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2010

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30/12/2010

Il viaggio di Silvestro Biggio
Collana Narrando di AlbusEdizioni
www.albusedizioni.it

Quit sit futurum, cras non quaerere
(Orazio)

La vita è un viaggio, ma ci sono viaggi che la possono cambiare.
Incontri inaspettati ed apparentemente ininfluenti riescono poi a cambiare situazioni, stati d'animo e realtà circostanti.
Un racconto che coinvolge nella sua narrazione scorrevole, diretta e nuda. Nato dalla voglia di conoscere e conoscersi e dalla consapevolezza che tutto, anche se non si vede ad occhio nudo, è mutevole; e tutto può cambiare in qualsiasi momento della vita, anche quando, sembra transitare in un periodo statico e fermo nel tempo.

Silvestro Biggio, nato nel 1949 a Portoscuso (Ca), dopo aver frequentato il liceo classico a Carbonia, si laurea in giurisprudenza a Cagliari. E' stato per sette anni direttore di un ufficio finanziario della città di Iglesias, dove ora risiede e lavora.
AlbusEdizioni
 

28/12/2010

Gli zii di Sicilia
di Leonardo Sciascia

Edizioni Adelphi
Narrativa racconti
Collana Fabula

Quattro racconti sullo sfondo della guerra

Quando Leonardo Sciascia pubblica nel 1958 Gli zii di Sicilia è già uno scrittore considerato da Italo Calvino molto promettente e che ha già dato alle stampe alcune opere interessanti come Le favole della dittatura, recensito da Pier Paolo Pasolini, La Sicilia, il suo cuore, la prima e unica raccolta di poesie, il saggio Pirandello e il pirandellismo, che gli vale il Premio Pirandello, e il romanzo Le parrocchie di Regalpetra, un’autobiografia dell’esperienza che ha vissuto come insegnante nelle scuole elementari del paese natio.
Siamo ancora lontani dai testi con cui denuncia la presenza della mafia, la sua collusione con il potere politico ed economico e infatti occorrerà arrivare al 1961 per poter leggere Il giorno della civetta, la sua opera forse più nota in assoluto.
Tuttavia, in una parentesi romana al Ministero della Pubblica Istruzione, matura in Sciascia l’idea di scrivere alcuni racconti sullo sfondo della guerra ed è così che nascono le quattro prose che costituiscono Gli zii di Sicilia, unite da questo filo conduttore, anche se molto diverse fra di loro per ambientazione, per epoca e per messaggio.
Il primo, La Zia d’America, vede protagonista lo stesso autore siciliano, in un periodo intercorrente fra lo sbarco degli americani sull’isola e il primo dopoguerra. Venato da una sottile, quanto caustica ironia, è in pratica la dissacrazione del mito americano, del paese dove nulla è precluso a tutti, generoso, prodigo di aiuti non proprio disinteressati. E’ assai probabile che la vicenda sia autobiografica e si sia svolta nei termini narrati, ma resta il fatto che già si nota quella capacità di analisi delle azioni, delle loro cause e delle loro motivazioni che poi si potrà trovare, esposta in modo più evidente e logico, nei romanzi successivi.
Il secondo, La morte di Stalin, storia di un piccolo calzolaio antifascista, in preda al culto della personalità (il suo mito è appunto Stalin), le cui certezze verranno messe a dura prova dai comportamenti del dittatore sovietico; questo fervente comunista cercherà sempre di farsi una ragione di azioni e misfatti compiuti dal suo idolo, perdendo però poco a poco fiducia in lui e anche in se stesso. Qui l’ironia si veste anche di umorismo e non è difficile ridere, anche se alla fine si passa al sorriso, un sorriso strappato e quanto mai amaro.
Il terzo racconto, Il quarantotto, si svolge in Sicilia in periodo risorgimentale, appunto fra il 1848 e il 1860.  La rivoluzione del 1848 e l’unificazione del Regno d’Italia sono visti dagli occhi di un giovane siciliano, un plebeo che sa ragionar di testa sua. In questa prosa emerge netto, incontrovertibile, il cinismo della classe dominante, di nobili e prelati decisi a contrastare con qualsiasi mezzo anche il minimo spirito liberale, ma poi pronti a cavalcare l’idea risorgimentale, affinché tutto cambi per poi tornare uguale.
E’ un racconto molto interessante, il cui significato si ritrova, come noto, nel Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, pubblicato postumo lo stesso anno de Gli zii di Sicilia, una curiosa coincidenza, poiché è impossibile che Sciascia abbia potuto leggerlo prima di scrivere questo testo, mentre è più probabile che lui e appunto Tomasi  abbiamo recepito l’influsso  di I Viceré, di Federico De Roberto, opera ben antecedente, risalendo alla fine del XIX Secolo.
L’ultimo racconto, aggiunto nel 1960 e intitolato L’antimonio, narra la storia di un minatore, che scampato a un’esplosione di grisou (gli zolfatari siciliani lo chiamano antimonio), in preda alla miseria si arruola volontario per partecipare alla guerra civile spagnola. Lì, combattendo a fianco delle truppe franchiste, conoscerà il vero volto del fascismo, al di là della tanta retorica e delle promesse non mantenute. Crudele, solo come può essere lo scoprire una realtà che sconvolge, questo racconto fornisce l’immagine di un regime in decadenza, tuttavia inflessibile nel perseguire la sua opera di ammaliamento delle classi meno abbienti, carne da macello in miniera e da cannone in guerra.
Questo libro si legge con grande piacere, anche perché tutti e quattro i racconti riescono ad avvincere; quindi non posso che consigliarlo, anzi ne raccomando vivamente la lettura.

