenda (1993), Il birraio di Preston (1995), Un filo di fumo (1997), Il gioco della mosca (1997), La concessione del telefono (1998), Il corso delle cose (1998), Il re di Girgenti (2001), La presa di Macallè (2003), Privo di titolo (2005); e inoltre gli altri romanzi con protagonista il commissario Salvo Montalbano: La forma dell'acqua (1994), Il cane di terracotta (1996), Il ladro di merendine (1996), La voce del violino (1997), La gita a Tindari (2000), L'odore della notte (2001), Il giro di boa (2003), La pazienza del ragno (2004), La luna di carta (2005), La vampa d'agosto (2006).
Renzo Montagnoli


Tre ciondoli di Giuseppe Iannascoli    Edizioni Tabula Fati   Poesia - raccolta di sillogi

Chi unisce alla lontananza di tuo padre?
Chi sa che in quel sorriso ai nostri figli
cerchi gli occhi di un figlio che non hai mai avuto?
E ogni notte in un lenzuolo di ricordi
anneghi il tuo dormire,
non vorresti più svegliarti
meglio morire un'altra volta.

Da "Uomo solo"

Non a caso ho messo questi versi, che sono parte di una poesia di Giuseppe Iannascoli; ripeto che non è a caso, perché mi sembra che rappresentino adeguatamente sia il modo di poetare di questo autore, sia il riflesso di quanto è presente nel suo animo.
Se è vero che un poeta finisce anche con il rappresentare i problemi esistenziali del mondo, Iannascoli ne è un tipico esempio. Nei suoi versi c'è una muta sofferenza, una malinconia talmente profonda dall'esserne sopraffatto, come un guscio di noce in balia del mare in tempesta. Il suo dramma è una solitudine interiore, una sorta di chiusura alla monotonia della vita vissuta, intesa come un susseguirsi di eventi ripetitivi che non consentono di verificare differenze fra un giorno e l'altro.
Le uniche emozioni che si possono provare sono quelle che nascono all'interno di noi stessi, pensando a quanto è restato del mondo dalle sue origini, senza la presenza distorcente dell'uomo. E' un richiamo alla natura il suo, una natura quasi mitizzata e quindi tanto più appagante quanto meno reale.
Anche nelle liriche d'amore c'è uno spirito rassegnato, quasi che l'incomunicabilità latente ponesse dei limiti allo scambio delle sensazioni, quasi che i sentimenti dovessero essere solo unilaterali.
Quanto allo stile, lo stesso appare sopraffatto dalla necessità di esternare, di liberare l'animo dal gravame che l'opprime; di conseguenza è un effluvio di parole, quasi un torrente impetuoso e l'autore, se riuscisse a indirizzarlo verso il giusto alveo, con una ricerca più accurata della componente armonica, finirebbe con il regalarci liriche ancor più significative delle attuali.
Renzo Montagnoli

L'autore
Giuseppe Iannascoli è nato a Pescara nel 1964 e dopo gli studi si è trasferito per un periodo di sette anni a Bologna, rientrando a Pescara a metà degli anni '90.
Ha pubblicato una silloge Sguardi d'acqua (Tracce, Pescara 2003) e vinto il Premio speciale al Concorso letterario nazionale S. Egidio nell'edizione del 2003. Nel 2004 è stato finalista al concorso "Meeting sulla migrazione" di Loreto Marche.
Attualmente gestisce uno spazio cultural-gastronomico per artisti di ogni genere nel locale Ventonotturno, nel cuore di Pescara.
È in corso di pubblicazione il suo primo romanzo L'uomo degli altri.
Renzo Montagnoli


L'ombra del Duomo di AA.VV. Larcher Editore
Narrativa - antologia di racconti di autori diversi

Come noto, in Italia sono presenti numerose città di antiche origini e fra queste vi è anche Modena, che non è solo culatello, lambrusco, aceto balsamico o auto sportive Ferrari, ma ha anche una sua identità artistica di cui il Duomo è l'elemento più caratteristico. Di fronte alle antiche pietre, ai due leoni in granito, chissà quante volte il turista non frettoloso si è fermato a fantasticare su quello che potrebbero raccontare queste antiche vestigia, così ricche di misteri proprio perché testimoni di epoche passate.
Marco Giorgini, modenese, deve aver fatto più di una di queste riflessioni e lì probabilmente gli è nato lo spunto per il suo racconto Strutture, costruito come una pellicola cinematografica, incalzante e ricca di dialoghi, con un finale a dir poco sorprendente. Non si è accontentato però di mettere nero su bianco le sue idee, ma ha coinvolto anche altri autori, dando luogo così a una sorta di omaggio narrativo alla sua città.
Il genere fantastico predomina e non poteva essere altrimenti, visto che veniva chiesto agli scrittori di sviluppare idee da spunti legati indissolubilmente allo spirito antico di una città che in parte ne conserva ancora in buona misura.
Ecco così allora Roberto Barbolini che con Dum Gemini Cancer trasporta davanti al vecchio Duomo, in un giallo fantastico, Padre Brown e Montalban; Cecilia Randazzo, invece, scrive con I due leoni la storia, di grande effetto, di una sensitiva alle prese appunto con uno dei due leoni che sembrano di guardia alla vecchia chiesa.
Con Ossa, poi, di Raffaele Gambigliani Zoccoli entriamo in un episodio kafkiano, quasi una storia di ordinaria follia; si passa, quindi, a un'ambientazione che ricorda certe cinematografie americane anni 60 con Baby Blue di Giuseppe Sofo. Nel lavoro è stato coinvolto anche un autore che non solo non è modenese, ma addirittura è gallese; mi riferisco a Dorian Reavers, con Fantasia dopo il disastro, un racconto breve, ma estremamente concentrato.
Nella lista figura anche Il cuore nero della città, noir sovrannaturale di Gabriele Sorrentino, un'opera pregevole per originalità creativa e per lo stile misurato.
Mi ero riproposto di parlare solo di alcuni racconti, ma mi accorgo che non posso fare a meno di dire qualche cosa di ognuno, perché in effetti si tratta di brani tutti di buona fattura e quindi meritevoli almeno di un cenno.
Come non dir nulla de Il ritorno del Drake di Gabriella Guidetti, che ci fa rivivere, peraltro splendidamente, l'inaugurazione dell'autodromo di Modena? E' una scrittura suadente la sua e coinvolge il lettore in modo graduale, al punto che sembra di essere presenti allo sfrecciare dei bolidi in quello che ora è un parco.
Enigmatico, ma anche malinconico è poi La città sommersa di Stefania Gentile, con una trama che non pecca certo di poca originalità.
Christian Del Monte si impegna poi con Derive, una storia satanista, senza però giungere a toni esasperati, ma riconducendo il tutto in una normale anormalità.
Ultimo del volume, ma non come qualità, è poi L'osso del drago di Eliselle, quasi una fiaba, narrata con mano ferma e sicura, con un richiamo allo spirito religioso, quasi a chiudere degnamente l'antologia, spalancando le porte del Duomo agli occhi, compiaciuti, dei lettori.

Da ultimo, nel confermare la gradevolezza che si ritrae dal leggere questi racconti, ritengo doveroso un piccolo cenno alla buona cura editoriale, sia come editing che come confezione (splendida la copertina di Andrea Corradini), a dimostrazione che anche nella piccola editoria ci può essere la qualità e di questo deve essere dato merito a Fabio Larcher.
Renzo Montagnoli


Altre storie di uomini, di alcune donne e di molte bestie di Nicola Oronzo Accattato ed. Galasso

La scrittura di Nicola Oronzo Accattato tra poesia e ironia
Accade raramente che un'opera si presti a muovere curiosità già nel suo titolo: "Altre storie di uomini, di alcune donne e di molte bestie".
Curiosità che la lettura trasforma in stupore per i modi in cui l'Autore dipinge immagini, suggerisce riflessioni e significati.
Alle origini della narrativa di Nicola Oronzo Accattato si colloca un vivace impegno di carattere morale, di qui il tono, a volte, brusco, il taglio rapido e polemico del suo discorso. Esiste in tutta l'opera un duplice piano di intenzioni stilistiche: da un lato l'ambito narrativo sembra chiuso entro un bozzettismo semplice, dall'altro una forte problematica morale e politica tende a sconvolgere le linee pure del bozzetto per restituire una più profonda immagine della realtà umana e storica.
La semplicità e l'elementarità delle vicende dei personaggi sono solo pretesto per un fondo tematico politico-sociale che dà una misura più certa delle finalità dell'Autore e una prospettiva più profonda.
Il libro, in forma di collage di scritti, procede asimmetrico e ha il pregio di trasformare il tempo di scrittura, in luogo di scrittura, cioè in uno spazio che accomuna, articola situazioni e personaggi dissimili, alimenta l'intreccio dei rapporti interni, di relazioni distanti, di intervalli e scansioni.
Questo apparente " disordine " sembra voluto non solo per rintracciare il tempo ma anche per organizzare lo spazio problematico nel quale si colloca la miriade di elementi che compongono questa raccolta.
Al di là del fatto narrativo vero e proprio, questo libro è uno scenario di impressioni, di suggestioni, di tonalità affettive.
E' un mettere sulla pagina tracciati di idee, spunti, iniziali forme di pensiero che si muovono verso ulteriori forme, in un percorso assolutamente non lineare fra narrazioni, ricognizioni storiche, biografiche e autobiografiche, fra storie di parole e parole senza storia che dal profondo salgono alla consapevolezza e all'urgenza della scrittura.
E' uno scrivere, quello di Accattato, che cerca di raccontare come il pensiero sia una costante metamorfosi, in un attraversamento di un'infinità di architetture, dimensioni possibili, a volte, persino apparentemente impossibili.
Ciò che esso narra è un intreccio: un annodare episodi a sensi, parole a sentimenti, delusioni a speranze, fili di fantasia a fili di verità, in un gioco di ricerca di rapporti fra le proprie idee e la realtà. Immagini, modi di sentire e di vivere il mondo. Un mondo, quello del paese di origine, dell'infanzia, così carico di affetti e di significati.
Lo stile si risolve in un personalissimo modo di accostare pensieri e immagini, quel rischioso porre gli uni accanto alle altre, in una composizione segmentata e differenziata che fa risaltare i " vuoti " piuttosto che i " pieni "… le parti delle parti del discorso solo pensato più che il discorso nella sua compiutezza.
L'opera sembra costruita sulla sottrazione più che sulla estensione: come a voler dare valore allo spunto, al parziale, alla sfaccettatura, al disuguale, all'intervallo separativo fra un pensiero e l'altro.
La scelta è quella del rapido e non dettagliato disegno steso sulle pagine, su cui scivolano veloci e ineguali frammenti di pensieri il cui incerto e breve vagare incontra la nostra emozione.
L'incompiutezza di certe frasi, il loro senso abbozzato, più interrogativo, propositivo, che dimostrativo ed esaustivo, l " oltraggio " alla sintassi generano uno spazio dell'incerto, dell'inquieto, che può essere affrontato solo se si riesce a tollerare il dubbio, la fatica del pensiero interrotto, condotto altrove, sfiorato anziché tenuto a pieni mani.
Quella di Accattato è una lettura " scomoda " che può urtare la suscettibilità dei benpensanti e irritare coloro i quali danno valore a ciò che è lineare, definitivo, bello, rassicurante. La nostra epoca sembra prediligere le spiegazioni tranquillizzanti, le esorcizzazioni del pensiero e dei significati più inquietanti…di certa letteratura conformista, in sintonia con l'esigenza di rimozione della realtà problematica, di coprirla, occultarla, annacquarla.
Con il suo stile, il suo lessico, l'Autore riesce ad essere aderente alla materia del racconto… una sorta di " poetica realista " in cui il linguaggio è trascrizione immediata del parlato, e il discorso risulta immediatamente adeguato al mondo e ai personaggi descritti.
Percorre questi racconti una sottile ironia nei confronti della lingua letteraria, vissuta come troppo astratta, troppo separata dalla quotidiana realtà degli uomini, delle donne e… delle bestie di cui ci parla Accattato.
La sintassi irregolare, gli elementi dialettali, danno il senso autentico di un ambiente e dei suoi personaggi. Segni essenziali del linguaggio che realizzano la definizione del grado morale, della condizione umana e culturale di cui si parla…e che riescono a persuaderci perché mai riducono la pagina a folklore né tendono all'effetto puramente espressionistico e di colore. La finalità è la denuncia dei mali sociali, dell'incuria politica, della condizione di perenne attesa in cui si trova il Sud.
L'Autore riesce a rendere con immediatezza il mondo popolare che gli appartiene, l'atmosfera del vicolo in cui è cresciuto e al quale la sua fantasia e creatività continua ad attingere attraverso un costante ritorno alle origini con un atteggiamento che non è mai ingenuo idillio o proclamazione vagamente sentimentale.
Il linguaggio di Accattato è segno di maturità culturale, si fa interprete della sua verità più profonda, del suo ritmo segreto che riesce pienamente a comunicare e a renderla anche attraverso la procedura a strappo, talvolta lacerando, rendendo a brandelli l'unità del discorso.
Unità che viene ritrovata più nel disfarsi e ricomporsi incessante del discorso attraverso le sue parti: quelle minimali; forse quelle tralasciate; quelle non dette, taciute, che ancora devono trovare i suoni delle parole e le collocazioni. Quelle parti che non sono ancora parole ma supporto silenzioso e indispensabile al pensare.
Nella scrittura, Accattato le parole non le lascia mai ferme. Si muovono, si logorano e si trasformano. Al pari della vita.
Questo libro è costruito " da ogni parte " e ogni parte può essere arrivo e partenza, inizio e fine, ma anche attraversamento, corridoio, viottolo, tragitto; i pensieri che contiene decentrano il discorso, lo deviano, lo rendono rinviante e riformulabile.
La sua lettura può farsi " da qualsiasi parte ", in un gioco di parti ugualmente componibili in un itinerario, con soste riflessive in cui la stessa, non manca di farsi poesia e di emozionarci…
Antonia Tursi


Dentro al fuoco di Caterina Trombetti Prefazione di Mario Luzi  Passigli Editore
Raccolta di sillogi poetiche

Accostarsi a un libro di poesie non è come leggere un romanzo, perché ogni lirica rappresenta un capitolo a sé, una rappresentazione di un'emozione che, se ben espressa, genera una commozione che si apre nell'ultimo verso per chiudersi nel primo del componimento successivo.
Si tratta quindi di un avvicendarsi di sensazioni, di stati emotivi che un romanzo, per la sua struttura e anche per quanto bello sia, non può fornire.
In occasione della recensione di "Fiori sulla muraglia" della medesima autrice avevo evidenziato l'apparente semplicità stilistica che le è propria, con quell'immediatezza di comunicazione che rende i suoi versi di rara comprensibilità, nonostante i profondi concetti esposti.
Questa seconda raccolta "Dentro al fuoco" costituisce un'ulteriore evoluzione dello stile che, senza perdere le sue rilevanti caratteristiche, tende ad affinare ulteriormente l'aspetto armonico facendo ricorso a una tecnica estremamente raffinata.

"Ecco gialleggia da lontano
la sfera solare
che mi porta dentro.
"
Da "Astro"

Quell'andare a capo non casuale, quell'iniziare nuovamente da un numero specifico di battuta, determina una sospensione temporale e quindi viene a influenzare il ritmo, esplicitando una melodia secondo i tempi propri di una composizione musicale.

Ancor più evidente appare questa ricerca nei versi seguenti, dove il passaggio da una staticità a un'improvvisa velocizzazione è rimarcato da una lunga pausa che si interrompe con un'acuta osservazione a cui il punto esclamativo finale dona la funzione di accentuare il ritmo.

"Come è liscia l'acqua alla pescaia
e quale vorticoso andare
dopo il dislivello
!"
Da "Arno"

E quindi evidente che Caterina Trombetti ha aggiunto un ulteriore prezioso tassello alla sua esperienza poetica, caratterizzando, positivamente, ancor più il suo stile, senza perderne le doti originarie.
Renzo Montagnoli

L'autore
Caterina Trombetti è nata a Firenze dove svolge l'attività di insegnante, occupandosi prevalentemente dell'educazione degli adulti. Intensa è la sua attività di promozione alla lettura e frequenti sono gli incontri, in veste di autrice, con gli alunni delle scuole in varie città. Come poeta è presente in varie antologie e riviste, e noti critici letterari si sono occupati della sua poesia, che ha avuto traduzioni in diverse lingue.
Le sue precedenti raccolte poetiche sono: Il pesce nero, 1990; L'obliqua magia del tempo, 1996; Stelle della mia Orsa, 2002. Con la Passigli Editori ha pubblicato nel 2000 Fiori sulla muraglia e nel 2004 Dentro al fuoco.
Renzo Montagnoli


Istanbul Bound di Carlo Bordoni Edizioni Tabula Fati Narrativa romanzo

Dopo le prime pagine avevo tratto la convinzione di trovarmi di fronte a un romanzo che aveva attinto ispirazione dal celeberrimo Moby Dick o da qualche narrazione di Joseph Conrad. In effetti sono presenti elementi che convaliderebbero questa mia impressione: la ricerca spasmodica di un'isola misteriosa, un sogno/incubo del capitano Beltramino divorato da questa ossessione, le lunghe giornate a bordo, ripetitive, tranne quando le forze della natura si scatenano, la descrizione intensa dell'equipaggio, di rudi uomini di mare visti dagli occhi stupiti del giovane mozzo al suo primo imbarco.
E invece Istanbul Bound è un romanzo dotato di propria autonomia ed è la descrizione di un viaggio, effettuato nell'imminenza della seconda guerra mondiale, da Massa a Istanbul, località a cui la nave non arriverà mai in un finale del tutto imprevedibile, ma frutto di una geniale invenzione dell'autore che, nelle ultime pagine, ha profuso a piene mani un'indubbia eccellente creatività. Del resto, anche prima, ci sono delle felici intuizioni, una sorta di stacchi temporali che evitano che la narrazione possa appiattire, così che il lettore abbia a godere un po' di rilassamento, astraendolo momentaneamente da una lenta, ma crescente suspence. In effetti, come ne Il deserto dei tartari, si ha viva l'impressione che da un momento all'altro la quasi noiosa calma apparente possa subire un'improvvisa lacerazione, come accade poi alla fine.
Ben scritto, con un'analisi accurata dei personaggi, con delle riflessioni e approfondimenti di pregevole livello (raccomando di leggere con attenzione quella relativa alla guerra), Istanbul Bound è un romanzo che merita di essere letto.
Renzo Montagnoli

L'autore
Carlo Bordoni (Carrara, 1946) è docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi all'Università di Firenze. Ha insegnato all'Istituto Universitario Orientale di Napoli e allo IULM di Milano. È stato direttore dell'Accademia di Belle Arti di Carrara dal 1990 al 2003.
Tra le sue pubblicazioni: La paura il mistero l'orrore dal romanzo gotico a Stephen King (Solfanelli, 1989), Il romanzo di consumo (Liguori, 1993), Conversazioni sul vampiro (Neopoiesis, 1995), Stephen King (Liguori, 2002), Linee d'ombra (Pellegrini, 2004), Introduzione alla sociologia dell'arte (Liguori, 2005), Le scarpe di Heidegger (Solfanelli, 2005), Il testo complesso (Clueb, 2005), Società digitali (in corso di pubblicazione).
Dirige la collana di saggistica Micromegas per le Edizioni Solfanelli. Collabora alle riviste "Il Ponte, "L'Indice dei Libri", "Labirinti del Fantastico". Il suo precedente romanzo, In nome del padre (Baroni, 2001), è una storia fantastica attorno al tema della morte apparente.
Renzo Montagnoli


Il piatto piange di Piero Chiara  Edizioni Mondadori  Narrativa romanzo

Sono trascorsi ormai oltre 40 anni dall'uscita di questo romanzo (era il 1962) e in quest'arco di tempo ho avuto l'occasione di leggerlo più volte, ritraendone sempre un gradimento crescente.
E' stata la prima fatica, nella narrativa, di Piero Chiara, a cui ne seguirono diverse altre dall'esito egualmente fortunato (La spartizione, 1964; Il balordo, 1967, con cui vinse Il Bagutta; Il Pretore di Cuvio, 1973; La stanza del vescovo, 1976; Il cappotto di astrakan, 1978; Vedrò Singapore ?, 1981).
Benché abbia letto tutti questi romanzi, apprezzandoli, Il piatto piange mi è rimasto dentro con un'emozione che si rinnova a ogni lettura. Non so spiegarmene esattamente il motivo, ma penso che a questa mia preferenza non poco contribuisca l'aver scoperto tanti anni fa come sia possibile scrivere di eventi, del tutto normali, in modo semplice, ma efficace. Sì, perché lo stile di Piero Chiara è del tutto particolare, nel senso che, senza ricorrere a magistrali descrizioni, ha un'immediatezza che consente al lettore di vedere trasformarsi le parole in immagini. Un pregio, quindi, rilevante che, unito all'originalità delle trame, ha decretato il successo di questo grande scrittore che ha visto poi molte delle sue opere trasposte sul grande schermo.
In questo senso, Il piatto piange assume caratteristiche proprie del neorealismo, con un'ambientazione della vita di paese, nell'arco fra le due guerre, di rilevante interesse, non solo letterario, ma anche sociologico.
E' un mondo chiuso, quasi addormentato, dove la vita scorre ancor più monotona per effetto del regime fascista che tende a impedire ogni novità. In quest'atmosfera di un ozio quasi logorante, gli accaniti giocatori di poker o chemin de fer trovano nelle carte un'evasione quasi surreale, una forma di innocua primordiale ribellione. Gli unici eventi, quindi, che si staccano dal grigiore quotidiano sono le interminabili partite, con i lazzi nei confronti dei perdenti, oppure le avventure boccaccesche, anche queste una sorta di gioco per rivendicare la propria essenza di uomini fondamentalmente liberi.
In un clima ovattato, fra le montagne e il lago, si delineano, più che una serie di storie, una varietà di personaggi, ognuno con pregi e difetti, ma soprattutto con caratteristiche del tutto proprie.
Troviamo così il biscazziere Sberzi, disposto perfino a giocare se stesso, Mammarosa, la tenutaria del bordello del paese, descritta con senso di tenerezza come una delle istituzioni del luogo, l'anonimo Camola, se pur nell'intimo misterioso, e il tombeur des femmes Tolini.
E' tutto un mondo proprio di un'epoca e che verrà spazzato via dalla seconda guerra mondiale e dalla Resistenza, tanto che i due personaggi più tipici e anche più forti, il Camola e il Tolini, moriranno in circostanze diverse, ma in seguito a una zuffa con i tedeschi.
Assicuro che leggere queste pagine è di un'estrema piacevolezza, quasi a riscoprire una diversa civiltà, ora perduta, una sorta di archeologia letteraria che Piero Chiara ha saputo e voluto farci conoscere.
Renzo Montagnoli

L'autore
Piero Chiara nasce a Luino il 23 marzo 1913, in una famiglia di origini siciliane.
Studia in vari collegi religiosi, ma poi abbandona la scuola, completando da autodidatta la propria formazione culturale.
Dipendente di un'amministrazione statale, vive, durante gli anni del fascismo, la più chiusa e al tempo stesso più eccitante vita di provincia: lunghe letture, il gioco e gli intrighi d'amore.
Data la sua naturale indole al dissenso, diviene inviso al fascismo, al punto che il Tribunale Speciale emette una severa condanna nei suoi confronti e che evita unicamente con la fuga in Svizzera.
Terminata la guerra, ritorna in Italia con un'aureola di antifascista, che gli sarà di aiuto nel reinserimento nell'Italia repubblicana.
Inizia un periodo di fervida creatività che lo porta ad abbandonare il lavoro nell'amministrazione statale per dedicarsi unicamente alla scrittura.
Nascono così i romanzi che ho citato, oltre a molti altri, una produzione tutta di notevole livello, dove la capacità dell'autore di scrivere con equilibrio, di non indulgere mai alla volgarità anche nelle storie più scabrose, non viene mai meno.
Piero Chiara muore a Varese il 31 dicembre 1986.
Renzo Montagnoli


Alchimie d'amore e di morte di Giovanni Buzi  Edizioni Tabula  Fati Narrativa racconti

I desideri più nascosti, le ossessioni che albergano nell'intimo di ogni essere umano possono esplodere all'improvviso in forme e contenuti del tutto inaspettati. Nella realtà ci capita di vedere fatti di cronaca di una violenza inaudita, ma se si tratta di scrivere in proposito, ricorrendo alla creatività, nessuno meglio di Giovanni Buzi ne è capace. Autore eclettico, a volte anche eccessivo, in questi sei racconti ha trovato il giusto equilibrio per proporci altrettante storie di ordinaria follia che sconfinano nel soprannaturale.
E quando si va oltre il limite della percezione umana, Buzi è un maestro nell'inventare trame, forse di per sé non particolarmente originali, ma privilegiate, per non dire rese uniche, da uno stile del tutto inconfondibile che attrae inevitabilmente il lettore.
Così è tutto un susseguirsi di visioni oniriche, di quadri surreali, al cui risalto non poco concorre anche l'indole artistica dell'autore per la pittura.
Un tocco di pennello qua, uno là, e i colori, sempre particolari, concorrono a formare un caleidoscopio di immagini di rara efficacia.
Al riguardo, penso bastino due esempi:

" Sfumatura rosa arancio su tessuto bianco. Lino tanto sottile da sembrare impalpabile, quasi uno scherzo della luce." (da " Suor Maria Degli Angeli")

" Verde, il colore del mantello e del cappuccio era verde muschio, come quegli occhi." (da "Sotterranei").
Ecco, in entrambi i casi, chi legge vede immediatamente e faccio notare che la descrizione non è per nulla laboriosa e si ammanta di un'aureola di poesia; in fin dei conti avrebbe potuto dire solo che gli occhi erano verdi, e invece l'indicazione degli abiti identici nel colore agli occhi configura meglio il soggetto, è un'immagine che si forma nella mente e che vi si imprime.
Per quanto i generi dei racconti non siano simili, restano pervasi dallo stesso alone di mistero che finisce con il legare indissolubilmente le pagine con la naturale, spontanea curiosità del lettore.
Non sono in grado di dire quale dei sei mi sia piaciuto maggiormente, ma forse il primo (Suor Maria degli Angeli) per l'ambientazione e l'epoca è quello a cui vanno le mie preferenze.
Per concludere, mi preme evidenziare come sia una lettura, per quanto intensa, anche assai piacevole.
Renzo Montagnoli

L'autore
Giovanni Buzi, nato a Vignanello (VT) nel 1961, insegna lingua e cultura italiana al Parlamento Europeo di Bruxelles e storia dell'arte contemporanea all'Accademia di Belle Arti di Bruxelles.
Tra le sue pubblicazioni: i romanzi Faemines (Roma 1999), Il Giardino dei Principi (Bolsena 2000) e Agnese (Chieti 2005), il saggio William Turner in Etruria (Bolsena 2004), le raccolte di novelle Fluorescenze (Viterbo 2004) e Sesso, orrore e fantasia (Bolsena 2005). Il racconto "La collana di perle celesti" ha vinto il Premio Profondo Giallo 2005 (pubblicato in appendice al libro di Giulio Leoni, I delitti del mosaico, Giallo Mondadori n. 2896, Milano 2006).
Renzo Montagnoli


Venti d@lla rete di AA.VV.  Graphe.it Edizioni   Narrativa racconti
una selezione a cura di Piera Rossetti Pogliano

Frutto di un’accurata selezione fra i tanti racconti di esordienti inviati alla Lettura Incrociata de Il Rifugio degli esordienti, questa antologia, presentata appunto congiuntamente a Danae, è una piacevolissima sorpresa.
Infatti, abituato a leggere sia sul web che su altre pubblicazioni analoghe testi per lo più di modestissima levatura, con trame sovente sciatte e banali e con stili alquanto incerti, non avrei mai pensato che mi sarei trovato fra le mani un’opera egregia, oltre che di lettura assai gradevole.
Ammetto che l’approccio è stato titubante, quasi rassegnato a sorbirmi un minestrone di pessima fattura, e invece fin dal primo racconto (Cuore infame di Stefano Belriguardo) non solo mi sono dovuto ricredere, ma ho anche trovato, pagina dopo pagina, quella piacevolezza del leggere che consta nel passare da un genere a un altro, da un modo di scrivere a uno stile diverso.
Penso che, al di là della bravura degli autori, una buona parte del merito vada alla selezionatrice Piera Rossetti Pogliano che ha saputo fare una cernita assai oculata al fine di evitare che fra i 20 racconti ce ne fosse qualcuno di non idonea levatura.
Per quanto ovvio, anche per motivi connessi al gusto individuale, ce ne sono che mi sono piaciuti di più e altri che invece non hanno avuto un analogo gradimento, ma in ogni caso questi ultimi mi sono parsi di buona fattura e degni di far parte dell’insieme.
Personalmente quelli che più mi hanno colpito sono stati:

       -   Cuore infame, di Stefano Belriguardo, che ha saputo ambientare una storia di prostituzione
      con mano leggera e senza eccessi;
 -    La camicia, di Daniele Locchi, capace di creare una Venezia surreale;
 -    Servizio di manutenzione, di Mauro Mirci, una trama di fantascienza, forse non originale,
       ma  sicuramente ben sviluppata e avvincente;
 -    Giovinezza, di Stefano Montanari, improntato a un’ironia deliziosa;
 -    Il grande Moloch, di Alessandro Palmieri, un’irresistibile intrusione nel mondo della burocrazia;
 -    L’insalata di rinforzo, di Alessandro Testa, un’esilarante indagine poliziesca ambientata
       a Napoli;  
 
-        Il domatore di cinghiali, di Pierpaolo Zara, a mio avviso il migliore fra i 20, soffuso di un alone
      di magia e con una tecnica narrativa di rara efficacia.

Gli altri autori, che non ho nominato, non me ne vogliano, perché, come ho detto sopra, le loro opere sono senz’altro meritevoli, al di là di quello può essere il mio gusto personale.
In conclusione, mi sento di consigliare vivamente  la lettura di quest’antologia, 207 pagine di autentico piacere.
Renzo Montagnoli

L’autore
Piera Rossotti Pogliano
si dedica da molti anni alla selezione e promozione di narratori e poeti esordienti occupandosi dei siti web Rifugio degli Esordienti e del catalogo di DANAE. Ha curato due antologie di autori esordienti: R@cconti senza rete (Napoli, Di Salvo) e Oltrel@rete (Roma, Proposte Editoriali) e pubblicato i romanzi storici Il diario intimo di Filippina de Sales, marchesa di Cavour (Torino, L’Angolo Manzoni) e Il ventre pieno di farfalle (Roma, Robin).
Renzo Montagnoli


Elogio della guerra di Massimo Fini    Marsilio Editori    Saggio

Quello che mi piace maggiormente nel modo di scrivere di Massimo Fini è l'estrema concretezza, accompagnata da una chiarezza di esposizione, pur in presenza di analisi altamente approfondite.
Anche questo saggio presenta tali caratteristiche che agevolano non poco la lettura a fronte di argomentazioni normalmente complesse, ma che nella trattazione dell'autore sono di immediata e univoca comprensibilità.
La guerra viene esaminata nelle sue funzioni, nelle ragioni che la determinano, nelle sue pulsioni e nella sua moralità.
Massimo Fini, indubbiamente pacifista, affronta il problema senza remore, visto che è connaturato all'uomo, quasi facesse parte del suo DNA.
Al riguardo raccomando di leggere le due prefazioni, scritte una il 9 aprile 1999 e l'altra nel febbraio del 2003, in quanto estremamente significative di reazioni e comportamenti constatati in così breve tempo sullo scenario mondiale dei conflitti.
Pagina dopo pagina ci sarà possibile comprendere l'aspetto della guerra sotto il profilo sociologo, psicologico ed economico e alla fine della lettura apparirà chiaro che per vivere sempre in pace ciò che dovrà mutare profondamente è l'uomo, nella sua più intima struttura.
Renzo Montagnoli

L'autore
Massimo Fini, di padre toscano e di madre russa, nasce sul lago di Como il 19/11/1943. Dopo la laurea in giurisprudenza e diversi lavori minori approda nel 1970 al giornalismo, dapprima all'"Avanti", poi al "Giorno". Attualmente lavora per il "Giorno", "Il Gazzettino", "La Nazione" e "Il Resto del Carlino". Ha pubblicato: 'La Ragione aveva Torto?' (Camunia 1985, ripubblicato da Marsilio in edizione tascabile nel 2004); 'Elogio della guerra' (Mondadori 1989 e Marsilio 1999); 'Il Conformista' (Mondadori 1990); 'Nerone, 2000 anni di calunnie' (Mondadori 1993); 'Catilina, ritratto di un uomo in rivolta' (Mondadori 1996); 'Il denaro, "sterco del demonio"' (Marsilio 1998); "Dizionario erotico, manuale contro la donna a favore della femmina", (Marsilio 2000); "Nietzsche, L'apolide dell'esistenza" (Marsilio 2002), "Il vizio oscuro dell'Occidente" (Marsilio 2003) ; "Sudditi" (Marsilio 2004); "Il ribelle dalla A alla Z" (Marsilio 2006).
Renzo Montagnoli


Vicus Boldonis terra di marcite di Luisito Bianchi Associazione Amici dell'Abbazia di Viboldone
Poesia - Poemetto

Il libro non si trova nelle librerie; chi lo vuole, contatti il Monastero.
(mail: info@viboldone.it; telefono: 02 9841203 )
L'autore, altresì, precisa che il prezzo dichiarato non si deve né si può applicare agli amanti della poesia.

Di Luisito Bianchi avevo già letto il meraviglioso "La messa dell'uomo disarmato ", romanzo di rara bellezza di cui ho scritto con altra mia.
Quando mi è capitato fra le mani questo volumetto, donatomi dall'autore, a prima vista ho pensato a una guida della pur famosa Abbazia di Viboldone e in effetti a suo modo lo è, sia per il corredo fotografico, sia, soprattutto, perché contiene 35 poesie che hanno il pregio, anche, di rendere in modo esemplare l'atmosfera che si respira in quel luogo di culto.
Peraltro la sorpresa è stata anche nel constatare come Luisito Bianchi, oltre che grande narratore, risulti un poeta di notevole livello e così il leggere una dietro l'altra queste composizioni e il sentirsi pervasi da uno stato di beatitudine quasi celestiale è stata un'esperienza unica, quale non provavo da tempo, se non di fronte a certi spettacoli della natura.
L'opera è anche un omaggio a questa abbazia, dove don Luisito Bianchi, sacerdote dal 1950, svolge le funzioni di cappellano. E' dedicata, in ogni sua stazione, a dei morti che a suo tempo ebbero un particolare rapporto d'amore con questo tempio dalle pietre rosse. Verrebbe spontaneo allora pensare che l'aspetto tragico finisca con l'impregnare i versi e invece non è così, perché nel ricordo degli scomparsi ci sono parole di vita e le figure che ora non sono più presenti sulla terra rivivono in quelle pietre, negli affreschi; diventati ormai puri spiriti, la loro presenza aleggia a intonare ancor di più quell'atmosfera serena racchiusa fra le vecchie mura.
Ogni poesia è preceduta, oltre che dalla dedica a uno scomparso, da una breve nota relativa agli affreschi, la cui fotografia peraltro è sempre presente, una sorta di riflessione introduttiva sull'episodio del Vangelo ivi rappresentato.
Sono osservazioni di notevole spessore e che accrescono ulteriormente il contenuto letterario dell'opera.
Ovviamente ne caldeggio vivamente la lettura, un modo nuovo per immergersi nella religiosità o per cercare di comprenderla.
Renzo Montagnoli

L'autore
Luisito Bianchi è nato a Vescovato in provincia di Cremona, ed è sacerdote dal 1950.
E stato insegnante e traduttore, prete-operaio e inserviente d'ospedale.
Attualmente svolge funzione di cappellano presso il monastero benedettino di Viboldone (Milano).
Ha pubblicato: Salariati (Ora Sesta, Roma 1968), studio sociologico sul salariato di cascina nel cremonese; Come un atomo sulla bilancia (Morcelliana, Brescia 1972, riediz. Sironi, Milano 2005), storia di tre anni di fabbrica; Dialogo sulla gratuità (Morcelliana, Brescia 1975, riediz. Gribaudi, Milano 2004), Gratuità tra cronaca e storia (1982). Dittico vescovatino (2001), Sfilacciature di fabbrica (1970, riediz. 2002), Simon Mago (2002), La Messa dell'uomo disarmato (1989, riediz. Sironi, Milano 2003), un romanzo sulla resistenza; Monologo partigiano sulla Gratuità (Il Poligrafo, Padova 2004), appunti per una storia della gratuità del ministero nella Chiesa; diverse raccolte di poesie tra cui Vicus Boldonis terra di marcite (1993) e Sulla decima sillaba l'accento, In terra partigiana, Parola tu profumi stamattina, Forse un'aia.
Renzo Montagnoli


LiberaMente di AA.VV.  Graphe it Edizioni
Antologia di racconti, composizioni poetiche, curiosità, fumetti & immagini, istruzioni per l'uso
prefazione di Sidne Rome

Veramente originale l'idea di questa giovane casa editrice (è sorta nell'estate del 2005), con un concorso un po' fuori dalla norma:considerato che la vita è troppo attiva e che si va sempre di fretta, perché non proporre letture veloci e agevoli, da effettuare magari in treno, in autobus, e, perché no, anche nella stanza da bagno, eventualmente seduti sulla tazza?
Per quanto ovvio non si deve trattare di qualche cosa di impegnativo, ma che eventualmente aiuti a trascorrere quel poco tempo rilassando.
Dai risultati di questo concorso (il primo, tenutosi lo scorso anno) è nata così questa raccolta antologica, che comprende generi vari. Si passa così dalla quasi filastrocca "La giraffa Domitilla" di Loredana Simonetti alla poesia sulle stagioni di un anno "cartoline di stagione.com" di Milvia Comastri. C'è spazio anche per i racconti, ovviamente brevi, fra i quali ricordo "I rodimenti del sapere " di Giuseppe Lucca; troviamo, poi, le Istruzioni per l'uso (particolarmente divertente" Come non cucinare un polpo" di Antonella Podda); non mancano le curiosità varie (particolarmente indovinate mi sono sembrate quelle di "Pillole" di Silvana Sonno) o i fumetti, come quelli appunto sulla tazza ("Pensieri" di Francesco Brugnolo).
Mi scuso se non ho citato gli altri autori, perché la scelta è stata motivata soprattutto da motivi di brevità, rapidità di recensione, nel pieno spirito che è stato alla base del concorso e che ritengo ben compreso nelle opere di questa antologia.
In chiusura ritengo doveroso un consiglio: a mio avviso, non è da leggere come un normale volume, seduti in poltrona, magari con la pipa in bocca; è invece molto più di soddisfazione ricorrervi nei ritagli di tempo, proprio così come si è proposto l'editore.
Renzo Montagnoli


Frammenti d'anima di Tiziana Monari  Aletti Editore  Poesia - Raccolta

Sei il tempo che resta
un desiderio senza fine nel cuore

pelle su pelle
sogno su sogno

(da "Sei…").

Inizia con questi versi il volume di poesie con cui Tiziana Monari, più conosciuta nel mondo di Internet con l'alias Orchidea Nera, esordisce "a solo", in quanto precedentemente diverse sue liriche erano parti di antologie collettive.
Il tema dominante di questa silloge è l'amore, un sentimento che nei versi appare come un'emozione trasognata, con un idealizzazione di immagini che spesso conducono al surreale.
Ciò che però colpisce maggiormente il lettore è una latente sensualità, come una porta spalancata sull'aspetto più intimo della personalità dell'autrice.

Bussa alla porta dell'alba con pensieri proibiti
l'uomo venuto dal vento

con una strana magia muove le dita
apre il cuore con fili di voce

ha passi senza orme
rumore di brividi sulla pelle

(da "L'uomo del vento")

Penso che questa lirica, meglio di altre, possa far comprendere il concetto che ho espresso sopra, con questa figura maschile quasi stilizzata che travolge l'autrice in un turbine di sentimenti, di passioni rese mirabilmente con poche brevi pennellate a formare, appunto, un quadro surreale.
La lettura risulta agile e piacevole, in ogni caso mai affaticante, e in questo senso si deve riconoscere a Tiziana Monari una innata capacità di immediatezza che, peraltro, riesce a utilizzare al meglio.
Renzo Montagnoli

L'autrice
Residente in Toscana, ma di origini emiliane, Tiziana Monari è piuttosto restia a svelare qualche cosa di sé, anche perché molto dimostra con la sua produzione, in verità assai numerosa, presente su diversi siti Internet e anche in antologie cartacee.
Renzo Montagnoli


Aria di lago di Carla Bariffi, Ed. LietoColle 2006

È la raccolta poetica di un’autrice radicata al lago di Como.
Non sorprende quindi il titolo così simbiotico con il suo vissuto, anzi è invito  a scoprire le  vibrazioni del paesaggio, anche a chi vive in un ambiente geografico diverso.
      La prefazione di Gianmario Lucini è la preziosa cornice del quadro intessuto di colori sintonici, di cui gli acquerelli inseriti sono lo specchio.
Apre le tre sezioni del testo - Aria di lago, La voce del sangue, Nel sangue, l’amore – un distico di Emily Dickinson:

“…e tu coglimi,anemone,
tuo fiore per l’eterno”

in cui è palese il forte desiderio di appartenenza, per sempre.
       Ed è proprio la passione  che pervade tutto il libro: la Bariffi è la donna dell’appartenenza agli affetti, al suo lago, alle sue montagne, anche oltre la morte.
Si cela nel “per l’eterno”,  così condiviso da essere incipit al testo, l’apertura all’al di là, alla certezza che né il bene, né il male potranno separarla dall’ Aria.
“Aria “come canto, scrive Gianmario Lucini, certo; aria come atmosfera si potrebbe aggiungere, esperita  su quelle sponde ricche di immaginario.
Quel ramo del lago di Como…”: in chi, del resto, questo poetico aprirsi,  non
ha creato pathos, brama di vedere, chissà… un tabernacolo, sagome – emozioni, monti sorgenti dall’acque ed elevati al cielo, cime ineguali…?
In questo spazio si gioca la presa psicologica di intere generazioni: è stata una scommessa, a mio parere, quella di Carla Bariffi, ad esporsi su un terreno tanto delicato; scommessa vinta, del resto, perché il lettore resta affascinato da quella che Lucini definisce a ragione la ”complessa semplicità” della poeta, cioè “non troviamo qui descrizioni complicate, allusioni a pensieri filosofici particolari, …, ma soltanto la capacità di interrogare, interrogarsi e stupirsi.”

Mi piace a titolo esemplificativo soffermarmi su alcune liriche.

L’ora più bella
            Dall’imbrunire sorge
            a spargere fremiti
            su labbra mai sazie.

-   E’ l’ora in cui ti scrivo -

Un attimo colto nel quotidiano: l’imbrunire,  segmento di vita verso il silenzio, dove i pensieri più intimi ritrovano finalmente  il loro spazio e, il contatto con l’altro, è intimo, appagante. In  quattro versi, straripa l’essenza della vita.

A volte sento

la morsa forte nel petto
fluida e corposa
vibrare ogni nota
distorcere
salde ragioni.
- Allora capisco
di non sapere niente –

Semplici sensazioni sulla complessità dell’esistenza, convincono distorcendo “salde ragioni”, di aver bisogno d’imparare ancora.

Sul tuo ventre

sciolgo i miei colori
aperti e riversati

Folti fili mogano
fluttuanti in girandole giocose
di pioggia e sole
a rivestirti.