Leonardo Sciascia (Racalmuto, 8 gennaio 1921 – Palermo, 20 novembre 1989). E’ stato autore di saggi e romanzi, fra cui: Le parrocchie di Regalpietra (Laterza, 1956),  Il giorno della civetta (Einaudi, 1961), Il consiglio d’Egitto (Einaudi, 1963), A ciascuno il suo (Einaudi, 1966), Il contesto (Einaudi, 1971), Atti relativi alla morte di Raymond Roussel (Esse Editrice, 1971), Todo modo (Einaudi, 1974), La scomparsa di Majorana (Einaudi, 1975), I pugnalatori (Einaudi, 1976), Candido, ovvero Un sogno fatto in Sicilia (Einaudi, 1977), L’affaire Moro (Sellerio, 1978), Il teatro della memoria (Einaudi, 1981), La sentenza memorabile (Sellerio, 1982),  Il cavaliere e la morte (Adelphi, 1988), Una storia semplice (Adelphi, 1989).
Renzo Montagnoli

 

22/12/2010

La coda di pesce che inseguiva l'amore
di Simona Lo Iacono e Massimo Maugeri
Postfazione degli autori
Copertina di Alek Mudanò
Sampognaro & Pupi Editori Associati
www.sampognaroepupi.it

Narrativa racconto lungo

Un gioiello di racconto

"Il tramonto frattanto cambiava.
Una tingitura di rosso tramò l'aria, stano zu' Saru, gli mise in gola l'allarme: "U cielu è come focu! U cielu è come 'a giubba dei mille!"


Ha il sapore di una tragedia greca questo racconto di sole 52 pagine e, come tale, turba, addirittura riesce perfino a sconvolgere. Breve, quindi non lungo, ma estremamente concentrato, un susseguirsi di metafore che avvincono e inducono a meditare, righe su cui soffermarsi è d'obbligo, perché nulla è lasciato al caso, perché non c'è una parola di troppo, né una di meno.
Eppure la prima impressione è di trovarsi di fronte una favola, bella, ma pur sempre favola, e invece in breve ci si accorge che questo racconto, sospeso, quasi galleggiante in quella realtà sfumata e impalpabile che è propria del sogno, discetta di tematiche corpose, materiali, che da sempre accompagnano la storia dell'umanità.
La vicenda è caratterizzata da un perfetto amalgama di elementi reali e di visioni metafisiche, è una leggenda riscoperta e riadattata per parlare agli uomini di speranze e di desideri, di sconfitte non definitive, ma che lasciano aperta una porta per un mondo diverso, non fatto solo di classi dai confini invalicabili, di violenze per il possesso, ma soprattutto di amore, inteso non tanto nel suo aspetto materiale e più retrivo, bensì come aspirazione massima dello spirito, in un'unione più di anime che di corpi.
C'è un richiamo forte, evidente, al senso della natura, alla comunione con essa, che, senza mai pervenire alla visione idilliaca di Teocrito, fonde, mirabilmente, il naturalismo con il misticismo proprio della trascendenza. In questo senso non è difficile pensare che esistano elementi comuni a quelli del grande narratore siciliano Giuseppe Bonaviri, in un mondo arcaico, sempre presente, riportato alla luce e in cui i grandi primordiali istinti si accompagnano a ideali e a speranze.
Sono pagine dense di un'atmosfera inquieta, in cui si attende che qualche cosa di grande e di tragico possa accadere, una vita quasi immobile, ma sospesa, un'esistenza in cui ognuno recita a perfezione la sua parte.
E come in una tragedia greca non può mancare il veggente, e infatti c'è quel " u zu' Saru che scorge gli eventi futuri nel moto del mare e nei cieli che sovrastano Porto Palo, una Cassandra inascoltata, se non addirittura derisa. Intorno a lui si muovono ombre anonime di tonnarioti e di nobili, ma anche figure emblematiche, come Turi, il frutto del peccato, e sua madre Laura, che sola ha avuto il coraggio di superare la barriera immobile della casta, scendendo fra i più umili, e proprio per questo condannata da questi e dai patrizi.
La coda di pesce è un sogno, è una speranza di riscatto, è il desiderio di approdare a un mondo nuovo, senza più egoismi, senza più confini, di eguali, e non di dominatori e di sudditi. A suo modo è una rivoluzione e come tale sarà soffocata da un sistema, così diviso, ma per l'occasione unito, affinché tutto resti uguale.
E' naturale pensare alle parole del principe di Salina, a quella immutabilità che si conserva travestendosi secondo necessità, ma restando fermamente ancorati ai propri privilegi. E non è un caso se il racconto si svolge nel 1860, se "u zu" Saru ha la visione di camicie rosse, una vampata di rivoluzione che si spegnerà al primo soffio di libeccio, un'occasione perduta non solo per la Sicilia per liberarsi dalle sue ataviche catene, ma per l'intera Italia, unione di stati forzosa senza unione di popolo, di cui giorno dopo giorno paghiamo le conseguenze.
Tuttavia, pur in presenza di un finale che sembra una chiusura netta a qualsiasi cambiamento, Simona Lo Iacono e Massimo Maugeri lasciano una speranza, un messaggio non certamente politico, ma ben oltre la soglia del quotidiano divenire. Non è niente che non si possa realizzare, ma che comunque è difficilmente concretizzabile, eppure l'amore che squarcia i cuori può anche cambiare il mondo.
Scritto in modo pregevole, con descrizioni di paesaggi di livello poetico, con una rara capacità di ricreare un'atmosfera sospesa, La coda di pesce che inseguiva l'amore è uno di quei rari gioiellini che nobilitano la letteratura.
Avvincente e coinvolgente dall'inizio alla fine è scritto per essere assaporato, ma soprattutto come fonte di meditazione, e questa giorno dopo giorno non mancherà, con l'opportunità di scoprire cose nuove, di rimodulare in sé concetti dell'esistenza che solo un capolavoro, come questo,
può suscitare.