Esplode l’eros, colmo di quel desiderio di appartenenza già intravista nei versi della Dickinson. “ Sciolgo i miei colori, aperti e riversati”: niente di sé resta all’amante, se non l’estasi del corpo amato.
Lucia Visconti Cicchino


Improbabili confessioni al veterinario di Nicola Oronzo Accattato

Tra gli scrittori emergenti della nuova Calabria un posto particolare spetta a Nicola Oronzo Accattato, cui si affissa con maggiore attenzione l'interesse della critica letteraria, e il suo "Improbabili confessioni al veterinario" è da ritenere il frutto maturo di una lunga stagione poetica e narrativa.
Figura singolare di scrittore-testimone, Nicola Oronzo Accattato ha saputo con coerenza portare avanti un discorso-ricerca sull'Alto Jonio Cosentino, che lo vede pioniere -fin dagli anni '70- con voce sempre più sicura e persuasiva assumere un ruolo caratteristico di predicatore sociale, insistendo sul fatto che il Sud, prima ancora di essere un territorio geografico dai confini netti è uno status dell'anima, è una metafora della solitudine, della diversità, dello sradicamento.
La passione civile, unita ad una ricerca antropologica sul campo anima le pagine del Nostro. Pagine che sono intrise di un dolore lancinante di condivisione per la sorte disperante in cui versa la gente del Sud, estraniata a se stessa, sulla via dell'esilio: la cui disgregazione non è tanto geopolitica, quanto di natura spirituale e spinge l'autore ad acuire lo sguardo, a formalizzare nuovi percorsi e, con novità di intenti, ad approfondire una tematica, che pur inserendosi nell'alveo della problematica meridionale, ne supera i limiti angusti ed obsoleti del ritardo storico e del mancato decollo, su cui ha tanto insistito e poi, per sterilità di risultati, si è arenata gran parte della pubblicistica. Insomma, sembra suggerire Accattato, la via da percorrere è un'altra: quella di scavare in direzione opposta, risalendo ad un humus organico, ad una condizione primigenia inverata e fecondata da un ethos, la cui forza coesiva esaltava i vincoli di appartenenza comunitaria e di solidarietà umana. Le "Confessioni" suggeriscono la nostalgia e/o il bisogno di una immersione nel liquido amniotico di una alma mater, MATRIA e non PATRIA, quale ritorno alle fonti originali per il recupero dei valori: che non sono quelli ormai distorti che le varie ideologie (religiose, sociali, ideologiche) dominanti hanno variamente elaborato ed imposto lungo i secoli della nostra "storia di uomini". E questa Alma Mater rivive e si rinnova nella moderna Oriolo, luogo della memoria, arroccata sul monte come una nuova Gerusalemme, in cui il tempo e l'uomo, stratificati come le rocce, portano incisi il proprio destino, segnato nella sua essenza di eterna immobilità. Il tutto è trasposto con poetica surrealistica, che si può agevolmente comparare ad un grande affresco di Chagall. E come in Chagall la tavolozza dei colori, qui l'impasto linguistico si fonde mirabilmente in brandelli di vita che rendono incandescente e continua la gradazione dei toni, con bagliori di luce vivissima che racchiudono -rappresa- la materia. Soprattutto l'intonazione lirica rende le "Confessioni", possibili di una lettura rapsodica e/o trasversale, ed ogni capoverso -come le strofe di una ballata romanza- si apre su arditi squarci che cristallizzano visioni oniriche, in cui l'ego narrante, come uno strato affiorante, evidenzia uno strascico di echi e risonanze che riconosce come rimembranza e riappropriazione di qualcosa perduto e, ora svelato, che impone a nuova vita. Sul filo di questa Recherche, si intrecciano i fili d'oro di esili ma tenaci ricordi ad ammonirci che la realtà non fugge, il tempo è durata e come tale non scorre e non si annulla nel divenire, e gli uomini "pulvis et umbra" nel contesto della solennità del villaggio godono di una luce immortale: c'è sempre Don Pierino "maestro bravo", Don Osvaldo "che ce l'aveva messa tutta nei tre anni di medie", il camposantaro, Don Ciccio che intonando il Te Deum "saltellava come un grillo pelato da una canna all'altra dell'organo meraviglia e vanto". E i luoghi di questo paesaggio trasparente ed eroso dalla violenza del tempo: la timpa, il ponte, la piazza del Borgo, la cantina di Spaventa, il torrente Ferro "che ha avuto acqua solo quando gli ortolani ci andavano a pisciare", la salita della Barisana, diventano gli archetipi universali di ogni possibile luogo, e che portiamo scolpiti sempre dentro in ogni cavità del nostro cuore, quasi memoria collettiva, iscritta nel DNA della nostra specie, quali strumenti di conoscenza, modelli di confronto e di approccio a qualsiasi realtà di cui andiamo ad esperire. Tra i meriti grandi delle "Confessioni" è l'aver dato moto e restituito alla vita qualcosa -era nell'aria- che sembrava muto e sommerso sotto una coltre di sedimenti e risentimenti, trasfigurando in bellezza, la bellezza delle piccole cose, la grandezza dei "piccoli" uomini di fronte ad una odierna Oriolo-Paperopoli su cui oscuramente incombe una minaccia e va senza futuro incontro ad un destino di morte. Qui la voce dell'autore si leva indignata e risentita contro quegli uomini che "contano" e che come sempre sono quelli "che contano i soldi" e che hanno negato al paese un ospedale perché "doveva sorgere a…vicino a…e non lontano da.." su cui pesa -non rimosso- il sacrificio di Maria "che ci lascia le penne perché si era sognata di avere un parto difficile"
Ma "spes contra speme" la seconda parte del romanzo "Il vile maschio che è in me" sembra approdare , con il primo stupore della scoperta del mare, a spiagge luminose e assolate: io che non avevo mai visto il mare…il mare con le sue onde alte aveva aperto la porta.
La porta che immette in un viaggio iniziatico per alla conquista della propria identità ed il percorso di centonovantatre passi che l'autore compie ogni volta nei momenti decisivi della sua vita, sono la misura dello sforzo, la distanza ideale e reale che separa dal raggiungimento della felicità, alla conquista dell'amore. Felicità che non è posta in lontananze infinite, in luoghi esotici e remoti ma hic et nunc e solo quando l'uomo recupera il senso della solidarietà umana,della dolcezza, la meraviglia delle cose, lo stupore della luce. Qui sta il significato dell'ex-sistere, qui il luogo del ritorno ad Itaca-Oriolo, per quanti soffrono sulla loro pelle le ferite dell'esilio, lo sradicamento dalla Matria. E in questo viaggio a ritroso si andrà alla scoperta dell'uovo d'oro che le antiche mitologie hanno posto nelle leggende della loro preistoria. L'incanto di tante uova bianchissime sotto un cielo tutto sole, in mezzo ad una pianta di ginestra…Il passo sopraccitato si carica di simbologie inquietanti, che rimandano ad una cultura antropologica che ha visto nell'uovo racchiuso il mistero della vita: nel bianco il candore e la purezza incontaminata di ogni origine; e poi il cielo e il sole nostri referenti e simbolo di ogni religione. E su tutto, come un'epigrafe, l'umile ginestra leopardiana, fiore del deserto che al cielo di dolcissimo odor manda un profumo, e che il destino consola.
Nino Viscuso


Il riflusso della marea di Robert Louis Stevenson  Marlin Editore  Narrativa romanzo

 Il 1894 è l’anno in cui Robert Louis Stevenson muore, dopo lunga malattia, in un’isola del Pacifico e “Il riflusso della marea” è l’ultimo suo romanzo terminato poco prima del prematuro decesso.
E’ indubbio che l’autore debba la sua fama a opere come “L’isola del tesoro” e a “Lo strano caso del Dottor Jekill e di Mr. Hyde”, romanzi che costituiscono, soprattutto il secondo, una pietra miliare nella letteratura del XIX secolo; con questo, però, non intendo dire che “Il riflusso della marea” sia un risultato minore, perché, per certi aspetti, rappresenta l’apice del percorso letterario di Stevenson, preconizzando il grande romanzo del novecento.
Infatti, l’aspetto avventuroso, pur presente, non è il tema centrale della narrazione che volge invece a rappresentarci con realismo la corruzione morale, tanto più accentuata, quanto più l’uomo tende a civilizzarsi.
I protagonisti sono tre uomini irrimediabilmente segnati dal loro destino, da un degrado da cui non riescono a uscire e di cui anzi finiscono con il compiacersi in una sorta di autocommiserazione che li porterà a una caduta definitiva, senza possibilità di risorgere.
La visione dell’umanità di Stevenson è inoltre rivoluzionaria per l’epoca e già era stata introdotta  con la vicenda del Dottor Jekill  e Mr. Hyde: non esistono esseri solo buono o solo cattivi, ma ci sono due componenti opposte e continuamente in lotta  che garantiscono la sopravvivenza, quasi fosse una specie di gioco di equilibrio. Quando il male soverchia il bene, la discesa all’inferno è inevitabile, in una sorta di autodistruzione tale da rappresentare una compiaciuta punizione.
Come mia abitudine non accennerò altro della trama, comunque interessante, al di là degli autentici contenuti dell’opera.
Ritengo invece doverosa una parola almeno allo stile dello scrittore che, abbandonata l’opulenza dell’inizio del secolo, riesce, quasi scarnamente, a rappresentare paesaggi dando loro una visibilità da immagine fotografica; con la stessa tecnica l’atmosfera di putrefazione morale viene progressivamente a prendere corpo, in una trasmissione del senso che il lettore coglie senza accorgersi, perché  è viva, pregnante, accompagna i personaggi che con il loro fare le danno vita.
Il riflusso della marea, quindi, ha titolo per rientrare fra i grandi classici della letteratura.
Renzo Montagnoli

L’autore
Robert Louis Stevenson nacque nel 1850 a Edimburgo, dove visse fino al 1863. Debole di salute fin dall’infanzia e tormentato da problemi polmonari, si spostò in Francia, in Italia e negli Stati Uniti alla ricerca di un clima migliore. La scoperta della letteratura segnò la sua strada di giovane sensibile e curioso: Shakespeare, Walter Scott e Dumas furono i suoi primi maestri. Nel 1878 pubblica i suoi primi libri di viaggio e i racconti che riunirà nelle Nuove mille e una notte (1882). Il successo gli arriva con L’isola del tesoro (1883), classico di ogni tempo e di ogni età. Nel 1886 escono Il fanciullo rapito e Lo strano caso del Dottor Jekyll e di Mr. Hyde, che lo confermano nella fama internazionale. Nel 1885 conosce Henry James, al quale rimarrà legato da grande amicizia. Terminato nel 1888 il romanzo Il Master di Ballantrae, parte per il Pacifico, dove scriverà racconti celeberrimi come Il diavolo nella bottiglia e La spiaggia di Falesà, romanzi come Il naufrago e Il riflusso della marea, e dove rimarrà fino alla morte, avvenuta nel 1894 a soli 44 anni.
Renzo Montagnoli


Fiori sulla muraglia di Caterina Trombetti  Passigli Editore  Raccolta di sillogi poetiche.

E’ il primo tenero boccio,
   l’hai colto per me
   e con un gesto inatteso
   hai afferrato il mio cuore

                        Da “La rosa”

Non a caso ho messo questi versi di una poesia che fa parte della raccolta “Fiori sulla muraglia”.
Quello che mi ha sempre stupito nelle composizioni di Caterina Trombetti è l’apparente semplicità stilistica con cui riesce a esprimere sentimenti, emozioni e anche concetti profondi. E notate che non si tratta di semplici espressioni, ma di versi che vengono a comporre un quadro armonioso di pura bellezza, cioè una poesia nel suo concetto più classico e in tal senso assoluto.
Del resto, nella prefazione, il compianto Mario Luzi ravvisa pure lui questa caratteristica di elevato valore che rende tutta la poetica dell’autrice di immediata comprensione nella linearità stilistica che le è propria.
E’ quindi prima di tutto una lettura piacevole, gratificante e che rasserena l’animo, perché è evidente la naturalezza dell’esporre, con versi che sgorgano limpidi come la sorgente di un ruscello di montagna.
Si aprono alla vista così visioni che non comportano differenze interpretative, come se l’autrice fosse riuscita a scattare una fotografia del proprio animo, dei propri sentimenti, delle proprie emozioni.
Al riguardo, per spiegare meglio il concetto, mi affido a una parte dei versi di un’altra poesia: Meriggio.

 Guardo un lenzuolo disteso al bancone
                 e mi invade la pace.
Ecco la vela
                                 si gonfia di vento
ondeggia nel sole
e il muro, la pietra si animano
di quel luccicante biancore.        

In conclusione, immediatezza e semplicità alla base di una grande poetica.
Renzo Montagnoli

L'autore
Caterina Trombetti
è nata a Firenze dove svolge l’attività di insegnante, occupandosi prevalentemente dell’educazione degli adulti. Intensa è la sua attività di promozione alla lettura e frequenti sono gli incontri, in veste di autrice, con gli alunni delle scuole in varie città. Come poeta è presente in varie antologie e riviste, e noti critici letterari si sono occupati della sua poesia, che ha avuto traduzioni in diverse lingue.
Le sue precedenti raccolte poetiche sono: Il pesce nero, 1990; L’obliqua magia del tempo, 1996; Stelle della mia Orsa, 2002. Con la Passigli Editori ha pubblicato nel 2000 Fiori sulla muraglia e nel 2004 Dentro al fuoco.
Renzo Montagnoli


Nerone. Duemila anni di calunnie di Massimo Fini  Mondatori  Storia biografia

Questo libro è dedicato soprattutto ai giovani perché, attraverso le menzogne sulla storia di ieri, sappiano riconoscere quelle, per loro certo più importanti, sulla storia di oggi.

Questo pensiero, del tutto condivisibile, introduce il lettore a un trattato su un imperatore romano che a scuola, negli spettacoli cinematografici e perfino negli usi comuni è sempre stato considerato un pazzo sanguinario. Penso che molti noi ricorderanno la eccellente interpretazione di Peter Ustinov nei panni di Lucio Domizio, più comunemente conosciuto con il nome di Nerone, nel celebre film "Quo vadis?".
A suo tempo ero un ragazzino e rimasi fortemente colpito da quest'uomo che alternava indifferentemente la passione per l'arte e la brutalità più esecrabile, una sorta di mostro che sotto l'aspetto pacioso celava una crudeltà senza pari.
A scuola poi l'hanno sempre presentato come colui che incendiò Roma e che ne fece ricadere la colpa sui cristiani, sottoposti a un vero genocidio.
Non ho mai messo in dubbio questa versione dei fatti, dato che aveva l'ufficialità dell'insegnamento, ma, se avessi pensato che la storia è fatta a uso e consumo della classe dominante propria di ogni epoca, logicamente mi sarebbero sorti dei dubbi.
Infatti, quanto sappiamo di Nerone è frutto di due storici romani, Svetonio e Tacito, sulla cui onestà intellettuale vi è più di un motivo per ritenere che nella fattispecie non fosse cristallina, in quanto il primo era più incline ad accogliere i pettegolezzi senza verificarne la veridicità e il secondo faceva parte della classe senatoriale, tanto osteggiata proprio dall'imperatore folle.
Quindi, non prendendo più come oro colato i testi di questi due storici, considerati non propriamente attendibili ed esaminando con spirito critico ogni avvenimento dagli stessi narrato, la moderna storiografia ha ridisegnato completamente la figura di Nerone, dandone un quadro opposto a quello per tanto tempo propinatoci.
Massimo Fini è riuscito, sulla base degli studi aggiornati degli storici, a raccontarci la vita di quello che probabilmente è stato uno dei più grandi imperatori.
Il tutto non è frutto di un' opinione personale, perché sono ampi e documentati i richiami ai testi utilizzati per la stesura del libro.
Il grande pregio dell'autore è stato quello di aver saputo coordinare gli elementi delle fonti, dando vita
a un saggio che ha lo svolgimento di un romanzo, pur non lasciando nulla alla fantasia.
E' una lettura facile e anche coinvolgente, il che dimostra come la storia possa costituire, oltre che un accrescimento culturale, anche un piacevole passatempo, insomma, come avrebbero detto gli antichi, un vero e proprio "jucunde docet".
Renzo Montagnoli

L'autore
Di padre toscano e di madre russa, Massimo Fini nasce sul lago di Como il 19/11/1943. Dopo la laurea in giurisprudenza e diversi lavori minori approda nel 1970 al giornalismo, dapprima all'"Avanti", poi al "Giorno". Attualmente lavora per il "Giorno", "Il Gazzettino", "La Nazione" e "Il Resto del Carlino". Ha pubblicato: 'La Ragione aveva Torto?' (Camunia 1985, ripubblicato da Marsilio in edizione tascabile nel 2004); 'Elogio della guerra' (Mondadori 1989 e Marsilio 1999); 'Il Conformista' (Mondadori 1990); 'Nerone, 2000 anni di calunnie' (Mondadori 1993); 'Catilina, ritratto di un uomo in rivolta' (Mondadori 1996); 'Il denaro, "sterco del demonio"' (Marsilio 1998); "Dizionario erotico, manuale contro la donna a favore della femmina", (Marsilio 2000); "Nietzsche, L'apolide dell'esistenza" (Marsilio 2002), "Il vizio oscuro dell'Occidente" (Marsilio 2003) ; "Sudditi" (Marsilio 2004); "Il ribelle dalla A alla Z" (Marsilio 2006).
Sito internet:
http://www.massimofini.it/
Renzo Montagnoli


La messa dell’uomo disarmato di Luisito Bianchi  Sironi Editore  Narrativa romanzo 

Confesso che quando l’amico Remo Bassini mi ha parlato di questo libro e anche del suo autore è sorta immediata una naturale curiosità, cioè quella di conoscere che ne pensa un sacerdote, e Luisito Bianchi lo è, di un fenomeno di assoluta rilevanza quale è stata la Resistenza. A onor del vero, questo trepido desiderio è rimasto un po’ frenato quando, in possesso del libro, mi sono accorto della sua mole. Al momento l’ho accantonato, perché 860 pagine mi spaventavano, e così è rimasto per una ventina di giorni sul comodino, quasi a vegliare la mia notte. Ogni volta che mi coricavo buttavo un’occhiata e quel bel campo di grano in copertina accresceva di più il senso di incertezza; poi, una sera, non ho resistito  e l’ho preso fra le mani, ripromettendomi di iniziare con un paio di pagine. Se non avessi guardato l’orologio avrei fatto l’alba, perché quei piccoli fogli di carta fluivano fra le mia dita come le fresche acque di un ruscello e la lettura, oltre che gratificante, risultava lieve. C’è voluto il suo tempo, ma poi sono arrivato alla fine, non con un’aria di trionfo, ma con il dispiacere che non vi fossero altre pagine.
Questo preambolo mi sembra doveroso, proprio per evidenziare il fatto che, quando un’opera è di valore, non dobbiamo lasciarci influenzare dalla sua dimensione ed è quindi un invito a leggere questo romanzo, senza preconcetti, perché, al di là del suo elevato pregio. riesce a infondere nell’animo un senso di serenità, una quiete interiore sempre più difficile a trovarsi.
E’ stato anche definito un romanzo sulla Resistenza e in questo senso è vero, perché ha saputo cogliere l’autentico significato di questo periodo storico che prima ancora che un fatto bellico è stato un evento umano, con quel ritrovamento di una dignità da tempo sepolta.
La messa dell’uomo disarmato non è però solo questo, ma molto di più. E’ un romanzo sulla vita cristiana, sul rapporto fra uomo e natura, fra uomo ed Ente Superiore, sulle relazioni fra gli uomini. La visione di Luisito Bianchi non è cattolica, ma cristiana, nel senso che si è spogliato degli abiti talari quando si è accinto a metter mano alla penna e così del suo ufficio è rimasta solo la sostanza, quel continuo dialogo fra il razionale e il trascendentale che può benissimo essere sintetizzato  nella frase di Franco, il narratore del romanzo: “Credi in Dio? Non so, come una volta, ma credo alla Parola annichilita e risorta per dare un unico senso alla morte e alla vita”.
L’origine contadina dell’autore si riflette poi nell’amore viscerale per la terra che permea tutto il libro, quella terra da coltivare con mani amorevoli, quasi fosse un essere vivente, con i ritmi di vita propri delle attività connesse e disancorati da quelli fissati dall’uomo.
La terra è una grande madre a cui i figli attendono con i lavori agricoli come pargoli che succhiano il latte dal seno e a cui, alla fine di una vita, ritornano, per formare con essa un’unica entità, in un ciclo costante che dura da millenni, in una simbiosi che da un senso a tutta l’esistenza.
La messa dell’uomo disarmato è anche il romanzo della pietà,  non una pietà di comodo, ma quel gesto amorevole che deriva da una radicata umanità.
E così anche le tragiche pagine centrali del volume, quelle che parlano degli anni della resistenza, con tutti gli episodi di scontri bellici, di eccidi, di bestialità, finiscono con il diventare un messaggio di pace di rara bellezza ed efficacia.
Questo romanzo ha tanti personaggi, talmente vivi che sembra di vederli, e questo nonostante manchino le classiche descrizioni, perché per delineare le figure Bianchi si avvale delle loro azioni. L’autore non dimostra una spiccata preferenzialità per l’uno o per l’altro, però un po’ più di attenzione c’è per i poveri e puri di cuore. Personaggi come Balilla, Giuliano e, soprattutto, Rondine sono di struggente bellezza, entrano nel lettore in punta di piedi e non escono più dal suo cuore.
Aggiungo, poi, che ci sono pagine in cui la capacità poetica di Bianchi si esprime ai massimi livelli: “Come al solito, quel lunedì 26 luglio 1943 l’avemaria suonò alle cinque e mezzo, saltellò sui tetti delle case, s’incontrò con la mano di porporina dorata che il sole s’era affrettato a pennellare sulle cime degli alberi,…”.    
E di periodi come questo, di una dolcezza senza pari, ce ne sono altri, ma non sono un esercizio di stile, in quanto funzionali al massimo alla vicenda.
Bianchi ha scritto tante pagine, ma non ha usato una parola più del necessario, e anche se la prima parte può sembrare troppo lunga e l’ultima troppo breve, quasi affrettata, restando il corposo nucleo centrale l’essenza vitale del romanzo, sono dell’opinione che l’autore abbia agito per il meglio, componendo la sua opera come un grande concerto di musica sinfonica, dove il preludio è l’indispensabile base per comprendere il tutto e la fine è la naturale risposta a tanti perché.
La messa dell’uomo disarmato, secondo il mio giudizio, è un romanzo di una bellezza sublime, un autentico e raro capolavoro come pochi se ne trovano nella letteratura mondiale.  
Renzo Montagnoli

L'autore
Luisito Bianchi è nato a Vescovato, in provincia di Cremona, nel 1927 ed è sacerdote dal 1950. È stato insegnante e traduttore ma anche operaio, benzinaio e inserviente d’ospedale. Attualmente svolge funzione di cappellano presso il monastero benedettino di Viboldone (Milano). Nel corso degli anni ha pubblicato: Salariati (1968), Gratuità tra cronaca e storia (1982), Dittico vescovatino (2001), Sfilacciature di fabbrica (1970; riediz. 2002), Simon mago (2002). Negli ultimi anni sono stati editi Dialogo sulla gratuità (1975; Gribaudi 2004) e Monologo partigiano (2004, Il Poligrafo). Sironi ha pubblicato nel 2003 il suo grande romanzo sulla Resistenza, assai elogiato dalla critica e apprezzato dal pubblico, La messa dell’uomo disarmato.
Renzo Montagnoli


Lo specchio delle mie emozioni di Moira Di Fabrizio Tabula Fati Edizioni Silloge poetica

E' un piacere scoprire un giovane autore che sa apprezzare il più bello e il più nobile dei sentimenti: l'amore, in qualsiasi modo esso venga inteso.
Le sue liriche sono di ragguardevole impatto emotivo e la semplicità schematica della stesura dei versi tende ancor di più a rafforzare una sensazione di intima profonda gioia.
Le parole scorrono come un fiume tranquillo in cui volentieri ci si lascia immergere; eppure traspare sempre un pudore antico nell'aprire questo immenso cuore, perché le emozioni sono prima nostre, conquiste che custodiamo come tesori e che partecipiamo agli altri solo per testimoniare che la vita, nonostante tutto, può essere bella.
Ha ragione Giulio Lucchetta quando scrive nella prefazione " Presentare un poeta: è forse sgualcire un fiore, frantumare le ali di una farfalla, interrompere l'estremo canto di una cicala."
E i versi di Moira Di Fabrizio sono lievi come il battito di ali di una farfalla, ma intensi come il sole radioso che in estate splende a mezzogiorno.
Renzo Montagnoli

L'autore
Moira Di Fabrizio nasce a Chieti nel 1978, dove studia e si diploma presso l'Istituto Magistrale "Isabella Gonzaga".
Nel 2002 si trasferisce a Bologna per esigenze lavorative, dove opera nel campo delle spedizioni, ed è programmatrice e operatrice computer.
Appassionata di archeologia, in particolare dell'Antico Egitto, come autodidatta, ha un proprio sito sull'argomento.
Si avvicina al mondo della poesia sin da ragazzina trasformando i suoi pensieri e le sue emozioni in parole.
E' autrice di una silloge di poesie e racconti Tra nuvole e realtà (Tabula Fati, Chieti 2005).
Renzo Montagnoli


Le ali della sfinge di Andrea Camilleri Sellerio Editore Narrativa romanzo poliziesco

La fretta è la caratteristica saliente dell'undicesimo romanzo con protagonista il commissario Salvo Montalbano. In effetti la trama si snoda con una velocità inusuale per Andrea Camilleri: è un fiume in piena che rischia di tracimare dagli argini quello che assilla il sempre simpatico poliziotto.
Alla necessità di concludere velocemente due indagini per avere un contatto chiarificatore con Livia, eterna amica-fidanzata, si aggiunge la presa di coscienza di dover dare una svolta alla propria vita. Quest'ultimo elemento, altra novità, si estrinseca in uno sdoppiamento del personaggio, con un Montalbano uno e un Montalbano due, quasi reali, al punto che dialogano su posizioni opposte tanto da bisticciare.
Da un lato c'è il frutto dell'esame del proprio stato, la convinzione di non aver saputo dare alla propria vita un'impronta familiare, uno scopo anche per la vecchiaia, con affetti stabili e sicuri, e dall'altro troviamo la pigrizia conservatrice che contesta questo atteggiamento, anzi fa di tutto per soffocarlo.
E' un Montalbano ancor più umano quello di questo romanzo, un essere che si trova a scoprire le proprie debolezze e combattuto fra il porvi rimedio e il continuare il consueto modo di vivere.
In questo contesto la risoluzione dei due casi, che costituisce l'elemento caratteristico della narrativa gialla, passa in secondo piano e preponderanti diventano l'ambientazione, la psicologia dei personaggi, quasi che l'autore abbia avuto come scopo quello di lanciare messaggi di ben altra levatura.
E in effetti non si trova traccia della tensione tipica legata a eventi delittuosi, ma assume caratteristiche predominanti la frenesia del personaggio, gli artifizi che mette in atto per raggiungere il suo scopo, con vere e proprie sceneggiate che strappano più di una risata.
L'impressione che ho ricavato è che Camilleri abbia intenzione di porre fine alle vicende di Montalbano e che stia preparando il terreno per il suo commiato, che mi auguro non comporti la sua scomparsa in modo eroico, ma semplicemente l'inizio di una nuova vita, magari da pensionato, insieme a Livia.
Renzo Montagnoli

L'autore
Andrea Camilleri (Porto Empedocle, 1925), regista di teatro, televisione, radio e sceneggiatore. Ha insegnato regia presso l'Accademia Nazionale d'Arte Drammatica. Ha pubblicato numerosi saggi sullo spettacolo e un volume, I teatri stabili in Italia (1898-1918). Il suo primo romanzo, Il corso delle cose, del 1978, è stato trasmesso in tre puntate dalla TV col titolo La mano sugli occhi. Con questa casa editrice ha pubblicato: La strage dimenticata (1984), La stagione della caccia (1992), La bolla di componenda (1993), Il birraio di Preston (1995), Un filo di fumo (1997), Il gioco della mosca (1997), La concessione del telefono (1998), Il corso delle cose (1998), Il re di Girgenti (2001), La presa di Macallè (2003), Privo di titolo (2005); e inoltre gli altri romanzi con protagonista il commissario Salvo Montalbano: La forma dell'acqua (1994), Il cane di terracotta (1996), Il ladro di merendine (1996), La voce del violino (1997), La gita a Tindari (2000), L'odore della notte (2001), Il giro di boa (2003), La pazienza del ragno (2004), La luna di carta (2005), La vampa d'agosto (2006).
Renzo Montagnoli


Pietro Badoglio Maresciallo d'Italia di Piero Pieri e Giorgio Rochat Edizioni Mondadori Biografia

Si tratta, forse, della miglior biografia di un uomo che, nel bene e nel male, è stato senz'altro uno dei personaggi più in vista del secolo scorso.
La figura di Pietro Badoglio, quale militare e quale politico, è delineata mirabilmente, con obiettività, avvalendosi, peraltro, di una corposa ed esaustiva ambientazione, sia di luoghi che di tempi, così da ottenere un quadro complessivo della vita italiana dal 1915 al 1945.
A una prima parte, curata da Piero Pieri, e tendente a esplicitare i motivi della carriera militare di Pietro Badoglio e che arriva all'incirca alla fine della prima guerra mondiale, ne segue una seconda, redatta da Giorgio Rochat e che affronta l'ascesa al vertice dello stato di un personaggio che a conti fatti non aveva doti esaltanti di condottiero e di politico, tanto che si sarebbe potuto definire solo un onesto soldato.
Fu forse allora solo fortuna questa vita caratterizzata da un crescendo di successi?
Non viene data, giustamente, risposta a questa domanda, anche perché assai probabilmente non c'è.
Infatti, è più logico pensare che Pietro Badoglio sia stato il classico uomo per tutte le stagioni, senza eccellere in nulla, ma non presentando gravi difetti, e con una capacità invece innata di riuscire a dare sempre il meglio di se stesso, non trascurando la sua abilità diplomatica di sapersi far benvolere da alcuni superiori senza inimicarsi gli altri.
Più tattico che stratega, riuscì a superare indenne la tragedia di Caporetto, pur avendo anche lui le sue colpe, e a tramutare uno scacco in un trionfo, tanto che non solo fu uno dei pochi a non pagare per la miopia strategica che consentì al nemico di dilagare nella pianura veneta, ma addirittura ne uscì rafforzato, sapendosi proporre a Diaz, nuovo comandante in capo, come unico effettivo elemento di affidabilità che potesse garantire la transizione nella condotta della guerra da offensiva a difensiva.
Renzo Montagnoli

Gli autori
Piero Pieri (Sondrio, 1893 - Torino, 1979) è stato il più importante studioso della storia militare italiana dal Cinquecento alla Prima guerra mondiale.

Giorgio Rochat, nato a Pavia nel 1935, è stato docente di Storia contemporanea a Milano, Ferrara, nonchè Torino, dove oggi insegna Storia delle Istituzioni Militari.
Renzo Montagnoli


La marina del mio passato di Alejandro Torreguitart Ruiz  NonSoloParole.com Edizioni
Narrativa racconto lungo

Il racconto presenta due aspetti, opposti, ma inscindibili: la riaffermazione del diritto di essere se stessi in quanto individui dotati di propria autonomia intellettiva e quindi di personalità, e la grigia oppressione di un regime, del tutto avulso dalla realtà che ogni giorno vivono gli esseri umani che ne sono assoggettati.
Il protagonista, un vecchio pescatore, solo, che vive in una palafitta della Marina, non crede a nulla, non ha mai creduto, non è religioso e anche quando ha combattuto nella Sierra con i castristi contro Batista lo ha fatto per necessità. Tuttavia, là, fra tante battaglie e pericoli, la figura del suo capo, dell'esempio che ogni giorno portava ai suoi sottoposti, ha rappresentato un faro, una guida su cui contare e di cui avere fiducia.
Ancora una volta è quindi l'uomo che emerge prepotente sulla spersonalizzazione del regime politico, tanto più vero ove si consideri che per il resto della sua vita il pescatore ha creduto in una sola persona: sua moglie.
Parallelamente alle acute osservazioni sul dualismo fra individuo e regime, il ricordo di quest'uomo, che non si aspetta più nulla dalla vita, va alla consorte, che tanto ha amato e che per un male incurabile lo ha lasciato.
In verità ci sarebbero le figlie, ma una si è sposata con un italiano e vive nel nostro paese, e dell' altra, rimasta a Cuba, si è persa la traccia. Non è che il nostro protagonista non ami chi gli rimane della famiglia, ma questi rappresentano un'entità autonoma, elementi di un futuro di cui non potrà mai essere partecipe, perché lui non crede più a nulla.
Così trascorre il tempo fra la pesca, che gli consente di raggiungere il minimo di sussistenza, vendendo le aragoste ai ricchi turisti stranieri, con il pericolo di essere scoperto, in quanto il pescato per legge è di proprietà dello stato, e il riposo seduto sulla veranda, con davanti agli occhi l'oceano, uno schermo immenso sul quale si proiettano tutti i ricordi di una vita, magari grazie anche ai suggerimenti del suo vicino, vecchio come lui e pure solo, ma per libera scelta.
Entrambi sono senza speranze, perché per loro non c'è futuro ed è solo la memoria del passato che li tiene in vita, ma in una sorta di desolata rassegnazione, con la certezza che il domani non sarà diverso dall'oggi.
Le pagine di questo racconto sono tutte belle, ma le ultime sono addirittura sublimi, a tal punto da generare un'autentica intensa commozione.
La figura dell'anziano pescatore e il suo rapporto con l'oceano può indurre a qualche accostamento con "Il vecchio e il mare" di Hemingway, ma assicuro che si tratta di un'opera ben diversa, più malinconica e, in alcuni elementi, forse migliore (in particolare per quanto concerne la descrizione del paesaggio e dell'ambiente, realizzata con poche appropriate parole e perciò mai greve, pur in presenza di un sottofondo emozionale lasciato abilmente trasparire solo quando strettamente necessario).
Ruiz è un giovane scrittore, ma di indubbio talento, che nell'isola in cui vive, e che ama, ben difficilmente potrà emergere. In questo senso è doveroso un ringraziamento a Gordiano Lupi, che lo ha tradotto e lo ha fatto conoscere nel nostro paese.
Renzo Montagnoli

L'autore
Alejandro Torreguitart Ruiz (L'Avana, 1979) scrive poesie e racconti per la rivista El Barrio, è poeta repentista e cantautore. Suona in un gruppo rock chiamato Esperanza. Ha esordito in Italia con il romanzo breve Machi di carta - confessioni di un omosessuale (Stampa Alternativa, 2003) che ha avuto un buon successo di critica e di pubblico. A gennaio 2004 ha pubblicato il romanzo breve La Marina del mio passato (Edizioni Nonsoloparole - Napoli) e a maggio 2005 il romanzo di ampio respiro Vita da jinetera (Il Foglio - Piombino) sul mondo della prostituzione. Sono in attesa di pubblicazione: Bozzetti avaneri, una raccolta di racconti che non sono racconti opzionata da Caminito Edizioni di Firenze e La casa di Isa, storia di vita quotidiana nella Cuba del periodo speciale tra jineterismo e arte di arrangiarsi. Alcuni suoi racconti di impronta politico-esistenziale sono stati pubblicati da quotidiani e riviste. Tra questi: Il Tirreno, Il Messaggero, La Comune, Container, Progetto Babele, Il Filo, L'Ostile, Happy Boys. Gordiano Lupi è il traduttore e il titolare per lo sfruttamento dei diritti sulle sue opere in Italia e per l'Europa.
Renzo Montagnoli


Nero tropicale di Gordiano Lupi Terzo millennio Editore Narrativa racconti noir

Conoscitore della realtà cubana per motivi familiari, Gordiano Lupi riesce a ricreare in questi cinque racconti - di cui uno assai lungo, tanto da potersi assimilare a un romanzo breve (Nella coda del caimano) - un'atmosfera caraibica densa di tensione e di mistero, dove la religiosità e l'esoterismo si fondono in una sorta di modus vivendi proprio di queste popolazioni di origini africane, per le quali il culto dell'animismo non è mai cessato, pur essendo state convertite al cristianesimo.
Le varie vicende, pertanto, sono tutte caratterizzate dalla presenza del soprannaturale che è alla base delle stesse e nell'ambito del quale vengono trovate le soluzioni di morti violente apparentemente inspiegabili.
In un ambiente, ben descritto, di degrado morale e materiale causato dalla dittatura castrista, spesso il ricorso a entità di un altro mondo rappresenta l'unica via di fuga possibile dalla dura realtà quotidiana. Così, accanto a statue di santi a grandezza d'uomo, convivono spiriti maligni, e in contrapposizione ai sacerdoti cattolici troviamo i santéri, paleri e babalaos.
In questo senso il bel volume di Gordiano Lupi ha una funzione che va oltre quella del puro intrattenimento, pur godibilissimo, in quanto cerca di rappresentare un modo di vivere che rifugge dalla nostra logica, ma che, in quell'ambiente e in quelle condizioni, ha una funzione talmente importante da essere radicato nella gente, quasi una certezza acquisita.
Nella narrazione l'autore è riuscito a equilibrare lo spirito creativo con quello didattico, così che tutto procede in modo estremamente scorrevole e il lettore, nel seguire lo svolgersi della trama, riesce anche ad apprendere gli usi e i costumi di quel popolo in modo del tutto naturale.
Dei cinque racconti, almeno al mio gusto, i più riusciti mi sono sembrati La vecchia ceiba e Nella coda del caimano, anche se gli altri tre sono di piacevole lettura. Mi sono anche domandato il motivo di questo maggior gradimento e penso d'averlo trovato nel fatto che in entrambi la vera protagonista è la natura, nel primo un vecchio albero, nel secondo un fiume, cioè un qualche cosa di concreto che controbilancia idoneamente le perplessità di un europeo di fronte a certi miti e leggende. In particolare Nella coda del caimano ha uno sviluppo assai articolato, ricco di imprevisti, di colpi di scena che travolgono letteralmente il lettore, ansioso di arrivare a comprendere come finirà.
Renzo Montagnoli

L'autore
Gordiano Lupi (Piombino, 1960). Capo redattore de Il Foglio Letterario e Direttore Editoriale delle Edizioni Il Foglio. Collabora con Mystero e con la Casa Editrice Profondo Rosso di Roma. Collabora con Contro Radio di Firenze per recensioni sul cinema italiano anni Settanta. Pubblica racconti per X Comics, Blue e Underground Press. Scrive soggetti e sceneggiature per fumetti realizzati graficamente dal disegnatore Oscar Celestini (pubblicati su X Comics, Blue e Underground Press). Ha pubblicato: Lettere da Lontano (Tracce, 1998), Il mistero di Incrucijada (Prospettiva, 2000), L'età d'oro (Il Foglio, 2001), Il giustiziere del Malecón (Prospettiva, 2002), Le ultime lettere di Pilvio Tarasconi (Il Foglio, 2002), Per conoscere Aldo Zelli (Il Foglio, 2002). Ha tradotto i romanzi del cubano Alejandro Torreguitart Ruiz: Machi di carta (Stampa Alternativa, 2003), La Marina del mio passato (Nonsoloparole, 2003) e Vita da jinetera (Il Foglio, 2005). I suoi lavori più recenti sono: Nero Tropicale (Terzo Millennio, 2003), Cuba Magica - conversazioni con un santéro (Mursia, 2003), Cannibal - il cinema selvaggio di Ruggero Deodato (Profondo Rosso, 2003), Un'isola a passo di son - viaggio nel mondo della musica cubana (Bastogi, 2004), Quasi quasi faccio anch'io un corso di scrittura (Stampa Alternativa, 2004 - due edizioni in un anno), Orrore, erotismo e pornografia secondo Joe D'Amato (Profondo Rosso, 2004), Tomas Milian, il trucido e lo sbirro (Profondo Rosso, 2004), Le dive nude - vol. 1 - il cinema di Gloria Guida e di Edwige Fenech (Profondo Rosso, 2005), Serial Killer italiani (Editoriale Olimpia, 2005 - duemila copie vendute nei primi tre mesi).
Pagine web: www.infol.it/lupi.
E-mail per contatti: lupi@infol.it 
Renzo Montagnoli


Il volto e l'anima di Fiorella Macchioni  Edizioni della Meridiana
Ho tra le mani "Il volto e l'anima " di Fiorella Macchioni, Edizioni della Meridiana. luglio 2006.
Ne ho scorso le pagine, una, due, tre volte. Mi sono scoperta calamitata, sedotta dalle icone, scrittura del sacro: chiamano, accolgono, invitano al silenzio. Il più muto, per entrare nella contemplazione, e lì parlano d'Amore fino a sbalordire.
Scrittura d'unione di terre e acqua, terre e uovo. La mia terra, unita all'acqua del battesimo o all'uovo, simboli di Vita Eterna, rivelati nel Mistero pasquale, si trasfigura nell'oro della S.S. Trinità, mistero di unità e agapé, da sempre riversato sul creato.
"La terribile minaccia: - Polvere sei e polvere tornerai - si scioglie nell'oro dell'Amore risorgente di Cristo", come sapientemente sottolinea Don Giorgio Mazzanti nella Prefazione.
Le icone presentate sono 31.
Alcune "scrivono" le antiche preghiere della cristianità orientale, altre segnano la risonanza irripetibile dell'autrice, rimandando al passo del Vangelo:
" Ogni scriba divenuto discepolo del regno dei cieli è simile ad un padrone di casa che trae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche" (Mt.13,52 )
Troviamo l'Eleusa (Madonna della tenerezza) in quattro diverse sfumature, un particolare dalla Genesi, pura creazione dell'artista come pure la Celeste Gerusalemme; diverse deposizioni, eppure sempre nuove nel loro linguaggio di forme e colori e ancora, ancora…ma l'emozione non si estingue.
Il libro non è semplicemente un catalogo, per quanto prezioso. L'artista raggiunge punte di altissimo lirismo mistico accompagnando i suoi scritti con la penna.

Per la Crocefissione ( pag.12)

Il primo fu un grido,
quello della nascita,
cellule
esplosioni di luce
e
la voce delle stelle percepita.

Ora muori…
Così
Morendo
Ti partorisco amore.

Per il Crocifisso ( pag. 28)

Consegnerò parole
alla Voce…
Mia anima
nido vivente
nell'ombra dell'Albero.

Per Eleusa (pag. 58)

Ogni volta
l'intera anima mia
trabocca di te.
E in te trabocca.

Per il Cristo Pantocrator ( pag. 72)

Amico,
sono a chiederti
le parole di un padre
per capirmi.
Sono a chiederti
se posso con Te far festa
e forse
scioglierò questo nodo.
Sono a chiederti quiete.
Per scoprire che il dolore deve all'anima
il passaggio obbligato dell'amicizia.