Simona Lo Iacono è nata a Siracusa nel 1970. Magistrato da 14 anni, attualmente dirige la Sezione distaccata di Avola, tribunale di Siracusa.
Ha pubblicato racconti e vinto concorsi letterari di poesia e narrativa. Collabora a riviste e magazine. Riunisce in casa propria un salotto letterario ospitando scrittori e artisti.
Cura, sul blog "Letteratitudine" di Massimo Maugeri (gruppo Kataweb-l'Espresso), una rubrica fissa a metà tra diritto e letteratura: Letteratura è diritto, letteratura è vita.
Fa parte dell'EUGIUS, l'associazione europea dei "giudici-scrittori".
Dal 2009 ha aderito, nel ruolo di socio, all'associazione "Law and Literature", società di diritto e letteratura dell'università degli studi di Bologna, che annovera al suo interno diversi scrittori e studiosi.
Con il suo primo romanzo "Tu non dici parole" ha vinto il Premio Vittorini 2009 - Sezione Opera Prima

Massimo Maugeri è nato a Catania nel 1968. Collabora con le pagine culturali di importanti magazine e quotidiani tra cui "Il Mattino", "Il Riformista", "La Sicilia", "Il Corriere Nazionale", "Stilos". Suoi racconti sono stati pubblicati su antologie e prestigiosi giornali e riviste letterarie.
Il romanzo "Identità distorte" (Prova d'Autore, 2005) ha vinto il Premio Martoglio ed è stato finalista al Premio Brancati.
Ha ideato e gestisce il frequentatissimo Letteratitudine, blog letterario d'autore del Gruppo L'Espresso.
Ha partecipato alla scrittura del romanzo collettivo a colori "Le Aziende In-Visibili" (Scheiwiller, 2008). Ha curato il volume "Letteratitudine, il libro - vol. I - 2006-2008" (Azimut, 2008).
Ha curato la raccolta di racconti "Roma per le strade" (Azimut, 2009), partecipando con un proprio racconto e coinvolgendo nel progetto molti tra i principali scrittori nati o residenti a Roma (tra cui: Mario Desiati, Andrea Di Consoli, Lia Levi, Dacia Maraini, Antonio Pascale, Sandra Petrignani, Rosella Postorino, Cinzia Tani, Filippo Tuena).
Dal 2009 ha aderito, nel ruolo di socio, all'associazione "Law and Literature", che annovera al suo interno diversi scrittori e studiosi.
Conduce la trasmissione radiofonica di libri e letteratura, "Letteratitudine in Fm", presso la milanese Radio Hinterland (ascoltabile in modulazione di frequenza in Lombardia e in diretta ovunque via Internet).
Fa parte della redazione del blog letterario collettivo "La poesia e lo spirito".
Renzo Montagnoli

 

20/12/2010

La fuga della verità

di Lodovico Ellena

Presentazione di Marco Maniscalco
Edizioni Tabula Fati
www.edizionitabulafati.it

Saggistica filosofica
Collana Labirinti
 

La verità o le verità?

Ci può essere una verità assoluta, cioè oggettiva e inconfutabile, oppure dobbiamo accontentarci di tante verità, cioè del soggettivismo della stessa?
E’ interessante questo saggio di Ellena che, nel prendere atto che la verità assoluta, o verità vera, non sembra essere accessibile, pone tuttavia l’accento sulla inderogabile necessità che essa esista, quantomeno come idea di riferimento sulla quale costruire regole. Infatti, senza una verità, assoluta o relativa, la società umana cadrebbe in contraddizione, perderebbe una visione coerente, con il rischio concreto di una degenerazione nel caos.
Le regole, in questo modo, si adeguano alla normalità, alla morale corrente, anche se la normalità non può essere la verità, ma un comportamento comune, quindi suscettibile di cambiare qualora il consueto atteggiamento dovesse mutare.
In questo modo la normalità produce una norma, che si trasforma in legge, legge che è un riferimento indispensabile nella struttura di una società, al punto che la legge diventa il criterio di verità da utilizzare per emettere un giudizio.
E’ quindi spiegata la necessità che esista la verità, ma questa, nella sua assolutezza, è e rimane e rimarrà sempre sconosciuta, anche se è compito primario della filosofia tendere a essa, pur nella consapevolezza che mai verrà disvelata.
Appare poi necessario mettere al bando in questo discorso la verità di fede, dove l’elemento di convinzione e di credo è dato solo dall’immensa fiducia per una verità che non appare dimostrabile.
In poche parole apprendiamo che la verità è avvolta nella caligine, ma è necessaria, ha avuto molte trasformazioni e di sicuro ne avrà ancora, quella assoluta non è prerogativa di qualcuno, ma solo tendenza, la verità è tremenda, è inconoscibile e irrinunciabile. C’è chi pretende di possederla, ma non è in grado di dimostrarla; la verità relativa è sempre un fatto dinamico e alla fine di tutti questi discorsi l’unica verità certa è che noi non conosciamo la verità.
Sono poche le pagine di questo saggio, ma ben scritte, in modo accessibile ai più e anche venate da una sottile ironia propria di chi è consapevole dell’impossibilità di pervenire alla verità assoluta.
Da leggere, ne vale la pena.    