Ma chi è Fiorella Macchioni? Una claustrale, una consacrata…chi e'?
E' una donna felicemente sposata, con due figli splendidi; sana, economicamente tranquilla. Veste comodi jeans, nuota, scherza, si fa uno con chi soffre.
Una persona dunque che nell'arte non cerca alienazione, ma canta la vita, la innalza a Benedizione.
Fiorella ha scoperto il segreto dell'Esistenza e generosamente ci offre una mano per accompagnarci alla fonte dell'Essere.
Lucia Visconti Cicchino


Altre storie di uomini, di alcune donne e di molte bestie di Nicola Oronzo Accattato ed. Galasso
Magico, come l'efflorescenza luminosa dei fuochi d'artificio del santo patrono; irridente come lo sberleffo maliziosamente innocente di un bimbo che mette lo sgambetto ad un adulto; contestativo come lo sparo improvviso nella quiete mattutina che squarcia la noia del paese.
Sto parlando del romanzo di Nicola Oronzo Accattato "Altre storie di uomini, di alcune donne e di molte bestie " edito da Galasso, Trebisacce, 2002.
Un'ubriacatura di scrittura, condotta sapientemente, attraverso i raccordi della memoria che non hanno l'aspetto trasversale del tempo, ma quello orizzontale dello spazio del proprio paese: le viuzze, gli andirivieni spaziali diventano le accensioni della mente, delle emozioni, dove personaggi ed idee assumono i sommovimenti, gli incanti e le delusioni del protagonista-corale.
L'inizio è fulminante, come quel falco descritto nella seconda pagina, che repentino restringe il suo orizzonte per ghermire la vita del coniglio: "Che Nicola non la fece così". E' un colpo allo stomaco del lettore che subito avvince e che poi trova rispondenza a metà racconto, con quella briosa caricatura ed ironia, sul significato dotto della grammatica e della sintassi: se il "che" iniziale significa perché o invece.
Il protagonista ha un'identità mobile, ma non per questo meno pregnante: è l'Io, la voce narrante dell'autore che guarda con distacco la realtà del Sud, è il popolo, quel noi che unisce e fa sognare alla ricerca impossibile della donna: donna come mare mai visto, donna come aria, donna come imperscrutabile folto boschetto che anima il sangue, la mente, il corpo di questo popolo. Con brividi esistenziali e filosofici. Perché Caterina o Antonietta è la riscoperta della propria innocenza, del sesso, ma anche della sofferenza del popolo, della sua dignità dinnanzi ad un bicchiere di vino, mentre i partiti, le ideologie, bandiera rossa o biancofiore diventano copertura per affari di chi resta sempre a galla.
Questa esplosione linguistica che volutamente scardina la grammatica, questo cromatismo e dinamismo della sintassi, che diventa aperta campagna spazio d'incontro e di solidarietà senza più la gerarchia tirannica del soggetto o la centralità del verbo, sono il modo di tradurre la realtà arretrata dei perdenti, ma che conservano nel cuore sogni e austera nobiltà.
Piace questo romanzo per la singolarità d'impostazione e di coordinamento: è come se ci fossero più strati nella scrittura di Accattato che nascono alla luce del sole in modo graduale. Giacché il brio e la brillantezza delle prime due parti "Invece noi"e"Il vile maschio che è in me" non nascono ex abrupto. Sono, piuttosto, la naturale conclusione della capacità di Accattato di essersi appropriato della vicenda del suo popolo, della sua terra, non come cronista distaccato, ma partecipe ed accorato del flusso che, tra acque limpide a volte, scorie e miserie altre volte, aspira ad arrivare al mare della vita e della storia.
Se andate a leggere la terza parte "Altre storie" vi renderete conto dell'umanità, della ironia briosa, comprensiva delle furbizie del popolo per sopravvivere, dei suoi furori che, anche se non intellettuali, restano eroici lo stesso per l'aderenza alla vita e al rispetto della natura. Allora gusterete scene surreali o di una sensualità ammiccante e a doppio senso (specie della donna, che assume anche un ruolo sociale di rilevante immediatezza e concretezza) che solo il popolo possiede per sopravvivere al sopruso e alle avversità della vita. Come pure sarete presi dalla nostalgia per personaggi e luoghi oramai scomparsi (la cantina di Spaventa, luogo del mondo) che vivono solo negli interstizi dell'anima del protagonista. O, infine, dovrete ammirare la capacità di animare la scena, i volti indimenticabili di don Ciccio, don Liborio, Giorgio, che sono diventati l'identità di un popolo che, strafottente in cantina o mortificato dalla politica, ritrova la sua voce genuina, quasi cuore che palpita e anima il castello slabbrato dal tempo, o il tempo assassino che porta a mare anche la pietà per i morti, come nell'alluvione degli anni '70.
La stratificazione del romanzo assegna così a questa terza parte il ruolo di humus profondo, la terra grassa che dà consistenza e significati ai giochi linguistici: essi passano dalla fisicità del primo stadio, quasi slittante per l'ipocrisia del mondo, all'affiorare della superficie, con una loro levità lunare ed un pungente lirismo. Per cui, anche l'atto più intimo e, nella società perbenistica, repellente cathedra pestilentiae, il cesso, assume infine sfaccettature infinite, dalla sensazione di liberazione di fare i bisogni nell'aperta campagna (e viene in mente una bellissima pagina di "Cristo si è fermato a Eboli", quando in questo atto fisico i nostri connazionali, con accorata nostalgia, ritrovano la forza di gridare, in terra straniera e di umiliazione, "Viva l'Italia") fino a momento di meditazione, di vera solitudine per ritrovare se stessi e liberarsi di ogni scoria e non solo fisica.
Gli strati del romanzo sono interconnessi, senza distinzione tra materia in preparazione e sua elaborazione: ognuna ha una sua autonoma fisionomia, quasi "divina commedia"commisurata al popolo che viaggia nelle proprie lacerazioni e ha nel primo momento aspetti sanguigni, mentre negli altri avverte l'esigenza di un'aria più rarefatta e disincantata. A livello stilistico e di composizione, questo romanzo, riporta l'atmosfera del narrare sud-americano, corale e partecipativo, con in più il disincanto e l'ironia raffinata di una terra che fu magna-grecia e di un intellettuale oramai lontano dalle beghe paesane, anche se le guarda sempre con umana simpatia e delicata dolcezza, con autoironia (Il poeta allora in voga), riuscendo a dare al pettegolezzo la vivacità sapida della satira latina.
Gianni Mazzei


La casa del quarto comandamento di Marco Salvador Edizioni Fernandel Narrativa romanzo

C'è qualche cosa peggio del carcere, perfino di quello a vita. Sei un innocente, hai lavorato tutta la vita per crescere la famiglia, per dare ai figli un avvenire migliore del tuo. Poi diventi vecchio, magari ti muore anche la moglie, e tu ormai esisti solo ed esclusivamente perché hai un figlio. A lui dai tutti i risparmi di una vita, offri generosamente un futuro, ma quando cominciano i primi acciacchi il ringraziamento consiste nello sbatterti in un ospizio dove non esistono i giorni, tanto sono sempre uguali, e da cui sai che uscirai solo con i piedi in avanti.
In mezzo ai non autosufficienti, ai terminali, agli "andati" ti sembrerà di impazzire, poi, a poco a poco, la rassegnazione adombrerà la tua mente, riducendoti a un vegetale, a meno che non si trovi qualche cosa per cui valga ancora la pena di continuare a vivere.
Prima l'amicizia di un compagno di stanza all'inizio mal giudicato, poi il desiderio di rendersi utile agli altri che vivono con te, proteggendoli dai soprusi, dalle ruberie, e infine quello che non si pensava possibile, ma che è la molla più forte per riaffermare la propria identità, scaturisce quasi all'improvviso, un amore senile fatto di sguardi, lievi carezze e anche di un po' di sesso.
E allora subentra la ribellione, il desiderio di tornare nel mondo dei vivi, ma tutto ha un prezzo e quello che pagheranno il generoso Martino, la delicata Leda e il vissuto Oddo chiude in modo commovente un romanzo di straordinaria bellezza.
Salvador ha una capacità di analisi psicologica non comune nel descrivere un mondo a cui non appartiene, a ricreare un'ambientazione che, vista dall'esterno, sembra impossibile, ma che risponde a verità.
I piccoli dispetti quotidiani, l'attesa spasmodica della visita dei parenti la domenica, privilegio riservato a pochi che quasi si pavoneggiano con gli altri, e l'amarezza di essere, ma di non vivere sono tratteggiati con delicatezza, senza indulgere a pietismi che avrebbero straniato una narrazione diretta, senza fronzoli, non incline ad accurate descrizioni, ma comunque di rara efficacia.
Più che leggerlo l'ho divorato, più che commuovermi mi sono indignato: Salvador non poteva scrivere in modo migliore il destino della maggior parte di noi.
Renzo Montagnoli

L'autore
Marco Salvador nasce il 10 novembre 1948 a San Lorenzo di Arzene (PN), dove tuttora vive. Ha pubblicato numerosi saggi sulle comunità rurali nel medioevo e sulle giurisdizioni feudali minori. Inoltre ha scritto quattro romanzi: Il longobardo (Piemme, 2004), La vendetta del longobardo (Piemme, 2005), L'ultimo longobardo (Piemme, 2006) e, appunto, La casa del quarto comandamento.
Renzo Montagnoli


Altre storie di uomini, di alcune donne e di molte bestie di Nicola Oronzo Accattato

NICOLA ORONZO ACCATTATO, GIOIOSO RABDOMANTE DELLO SPIRITO.
Mi convinco sempre più che per Accattato scrivere è come partorire, partorire se stesso.
Accattato è  gravido di un libro che di continuo gli cresce dentro e che si porta dappertutto.
         Ma per il Nostro il parto di se stesso è, per usare le parole di Kierkegaard, un continuo procrastinarne il momento, un “restare sempre con le doglie”.
        Accattato, partoriente e partorito, vita che si devolve e si concede tramutandosi in forma di materia, ha timore del momento al suo approssimarsi; un timore umano (ed artistico), perché il parto è comunque uno svuotamento, è un dare che è anche un privarsi, una libertà che è anche una mancanza, un atto di creazione ma anche uno stato di spoliazione di sé.
        Di qui la tentazione di ritrarsi. Perché la decisione è grave, il momento è solitudine.
        Per Lui è un parto senza mammana. E’ dolore: fisico ed artistico.
        Sa, come Consolo – l’altro milanese -, che “scrivere è una lotta con se stesso”; e che la sua gravidanza non ha termine con il parto della forma; che la sua è una gravidanza letteraria perenne; che avrà sempre il pancione ingombro di luce e nuvole, di vicoli e facce, di musica e Caterine, di uomini e bestie, che non potrà (né vorrà) ignorare, perché non potrà rinunciare a tutto questo affiorare di “sottili malinconie”, al suo “mondo di echi”; non potrà rinunciare, per dirla ancora con Consolo, a “tornare nel ventre della terra, nel cuore della zolla, da cui non s’esce mai”.
       E come il ventre della terra non può non essere pienezza e progetto costante di vita, così il ventre del poeta e dello scrittore. Accattato non può non essere partitura di note-parole nasciture danzabili.
         Accattato-“maestro d’argilla” plasmerà fino all’esaurimento della materia argillosa.
        Il libro emozionale che Accattato si porta dentro - di cui il libro-testo-forma “Altre storie di uomini, di alcune donne e di molte bestie” di recente pubblicazione costituisce una seconda genitura letteraria-, è un libro che verosimilmente potrebbe non aver deciso Lui di scrivere ma che tuttavia non può sottrarsi dallo scrivere, perché il tutto questo cui si è fatto cenno, o il tutto quello - la “mia Calabria di vicoli e di mosche, di storia e di mito”- che lo contiene e lo alimenta non potrà ricusare la sua parola ritmata attraverso cui transita la propria vita, essendo Egli uomo invaso da voci interne ansiose di suoni, ingiunzioni pressanti, acqua bollente che fa saltare il coperchio se provi a chiudere la pentola.
       Torneranno compare Gigino, Silvio, il Barone, comare Elvira e Micuzzella nel “salotto del suo cesso” a “ridergli in faccia l’odore della ginestra e la meraviglia del sole, con quella lingua viva, con quel gusto dell’intreccio”.
       E tornerà anche Caterina.
       Egli cederà al ventre della terra, al cuore della zolla. Con un sorriso e una “parolaccia”.
       Arriveranno di nuovo le doglie.
E per dar voce al “cuore della zolla” occorrono parole-suoni impastate di terra.
       E allora le parole non possono non essere “cose solide, che si fermano nell’aria a lettere maiuscole, come quelle che si mettono sulle tombe”; perché le parole contenute nel vocabolario-supermercato possono scadere a forme anguste e gusci puramente retorici che danno l’effetto di “prurito come la maglia di lana”, anelli compositivi di frasi anche esteticamente buone per certa letteratura di maniera (dando forma ad una lingua “corrosa e depravata dal luogo comune, nonché dall’inestirpabile malcostume ironicamente chiamato bello scrivere: J. Rodolfo Wilcock), ma certamente inadeguate alle peculiarità espressive di chi “non andò mai a vestirsi nel guardaroba della retorica”, di chi comprende la “forza delle cose” (L.Pirandello).
        Accattato possiede la “parola-sangue”, perché Egli ha colto “il miracolo della cose che parlano. E le cose parlano senza aver imparato l’idioma a scuola, senza aver appreso le regole e le leggi della composizione artistica.
        E così del Nostro si può dire quel che a tale proposito è stato scritto di Giordano Bruno: “nomina liberamente, dona il proprio nome a chi la natura dona il proprio essere; non dice vergognoso quel che fa degno la natura; non copre quel ch’ella mostra aperto, chiama il pane pane, il vino vino, il piede piede, et altre parti di proprio nome; dice il mangiare mangiare, il dormire dormine, il bere bere, e così gli altri atti naturali significa con proprio titolo”.
       E allora le corna sono corna, la bestemmia bestemmia, la parolaccia parolaccia (senza virgolette).
      All’inizio fu comare Elvira - presa a “maestra di grammatica” dallo scrittore Accattato -: la di lei  “la parolaccia ben detta” – e benedetta -, diviene tela pittorica di rappresentazione del mondo popoloso del suo spirito; la testimonianza dell’autenticità del vivere e del vissuto; parolaccia che perché “ben detta” – e benedetta -, non è mai gratuita, non scade mai a turpiloquio e non diviene oscenità né dei personaggi, né dello scrittore.
      Perché l’uso letterario della parolaccia è diverso dall’uso letterario dell’oscenità - la quale pure può assumere un uso letterario, come insegna H. Miller, e rappresentare addirittura una leva ideologica; nessuna connotazione ideologica è invece connaturata all’uso della parolaccia in Accattato, per il quale è una parolaccia sostanzialmente pudica e innocente.
     Infatti, seppure si “senta a suo agio” nel momento della parolaccia quando questa è indispensabile al dipanarsi delle storie e alla caratterizzazione dei personaggi in quanto espressione di topoi e tipi (per esempio quando esprime il gallismo brancatiano di Don Liborio o la mascolinità della “zoccola” con le “palle di toro” che viene eletta Presidente del Quartiere), Egli non la lascia in bocca alla “piagata” che si accanisce che “il pezzo più grosso che doveva restare di me su questa terra doveva essere il lobo dell’orecchio” e “il mio sesso doveva diventare più fine della cenere”.
      Quindi, la parolaccia quando ci vuole ci vuole; e quando ci vuole non ci sono mezzi termini a mitigarla: non la si può graduare; darla un tanto al chilo o all’etto. Perché una “incazzatura” non può essere un’arrabbiatura, specie se ci si “incazza di santa ragione”; perché nel nostro mondo di contadini, di “gente fottuta”, non ci si arrabbia, ci si “incazza” e basta. Senza eufemismi.
       E come tutti sappiamo, noi abitanti di queste ataviche contrade, la “parolaccia” non è espressione dell’ animo corrotto di un uomo malvagio (ecco, un eufemismo) o di una donna di malaffare (un altro eufemismo), e allo stesso modo la “bestemmia” non identifica in colui che la pronuncia un blasfemo, un “vrosciasanti”.
       Insomma, leggendo “Altre storie di uomini, di alcune donne e di molte bestie” non dobbiamo mettere il bip alle parolacce e non dobbiamo noi lettori sentirci complici di un eretico. Piuttosto da lettori dobbiamo immergerci nel mare di emozioni, nel liquido amniotico del fecondo scrittore, nella placenta vitale dei suoi racconti: e così nella sua verità  troveremo le verità di cui siamo in cerca nel nostro pesante cammino lungo i sentieri dell’anima, e scopriremo che camminando camminando il nostro passo diventerà più leggero e che le verità per quanto ricurve accenneranno ad essere più rettilinee.
       E forse ci accorgeremo della spiritualità delle cose e degli uomini.
      La parolaccia in Accattato è, pertanto, solo l’altra faccia del pudore: quella pudicizia che diventa creatrice di metafore e, quindi, di poesia.
     Infatti la prosa dei suoi racconti è una prosa poetica.
     Non è forse poesia, vera poesia, la metafora del mare-Caterina? E il racconto “una concitata palpata sulla tetta destra”? E il dialogo a distanza di tempo e di luogo con l’assente Spaventa?
     Per tornare a Wilcock, lo scrittore giovane “sente il bisogno di crearsi un nuovo linguaggio” attraverso una “sistematica riconquista del vocabolario”.  E. Pound sosteneva che “la lingua italiana ha bisogno di carta vetrata”?
     Tuttavia, il “nuovo linguaggio” – imperativo che il Nostro sente come pressante esigenza espressiva – può nascere anche senza “scartavetrare” la lingua italiana – cioè la lingua letteraria ufficiale, posto che il processo che porta alla creazione linguistica è un movimento che appunto procede da un punto dato e conduce altrove; cioè a dire che una invenzione linguistica – come ogni altra invenzione – non nasce dal nulla, bensì origina e si dipana da un esistente.
     E anche qui – oltre che dell’ispirazione poetico-letteraria – l’esistente è sempre Oriolo: non quindi la lingua intellettuale, la prosa accademica, bensì la lingua parlata, da identificarsi con quella che Egli stesso definisce “lingua viva”; e precisamente il dialetto oriolese (o si dice oriolano?) – specularmene alla vecchiette che in chiesa “martoriavano il latino piegandolo alla prosodia del nostro dialetto”.
     Accattato, quindi, più che un iconoclasta della lingua italiana, un sovvertitore della lingua accademica e letteraria è da considerarsi un magnifico e gioioso rabdomante dello spirito che ha scoperto (cosa che necessita di grande intelligenza e cultura!) che si può pensare in dialetto e scrivere in italiano – così da italianizzare il dialetto, conservando nel contempo la forza del primo e la mediaticità del secondo -, ottenendo i classici due piccioni con una fava:  creare una lingua non solo letterariamente “tosta” e compiuta ma per di più scevra da inutili fronzoli intellettualistici, senza i “tanti aggettivi pennellati” dei tanti  “poeti in voga”.
      Ma l’opera narrativa di Accattato non è solo “vertigine della parola”: è anche ritmo. E non solo ritmo narrativo, bensì ritmo musicale: è jazz. I racconti (veramente felice la scelta della forma racconto !) sono altrettanti brani musicali, dove le parole sono anche note; le punteggiature pause musicali; gli intrecci narrativi altrettanti cambi accordi e di tonalità nell’ambito della medesima unità ritmico-narrativa.
     E non è tanto il jazz letterario nordamericano di Keruoac – metropolitano e cupo; è piuttosto un jazz sudamericano solare e agreste. Non un jazz individuale e nevrotico, ma un jazz vorticoso e corale, che può nascere solo sotto le palme di Mangue Seco o sotto gli ulivi di Calabria, e maggiormente nella Cantina di Spaventa e alla Scifuel.
     Più che un jazz di trombe è un jazz di tamburi di Bahia e di cupi-cupi di Oriolo: a volte anche malinconico; sempre passionale.
     E’ un jazz che si balla, un pensiero fisico che dondola; è una poesia che ondeggia i fianchi, sale le scale a pioli, palpa concitatamente; è un rullante con la lingua lunga, una metafora col mal di denti; una grancassa dei comizi, un timpano della commozione e, a volte, dell’amarezza.
Ma dello stile narrativo dei racconti non può tacersi il “gusto dell’intreccio”: quella “agile mobilità” che Egli ha attribuito all’ascetico Don Ciccio per la maestria nel suonare l’organo della chiesa (“saltellava piedi e mani da un tasto all’altro e da un pedale all’altro  per fare eruttare altissimi suoni all’organo, con un andamento ora brioso e allegro, ora lento e maestoso”) è il suo “ricamare i pensieri, con uno che si intreccia con un altro e poi ne richiama un altro e un altro ancora”: il suo “volare con le parole, insomma”, che è proprio del dialogo e del racconto orale della “fauna umana” che egli ama.
     Un dialogo circolare: un percorso che parte dall’alba delle emozioni pure e ritorna attraverso i racconti a quelle emozioni con la critica del vissuto.
     Un dialogo polifonico, corale e, quindi, democratico, possibile solo se ci si immedesima con la “fauna umana” che si vuole raccontare, e Accattato è uno di loro ed è dalla loro parte, dalla parte dei “fottuti” (forse fottuto tra i fottuti) ed in questo totale compenetrarsi consiste la sua dimensione di scrittore sociale.
         E’ altresì uno scrittore socializzante, nella misura in cui incoraggia la “chiacchiera” (perché tanto il suo mondo fisico che quello narrativo è piazza) che esprime, appunto, un bisogno di socializzazione, l’ansia di comunicare dell’uomo-animale politico; la scuola per diventare adulti (“l’età che ci porta a guardare con l’occhio più largo”): preferisce la Cantina di Spaventa al Bar Novecento, perché questa è la culla della “chiacchiera”, come pure la Scifuel (“il luogo di incontro di tante generazioni, dove ci si facevano tante belle chiacchierate, ci si confidava sulla propria stitichezza, sul lavoro che non c’era, sull’acqua che non arrivava, su Andreotti”), vera e propria “seconda casa”.
      Il mondo fisico e narrativo di Accattato è anche il mondo degli sfottuti (anch’Egli forse sfottuto fra gli sfottuti): galeotta sempre la Scifuel, teatro di rivelazioni compromettenti e deleterie e di intime confidenze e confessioni; piazza che metteva a nudo non solo i deretani (maschili e femminili) ma anche le insicurezze dell’ingenuo uomo maschio, che nella sua “minchioneria” esprime dubbi sulla sua potenza virile e “qualcuno dei più fessi anche dei sospetti fondati sulla fedeltà della moglie”. E allora la confidenza diventa “pettegolezzo”, che fa il giro del borgo di bocca in bocca e al “minchione” non resta che cambiare paese se si dà poco da fare o diventare il monumento del “cornuto” se è la moglie a darsi troppo da fare.
     In realtà, l’uomo non ne esce molto bene dai racconti del Nostro: l’uomo è “friabile”. E’ fallace (Don Liborio), e quando non è fallace è vanitoso (il “più migliore”), e quando non è vanitoso è egocentrico (il “poeta allora in voga”), e quando non è egocentrico è inaffidabile (Spaventa), è quando non è inaffidabile è vile (l’amico del veterinario), e quando non è vile è “minchione”(tanti), e quando non è minchione è troppo permaloso (Don Ciccio) o impulsivo (Francesco) oppure buffone (Pascoli e Carducci) o tirchio (Don Pasquale): e poi, ovviamente, è cornuto.
      Che le donne non sono così.
     A parte le zitelle e quelle “magre come un chiodo”, le donne sono opulente come le mulatte dei racconti di J. Amado, comprensive (le madri), disponibili (“le donne sono di compagnia, e che se c’è da ammiccare non si tirano indietro e vanno pure più avanti degli uomini se c’è da appartarsi dietro ad un cespuglio per sfogarsi quel languido languore all’inguine”) e all’occorrenza battagliere (“il Presidente del Nostro Quartiere”) e con la “lingua lunga”(comare Elvira che “zittiva i maschi”) e autorevoli (“sanno farsi ascoltare dai mariti, dai figli e in alcuni casi anche dal proprio amante”): insomma, “solide” come la Timpa (“le donne sapevano mettere al mondo figli e cucinare e chiacchierare, ma anche vedere e parlare e lungimirante pensare e muoversi con la destrezza delle faine, con la grazia delle farfalle, con le palle dei tori”). Delle vincenti: anche le cosiddette “zoccole” che “era raro che soccombessero”.
       E Caterina…
       E in ultimo vengono le bestie.
Antonio Carmine La Banca


Eraclito e il muro di Cinzia Pierangelini Edizioni GBM Narrativa romanzo

Già conosciuta in campo letterario (sua l'ottima raccolta di racconti "Dall'ultimo leggio"), Cinzia Pierangelini fa il suo esordio nel difficile ramo dei romanzi con "Eraclito e il muro" ed è una prima di classe, a conferma delle eccellenti qualità dell'autrice.
Ambientato in un tipico paese siciliano, è la storia di un critico musicale votato a stroncare artisti e musicisti del locale teatro lirico. La sua non è solo una vocazione, che trova origine in un carattere chiuso e misogino e nella sua totale inattitudine all'arte, ma è anche una ribellione alle chiuse regole di un mondo dominato dall'ipocrisia e da norme non scritte e misteriose. Quando la sua attività si scontra con gli oscuri interessi del "potente" del luogo, in concomitanza con una depressione insorta per effetto di uno scherzo, viene abilmente rinchiuso in una clinica per malati mentali dove, di fronte al comportamento fuori dalle regole degli altri ricoverati, ritrova il piacere di vivere e anche l'amore che, per motivi del tutto abietti, viene stroncato. Dimesso, perché apparentemente guarito, cercherà una plateale vendetta, che solo in parte si realizzerà, e finirà i suoi giorni in carcere.
Al pari del principe Salina del Gattopardo, Cinzia Pierangelini riafferma che in questo mondo tutto cambia, pur restando alla fine sempre uguale, e chi è disposto a contrastarne le regole finirà per essere rinchiuso in una solitudine senza speranza, come il grande filosofo greco Eraclito.
E il muro del titolo? È quello del teatro, dove ignoti si divertono ad annotare maldicenze, di tanto in tanto ricoperte da una mano di bianco, prontamente e nuovamente imbrattato, a riprova dell'immutabilità della vita.
Scritto in modo scorrevole, accattivante, con la tensione di un thriller, anche se non lo è, è un libro che si legge tutto d'un fiato, pur se più di una volta è opportuno e salutare soffermarsi su certe riflessioni, come la chicca filosofica del consueto ritardo del treno da Palermo.
Lo stile è quello solito e piacevole dell'autrice, in questo testo ancor più perfezionato, con descrizioni mirabili del paese, quasi dei quadri di armonia figurativa. Interessante poi è l'inserimento di modi di dire e antichi proverbi in dialetto siciliano, utilizzati soprattutto come incisi, con il preciso scopo di rafforzare il concetto senza sovrabbondare.
Inutile che dica che ne consiglio vivamente la lettura.
Renzo Montagnoli

L'autore
Cinzia Pierangelini è nata nel 1963 a Messina, dove vive e svolge l'attività di docente e violinista. Ha iniziato a scrivere solo nel 2004, realizzando così un sogno che si portava dietro sin dai tempi dell'adolescenza.
Molti suoi lavori, vincitori di premi letterari, sono editi in antologie, in e-book e in riviste. Con altre case editrici ha pubblicato: Dall'ultimo leggio, raccolta di racconti; La Quaresima, nell'antologia Quindici passi nel buio; L'origine, nell'antologia Il mio mare; Il viaggio, nell'antologia Libera uscita. In stampa la poesia "Quando Jasmine sciolse la sua treccia" selezionata per un'antologia poetica e il racconto "La signora Rosa" selezionato per un'antologia erotica. In editing il romanzo per ragazzi Il professor Scelestus e in attesa di editore il romanzo La jatta.
Renzo Montagnoli


Pelle di leopardo-Giai Phong! La liberazione di Saigon di Tiziano Terzani Edizioni TEA
Saggistica storica

La guerra in Vietnam come non l'avete mai letta, un reportage eccezionale scritto da chi la vissuta in prima persona e che arriva fino alla caduta di Saigon.
Il Terzani giornalista è riuscito a creare, con gli articoli da lui scritti sull'argomento, una narrazione di straordinaria efficacia, ma senza cedere al sensazionalismo o, peggio, al déjà vu. La sua è una cronaca minuta, attenta, a volte forse pedante di un conflitto che i media hanno ampiamente presentato, anche in diretta, ma senza quell'umanità, quella sensibilità che è propria di Tiziano.
I libri in effetti sono due, benché riuniti in uno solo.
"Pelle di Leopardo", scritto nel 1973, parla delle esperienze di Terzani arrivato in Vietnam l'anno precedente.
"Giai Phong" , pubblicato nel 1976, invece tratta dell'ultimo periodo del conflitto, con la liberazione di Saigon e il primo periodo post bellico.
In ogni caso riesce a trasmettere emozioni palpabili, con quella capacità di Terzani di scavare in fondo alla notizia, cercarne i retroscena, descrivere ammirevolmente la sofferenza di quel popolo e il suo cambiamento, morale e materiale, dopo il termine delle ostilità.
Benché cerchi di essere imparziale, lascia trapelare la simpatia per i vietcong, mentre è netta la sua presa di posizione nei confronti del regime corrotto e fantoccio di Saigon e degli americani, imbarcatisi in una guerra, spesso feroce, e da cui se ne sarebbero usciti a capo basso.
Da leggere, sicuramente, per capire, ricordare questo altro dramma del XX Secolo.
Renzo Montagnoli

L'autore
Tiziano Terzani (1938-2004) è stato per una trentina d'anni corrispondente del settimanale tedesco Der Spiegel dall'Asia e collaboratore, prima di Repubblica, e poi del Corriere della Sera. Profondo conoscitore dell'Asia, ha scritto su questo continente numerosi libri.
Tra le sue opere ricordiamo: Buonanotte signor Lenin, Pelle di leopardo, La porta proibita, Un indovino mi disse, In Asia, Lettere contro la guerra, Un altro giro di giostra e La fine è il mio inizio, l'ultima sua opera prima della morte.
Renzo Montagnoli


Un anno sull'Altipiano di Emilio Lussu Editore Einaudi Narrativa romanzo storico

Considerato da molti, e non a torto, come un romanzo che nulla ha da invidiare a "Niente di nuovo sul fronte occidentale " di Erich Maria Remarque, differisce da questo sia per l'ambientazione (là il fronte franco-germanico, qua quello italo-austriaco), sia per la diversa struttura narrativa (più romanzo quello di Remarque, pur se basato su esperienze personali, più diario quello di Lussu).
Premetto che è un bel romanzo, anche se secondo me inferiore a quello del tedesco, laddove la guerra appare come una mostruosità quasi insita nell'uomo, mentre nel testo di Lussu, pur mostrando l'orrore di un conflitto, è più marcato il riferimento a certe decisioni, ad alcuni personaggi (vedasi il generale Leone) che sembrano imprimere con il loro comportamento un andamento sanguinoso alle tante piccole battaglie o scaramucce.
Questo dipende anche dall'andamento quasi diaristico della scrittura, frutto dell'esperienza diretta dell'autore sull'Altipiano di Asiago dall'estate 1916 alla successiva del 1917.
In buona sostanza, nel romanzo di Remarque ci si indigna subito per la guerra, mentre in questo si viene esacerbati dalle azioni stolte di certi comandanti e solo di conseguenza si arriva a comprendere l'assurdità di un conflitto.
Comunque in queste pagine c'è tutto il dramma di una gioventù che in divisa ha servito il paese nella grande guerra:
la vita di trincea, i comandati fuori di testa, gli ordini sbagliati, l'artiglieria italiana che regolarmente spara sulle nostre linee, gli assalti senza alcuna utilità, le ore di ozio e la paura delle azioni.
Il tutto viene descritto con tono distaccato, quasi che l'io narrante, il tenente Emilio Lussu fosse un semplice spettatore. Infatti, non c'è bisogno di commenti o chiarimenti, perché la realtà parla da sola.
Considerato anche lo stile non greve, anzi dinamico, non sarebbe male, anzi sarebbe bene che fosse presente nei programmi scolastici.
Renzo Montagnoli

L'autore
Emilio Lussu nasce ad Armungia, in provincia di Cagliari, il 4 dicembre 1890 e muore a Roma il 5 marzo 1975. Laureato in Giurisprudenza, fu un acceso interventista nel primo conflitto mondiale, anche se poi dovette ampiamente ricredersi. Antifascista, e per questo perseguitato, dopo il 1945 si occupò di politica, orbitando sempre nell'ambito della sinistra. Un anno sull'Altipiano, il romanzo per cui è giustamente famoso, è stato scritto nel 1938 ed è stato oggetto nel 1970 di una fortunata riduzione cinematografica, a opera di Francesco Rosi, dal titolo "Uomini contro".
Renzo Montagnoli


Il giardino dei Finzi Contini di Giorgio Bassani Arnoldo Mondatori Editore Narrativa romanzo

L'opera fa parte di un grande impianto romanzesco a cui Giorgio Bassani lavorò per circa quarant'anni e che comprende anche "Dentro le mura", "Dietro la porta", "L'airone", "Gli occhiali d'oro" e "L'odore del fieno", testi non strettamente connessi, ma che presentano una comune simbologia poetica e un'ambientazione che costituisce anche una metodologia di osservazione degli eventi storici, con una Ferrara quasi mitizzata, dalle ampie e silenziose strade, con una vena di esile malinconia che riflette tuttavia il piacere di un vivere in un mondo quasi a sé, fra nebbie perlacee che tutto celano e che lasciano scoprire all'improvviso case, mura, alberi, affinché lo stupore della visione si accompagni alla quiete silente di una provincia quasi fuori dal tempo.
Questa atmosfera è descritta benissimo ne Il giardino dei Finzi Contini, un romanzo che sorge e cresce sul filo del ricordo. Raramente mi è accaduto di immergermi inconsapevolmente in un ambiente, di sentirmi parte della narrazione, come se dietro l'io narrante ci fossero tutti i nostri sentimenti, i nostri sogni di una vita quieta, lontana da ogni clamore, come se gli eventi del mondo fossero lontani anni luce.
E se nel prologo ci sono le immagini di una necropoli etrusca, che portano a una riflessione sulla morte, non atroce, ma malinconica, come un evento ineluttabile che chiude la vita, pure il romanzo inizia con la descrizione del cimitero ebraico di Ferrara, quasi a prendere atto che tutto ha un termine, fugando così il naturale timore della dipartita.
Anche nella tragedia della famiglia dei Finzi Contini, distrutta nei campi di sterminio, non c'è traccia di orrore, non c'è ansia atroce, ma solo il mesto ricordo di un amore giovanile perduto per sempre.
In questo senso è assai emblematico il personaggio di Micol Finzi Contini, la fanciulla di cui l'io narrante è perdutamente innamorato senza che tuttavia lo dimostri apertamente, perché le decisioni, nel mondo ovattato e sospeso del giardino dei Finzi Contini, non devono esserci. Sarebbe, infatti, un ritornare sulla terra, affrontando una realtà che spesso non è piacevole.
Quanti giardini ci sono nel nostro animo, quanti rifugi irreali in cui nei momenti di difficoltà ci piace adagiarci per fuggire il quotidiano!
Ecco, l'invito a leggere questo romanzo, di una delicatezza e di un pudore incredibili, è d'obbligo, perché alla fine, quando il protagonista rinuncia a Micol, sarà per tutti chiaro che il sogno non è un comodo rifugio e che la realtà, tutto sommato, è l'unica prova della nostra esistenza, pur con il suo carico di dolori, ma anche di brevi gioie.
Renzo Montagnoli

L'autore
Giorgio Bassani nacque a Bologna il 4 marzo 1916 e morì a Roma il 13 aprile 2000. Di famiglia ebraica, patì le persecuzioni razziali e durante gli anni di guerra partecipò attivamente alla resistenza. E' solo dopo il 1945 che si dedica all'attività letteraria in via continuativa, sia come scrittore che operatore letterario (suo è il merito di aver caldeggiato all'editore Feltrinelli la pubblicazione de Il gattopardo).
Poeta raffinato, Bassani ottenne il successe di pubblico proprio con Il giardino dei Finzi Contini, di cui fu curata anche una trasposizione cinematografica da parte di De Sica.
Renzo Montagnoli


Povera Gente di F.M.Dostoevskij (1846)

Quando questo romanzo venne pubblicato, Fëdor Dostoevskij aveva ventiquattro anni; fu un successo travolgente: l'autore era un genio, un genio Dostoevskij stesso, però, che viveva nella miseria più nera, quella miseria senza speranza che ispira, appunto, "Povera gente". Due giovani si scrivono, si raccontano le loro piccole vicende quotidiane, le loro speranze, i loro sogni. Nasce così un amore che potrebbe aprire a
entrambi la via della felicità, ma la loro miseria è tale che la ragazza deciderà di sposare un uomo non più giovane, ma ricco nella folle speranza di poter aiutare il suo infelice amico. Un romanzo epistolare che scosse la Russia e segnò l'inizio della carriera di un titano della letteratura mondiale.
La psicologia di Dostoevskij in Povera gente è diversa, come è diversa la sua maniera, un po'monotona forse e troppo sentimentale, ma fondamentalmente realistico-psicologica.
Le opere di Dostoevskij esprimono una problematicità ancora aperta.
I temi trattati si possono così condensare:
la missione universale del popolo russo (messianismo), che consiste nel conciliare Oriente e Occidente, all'insegna di un cristianesimo basato sulla fraternità e sul bene dell'intera umanità.
Superamento dell'idealismo e del positivismo.
Crisi di tutte le ideologie.
Denuncia della condizione di isolamento, di solitudine, di crisi dell'uomo moderno, da cui è possibile si generi il male.
Polifonia, pluralità, pensiero dialogico.
Ansia di libertà e ribellione.
Elio De Luca


Umiliati e Offesi di F.M.Dostoevskij (1862) Ed. Mondadori, Grandi Classici

Questo romanzo mi ha suscitato una chiara ed immediata riflessione: la vita di un uomo è la pellicola lucente che limita la superficie del mare o meglio questo è il teatrino dentro cui è inserito, ma dentro di se ogni uomo e ogni donna si portano tutto l’oceano; e quanto impercettibili sono i segreti che nascondono gli oceani!.
L’inizio del romanzo è esilarante, incalzante, dopo quattro pagine ci si sente subito catturati da un vortice sinfonico di sentimenti che dipingono uno scorcio di vita popolare russa fine ‘800.
Il solo episodio del vecchio Smith già trancia il cuore, ed è solo l’inizio…ma in ciò Fedor è il maestro dei maestri: passare direttamente dalla offesa e dalla umiliazione subita da un vecchio alla svolta compassionevole di tutti coloro che poco prima lo avevano aggredito.
Umiliati e Offesi sono il Popolo Russo, moralmente assai superiori e assai più intelligenti dei potenti e dei “despoti” sociali a cui sono storicamente sottomessi. Il teorema del romanzo sembra essere: le persone nobili d’animo e caratterialmente elevate sono eternamente collocate tra gli ultimi della terra, mentre chi sta in alto, chi comanda chi ha il potere è sempre una persona non virtuosa.
D. è continuamente ossessionato dalla visione evangelica della vita, e il suo è un romanzo narrato in prima persona; Vanja, è il protagonista-osservatore delle vicende e in lui si riconosce l’autore stesso, il suo carattere mite e profondo.
Alioscia è il tipico bel ragazzo di nobile famiglia che ama e si fa amare ingenuamente condannando alla sofferenza chi lo circonda.
E’ un sognatore ingenuo ma talmente fuori dalla realtà che non è in grado di metter freno ai danni che irrimediabilmente innesca nella vita degli altri.
Elena, bambina orfana, una specie di cenerentola epilettica, bella e orgogliosa, è il personaggio che D. esalta maggiormente poiché e’ un fiore che nasce dall’inferno e non si china ad alcun compromesso, è la bellezza interiore che rimane intatta e non si lascia scalfire dal marciume sociale che circonda le vite disgraziate dei contadini e dei poveri russi.
Orgoglio dignità, resistenza che sboccia fuori dalle mura lucubri di una vecchia che la prostituisce fin da bambina approfittando della morte della madre, in questa bambina sono racchiuse tutte le speranze che lo scrittore nutre per il popolo russo, un popolo simile al nostro, italiano, abituato ad ogni sorta di sottomissione, ma resistente.
Ci sono quattro strutture narrative da seguire:
1- serghei –Andreevna
2- Natasja-alioscia
3- Smith – elena
4- Il Principe e il suoi piani che condizionano tutti.

Il Principe incarna la malvagità la falsità e il sadismo della classe aristocratica e proprietaria terriera, latifondista, l’intelligenza unita al più astuto cinismo, ma è comunque un personaggio affascinante che D. non si limita a descrivere artificiosamente (l’unicità di questo scrittore consiste sempre nel saper entrare e far vivere appieno la psicologia di tantissimi personaggi, senza giudizi morali Dostoevskij muove le vite dei suoi eroi e dei suoi antieroi con la massima e completa immedesimazione).
Il romanzo tratta abilmente la vicenda di un amore rovinato dall’odio delle rispettive famiglie a cui appartengono appunto Il figlio del principe, Alioscia e natasja, figlia di modesti contadini genitori acquisiti di Vanja (Dostoevskij) rimasto orfano in tenera età, e in ciò vi è una chiaro rimando al Romeo e Giulietta di Shakespeare e ai Pomessi Sposi di Manzoni: amori impediti e rovinati dalla appartenenza a diversi ranghi sociali.
Tra Vanja e Natasja vi è un amore profondo sospeso, impedito, platonico, contrastato dall’essere fratelli “acquisiti”.
La vita di Vanja sembra quasi non esistere, la sua personalità è completamente estroversa, assorbita dalle vicende altrui, egli si dona completamente a tutti, e in ciò vi è un certo parallelismo col personaggio del principe Myskin nell’Idiota.
Il romanzo è anche pesantemente incentrato sulla problematica del rapporto Padre-Figlia tanto che l’autore sembra prefigurare la psicologia freudiana sulle tematiche del complesso di Elettra.
La sottigliezza psicologica di Dostoevskij è sempre formidabile: Natasja e la madre di Elena sono donne che hanno tradito il volere del padre, che si son rovinate con un amore “impossibile” ed in un certo qual modo vogliono la loro autodistruzione, mandano all’aria tutto, in preda a deliri (gli stessi deliri della Filippovna sempre dell’Idiota) e attacchi isterici di una lucidità intellettiva formidabile, ma così facendo sembrano essere ignare di volere in realtà vendicare l’onore paterno (e qui ci sta tutto Freud), come redimersi nella sofferenza per aver fatto soffrire ingiustamente la loro amatissima (e offesissima) figura paterna.
L’Odio verso il principe Velcovskij (personaggio a sua volta similissimo al Pavel Pavlovic dei fratelli karamazov) delle due donne, nasconde l’amore per il padre più che l’amore per il proprio amante, e questo D. lo lascia intendere con l’arte narrativa anziché con la fredda e sciapa analisi psicologica razionale.
Anche Elena detta anche Nelly, è figlia di una donna che fa la fine della Smerdjaskaja, donna umiliata e offesa, quasi stuprata, e Nelly stessa, è simile a Smerdjakov in quanto a umiltà e attacchi epilettici sormontati da un fermo orgoglio e dignità (altro parallelismo coi Karamazov).
Ma per essere più precisi il principe Velchovskij è del tutto simile al padre naturale di Fedor Dostoevskij un uomo dissoluto, libertino, passionale che maltratta sadicamente i suoi sottomessi nella società proprio come faceva il padre con i suoi servi della gleba nella tenuta terrena.
Ricordiamo che gli stessi servi uccisero il padre di Dostoevskij in una rivolta contadina, ciò provocò la prima crisi epilettica nel famoso scrittore: questo fattore è importantissimo da analizzare poiché in ciò vi è evidente un amore forte e non ricambiato verso la figura paterna, e allo stesso tempo un contrasto interiore fortissimo nell’appoggiare la causa della soppressione della servitù della gleba.
In pratica D. appoggia moralmente la causa di coloro che hanno ucciso il suo padre-padrone, ed in ciò vi è tutta la spiegazione tra l’inizio progressista e rivoluzionario della carriera dell’artista fino a giungere ad un forte e radicato conservatorismo cristiano, in questa parabola c’è tutta la dinamica del parricidio, che poi simbolicamente nei Karamazov arriverà al Deicidio, a sua volte prefigurante tutta la cultura nietzschiana.
Interessante è la dichiarazione spontanea che il principe fa a cena con Vanja, circa la sua vita dissoluta e i suoi cinici calcoli…Velchovskij è un personaggio di De Sade travestito da nobil uomo: gli uomini e le donne più austere sono in realtà le più perverse e le più diaboliche sembra confermarci Dostoevskij.
E poi l’eccesso opposto, Nelly, un carattere tormentato, abituato a subire violenza, umiliazione proprio dai potenti e ricchi perversi, maltrattamenti che alla fine la rendono allergica anche ai tentativi di Vanja di porle una sincera mano amica.
Nelly è la piccola bambina talmente tormentata che ha superato quella soglia oltre la quale desiste ad accettare anche l’idea che possa esistere un “uomo buono”.
Dostoevskij sembra consigliare che a contatto con queste persone l’unica modo per aiutarle è di opporre carezze, generosità e amore senza desistere!
Dura è anche la lezione sul perdono: si può perdonare finche si è in vita , non oltre e all’apice della commozione è proprio l’umiltà di nelly alla fine a sciogliere i cuori intorpiditi e raffreddati degli altri personaggi.
In fine c’è anche Azorka il vecchio cane di Smith che condivide la stessa sorte del padrone: l’inizio del romanzo è in realtà la fine, e ci vuole dire che uomini e cani figli del popolo muoiono assieme, entrambi umiliati e offesi, ma interiormente superiori nelle virti e nei valori.
Elio De Luca


Dicono di Clelia di Remo Bassini Ugo Mursia Editore Narrativa romanzo

E con questo ho letto tutti i romanzi scritti fino a ora da Remo Bassini, augurandomi che quello che ha in cantiere possa uscire a breve.
"Dicono di Clelia" è un po' atipico, nel senso che c'è la giusta tensione del giallo, ma non lo è, e ci sono pure accenni a un moderato erotismo, senza che per questo lo si possa far rientrare in questo genere. Questa ambivalenza, ben dosata, senza che prevalga l'una o l'altra, è probabilmente uno dei tanti motivi di riuscita di questo romanzo, non dimenticando forse quello più importante, con quel procedere di diverse storie parallele, apparentemente non collegate, ma che finiscono con il ricondurre a questa Clelia, l'unica fra i tanti "io narranti" che non appaia in prima persona.
Chi è Clelia?
Un sogno?
No, esiste veramente, beninteso nel romanzo, ma ha tutta una sua fragilità, un bisogno costante di essere protetta che finisce con l'attirare irresistibilmente sia uomini che donne. In questo senso le pagine scorrono caricandosi di una sacralità dell'immagine che dona il giusto risalto a un personaggio che non parla, ma "di cui si dice".
E' ammirevole, al riguardo, la costruzione perfetta dell'intreccio, senza la minima sbavatura, e che porta alla conclusione della lettura con un desiderio più che legittimo: e dopo che sarà di Clelia?
In buona sostanza, entrando noi in ogni storia, finiamo con l'essere inconsapevolmente coinvolti nel desiderio di tendere una mano a una figura femminile che non vediamo, ma di cui gli altri personaggi ci hanno dato una descrizione mirabile.
Io ho provato più volte a farmi un'idea di questa donna, ma ogni volta ha assunto un volto diverso, come se il senso della narrazione fosse quello di rappresentare la femminilità nella sua essenza più evidente, ma ormai sempre più rara: la debolezza propria di chi si accosta alla vita consapevole delle difficoltà della stessa e pertanto ricercando, fra tanti pugni, una mano tesa.
Lo stile di Bassini è inconfondibile: asciutto, senza tanti fronzoli, ma sicuramente efficace. I personaggi, poi, sono descritti con la consueta cura e con tratti brevi e decisi, lasciando all'evolversi delle vicende il compito di tratteggiarli psicologicamente.
E sono tanti, ma uno ben distinto dall'altro; fra questi si avverte chiaramente una preferenza, o meglio una simpatia dell'autore, che ho individuato nel maresciallo dei carabinieri (ben lungi dall'essere la macchietta delle barzellette, ma pur sempre divertente) e nella tenutaria di una casa squillo (indifferente a tutto, tranne che a Clelia).
A loro va pure tutta la mia simpatia.
Renzo Montagnoli