Lodovico Ellena, nato a Torino nel 1957, ha svolto il servizio militare in Puglia ed in Veneto, e si è laureato in filosofia a Torino. Ha avuto discreta notorietà con il gruppo neopsichedelico Effervescent Elephants con l’edizione di vari dischi. È stato vice-preside, poi direttore, in un liceo torinese. Svolge numerose attività politiche e collabora a vari giornali. Ha pubblicato le seguenti opere: Smacacando un macaco (racconti di umorismo assurdo, Vercelli 1996 ), Non me ne frego più (Menhir, Sanremo 1997), Dove osano le coccinelle (Menhir, Sanremo 1998), Storia della musica psichedelica italiana (Menhir, Sanremo 1998), Neofascisti in bicicletta (Menhir, Sanremo 2000), Una strana storia intorno a un lago (Menhir, Vercelli 2001), Storie comuniste in bianco e nero (Menhir, Sanremo, 2001), Vicoli di storia. Quello che non si trova sui corsi (Menhir, Vercelli 2002), Camerati in cattedra. Mit pistolen (Menhir, Sanremo 2003), Gli elefanti che furono effervescenti (Menhir, Vercelli 2003), Archeologia in pillole, con Walter Camurati (Menhir, Vercelli 2004), La riconquista della posizione eretta (Menhir, Vercelli 2004), La patente europea del fascista (Tabula fati, Chieti 2004), Kulturkampf (Tabula fati, Chieti 2005), Riflessioni sulla storia (Tabula fati, Chieti 2005), Gaudeamus Igitur (Menhir, Vercelli 2005), Le pagine strappate della Resistenza (Tabula fati, Chieti 2006) e C’era una volta nei pressi di Alice Castello (Vercelli 2006).
Renzo Montagnoli

 

16/12/2010

La Toga Sbiadita
Memorie di un giudice

di Alessandro Mariotti
Prefazione di Renzo Montagnoli
Edizioni Agemina
www.edizioniagemina.it

Collana I libri della memoria

Lacune e rimedi

In questo quadro si inserisce poi il desiderio di liberarsi di un potere autonomo quale quello giudiziario, per eroderne le basi, sottometterlo e infine asservirlo alle proprie volontà, svilendone funzioni e sistemi; ed ecco allora sorgere i progetti di legge per il processo breve, per la riforma dell'ordinamento giudiziario con la separazione delle carriere, affinché in un futuro abbastanza prossimo campeggi nell'aula dei tribunali la classica scritta, così modificata: "La giustizia è uguale solo per tutti i sudditi".
Uno stato in cui si applica la giustizia con imparzialità, equità e in tempi abbastanza brevi è uno stato civile, ma purtroppo da noi non c'è più civiltà e, a breve, forse non ci sarà più nemmeno uno stato.
Questo libro, per la chiarezza con cui viene illustrata l'attività del magistrato, per la lucidità e imparzialità con le quali vengono affrontati i problemi strutturali della giustizia, suggerendo anche le possibili e concretamente realizzabili soluzioni non solo merita di essere letto, ma sarà sicuramente condivisibile da chi ha ancora occhi per vedere e cervello per capire.
(Dalla prefazione)


Ci si potrà chiedere come mai io torni in argomento dopo aver scritto la prefazione di questo libro ed è la domanda che mi sono posto e la cui risposta mi ha indotto a stilare la presente.
I motivi sono essenzialmente due:
1) l'intervista successivamente da me fatta all'autore e dalla quale sono emersi ulteriori elementi di giudizio;
2) la possibilità di meglio puntualizzare alcune opinioni che nella prefazione, anche per ragioni di spazio, possono apparire forse incomplete.
Che la giustizia italiana sia malata e non funzioni come dovrebbe in uno stato moderno e democratico mi sembra del tutto inconfutabile. Ricorrere alle decisioni di un giudice è quasi sempre un percorso lungo, tortuoso, incerto nei risultati come nei costi, sempre elevati. E parlo di giudizio civile, di una normale lite, e non certo di un processo penale, pure esso caratterizzato da insostenibili lungaggini e da pene che sovente non danno soddisfazione alla parte lesa.
Chi ha più danno da queste storture è sempre il cittadino meno abbiente, non di rado vittima prima per la sua condizione economica, e non poche volte ancor di più dopo, stroncato nelle sue ragioni dagli avvocati di controparte, spesso veri principi del foro, che lui, povero diavolo, non può permettersi.
In ogni caso proprio la lunghezza dei procedimenti finisce per il favorire chi ha recato offesa, e non è infrequente che liti si trascinino per così tanto tempo da vedere l'intervento degli eredi, in caso di premorienza dell'attore o del convenuto, o addirittura di entrambi.
Ad di fuori del sistema giudiziario i cittadini brancolano nella nebbia, hanno un'idea indotta del procedimento e dei magistrati, o per sentito dire, oppure per intrusioni politiche non di certo disinteressate.
Com'è quindi che funziona, cos'è che non va, come è possibile rimediare: di questo si parla in questo libro, dove, partendo dagli inizi di carriera di un giudice si arriva alla sua fine, attraverso una serie di episodi chiave di cui, per ovvi motivi, sono riportati nomi fittizi delle parti in causa e delle località delle stesse. Non sono fatti inventati, sono fatti veri e proprio per questo riescono a dare un'idea dei concreti problemi di questa importantissima struttura che ogni giorno che passa sembra vacillare sempre di più.
E per dare un'idea esatta di come appaia in tutta la sua crudezza il malanno è necessario precisare che Alessandro Mariotti non è stato né un magistrato eroe, né un magistrato lavativo, è stato semplicemente "il magistrato", quella figura che in silenzio assolve al proprio dovere perché si sente servitore dello stato, e quindi di tutti i cittadini. Certamente non si è comportato da burocrate ottuso, pur nel rispetto delle regole, né ha mai avuto manie di protagonismo, insomma quello che un imprenditore, se la giustizia fosse l'attività di un'azienda privata, potrebbe definire un elemento valido su cui fare affidamento.
Come lui, per fortuna, ce ne sono tanti altri, anche se non mancano quelli che vivacchiano aspettando lo stipendio o altri, pochi per fortuna, che cercano di trarre un profitto personale dalla loro attività.
La magistratura, come sancito dalla Costituzione, è autonoma, e questo a vantaggio di tutti; ciò non toglie che in un paese come il nostro, in cui il corporativismo sembra innato, si delinei una casta dei magistrati, pur tuttavia lontana da situazioni, da arroganze e anche da aspirazioni di potere da altre ben più agguerrite, come quella dei politici.
Dopo aver fornito esempi reali dei problemi della giustizia e dopo averli individuati, l'autore procede a stilare un ventaglio di possibili provvedimenti per risolverli, soluzioni in verità condivise e propugnate da molti suoi colleghi, con la differenza che le proposizioni non solo vengono avanzate in termini accessibili ai più, ma appaiono convincenti, realizzabili anche in tempi brevi, senza essere punitive per i cittadini, che anzi ne trarrebbero benefici, e per le casse dello stato.
Nell'insieme quest'opera costituisce quindi più di un motivo d'interesse, perché fa luce, e in modo chiaro, su problemi che tutti avvertiamo, ma la cui portata e la cui soluzione sono sovente mistificati da politici che più che avere a cuore la soluzione per il bene comune perseguono invece solo vantaggi particolari.
Non mi resta, quindi, che raccomandare la lettura de La toga sbiadita.

Nato a Empoli ( FI ) il 01/07/1940, Alessandro Mariotti consegue la laurea a pieni voti in Giurisprudenza nel 1966, presso l'Università di Firenze,con una tesi di diritto costituzionale sulle Regioni. Si congeda dal servizio militare di leva con il grado di sottotenente di complemento e con l'abilitazione all'insegnamento di Diritto, Scienza delle finanze e Statistica, ottenuta mentre fa il militare. Svolge, come supplente, attività di insegnamento negli Istituti Tecnici e contemporaneamente espleta funzioni di vice-pretore onorario. Nel dicembre 1969 partecipa a un concorso nazionale per tre posti di ricercatore aggiunto del C.N.R. ed, ottenuta la nomina, presta servizio presso l'I.D.G. di Firenze del C.N.R., sezione di documentazione giuridica automatica, che utilizza i primi computers dell'I.B.M. Nel 1970 frequenta a Pisa, presso il C.N.U.C.E. (Centro Nazionale Universitario di Calcolo mElettronico) un corso di formazione professionale per l'apprendimento del PL1, un linguaggio di programmazione per l'elaborazione informatica di dati alfanumerici, finalizzata all'analisi di testi giuridici condotta nel menzionato Istituto di ricerca. Vinto il concorso per la magistratura, nel 1972 si dimette dal C.N.R. e prende servizio, come uditore giudiziario senza funzioni, per il tirocinio che durerà un anno. Avute le funzioni giurisdizionali, il Mariotti sceglie una Pretura del Nord, ove viene addetto alle cause civili di locazione, per tre anni. Si trasferisce poi in Toscana, dove lavora come giudice del lavoro e delle cause previdenziali ed assistenziali, oltre che di locazione, per un intero decennio. Nel 1986, a sua richiesta assume, nella stessa sede, le funzioni di magistrato di sorveglianza, svolte per sedici anni. Dopo aver percorso tutte le tappe della carriera e,con la qualifica di consigliere di Cassazione idoneo all'esercizio delle funzioni direttive superiori, rassegna le dimissioni volontarie con decorrenza dal gennaio 2002. Pochi mesi dopo il Mariotti si iscrive all'albo degli avvocati per l'esercizio dell'attività forense, quasi esclusivamente nel settore dell'esecuzione penale sino all'agosto 2009.
Renzo Montagnoli
 

14/12/2010

Legami culturali
da Riccardo Bacchelli a Mario Luzi
di Fulvio Castellani
Introduzione dell'autore
Edizioni Solfanelli
www.edizionisolfanelli.it