L'autore
Remo Bassini nasce a Cortona il 23 settembre 1956, ma vive da molti anni a Vercelli. Ha svolto molti lavori per poi approdare a quello di giornalista, diventando direttore de La Sesia.
Ha fino a ora pubblicato tre romanzi: Il quaderno delle voci rubate (La Sesia), Dicono di Clelia (Edizioni Mursia) e Lo scommettitore (Fernandel Editore).
Renzo Montagnoli


Niente di nuovo sul fronte occidentale di Erich Maria Remarque Mondadori Narrativa romanzo

Questo romanzo mi è stato compagno fedele fin dalla gioventù ed è stato oggetto di più riletture al fine di non dimenticare il messaggio di pace che porta in modo addirittura sublime.
La guerra, questa bestialità dell'uomo, mai è stata descritta così bene come in questo testo di Erich Maria Remarque, alsaziano che l'ha vissuta direttamente sul fronte francese combattendo sotto le bandiere dell'impero tedesco.
Non c'è una riga di troppo, non si avverte mai la tentazione, in cui era pur così facile cadere, di invitare il lettore alle facili lacrime. Eppure la commozione prende mentre si scorrono le pagine, dense di episodi di una gioventù allevata con uno spirito nazionalistico che l'ha fatta aderire entusiasticamente a una guerra motivata dalla becera retorica della grandezza della patria e della legittima aspirazione di ampliarne i confini. Parole vuote riempiono le menti di questi giovani studenti, nascondendo non solo gli autentici fini di potere e di denaro di ogni guerra, ma anche la realtà della stessa.
Anni in cui si dovrebbero conoscere le gioie della vita sono così segnati dall'orrore della morte, dalla paura di ogni giorno, dal senso di colpa che ti prende quando ferisci a morte un nemico, se poi hai occasione di conoscerlo e di vedere in lui un povero disgraziato come te, numero in una macchina infernale che tutti divora, vinti e vincitori.
Si può solo resistere se si conserva, o addirittura si crea, un gruppo affiatato di amici con cui condividere questa pena di vivere.
La fornace della guerra, però, strapperà al protagonista, ad uno ad uno, gli affetti, rendendolo sempre più indifferente alla vita fino a quando anche lui verrà ucciso.
Il romanzo è senza ombra di dubbio un autentico capolavoro che dovrebbe costituire oggetto di studio nelle scuole di ogni nazione, con dignità pari a quella dei testi di grandi classici, e con il preciso scopo di non dimenticare che la pace è uno stato di grazia.
Dubito, però, che ciò sia possibile, perché gli interessi che muovono alla guerra sono gli stessi che presiedono alla vita di ognuno durante i periodi di relativa tregua.
Renzo Montagnoli

L'autore
Erich Maria Remarque nasce il 22 giugno 1898 a Osnabruck e muore il 25 settembre 1970 a Locarno. Benché di origini francesi non esita nel giugno del 1916 a arruolarsi per partecipare alla Grande Guerra e viene subito destinato al fronte occidentale, dove viene ferito. Al termine del conflitto viene insignito dell'onorificenza della Croce di Ferro, a cui tuttavia rinuncia. Negli anni caotici di Weimar vive di lavori saltuari , fino al 1924, quando inizia l'attività di giornalista. Scrive in quegli anni "Niente di nuovo sul fronte occidentale" che, pubblicato nel 1929, ottiene subito un grande successo, tanto che Mileston ne ricava nel 1930 una versione cinematografica che forse è la migliore.
Osteggiato dai nazisti, si rifugia dapprima in Svizzera e poi negli Stati Uniti. Ritornato in Europa nel 1948, muore nel 1970 in una clinica di Locarno.
La sua produzione letteraria è piuttosto variegata e caratterizzata da opere di eccellente valore, anche se "Niente di nuovo sul fronte occidentale" può essere considerato il suo miglior romanzo.
Di notevole interesse, comunque, sono anche "Ama il prossimo tuo" del 1939, "Tre camerati" del 1936, "Arco di trionfo" del 1945, "Tempo di vivere, tempo di morire" del 1954, "L'obelisco nero" del 1956.
Renzo Montagnoli


Lo scommettitore di Remo Bassini Edizioni Fernandel Narrativa romanzo

"Scommetto che nessuno ci riesce a fare questo.
Scommetto che se ho sete resisto senza bere. Scommetto che se ho mal di pancia non lo dico a nessuno.
"

Terzo romanzo di Remo Bassini, Lo scommettitore non è solo il racconto di un'Italia provinciale, dove meschinità e sozzerie si elevano all'ennesima potenza nel torbido mondo della politica, ma è anche una storia di ben più ampio respiro e significato.
La trama indubbiamente avvince per i richiami a una realtà che abbiamo sempre sotto gli occhi, per quegli scandali così ripetuti da non apparire con il tempo più tali, e il tutto con il ritmo di un giallo, privo tuttavia degli immancabili omicidi, in un susseguirsi di eventi a incastro, fra passato e presente, di indubbia efficacia.
Se fosse solo questo, sarebbe già un buon romanzo, uno dei tanti che si leggono, che divertono, ma che poi metti in biblioteca, abbandonati in un angolo. E invece no, Lo scommettitore, è qualche cosa di più che un semplice reportage, pur ben scritto.
Bassini sembra volerci dire che in fondo la vita è tutta una scommessa, dalla nascita fino alla morte.
Prendiamo la figura del protagonista che, smessi i panni dell'investigatore dedito, ovviamente contro compenso, a partecipare attivamente alle campagne elettorali, facendo di fatto eleggere l'uno o l'altro candidato, vuole guardare dentro se stesso e arriva al punto di provare a vivere da povero, arrangiandosi fra mille difficoltà; finisce così con l'acquisire gradualmente la simpatia del lettore, specie con quel suo desiderio di riscatto che lo porta, con i mezzi meschini sempre in precedenza utilizzati, a combattere la corruzione solo per amore, per quel sentimento che prima non riusciva a provare.
Scommette pure il direttore di giornale Cardoni, una vecchia volpe rispolverata per necessità e che si lascia avvincere dal gioco avviato dallo Scommettitore, grazie al quale una generale aria di pulizia spazzerà via un torbido ambiente di intrallazzi e di veleni.
Insomma, scommettono tutti, ma soprattutto due personaggi, che la mano di Bassini ha saputo ricamare con straordinaria abilità e tenerezza: Ornella e il figlio, due vinti, lei non più giovane, reduce da uno sfortunato matrimonio, in disagiate condizioni economiche; lui, ancora un ragazzo, ma che soffre di epilessia.
Scommettono entrambi con la vita, affrontandola con dignità, nonostante tutto.
E alla fine della lettura di questo bellissimo romanzo, mi sono trovato a scommettere pure io:
Vuoi vedere che anche il prossimo libro di Bassini sarà un successo?
Glielo auguro di tutto cuore, perché se lo merita.
Renzo Montagnoli

L'autore
Remo Bassini nasce a Cortona il 23 settembre 1956, ma vive da molti anni a Vercelli. Ha svolto molti lavori per poi approdare a quello di giornalista, diventando direttore de La Sesia.
Ha fino a ora pubblicato tre romanzi: Il quaderno delle voci rubate (La Sesia), Dicono di Clelia (Edizioni Mursia) e, appunto, Lo scommettitore (Fernandel Editore).
Renzo Montagnoli


Il Sogno Di Un Uomo Ridicolo di F.M.Dostoevskij (1877) Ed. Mondadori, Grandi Classici

Il sogno di un uomo ridicolo è un racconto fantastico, nel senso che
è davvero surreale, ma magnifico nel suo contenuto; è la storia di
un sogno che Dostoevskij fa all'età di quarantasei anni,
probabilmente in uno dei suoi momenti di profonda e tragica
introversione: il racconto inizia un po' come le memorie dal
sottosuolo…."Sono un uomo ridicolo…e ora mi danno anche del
pazzo"..si sente triste perché conosce la verità mentre gli altri no.
In una notte di cieli oscuri e aria pesante prende la decisione di
togliersi la vita dopo aver fissato in uno squarcio di cielo limpido
una stella lucente che sembrava suggerirgli proprio questo terribile
atto. (questo mi fa ricordare Van Gogh quando poco prima del
suicidio nei suoi deliri mentali dell'ospedale psichiatrico presso
cui era ricoverato scrisse che era convinto che durante l'attimo
della morte tutti noi raggiungiamo una stella).
Presa la decisione passeggiando s'imbatte in una bambina che piange
disperata e che invoca il suo aiuto poiché la sua mammina sta per
morire e nessuno corre in loro soccorso….Dostoevskij la scaccia, con
brutalità meschinità, col cinismo e l'ostentata indifferenza di chi
avendo deciso di farla finita non vuole minimamente preoccuparsi
dell'altrui sofferenza.
Torna alla sua abitazione, una bettola piena di ubriaconi e continue
risse, ma la sua camera possiede una sontuosa poltrona alla
Voltaire e comincia a rimuginare, elaborare e si accorge che in
realtà nonostante l'apparente freddezza e l'ostentata indifferenza
prima mostrata in realtà aveva provato compassione e pietà per la
povera bimba….e il dolore per lei provato (ma mascherato) lo distrae
miracolosamente dal suo proposito autodistruttivo, si pente e si
vergogna del suo atteggiamento.
Inizia una serie di elucubrazioni mentali (di quelle che Natasja
additerebbe a noi maschietti insicuri e logorroici) e giunge ad una
sua Visione della Verità attraverso un sogno che fa addormentandosi,
senza cambiare la linea di ragionamenti fatti durante la veglia.
Nel sogno si suicida per davvero, senza dolore si crea un immenso
buio attorno a se e vive tutto la situazione tragica (le persone che
accorrono, la sua sepoltura) che si cera nella palazzina
successivamente al suo suicidio; la pallottola conficcata nel cuore
e nella rabbia che continua a provare per se stesso come per magia,
da un essere misterioso (un angelo?) viene trasportato
nell'immensità dell'universo lontana dall'odiata Terra, passano
accanto a Sirio e nel frattempo Fedor si rende conto che dunque
anche dopo la morte continuiamo ad esistere, anzi siamo costretti a
rinascere in qualche altro angolo remoto dell'universo.
La paura, il freddo, e infine l'approdo in un altro universo , un
nuovo mondo e un nuovo Sole, simile al nostro, "un sosia".
Dostoevskij rimane stupefatto di questa magia dell'universo di
creare perfette copie del nostro mondo a distanze di milioni d'anni
luce.
Il compagno di viaggio misterioso proprio mentre lui stupefatto e
atterrito rimembra ancora la povera bambina esclama solenne <<Vedrai
Tutto>> cosciente che nella sua dipartita noi riusciamo ad amare la
nostra Terra solo piangendo e nella profonda sofferenza.
L'angelo lo abbandona e lui rinasce su questa nuova Terra che si
trova nelle condizioni primordiali in cui la sacre scritture
descrivevano il nostro pianeta nell'età dell'Eden, il meraviglioso
giardino: un paradiso vivente di unione tra regni viventi, senza
sofferenza, ma bambini meravigliosi allegri e gioiosi come gli
adulti anch'essi belli e pieni di vita, in pratica l'animo di Fedor,
il suo inconscio regredisce all'era di Adamo.
Gli uomini vivono senza scienza razionale parlavano e dialogavano
tra di essi come con gli stessi alberi e piante che rispondevano con
altri linguaggi assieme agli animali che gli uomini comprendevano lo
stesso.
Non esistevano relazioni burocratiche, sfide, sentimenti d'invidia,
malizia o gelosia e i figli erano figli di tutti e tutti avevano più
madri e più padri contemporaneamente, insomma tutta la comunità
umana era un'unica grande e allargata famiglia (e qui la cosa mi ha
veramente colpito perchè questo sogno fatto da Fedor più di
centocinquanta anni fa corrisponde all'idea che mi ero fatto anch'io
utopicamente della vita in comune, è proprio vero che quando ci si
innamora di un autore il connubio avviene per una sorta di affinità
elettiva, in realtà ciò che sia accetta come maestro non è
nient'altro che colui che risveglia nella tua coscienza qualcosa che
viveva già in forma latente, come il seme, come l'energia potenziale
rispetto alla forma cinetica).
Gli abitanti della nuova terra non avevano luoghi di culto ma erano
coscienti della vita eterna così come avevano "una continua
coscienza dell'universo intero" e credevano che la morte non fosse
altro che una porta che aprisse ad una comunicazione ancora più
vasta e completa con tutto il Creato.
Dostoevskij nel frattempo continua a sognare e tuttavia diviene
sempre più convinto che non sta solo sognando ma vivendo in una vera
e propria "altra dimensione" attraverso il delirio del suo cuore .
La tragedia, afferma l'autore è che finisce lui stesso per
CORROMPERLI TUTTI.
Lui, quasi involontariamente, con la sua stessa presenza, trasmette
loro il "bacillo" del gusto della menzogna, da cui nasce la malizia,
la sensualità, la vanità la gelosia e l'invidia……viene così sparso
il primo sangue (come in 2001 odissea nello spazio).
Poi sorgono le idee di onore e coalizioni contrapposte nonché il
seme della vergogna della nudità (= sincerità= ingenuità= idiozia
del principe Myskin), la famosa foglia di fico posta sui genitali di
Adamo ed Eva.
Si iniziano a parlare diverse lingue e dopo la conoscenza del dolore
e del piacere nacque pure la necessità della "scienza" e la pena di
morte per i criminali violenti….e nel frattempo conservavo l'ANTICA
MEMORIA DEI TEMPI AUREI E PACIFICI definendola però una sciocca
favola da sognatori ed idealisti a cui però si inchinavo
prosternandosi come adoratori di feticci e simulacri di un tempio.
Da allora cedettero che la scienza li avrebbe resi saggi poiché
avrebbero riscoperto le leggi della felicità: così ognuno diventò
geloso delle proprie cose, della propria identità come unica cosa da
amare veramente e nel frattempo accanto al culto della personalità
nacque la povertà e la servitù nonché la schiavitù volontaria e
coloro che parlavano e reinvocavano l'antica armonia umana smarrita
venivano perseguitati, derisi e lapidati.
Alla fine uscirono fuori i lussuriosi e i superbi che dicevano o
tutto o niente (Natasjia direbbe i megalomani come me) che
ricorrevano alle malefatte e se non ottenevano il tutto con voracità
si suicidavano (forse Dostoevskij stesso nel romanzare il suo
strabiliante sogno viveva una fortissima frustrazione interiore,
però non scordiamoci che da quel periodo in poi nascono i suoi
capolavori, L'Idiota, Delitto e Castigo, i Demoni e i Fratelli
Karamazov in cui Dosto da tutto il suo meglio per mostrare come
anche diviso schizofrenicamente in quattro personalità rimane pur
sempre un vorace, un gorgo infinito di passionalità seppur disperata
e travagliata).
Concludendo osannarono la sofferenza proclamando che essa stessa
è "bellezza" (sembra qui recuperare la potenza della mitologia
greca), e Fedor continuava a vagare tra di loro amandoli lo stesso e
sentendosi in colpa per esser stato il primo artefice della "caduta".
Torcendosi le budella al solo pensiero che la colpa fosse tutta sua
(io credo che qui si potrebbe fare una lunga digressione sulla sua
malattia poiché è medicalmente accertato che gli epilettici sono
individui che si danno la colpa di tutto, anche di ciò che
ragionevolmente dovrebbero evitare e questo forse è il segno che non
sempre la malattia è un male ma anche la porta che apre la strada al
cuore e alla coscienza…..non voglio scandalizzarvi ma una volta
lessi su un'edizione Einaudi alcuni vangeli apocrifi che asserivano
con certezza che Gesù soffriva di epilessia ovviamente a ciò lascio
il beneficio del dubbio).
Fedor alla fine scongiura quella popolazione intera "l'umanità sosia
e da lui corrotta" di torturarlo e di crocifiggerlo poiché non aveva
il coraggio di uccidersi da sé, ma essi ridevano sostenendo che
avevano ricevuto da lui solo quello che essi stessi desideravano e
che se non la piantava l'avrebbero bollato come pazzo e rinchiuso in
un manicomio urlandogli addosso che era un uomo pericoloso, allora
una profonda sensazione di morte lo attanagliò e in quel preciso
istante si risvegliò.
Silenzio totale della notte, la candela consumata sulla poltrona, e
in quel preciso istante decise che avrebbe dedicato tutta la vita
alla predicazione della Verità, convinto di averne avuto la perfetta
visione e sicuro che il Male, la corruzione e la degenerazione non
possano essere LA CONDIZIONE NORMALE DELL'UMANITA' PUR SAPENDO CHE
TUTTI ANCHE NELLA VITA VERA CONTINUERANNO A RIDERE DI QUESTA SUA
IMPAVIDA CONVINZIONE.
All'improvviso dice: ma cos'è in realtà un Sogno? La voglia di amare
gli altri come se stessi e la reiterazione di un più grande sogno
che seppur nei millenni ha messo ancora poche radici sulla Terra.

Il teorema finale SCRITTO NELLE UTLIME DUE RIGHE DEL RACCONTO è
questo: BISOGNA COMBATTERE L'IDEA CHE LA COSCIENZA DELLA VITA SIA
SUPERIORE ALLA VITA STESSA, E LA CONVINZIONE CHE LA SCIENZA DELLE
LEGGI DELLA FELICITA' SIANO SUPERIORI ALLA FELICITA' STESSA.
La bambina la ritroverà e insieme a lei camminerà a lungo.

Sogno, archetipi biblici, suicidio e via d'uscita dal
nichilismo……..il tutto in sole 26 pagine.

Che dire? Se Dostoevskij avesse scritto solo di questo brevi
racconti l'avrei comunque sia considerato un genio e una colonna
portante del sapere umano, la coscienza degli altri suoi capolavori
me lo fa annoverare tra i più grandi artisti e profeti di tutti i
tempi.

A voi la parola……
Elio De Luca


L’eterno marito di F.M.Dostoevskij (1870)

Romanzo incalzante, breve e anche dal retrogusto umoristico, cosa rara in questo autore, poiché riesce a far apparire l’uomo come appendice del più potente, spietato, furbo e irrazionale mondo femminile.
L’Eterno marito è in chiave sarcastica il prototipo di uomo a cui tocca esser destinato a rimanere per via della sua viltà, impersonalità, incoerenza, debolezze varie e complessi di inferiorità, un eterno supporto o complemento oggetto di una figura femminile che nella società lo sopravanza, lo tradisce e lo rigira come un calzino.
Il romanzo gira attorno a due figure principali, Pavel Pavlovic l’eterno marito ed eternamente cornuto, fatto tale dagli stessi amici che ha in comune con la moglie, e Vel’caninov il vero protagonista, uomo discreto e risoluto, amico del primo e amante della moglie.
Il romanzo ha un ritmo accelerato frenetico febbricitante in cui tutto si svela velocemente, come nel “Sosia” Vel’caninov è seguito da un ombra che lo assilla: è un fantasma del passato con cui deve fare i conti, Pav Pavlovic l’eterno marito di Nadja, con cui lui stesso aveva avuto una relazione ed una figlia illegittima che crescerà Pavlovic stesso scoprendo da una lettera d’amore che la figlia non era affatto sua, ma del nostro protagonista.
Varie sono le caratteristiche impareggiabili di Fedor D. anche in questo romanzo: la trama a intrigo da giallo poliziesco, la profonda connotazione psicologica e psicosomatica di ogni suo personaggio trattati, il contrasto esacerbante tra le false formalità e i perbenismi linguistici e comportamentali cozzanti con i sentimenti di natura irrazionale che irrompono fino a debordare nella scena del romanzo: i complessi d’inferiorità, la sfida al duello onorevole tipico del russo ottocentesco, i comportamenti ambivalenti talvolta ridicoli patetici e pietosi fino alle soglie del comico.
Il ruolo precognitivo e mistico dei sogni che si intrecciano con la realtà; le caratteristiche schiette, diaboliche, feline dell’universo delle donne.
La piccola Lisa, cresciuta senza madre figlia di un uomo che era un amico di suo padre, sembra essere l’anello di congiunzione, nonchè piccola vittima sacrificale di una partita a poker della vita stessa, dietro ogni sorriso c’è lo scacco matto della vendetta che Vel’caninov (spesso punto di vista dell’autore) sembra saper analizzare con la più ardua capacità introversiva ma anche cinica.
I rimorsi, i rimpianti, e poi le vendette sopite, e il bilanciamento dei conti attraverso lo svolgersi stesso degli eventi della vita nella scala dei tempi nelle forme meno aspettate come dettate da un fato, un grande regista che tutto muove a pennello, l’apparente Caso.
In sole duecento pagine un grande capolavoro da non perdere per chi sa apprezzare le vera e rara arte narrativa.
Elio De Luca


La luna e lo zingaro di Federico Marsili, TA.TI. Edizioni - Raccolta di poesie

Il volume raccoglie una serie di poesie sorte in occasione di uno dei numerosi viaggi effettuati dall'autore, oppure frutto di conoscenze femminili, anche del tutto occasionali.
L'ars poetica di Marsili ha i doni, rari, dell'immediatezza e della spontaneità:
l'autore apre il suo animo, trasferisce senza indugio le sue emozioni e i suoi sentimenti sulla carta e il lettore li recepisce con naturalezza, tanto è evidente la semplicità dell'esposizione, anche di concetti non certo facili, come nel caso di Poesia 2 (31 maggio 1998, ore 9,32) che per maggior chiarezza riporto integralmente.

"Poesia è
creare dal nulla
dar vita a un pensiero
una visione, un'allucinazione
una speranza, un'illusione
è magia, sogno, realtà,
saggezza e pazzia
è l'alba e tramonto
disperazione e gioia
crudeltà e dolcezza
è Libertà."

Ecco, penso che questa descrizione sia una delle migliori che ho letto sulla poesia, perché esprime, senza ricorrere ad alchimie, la bellezza dell'estro creativo che si estrinseca in una totale libertà di proporre il proprio animo al lettore.
Marsili ci propone una poesia semplice, quasi naif, al di fuori di correnti letterarie che ne snaturerebbero la naturale bellezza dell'istinto creativo.
Questa repulsione ad inquadramenti schematici viene ripresa anche nella lirica che dà il titolo alla raccolta (La luna e lo zingaro), dove lo spirito ribelle del nomade si fonde armoniosamente con l'incanto della natura.
Dunque, poesie facili da leggere, ma non filastrocche, versi che non scontano termini improponibili, o concetti astrusamente esposti, ma che sono frutto di una completa libertà di espressione che si traduce nel piacere di leggerli.
Renzo Montagnoli

L'autore
Federico Marsili è nato a Tradate (VA) nel 1965, ma risiede a Limido Com'asco (CO), dove si occupa di editoria in qualità di titolare della TA.TI. Edizioni; ha ottenuto diversi riconoscimenti in concorsi letterari e La luna e lo zingaro è al momento l'unica silloge pubblicata.
Renzo Montagnoli


Il quaderno delle voci rubate di Remo Bassini, La Sesia Editrice Narrativa romanzo

Reduce dalla rilettura di un grande classico, quale è La Certosa di Parma, ho affrontato la prima opera di Remo Bassini con un po' di titubanza, nel senso che temevo che, come buona parte delle opere di autori esordienti, non mi sarebbe piaciuto.
E invece è stata una piacevolissima sorpresa.
Dire che l'ho letto è un eufemismo, perché invece l'ho quasi fagocitato, pagina dopo pagina, arrivando all'ultima con il rammarico che non ce ne fossero altre.
Il microcosmo di un paese con il suo bar più conosciuto è descritto in modo mirabile, con i personaggi che si alternano in perfetta sincronia, ognuno con una sua storia, gente anche di umile estrazione, ma a cui lo scrittore ha saputo dare una dignità tale che figure come il Carletti, il Bordin o Teresa la puttana restano indelebilmente impresse nella memoria. E anche l'io narrante, il proprietario del bar, assurge a protagonista, senza che per questo gli altri siano comparse.
Bassini descrive la vita, i suoi personaggi destano simpatia perché sono veri, né eroi, né codardi, ma esseri umani, con tanto di pregi e difetti. Lo stile è scarno, essenziale, ma di straordinaria efficacia; descrive senza grevità, lasciando ampi spazi alla fantasia del lettore per immaginare l'ambiente e le figure che lo animano, di cui invece tratteggia alla perfezione il carattere.
Non poche volte, chiudendo gli occhi dopo una pagina, mi sono visto l'ambiente della locanda del Merlo e i suoi avventori, aggiungendovi la mia persona; devo dire che questo volo di fantasia non mi è riuscito per nulla difficile, anzi il desiderio di essere parte della vicenda è la prova più evidente dell'abilità di Bassini di saper coinvolgere il lettore.
Non si creda, inoltre, che le 172 pagine siano solo di puro e semplice svago, perchè dietro ogni personaggio c'è una vicenda da cui c'è da imparare e poco conta che l'insegnate sia una prostituta come Teresa, quando dice " La vita è bastarda, scappa via mentre noi guardiamo le stelle cadenti ", oppure " Ci vorrebbe che Dio esistesse: darebbe senso a tutto".
La frase, però, che più mi ha colpito è riportata anche nell'ultima di copertina " Il bar è come un cinema, solo che il film è a sorpresa. E anche quando non c'è nulla, resta comunque l'atmosfera dell'attesa: qualcosa, da un momento all'altro, può sempre capitare". Ecco penso che Bassini abbia voluto, metaforicamente, riferirsi alla vita.
Renzo Montagnoli

L'autore
Remo Bassini nasce a Cortona il 23 settembre 1956, ma vive da molti anni a Vercelli. Ha svolto molti lavori per poi approdare a quello di giornalista, diventando direttore de La Sesia.
Ha di recente pubblicato due romanzi: Dicono di Clelia (Edizioni Mursia) e Lo scommettitore (Fernandel Editore).
Renzo Montagnoli


Una nota a Senza Cielo di Menotti Lerro (Lettere Italiane, Guida, 2006)

C’è una poesia (o meglio un frammento) nella raccolta di Menotti Lerro, Senza cielo, che immediatamente colpisce per la forma che l’annuncio della tragedia a venire assume in questi versi, cataclisma dinanzi al quale il poeta si pone come deve porsi, non in modo preveggente, bensì acutamente e coerentemente testimoniale: “Quando crollerà / sarà una massa grigia che viene giù a pezzi, / sarà il punto di luce che acceca” (XV, p. 31). La tragedia dell’umanità, riflessa in quella personale, che la scelta del tempo verbale pone provocatoriamente al futuro, è, infatti, già avvenuta, non una volta, ma mille volte, e si riproporrà illimitatamente avanti, finché non muteranno le dinamiche perverse da cui origina. Con l’imminenza di questo crollo, Lerro enuncia, dunque, lo sgretolarsi delle certezze della materia, dinanzi agli scenari di morte insensata e illogica che l’attualità ci somministra quotidianamente.
L’enfasi cade su tre elementi fondanti: sul dato materiale di questo crollo che, appunto, frammenta il corpo solido del reale, riducendolo “a pezzi”; su quello della visione, come intuizione e consapevolezza che abbagliano; e sulla follia dell’artista, indotta dalla capacità di assumere in sé l’immenso cumulo di un reale ridotto a macerie (“Abbraccerò in piazza il cavallo, / l’amico di Wagner”, XV, p. 31), follia che procede appunto per rievocazioni e citazioni, consumandosi in questo affanno morale (“ e di me non resterà che essenza”).
Come non ravvedere, in questa massa che crolla, frammentandosi in urla di spasimo e paura, un rimando all’11 settembre? Come non sentire sulla propria pelle il modo in cui questa lotta di fagocitanti forze distruttive penetra all’interno degli ambiti espressivi del poeta, non solo per il dovere etico della cronaca o della testimonianza, ma per interiorizzazione viscerale dell’orrore storico, che in questi versi incontra l’angoscia individuale? E come, infine, non riconoscere la maniera in cui queste tematiche civili ne escono fuori sfigurate, traslate, restituite figurativamente alla pagina in guisa di piaga sul corpo dell’artista, strazio e grido nella sua stessa voce.
Esempi dell’assenza di un’accezione positiva di spazialità, avvertibile come condanna, sono disseminati dappertutto nella raccolta, basata sull’organizzazione grafica che si appoggia in basso, sulla terra, come suggerisce il titolo. Senza cielo, difatti, traduce essenzialmente tre dimensioni: la mancanza fisica di cielo sulla città di Milano, coperta dallo smog, dove il progresso diventa regresso, ed il degrado e l’asocialità sono evidenze quotidiane nei rapporti formali interpersonali; la mancanza metaforica di cielo, intesa come assenza irrimediabile di Dio, rimpiazzato dal mito della macchina; e infine la mancanza di futuro nell’universo interiore, devastato da profonde crisi private, che sul piano dell’extratesto pittorico si riconoscono dell'urlo di Munch: “Ogni giorno ombre mi parlano, / mi inseguono in ogni angolo del cervello” (XII, p.28); “La mia mente è un cimitero / dove fiori stanno accanto ai morti”, XVII, p. 33).
Riconosciamo questi morti: sono le vittime della disumanità cui si accennava, sebbene Lerro lasci i loro nomi nell’indeterminatezza di un anonimato, che ce li accomuna, simulacri delle nostre identità in bilico in ambienti disgregati e privati di valore: “Capire d’esser vivo mi sconvolge, / in ogni sogno morto in queste mura […].” (XXXVI, p.52) L’agnizione spaventosa dell’esistere, che questi versi tradiscono, non è dunque paura di morire, ma di restare permanentemente catturato nell'indistinto delle voci di chi vive alla soglia di un’esistenza mai posseduta.
     Il modello di uomo contemporaneo che emerge da questi versi di Lerro, il cui impegno di denuncia dell’orrore si sintetizza nella metafora di un’allucinazione (“Nel bar del gobbo entravo in un video game / e nessuno me ne tirava fuori”, 13, p. 56), o di una malattia collettiva che si ritorce, ipocondriacamente, sul soggetto poetante, è certamente quello che oggi suggerisce la ripresa di una tacita e intima forma di dissidenza, caratteristica di un’arte che si aggancia criticamente al reale e al presente, ma senza pretese vitalistico-interventistiche di controllo su di esso.
    
Questo modello rimanda alla poesia del secondo dopoguerra, da Lowell e Plath, a Pavese, e all’immagine del poeta come capro espiatorio. Il poeta è, infatti, intensamente visto come entità sensibile che si mantiene ai margini della città, pur essendone al cuore, interprete e traduttore, nel linguaggio della poesia, delle innumerevoli tensioni in atto nelle lingue e culture che, su altri piani dell’attualità, scatenano lotte di sangue, religione e razza, guerre di primato ed egemonia, estranee all’interesse immediato del poeta, ma riflesse nello specchio della sua arte.
        Là dove il dolore collettivo oscuramente divampa, il senso della poesia lirica, che sgorga dal corpo del poeta con la coscienza d’essere secchio d’acqua gettato sull’incendio più devastante, è dato con straordinaria modestia e insieme liricità nel frammento XVII, “Il mio cuore è una pozzanghera / dove a volte un cane si disseta.” (p. 33). La voce che si fa strada nella raccolta, dunque, se propone una riflessione sul presente, lo fa attraverso se stessa, facendo appunto leva sulla dialettica sottilissima di un ethos capace di munirsi e munirci di un filo conduttore per l’approfondimento dei piani che costituiscono l’elaborazione della propria ‘dramatis persona’, sorta di Sigismondo, da La vita è sogno, che urla dalle segrete del potere che lo tiene prigioniero.
        Ed è forse rilevante individuare nel lamento che sorge da questa prigione dell’essere, cava di un incubo privato del cielo, l’aspirazione per sé e per gli altri (i morti) ad una vita se non compiuta, almeno meno mutilata, desiderio precedente ad ogni ordine o struttura.
       
La poesia di Lerro, dunque, se aspira a qualcosa, sembrerebbe farlo non già per iscrivere le proprie intenzioni nel corso delle cose, per risignificare le ragioni che dilaniano gli uomini e le loro comunità, ma per proclamare il diritto alla testimonianza e dissidenza (“Il mio corpo è l’albero di Giuda” […] la mia anima è un teologo ateo”, XVII, p. 33), per perseguire una sopravvivenza amara ma vigile, al nucleo di una irrinunciata resistenza – “Eppure respiro ancora / in questa stanza senza luce / tra la polvere e la noia” (XIII, p. 29).
         Da dentro e oltre l’orizzonte massmediatico, questa resistenza in sé riverbera il destino dell’umanità, non per vuota autoreferenzialità, ma per scambio, sinergia, solidarietà, come recita un verso semplice ed insieme eloquente della lunga sequenza di frammenti, che, sul piano strutturale, costituisce la seconda parte dell’opera, dal titolo “Il perché che non trovammo”: “Il grido di Maria ci sorprese / mentre spartivamo le focacce”, (3, p. 53).
         Infine, si potrebbe forse così riassumere il senso il movimento programmaticamente ‘frammentato’ di Senza cielo: a) una resistenza passiva al male del vivere (20, p.58), sull’esempio della dottrina Zen, b) una pietas creaturale come identificazione con l’altro, che coinvolge ogni essere vivente nello scambio affettivo-cognitivo dell’incontro occasionale, senza alcuna gerarchia di valore: “Impazzire fu la morte del cane / che mi leccava il cuore”(15, p. 56); c) l’impressione, che rimane volutamente oscura e vaga, della condivisione di una destino terreno difficilmente superabile, che appare ancora e sempre condanna penale, nella gabbia di una metropoli-prigione, affollata di relitti, e morti-vivi, che disperano, agiscono, provano odio e amore, resistono; d) una città infernale, come la Milano contraddittoria di ambiziosi entrapreneurs, da una parte, e, dall’altra, di infelici ed emarginati emigranti, città di ottundimento e sconfitta, che Lerro rende densa di riferimenti a nemici e lotte intestine, con percorsi e cicli di pena, di cui percepiamo, attraverso questa sequenza di tematiche interconnesse con lapidaria, ma non ermetica crudezza, la dissennata, tragica, irrisolvibile conflittualità di lingue, destini, credenze e miserie, tutte assorbite negli occhi, nella voce, nel sangue del poeta: “Tornando a casa, / via Padova è un fiume di occhi neri: / sui marciapiedi, negli autobus marci. / Un filo d’acqua buona / per pulirsi, specchiarsi, bere.” (25, p. 59)
Erminia Passannanti


La Certosa di Parma di Stendhal - Newton Compton Editori
Quando lessi per la prima volta questo romanzo è stato all'incirca una quarantina di anni fa; all'epoca ero uno studentello che si sentiva quasi importante per avere fra i suoi autori preferiti Henry Beyle e la Certosa di Parma aveva tutto quanto può rendere interessante la lettura a un giovane spensierato: passione, intrighi, duelli, insomma un cappa e spada in piena regola.
A distanza di così tanto tempo la rilettura è andata quasi inconsciamente a cercare un'altra visione dell'opera, perché troppo semplicemente era facile attribuirle i connotati di un romanzo d'avventura, fuori dai canoni letterari propri di Stendhal.
E allora mi sono soffermato su quelle pagine che da giovane mi avevano destato minor interesse e così ho scoperto l'autentica grandezza di quest'opera, scritta in poco più di un mese e mezzo quasi alla fine della vita del suo autore.
Stendhal non aveva affatto l'intenzione di realizzare solo un romanzo d'avventure; il suo scopo è stato ben più elevato e non a caso l'ambientazione è in uno stato assolutista quale era il Ducato di Parma. La sua è una ferma condanna alla politica, che tutto piega alla ragion di stato, tanto che mi verrebbe spontaneo dire, rifacendomi a quanto osservò Balzac, entusiasta dell'opera, La Certosa è il romanzo che avrebbe scritto il Machiavelli se fosse vissuto a quell'epoca e fosse stato messo al bando dai poteri imperanti.
Insomma, secondo me, tutti i romanzi di Stendhal, ma soprattutto questo, sono delle vere e proprie dissertazioni di amoralismo politico.
E ciò è tanto più vero se si osservano i tre personaggi principali:

Fabrizio Del Dongo
Vive come distaccato dalle azioni che compie, è un essere per certi versi più spregevole del Julien Sorel de Il rosso e il nero, perché, benché ne abbia tutte le opportunità, reputa di scarso peso occupare una nicchia ben precisa nell'umanità, al punto, anche, di essere incapace di amare.

La Sanseverina
E' una romantica pura, passionale al massimo, nel suo amore per Fabrizio che si accresce tanto più quando deve essere protettiva e allora sboccia immediata l'arguta trama politica, intesa sì come una necessità per porre rimedio ai gesti inconsulti del giovane Del Dongo, ma anche come gioco necessario per poter a pieno titolo essere parte di un mondo di sottili intrighi, di rivalità, di capovolgimenti di fronte, di alleanze tradite e riprese.
In poche parole per essere colei che conduce la politica.

Il conte Mosca
Il politico per eccellenza che si adopera per accontentare tutti senza scontentare nessuno. A suo modo è una figura simpatica e sembra di vederlo questo aristocratico cavalcare le varie fazioni con la dignità che gli è propria, ma la mancanza di rispetto per se stesso. Preciso che la personalità del Mosca è quella di una brava persona, ma che manca di ideali, tanto che, fedele servitore del Principe, finisce con il suggerire soluzioni inapplicabili, in modo che qualche cosa abbia momentaneamente a cambiare per riconfermare alla fine l'immobilismo più assoluto.
Questi tre personaggi, apparentemente diversi nel comportamento, finiscono con l'essere accomunati dalla tragicità di non credere a nulla, di vivere il loro rapporto a tre come se al mondo esistessero solo loro, in una totale mancanza di ideali a cui cercano di supplire tramite i rapporti personali, alla ricerca di una felicità impossibile in chi può far progetti e invece vive, o meglio vegeta, alla giornata.

C'è, inoltre, un quarto personaggio a cui Sthendhal guarda con la più viva simpatia, desiderando in cuor suo di potergli somigliare: Ferrante Palla, un liberale condannato a morte in contumacia, un po' vanesio, se non pazzo, e che del politico è esattamente l'opposto, con una fede incrollabile nel suo ideale, tanto da esser disposto a tutto, anche a sacrificare la vita. E' innamorato della Sanseverina, anche se sa che questo sentimento sarà senza speranze, ma è egualmente felice, perché, come crede nei suoi principi liberali, crede anche fermamente nel suo amore. Da notare che questa figura, simpatica nelle sue vesti di Robin Hood, assume toni ridicoli, quasi a diventare una parodia della libertà e della giustizia, a cui solo chi non è savio di mente può credere come realizzabili, sembra dirci Stendhal.
Renzo Montagnoli

L'autore
Stendhal, pseudonimo di Henri Beyle, nasce a Grenoble il 23 gennaio 1783 e muore a Parigi il 23 marzo 1842. Convinto sostenitore della rivoluzione, alla caduta di Napoleone assume un atteggiamento di condiscendenza con la restaurazione intervenuta, in contrasto con le sue idee, ma indispensabile per poter vivere; preferisce soggiornare lontano dalla Francia, in Italia, dove svolge l'attività di Console, di scarso interesse, ma abbastanza remunerativa per consentirgli di dedicare la maggior parte del suo tempo alla narrativa. Fra le sue opere ricordiamo Lucien Leuwen, Cronache italiane, La badessa di Castro, Dell'amore, la Certosa di Parma e la sua migliore Il rosso e il nero.
Renzo Montagnoli


Voci dall'inferno di Michael Santhers - Arcipelago Edizioni

Quasi onnipresente sul web, Michael Santhers ha pubblicato anche non pochi volumi di poesie, fra i quali, appunto, Voci dall'inferno, una raccolta in cui il suo spirito graffiante, ironico, ma anche crepuscolare, emerge prepotente con testi di amara drammaticità.
La visione del mondo è sempre improntata al più radicato pessimismo, quantunque rassegnato, come se le miserie umane fossero ineluttabili.
Eppure, nonostante una certa misoginia, frequente nelle sue opere e frutto di questa disincantata osservazione dell'umanità, Santhers sa anche essere raffinato poeta di temi amorosi, come nella sua "Piccolo fiore", un autentico gioiello per stile e invenzioni :
Piccolo fiore
E un giorno verrò sull'isola della pace
E non sarai più sola.
La morte sarà una iena
In una gabbia
E non potrà mangiarsi
Il nostro eterno abbraccio.

C'è un richiamo al romanticismo più puro, a quel sentimento così costretto dall'impossibilità di realizzarlo.

Comunque, nulla sfugge all'occhio attento del poeta e attività, situazioni, classi sociali vengono dipinte in un quadro rappresentante le loro grottesche meschinità.
Uno stile scorrevole, un linguaggio per nulla difficile da comprendere rendono facile la lettura di queste poesie, il cui contenuto, per quanto a volte opinabile, è tuttavia di notevole efficacia figurativa, così che emerge chiaro un mondo, il nostro, dove imperante è la sua progressiva decomposizione.
Renzo Montagnoli

L'autore
Michael Santhers è lo pseudonimo di Michele Salvatore, nato a Cercemaggiore il 28 ottobre 1957.
Ha pubblicato: Silenzi che hanno parlato al vento (Oceano Edizioni), Parole Fredde (Oceano Edizioni), Piccoli rumori dell'anima (Libroitaliano), Poesie Cialtrone (Oceano Edizioni), Scritture agricole e metropolitane (Oceano Edizioni), Voci dall'inferno (Arcipelago edizioni), Amori scaduti di un essere qualunque (Oceano edizioni), Una farfalla all'ombra della luna (Oceano Edizioni), E le rose piangono al tramonto (Ennepi libri), Normalità in condivisibili fra maschere clonate (Oceano edizioni), Pensieri che non dormono mai (Oceano edizioni), Quando gli alberi si rifiutano di ospitare le foglie (Oceano edizioni), Vite Contromano (Oceano Edizioni).
Renzo Montagnoli


Carte di Sardinia di Gabriel Impaglione - Editrice UNI Service

In una poesia ci può attrarre l'armonia, la dolcezza dell'esposizione, oppure anche la forza, quando questa è talmente vitale da esserci trasmessa fin dai primi versi.
Normalmente se c'è dolcezza non c'è forza, e viceversa, ed è quindi assai raro trovare l'una e l'altra fuse insieme in un sapiente equilibrio.
Gabriel Impaglione, con "Carte di Sardinia" è riuscito in questa difficilissima impresa. In questa splendida silloge, edita dalla UNI Service di Trento, troviamo così la forza dell'impegno politico e sociale e la dolce malinconia di un esule, che è riuscito a calarsi nei panni di un migrante della terra di Sardegna.
E' un canto il suo, a volte impetuoso, altre sommesso, con il quale riesce a trasmetterci le emozioni proprie di chi ha dovuto lasciare il paese natio, e con esso un angolo del suo cuore. Che questo paese si chiami Sardegna, o invece Argentina, poco cambia, perché l'uomo, il suo io, ha gli stessi sentimenti sotto ogni latitudine.
E' un peccato che il mio spagnolo sia assai limitato, perché la traduzione in italiano a fianco di ogni lirica, per quanto valida, efficace, finisce inevitabilmente per ridurre la componente armonica della lingua originale.
E allora do un consiglio: leggete prima ogni brano in italiano e poi volgete lo sguardo all'originaria versione in spagnolo. Liberi dall'interpretazione concettuale potrete apprezzare il meraviglioso equilibrio dei suoni, l'armonia diffusa che promana dai versi, in una sorta di compendio musicale di forza e dolcezza.
L'elegante e pratica veste tipografica ci agevola in questo esercizio, da cui, assicuro, si esce straordinariamente rasserenati e, quel che più conta, in uno stato di grazia del tutto particolare, come di chi sa che dalla lettura ha arricchito l'animo e la mente.
Renzo Montagnoli

L'autore
Gabriel Impaglione (BsAs.1958) poeta e giornalista argentino.
Alcune sue pubblicazioni: "Echarle pájaros al Mundo" (Ediciones Panorama, BsAs, 1994), "Breviario de Cartografía Mágica" (El Taller del Poeta, Galicia, 2002), "Poemas Quietos" (Antol. Editorial Mizares, Barcelona, 2002), "Bagdad y otros poemas" (El Taller del Poeta, Galicia, 2003), "Letrarios de Utópolis"
Renzo Montagnoli


I fiumi scendevano a oriente di Leonard Clark - Edizioni TEA

Ho letto in gioventù questo classico dell'esplorazione e l'ho riletto recentemente con immutato piacere.
In un'epoca, quale quella attuale dove si inventano miti e leggende, dove la pura fantasia viene subdolamente spacciata per realtà, il libro di Clark costituisce, invece, una rappresentazione veritiera, magari un po' romanzata e anche forse in alcuni passi amplificata, di un mondo che esiste e che la bramosia dell'uomo tende lentamente a distruggere: la grande foresta del bacino del Rio delle Amazzoni.
Sulla base di qualche notizia, con pochi mezzi, e con un solo compagno, questo grande esploratore partì alla ricerca delle Sette Città di Cibola, il luogo del mitico Eldorado, che i conquistadores spagnoli non erano mai riusciti a trovare. In un non meglio identificato luogo a oriente delle Ande peruviane, nel territorio del Gran Pajonal, occupato da giungle fitte, da corsi d'acqua imponenti, da indigeni primitivi e feroci, Clark trovò le antiche rovine, riconoscendo le tracce del favoloso regno perduto per sempre.
Al di là del risultato, di per sé pregevole, dalla lettura di questo viaggio di esplorazione emerge la figura dell'uomo, della sua costanza, della sua audacia, della sua incrollabile fede. Attraverso peripezie, fra mille pericoli, si riscopre uno spirito di avventura che la moderna tecnologia ha profondamente modificato, ci si accorge che nel cuore di Clark vibra la stessa passione che ha animato altri grandi esploratori del passato, quali Colombo, Magellano, Livingstone.
Renzo Montagnoli

L'autore
Leonard Clark , laureatosi all'Università di California, è stato uno dei più grandi esploratori del XX Secolo. Viaggiò moltissimo, soprattutto in Asia e nell'America Meridionale. Durante la seconda guerra mondiale fu il capo del sistema di spionaggio americano in Cina. Morì nel 1957, attraversando un fiume, durante un'ennesima spedizione sudamericana.
Renzo Montagnoli


Col cappello da poeta di Paolo Rodriguez - Midgard Editrice

La poesia è una delle forme espressive più complesse; infatti, non di rado, al termine della lettura di alcuni versi possiamo dire che ci sono piaciuti, ma se ci chiediamo il perché il più delle volte rimaniamo dubbiosi .
Che si fa allora? Si ritorna a leggere, a esaminare ogni parola, a congiungere le idee che ne scaturiscono fino a quando diamo una risposta alla nostra domanda.
Ecco perché non è facile leggere una poesia, comprenderne lo spirito, tranne in rari casi, dove la capacità dell'autore di trasmettere i suoi sentimenti, il suo messaggio consente di acquisire con immediatezza ciò che voleva dirci.
Col cappello da poeta, una riuscita silloge di Paolo Rodriguez, rientra fra quelle opere, poche in verità, in cui l'appagamento della lettura si accompagna alla pressoché immediata comprensione del testo.
A onor del vero non tutte le poesie di questa raccolta presentano una simile caratteristica, ma in una buona parte - si potrebbe anche definire ricorrendo a termini giuridici una maggioranza qualificata - rispondono pienamente alle aspettative già introdotte con la prima lirica "Regali natalizi".
Paolo Rodriguez osserva le sfaccettature della vita di ogni giorno, gli aspetti comuni della società non con lo spirito di un novello Savonarola, ma con una giusta dose di ironia che finisce con il togliere ogni pesantezza ai testi, lasciando inalterate quelle caratteristiche di critica bonaria, ma non banale, che rendono gradevole la lettura, senza per questo far venir meno il messaggio, nobile di intenti, che è sottinteso.
Quindi un ottimo volume per una lettura non particolarmente impegnativa che possiamo portare con noi a letto prima di dormire, ma anche su un'assolata spiaggia.
Renzo Montagnoli

L'autore
Paolo Rodriguez è nato nel 1943 a Rimini, dove anche risiede.
Dopo esperienze giovanili con la poesia l'entrata nel mondo del lavoro l'ha costretto ad accantonare questa passione, prontamente ripresa nell'anno 2000 con la collocazione a riposo.
Nel 2005 ha vinto il "Città di Perugia", oltre a risultare finalista in altri concorsi riservati alla poesia.
Renzo Montagnoli


Novelle e leggende della Capitanata, a cura di Giovanni Saitto, con illustrazioni di Primiana Nista - Edizioni Del Poggio

Ritengo indispensabile una piccola premessa, soprattutto per chi non conoscesse dove si trova la Capitanata: è una regione storica della Puglia, corrispondente, all'incirca, all'antica Daunia e all'odierna provincia di Foggia.
Detto questo, passo all'esame del testo.
Ci sono libri specializzati per viaggiatori, dove si consigliano itinerari, si evidenziano particolarità paesaggistiche e artistiche dei luoghi, si indicano alberghi e ristoranti; e poi ci sono libri che parlano di etnie locali, di modi di vita, di tradizioni delle genti di certi posti.
L'antologia oggetto della presente non rientra esattamente in nessuna delle due succitate tipologie, pur presentandone alcuni caratteri.
Infatti, inizia con un'esauriente relazione sul Gargano, intitolata appunto dall'autore Giuseppe D'Addetta "La montagna del sole - Itinerari garganici"; in questo tende ad assomigliare a un libro di viaggi, però con una distinzione del tutto particolare: le pagine parlano sì di mete, di percorsi, ma non a uso di un veloce visitatore, ma come compendio, con note emozionali, delle bellezze paesaggistiche e architettoniche del promontorio del Gargano. Si scende in particolari che a prima vista sembrano di poco conto, ma che nell'insieme vengono a formare un quadro di rara efficacia di questa splendida zona. E' giusto che si sappia che lo scrivente di questa recensione conosce piuttosto bene la questa parte della provincia foggiana, meta di alcuni suoi viaggi; ebbene, l'impressione che ne ho ritratto leggendo queste pagine è di aver riscoperto qualche cosa che credevo di conoscere.
La relazione finisce poi con il diventare quasi l'elemento propedeutico essenziale per la seconda parte del volume, quella dedicata alle novelle e leggende della Capitanata, raccolte amorevolmente da Giovanni Saitto.
Si tratta di narrazioni, spesso orali, tramandate da generazione in generazione, e che assurgono alla dignità di storia delle genti di quei posti.
Alcune sono semplici, quasi ingenue, perlomeno ai nostri occhi smaliziati, ma hanno tutto il sapore delle cose antiche, di quei racconti che ascoltavamo dalla bocca della nonna. E per ognuna c'è un'illustrazione perfettamente in sintonia con l'argomento, realizzata con mano sicura da Primiana Nista.
E' un volume abbastanza corposo (233 pagine), ma si legge bene, immergendosi con gradualità nella suggestiva atmosfera di un luogo spesso visto solo con gli occhi del turista frettoloso.
Da rilevare che queste memorie, affinché non vadano disperse, sono state anche oggetto di stampa di un volumetto, con lo stesso titolo, ma più ridotto di pagine e senza la parte introduttiva di cui ho accennato; destinatarie di questo lavoro sono le scuole, principalmente quelle locali.
Se interessa, può essere ordinato direttamente alla Casa Editrice "Edizioni Del Poggio", tramite il suo sito internet www.edizionidelpoggio.it.
Renzo Montagnoli

L'autore coordinatore
Giovanni Saitto è nato il 31 agosto 1960 a Poggio Imperiale, dove anche vive. Di professione consulente editoriale si interessa di storia, soprattutto locale, e ha pubblicato "Poggio Imperiale. Cento anni della sua storia: dalle origini all'unità d'Italia", "Fatti e briganti della nostra terra", "I giorni del plebiscito a Poggio Imperiale", "Poggio Imperiale. Storia, usi e costumi di un paese della Capitanata"; per le Edizioni del Poggio ha curato anche "Memorie di un soldato" , "Su l'altare di Sciara Sciat", "Poggio Imperiale nel 900" e "Dal Sannio alla Capitanata".
Renzo Montagnoli

L'illustratrice
Primiana Nista è nata a Lesina il 14 maggio 1963. Stimata artista, appassionata di storia locale e di storia dell'arte, ha tenuto con successo diverse personali e alcune sue opere sono esposte a Roma, Ancona, Torino e Milano.
Renzo Montagnoli


L'armadio della vergogna di Franco Giustolisi - Edizioni Nutrimenti

Fra il 1943 e il 1945 decine di migliaia di civili furono vittime di stragi orrende compiute dai nazisti e dai fascisti in tutta l'Italia. Nei mesi che seguirono la Liberazione furono individuati molti dei colpevoli e a loro carico si aprirono procedimenti penali. Dal 1947, però, ignoti hanno messo tutto a tacere, rinchiudendo in un armadio della Procura generale militare ben 695 fascicoli; e non fu una dimenticanza, ma un atto voluto. Dal 1994 la Procura ha riaperto i processi a carico degli ormai pochi superstiti..
Franco Giustolisi, che ha portato alla luce l'esistenza di questo armadio della vergogna, tratteggia nel volume in modo inequivocabile l'intera vicenda dell'insabbiamento delle prove e ricostruisce, sulla base dei documenti e delle indagini a suo tempo esperite, quelle stragi, infami per efferatezza e crudeltà.
Sarà compito di una commissione parlamentare d'inchiesta stabilire i colpevoli di questa criminale decisione di lasciare impuniti i crimini di guerra. Già si sa che le cause della manovra di insabbiamento furono essenzialmente politiche, il che lascia ben poche speranze di una esemplare condanna dei responsabili.
Questo comportamento, dettato anche dalla ragion di stato, ha fatto sì che le vittime dei crimini fossero state in pratica due volte colpite: una dalla ferocia dei loro assassini, un'altra dalla volontà di coprire i loro carnefici.
E' un libro che dovrebbe essere diffuso anche nelle scuole, affinché i giovani sappiano dell'orrore che ha caratterizzato la storia del nostro paese negli ultimi anni di guerra e che traggano le dovute considerazioni dal comportamento di una certa classe politica che ha cercato di nascondere la verità alla giustizia per così tanti anni.
Renzo Montagnoli

L'autore
Franco Giustolisi, giornalista, è inviato speciale dal 1960: ha lavorato per Paese Sera, Il Giorno, la Rai (Tv Sette) e attualmente scrive per L'Espresso. Ha scritto con Pier Vittorio Buffa, Al di là di quelle mura (Rizzoli, 1984) e con Pier Vittorio Buffa e Alberto Franceschini, Mara, Renato e io. Storia dei fondatori delle BR (Mondadori, 1988). Nel 2003 ha partecipato al volume collettivo Tra storia e memoria. 12 agosto 1944: la strage di Sant'Anna di Stazzema, edito da Carocci. Dal 1996 conduce la sua battaglia per far luce sull'Armadio della vergogna. In questi anni è stato uno dei più attivi promotori delle diverse iniziative a favore della costituzione della Commissione parlamentare d'inchiesta sulle stragi nazifasciste. Per questo motivo, il 12 dicembre del 2001 gli è stata conferita la cittadinanza onoraria di Stazzema.
Renzo Montagnoli


Sudditi. Manifesto contro la democrazia di Massimo Fini - Edizioni Marsilio

Ho letto e riletto più volte questo interessante saggio di Massimo Fini, autore a cui certo si deve riconoscere la capacità di analisi acuta di qualsiasi argomento, soprattutto di quelli che appaiono dei miti, o comunque dei dogmi inconfutabili.
E' indubbio che sia stato scritto quale risposta seria e concreta alle pretese di chi nel nome della "democrazia" vuole imporla con ogni mezzo, anche con la forza bruta, e il riferimento al conflitto iracheno non è per nulla casuale.
E' un'analisi spietata, non tanto da un punto di vista dell'ideologia politica, ma della logica filosofica.
Quante apparenti certezze verranno a cadere dopo la lettura di questo volumetto (147 pagine)! Quante inevitabili domande ci dovremo porre nel momento in cui ci renderemo conto che la logica esauriente di Fini ci farà apparire la democrazia come un regime di oligarchie politiche ed economiche, e anche criminali.
Però, confessiamolo, che in cuor nostro abbiamo sempre dubitato della valenza di questo sistema; questo saggio non ha fatto altro che riunire i molti dubbi, confrontarli, amalgamarli e il risultato è inequivocabile. Se per la nostra cultura la democrazia è il migliore dei sistemi possibili, per Massimo Fini, ma anche per noi, finisce con il ridursi al meno peggio dei sistemi possibili.
Renzo Montagnoli

L'autore
Massimo Fini, di padre toscano e di madre russa, nasce sul lago di Como il 19/11/1943. Dopo la laurea in giurisprudenza e diversi lavori minori approda nel 1970 al giornalismo, dapprima all'"Avanti", poi al "Giorno". Attualmente lavora per il "Giorno", "Il Gazzettino", "La Nazione" e "Il Resto del Carlino".
Ha pubblicato: 'La Ragione aveva Torto?' (Camunia 1985, ripubblicato da Marsilio in edizione tascabile nel 2004); 'Elogio della guerra' (Mondadori 1989 e Marsilio 1999); 'Il Conformista' (Mondadori 1990); 'Nerone, 2000 anni di calunnie' (Mondadori 1993); 'Catilina, ritratto di un uomo in rivolta' (Mondadori 1996); 'Il denaro, "sterco del demonio"' (Marsilio 1998); "Dizionario erotico, manuale contro la donna a favore della femmina", (Marsilio 2000); " Nietzsche, L'apolide dell'esistenza" (Marsilio 2002), "Il vizio oscuro dell'Occidente" (Marsilio 2003) ; "Sudditi" (Marsilio 2004); "Il ribelle dalla A alla Z" (Marsilio 2006).
Renzo Montagnoli


La vampa d'agosto di Andrea Camilleri - Sellerio editore Palermo

Di tutti gli episodi che vedono protagonista il commissario Salvo Montalbano questo, ultimo come pubblicazione, è a mio avviso il migliore.
Si ritrova, infatti, quella verve dialettica e anche creativa che era venuta un po' a mancare ne "La luna di carta".
Soprattutto quello che colpisce, al di là della trama, misteriosa e interessante, è la capacità di Camilleri di dipingere con acuta bonomia i protagonisti, ora non più in ombra rispetto alla figura del celebre commissario, ma essi stessi dotati di propria forza autonoma che li rende spalle ineguagliabili di un Salvo Montalbano in lotta fra l'incipiente vecchiaia e morbosi desideri di carattere sessuale.
I lettori, comunque, non hanno di che preoccuparsi, perché il declino fisico non impedirà di certo la nascita di successivi episodi e anche se Camilleri ha raccontato in un'intervista di aver già scritto quello con la fine della sua creatura resta ferma la convinzione che potremo ancora goderci delle nuove avventure.
Questa volta tutto è in perfetto equilibrio, con l'inizio divertente, lo svolgimento successivo scorrevole e appagante, la logica conclusione, prevedibile solo nelle ultime battute.
Ne La vampa d'agosto l'unico difetto, forse, di una trama ben congegnata è proprio la fine, troppo veloce e che lascia un po' spiazzati, ma forse è solo il dispiacere di non poter continuare una così gradevole lettura.
Renzo Montagnoli

L'autore
Andrea Camilleri è nato a Porto Empedocle (Agrigento) il 6 settembre 1925. Ha iniziato a lavorare come regista teatrale nel 1942, mettendo in scena, da allora, più di cento opere. Ha esordito come romanziere nel 1978 con "Il corso delle cose", primo dei romanzi storici (La strage dimenticata, Il birraio di Preston, La connessione del telefono, per ricordarne solo alcuni). La fortunata serie che ha come protagonista il commissario Montalbano vede i natali assai più tardi, nel 1994, con "La forma dell'acqua".
Renzo Montagnoli


La luna di carta di Andrea Camilleri - Sellerio editore Palermo

Il tempo passa per tutti, anche per l'inossidabile, in apparenza, commissario Salvo Montalbano. Infatti, nel penultimo episodio della fortunata serie pubblicato da Sellerio, assistiamo a un invecchiamento più psicologico che fisico del simpatico investigatore che, quando la sveglia il mattino gli interrompe il sonno, nell'attesa di decidersi a lasciare il letto corre sistematicamente con il pensiero alla morte.
La stranezza è che, se per lui ci sono altri segni dell'incipiente senilità, per tutti gli altri personaggi di contorno (Catarella, Fazio, Mimì Augello) il tempo sembra invece essersi fermato, quasi a voler significare che l'identificazione autore-protagonista ormai è diventata talmente accentuata che sempre più prevale su Montalbano Andrea Camilleri. E così, mentre tutto il resto non cambia, quasi cristallizzato, inevitabile è il declino del personaggio principale, qui alle prese con due donne affascinanti, ma pericolose.
L'invecchiamento di Montalbano non è l'unica peculiarità di questo episodio, perché il giallo assume i contorni sottili, spesso sfumati propri delle opere della grande Agata Christie; quindi nessun colpo di scena eclatante, ma un lavoro di investigazione meticoloso e quasi oscuro che porterà a scoprire la verità in ordine a un misterioso delitto.
Un altro elemento di novità è dato dalla relazione incestuosa fra fratello e sorella, argomento difficile a trattarsi, ma ben affrontato, con il dovuto tatto, da Camilleri. Nei precedenti episodi richiami di ordine sessuale costituivano un corollario della vicenda, mentre in questo ne sono il tessuto strutturale, finendo con il diventare un limite. In questo senso l'autore sembra avere appannata la creatività della trama, ricorrendo in fin dei conti a un intreccio abbastanza scontato. Resta comunque sempre di elevato livello la capacità di creare atmosfere e ambienti, arrivando a delineare un quadro d'insieme non avulso dalla realtà, ma specchio impietoso della situazione odierna non solo della Sicilia, ma dell'intera nazione.
Renzo Montagnoli

L'autore
Andrea Camilleri è nato a Porto Empedocle (Agrigento) il 6 settembre 1925. Ha iniziato a lavorare come regista teatrale nel 1942, mettendo in scena, da allora, più di cento opere. Ha esordito come romanziere nel 1978 con "Il corso delle cose", primo dei romanzi storici (La strage dimenticata, Il birraio di Preston, La connessione del telefono, per ricordarne solo alcuni). La fortunata serie che ha come protagonista il commissario Montalbano vede i natali assai più tardi, nel 1994, con "La forma dell'acqua".
Renzo Montagnoli


Le parole per te di AA.VV. a cura di Monica Schiaffini e Giuseppe Bianco Giulio Perrone editore

“La poesia è un momento di raccoglimento personale in cui il poeta riesce ad eternizzare un ricordo, una sensazione, un’emozione… solo così la gioia, il dolore, l’amore, la solitudine, la rabbia, la confusione vivranno per sempre fra quelle righe d’inchiostro”. Così definisce il genere Monica Schiaffini, curatrice dell’antologia poetica Le parole per te (Giulio Perrone Editore) insieme a Giuseppe Bianco, ideatore dell’opera e organizzatore del Premio letterario Città di Caivano.
Oggigiorno il canale di diffusione più promettente per la poesia è senza dubbio la rete, dove fioriscono numerose iniziative per promuovere questa forma d’arte. Proprio grazie all’attività di catalizzatore svolta da siti letterari come Le parole per te (www.leparoleperte.it), gestito dallo stesso Giuseppe Bianco, ha reso possibile la realizzazione di quest’opera che raccoglie ben 80 poesie di altrettanti autori.
I criteri di selezione degli autori tengono conto del fatto che… “non esistono poesie belle o brutte, come non ci sono poeti più o meno qualificati per ricoprire tale posizione”. Sono state quindi selezionate e raccolte le poesie giudicate migliori per ciascun autore, basando la valutazione non sull’aspetto formale ma sulle sensazioni che emergono dalla lettura dei componimenti.
I temi trattati dalle poesie sono molto vari; se la poesia è davvero lo specchio dell’anima, allora ci troviamo di fronte ad una emozionante marea di stati d’animo. Tra i primi senza dubbio l’amore, come nella poesia Ultimo saluto della stessa Monica Schiaffini, la solitudine come l’omonima poesia di Angelo Cocozza, o il ricordo come in Amico fiume di Gerardo Rosci. Inoltre vengono trattati anche temi attuali come l’inconsistenza di un mondo virtuale come Internet nella poesia Il paese delle meraviglie di Antonio Balistreri, i mortali effetti di un’overdose in Cocaina di Gennaro Chierchia, e la sorte di chi vive all’ombra di un’orribile guerra in Il soldato di Baghdad di Marianna Scagliola.
Il libro inoltre è già stato presentato con successo al Maschio Angioino di Napoli, sabato 25 febbraio, nella Sala della Loggia. La presentazione, a cura della compagnia letteraria Homo Scrivens (www.homoscrivens.it), per la regia di Tiziana Brondi, le musiche ed i suoni di Leonardo Amendola (autore anche delle opere presenti nella sala) e Luigi Lucci, ha previsto la lettura e la rappresentazione di alcune delle poesie più significative. Presenti all’evento, oltre ai curatori dell’opera e ad alcuni degli autori, anche l’editore Giulio Perrone, che ha espresso il suo favore verso un’opera come questa antologia, dove può rivivere il valore della poesia.
Raffaele Galasso


Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pier Paolo Pasolini

Mi hai sedotto Dio, e io mi sono lasciato sedurre mi hai violentato e prevalso, Sono divenuto oggetto di scherno ogni giorno, ognuna si fa beffe di me....
Si, io sentivo la calunnia di molti, " Terrore all'intorno, Denunciatelo e lo denunceremo" Tutti i miei amici spiavano la mia caduta << Forse si lascerà sedurre e così noi prevarremo su di lui e ci prenderemo la nostra vendetta su di lui>> Geremia cap 20, vv.7 e 10.

Sono mesi che ormai visito periodicamente questo sito su pasolini per approfondire la conoscenza di Pasolini, che io considero non uno dei più grandi autori del '900 italiano, ma a ragion veduta il più grande autore del '900 in assoluto per mole di opere, genialità ed eclettismo, versatilità.
Credo che di geni come Pasolini ne nascano uno ogni qualche secolo e che alla fine anche i più grandi da vivi, come Elsa Morante, Montale, Moravia e Calvino abbiano sicuramente riconosciuto in Pier Paolo qualcosa di profetico di sicuramente più elevato, sublime.
Ora io non capisco come sia possibile che debba faticare così tanto a trovare tutti i suoi film, capisco, sono nato in quella che lui chiamava la città di Dio dove di certo ha seminato tanto amore da trovarsi sommerso dai nemici che se solo pensando alla macchina Vaticana sono molti e molto in alto. Ma insomma nel 2006 a Roma risulta impossibile rimediare i dvd di Pasolini, inoltre quei pochi son restaurati da Mediaset, sembra quasi un tranello...in "la Guinea" recitava infatti così "Io muoio e anche questo mi nuoce, insomma perseguitato processato come un vero profeta degli ultimi tempi anche la morte ha cercato di gettare fango su di lui.
Ma io son convinto che nel 2864 verrà studiato e tenuto sul palmo della mano culturale al pari di Dante e Michelangelo poiché questo è ciò che si merita, speriamo che la Chiesa non lo faccia santo per il suo martirio altrimenti finirebbe per appropriarsi anche di Caravaggio e Giordano Bruno e ciò sarebbe la fine di ogni speranza. Io lo amo in quanto eretico infatti, anzi oso dire che ogni profeta della storia a suo modo è stato e sempre sarà u frutto dell'eresia empirica.
Io sono uno studente di geologia ma sono appassionato di letteratura scrivo poeto e dipingo e ciò lo devo principalmente alla scoperta di quello che io oserei chiamare il vangelo pasoliniano ossia tutta la sua opera completa...grazie a Pasolini (Descrizioni di descrizioni) ho conosciuto anche l'opera di Dostoevskij che non è da meno!
Ora ho letto alcune lettere e mail che non mi sembrano dare il giusto contributo al Nostro e soprattutto quelle riguardanti il suo ultimo film Salo' che è un'opera così astutamente storica e allo stesso tempo proiettata visionariamente nel futuro che credo sia drammaticamente chiara e limpida più per noi della generazione ( io sono del '78) che lui definirebbe antropologicamente mutata, se non addirittura geneticamente ormai.
Ora,le mie parole potranno sembrarti dure, forse la lettura di ciò che sto per scriverti potrà darti un pugno nello stomaco come lo è tuttavia la visione del film stesso, ma ciò io lo devo, a lui alla sua memoria storica, anzi a futura memoria sperando davvero che ciò possa contribuire a leggere più chiaramente questo film che credo (forse ho la presunzione) di aver capito meglio di chiunque altro.
Ho qui una foto di Pasolini regista, l'ho ritratta in carboncino e ho sotto scritto, UMBRA PROFUNDA SUMUS, perché appunto l'opera di Pasolini va inquadrata nella filosofia Bruniana o addirittura Nietzcshiana oltre che marxista e va dipinta come una tela di Caravaggio: appunto tra contrasti karamazoviani tra tenebre e luci.
Innanzitutto bisognerebbe sottolineare che l'omosessualità (lo credo da eterossessuale io) in un uomo o in una donna possano essere varianti (e non deviazioni) naturali, ma nel caso di Pasolini si tratta al pari della grande poetessa Saffo di un segno potente di una (io oserei chiamare) completezza divina, ossia come nel caso dell'epilessia di Dostoevskij oserei chiamare l'esser posseduti dall'energia divina che è appunto maschio-femmina in quanto unità, e ciò mi rincresce ammetterlo ma ciò che oggi vien chiamato malattia ai tempi degli antichi greci era considerata l'iniziazione ai misteri eleusini, proprio l'epilessia e l'omosessualità eran considerati mali-sacri.
Ora se è il signor Rossi a possederli non credo sia di grande aiuto ma bisogna riflettere profondamente sul perché l'epilessia di Dostoevskij o l'omosessualità di Pasolini abbiano avuto la capacità e la profondità di infondere a due artisti la capacità di esser profeti in un campo laico che è appunto quello della letteratura.
Questo è un lento ritorno agli antichi greci e addirittura a ciò che è presocratico ossia non razionale.
Pasolini, le sue guance e il suo sguardo hanno un tratto potentissimo che è quello della bellezza dionisiaca, ossia di ciò che "squarcia il velo" ruba a Giove la fiamma del sapere e si ribella: cos'ha di squarciato la sagoma e il corpo e l'anima di Pasolini? Semplicemente questo che sarcasticamente potremmo definire il "crimine della conoscenza" e ciò sebbene apra a noi gli abissi dell'inferno e del paradiso bisogna aver il coraggio di riconoscerlo: Pasolini è un poeta sacro, sottolineo sacro è un uomo che ha lasciato il suo frutto come Gesù annunciava dei suoi futuri "eletti": dai frutti voi li riconoscerete...ebbene come non riconoscerlo!
Vengo al dunque:
Il film Salò o le 120 giornate di Sodoma è un film profetico, visionario per questo non è ancora del tutto compreso, io non so come sia possibile ma Pasolini con sagacia artistica ha dipinto il futuro delle nostre società ancora più dettagliatamente e incisivamente di quanto non lo abbia fatto Orwell con il suo classico 1984.
Tieniti pronta, perché quello che ti dirò sarà difficile accettarlo, urterà inevitabilmente le sovrastrutture cattolico-borghesi di cui tutti, tutto sommato essendo italiani, siamo imbevuti.
Eccola mia analisi del film:
Il film inizia con un'inquadratura crepuscolare dei quattro potenti che sottoscrivono e autorizzano con tanto di timbro ufficiale i Regolamenti che non sono nient'altro che le regole di vita che domineranno il mondo, l'era della Civiltà dei consumi che Pasolini additava come grande Neofascismo e inquadrava proprio nella prospettiva della borghesizzazione totale del mondo civile, ora questo mondo civile è un mondo che Pasolini con Teorema aveva già inquadrato apocalitticamente con la visione sua propria di una borghesia che non si presenta più in quanto classe dominante ma in quanto tumore cancro sociale, da estirpare, come da lui stesso affermato in Scritti Corsari ed Empirismo Eretico.
La civiltà dei consumi, il genocidio totale, mutazione antropologica sono le tre caratteristiche principali che si confanno alla grande era dell'Edonè decadente di cui siamo tutti compartecipi e coinvolti, è un 'epoca (la nostra) prossima ad una fine proprio come lo era quella descritta da De Sade nei suoi romanzi che si deliziano di perversioni erotiche.
Ora questo quattro potenti chi sono? Sono simbolicamente il Potere vaticano ed ecclesiastico (Monsignore), il potere politico e affaristico e quindi oramai imprenditoriale-mafioso (Presidente) il potere giuridico (Magistrato) e il potere delle nobiltà e delle aristocrazie occulte come i massoni e le cerchie che praticano ancora l'esoterismo (Sua Eccellenza).
Insomma questi quattro potenti sono i quattro luoghi allegorici e simbolici che domineranno l'Era Neofascista dei Consumi (si potrebbe fare un parallelismo enorme e azzeccatissimo traquesto film e il suo ultimo romanzo incompiuto Petrolio e quindi caso Mattei, Eni, Imperialismo americano mafia) e il libro dei "Regolamenti" sancisce le regole che sono appunto estreme, infatti il Monsignore esclama "tutto è bono quando è eccessivo"..Pasolini vuole condannare fin dall'inizio una volontà perversa nell'esagerare nel portare al limite la condizione degli esseri umani, ciò è voluto dall'alto, dalle menti potenti, gli stessi di cui quando scriveva "Io so ma non ho le prove" non poteva fare nomi e cognomi pur sapendo, e pertanto ricorre alle figure simboliche, le quattro suddette.
Il film inizia quindi la sua parte attiva proprio come un Divina Commedia (anzi tragedia) partendo dall'Antinferno, ossia ragazzi e ragazze figli di paesani, contadini, gente comune o famiglie sovversive vengono deportati, rubati alla loro vita per soddisfare i piaceri di questi quattro potenti.
Questi uomini e donne deportati anche loro simbolicamente rappresentano un testimonianza storica di quello che avvenne ai ragazzi e alla repubblica di Salò nella declinazione finale del potere fascista, nella fase di declino e collasso, alla ritirata perdente di Mussolini ma allo stesso tempo è un modi per fare capire bene DOVE, GEOGRAFICAMENTE E SIMBOLICAMENTE IL FASCISMO E' SOPRAVVISSUTO E QUINDI DA DOVE E' RIPARTITO E I RAGAZZI E LE RAGAZZE RAPITI/E SIAMO DUNQUE SIMBOLICAMENTE NOI DI QUESTA GENERAZIONE POST-FACSISTA STORICA E NELLA CONTINUAZIONE CLERICO FASCISTA APPORTATA DALLA DEMOCRAZIA CRISTIANA E ORA DALLA CASA DELLE LIBERTA', INUTILE SOTTOLINEARE CHE MOLTI EREDEI DI SALO' SONO STATI E SONO ANCORA AL GOVERNO.
Per quello che mi riguarda i quattro potenti potrebbero esser tranquillamente Andreotti (Presidente) Ruini (Monsignore) Castelli (come "capo" della giustizia) e Licio Gelli (Sua eccellenza)..ma insomma vado a fantasia ognuno ci metta quello che vuole..tantomper dare un connotato realistico.
Non scordiamoci che parallelamente in quel periodo in Petrolio Pasolini parlava di un potente borghese settentrionale che aveva in mente di reinstaurare un nuovo regime autoritario di destra e fascista in tutta Italia, questo bravo uomo collegato poi alla mafia (magari attraveso uno stalliere) potrebbe essere tranquillamente Berlsuconi, e anche qui Pasolini ha letteralmente e metaforicamente profetato.
Poi vi è la Selezione: la selezione non è nient'altro che la scelta dei migliori dei più belli/e da destinare al massacro delle perversioni dei potenti, solo i migliori vengono selezionati quasi umoristicamente a sottolineare che ormai nascere belli è una condanna (Ricordiamo il suo articolo del 74 "Siamo belli dunque deturpiamoci") e in più vengono selezionati attraverso lo una scelta liberamente democratica, quella del voto referendario, quasi che Pasolini volesse prendersi burla di questa falsissima democrazia in cui siamo vissuti.
La scelta riguarda meticolosamente i peni, i deretani, le vagine e il seno di questi poveri destinati al macello..anche qui ricordiamoci gli articoli di Pasolini in Lettere Luterane in cui sembra ormai essere disgustato anche dall'estetica dei peni e delle vagine dei ragazzi moderni, come se non ci fosse più naturalezza e bellezza, ma solo torpore e lacerazione e qui non vuole essere il solito fervente anticattolico che scandalizza parlando di Chiesa Peni e Vagine, ma vuole appunto condannare l'eccesso dell'Edonè materialistico, ciò è facilmente riscontrabile facendosi una panoramica del mondo della pornografia e del sesso sulla rete internet. Volti di donna ricoperti di sperma, orge, corpi tatuati e molteplici cazzi che distruggono le donne e la femminilità del mondo...il mondo intero si andando in frantumi ci siamo mangiati il femminile, natura compresa.
Io mi chiedo che mondo stiamo lasciando in mano ai bambini, io stesso ormai non avrei il coraggio di diventare padre e quindi autore cosciente e forzatamente eludente questi crimini della Epoca moderna. Arancia Meccanica sembra una favola della Disney al confronto.
Dunque la selzione siamo noi, la nostra generazione antropologicamente mutata, "loro" hanno deciso attraverso i mass-media, il mondo della moda, dei vestiti, delle icone da superstar della musica e del cinema come dobbiamo vestirci, pettinarci, tatuarci, raderci la vegine e i peni o addirittura costellare i corpi di piercing anche nei luoghi più inusuali, come clitoridi e capezzoli, ciò a cui visivamente Pasolini non ha assistito rappresenta ciò che lui stesso però definiva infuturandosi nell'immagine della fine della storia e dell'uomo Neoprimitiva a cui lui assisteva per privilegio di anagrafe...una sorta di neonazismo psicologico occulto che si insidiava subdolamente e subliminalmente nelle nostre coscienze: ecco, questa rivoluzione nascosta sotto i pantaloni le gonne e le maschere umane del vivere quotidiani è completamente riuscita ai poteri, non dobbiamo rendere di ciò omaggio a Pasolini che in realtà è l'ultimo autore di una visione sana e classica dell'Eros e della nudità e un autentico disprezzatore delle vera e volgare pornografia.
Questa pornografia è ormai il mondo totale, lo dico parlando della mia generazione, si penso solo che Pasolini aveva in mente il suo prossimo film prima che gli venisse tappata la bocca come al corvo di Uccellacci e Uccellini, appunto PORNOTEOKOLOSSAL, che io credo sarebbe stato come al solito un capolavoro oltretutto in linea e anticipante le tematiche trattate da Kubrick in Eyes Wide Shut. Le immagini più salienti son qui quella della ragazza bruna che viene eliminata per avere un' agenesia dentale e quella degli occhi eccitati dei potenti che si meravigliano estasiati della fanciulla bionda che cade in lacrime per aver perso la madre in battaglia, qui Pasolini vuole sottolineare che i Potenti godono, letteralmente godono nel vedere soffrire una donna e ciò aumenta la sua portata li dove Sua eccellenza costringerà a mangiare le feci alla stessa fanciulla urlando "Mangia Mangia" ed esclamando che la sua reticenza e la sua sofferenza aumentano ancora di più il suo godimento.
La pornografia è la vera pedogaga di queste nuove generazioni, e la pornografia è questita da questi quattro potenti, poco tempo fa ho letto sul sito di Beppe Grillo che la maggior parte dei siti porno sulla rete sono gestiti da corporazioni americane legate alle chiese e alle associazioni di stampo spiritualistico moderno, Opus Dei, Scientology etc..
La pornografia insegna a noi come portare le sopracciglia come radersi, come farsi i muscoli, come spogliare il nostro corpo di peli e ricoprirlo di tatuaggi in tutte le parti del corpo, questa sorta di feticismo estetico è come stuprare la Natura, di ciò ne sono vittime tutti e come al solito le donne in maggior risalto per ragioni prettamente storiche legate al sempiterno patriarcato maschilista.
Per sottolineare la poesia visiva di Pasolini ( in questo film tragica, apocalittica) bisogna evidenziare come il patto tra potenti sia rinsaldato da una logica incestuosa che promette una salda alleanza tra "le parti", "le partizioni" in cui è diviso il potere. I potenti si sposano reciprocamente con le figlie del potente limitrofe, quasi a certificare una visione mafiosa di autoperpetuazione del privilegio dei poteri: lo sputo in faccia ordinato ai commilitoni è la rappresentazione visiva della del disprezzo della donna e ancora più dell'umiliazione del "femmineo, femminile" in tutte le società.
Le regole di vita dentro al palazzo del potere e delle orge che simbolicamente rappresentano il mondo odierno sono sorrette dalla compiacenza delle Puttane di Alto Borgo (più una musicista che deve accompagnare il tutto con la più falsa e smorta delle colonne sonore borghesi, e in ciò vi è un'altra similitudine con Kubrick nella scelta di celebrare quasi festosamente ma con retrogusto squallido gli ambienti e le tradizioni di vita borghesi.
Appunto le regole sono la sodomia l'incesto le orge e ogni genere di lascivia e in più ogni atteggiamento di tipo religioso verrà punti con la morte, e in ciò vi è il massimo l'apoteosi di una visione apocalittica della società...tutto ciò rappresenta il nostro mondo e come viene vissuta la sessualità dai giovani e dalla nuova medioborghesia, lo ripeto basta fare un giro si internet o per le strade malfamate delle nuove metropoli italiane e ci si renderà conto che Pasolini anche qui è stato poeticamente prefigurativo.
Girone delle manie, ogni racconto è prefigurativo di nuove fantasie erotiche che verranno soddisfatte dai potenti sulle vittime.
A tavole si è costretti a mangiare la merda come a dimostrare che i potenti avrebbero costretto l'umanità intera a mangiare cibi scadenti pur di soddisfare l'ansia consumistica di aquietare l'appetito di un mondo sovrappopolato.
Notare come l'umorismo dei potenti e delle prostitute è sempre graziosamente borghese e squallidamente in realtà antiumoristico.
Il Matrimonio diventa una concessione(una falsa tolleranza) borghese fatta dai potenti ai singoli uomini come pretesto per trasgredire le regole delle monogamia, infatti Sua Eccellenza parte toccando baciando uomini e donne convitati, come a dire questi corpi di ragazzi e ragazze sono tutti "miei" comprese queste troie, Pasolini qui è di una lungimiranza e di una potenza psicologica penetrativa assolutamente ineguagliata da qualunque altro artista: il mondo è obbligato a partecipare alle nozze non spontanee ma decise dai potenti e una volta avvenuto il rito di unione tutti vengono sbattuti fuori violentemente, e i quattro potenti rimangono da solidi fronte agli sposi nudi e indifesi, sembrano come Adamo ed Eva (non è un caso che un personaggio del film si chiami Eva) al fonrte dei quattro potenti, vengono obbligati a fare l'amore davanti a loro, come a dire che non vi è più rispetto ne possibilità del pudore e della privacy che dovrebbero contraddistinguere un rapporto sessuale tra due amanti.."dai imbecille datti da fare".e dopo l'esitazione iniziale quelli riescono ad iniziare a far l'amore ma ecco che subito i Potenti si precipitano su di essi esclamando "No, questo fiore appartiene a noi!" come a dire che ormai l'amore non è più consentito poiché è divenuta proprietà privata, merce dei potenti e ciò si esplicita nell'atto successivo di uno stupro e di una sodomizzazione tra potenti "il gesto sodomitico è infatti quello che più si avvicinaalla morte in quanto infrange, corrompe le norme sociali in realtà per accettarle".
Infatti questo fiore spetta a noi perché deve essere di nostra proprietà visiva per l'ecciatzione erotica, appunto equivale allo schermo in cui sto scrivendo e da cui si sta leggendo, è proprio l'occhio artificiale del grande fratello a fare da spartiacque tra mondo delle vittime e mondo dei carnefici, basta masturbarsi davanti alla pornografia e si diventa carnefici, come andando puttane per strada e come imponendo a donne e uomini il modo per cui essere sessualmente desiderabili, magari con una vagina completamente depilata, questo è GENOCIDIO.esteticamente abbinabile alle moderne periferie malamente urbanizzate e architettate. Inciò si potrebbe fare un gran parallelo con il film The Wall dei Pink Floyd.
Gli uomini cani sono la parabola degli uomini sottomessi ai potenti, tenuti al guinzaglio senza più alcuna possibilità di libertà, mi viene da pensare alle torture inferte ai prigionieri di Abu Grahib o a Guantanamo dai potentati militaristici americani.
Il Gusto di uccidere con una polenta piena di spille, il gusto di frustare perché ci si è sottratti al dovere..è un gusto tutto sadico da preti suore, il Monsignore esclama infatti "sapete dove siamo diretti da un desiderio insoddisfatto" Pasolini vuole condannare la morale cattolico puritana sessuofobica che porta inevitabilmente a perversione.
La repressione genera inevitabilmente perversione e degenerazione. Di ciò ne sono autori e corresponsabili tutti i cattolici-borghesi, ossia tutta una parte di cui è intrisa e impregnata la società italiana.
Pasolini ha la sensibilità di notare nell'enfasi della liberalizzazione delle pratiche sessuali una sorta di esplosione orgiastica che è tutt'altro che naturale in una visione sana e sacra dell'Eros quale egli possedeva.
Un'orgia che porta gli uomini al limite, oltre il quale si apre il vuoto più totale, la consapevolezza della mancanza dell'impossibilità dell'amore.
Erich Fromm direbbe di noi che siamo l'estasi dell'avere, ma non più la possibilità dell'essere.
Girone della merda quindi, merda in quanto prodotto del potere (Petrolio) in cui sono affogati stuprati e deturpati tutti i giovani e le giovani di questa generazione, il mondo, le orge, la pornografia, e la prostituzione di corpi senza più anima sono una panoramica sulla fine del mondo, di questa epoca che Pasolini ci mostrava 40 anni fa e che oggi la cronaca quotidiana ci conferma.
Banchetti di nozze in cui I Potenti mostrano il lato oscuro, segreto di tutti i potentati, l'omosessualità dei Presidenti del Consiglio, Dei Monsignori e Vescovi, dei Potenti del mondo della Moda..."Vecchi figli di puttana esclama il sacerdote che da inizio alle nozze reali tra omosessualo" cosa direbbe oggi Pasolini della nuova sinistra che promuove i matrimoni tra gay, non direbbe forse che anche gli omosessuali ormai sono vittime di quest'ansia di conformismo di uniformarsi al potere, di esser riconosciuti e quindi omologati...insomma non sarebbe comunque Pasolini contrario ad ogni forma di matrimonio etero-omosessuale che sia poiché celebrata dalla falsa tolleranza della classe medioborghesecattolica?
Pasolini esposto in quanto intellettuale omosessuale vuole forse darci a intendere che i potenti coloro che sono chiamati Onorabili sono mascherati nel Palazzo delle Orge di Kubrick e che sono tutti incestuosi, stupratori di bambine, voyeristi, e anche omosessuali se non bisessuali ma appunto mascherati nei luoghi del potere che sono tuttavia ormai visibili nel panorama della pornografia su internet..ossia dove entra l'occhio del grande fratello orwelliano.
Concorso di bellezza, ecco la selezione dei Vip, delle veline usa e getta, delle attrici etc...il premio è la morte per colui e colei il cui deretano venga giudicato il migliore..c'è tutta una parafrasi denunciatoria del modo di scegliere democratico "mi rimetto al parere della maggioranza" come a dire.E' QUESTA DEMOCRAZIA, SONO QUESTE DEMOCRAZIE CHE STANNO COMPIENDO QUESTI CRIMINI!" il ragazzo viene ucciso per finta come volevasi dimostrare prima poiché il Monsignore e sua Eccellenza discutevano sul fatto che il gesto del sodomita e reiterabile mentre quello del carnefice ne e invece il monsignore dimostra proprio che è reiterabile, appunto simulando una condanna a morte, un po come avvenne in vita al povero Fedor Dostoesvkij, appunto per un gusto sadico "Imbecille non lo sai che vorremmo ucciderti mille volte fino all'infinità possibile prima di ucciderti per davvero", qui ci sta tutta la vera natura dei perversi maniaci sessuali tra i potenti...mi verrebbe da chiedere al fantasma di Pasolini chi sono i veri autori e mandanti dei delitti del mostro di Firenze se non gli stessi del suo delitto...non credo che le persone siano le stesse ma di certo gli ambienti e l'estrazione sociale molto vicini.
Questo film è visceralmente collegato alla morte di Pasolini! Chi ha il potere di dirlo? E Dimostrarlo? Come vorrei poter esser utile per fare luce e giustizia sulla sua morte!
E infine infatti il girone del sangue dopo l'urlo di Pasolini "la raffinatezza del libertinaggio è quella di essere allo stesso tempo carnefici e vittime..." questi libertini siamo noi, società intera superedonistica in cui la donna bella e stuprata è costretta ad urlare "Dio, Dio perché ci hai abbandonato" come Cristo in croce.
Poiché l'epopea di Pasolini si conclude appunto a Ciudad Juarez dove l'inquisizione mondiale e lo stupro mondiale è in azione con la testimonianza delle Croci Rosa, il mondo prefigurato da Pasolini si conclude con un ritorno ai crimini della Santa Inquisizione, e io mi chiedo se qui corpi marchiati a fuoco amputati di peni e vagine, occhi e lingue, uccisi e privati dello scalpo sono veri o allegorici? Io mi rispondo sono veri, perché tali crimini ricadono su questi quattro poteri e si perpetuano in molte parti del mondo con l'evidenza della guerra e dei genocidi culturali.
Le torture sono il punto di approdo di questa macchina neocapitalistica che ha reso merce anche i nostri corpi come animali al macello.
Se Pasolini è davvero un profeta bisogna avere paura di ciò, ma una paura che porti a ribellione non una paura perdente, poiché in questo abisso storico in cui ci stiamo approssimando non dissimilmente alle epoche delle streghe e degli eretici del controriformismo seicentesco bisogna pensare che un libro come la Chimera di Sebastiano Vassalli sia tristemente storico e ammonitivo anch'esso.
La punizione di ogni reato, omosessualità maschile e femminile sincera e pudica, di fare le feci durante la notte e non quando dicono i potenti, defecazione feticistica, torture collegate all'eccitamento sessuale ai macchinari sadici...la morte del fratello partigiano che fa l'amore con la serva e muore col pugno alzato.
Pasolini mette in bocca frasi eccellenti che dipingono tutto ciò, i potenti son uomini dotti, ma Pasolini dipinge un mondo in cui l'amore è considerato un reato in cui sono permesse tutte le pratiche sessuali del non.amore e ciò si sta drammaticamente realizzando nelle nostre società.
Pasolini ha dipinto con un pretesto storico del passato un futuro senza amore, senza alcuna possibilità di amore vero se non quello che finisca con la tortura e la condanna a morte.
La pianista che ha accompagnato con la colonna sonora tutte queste turpitudini si suicida, e tutto daccapo con i ragazzetti sottomessi dai potenti costretti di nuovo a ballare ignorando ciò che è successo, ossia ciò che sta avvenendo a questo mondo; il macello umano su scala industriale come un orrendo mattatoio, questo ha dipinto Pasolini.
Insomma un prossimo venturo Medioevo, e Pasolini con a sua vita e la sua morte è stato un testimone della verità al pari di Bruno, Caravaggio e Gramsci..insomma gli è stata zittita la bocca di corvo. Un profeta non è che inviso alla sua stessa società. Dura verità, ammettere che Pasolini sia un eletto, dura per il mondo laico materialista dura per l'intellighenzia borghese cattolica.
Duro ammettere che del delitto Pasolini non ne sono responsabili solo malavitosi e abili meschini potenti che hanno architettato la sua fine con l'aiuto dei neofascisti e di qualche aggancio con la banda della Magliana, Pasolini era ormai inviso a tutti a destra sinistra, comunisti e fascisti borghesi e poveracci...della morte di Pasolini ne è responsabile un'intera società italiana che ha consentito anche che passassero inosservati i suoi 33 processi duri e lunghi come gli anni di Gesù, solo per aver compiuto opere del tutto cristiane evangeliche, e soprattutto pregne del senso della verità.
Elio De Luca