Saggistica letteraria
Collana Micromegas

Letteratura

Come opportunamente precisa l'autore nella sua introduzione all'opera questa consiste in una raccolta di articoli di genere letterario, scritti in epoche diverse, scelti non tanto seguendo un filo logico, piuttosto per l'aspetto emotivo intrinseco avvertito nella rilettura dopo parecchio tempo.
Senza voler avere l'ambizione di dissertare approfonditamente sui principali poeti e narratori italiani contemporanei, Legami culturali è in effetti una miscellanea di brevi saggi e interviste, in grado tuttavia di interessare il lettore per la loro completezza, pur in presenza di una brevità discorsiva che, anziché nuocere, consente una sintesi di caratteristiche encomiabile e per nulla scontata.
A Riccardo Bacchelli sono dedicate, peraltro giustamente, non poche pagine, ricomprendendo, oltre a una scheda critica, le risposte a diversi quesiti posti a letterati di peso e, comunque, in grado di esprimere giudizi compiuti, quali Geno Pampaloni, Silvano Demarchi e Walter Mauro, solo per citarne alcuni.
Dal contrasto, anche se solo limitato, fra le opinioni emerge così un quadro molto vivo e sicuramente di pregio dell'autore di romanzi basilari per la letteratura italiana, quali Il mulino del Po e Il diavolo al Pontelungo.
Di particolare interesse, soprattutto per me, è poi un'intervista a Giuseppe Bonaviri, con domande azzeccate che ben mettono in luce il pensiero del grande scrittore di Mineo.
Non manca un articoletto sul "Perché della poesia", un quesito potrei dire classico e nel caso specifico corredato da una risposta-analisi, forse non del tutto condivisibile, ma comunque logica e coerente nella sua articolazione.
Di tutta queste serie di articoli quello che mi ha colpito di più riguarda Nino Palumbo, lo scrittore di Trani scomparso nel 1983. Ciò che appare di maggior rilievo in questo elaborato è però l'intervista, da cui emerge limpida la personalità dell'autore che non svicola mai nelle risposte, portando avanti anzi il suo pensiero con apprezzabile coerenza e senza timori. Mi spiace non aver mai letto nulla di Palumbo e credo che provvederò al riguardo quanto prima.
Ecco, uno dei tanti pregi di questo libretto è di incuriosire il lettore, di fargli nascere l'interesse per uno scrittore o un poeta magari da lui poco conosciuto, al punto da desiderare di visionare qualcuna delle sue opere, e ciò è veramente apprezzabile, rende onore e merito a Fulvio Castellani, al quale chiedo di provvedere quanto prima alla stesura di un'analoga miscellanea che abbracci e comprenda altri autori, magari non noti, ma di sicura qualità.
Nel raccomandare Legami culturali mi permetto di aggiungere che la lettura, mai affaticante, è senz'altro agile e piacevole, tanto da poter dire che s'impara divertendosi.

Fulvio Castellani è nato nel 1941 in Carnia ed è stato iscritto all'Albo dei Giornalisti (Elenco Pubblicisti) per trentacinque anni. Di formazione umanistica, i suoi interessi vanno dalla letteratura all'arte e ha al suo attivo molteplici opere di poesia, narrativa, saggistica e storia locale.
Tra le più recenti pubblicazioni vanno ricordate, di poesie: Così, per dire (La Nuova Fortezza, Livorno 1984), I rifugi dell’io (Ursini, Catanzaro 1993), Segmenti e diaframmi (Delta 3, Grottaminarda 1999), I gradini del sole (Ursini, Catanzaro 2006), Orme e penombre (Ursini, Catanzaro 2009), Sera di parole (Ibiskos Ulivieri, Empoli 2010); di narrativa: La storia di Nadina (per ragazzi, Edizioni Bresciane, Brescia 1986), Parole a Siv e altri racconti (Gabrieli, Roma 2004), Registro segreto (Gabrieli, Roma 2004), Pioggia di primavera (Greco & Greco, Milano 2005); di saggistica: Polinnia (Ursini, Catanzaro 1993), Oltre il recinto quotidiano (Editrice Veneta, Vicenza 2007), Con la penna in mano. Viaggio nella narrativa di Silvana Cellucci (La Cassandra, Pineto 2007), Semplici letture (Poeti nella Società, Napoli 2008), Altre letture (Poeti nella Società, Napoli 2009).
     È stato a più riprese direttore responsabile di “Radio Studio Nord” e delle riviste “Tuttomontagna” e “Le occasioni”.
     È presente in antologie come Nel nome del Padre (Ursini, Catanzaro 2005), La poesia del Terzo Millennio (Marna, Lecco 2007), Poeti nel mondo della nuova frontiera (A.G.A.R., Reggio Calabria 2009), Non abbiate paura... (Ursini, Catanzaro 2010).
     Dal 1994 è Ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana.
 
Renzo Montagnoli

12/12/2010

Prigioniere del silenzio

di Maria Carmen Lama

Prefazione di Valentino Vitali

Aletti Editore
www.alettieditore.it

Poesia silloge

Collana “Gli Emersi – Poesia” 