Donne, ricette, ritorni e abbandoni di Milvia Comastri - Edizioni Pendragon

Non è un libro di cucina, ma un volume che raccoglie racconti, più o meno brevi, dove la preparazione del cibo rappresenta un comune denominatore; poi, ci sono anche ricette, più o meno invitanti, a seconda dei gusti di ognuno, ma quel che conta è la gradevolezza, non al palato, delle storie che vengono rappresentate da Milvia Comastri con linguaggio fresco, con annotazioni argute, vicende anche semplici, ma raccontate con garbata partecipazione.
Personalmente mi hanno favorevolmente impressionato due racconti, se pur antitetici e su questi intendo spendere una parola.
Il compleanno di Amalia Gargiulo ha un sapore di cose antiche, di calore familiare che non può che coinvolgere; una vita di speranze di due emigranti, il ritorno al paese natale, la morte di lui, la sofferenza intima di lei - a cui darà una svolta imprevedibile - ancora adesso, mentre scrivo, mi provocano un brivido di emozione. Mi sembra di vedere Amalia intenta a cucinare e a ricordare, quasi sento la sua voce mentre conversa con il marito morto. Una vicenda triste, che non scivola però mai nel melodramma e che fa ben comprendere quanto ampio e potente sia il significato della parola amore.
Buon anniversario, tesoro! L'amore fra due coniugi non c'è più, lui la tradisce, lei apparentemente ne soffre, ma continua a far finta di niente. L'apparentemente ha un senso perché invece la vendetta sarà un piatto di straordinaria efficacia. Scritto quasi con la cadenza di un thriller, anche se di morti ammazzati non ce ne saranno, è di una originalità incredibile e alla fine viene quasi spontaneo applaudire l'azione di rivalsa della donna nei confronti del marito.
Ecco, sono solo due dei racconti; non è che gli altri non siano piacevoli, anzi si leggono volentieri e tutto d'un fiato. Ho voluto ricordare solo questi perché ritengo che possano rappresentare adeguatamente l'intera opera.
Concludo con un'ultima annotazione: non credo che ci sarà bisogna di augurarvi buona lettura, perché sono certo che lo sarà e che magari vi soffermerete, come me, un po' di più sulle pagine in cui si parla di Amalia Gargiulo e del particolare anniversario di Eleonora e di Aldo.
Renzo Montagnoli

L'autore
Milvia Comastri è nata a Bologna il 18 agosto 1946 e ha iniziato a scrivere molto precocemente favole, poesiole, brevi racconti, alcuni anche pubblicati sul Corriere dei Piccoli.
Con il matrimonio, la nascita del figlio, il lavoro ha abbandonato la scrittura, riscoprendola però circa quattro anni fa. E i risultati sono venuti pressoché subito, con i riconoscimenti di premi letterari (Primo posto al concorso nazionale "Il Tarlo 2004", gradino più alto del podio per la 4^ edizione del premio "Carlo Levi", terza al Premio Firenze 2004) e con la pubblicazione della raccolta di racconti oggetto della presente recensione.
Attualmente sta lavorando al suo primo romanzo (Isole).
Renzo Montagnoli


Serial Killer Italiani di Gordiano Lupi - Editoriale Olimpia

Gli assassini seriali sono sempre esistiti e non sono quindi un fenomeno recente. Questo bel saggio di Gordiano Lupi conferma che gli omicidi in serie per opera di uno stesso individuo non erano sconosciuti nemmeno nel XIX secolo, come testimoniato dalla vicenda di Antonio Boggia, il mostro di Milano. E quel che è peggio è che, se si sono più accentuati negli ultimi decenni, frutto anche di indagini più accurate che hanno portato a evidenziare la presenza di un'unica mano dietro delitti apparentemente senza punti di contatto, il futuro non potrà che confermarci che non si tratta di un fenomeno di moda, ma di un pericolo sempre presente. Non a caso l'ultimo capitoletto porta un titolo chiaro e lampante: i killer che verranno.
Ciò premesso, il saggio in questione presenta più di un punto d'interesse che tende a differenziarlo da altre opere analoghe più frequenti in periodi recenti.
L'autore non ha volutamente cercato di suscitare emozioni forti, intense, quasi angoscianti nel lettore; il tono distaccato della narrazione è infatti sempre imperniato su tre cardini fondamentali: quando, come e perché.
Quando accadde, anzi accaddero gli eventi delittuosi; come avvennero e infine il perché ebbero a succedere.
Questo percorso logico farebbe presupporre una certa noiosità nell'esposizione che invece non si riscontra perchè giustamente l'autore ha inteso delineare razionalmente un quadro della situazione senza eccessivi approfondimenti, tipici di un criminologo, ma con risposte basate sul comune senso della logica, lavoro non certo facile, considerato che la quasi totalità degli omicidi seriali presentano accentuati disturbi psichici.
Da questo lavoro di indagine nasce così una sorta di resoconto giornalistico, compassato, che potremmo definire all'inglese, in cui si lascia ampio margine alla fantasia del lettore per immaginare scene che altrimenti potrebbero, pur nella loro drammaticità, gravare eccessivamente sulla struttura, di fatto impedendo lo scopo dell'opera.
Il saggio, infatti, ha come obiettivo quello di rendere edotti di un fenomeno ricorrente, al di là di miti e leggende, affinché si abbia sempre ben presente che certi fatti esistono e che traggono origine, prevalentemente, da traumi giovanili che, associati a un'indubbia predisposizione, posso diventare scatenanti di comportamenti illogici e violenti. Insomma, non si può parlare di comuni delinquenti, visto che, salvo rari casi, lo scopo di questi omicidi seriali non è l'arricchimento attraverso l'azione delittuosa.
Il tutto, e non è poco, perché il volume conta 291 pagine, è riportato con lo stile mai greve di Gordiano Lupi che sempre si è potuto apprezzare.
Si arriva così velocemente all'ultima pagina attraverso una piacevole lettura che offre altresì il pregio di un'acquisizione di conoscenza in un campo che costituisce florido supporto per gli autori di romanzi noir, in cui spesso la fantasia è assai inferiore alla realtà descritta così bene nell'opera in argomento.
Renzo Montagnoli

L'autore
Gordiano Lupi (Piombino, 1960). Capo redattore de Il Foglio Letterario e Direttore Editoriale delle Edizioni Il Foglio. Collabora con Mystero e con la Casa Editrice Profondo Rosso di Roma. Collabora con Contro Radio di Firenze per recensioni sul cinema italiano anni Settanta. Pubblica racconti per X Comics, Blue e Underground Press. Scrive soggetti e sceneggiature per fumetti realizzati graficamente dal disegnatore Oscar Celestini (pubblicati su X Comics, Blue e Underground Press). Ha pubblicato: Lettere da Lontano (Tracce, 1998), Il mistero di Incrucijada (Prospettiva, 2000), L'età d'oro (Il Foglio, 2001), Il giustiziere del Malecón (Prospettiva, 2002), Le ultime lettere di Pilvio Tarasconi (Il Foglio, 2002), Per conoscere Aldo Zelli (Il Foglio, 2002). Ha tradotto i romanzi del cubano Alejandro Torreguitart Ruiz: Machi di carta (Stampa Alternativa, 2003), La Marina del mio passato (Nonsoloparole, 2003) e Vita da jinetera (Il Foglio, 2005). I suoi lavori più recenti sono: Nero Tropicale (Terzo Millennio, 2003), Cuba Magica - conversazioni con un santéro (Mursia, 2003), Cannibal - il cinema selvaggio di Ruggero Deodato (Profondo Rosso, 2003), Un'isola a passo di son - viaggio nel mondo della musica cubana (Bastogi, 2004), Quasi quasi faccio anch'io un corso di scrittura (Stampa Alternativa, 2004 - due edizioni in un anno), Orrore, erotismo e pornografia secondo Joe D'Amato (Profondo Rosso, 2004), Tomas Milian, il trucido e lo sbirro (Profondo Rosso, 2004), Le dive nude - vol. 1 - il cinema di Gloria Guida e di Edwige Fenech (Profondo Rosso, 2005), Serial Killer italiani (Editoriale Olimpia, 2005 - duemila copie vendute nei primi tre mesi).
Renzo Montagnoli


Lughe de Chelu (e Jenna de Bentu) di Giovanna Mulas - Editore Bastogi

Quello che colpisce immediatamente nella lettura di questo romanzo è lo stile del tutto particolare di questa prolifica scrittrice sarda; è evidente il certosino lavoro di ricerca lessicale con lo scopo di meglio rendere la descrizione di certi paesaggi tipici della Sardegna e del suo mare. Quest'ultimo, in particolare, riflette alcuni stati d'animo di Giona, protagonista di una tenerissima storia familiare che, improvvisamente, si trova a tu per tu con il male, con il dolore e con la paura della morte.
E' una crescita, una maturazione quella della donna protagonista, che la porterà dalla natia Nuoro fino a Roma, un viaggio che si rivelerà come una lunga presa di coscienza del proprio essere.
Sconvolta da un evento di particolare violenza, Giona scoprirà dentro di sé delle risorse che ignorava di avere e che la condurranno a riemergere di nuovo da quel mare di intima sofferenza che l'aveva sommersa, affermando l'amore per la vita ed i valori della famiglia.
Lughe de Chelu è l'energia che presiede a tutto, anche se Giona preferisce chiamarla anima e l'autrice, non a caso, dedica l'opera alle sue luci del cielo, ai suoi quattro figli, veri e propri astri che rappresentano la continuità ideale di una vita.
Questa per sommi capi è l'essenza del romanzo, ma torno a ripetermi sullo stile del tutto particolare, perfettamente funzionale alla vicenda, che anzi viene ulteriormente impreziosita; ci sono poi pagine in cui le descrizioni di ambienti, di paesaggi, ma anche di caratteri, assurgono al livello di vera e propria poesia, riuscendo a indurre il lettore a un raro ed efficacissimo coinvolgimento.
Inutile aggiungere che consiglio vivamente la lettura di questo romanzo che, personalmente, giudico stupendo.
Renzo Montagnoli

L'autore
Giovanna Mulas è nata a Nuoro il 6 maggio 1969; scrittrice, poetessa, pittrice, ha al suo attivo numerose pubblicazioni, fra le quali Passaggi per l'anima (romanzo), Canticum presagum (poesie), Come le foglie (poesie), La stanza degli specchi (romanzo), Il tempo di un estate (romanzo). Vincitrice di ben 53 Primi Premi Internazionali, è candidata, per l'Italia, al Nobel per la letteratura del corrente anno, dopo esserlo stata nel 2003. Alla Fiera del libro di Roma, a dicembre, sarà presentato il suo nuovo romanzo, Domo del Viento -cartas de amor all'essenza di rosa-, il primo da lei scritto in italiano/sardo/spagnolo.
Renzo Montagnoli


Lettere contro la guerra di Tiziano Terzani - Editore TEA

Il volume raccoglie alcune lettere, in parte inedite, in parte pubblicate sul "Corriere della sera", successivamente al tragico evento dell'11 settembre, a quell'attentato alle Torri gemelle di New York che prepotentemente ha fatto tornare in risalto i sempre latenti desideri di risolvere i problemi con la guerra.
Qualcuno potrà considerare questi scritti come l'esile tentativo di un convinto pacifista di trovare una soluzione impraticabile per addivenire a un mondo di pace; personalmente, invece, ritengo che costituiscano un atto di grande umanità contro la roboante retorica del più forte sul più debole.
Scrive Terzani:
"Ancor più che fuori, le cause della guerra sono dentro di noi. Sono passioni come il desiderio, la paura, l'insicurezza, l'ingordigia, l'orgoglio, la vanità. Lentamente bisogna liberarcene. Dobbiamo cambiare atteggiamento. Cominciamo a prendere le decisioni che ci riguardano e riguardano gli altri sulla base di più moralità e meno interesse. E' il momento di uscire allo scoperto…Il cammino è lungo e spesso ancora tutto da inventare. Ma preferiamo quello dell'abbrutimento che ci sta dinnanzi? O quello, più breve, della nostra estinzione?".
Utopia, idee nobili, ma campate per aria? No, l'uomo può tutto, purché lo voglia, purché in un altro uomo cerchi i punti di contatto, e non solo quelli di attrito, dimentichi che l'interesse personale, il guadagno non sono le ricchezze della vita, che tendere la mano è in fondo più facile che sferrare un pugno.
Impossibile tutto ciò? No, già c'è stato chi con la non violenza ha dimostrato che la via è percorribile, e non mi riferisco tanto a Gesù Cristo, quanto a una figura più recente, a un uomo la cui grandezza è stata inversamente proporzionale alla sua statura, al mahatma Ghandi.
E secondo Terzani non è sufficiente comprendere il dramma del mondo mussulmano nel confronto con la modernità, il ruolo dell'Islam come ideologia contro la globalizzazione, la necessità dell'Occidente di evitare una guerra di religione, ma occorre soprattutto capire, convincersi che l'unica possibilità di uscire dall'odio, dalla discriminazione e dal dolore è appunto solo la non-violenza.
Renzo Montagnoli

L'autore
Tiziano Terzani (1938-2004) è stato per una trentina d'anni corrispondente del settimanale tedesco Der Spiegel dall'Asia e collaboratore, prima di Repubblica, e poi del Corriere della Sera. Profondo conoscitore dell'Asia, ha scritto su questo continente numerosi libri.
Tra le sue opere ricordiamo: Buonanotte signor Lenin, Pelle di leopardo, La porta proibita, Un indovino mi disse, In Asia, Lettere contro la guerra, Un altro giro di giostra e La fine è il mio inizio, l'ultima sua opera prima della morte.
Renzo Montagnoli


Buonanotte signor Lenin di Tiziano Terzani - Edizioni Tea

Tiziano Terzani parla, in questo suo bellissimo libro, della fine dell'impero sovietico. Nell'agosto del 1991, infatti, mentre lo scrittore si trovava in Siberia, sul fiume Amour, con una spedizione sovietica-cinese, avvenne il famoso colpo di stato contro Gorbacev; decise allora di intraprendere, da solo, un lungo viaggio fino a Mosca.
Il libro è il resoconto di questo percorso, attraverso la Siberia, l'Asia Centrale e il Caucaso, toccando città mitiche quali Samarcanda, Bukkhara e Taskent.
Nel saper narrare di paesaggi stupendi, quasi primordiali, Terzani ha saputo cogliere con rara abilità ed efficacia lo sgomento per l'improvviso cambiamento, il salto nell'ignoto come tanti all'epoca avvertirono.
L'abilità non è tanto quella del giornalista in cerca di scoop, quanto quella di saper partecipare al lettore le sue sensazioni, le sue impressioni, con quella pacatezza e imparzialità che gli sono sempre state proprie.
E in più di una pagina emerge forte il suo alto senso di umanità, la comprensione per il turbamento delle genti, l'angosciosa attesa di risposte che forse non arriveranno mai.
Gli eventi della storia sono determinati da pochi, ma la realtà di questi è vissuta da tutti. Così, accanto a speranze autonomistiche, a desideri di una libertà vagheggiata e sconosciuta, si accompagnano i timori sia di quelli che prima si foraggiavano del regine sovietico, sia dei tanti, umili cittadini che, scardinati di colpo da un modus vivendi, temono per il loro futuro.
E' un caleidoscopio di personaggi, dal più potente al più povero, che anima le pagine, in un quadro d'insieme di rara bellezza.
Come suo solito, Terzani osserva, domanda e anche, a volte, esprime la sua opinione di uomo che sa fare proprie le incertezze di un intero popolo.
Un libro che ritengo fondamentale per cercare di comprendere ciò che è stato e perché tramontato il grande impero sovietico.
Renzo Montagnoli

L'autore
Tiziano Terzani (1938-2004) è stato per una trentina d'anni corrispondente del settimanale tedesco Der Spiegel dall'Asia e collaboratore, prima di Repubblica, e poi del Corriere della Sera. Profondo conoscitore dell'Asia, ha scritto su questo continente numerosi libri, tradotti in diverse lingue.
Tra le sue opere ricordiamo: Pelle di leopardo, La porta proibita, Un indovino mi disse, In Asia, Lettere contro la guerra, Un altro giro di giostra e La fine è il mio inizio, l'ultima sua opera prima della morte.
Renzo Montagnoli


Il tempo sospeso di Pietro Barbera

Avevamo letto già qualche mese Il tempo sospeso, la prima silloge di liriche che il poeta trapanese Pietro Barbera ha pubblicato a Palermo (Edizioni Thule, Palermo 2003, prefazione da Salvatore Mugno) trovando l'occasione di quella lettura non priva di un sicuro interesse. Adesso, alla rilettura, riscopriamo i motivi che già ci avevano persuasi attorno ad un dato essenziale, e cioè che Pietro Barbera ha indubbiamente il cuore e la mente del vero e autentico poeta. In sostanza, ne possiede il temperamento e la vocazione.
Per il fatto che egli abbia "scoperto" e praticato la scrittura in versi dopo i quarant'anni (oggi ne conta quarantacinque), non si può perciò dire che le varie coordinate della sua poetica (nucleo tematici , interessi del sentire, sensibilità, forme del pensiero, e così via) e del modello formale posto in atto (linguaggio, stile, struttura del verso, equilibrio del dettato, ecc), siano quelle definitive, quelle cioè sulle quali il poeta potrà stabilizzare i segni letterari di riconoscimento. Anzi, si sente chiaramente nel libro che il poeta sta vivendo la prima stagione della propria esperienza di scrittore, e che quindi assegna a questa stagione il compito di avviare una ricerca dell'espressione, della forma e dei temi, o meglio, delle sue narrazioni, sulla cifra variabile del puro istinto creativo. È quindi chiaro che, quando le cose stanno così, la verifica è il necessario compimento della ricerca. E come si sa, ci sono in campo la verifica dell'autore e quella a carico della critica.
Noi crediamo che Pietro Barbera non debba attendersi - non è ancora il tempo - che la critica s'appresti alle procedure della verifica per la quale invece egli qualche altra prova dovrà ancora far maturare. Noi, intanto, cogliamo di tale percorso la letterarietà come merito già raggiunto felicemente, e la confrontiamo con favorevole risultano al progetto di poetica già posto in itinere dal nostro valente autore.
Dicevamo dei nuclei tematici, e ne segnaliamo alcuni tra quelli di più felice compiutezza espressiva. Uno di questi riguarda il senso della cosmicità, della sideralità, dell'infinito, con cui il poeta sintonizza il proprio respiro. E superando ogni sgomento per la fragilità umana egli stesso si pone come partecipe del respiro universale. La stessa sensazione proviamo leggendo le poesie del cosmo di Giovanni Pascoli.
Vi è inoltre, nei versi di Barbera, ad aleggiare il segno di quel mistero del tempo che scorre e consuma la nostra esistenza terrena, non per annientarne il valore, ma per restituirci al fluire degli spazi infiniti, noi stessi poi aria e luce nel mondo. E per converso, il nostro autore recupera la poetica commossa delle cose quotidiane e minute, riproposte con attente e ineccepibili descrizioni quasi da ècole du regard . E non può essere, infine, trascurato l'amore del poeta per la sua Sicilia, ricordando in modo particolare i versi dedicati a Mozia, a Erice o a Segesta coniugando i passaggi a lui cari ad una sorta di classicità dell'oggi.
Va detto che tutta l'umanità di Pietro Barbera affiora in quelle liriche dove sono gli effetti familiari, il mondo intimo del cuore, che trovano nel canto la loro rappresentazione.
Come si vede, un mondo poetico quello di Barbera ricco di motivi e bene articolato. Diciamo, in conclusione, il Il tempo sospeso è un buon libro di buona poesia, ma invece la apre verso quegli sviluppi che attendiamo.
Palermo, 14.09.2004
Salvatore Di Marco


Nota a "Dentro al fuoco" di Caterina Trombetti, Ed. Passigli, Firenze 2005 Prefazione di Mario Luzi

Il 22 febbraio u.s, Leandro Piantini, poeta e critico letterario, ha presentato nella Sala degli Affreschi della Regione Toscana, "Dentro al Fuoco" di Caterina Trombetti, notissima poeta fiorentina. Il libro è stato accolto dal numerosissimo pubblico costituito in larga parte da pittori, scrittori, altri poeti, con entusiasmo ed emozione. Quell'entusiasmo ed emozione che Caterina Trombetti sprigiona e comunica senza riserve.
La sua poesia nasce dal profondo, si affina con un sapiente labor limae e resta orma dell'anima "vena di acqua sorgiva, estranea ai comuni artifici" ( da "Un canto perenne". Fiori sulla muraglia. Passigli 2000)
Le liriche "semplici e dirette, desunte con lineare emozione dall'esistenza e dai pensieri sull'esistenza" ( dalla Prefazione di Mario Luzi ) raggiungono i lettori come interpreti del loro sentire.
Ed in realtà , come la stessa poeta ha ribadito durante l'incontro, ella attribuisce alla poesia oltre alla valenza letteraria, quella sociale, di cui - ha sottolineato - è sempre più convinta.
Già, ne "La tua voce per me" ( da ' Il pesce nero. Lalli 1990 ), troviamo versi emblematici:

"Sterile, e un grande
bisogno d'espressione.
Sterile e un universo
che mi scoppia dentro...

Si placa l'uomo per
un momento, se trova
in altri espressione di sé.

Sente vicino
chi lo ha preceduto,
sente compagno
quello sconosciuto
che tanto bene ha saputo dire".


Caterina, donna provata più volte da quel dolore che rende sepolti vivi, senza scampo, come sotto una pietra tombale, ha esperito nella carne attimi di quiete , trovando "in altri espressione di sé". Da questo incontro pacificante è scaturito il bisogno di comunicare la sua com-passione, il suo soffrire con gli altri , il dare voce a chi non ce l'ha.
Si è anche allargata coraggiosamente a portare allo scoperto sensazione più intime quali l'amore, il rapporto con la natura e il Creatore.
Il titolo di quest'ultima raccolta è sintesi completa e matura del suo convincimento: Caterina Trombetti condivide il Fuoco ( inteso come passione vivificante o distruttiva) con gli uomini del suo tempo. Si apre a considerazioni o domande sul senso della vita, "mantenendo sempre semplicità come vocazione ed essenza, e semplicità come ideale stilistico da salvaguardare "( dalla Prefazione di Mario Luzi a "Fiori sulla muraglia").
"Evidentemente la sua lirica così aperta e diretta riaccende quel tanto di sogno o di rimpianto che dorme nell'uomo avvilito e banalizzato dei nostri giorni." ( dalla Prefazione a "Dentro al fuoco" di Mario Luzi ). Da qui i larghi consensi, anche a livello internazionale.

Mi piace, infine, far conoscere, a titolo esemplificativo, alcune liriche in cui gustare la linfa della più significativa tradizione poetica.

Il salto
Vorrei lasciare l'essenza mia nell'aria,
almeno un segno buono del passaggio.

Forse questo mi spinge,
questo il perché del trafelato affanno
questo mi prende
nell'occorrenza di essere per gli altri.

Mi sono data in pasto,
un bocconcino, un gesto,
una parola, un tocco della mano.
Intensa la premura, anche nei cedimenti
e senza mai riposo.

Ma questo, sento, è il valore grande,
questo confondersi nel tutto.
Po, forse, resterò nei cuori
dopo l'estremo salto.


Colloquio d'amore
Che pensa un bambino incantato
a guardare l'onda
che bagna i suoi piedi?
Questo andare e venire all'infinito
Lo avvince
ed estasiato così
osserva la pianta che affonda,
sente il suo corpo baciato dal mare.

Che pensa in questo contatto con l'onda
che parla
e spumosa
rotola poi
sulla sabbia?

Forse nasce un colloquio d'amore
fra il bambino
e l'acqua
che lo riconosce.
Si rinnova quel mito originario
del primo incontro
fra l'uomo e il suo mare.


Crogiolo
Canti d'Africa e suoni d'Oriente
intrecciati in questa terra
che da sempre chiama.

Dall'alba dei tempi
Vanno e vengono
gli uomini,
lasciano talvolta orme leggere,
si tessono fra loro nell'ordito.

Ecco, è tempo di nuove migrazioni
E ciò che accade ora
già era accaduto.
E' colto da stupore,
lui
nella sua poca memoria,
non sente dentro di sé
incarnate le tracce
dell'uomo che vorrebbe allontanare.

Potesse questa terra essere culla
per le tante voci
che dicono le gioie e i dolori.
Che dicono il diritto all'esistenza,
a stare dentro il cuore
di Europa la dea
benevola e violenta,
tornata dall'Olimpo sulla terra
a generare figli,
ad essere grande nella sua accoglienza.

O desiderio omicida
sradicare da sé la madre antica
che vive in tutti
nello stesso modo.

Il carro scorre e la fiaba si snoda,
viene da spazi e tempi sconosciuti.
E' l'incanto del luogo originario,
dell'universo che portiamo dentro.

Sembra parli di uno soltanto
e invece dice
che noi tutti siamo una voce sola.

Lucia Visconti Cicchino


TEOREMA di Pier Paolo Pasolini: ovvero la verità sull'amore.

Teorema è innanzitutto un film (ma anche romanzo) che parla d'amore, l'amore quello con la "A" maiuscola.
Si dice che l'amore sia un dono degli Dei, almeno lo si pensava una volta quando negli Dei si credeva e si manifesta sotto molteplici forme, rimanendo comunque una fonte magica che non appartiene agli umani, ma piuttosto donata agli uomini.
Il Teorema è questo: Ecco l'Amore, un lampo improvviso, un fulmine al ciel sereno che viene a sconvolgere la tranquille e beate coscienze di tutti i componenti di un'agiata famiglia settentrionale e borghese. Dunque, quali sono le possibili o inevitabili conseguenze che può causare nell'individuo umano questo misterioso e folle sentimento?
Dunque teorema è un vero e proprio enunciato matematico con tutti suoi relativi corollari che vengono presentati con la stessa esattezza, razionalità e decisione con cui si dimostra un'argomentazione logico-matematica.
Il teorema è dunque che l'Amore è un fuoco sacro che brucia le quiete esistenze, logora coscienze, dona luce ma può anche accecare, in ogni modo rappresenta un evento che cambia e sconvolge la vita di chi lo riceve, o di chi lo cerca disperatamente.
Perché l'amore di cui parla Pasolini non è un amore qualunque, bacini e carezze, l'amore del grande poeta è Dionisio, il Dio di ineguagliabile bellezza che porta alla completa ribellione verso se stessi, verso la società, verso tutto il malsano ordine civile che ci circonda.
L'amore del grande poeta è L'Eros, l'amore vivo, carnale che si dona a tutti, il perfetto contrario di quello che tutto la scolastica cattolica ci ha portato a identificare con la spiritualità dell'amore platonico.
L'amore, tramite l'Eros è un fluido magico attraverso cui Geova, la voce di Dio, parla all'uomo: è una voce sconvolgente, così come è sconvolgente la tragedia che si cela dietro la bellezza di Dionisio, ma per Pasolini sembra essere l'unica via di salvezza al nostro mondo moderno, allo sviluppo neocapitalista, a come l'uomo è stato antropologicamente mutato dal nuovo "modo di produzione". Dunque il teorema-amore-apportatore di verità è un rischio che si deve correre ma è anche l'unica speranza che l'autore ci pone ai vari corollari delle conseguenze dell'amore:
E' impressionante guardando a ritroso come tutta l'opera del poeta friulano sia pervasa da un immenso sentimento sacro dell'amore e della vita, proprio lui così scandaloso, così dissacratorio, così realista ed eretico, col senno del poi dimostra di essere molto più sacro e religioso di chi per tutta la vita (di quanti! Non uno solo!) lo accusò di blasfemie e vilipendi vari e con tali presupposti trentatre volte lo fece processare.
Si perché bisogna dirlo: Pasolini fu un uomo "perseguitato" in ogni dove e in ogni come: ogni opera ordiva lo scandalo dei pedanti, e ad ogni indignazione lui rispondeva aumentando il tiro, perfezionando la tecnica e il messaggio tale da rendere ridicole le motivazioni per cui altri lo oltraggiavano o perseguitavano.
Pasolini fu un profeta e come ogni profeta non è inviso più che nella sua stessa patria: mai come in questo film ha parlato chiaramente di amore e delle verità sull'amore.
Dunque una volta infuocato dall'amore eccoci ai corollari:
1-Corollario Odetta: Rimarrai immobile, pietrificato dall'imponenza del messaggio d'amore nato dentro al cuore, lo sofferenza interiore, quanto prima lo era la gioia sarà un macigno che ti terrà legato/a al letto in un'immobilità asfissiante, in un autismo irreversibile e non diagnosticabile per la scienza medica.
Questo primo corollario impone una seria riflessione sull'interpretazione di alcune malattie ritenute ancora misteriose (malattie nervose come paralisi, parkinsonismi, autismi, epilessie vanno dunque inquadrate in un'assenza di amore o in un trauma da amore? Come non pensare al concetto di "satan" che in ebraico rappresenta i lacci le gabbie che legano l'uomo e non lo lasciano libero).
E come non pensare al Vangelo di Matteo (altra grande passione di Pasolini) li dove Gesù annuncia "poi ci saran coloro che si faranno eunuchi da sé in vista del Regno" come se l'amore imponesse un a via tanto ardua da percorre che pochi avranno il coraggio di imboccarla..e anche qui: molti saranno i chiamati e pochi gli eletti.
2-Corollario Emilia: Dopo esser stata/o salvato/a da un prossimo suicidio dovuto alla illusione di non potere avere e vivere quell'amore tanto sognato e desiderato, una volta invece vissutolo ti offrirai in olocausto per denunciare la distruzione del mondo e della natura apportata dalla civiltà dei consumi, ti farai volontariamente macellare da questa orrenda macchina della distruzione umana prodotta su scala industriale come una catena di montaggio, PURCHE' LA TUA MORTE SIA IN VISTA, NON SPRECATA, LI TESA A DENUNCIARE LO SCEMPIO PAESAGGISTICO LA MUTAZIONE GENETICA DEGLI UMANI, MA SOPRATTUTTO PURCHE' IL TUO OLOCAUSTO GENERI UNA FONTE DA CUI SI POTRANNO ABBEVERARE ALTRI CHE AVRAN SETE DI CONOSCENZA.
Questo è a mio avviso il tema più centrale e commovente del film perché rappresenta Pasolini stesso, la sua tragedia, il suo sacrificio umano, nella sua amata amica Laura Betti, oltrettutto accompagnato dalla sepoltura di sua madre Susanna che ancora una volta come nel Vangelo piange la prematura morte di un altro figlio, un corvo a cui piace parlare troppo di antiche e nuove verità e a cui verrà schiacciato il becco una volta per tutte in una notte di novembre all'Idroscalo di Ostia.
3-Corollario Lucia: Tradirai pervertirai e ti sdoppierai nel non riconoscere il tuo amato Dio, il falso dio-cattolico, e andrai alla ricerca di un amore selvaggio, forse umiliante ma sincero, dopo aver appreso la banalità e la falsità che si nasconde dietro la codificazione e l'istituzionalizzazione del più sacro dei sentimenti, ma la domenica come il buon clero vuole sottacendo a tutte queste riconosciute verità, continuerai a recitare falsa il tuo rosario in Chiesa.
4-Corollario Pietro: Diventerai un artista e nell'arte tua propria cercherai una valvola di sfogo a tutte le emozioni e rivelazioni che l'amore ha apportato dentro di te, con il rischio di perderti in un nauseante astrattismo su cui tu stesso piscerai sopra chiamandoti stronzo..è dunque un appello ad essere veri artisti, a nuove tecniche, nuovi colori, ma alla rinascita di un "Bello".
5-Corollario Paolo: E un corollario fortissimo poiché sembra dire: se vuoi esser perfetto vendi tutto ciò che hai dallo ai poveri e seguimi. Poi nell'immagine del padrone di fabbrica che si spoglia dei suoi vestiti c'è un chiaro e lampante richiamo all'esperienza di san Francesco che si riallaccia vistosamente col tema principale con cui si apre il film: Esodo, 13, 18, "E Dio piegò il popolo per la via del deserto", L'Etna luogo in cui Il Gesù di Pasolini incontra il Diavolo e lo vince, lo stesso in cui il grande imprenditore industriale Paolo grida il suo urlo, che è poi lo stesso del poeta, un urlo selvaggio, disumano, bestiale che non si sa neanche cosa voglia dire, ma destinato comunque a "durare oltre ogni possibile fine". Il corollario è dunque: Metterai in discussione tutta la tua vita finora vissuta, sarai solo e perso come nel deserto, ti spoglierai dei tuoi stupidi, inutili, superflui e insensati averi e li donerai a chi più di te li meritava. Il tuo urlo nel deserto cadrà nel vuoto anche in mezzo a mille persone perché un urlo di vero amore non può esser ascoltato da orecchie che non sanno più ascoltare (come vaccinate dal veleno-amore così come concepito dalla classe medio-borghese) o occhi che non sanno più vedere.

Dunque un teorema con al centro l'Amore e intorno un pentacolo di corollari. Il suo non è un giudizio morale sull'amore, proprio come Fellini amava dire..l'autore non vuole dimostrare ma semplicemente, mostrare. La molteplicità dell'amore sacro e profano. Alla Bocca di Rosa di De Andrè: un'amore appassionato e disinteressato che arriva e va via quando vuole lui, un amore completamente libero e amorale, eterosessuale, omossessuale, con una ragazzina, una vecchia o un uomo poco conta! L'importante è che sia vero amore.ed in una società in cui si ghettizzano e pregiudicano ancora le forme di amore diverse dall'ordinario si capisce bene perché le opere o la vita stessa del poeta siano state malintese e non apprezzate, forse il Nostro grande autore avrebbe dovuto vivere in Francia, in Spagna o addirittura nelle sperdute terre arabe o africane.
La cosa che mi appassiona di Pasolini è il suo gusto, la sua maestria a distruggere e decomporre a regola d'arte gli stereotipi della vita borghese che egli stesso considerava "un vero e proprio cancro, tumore sociale da estirpare" così come apprendiamo dai suoi Scritti Corsari e dalle Lettere Luterane, il suo progredire di capolavoro in capolavoro con una febbricitanza tesa a liberarsi della propria italianità, del proprio esser borghese...un arco teso verso un nuovo se stesso, di continuo.
Pasolini distrugge, annienta anche i luoghi comuni dell'amore nostrano, donandogli completa libertà che poi diventerà totale e altissima responsabilità: in questo preciso e particolare aspetto il poeta stesso si mostra in perfetta linea con la vera idea di superuomo che Nietzsche dimostra di avere nello Zarathustra e nell'Anticristo, il nuovo uomo, libero, tragicamente libero e che dopo aver ucciso Dio, deve ripartorirlo da se stesso con una lunga e travagliata gestazione.

A mio avviso il film non mostra una preferenza per le reazioni dei singoli all'amore, poichè nel bene e nel male anche la vita dell'autore sembra ripetere le stesse tappe:
1- Se notiamo le foto, le immagini, i filmati, le pose e i movimenti di Pier Paolo notiamo spesso il volto e il copro di un uomo bello, virile ma delicato, robusto ma anche un non so che di lacerato, di irrigidito, bloccato..ed in ciò vi è Odetta.
2- Pasolini come Emilia si è offerto anima e copro fino alla morte per denunciare l'avvento dell'orrore post-umano della mercificazione e alienazione totale dell'uomo a cui noi posteri assistiamo sbigottiti come di fronte alla parole di un profeta che ha prefigurato anche con la forza delle immagini il nostro futuro (Lo stesso che fece Dostoevskij con I Demoni a proposito di animi incontenibili alla guida di regimi totalitari del novecento).
3-Andò con la mente e con il corpo alla ricerca di amori pericolosi, nel sottosuolo della malavita romana, rapporti comunque non codificati o accettati dalla morale medio-borghese.come Lucia.
4-Diviene un artista multiforme ed eclettico..come pietro.
5-Ha urlato contro l'ingiustizia, il Potere, sempre in onore della verità, fino al suo ultimo giorno di vita, ma il suo grido è destinato a durare per i secoli a venire, poichè proteso all'immortalità dell'eterno messaggio dell'Amore.

Non vi è nel '900 italiano un poeta un autore un artista che abbia espresso con la stessa potenza e libertà il messaggio di amore di questo lasciatoci in eredità da Pasolini.
L'esistenza di questi rari uomini devono farci riflettere, così come deve farci riflettere il segreto che si è portato appresso dentro la sua tomba, un mistero ancora nascosto che ci ha negato la testimonianza e la presenza di uno dei più grandi artisti di sempre, soprattutto in tempi così oscuri, imprecisi, disorientanti, di colpevole revisionismo storico e in cui la sua voce sarebbe stata ancora un forte timone, una sicura ancora di salvezza.
Elio De Luca


Agnese di Giovanni Buzi - Edizioni Tabula Fati

L'approccio con questo romanzo, costituito dalla copertina, offre già un'idea di quello che sarà il suo contenuto. Sullo sfondo di una vecchia casa si stagliano le immagini di una giovane signora sorridente che stringe a sé un bimbo vestito già da ometto e con lo sguardo che esprime sorpresa, come se il lampo del fotografo lo avesse colto all'improvviso, fermando in tal modo il trascorrere del tempo all'epoca felice della gioventù. Il fanciullo in questione è lo stesso autore e la dama accanto è proprio Agnese, quella mamma che, nonostante il passare degli anni, resta sempre nei nostri ricordi più belli, mai invecchiata, ma come la si vedeva quando si pendeva dalle sue labbra, quando ci si rifugiava fra le sue braccia protettrici.
Agnese non è però solo il romanzo dei ricordi di un'infanzia, ma anche una pregevole ricostruzione di un'epoca, focalizzata nelle immagini di gite fuori porta con le prime utilitarie, di donne prosperose, pregne di una femminilità familiare e non ancora in lizza con gli uomini nella corsa ai primati di una società che sta crescendo e che diverrà dimentica del suo più genuino e tradizionale passato.
Giovanni ha saputo conservare dentro di sé quelle osservazioni tipiche dei bambini e, da adulto, riesumarle per costruire, grazie a un pregevole collage, un quadro d'insieme non stereotipato, ma naturale, per non definire quasi spontaneo.
E con sapienza sa alternare pagine gioiose ad altre ben più tristi, in un filo conduttore che mai si spezza, perché sempre latente c'è il timore di perdere la madre, il che poi avverrà effettivamente, troncando bruscamente la parentesi della fanciullezza per proiettarlo, con la morte della persona cara, nella realtà degli adulti.
Lo stile è di una sobrietà esemplare, mai greve, e presenta dei veri e propri tocchi di grazia, con pagine che rasentano la poesia, tali sono quelle dove sono espressi gli stati d'animo.
Leggo, per passione, tanti romanzi; di questi, non pochi esauriscono il loro interesse non appena chiusa l'ultima pagina, mentre altri mi accorgo di averli dentro di me, compagni fedeli della mia vita e "Agnese" è fra questi.
Renzo Montagnoli

L'autore
Giovanni Buzi é nato a Viganello, in provincia di Viterbo, nel 1961. E' diplomato all'Accademia di Belle Arti di Roma, nonché laureato in Storia dell'arte contemporanea presso l'Università "La Sapienza". Dal 1998 insegna lingua e cultura italiana al Parlamento Europeo di Bruxelles e dal 2005 è docente di storia dell'arte contemporanea all'Accademia di Belle Arti, sempre di Bruxelles. Artista eclettico, è pittore di fama internazionale, nonché scrittore vincitore di numerosi premi letterari, anche internazionali.
Tra le sue numerose pubblicazioni: Manuale di storia dell'arte (Sovera Multimedia, 1993), il romanzo Faemines (Libreria Croce, Roma 1999), il romanzo Il giardino dei principi (Massari, Bolsena 2000), il saggio William Turner in Etruria (Massari, Bolsena 2004), la raccolta di novelle Fluorescenze (Il Filo, Viterbo 2004), la raccolta di novelle e acquerelli Sesso, orrore e fantasia (Massari, Bolsena 2005). Suoi racconti sono presenti in diverse raccolte antologiche; è, inoltre, apprezzato poeta, tanto che si è aggiudicato il Premio Internazione di Poesia "Coluccio Salutati" 2004.
Da ultimo, ha vinto l'edizione 2005 del concorso "Profondo Giallo" con la novella "La Collana di Perle Celesti" che sarà prossimamente pubblicata nella collana il "Giallo Mondadori".
Renzo Montagnoli


“Dicono di noi. Il Belpaese nella stampa estera” di Davide Romano

Palermo, 3/02/2006 - Si sa che la stampa estera, che è poi lo specchio fedele del comune sentire dei Paesi di riferimento, ha avuto spesso da ridire su certe inveterate abitudini degli italiani, come, per esempio, la mancanza di puntualità, il poco rispetto per le istituzioni, una certa superficialità nella gestione della cosa pubblica, e quel modo un po’ sbarazzino nel tenere fede agli impegni, soprattutto quelli di carattere internazionale. E pure ammirandone la bellezza dei monumenti e l’incanto dei paesaggi, nella maggioranza dei casi questi osservatori non hanno mai mancato di rimarcare la propria difficoltà a considerare l’Italia come un possibile luogo di residenza per un tempo superiore a quello di una vacanza.

Certo la mentalità incide molto sul giudizio, ma è fuor di dubbio che noi stessi, al di là di ogni ragionevole spirito campanilistico, e pur considerando che anche altrove sono presenti gravi e seri problemi al pari del nostro Paese, abbiamo spesso motivo di ritenerci insoddisfatti della vita che conduciamo. Siamo però coscienti, almeno quelli come noi che abbiamo occhi per vedere ed orecchie per ascoltare, che se le istituzioni non funzionano come dovrebbero, se i servizi peccano sovente di una buona dose di impreparazione o peggio di inefficenza, causando non di rado ferite profonde agli utenti come nel caso della sanità, la colpa va equamente divisa con i cittadini che non hanno il coraggio di ribellarsi e di pretendere una migliore qualità della vita.

È, questo, il filo conduttore di un agile volumetto (Davide Romano, Dicono di noi. Il Belpaese nella stampa estera, Presentazione di Rosalinda Camarda, Prefazione di Giuseppe Apprendi, La Zisa, pp. 104, E. 10,00) che raccoglie alcune interviste rilasciate all’autore da alcuni giornalisti stranieri che per vari motivi sono venuti nel nostro Paese, e talvolta anche in Sicilia, negli ultimi anni. Si tratta, per lo più, di giornalisti moderati, talora accreditati preso la Santa Sede, come: Pauline Valkenet, olandese, corrispondente della rete televisiva “RTL Nieuws” e del quotidiano “Truw”; Mathilde Schwabeneder volto assai noto dell’emittente austriaca “Osterreichischer rudfunk”; Anne Le Nir, francese, autrice di numerosi e apprezzati servizi per “Radio France International” e per il giornale cattolico “La Croix”; l’italo-americana Costanza Barone del canale televisivo “CBS-News”; Aleksandra Bajka, vaticanista della radio polacca “RMF”; l’altoatesina Doris Ladstaetter; l’olandese Ewout Kieckens; e Sebastian Cresswell-Turner, autorevole firma del giornale conservatore inglese “Daily Telegraph”.

Taluno di loro ha il proprio appunto da fare, – ma senza acrimonia, anzi con affetto e amicizia –, spesso dovuto alla propria cultura o allo stile di vita abituale, ma tutti sono concordi nel riconoscere che il nostro Belpaese negli ultimi anni, in quella che noi genericamente potremmo definire l’età di Berlusconi, è notevolemente peggiorato come immagine di sé nel contesto internazionale. Anche l’attuale opposizione di centro-sinistra si è lasciata purtroppo imbastardire dall’andazzo generale. Non è riuscita, tranne qualche rara eccezione, ad offrire un volto dell’Italia nobile e serio. Del resto, basta guardare la nostra televisione, quella pubblica (non tutta, per fortuna) e quella privata (con rarissime, lodevoli eccezioni), come giustamente è stato osservato, per avere un’idea della volgarità e della ciarlataneria che ci circonda.

E, sinceramente, ci fa male il cuore se pensiamo che per secoli questa nostra terra ha dato al mondo uomini come Dante Alighieri, Michelangelo Buonarroti, Giuseppe Verdi, Galileo Galilei, Leonardo da Vinci, Pier Paolo Pasolini, Luchino Visconti, Federico Fellini, Leonardo Sciascia, Renato Guttuso, o come Giuseppe Mazzini, Camillo Benso di Cavour, o, più recentemente, Antonio Gramsci, Alcide De Gasperi ed Enrico Berlinguer. Quell’epoca forse è finita. Oggi ci dobbiamo sorbire i protagonisti del “Grande Fratello” o della famigerata “Isola dei famosi”, i tanti giornalisti che vendono il proprio onore per lauti compensi, certi spocchiosi intellettuali (almeno tali considerati, secondo aberranti logiche di mercato) che contrabbandano per cultura miserabili interessi di bottega, o uomini politici che starebbero meglio nel museo degli orrori per non parlare di quelli che sarebbe meglio confinare nelle patrie galere.

Proprio sul versante della legalità l’Italia manifesta crepe profonde, che negli ultimi tempi si sono maggiormente accentuate. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, e i tanti come loro che hanno pagato con la vita per dare un senso al bisogno di giustizia e di onestà della parte migliore del nostro Paese, che allora amava far sentire la propria voce e che adesso silenziosa è stata o si è messa all’angolo, sono un ricordo lontano. Non è forse la caccia al magistrato indipendente e deciso lo sport preferito di numerosi e ben individuabili gruppi dirigenti nazionali? E che dire di quei milioni di nostri connazionali che credono veramente che la libertà sia sinonimo di impunità? O che la democrazia sia una merce di cui si può fare a meno, che si può tranquillamente delegare a chi ci fa balenare davanti agli occhi la conquista a buon mercato di sogni impossibili?

Non è un caso, dunque, che l’Italia si trovi oggi negli ultimi posti delle classifiche mondiali in ciò che è positivo, e nei primi posti in ciò che è negativo. Il guaio peggiore, però, è che i commenti salaci dei nostri visitatori non riescono più a toccarci. Ci siamo messi in un tunnel, che probabilmente ci toccherà percorre fino in fondo, prima di accorgerci del rischio a cui stiamo andando incontro.

Quel giorno il libro di Davide Romano sarà ripescato dall’oblio, e qualcuno, bontà sua, ci verrà a dire che un giorno, tempo addietro, qualcuno, vedendo giusto e in anticipo, ci aveva ammonito, col sorriso sulle labbra. Speriamo, fortemente speriamo, che non sarà troppo tardi per riprendere la giusta via.
Maurizio Rizza


Il bambino perduto di Marghanita Laski - Edizioni nottetempo

Alla vigilia della seconda guerra mondiale Hillary, un poeta e ufficiale inglese, conosce e ama a Parigi Lisa, una profuga ebrea polacca, i cui genitori sono stati uccisi in Russia nel 1917. Si sposano e hanno un bimbo che il padre vede solo per qualche ora il giorno prima che la Francia venga invasa.
Hillary e Lisa, nella convinzione che il paese riuscirà a opporsi al nemico, si dividono: lui va in Inghilterra a compiere il suo dovere di militare, lei e il piccolo restano a Parigi.
I fatti, come noto, non andranno così.
Hillary viene a sapere da un amico francese che Lisa, agente della resistenza, è stata uccisa e che prima di morire ha affidato il bambino a Jeanne, moglie appunto di questo amico. Jeanne, prima di essere arrestata (milita anche lei nella resistenza) affida il piccolo a un prete cattolico e poi non si sa più nulla.
Terminata la guerra, Hillary ritorna a Parigi, perché Pierre, l'amico francese, gli ha fatto sapere che forse ci sono delle tracce per poter ritrovare il bambino.
Le ricerche, in una Francia postbellica descritta mirabilmente, portano il padre in un misero orfanotrofio nel nord del paese, dove esiste una creatura che potrebbe essere suo figlio.
Già, ma come riconoscerlo? Il dramma interiore di Hillary, nell'incertezza, nel travaglio dell'anima, nonché la pietà dell'adulto verso l'innocenza, sono delle pagine di una bellezza unica. Il romanzo, del resto, è scritto in punta di penna, con un rispetto per i sentimenti e gli avvenimenti che lo pone al di fuori di certe ricostruzioni di maniera. I personaggi sono tutti ben delineati, con un affetto tenero, ma garbato; indimenticabile è poi la figura del prete cattolico che salva i bambini ebrei nascondendoli nella cesta della biancheria della sua lavandaia.
Un romanzo ricco di sentimenti e di emozioni così difficili da trovare nei testi della nostra epoca.
Renzo Montagnoli

L'autore
Marghanita Laski nasce a Manchester nel 1915 e muore nel 1988. Per tutta la vita ha scritto su giornali e riviste; ha pubblicato, inoltre, saggi letterari, racconti e romanzi, fra i quali, il più noto, è appunto "Il bambino perduto".
Renzo Montagnoli


Vita del gatto Romeo detto anche Meo di Angelo Mundula -Spirali - 2005 - Milano

Esce per le edizioni Spirali la nuova raccolta poetica di Angelo Mundula Vita del gatto Romeo detto anche Meo. Che Angelo Mundula, "poeta serio, solitario, appartato…", come indica la quarta di copertina, non intendesse parlare soltanto del proprio gatto era fuor di dubbio per chi ne conosce, almeno in parte, l'opera e dunque l'uomo e la sua etica. E del resto, si sa: alla poesia non si addicono limitazioni tematiche, e quando poi si parla di gatti… scopriamo che un numero ragguardevole di poeti, narratori e uomini d'ingegno si sono cimentati sul tema, a cominciare da Torquato Tasso, Leonardo Da Vinci, Charles Baudelaire, padre della poesia moderna.
Per l'autore, nato e residente a Sassari, si tratta del decimo libro di poesie, dopo Il colore della verità (1969), Un volo di farfalla (1973), Dal tempo all'eterno (1979), Ma dicendo Fiorenza (1982), Picasso fortemente mi ama (1987), Il vuoto e il desiderio (1990), Per mare (1993), con Giorgio Bàrberi Squarotti e Giuliano Gramigna, La quarta triade (2000), e Americhe infinite (2001); a cui si aggiungono due libri di prosa: Tra letteratura e fede (1998) e L'altra Sardegna (2003); ha collaborato con i maggiori quotidiani e le più qualificate riviste nazionali e, da vent'anni, continua a collaborare con le pagine letterarie e culturali dell'Osservatore Romano.
Poiché sappiamo che nulla è casuale nelle opere di Angelo Mundula, ecco, allora, che aprendo e leggendo questo bel libro dall'accurata veste grafica ritorniamo fanciulli, ci improvvisiamo lettori casuali e, non di meno, compulsatori prevenuti, allertati dalle sue precedenti opere. Da ogni prospettiva restando, però, a lettura ultimata, soddisfatti.
Ma chi è il gatto Romeo protagonista di questa silloge? Romeo, detto anche Meo, "…era un comunissimo gatto soriano", ci spiega ancora la quarta di copertina, infilatosi poco a poco nella vita del poeta e che "…di poesia in poesia, di verso in verso, è andato acquistando una sua sempre più spiccata e originale "personalità". E come per noi umani c'è un prima e un dopo (di noi), un inizio e una fine, un incedere di giorni coi suoi eventi, i suoi laghi di luce e d'ombra - fino alla discesa ineluttabile e all'assenza - così del gatto Romeo conosciamo il suo predecessore Paquito, e il suo ingresso nell'intimità della casa, stravolgendo abitudini e weltanschauung: Siamo nati per l'eterno e per grandi imprese/ma basta un niente appena il fiato di un animale/a mutare per noi il senso dell'universo. E la vita di Romeo si fa metafora, paradigma, elemento di confronto: Solitario, serio, appartato/contrario a ogni presenzialismo/un gatto - devo pur dirlo - che/se non fosse un gatto sarebbe/quell'altro che ne fa il ritratto ("Ritratto"). Più che col padrone di casa - un qualunque padrone di casa - è dunque con l'artista che si scoprono nel tempo fili sottilissimi di affinità, di comunanza: Della grandiosa famiglia/ha ereditato le pose solenni/e il sublime distacco ("Sua maestà il gatto"), Di sé non può (forse, non vuole) promettere niente/né fedeltà né gratitudine sebbene/talvolta ne dia qualche segno./Nell'apparente serenità della mente/c'è sempre l'idea della fuga (dal tutto? dal niente/che gli sta intorno? che lui solo vede o non vede?) (Il poeta Romeo), Scappa, gatto, da queste aride contrade/da queste zolle acide./Lascia ciò che dev'essere lasciato./I tuoi occhi acuti, gatto,/non vedono le fiamme/che si levano da ogni parte?/I tuoi occhi che bucano/la tenebra non vedono/quanto male imperversa su/quest'arida terra sempre più/inabitabile? sempre più inospitale? (La brughiera).
Giovanni Nuscis


Aycelin Il Templare di Roberto Querzola - Editore Aliberti

Il romanzo storico da noi non è frequente ed è un peccato perché è un modo per conoscere fatti ed epoche in modo piacevole e coinvolgente.
Quando ho terminato la lettura di Aycelin Il Templare mi è venuto istintivo un accostamento con il celebre Il nome della Rosa di Umberto Eco, perché in entrambi i romanzi è possibile rilevare un'accurata ricostruzione delle epoche a cui si riferiscono, con la creazione mirabile delle atmosfere, quasi palpabili.
Querzola ha svolto un accurato lavoro di ricerca, con attenzione e senza lasciarsi sfuggire nulla, tanto che la fine dell'Ordine dei Templari, pur nella fantasia della trama narrata, è descritta esattamente nei modi e nei motivi con i quali è avvenuta. Se fosse stato un semplice saggio storico non è per niente improbabile che ne sarebbe scaturita un'opera puramente didattica; l'avere invece inserito in un filo rigorosamente di realtà una trama avvincente come non poche presenta il duplice pregio di intrattenere in modo coinvolgente il lettore e di renderlo anche edotto su un avvenimento cardine della storia (le lotte per la supremazia fra la Francia di Filippo il Bello e la Chiesa Cattolica di Clemente V).
Il romanzo parla della vita di un nobile francese, appunto Aycelin, dagli entusiasmi giovanili alla maturità della vecchiaia, conclusa tragicamente a Parigi fra le fiamme del rogo a cui era stato condannato per il solo fatto di essere un templare fedele ai propri ideali, vittima di un gioco di potere tragicamente ricorrente nella storia e riscontrabile anche ai giorni nostri.
Ecco, quindi, che, al di là della vicenda in questione, Querzola riesce, per il tramite della sua creatura Aycelin, a lanciare un messaggio universale: contro la corruzione dei poteri non ci si deve snaturare, perché l'unica possibilità che ha un essere umano per poter sperare in una società più giusta è la coerenza, intesa come lealtà, disponibilità perfino al sacrificio personale e con la consapevolezza e la dignità di vivere il proprio destino.
Non intendo anticipare la trama, peraltro assai attraente, per non togliere al lettore il piacere di viverla con il personaggio, pagina dopo pagina, e preferisco soffermarmi sullo stile espositivo.
A tal proposito, la scrittura di Querzola , pur nella necessità di essere talora assai descrittiva per ricreare l'ambientazione, è tuttavia snella e quasi si direbbe che il narratore, pur immedesimandosi in Aycelin, non si sia fatto prendere la mano, lasciando al suo personaggio un'autonomia propria che può essere solo radicata in un uomo che crede con fermezza nei suoi ideali. Non ci sono quindi eccessi, o cadute di tono, anzi il tutto procede spedito sullo stesso ritmo scandito dal passare del tempo, senza la benché minima forzatura.
Sotto questo aspetto mi permetto di evidenziare il notevole equilibrio delle ultime pagine, laddove si narra della morte sul rogo di Aycelin: una fine orribile, atroce, ma che l'autore ha saputo descrivere con un tocco di grazia poetica che porta il lettore a una commozione liberatoria.
In conclusione mi sento di raccomandare caldamente la lettura di questo bellissimo romanzo che, mio avviso, meriterebbe anche una trasposizione cinematografica.
Renzo Montagnoli

L'autore
Roberto Querzola è nato a Faenza (RA) il 18 aprile 1960, ma vive da molti anni a Forlì. Laureato in Giurisprudenza, lavora presso un istituto di credito. Aycelin è il suo secondo romanzo (il primo è "Una stregone alla corte dell'anno mille" , edito da Il Ponte Vecchio); attualmente sta lavorando a una terza opera che dovrebbe intitolarsi "Il condottiero boemo" e che riguarderà la vita del generale Wallenstein, il capo delle armate imperiali durante la famosa guerra dei Trent'anni che divampò nell'Europa del '600.
Renzo Montagnoli


Memorie dal sottosuolo di F. M. Dostoevskij

Mi ci rispecchio, come al solito in ogni opera di Dostoevskij, molto bene nelle famose sue memorie dal sottosuolo.
Queste memorie sono le confessioni e le intuizioni di un animo caduto in completa solitudine e segregazione rispetto al suo contesto sociale.
Tuttavia questa melma, questo fango interiore, questo angoluccio della propria coscienza sporco e basso come la vita di una talpa sotto terra concorrono a creare in lui quei dubbi, quelle infelicità e quelle angustie che sono la premessa per sfoderare dal manico della sua intelligenza grandi verità che sovrastano di gran lunga il semplice raziocinio umano nato dal famoso 2 più 2 uguale quattro, che si raccorda al ben pensare all'essere gradevoli e giusti.
Egli assapora il gusto di dire che 2 più 2 può fare 5 (2+2=4=Razionalità, 2+2=5=Libertà dunque sembrerebbe proprio che la razionalità umana sia la negazione più alta della libertà umana) e che non vi sarà mai sulla terra uomo che rinunci completamente a questa stravagante ipotesi come allo stesso modo sebbene siano più ragionevoli l'ordine, la disciplina e l'obbedienza allo stesso tempo l'uomo non finirà mai, per via della sua stessa misteriosa natura, ad amare il caos, la melma e l'autodistruzione.
Dostoevskij dichiara dunque che vi può essere onore, gusto e voluttà non solo dal trarre piacere dalla propria vita ma anche dall'autodenigrazione di se stessi e che anzi proprio l'umiliazione e l'esporsi all'offesa può misteriosamente corrispondere al più alto grado di elevazione morale dell'animo umano.
Fedor vuole smontare l'edificio del 2 più 2 della mera razionalità umana, considerandolo l'archetipo di quell' "edificio di cristallo" che rappresenta l'ordine, la razionalità e il potere ossia, per parafrasare quello che Nietzsche dice a riguardo della tragedia greca, tutto ciò che vi è di armonioso e "apollineo" nell'universo per ristabilire di prepotenza la presenza del tragico, del "dionisiaco".
Si, del dionisiaco: Dostoevskij nel sottosuolo della sua anima riconosce Dionisio, il Dio del caos, della potenziale manifestazione libera e demoniaca dei suoi più impuri e meschini sentimenti spontanei, la sua animalità di essere umano, la rivendica e la contrappone con ostinata forza all'apollineo che vi è dietro al 2 più 2, 4 su cui si fonda l'edificio di Cristallo.
Da qui nasce il caos, il nichilismo e l'ansia di distruzione che poi prefigurerà nei protagonisti dei suoi grandi capolavori successivi: dalla segreta alchimia che nasce dal volere la propria sofferenza anziché le più smisurate agiatezze e comodità che non fanno altro che contribuire a soddisfare quella parte dell'umanità che aspira a diventare formica e fondare il grande formicaio su cui poi nell'ansia di considerarsi un unico grande gregge verrà sigillato il dominio, lo stemma dei tre grandi poteri (descritti con l'audace forza visiva del Grande Inquisitore nei "Fratelli Karamazov") ossia: mistero, autorità e il pane.
Da qui nasce l'eterna contraddizione umana: l'uomo limitato, non libero ma illuso di esserlo dopo avere affidato tutta la sua libertà nelle mani di chi si impadronisce delle coscienza degli uomini, vivrà sereno e tranquillo troverò il suo bel posto da formica nel suo grande formicaio ma ci vivrà bene sebbene dopo aver rinunciato ad esser propriamente uomo: schiavo dei poteri a lui superiori, si emanciperà, si realizzerà si arricchirà e con grande autodafé mostrerà con orgoglio i traguardi raggiunti ai suoi consimili con raggiante orgoglio e spirito positivista (bisogna rifletter sul perché grandi letterati poeti e filosofi come D. Nietzsche e Leopardi avessero così in mala visione tutta l'opera dei filosofi positivisti e progressisti); l'uomo illimitato, intelligente, totalmente libero all'interno della sua ipertrofica coscienza delle cose è invece condannato a vivere nel sottosuolo dell'inazione conscio in anticipo sui suoi stessi tempi delle conseguenza che possono scaturire dalle sue (libere) azioni.
L'uomo perbene è dunque schiavo e vigliacco.
L'uomo libero e illuminato è una bestia, oserei dire condannato ad esser giudicato sempre come un criminale, un uomo disfatto e disgregato che ha rinnegato l'ansia dell'uomo medio di sottomettersi a canoni stereotipati: l'uomo libero di Dostoevskij sembra condannato all'altrui derisione all'invidia e alla sottomissione verso coloro che sono uomini molto più limitati di lui stesso: questa è la tragica verità del grande scrittore russo, che più si va in alto e più si trovano uomini d'azione limitati e felici, mentre più si va in basso e più si trovano uomini illimitati e infelici.
Bisogna ammettere che lo scrittore già prima dei Demoni, L'Idiota e I Fratelli Karamazov ha già operato in se stesso UN CAPOVOLGIMENTO TOTALE DELLA MORALE DI GIUDIZIO UMANA E SULL'INTERA UMANITA'.
Il romanzo sembra anche procedere su tre schemi consecutivi: Sottosuolo- Competizione (voglia di riscatto)- Amore (patetico ma unica salvezza dell'uomo).
Dostoevskij va fino in fondo e con estremo coraggio intellettuale osa dire e riconoscere quello che la maggior parte di noi uomini non osa neanche ammettere a metà, di fronte agli altri e anche di fronte a noi stessi: risulta chiara ed evidente la sua presa di posizione anticonformista e anti-perbenista tipica della cultura indoeuropea ed occidentale in generale.
Dostoevskij sposa, si mischia, eleva a volontà di potenza la morale del popolo umiliato e offeso anche da lui stesso (nella figura della prostituta Liza che invidia propria per la sua maggiore bassezza e degradazione sociale): Dostoevskij invidia ciò che sta più in basso di lui, ne invidia la maggiore infelicità frustrazione e sembra volersene masochisticamente appropriare al contrario dell'umanità che invidia e invidierà sempre ciò che sta più in alto, che è più elevato; inutile dire quanto il suo messaggio sia profondamente simile al messaggio evangelico, per lui gli ultimi sono veramente i primi nel regno dei suoi stessi valori morali: in ciò, egli svela denuda l'esser umano anche il più potente, TIRANNEGGIARE SIGNIFICA SENTISRSI MORALMENTE, PSICOLOGICAMENTE E NEGLI STESSI VALORI INFERIORI A CHI SI HA LA PRETESA DI TIRANNEGGIARE, CONTROLLARE SOGGIOGARE. Egli stesso pone la sua anima a laboratorio coraggiosamente esposto al lettore per questa lucida analisi che capovolge gli schemi di giudizio comuni.
Tutto ciò nasce dal volere la propria sofferenza, dalla potenza del caos, da Dionisio che catapulta l'edificio di cristallo della razionalità umana fondata freddamente sul 2 più 2 uguale 4 che sembrerebbe quasi identificare nelle famose "anime morte" di Gogol. Ecco, Dostoevskij ristabilisce di prepotenza le ragione del cuore e non del cervello, anzi stabilisce che la coscienza divina delle cose è sul piano emotivo ancor prima che su quello razionale, lucido, pacato come la superficie di un lago; no, no, lui è tutto un mare in tempesta che si porta racchiuso nel sottosuolo.
L'uomo evoluto è quindi condannato all'inattività poiché eccessivamente severo con se stesso fino alle più stupide assurdità, vanitoso si, ma fino al completo e totale disprezzo di se stesso; l'uomo evoluto che lui sembra amare al posto del limitato-superattivo è di conseguenza un anti-eroe da opporre con fermezza morale all'eroismo di certi "stupidi e infantili sognatori" (è inutile dedurre cosa ne penserebbe questo grande scrittore della quasi totalità della cinematografia americana). Questi uomini "universali" sono fallaci e perdenti positivisti.
La psicologia di Dostoevskij è fredda, cinica, reale e brutale; egli attesta di se stesso di esser un uomo vile e cattivo, per emanciparsi dalla condizione degradante del sottosuolo cerca un conflitto un duello con gli uomini affermati, socialmente più in alto di lui; questo duello si esaurisce in se stesso poiché non gli viene concesso alcun duello quasi per il totale disprezzo che ispira agli occhi degli altri la sua buffa e ridicola fisicità e tutta l'ansia di riscatto si sfoga su una povera prostituta a cui per rabbia e sadismo mentale rivela il suo pessimo e rivoltante futuro nonché la sua squallida morte data la vita che fa.
In un perverso gioco psicologicamente sadomasochistico e conflittuale nell'amore tra uomo e donna in cui le parti del carnefice e della vittima sembrano scambiarsi vicendevolmente per poi riappacificarsi della morsa serrata della passione e nell'inevitabile duro e schietto teorema dostoevskijano secondo cui in realtà non si ha amore se non nella volontà di dominare, tiranneggiare e quindi invidiare l'oggetto del proprio amore (dopo averlo però sottomesso), forse Fedor vuole dimostrarci che un amore duraturo è un amore capace di ribaltare tumultuosamente queste due parti in continuo dinamismo e che in realtà un amore stabile ed equilibrato poiché vi è un elemento per sempre dominato e un altro per sempre dominante non è nient'altro che l'anticamera del non-amore.
Il vero amore che poi è la salvezza dell'essere umano è quella forza che scioglie il ghiaccio del sottosuolo o lo libera dalle catene come la "neve bagnata" sciolta dalla potenza e dal calore dei raggi solari (ed in questo tema della seconda parte del romanzo credo che vi sia una potenza e una maestosità poetica degna del suo grande maestro Puskin).
Il finale del romanzo mi esalta poiché "abbassa la cresta" all'umanità intera illusa di possedere le vette della sapienza, della scienza e del potere sulla terra..il finale è grandioso e ve lo cito: "Noi sentiamo perfino il peso di essere uomini, ce ne vergogniamo, lo consideriamo un disonore e cerchiamo di essere non so che immaginari uomini universali. Siamo dei nati morti ed è già un pezzo che non nasciamo più da padri vivi e questo ci piace sempre di più? Ci prendiamo gusto e presto escogiteremo anche il modo di nascere addirittura da un'idea".
Noi ovviamente del sottosuolo perché il restante presente nell'intera umanità avrà sempre il disprezzo e la paura nella propria coscienza di una tale eloquente e sincera affermazione nichilista e dispregiativa di se stessi.
Sembra dunque che per rinascere ed esser veramente uomini bisogna rivoltarsi prima di tutto un po' contro se stessi e poi riaffrontare il mondo con nuove lenti.
Elio De Luca


I Fratelli Karamazov  di  F. M. Dostoevskij

I fratelli Karamazov sono il romanzo più bello che abbia mai letto in tutta la mia vita, hanno scavalcato nel mio personale e modesto giudizio il Narciso e Boccadoro di H. Hesse.
Il tema di questo romanzo è il parricidio ossia un tema epico, il figlio che uccide il padre, la tragedia di Edipo che a detta di Freud tutti noi uomini viviamo nel profondo della nostra psiche (complesso di Elettra nel caso delle donne).
Io credo che questo tema rappresenti un archetipo del genere umano, qualcosa di profondo da cui non si può assolutamente prescindere così come la farfalla per prendere vita deve assolutamente valicare le porte della larva entro cui e' compressa, così anche l'uomo per diventare propriamente "uomo" deve saper affrontare questo tema nel sociale e nel proprio intimo.
La lettura del romanzo, lungo profondo e ricco di spunti di ogni genere, psicologico, storico, biblico e religioso non e' facile da affrontare anche poiché si potrebbe scrivere un libro di critica per ogni singolo capitolo tanto ogni pagina è pregna di intuizioni filosofiche geniali e rivoluzionarie.
Mi piacerebbe che qualcuno lo leggesse per poter condividere con me spunti di riflessione, per arricchirmi di tutto quello che mi è passato di mente o che non ho saputo apprezzare per miei limiti mentali.
Per ora scrivo la mia:
Innanzitutto credo che Fedor sia un visionario o un profeta così come un Isaia lo è nel campo biblico; cioè credo che non solo abbia prefigurato la psicanalisi di Freud e Jung ma l'abbia addirittura arricchita di qualcosa di misterioso che forse tutt'oggi non è ancora stato studiato o sperimentato nel campo della psicanalisi: il tema del doppio o addirittura del quadruplo e poi dell'universale.
I personaggi principali sono Il sig.Pavlovic che sarebbe il padre di quattro figli: il primo, Mitja avuto dalla prima moglie che trascurava e da cui si sentì poi abbandonato (o almeno così si lagnava in paese vittimisticamente) è un bimbo completamente trascurato dalla dissolutezza della vita del padre…praticamente si scorda proprio della sua esistenza, non lo considera e viene automaticamente affidato al sig.Grigorij domestico e uomo fidato del padre nell'abitazione; poi Ivan e Alesa (protagonista) figli della seconda moglie L'urlona anche lei deceduta durante l'infanzia dei figli: il primo vive col padre ma dopo aver vissuto a lungo in Europa, è il cosiddetto filosofo ateo e materialista dell'ottocento, il secondo non vive con loro ma bensì viene affidato allo starec Zosima, un'altra figura importantissima del romanzo, ossia il monaco cristiano primitivo inviso all'ortodossia religiosa russa; infine, il quarto figlio, Smerdjakov illegittimo nato da un'avventura del signor Pavlovic con la "scema del villaggio" una sorta di stupro di branco con i compagni di sbronze la quale dopo aver tenuto in grembo il figlio per nove mesi (anche se ebete) durante le doglie si reca nell'abitazione del sottoscritto di notte e nel bagno di nascosto partorisce morendo lei stessa Smerdjakov il quale verrà anche lui accudito dal custode e la moglie….però per ironia della sorte si ritroverà anche lui a far da maggiordomo e cuoco dentro la casa del padre di cui non si capisce se sappia o meno di essere il figlio (già qui Dostoevskij fa prefigurare un tema, quello dell'inconscio o della rimozione dalla coscienza, ma non ce lo dice….in realtà non si capisce se il figlio illegittimo sia cosciente o meno della cosa anzi a dire il vero lo scrittore fa passare di sfuggita anche l'episodio della copulazione con la povera scema del villaggio, come se anche questo fosse una via di mezzo tra la realtà e la diceria tipica dei paesani….e qui ci sono tutti i puntini di Dostoevskij sulla conoscenza profonda della natura umana).
Allora premetto che, avendo studiato anche tutte le altre opere e la vita di Dostoevskij, a mio avviso questo romanzo non è solo autobiografico ma anche onnicomprensivo del tema di tutte la altre opere: Fedor Pavlovic è un uomo passionale, buffo ma intelligente, autoritario, spavaldo ma pieno di sentimenti, egoista ma fiero e sincero del suo egoismo…sembra quasi meritarsi quella sua morte...è identico al vero padre di Dostoevskij proprietario terriero, autoritario e violento che fu ucciso durante una rivolta dei servi della gleba che lui stesso teneva sotto il suo potere….fu quello l'episodio che segnò l'inizio dell'epilessia del povero scrittore…dunque l'epilessia è considerata da Dostoevskij come un contrasto di estremo amore/odio verso la figura paterna….è qui c'è anche autopsicanali. La malattia come uno squilibrio amore/odio ma anche come presa di coscienza a volte profetica e profonda.
Voglio fin da adesso precisare che il tema della mia riflessione è principalmente questo : I QUATTRO FIGLI DEL SIG.PAVLOVIC RAPPRESENTANO LE QUATTRO PARTI IN CUI E' DIVISA L'ANIMA DI DOSTOEVSKJI E I PADRI SONO DUE, IL REALE E IL DOPPIO (MAGGIORDOM0) CHE RAPPRESENTA UN PADRE PIU' PIO E MANSUETO.
Allora:
Alesa: è un'anima gentile, pura, incorruttibile, casta, onnisciente, dolce e allo stesso tempo equilibrata e audace.
Mitja: è un'anima passionale violenta e lussuriosa….del tutto identica al padre.
Ivan: filosofo laico se non quasi ateo, materialista e realista, rappresenta la cultura europea dell'800 di cui Fedor è ammiratore ma anche critico.
Smerdjakov: è un idiota, nel senso vero e non spregiativo del termine, riservato, silenzioso, debole, ricettivo, astuto ma anche malizioso, condizionabile ed epilettico…ma le poche volte che apre bocca sembra che dica la verità anzi che predica proprio il futuro, che lo presenta e che da ciò derivino le sue crisi epilettiche.
E' il più disgraziato è la fine che Dostoevskij gli fa fare è il suicidio perché è lui che compie materialmente il delitto (quindi Dostoevskij da epilettico fa compiere a se stesso il delitto paterno anche se nella società lo compiono i servi della gleba….in più si relega il posto più disgraziato in famiglia)….qui c'è molto dell'Idiota (altro capolavoro romanzesco dello scrittore).
Ecco la cosa che mi stupisce e sbalordisce è questa: il tema del parricidio è un tema epico, tragico (purtroppo anche nei giorni nostri) ma qui c'è il doppio, ossia vengono uccisi due padri e misteriosamente avviene come una spartizione democratica del delitto tra i fratelli sebbene l'autore lo fa compiere ad uno solo (Smerdjakov) mentre il doppio del padre (il domestico Grigorij) tenta di ucciderlo Mitja stesso, il figlio più simile al padre vero: qui sembra che lo scrittore voglia suggerirci la non importanza del sangue di appartenenza, quanto più chi nella vita riveste le vere vesti del padre.
Tema importante: l'incesto psicofisico tra padre-figlio tramite una donna Grusenka, che li porta allo stremo, si lascia sedurre da entrambi….Dostoevskij fa capire che il complesso edipico non è dovuto alla sola pulsione aggressiva del figlio verso il padre dato l'attaccamento morboso alla madre…ma bensì che vi è proprio un conflitto di interessi nel caso in cui il padre non "fa" il padre nella vita (e ciò viene fuori nel processo durante l'arringa del difensore….a proposito chiama il tema del capitolo "gli adulteri del pensiero") ossia si presenta come rivale o pretendente….la cosa è reciproca: praticamente può capitare che il figlio voglia farsi la donna del padre e viceversa…complesso edipico e doppio nel senso che anche il padre è geloso, invidioso e rivale del figlio per quanto riguarda le donne e la società PRONTO A COMPETERE CON LUI NON DA PADRE MA DA NEMICO VERO E PROPRIO.
Poi Ivan è il "mandante" poiché nella sua filosofia atea e materialistica esclama davanti a Smerdjakov "tutto è permesso" e lui lo prenderà alla lettera e pensando che avvenga l'omicidio a breve (avendo predetto " dei due rettili uno divorerà l'altro" riferito al Mitja e Pavlovic essendo caratterialmente simili sono obbligatoriamente rivali e la donna sembra masochisticamente godere all'idea di farli competere). Ma Ivan fugge dal padre invece di difenderlo anzi sembra pure che lasci la porta aperta come segno di accondiscendenza (altro particolare della storia che Dostoevskij fa passare dietro al sipario sempre per tenere vivo il tema della rimozione dalla coscienza) Alesa sarà invece lontano solo perché si occuperà di una altro grande tema ossia del padre povero e proletario che il figlio orgogliosamente cerca di riscattare da un oltraggio subito pur morendo giovane.
Smerdjakov sembra invece ripetere "Delitto e Castigo"(anche li c'è il tema del doppio l'uccisione di due madri simboliche nella madre e nella sorella) ossia è l'unico ad aver veramente diritto a uccidere quell'essere immondo del padre per ricavarne dei soldi e una rinascita: ma invece su suiciderà dopo una delle tante crisi epilettiche.
Alesa, il protagonista sembra l'unico esente da colpe nel senso che cerca di prendersi cura di tutte le colpe vere e immaginarie dei fratelli ma allo stesso tempo tradisce anche lui un odio verso il padre quando si permette di richiamarla urlona…..ossia vi è un lato femminile e sensibile che lo salva dalla catastrofe (sarà questo il teorema di Dostoevskij? Un'altra cosa che ce lo fa intendere è l'amore quasi omosessuale anche se non esplicito che lega i quattro fratelli).
Smerdjalov è dunque l'epilettico, che assorbe e che muore implodendo.
Ivan è il mandante poiché filosofo ateo…(a proposito il suo racconto ad Alesa Credente "La leggenda del grande Inquisitore" una delle più profonde pagine mai esistite di esegesi evangelica applicata alla letteratura…c'è tutto il vangelo sacro e un chiarimento per me stesso sbalorditivo delle tre tentazioni di Cristo nel deserto con un grido di accusa e profonda invettiva verso la Chiesa Cattolica)
Ivan è dunque un eretico, rinnega Dio è come Nietszche e infatti prima che questo filosofo facesse questa fine…Dostoevskij lo fa impazzire poiché lo lascia nelle mani del Diavolo OSSIA VEDE LA VERITA'HA LE VISIONE DELLA LUCE MA IMPAZZISCE.. LUCI-FERO…..Ivan morirà pazzo poiché arriva ad avere visioni del demonio in sembianze umane…ossia nel doppio di se stessi….la seconda tenebrosa voce che ognuna ha dentro di se.
Dostoevskij è dunque un laico a metà…poiché condanna alla pazzia l'ateismo completo.
Le donne del romanzo sono poi tutte come dei pianeti che girano intorno a se stessi messi in moto dalle baldorie degli uomini e si placano solo dopo scatti di ira, gelosia, sado-masochistici e crisi isteriche…è chiaro che Dostoevskij considera più interessante l'universo maschile ma la rappresentazione delle donne è esemplare e si rivela un profondo conoscitore anche della psiche femminile.
Dunque quello che per me è misterioso è questo: lo sdoppiamento del padre sembra volerci suggerire…fate un passo avanti piccoli uomini perché io so che il tema del parricidio non si ferma e non è contemplato nella sola spiegazione del complesso edipico….c'è di più sotto e questo non ve lo dico lo dovete scoprire voi perché forse non lo so neanche io….io credo che sia questo ciò che lui nascondeva: UNA VOLTA UCCISO IL PADRE, SIMBOLICAMENTE, OGNI UOMO SI RITROVA A DOVER COMBATTERE CON UN ALTRO PADRE…CHE NOI CHIAMIAMO DIO….OSSIA IL PADRE NEL CIELO, I "PADRI" CHE CI TRASMETTONO, COME DICEVA IL TEATRO GRECO, LE COLPE CHE ANCHE NOI INDISCUTIBILMENTE DOBBIAMO PAGARE E AFFRONTARE NELLA STORIA.
E la colpa dell'uccisione del padre è quadrupla ossia: GUARDATE SCRITTORI E LETTORI, IO IN QUESTI QUATTRO PERSONAGGI NON VI HO MESSO SOLO LE QUATTRO PARTI DI ME STESSO MA LE QUATTRO PARTI IN CUI E' DIVISIBILE IL GENERE UMANO: I PASSIONALI GUERRIERI, I FILOSOFI POLITICI, GLI UTLIMI (PLEBEI, ANAUYM) E I MONACI E TUTTI, SOTTLIONEO TUTTI, SONO GLI AUTORI DEL PARRICIDIO COSMICO, NESSUNO NE è IMMUNE E ANCHE NEL PROCESSO, NELL'ODIO DEGLI UOMINI E NEL TIFARE DELLE DONNE VI E' NASCOSTA UN'ALTRA VERITA' CHE TUTTI GLI UOMINI SONO NORBOSAMENTI ATTRATTI DA FATTI DI CRONACA COME PARRICIDI, FRATRICIDI E SORELLICIDI PERCHE' ANCHE LORO NEL GIUDICARE SONO COINVOLTI PUR NON AVENDO COMMESSO IL FATTO.
Parafrasando De Andrè nella sua storia di un impiegato si potrebbe dire che DOSTOEVSKIJ VOGLIA DIRCI: "ANCHE SE NOI CI CREDIAMO ASSOLTI SIAMO LO STESSO COINVOLTI".
Credo infatti che tutto il tema del racconto sia incentrato sull'eroe di cui si parla alla fine meno di tutti, che si salva dalla galera e dai lavori forzati in Siberia (pena scontata con condanna a Morte dallo stesso Dostoevskij per esser un sovversivo politico contro il regime zarista in cui viene fatto fucilare a salve da un fanatico ufficiale sadico…nell'episodio un commilitone dello scrittore incanutì all'istante e un altro impazzì per il resto della sua vita….pensate voi a che vita ha vissuto questo scrittore epilettico…la grazia concessa in punto di morte dallo zar sembra davvero un'intervento da provvidenza divina…..altrimenti di Fedor non avremmo avuto niente) che si salva dalla pazzia e dal suicidio….ossia la salvezza in questo libro di Dostoevskij coincide con il "non giudizio" poiché Alesa è un uomo che non giudica ma ama spassionatamente tutti e capisce la gioia e il dolore di chiunque: CAPIRE COINCIDE CON IL NON GIUDICARE, IL NON CONDANNARE.
Le pagine più belle sono forse anche i ricordi di padre Zosima (anche qui c'è da notare il suo dono preveggente di fronte all'incontro con Mitja si inchina come se presentisse la sua tragica fine).
Poi c'è anche il tema del sogno come elemento o inconscio e premonitore della vita individuale e collettiva.
Il processo finale poi è una summa della cultura russa, delle speranze che gli uomini non si giudichino ma si amino…sebbene la tragedie di ciascuno.
Insomma credo che questo romanzo riassuma gli archetipi della Bibbia della tragedia greca, di tutto il sapere filosofico prodotto sino alla fine dell'ottocento, prefiguri la psicologia e la infuturi anche rispetto alle conoscenze tutt'oggi raggiunte, del dramma della divinazione, il mistero della profezia e delle preveggenza e quindi il dramma dell'uomo che diventa autore corresponsabile del suo stesso destino anche delle sue vicissitudini e malattie….non esiste predestinazione o superstizione in Dostoevskij ma allo stesso tempo la sua analisi della psiche umana va oltre l'umano come se raggiungesse quei nodi imperscrutabili dove tutto quello che avviene in una sorta affinità elettive avviene perché non può che avvenire così…..Dostoevskij isola e lavora sulle pulsioni i sentimenti e le azioni senza pensiero come se l'uomo fosse un'animale incosciente e allo stesso tempo lo fa elevare maturare e crescere dopo aver preso coscienza del proprio peccato che non poteva non compiere….tutto cio' che vi è tra il pensiero e l'azione cioè il non agire secondo natura e impulso in Dostoevskij sembra diventare inferno e incapacità di amare…..quest'autore sembra cogliere una trama nell'agire umano in cui la somma dei liberi arbitrii degli uomini formano il destino umano e poiché lui sta oltre riesce a capire come andranno le cose….le cose andranno così perché non possono andare che così non perché esista un Dio o una predestinazione ma perché questa è la natura umana.
Il testamento di Dostoevskij è innanzitutto un ritenersi un "salvo" alla fine della sua tragica vita ma allo stesso tempo un monito per l'umanità: solo nel vangelo e nel messaggio di Cristo vi è salvezza per l'essere umano, nella fine dell'isolamento del singolo individuo, nel capire che è stupido allo stesso tempo essere un unico gregge omologato all'accettazione delle tre tentazioni nel deserto di Cristo, ma agire di liberà volontà anche peccando in tutte le maniere possibili e passando attraverso il necessario peccato per il cammino della redenzione e della presa di coscienza e tornare puri come fanciulli. Secondo Dostoevskij se un uomo cade e viene giudicato colpevole in realtà sta avviandosi alla liberazione e sembra quasi dire (guardate che quel padre sebbene lo amassi tanto anch'io meritava quella morte) Mitja infatti non è colpevole dell'omicidio….tutti rimuovono dalla coscienza al momento opportuno la possibilità di salvarsi salvando il padre dall'uccisione ma allo steso tempo non riescono a non ucciderlo.
Dostoevskij predica il perdono e fa capire che solo attraverso il perdono si può salvare l'anima di una persona….PER LUI IL GIUDIZIO UMANO E' UNA VIOLENZA CHE GENERA VIOLENZA ED AUTOCONDANNA.
Io nella mia modesta conoscenza del Vangelo e della figura storica di Gesù credo che in questo romanzo ci sia racchiuso tutto l'amore di Cristo per gli uomini e allo stesso tempo un incandescente e prorompente messaggio di libertà e salvezza per tutta l'umanità.
Questo libro deve aver subito una fortissima gestazione nel suo autore un pò come il Zarathustra del famoso filosofo tedesco.
Dostoevskij è un Karamazov ossia "DUE PROFONDI ABISSI IN UN UOMO SOLO" come nella Divina Commedia Dantesca fa della sua vita un laboratorio di profonda ricerca fino a comprendere in se stesso tutto l'inferno e tutto il paradiso possibile. Non esiste l'uno senza l'aver attraversato l'altro.
Questo mi riempie di una commozione enorme perché libera l'uomo dall'idea del peccato originale ma allo steso tempo lo consola con l'idea del peccato necessario e dell'amore incondizionato, come il Sole che dona senza pretendere niente in cambio questo grande autore ci ha lasciato un opera paragonabile a Beethoven o Mozart, a Caravaggio e Van Gogh.
Auguro a chiunque la lettura di questo capolavoro indiscutibile della letteratura russa.