Una silloge scrosciante di parole e di lacrime

Se devo essere sincero non ho mai pensato alla sofferenza delle donne, soprattutto per quanto concerne i loro rapporti con gli uomini. La domanda, o meglio le domande, sono sorte spontanee leggendo questa silloge di Maria Carmen Lama e sono stato indotto a fare un esame di coscienza, dal quale sono uscito assolto (ma il giudice sono io). Un senso di colpa, però, mi è venuto poiché mai avrei immaginato che questo fenomeno avesse caratteristiche così ampie.
Quindi, se uno degli scopi di Prigioniere del silenzio era quello di allertare, di denunciare una situazione, questo è stato senz’altro raggiunto.
Non sono teneri, questi versi, nei confronti dei maschi, visti come egoisti ed egocentrici (Tu, maschio, / che vivi solo di te stesso – ( Non uomo, / solo maschio! / Assente, / nella tua presenza. / Debole, nella tua arroganza / che credi forza. /…).
E lirica dopo lirica la dose si rincara ( Sai scorticare / le ali di una farfalla, / sai calpestare / senza neppure vederlo / un bel fiore rosso, / dai morbidi / e delicati petali / come il papavero, / sai colorare di nero / la luna piena, /…).
Insomma, c’è di che restare basiti e, francamente, ogni tanto, fra un verso e l’altro, sono assalito dal timore di non essere io stesso immune da simili comportamenti, insomma, magari inconsciamente, di essere succube di un Dna che caratterizza il maschio.
Mi chiedo allora se più che un odio degli uomini nei confronti delle donne sia presente invece un senso di rivalsa delle stesse nei confronti dei maschi per quell’atavica sottomissione che, a dispetto di leggi e costituzioni, permane e serpeggia magari travestita da malcelato buonismo.
(…/ Griderei forte / soltanto / per far svanire / d’un colpo / quel battito d’ali /     / che ti condusse / a me.).
In questi versi si mescolano un rigetto improvviso con la sensazione di aver sbagliato in passato, magari di aver creduto in buona fede. Vero è che le situazioni non sono tutte uguali e che quindi sarebbe ingiusto generalizzare, ma sono dell’opinione che questo grido di dolore, se pur così ben delineato, più che aiutare a risolvere il problema lo enfatizzi.
Comunque, meglio alzare i toni, magari anche tanto, piuttosto che il silenzio, che potrebbe essere scambiato per accettazione di una condizione che non deve esistere.
C’è indubbiamente una distanza fra l’uomo, inteso come essere umano, e il maschio, ed è giusto che esista; il problema sorge quando l’aspetto istintivo, la radice bestiale prendono il sopravvento, determinando così un individuo sostanzialmente immaturo perché più maschio che uomo.
Non si deve, in verità, generalizzare, ma, purtroppo, non è infrequente ed è di questi bambini mai diventati adulti che parla questa silloge, interessante, incalzante, senza accidia, scrosciante di parole e di lacrime.
Da leggere, senz’altro, e per il tema trattato e per come, egregiamente, è stato svolto.    

Maria Carmen Lama è nata in provincia di Messina il 20.11.’49. Vissuta a Capo d’Orlando fino all’età di vent’anni, nel 1970 si è trasferita per lavoro a Milano, dove si è laureata in Filosofia, e dal ’77 vive in provincia di Lecco. 
Ha svolto attività di insegnamento e poi di Dirigente scolastica in Istituti comprensivi e al Liceo Artistico lecchese.
Ha tenuto corsi di formazione per docenti e genitori e ha pubblicato articoli di carattere pedagogico e culturale su riviste professionali per docenti e dirigenti, con gli editori Maggioli, Fabbri, Edizioni Didattiche Gulliver.
Ha prevalenti interessi letterari e in ambito filosofico e psicologico. Scrive recensioni, che pubblica su diversi siti web, relative a testi di vario genere, a romanzi coinvolgenti a livello emotivo e a libri di poesie. Scrive anche poesie e ama approfondire la conoscenza delle produzioni poetiche dei grandi del passato. Ha iniziato da pochi anni a entrare nel mondo poetico attuale, anche attraverso la consultazione di siti web dove le scelte risultano essere traboccanti, ma non sempre adeguate all’idea di poesia come vera e propria arte destinata a pochi  ed eletti adepti.

e-mail: carmen@giandgi.eu
Renzo Montagnoli

 

11/12/2010

Il vicolo blu
di Giuseppe Bonaviri

Sellerio Editore Palermo
www.sellerio.it

Narrativa romanzo

Magia sublime

"Nel frattempo dalle colline vicine, che si estendevano in una linea che andava da occidente ad oriente dove per prima il giorno imbruniva cominciavano a cantare gli assioli.
Come si sa, sono uccelli notturni, per natura tristi, il cui canto, a differenza di quello dei grilli, pareva disassimilasse lo spazio, ossia lo trasformasse in rotonde isole sonore intercalate da pause di silenzio che si formava fra melograni, carrubi e mandorli; o si infossava nelle grotte e nei botri profondi.".