Si potrebbe dire che ognuno di noi passionalmente è portato a uccidere la figura paterna come Mitja vedendo nel padre un rivale e capendo che il padre stesso ci si rapporta come un rivale; Ivan è colui che uccide il padre solo attraverso il lavoro filosofico intellettuale e che alla fine rischia di impazzire se lo pensa solo l'omicidio e lo lascia attuare da qualcun altro (sempre simbolicamente parlo, poiché credo che è proprio dal rimuovere dalla coscienza queste tematiche che si rischia un infruttuoso scontro o rapporto col proprio padre vero o simbolico che sia); Smerdjakiv è quella parte di noi che uccidrebbe il padre per vendetta per non essere mai stato preso in considerazione, che lo uccide durante le proprie crisi e malattie ma poi si pente e rischia il suicidio; Alesa è quella parte di noi cosciente della altre tre e che le tiene a bada con la forza della ragione e che dunque cerca di salvarle.
Lo starec Zosima è l'unica speranza che una figura sacerdotale possa rappresentare una buon punto di riferimento per i giovani e le donne…..per evitare che le religioni siano solo "l'oppio dei popoli".
Ma in ognuno di noi si racchiude anche quell'amore profondo verso il padre (come Iljusa) che ci porta a riscattarci nella società, vendicando anche gli ingiusti torti che hanno subito i nostri padri…..che quindi capendoli noi possiamo perdonare e farci perdonare.
Elio De Luca


La terza prova-Harry Potter e il calice di fuoco- di J. K.  Rowling

Nonostante l'ardimento e lo spirito battagliero dei quattro campioni, il tenace Viktor Krum e la favolosa Fleur Delacour non riescono a districarsi dal percorso più tenebroso del labirinto.
Entrambi si ritrovano perduti fra le letali trappole nascoste ai loro occhi, e solo Harry e Cedric riescono ad intravedere la vittoria prima di scoprire che ormai la loro vita è segnata.
Nell'agitata furia di vincere la coppa, ormai vicina, i due ragazzi vengono catturati dalla trappola mortale che, a loro insaputa, Voldemort aveva già preparato da tempo.
Cedric viene ucciso dal servo Codaliscia, e Harry viene torturato fino alla totale perdita delle forze.
Voldemort risorge e, insieme ai suoi seguaci Mangiamorte, sfida Harry a duello: l'ultima speranza di vita del giovane mago. Con grandissimo coraggio Harry estrae la bacchetta e tenta, con un disperato sforzo, di disarmare il suo avversario il quale reagisce scagliando l'incantesimo della morte: Avada Kedavra.
Poichè il destino di Voldemort e quello di Harry sono legati dall'uguaglianza delle bacchette, (entrambe scaturite dalla piuma della fenice), la forza degli incantesimi lanciati crea un reticolo di enrgia e concentrazione che impedisce l'impatto di ciascun incantesimo contro l'avversario.
Harry e Voldemort si ritrovano imprigionati in una cappa di pensieri ed entità passate, fra le quali Harry riconosce i suoi genitori e il compagno Cedric.
Il ragazzo fa appello a tutta la sua forza, (sia mentale che fisica), riuscendo ad interrompere il contatto e tornando ad Hogwarts con il corpo privo di vita di Cedric.
Insieme a questo tragico avvenimento, Harry è costretto a scoprire la verità: l'insegnante Malocchio Moody di difesa contro le arti oscure è in realtà Barty Crouch Junior, per l'appunto un mangiamorte e artefice di questo ingegnoso piano. Dopo un vano tentativo di uccidere anche Harry, Barty Crouch Junior viene ricondotto alla sua cella nella terribile prigione di Azkaban, dove resterà per tutta la vita.
La tristezza e la minaccia incombono ormai su Hogwarts e sui suoi studenti, i quali temono il trionfo e l'affermazione dell'oscuro regime di Voldemort.
Maggie Vigliotti


Musolino il brigante dell'Aspromonte di Enzo Magrì - Ed. Camunia- 1989

UNA INGIUSTIZIA ALLE ORIGINI DI UNA DEVIANZA
Quando lo stato riparerà i torti subiti dal Brigante Musolino?

Enzo Magrì, dopo aver espresso il meglio di se stesso con un precedente libro "IL BANDITO GIULIANO" pubblicato per i tipi della Mondadori nel 1987 ci offre un nuovo ed interessante spaccato della società meridionale d'inizio secolo con il volume "IL BRIGANTE MUSOLINO" dove, narrativa ed antropologia si intrecciano riuscendo a trasportare il lettore nel clima politico e culturale a cavallo tra fine '800 ed inizio '900 e riuscendo a fornire una chiave di lettura chiarissima della realtà geopolitica calabrese di un periodo storico dove i soprusi baronali, l'arretratezza culturale e morale della popolazione trovavano quasi una giustificazione nell'azione del brigantaggio mentre i tentativi repressivi da parte delle forze di polizia si scontravano con gli atteggiamenti di omertà e di complicità delle masse rurali che vedono nei ribelli un modo per esprimere la loro rivolta contro lo sfruttamento a cui erano sottoposti.
Dell'innocenza di una persona, dopo che questa ha scontato trent'anni di ergastolo e dopo il suo decesso, non interessa più a nessuno.
Eppure tutto ciò non è corretto. Un uomo condannato ingiustamente dovrebbe avere un minimo di risarcimento morale e materiale. E se deceduto, tale risarcimento dovrebbe andare alla famiglia o ai suoi discendenti. Questi hanno visto il loro casato infangato da una condanna ingiusta, che ha anche comportato nel tempo disagi e danni economici che si sono ripercossi nel tempo sui familiari e sui loro eredi.
Se fossi un magnate sicuramente finanzierei una iniziativa di revisione del processo Musolino al fine di rendere almeno giustizia ad un giovane che è stato spinto, proprio dalla giustizia che avrebbe dovuto tutelarlo, a diventare un assassino.
E' vero che Musolino viveva in un contesto in cui la spavalderia e la violenza erano moneta corrente, ma è anche vero che dopo l'unificazione italiana le condizioni morali e materiali del popolo calabrese non consentivano la crescita di una coscienza civile della popolazione: Lo strapotere dei baroni, poi, e gli intrighi dei politicanti locali, che molte volte riuscivano anche con false testimonianze a fare incriminare e, quindi, eliminare dal contesto politico, i loro concorrenti, erano occasione per alimentare una rivolta interiore delle masse popolari soggette a condizioni disumane di sfruttamento e di soggezione.
L'azione si svolge in un siffatto contesto di arretratezza e la rivolta per l'ingiustizia subita trasformano Musolino in una sorta di vendicatore e di riparatore dei tanti torti subiti dalla popolazione meridionale.
Anche la vendetta gioca una parte importante in questa vicenda, anche se, come fa osservare l'autore, la vendetta non è una pratica fiorita nel meridione ma vi è stata importata dall'esterno. Infatti la vendetta era patrimonio culturale delle regioni settentrionali d'Europa che ve la introdussero in Italia con le invasioni barbariche. Nel mezzogiorno forse attecchì con più forza rispetto alle altre regioni appuntò per le condizioni di sottosviluppo in cui versava questa regione, anche se l'autore fa notare che tale cultura della vendetta aveva in altre parti d'Italia dei sostenitori accaniti e racconta la storia di un pio uomo fiorentino che dopo essere stato pugnalato da un amico, in punto di morte chiede perdono a Dio ma lasciò nel testamento un lascito per colui che avrebbe ucciso il suo feritore.
In tale contesto si sviluppa la reazione di Musolino ai soprusi subiti e la vendetta gioca un ruolo non secondario per punire i delatori che con le loro false testimonianze lo avevano rovinato.
Che Musolino abbia potuto fare tutto da solo è uno dei dubbi ricorrenti nel volume. Fu la 'ndrangheta ad aiutarlo oppure una serie di situazioni favorevoli e la sua testardaggine, uniti ad una buona dote di abilità personali e di fortuna, gli consentirono di farla franca e di ridicolizzare centinaia e centinaia di carabinieri e di "cacciatori di taglie" che erano stati sguinzagliati sulle sue tracce per catturarlo dopo la sua evasione dal carcere di Gerace e dopo le prime vendette che aveva incominciato a praticare?
Il volume di Magrì, logicamente in molti punti frutto di intuizione personale, si scosta tuttavia da tanti altri autori che hanno romanzato altri personaggi che nel passato sono assurti agli onori della cronaca giudiziaria.
Infatti lo sforzo dell'autore è quello di una profonda accusa a tutto il sistema giudiziario di quegli anni che trovava fondamento nelle teorie del Lambroso sulle caratteristiche morfologiche e somatiche dei criminali che avrebbero, poi, avallato prima la condanna, senza approfondire gli elementi di squilibrio mentale già manifestati in più occasione dal Musolino, e successivamente l'incivile ed inumana segregazione a cui fu sottoposto per ben 10 anni nel carcere di Portolongone (oggi Porto Azzurrro) nell'Isola d'Elba dopo la condanna a 30 anni, emessa dal tribunale di Lucca.
I dieci anni di isolamento inflitti contribuirono a far peggiorare le sue già precarie condizioni fisiche e mentali fino a portarlo alla pazzia. Da qui la denuncia ancora più dura da parte dell'autore nei confronti di un sistema carcerario che, lungi dal prodigarsi per il recupero del condannato, non fece altro che aumentare o addirittura motivare, con le sue restrizioni e le sue regole inumane, l'odio verso la società e soprattutto verso coloro, testimoni, giudici e poi carcerieri, ritenuti, ed a ragione aggiungerei, la causa del suo comportamento asociale e ribelle.
Infatti quale condannato (o persona normale) sopporterebbe oggi senza dar di testa ben 10 anni di segregazione in isolamento, dovendo elemosinare un paio di fogli di carta settimanali per poter per lo meno ingannare il proprio tempo scrivendo?
La considerazione più amara sta nella constatazione che nonostante le visite mediche a cui Musolino era stato sottoposto durante la detenzione dell'Isola d'Elba da parte dell'ispettore sanitario, Filippo Saporito, inviato appositamente per ben due volte dal Ministero, e questo nonostante che nel corso del processo di Lucca del 1902 il parere dei periti si fosse diviso tra favorevoli alla sua pazzia e quelli decisamente contro, non vennero valutati gli elementi di squilibrio mentale che si stavano aggravando in Musolino e che erano già esplosi durante la sua prima segregazione all'ospedale criminale di Reggio Emilia dopo la sua cattura, soprattutto a causa dell'isolamento a cui era sottoposto e che un tentativo di reinserimento, almeno tra i detenuti comuni, avrebbe potuto evitarne l'aggravamento ed avrebbe offerto occasione di socializzazione tale da bloccare l'escalation della sua follia.
Ma l'altra più amara considerazione viene dalla constatazione che mentre la scienza ammise più tardi i propri errori, asserendo che era mancato il coraggio di porsi contro altri colleghi e contro il potere costituito nell'affermare e sostenere la pazzia di Musolino, lo stato non riconobbe mai i suoi errori.
Ed anche quando dall'America l'ex-picciotto Giuseppe Travia ammise di aver sparato lui contro lo Zoccali, episodio per il quale era stato incriminato e condannato a 21 anni di reclusione Musolino, grazie anche ad una serie di false testimonianze non valutate adeguatamente, nessuna revisione del processo fu avviata per restituire almeno giustizia ad un uomo che ritenne opportuno farsela da solo per la superficialità del sistema giudiziario.
E neppure l'unica sorella "superstite Anna era in grado di indurre lo stato, ormai fascista, a riconoscere i pasticci di uno dei suoi poteri sulla cui fedeltà faceva molto affidamento".
Ma oggi, col senno di poi e guardando a quegli avvenimenti passati diventano più chiare le parole rivolte ai giurati da Musolino nel processo di Lucca che rappresentano oggi un macigno sulla coscienza del persone del nostro tempo che credono nell'efficienza e nell'efficacia della giustizia e del diritto.
Musolino aveva detto: "Se un uomo campasse cento oppure duecento anni, una condanna a quattro o cinque anni sarebbe un fatto grave e sopportabile considerando il grande tempo che gli rimane da vivere; ma come può un uomo giovane e innocente che si sente strappare dalla sua vita e condannare a ventuno anni di carcere sopportare tutto questo?"
Ed oggi potremmo concludere anche noi con una amara considerazione: Come possono i cittadini, dopo aver saputo come realmente si siano svolti i fatti in quel lontano inizio secolo, sopportare l'ingiustizia perpetrata dalle istituzioni senza che queste avvertano ancor oggi il bisogno di avviare autonomamente una revisione di quel processo per rendere giustizia ad una persona che le stesse istituzioni costrinsero a diventare un assassino e che poi punirono in modo così terribilmente atroce?
Salvatore Armando Santoro


Il gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa - Edizioni Feltrinelli
Premetto che ci troviamo davanti a un'opera di valore assai elevato, tanto che ormai Il gattopardo è da tempo un classico della letteratura.
Il romanzo si focalizza sulla figura del principe Fabrizio Salina, aristocratico colto, scettico di fronte ai nuovi tempi (la narrazione ha come iniziale riferimento lo sbarco dei mille in Sicilia e pertanto il 1860), ma contemporaneamente consapevole della fine della società di cui è parte.
Nel suo ramo familiare figura il nipote Tancredi, prediletto perché questi rappresenta, con il suo opportunismo e la sua audacia, la nuova forza che si sprigionerà dal vecchio mondo ormai morente, per dar luogo a una società solo apparentemente nuova, poiché il mutamento sarà solo esteriore e il potere continuerà a restare ben saldo nelle mani della vecchia classe dirigente a condizione che questa si impegni in questa apparente rivoluzione per orientarla verso i propri fini.
In questo quadro il Principe Salina asseconda il nipote nei suoi giochi, senza tuttavia prendervi direttamente parte, ma solo come semplice spettatore dello sviluppo storico, con una sorta di consapevole rassegnazione che, se anche tutto e nulla cambia , per la sua classe sociale, per questa antica nobiltà sicula legata alla terra non ci sarà più futuro.
E in effetti tutta l'opera è pervasa da un opprimente senso di decadenza, che si rispecchia nella desolata campagna siciliana, negli antichi e decrepiti paesi, nei palazzi quasi abbandonati da una aristocrazia pigra e incapace di alimentare le ragioni della sua stessa esistenza. Al riguardo, giustamente famosa è la scena del ballo di Palermo, con la crudele rivelazione, per il principe Salina, della deformazione della morte sui volti allegri dei giovani che gli stanno intorno.
Ci sono pagine di stupenda bellezza, quali quelle in cui il gesuita Padre Pirrone, prelato personale della famiglia Salina, andato a trovare la sua vecchia madre, spiega a un addormentato erborista le caratteristiche dei nobili, oppure quelle della morte del principe, in una stanza d'albergo, con una descrizione del trapasso che raggiunge i vertici dell'abilità narrativa.
Benché la vicenda sia ambientata nel XIX secolo lo stile non è proprio dell'epoca, ma nemmeno del secolo successivo in cui l'opera è stata redatta; non c'è una parola di troppo, né una di meno, non è per nulla ridondante, ma nemmeno scarno, non è costruito, ma nemmeno stringato, insomma è uno stile del tutto personale e irripetibile che mai stanca, pur invitando a soffermarsi sul vero significato di tutte le frasi.
Renzo Montagnoli

L'autore
Giuseppe Tomasi di Lampedusa nasce a Palermo il 23 dicembre 1896, da nobile e antica famiglia, che annovera fra i suoi avi il Principe Giulio Fabrizio alla figura del quale si sarebbe ispirato nel redigere il suo unico romanzo "Il gattopardo". E' interessato alla letteratura fin dall'infanzia, senza che tuttavia pervenga a una produzione letteraria. Nel 1954 accompagna il cugino Lucio Piccolo al convegno letterario di San Pellegrino Terme e conosce così personalmente alcuni scrittori, circostanza che lo induce a scrivere il romanzo a cui pensava da molti anni e che ultima nel 1956.
Muore a Roma il 23 luglio 1957, dopo che la sua eminente opera è stata rifiutata sia dalla Mondatori che dalla Einaudi. Grazie a Giorgio Bassani, il Gattopardo viene pubblicato nel 1958 da Feltrinelli e il successo è clamoroso.
Renzo Montagnoli


NORDEST di Massimo Carlotto e Marco Videtta - edizioni e/o
Ecco un grande successo editoriale, con più di sessantamila copie vendute, per un noir magistralmente condotto dall'inizio alla fine.
Racconta del rapporto fra un padre e un figlio, inserito nel contesto della realtà attuale del Nordest italiano, un territorio fino a poco tempo fa assai ricco, ma che ora sta vivendo una crisi epocale che ha indotto gli industriali a trasferire le loro attività in Cina e in Romania.
Nordest parte da un delitto per raccontare la diffusa illegalità che ha consentito di accumulare grandi fortune, senza rispetto per chiunque e per il territorio.
E' un romanzo di grande respiro che, pur tuttavia, non affonda il bisturi nelle problematiche, ma si limita, peraltro assai bene, a evidenziarle. Se questo può apparire un limite, rappresenta comunque un vantaggio sotto l'aspetto della leggibilità, non appesantendo la narrazione che scorre fluida e limpida dall'inizio alla fine.
Per gli appassionati del genere noir, ma non solo per quelli, è un'opera caldamente raccomandabile.
Renzo Montagnoli

Gli autori.
Massimo Carlotto nasce a Padova nel 1956 e vive in Sardegna; è autore di romanzi noir e di racconti per ragazzi, nonché di testi teatrali. Ha esordito nel 1995 con Il fuggiasco, autobiografia del suo periodo di latitanza (accusato di omicidio nel 1976 e graziato nel 1995 da Oscar Luigi Scalfaro); successivamente ha scritto La verità dell'Alligatore, Il mistero di Mangiabarche, Le irregolari, Nessuna cortesia all'uscita, Il corriere colombiano, Arrivederci amore, ciao, Niente, più niente al mondo, L'oscura immensità della morte e Nordest.

Marco Videtta è nato a Napoli nel 1956 e vive a Roma. Ha pubblicato saggi e articoli su cinema e letteratura. Lavora come sceneggiatore, story editor e produttore per la fiction televisiva e il cinema.
Nordest è il suo primo romanzo.
Renzo Montagnoli


Giustizia in prima linea di Anne Perry - Edizioni Fanucci
Preciso subito che è un thriller avvincente come pochi, ma a differenza di tutti gli altri ha un pregio forse unico: l'ambientazione del tutto particolare.
La vicenda, infatti, si svolge nel corso della Prima Guerra Mondiale principalmente sul fronte delle Fiandre, fra le truppe inglesi accorse a contenere l'avanzata germanica.
In questo scenario viene commesso un omicidio proprio in prima linea e la vittima è un giovane e arrogante corrispondente di guerra spintosi oltre i limiti consentitigli.
Se l'assassino fosse stato un soldato tedesco, sarebbe rientrato nell'ineluttabilità dell'evento bellico, ma colui che gli ha tolto la vita, e non per sbaglio, è un militare inglese.
Non ci sono indagini da parte della polizia, ma c'è chi vuole sapere la verità ed è un cappellano inglese comandato su quel fronte. Dietro l'omicidio c'è tuttavia una macchinazione quasi infernale che potrebbe cambiare le sorti del conflitto e gli equilibri mondiali, e in questo scenario si svolge l'attività investigativa.
La tensione non viene mai meno, dalla prima all'ultima pagina, e l'abilità dell'autrice è di tenerla viva anche in episodi apparentemente insignificanti, ma che ci consentono di apprezzare la descrizione della guerra in trincea, rappresentata con un'efficacia sorprendente.
Il romanzo assume un valore che quindi va ben oltre quello del thriller vero e proprio per la sua capacità di fornirci, in modo impeccabile e veritiero, la realtà di un'epoca che, con le sue ripercussioni, ha segnato in modo indelebile tutta la storia del secolo scorso.
Renzo Montagnoli

L'autore
Anne Perry è nata nel 1938 e vive a Londra. E' autrice di diversi gialli ambientati nell'Inghilterra del periodo Vittoriano; le sue fortune letterarie sono legate soprattutto alla creazione di due personaggi, gli ispettori William Monk e Thomas Pitt. Delle sue opere sono state vendute più di quindici milioni di copie in tutto il mondo. Fra la sua produzione, tradotta in italiano, degni di nota sono Il battesimo, In un vicolo cieco, Alto tradimento e, appunto, Giustizia in prima linea.
Renzo Montagnoli


Tappe della disfatta di Fritz Weber - Edizioni Mursia
La prima guerra mondiale vide direttamente impegnati, l'uno contro l'altro, il Regno d'Italia e l'Impero d'Austria, quest'ultimo anche pesantemente coinvolto nel conflitto con la Russia zarista.
C'è un'abbondante storiografia italiana riguardante quella che fu chiamata "La Grande Guerra" , pubblicazioni di abbastanza facile reperibilità nelle librerie; meno facile è trovare qualche opera della parte avversa, degli sconfitti, e in tal senso c'è da ringraziare la Casa Editrice Mursia che ha dato alle stampe tre volumetti di Fritz Weber, di cui uno oggetto della presente disamina.
Il valore di "Tappe della disfatta" sta soprattutto nel fatto che il suo autore racconta la sua esperienza diretta in questo immane conflitto; tenente di artiglieria, operò su tutti i settori del fronte: dagli Altipiani di Folgaria e di Lavarone a quelli dell'Isonzo, dal Pasubio a Caporetto, fino all'ultima fallita offensiva sul Piave.
Lo stile, sobrio, ma avvincente, fa rivivere nel lettore grandi eventi e la vita di ogni giorno di questi nostri nemici che certamente penavano al pari de nostri soldati, verso i quali l'autore ha parole da avversario, da contendente equilibrato, mettendo in luce le pecche, che non erano poche, dei nostri alti comandi, ma evidenziando un rispetto profondo per noi italiani.
Ci sono pagine che fanno rabbrividire e altre che muovono alla commozione, ma su tutto emerge chiara l'insensatezza di un conflitto come risoluzione dei problemi.
Non ha forse il carisma di "Niente di nuovo sul fronte occidentale", più romanzo, per quanto stupendo, ma riesce a delineare con un'efficacia incredibile il quadro di una guerra
crudele e le fasi del disgregamento di quello che fu il grande impero austro-ungarico.
Per quanto ovvio, nel descrivere gli eventi si avverte lo spirito di parte, ma non trascende mai e, soprattutto, non stravolge le verità.
Per gli appassionati di storia della prima guerra mondiale sono dell'idea che questo libro sia imperdibile.
Renzo Montagnoli

L'autore
Fritz Weber (1895-1972). Altre sue pubblicazioni, edite tutte da Mursia, sono "Guerra sulle alpi" e "Dal Monte Nero a Caporetto".
Renzo Montagnoli


La regina d'inverno di B. Akunin Edizioni Sperling & Kupfer
Ci troviamo nella Mosca zarista del 1876; in un parco affollato un giovane si spara davanti agli occhi di una ragazza che poco prima gli aveva rifiutato un bacio. E' solo l'inizio di una inquietante catena di suicidi all'apparenza inspiegabili.
E' così che prende l'avvio questo bellissimo romanzo giallo di B. Akunin, uno scrittore russo assai conosciuto e stimato nella sua patria, ma anche molto apprezzato all'estero.
Il testo si snoda con coerenza, logica e colpi di scena fino alla conclusione finale, attraverso l'indagine di un investigatore , Erast Fandorin, del tutto particolare, perché alle prime armi e quindi privo di esperienza, alla cui mancanza supplisce con un acume non comune.
Il pregio dell'opera, però, è un altro: Akunin riesce a realizzare un vero e proprio miracolo, vale a dire rende possibile e di notevole impatto la coesistenza fra un genere minore come il giallo e la grande letteratura russa dell'Ottocento. Il risultato è una stupefacente qualità narrativa unita al fascino di una trama talmente avvincente che costringe il lettore a non concedersi un attimo di sosta sino a quando non sarà arrivato alla fine. Aggiungo che la ricostruzione storica è coinvolgente al punto di provocare nostalgia per un'epoca in cui non abbiamo certamente vissuto.
Tutto procede con una linearità sorprendente, senza forzature, senza brusche accelerazioni, in un'atmosfera di raro ed efficace fascino.
Renzo Montagnoli

L'autore
B. Akunin, il cui vero nome è Grigori Tchkhartichvili, nasce in Georgia nel 1956. Laureato in filologia e storia orientale, si è specializzato in lingua e letteratura giapponese. Dal 1958 vive a Mosca.
Saggista, traduttore, narratore, ha pubblicato numerosi romanzi gialli, alcuni animati dal citato investigatore Fandorin, altri dalla suora-detective Pelagija.
Renzo Montagnoli


TRINCEE confidenze di un fante di Carlo Salsa - Edizioni Mursia
Di romanzi aventi come oggetto la prima guerra mondiale ne sono stati scritti molti e alcuni hanno ottenuto una fama meritata, come per esempio il celeberrimo "Niente di nuovo sul fronte occidentale" di Erich Maria Remarque. Il secondo conflitto non ha trovato un eguale fioritura di opere, fatta eccezione da noi per quelle relative alla resistenza. Mi sono sempre chiesto il perché di questa differenza e penso che il motivo risieda nella particolare drammaticità di questo evento bellico che, pur non coinvolgendo, se non sporadicamente, le popolazioni civili, ha mietuto vittime fra i militari in misura inaudita, a causa di concezioni strategiche e tattiche obsolete, pur a fronte dei nuovi potenti e distruttivi mezzi forniti dalla tecnologia.
La guerra in trincea era di per se stessa un inferno per la precarietà dei ricoveri, per la natura del terreno, per la sempre presente scarsa considerazione dei combattenti, numeri e non esseri umani, da usare semplicemente come bestie da macello.
In questo quadro il libro di Carlo Salsa si differenzia dagli altri per la sua struttura e, più che un romanzo, può essere considerato una testimonianza scritta di vita vissuta; nulla a che fare con un diario, tuttavia, perché l'intreccio, la trasposizione degli eventi sono propri del romanzo, anche se la narrazione in prima persona, l'emozione effettivamente provata ne danno una luce tutta sua e notevolmente esplicativa di quella che doveva essere l'angoscia che tormentava di continuo i soldati, giorno dopo giorno, ora dopo ora.
Scritto con sobrietà, senza mai cedere nulla alla retorica, né cercar di muovere a facili pietismi, è un affresco di rara bellezza di un evento tragico che ha segnato un'epoca e una generazione; non vi sono certo trionfalismi, ma la sofferta consapevolezza dell'assurdità della guerra, che distrugge le cose, gli uomini e, questi, anche dentro.
Preciso che l'intenzione, più che riuscita, dello scrittore non è tanto quella di portare alla commozione il lettore, ma di farlo riflettere sui veri valori della vita, così vilipesi e calpestati dall'orrore dei conflitti. E a tal proposito ben scrive Carlo Salsa nella sua introduzione "E allora, se la guerra dev'essere una partita d'interesse, si sappia cos'è. Nel preventivare le passività, si approfitti della ragioneria e si lasci da parte la retorica".
Renzo Montagnoli

L'autore
Carlo Salsa (1893 - 1962) chiamato alle armi nel 1914, all'inizio della Prima guerra mondiale fu inviato subito sul fronte del Carso, quale tenente di fanteria; combatté sempre in prima linea, fu ferito e infine fu fatto prigioniero dagli austriaci.
Nel 1929 fondò con Leonida Rèpaci e Alberto Colantuoni il Premio Viareggio.
Renzo Montagnoli


Indietro Savoia! di Lorenzo Del Boca - Edizioni Piemme
Da che mondo è mondo la storia è sempre stata insegnata secondo le esigenze della classe dominante.
A questa verità non poteva sfuggire, pertanto, anche il nostro paese e a tante menzogne che ancor oggi vengono propinate sui banchi di scuola ha cercato di porre rimedio Lorenzo Del Boca, con questo piacevole volumetto che tratta del nostro periodo risorgimentale.
Che Carlo Alberto fosse re tentenna lo sapevamo tutti, ma che poi fra le sue caratteristiche ci fosse anche la vigliaccheria e la cattiveria ci è sempre stato taciuto. E la più volte ripetuta ferocia austriaca durante le cinque giornate di Milano? Radetzky, che peraltro era sposato a un'italiana di umili origini, avrebbe potuto tranquillamente bombardare la città e invece non lo fece, perché quella era la sua città.
Un altro personaggio chiave, sempre descrittoci come eroico e glorioso, cioè Vittorio Emanuele II, altri non era che un donnaiolo impenitente di bocca buona, per nulla coraggioso, al punto da nascondersi durante le battaglie della II Guerra d'Indipendenza, e per di più anche disonesto; fra l'altro lui sì che fece bombardare Genova nel 1849, soffocando nel sangue una pacifica manifestazione di protesta dei cittadini di quella città.
Le chicche più ghiotte, però, si leggono relativamente alla leggendaria impresa dei mille, con un Garibaldi ben diverso da quello della storiografia ufficiale, mai in prima linea e in ogni caso non a cavallo, a causa di un'artrosi che lo affliggeva da anni e che gli impediva di stare in sella.
L'epica battaglia di Calatafimi, dove le camicie rosse, sparute di numero e male armate, mettono in fuga un esercito borbonico di 100.000 soldati ben addestrati, mi aveva reso dubbioso fin dalle elementari ed ecco spiegati i motivi della grande vittoria: corruzione fra gli alti dignitari e ufficiali del Regno delle due Sicilie, abilmente messa in atto da Cavour attingendo alle risorse della Lombardia da poco conquistata.
Meno noto e veramente increscioso fu poi il trattamento riservato dalle truppe piemontesi alla povera gente del sud che, tartassata da tasse e balzelli, sognava il ritorno dei Borboni.
La storiografia ufficiale parla di guerra al brigantaggio e invero qualche brigante esisteva in meridione, ma non tale da giustificare l'uccisione di circa 200.000 civili, la distruzione di villaggi, la violenza alle donne.
Non vado oltre per non anticipare le risposte alle domande che molti si porranno; mi limito a dire che è un libro che consiglio vivamente, sia per la sua facile lettura, sia perché la ricerca della verità dovrebbe essere propria di ognuno di noi.
Renzo Montagnoli

L'autore
Lorenzo Del Boca è giornalista di professione e dal 2001 Presidente dell'Ordine dei Giornalisti. Ha scritto altri saggi storici, fra i quali Maledetti Savoia e Il dito dell'anarchico.
Renzo Montagnoli


L'oscura immensità della morte di Massimo Carlotto - Edizioni e/o
Non avevo letto mai nulla di Massimo Carlotto, ma incuriosito dalla sua vicenda giudiziaria, talmente nota che non è necessario dica oltre, ho voluto conoscere almeno una delle sue opere.
L'oscura immensità della morte è forse uno dei suoi migliori romanzi, a quel che mi si dice; non sono in grado di confermare, ma di una cosa sono sicuro: è un'opera di notevole livello, che, al vantaggio di leggersi con facilità, unisce anche lo stimolo a profonde riflessioni sui rapporti fra gli uomini, sulle loro reazioni agli avvenimenti che li toccano direttamente, lasciando un segno incancellabile sulla loro psiche.
In breve il tutto nasce da una rapina dove vengono uccisi da uno dei due banditi due innocenti, madre e figlio. Uno dei malviventi viene arrestato e condannato all'ergastolo, l'altro invece fugge e resta in libertà. Quindici anni dopo l'omicida, affetto da un cancro inguaribile, chiede la grazia e quindi il perdono del marito e padre delle vittime, un uomo ormai prigioniero della solitudine e della memoria, con sempre impresse nella mente le ultime parole di sua moglie "E' tutto buio, Silvano. Non vedo più nulla. Ho paura, ho paura, è buio."
Non vado oltre per non togliere il piacere al lettore di scoprire come si evolverà la vicenda, dove, pur negli stilemi di un "noir", si è indotti a profonde riflessioni sulla vita e sul concetto di giustizia, con una narrazione essenziale, incalzante e incisiva, ma non per questo meno coinvolgente. Carlotto come scrittore ha il dono dell'immediatezza, cioè riesce a trascinare il lettore nelle spire della trama, rendendolo di fatto partecipe fino a immedesimarsi prima con l'uno e poi con l'altro dei due personaggi principali, che non sono altro che le rispettive immagini speculari.
Alla vicenda fa da sfondo una città del Nordest, in cui tutto è regolato dall'ipocrisia, in particolare da quella dai mass-media, ossessivi e implacabili nell'imporre il loro concetto di giustizia, ma anche propinatori di illusioni alle quali i due protagonisti non si sottraggono.
L'oscura immensità della morte è un romanzo di grande respiro, una sorta di compendio dei molti difetti e dei pochi pregi della società in cui viviamo.
Renzo Montagnoli

L'autore
Massimo Carlotto nasce a Padova nel 1956; è autore di romanzi noir e di racconti per ragazzi, nonché di testi teatrali. Ha esordito nel 1995 con Il fuggiasco, autobiografia del suo periodo di latitanza (accusato di omicidio nel 1976 e graziato nel 1995 da Oscar Luigi Scalfaro); successivamente ha scritto La verità dell'Alligatore, Il mistero di Mangiabarche, Le irregolari, Nessuna cortesia all'uscita, Il corriere colombiano, Arrivederci amore, ciao, Niente, più niente al mondo, L'oscura immensità della morte e, con Marco Videtta, Nordest.
Renzo Montagnoli


Il rosso e il nero di Stendhal - Edizioni Einaudi
Benché questo romanzo sia stato pubblicato per la prima volta nel lontano 1830, è di un'attualità incredibile per l'ambientazione nella Francia della Restaurazione e le analogie con i tempi correnti sono più d'una.
Caduti i sogni di libertà e di uguaglianza della rivoluzione ritorna il conservatorismo ancor più meschino di prima, per effetto di una classe sociale rampante quale quella borghese e per l'innato desiderio di rivincita dei nobili. Fioriscono così intrallazzi di ogni genere e sempre più conta ciò che appare, e non ciò che è realmente.
Il protagonista, Julien Sorel, è un giovane avventuroso, romantico, ma calcolatore; di classe sociale inferiore, cerca di emergere, ma è un uomo del suo tempo, con tutte le relative contraddizioni, e così alterna amori passionali a freddi calcoli, in una continua sfida con se stesso e la società che vorrebbe conquistare, fra traguardi raggiunti con forzature della personalità, fino al tragico esito finale.
Considerato il miglior romanzo di Stendhal e imbastito su un fatto accaduto veramente è di lettura abbastanza facile, nonostante lo stile inevitabilmente datato.
Al di là della vicenda, riveste un sicuro interesse soffermarsi, pagina dopo pagina, sulla straordinaria abilità dell'autore nel tratteggiare le contraddizioni del cuore, nel sondare con mano leggera, ma precisa, l'animo dei personaggi, talmente ben delineati che sembrano scorrere via via dinanzi ai nostri occhi, in un caleidoscopio di eventi apparentemente normali, ma che sono il frutto del costante divenire delle volontà contorte dei protagonisti.
Non vi sono mai cadute di ritmo, anche quando frequenti sono gli interventi del "Dio narrante" (una straordinaria invenzione di Stendhal, in veste di divinità che conosce i più nascosti pensieri dei personaggi), e anzi sono inseriti con una precisione e una tempestività eccezionali, al fine appunto di snellire il testo, che in altre mani sarebbe probabilmente risultato ampolloso e prolisso.
L'abilità di Stendhal è di calare gradualmente il lettore nella vicenda, sì da farlo divenire un testimone diretto, con un coinvolgimento emotivo di rara efficacia e bellezza.
Così le pagine scorrono l'una dopo l'altra con una piacevolezza che ci fa dimenticare il passare del tempo; non si creda, però, che si tratti di un romanzo da divorare, da leggere nell'arco di poche ore, perché tante sono le riflessioni a cui muove e che necessitano di opportuni, anche inconsci, approfondimenti.
Resta, comunque, il fatto che la narrazione continua a sorprendere per spontaneità, coerenza e logica, tre elementi che da soli ne sancirebbero il successo.
E anche il finale, che ovviamente non anticipo, giunge con una naturalezza sorprendente; benché lo si indovini, riesce a stupire per il calcolo esatto dei tempi: nessuna forzatura, nessun stravolgimento, ma la conclusione logica del divenire delle cose, come voluto dal protagonista.
Renzo Montagnoli

L'autore
Stendhal, pseudonimo di Henri Beyle, nasce a Grenoble il 23 gennaio 1783 e muore a Parigi il 23 marzo 1842. Convinto sostenitore della rivoluzione, alla caduta di Napoleone assume un atteggiamento di condiscendenza con la restaurazione intervenuta, in contrasto con le sue idee, ma indispensabile per poter vivere; preferisce soggiornare lontano dalla Francia, in Italia, dove svolge l'attività di Console, di scarso interesse, ma abbastanza remunerativa per consentirgli di dedicare la maggior parte del suo tempo alla narrativa. Fra le sue opere ricordiamo Lucien Leuwen, Cronache italiane, La badessa di Castro, Dell'amore, la Certosa di Parma e la sua migliore, appunto Il rosso e il nero.
Renzo Montagnoli


Tre semplici sconosciuti di Andrea Franco - Edizioni traccediverse
Si tratta di sei racconti, opera prima dell'autore, caratterizzati, tutti, dalla ricerca dei protagonisti di risposte valide ai tanti perché che ognuno si pone di fronte ad avvenimenti che segnano indelebilmente la vita.
E' quindi una ricerca interiore, un'indagine svolta addentrandosi nei lati più nascosti dell'animo.
"Colori" è un vero e proprio itinerario che si svolge nell'inconscio, "Il vecchio che parla" è un'analisi della memoria, "La prima volta", particolarmente struggente, è l'emozione intensa del sentimento provato per la morte della persona amata, "Moriresti per me?" è un viaggio allucinante dentro chi sa di essere affetto da un male incurabile, "La forma del pensiero" è una storia altamente drammatica, dove l'antitesi fra realtà e immaginazione trova un suo necessario punto di coesione e una logica stringente, "Tre semplici sconosciuti", il racconto che ha dato il titolo al volume, è una riflessione attenta sui rapporti interpersonali.
La vena malinconica è sempre presente, anche se è misurata, dosata in modo tale da non far indulgere con facilità alla commozione, perché lo scopo dell'autore è quello di far meditare il lettore su circostanze, eventi reali, e sulle loro implicazioni sull'animo umano.
Scritto con sobrietà, senza forzature, è una piacevole lettura che alla fine fa assumere la consapevolezza di quanto ancora ci sia da scoprire guardando dentro noi stessi.
Renzo Montagnoli

L'autore
Andrea Franco è nato a Ostia il 13 gennaio 1977; si occupa, in ambito universitario, di filologia e linguistica; grande appassionato di musica, suona il pianoforte, esibendosi con buoni risultati in balere e componendo brani per voce e strumento solista (fisarmonica e sax).
In internet ha pubblicato diversi racconti che si possono trovare su Progetto Babele e su La Tela Nera.
Renzo Montagnoli


Dall'ultimo leggio di Cinzia Pierangelini - Edizioni traccediverse
Undici racconti brevi, undici personaggi diversi accomunati dalla difficoltà di vivere.
Cinzia Pierangelini, in questa sua opera prima, ha saputo tratteggiare con rara maestria
ed efficacia delle vicende forse del tutto normali, ma accompagnandole con un tocco di grazia che le fa assurgere a emblemi dell'esistenza.
I protagonisti, normalissimi individui che ci è dato di incontrare ogni giorno, assumono così la veste di personaggi, emergendo dalla loro anonimità, in un trionfo dell'essere "qualunque" , vero tessuto connettivo di una società.
Lo stile è sobrio, non ridondante, con descrizioni ben congegnate dell'ambiente e dell'atmosfera, senza tuttavia togliere nulla alle possibilità del lettore di fantasticare, immedesimandosi con naturalezza nei protagonisti.
All'autrice va poi riconosciuto il particolare pregio di trattare le sue "creature" con tono pacato, senza mai enfatizzarle, senza accentuare l'aspetto doloroso di talune che ben avrebbero potuto invogliare a citazioni retoriche.
Si snoda così una galleria di personaggi imprigionati dalla loro condizione, di cui a volte riescono a liberarsi e altre invece no, in completa naturalezza, perché la vita è così.
Ecco allora la vicenda della prostituta Salomè, redenta dal caso, oppure quella della vecchia che non si rassegna ad avere un futuro diverso dalla morte.
E ogni volta vengono ricreate atmosfere diverse, come in "Settecani", quasi una favola, dove la maturazione di un bambino alle prese con un diverso è raccontata con delicatezza, quasi con pudore.
Non è che gli altri otto racconti siano da meno, anzi presentano suggestioni variegate di questa difficoltà di vivere, situazioni in cui ognuno di noi potrà in parte ritrovarsi.
E' una lettura a cui è veramente piacevole abbandonarsi, facilitata anche dalla brevità dei singoli brani; si giunge così in poco tempo all'ultima pagina, con il solo rammarico di aver terminato.
Renzo Montagnoli

L'autore
Cinzia Pierangelini è nata nel 1963 a Messina, dove vive e svolge l'attività di docente e violinista. Ha iniziato a scrivere solo nel 2004, realizzando così un progetto che si portava dall'adolescenza.
Molti suoi lavori sono editi in antologie e in e-book.
Dall'ultimo leggio è la sua prima raccolta di racconti.


La luna e i falò di Cesare Pavese - Edizioni Einaudi
Cesare Pavese ha scritto questo romanzo nella seconda metà del 1949 e la pubblicazione è avvenuta nell'aprile del 1950, quattro mesi prima del suo suicidio.
Con questa premessa "La luna e i falò" rappresenta un vero e proprio testamento spirituale, un'opera complessa densa di significati e un messaggio di speranza per un mondo nuovo.
Il protagonista, Anguilla, è un bastardo cresciuto nella miseria dell'anteguerra e che ritorna nel suo luogo di origine, un paese delle Langhe, a conflitto terminato, dopo aver fatto fortuna in America.
Il romanzo viaggia su due piani paralleli che si intersecano mirabilmente: uno è quello del passato, con velati rimpianti a un'epoca sì di stenti, ma anche di traboccanti entusiasmi giovanili; l'altro è il presente con l'incontro del suo amatissimo amico e maestro Nuto.
Insieme i due ripercorreranno il passato e ne faranno una comparazione con il presente.
I dialoghi con Nuto, già partigiano e ora marxista non politicizzato, sono oggetto di profonde riflessioni, dove il personaggio dell'amico rappresenta la logica coerente dell'anima, ben conscia che in una guerra civile ci sono ragioni dall'una e dall'altra parte che non possono essere trascurate se la vita deve continuare senza le premesse di un nuovo conflitto.
In questo quadro si innesta il messaggio di speranza dell'autore; Anguilla, infatti, identifica il futuro con il personaggio di Cinto, l'orfano storpio che abita nella sua vecchia casa e in cui idealmente si rivede.
La menomazione gli impedirà, a differenza di come ha fatto lui, di fuggire da questo ambiente di miseria e di conoscere il mondo, ma proprio perché è di una generazione che non deve fare i conti con la guerra è puro, incontaminato da una tragedia che invece, in un modo o nell'altro, ha segnato indelebilmente chi l' ha vissuta.
Sotto l'aspetto dello stile narrativo, la descrizione del paesaggio, della miseria che in alcuni casi può portare alla follia è quanto di più efficace abbia mai letto.
I personaggi vengono delineati con brevi e concise frasi e i dialoghi fra Anguilla e Nuto hanno il pregio di creare un'atmosfera che coinvolge il lettore, rendendolo partecipe, quasi presente.
Ne "La luna e i falò", inoltre, i riferimenti autobiografici, già presenti nelle opere precedenti, assumono una connotazione maggiore, quasi preponderante, così che non è difficile identificare, per certi versi, il personaggio di Anguilla con lo scrittore.
Si tratta quindi di un'opera complessa, dove la maturità artistica di Pavese raggiunge il suo punto più elevato e dove probabilmente ha detto tutto quello che aveva da dire, un testamento inconscio di chi non si sentiva più parte di un certo mondo, al punto di togliersi da lì a poco la vita.
Renzo Montagnoli

L'autore
Cesare Pavese nasce il 9 settembre 1908 a Santo Stefano Belbo, un paese delle Langhe in provincia di Cuneo. Il padre muore quasi subito e questa scomparsa inciderà profondamente sul suo carattere, già di per se stesso introverso. Svolge l'attività di traduttore, facendo conoscere i grandi autori americani, e, nel frattempo, comincia a scrivere. Antifascista, più su un piano culturale che politico, viene condannato nel 1935 a tre anni di confino, di cui poi ne sconterà solo uno per intervenuta grazia. Questa esperienza, tuttavia, sarà per lui ancor più sconvolgente perché nel periodo di lontananza finirà l'unico vero amore della sua vita. L'introversione si accentua e si accompagna a ricorrenti crisi religiose e politiche, emarginandosi di fatto dalla realtà. Muore a Torino il 27 agosto 1950 ingerendo una forte dose di barbiturici.
Fra la sua produzione letteraria si ricordano la sua opera prima "Il carcere", "La casa in collina", "Dialoghi con Leucò", "Verrà la morte e avrà i tuoi occhi", "Prima che il gallo canti", "La bella estate", "Il mestiere di vivere" e appunto "La luna e i falò", tutti pubblicati da Einaudi, alla cui fondazione nel 1933 contribuisce l'autore stesso, grande amico di Giulio Einaudi.
Renzo Montagnoli


Pagina iniziale

Tematiche e testi

Poetare | Poesie | Licenze | Fucina | Strumenti | Metrica | Figure retoriche | Guida | Lettura | Creazione | Autori | Biografie | Poeti del sito

Torna su