Con Il vicolo blu Giuseppe Bonaviri ritorna al suo paese natale, Mineo, a distanza di anni da Il sarto della strada lunga. E' trascorso molto tempo e quella sua naturale vena poetica, accompagnata da un'analisi ontologica di ogni essere reale, si è notevolmente affinata, così che questo lavoro di fissazione della memoria riesce a giungere a risultati straordinari, di palpitante intensità e commozione.
Il mondo rurale, povero, quasi derelitto, ma ricco di una solidarietà oggi sconosciuta, con tutti i suoi contrasti, sorretto da una fede panteistica, viene tratteggiato in modo esemplare.
E la vicenda di una modesta villeggiatura d'epoca, una fuga dal buio dei vicoli di Mineo, assurge a una gigantesca corale sinfonia in cui ogni elemento della natura, uomini, animali, vegetali, perfino sassi, ha la sua voce, la sua tonalità, si imprime indelebilmente nell'animo del lettore, consapevole che Bonaviri con questo suo lavoro ha cantato un mondo che non esiste più.
Sono tanti i passi in cui la vena poetica dell'autore trascende dalla visione apparente per entrare in un'atmosfera di elevata intima spiritualità, pagine a cui lasciarsi andare, volando oltre la nostra realtà per ritrovare il respiro dell'eterno che tanto ci manca.
E' la Sicilia antica quella così mirabilmente descritta, in una visione teocritea che raggiunge vette sublimi e che solo nelle Bucoliche di Virgilio ho potuto constatare.
Bonaviri, con quella sua aria pacata, per nulla saccente, sembra volerci dire che se il destino dell'uomo è rincorrere vanamente se stesso, c'è un altro mondo intorno a noi, in cui entrare con il cuore e scoprire meraviglie che la nostra scienza, perfetta, ma arida, ci ha con il tempo nascoste.
Un semplice temporale, con il mutare del colore del cielo, l'afrore della terra zuppa d'acqua, le reazioni degli animali e degli uomini sono il preludio a pagine ancor più intense, come quelle della raccolta delle stelle cadenti, in cui la fantasia, nel superare la realtà, ci restituisce questa in un'altra dimensione, con l'uomo che, da oggetto del disegno imperscrutabile dell'universo, ne diviene soggetto, partecipe e non più succube, fermo restando la sua limitatezza di essere infinitesimale, un atomo di un progetto troppo grande per essere compreso.
La vita di ogni giorno, così misera, con i suoi lutti e le poche gioie, finisce con il diventare l'occasione di continue scoperte, di meraviglie che affascinano non solo i bimbi protagonisti, ma anche gli adulti; è questa una civiltà arcaica, di forti contrasti, in cui un contadino è capace di comporre una laude per violino sulla morte dei capretti sgozzati, o dei papaveri tagliati durante l'aratura. In tal modo fra la magia dei fanciulli e il naturalismo senza tempo degli adulti non c'è contrasto, anzi si instaura un'armonia perfetta.
Tutto procede secondo natura, non c'è tempo e nemmeno l'occasione per le attuali depressioni, perché il vivere a stretto contatto con il mondo che ci circonda e che procede immutabile da secoli, a parte la ciclicità delle stagioni, induce l'uomo a scoprirne l'essenza, a considerarsi parte integrale dello stesso senza superbia, con la immensa modestia degli umili, con quella capacità di trascendere la realtà che il progresso ci ha tolto.
Bonaviri ha saputo trasmetterci non solo questo suo messaggio di avvertimento, affinchè la nostra civiltà rallenti la sua corsa inutile, ma ci ha portato con lui in questo altro mondo, dove la dolcezza dell'asina Ririrì incanta e intenerisce il cuore, dove la solidarietà della povera gente permette un funerale quasi pagano a un bimbo morto a nemmeno due mesi di età, dove la scomparsa per tetano di un compagno di giochi è vissuta in un lutto collettivo non di circostanza, ma di profondo affetto.
Il vicolo blu è il testamento letterario di Giuseppe Bonaviri, in cui generosamente ha lasciato a tutti la sua visione della vita, stupendoci dalla prima all'ultima pagina, in una narrazione che riesce a giungere più volte a vette sublimi, proprie di quello che può essere considerato un autentico capolavoro.

Giuseppe Bonaviri, nato nel 1924 a Mineo, in provincia di Catania, è scomparso nel 2009. Primo di cinque figli di un sarto, Bonaviri ha vissuto per anni a Frosinone dove ha esercitato la professione di medico. Fra le sue opere più note: Il sarto della strada lunga, Il fiume di pietra, La divina foresta, Notti sull'altura, L'enorme tempo, Silvinia, L'infinito lunare, Il dottor Bilob, L'incredibile storia di un cranio, Il vicolo blu.
Renzo Montagnoli
 

09/12/2010

L’Erede degli Dei
di Marco Salvador
Edizioni Piemme
www.edizpiemme.it
Narrativa romanzo
Collana Storica

La storia di un cavaliere

“Il sole non si vedeva da giorni. Da una tenebra all’altra era un ininterrotto crepuscolo, più o meno cupo a seconda del gravare delle nubi. Poi il vento del nord era sceso dai monti. Sibilando appena, al principio aveva filato con le sue gelide dita il fumo dei focolari avvoltolandolo ai rami nudi degli alberi.”

L’Erede degli Dei è la genesi di un cavaliere, Corrado da Romano, pronipote di Ezzelino, dagli inizi ancora fanciullo alla sua investitura, alle battaglie, alle sue disgrazie, fino al raggiungimento, dopo tante tribolazioni, di una vera pace interiore.
Premetto subito che è un romanzo bellissimo, scritto in modo magistrale, in quel modo che solo lui sa, da Marco Salvador che non ho esitato a definire il Walter Scott italiano.
Ricerca minuziosa delle fonti, capacità di scegliere, fra tante notizie, quella più attendibile, elaborazione di questi elementi fino a sviluppare una trama, capacità di affondare la lama quando serve e di addolcire ove è necessario, personaggi caratterizzati nella loro essenza, senza inutili appesantimenti, descrizione di battaglie talmente viva che sembra di prendervi parte, una nota malinconica di fondo sul destino degli uomini, sempre presente, anche se non esplicita, tutte caratteristiche queste ben radicate nel narratore di San Lorenzo di Pordenone e che connotano infatti tutti i suoi romanzi, dal ciclo longobardo a quello dei Da Romano, di cui il primo, immediatamente antecedente a questo, vale a dire La palude degli eroi, è di una tale bellezza e perfezione da poterlo definire, senza timore, un autentico capolavoro.
E L’Erede degli Dei  non gli è da meno, una serie di quadri ininterrotti, di luce soffusa, ma vivi e che colpiscono il lettore per i toni, per gli equilibri, per un alternarsi di pochi adagi e di molti andanti, una sinfonia della vita in cui si disegnano figure memorabili, dipinte con la stessa cura, dagli umili ai potenti, dai pavidi agli audaci, una moltitudine di esseri umani, con i loro pregi e i loro difetti, tesi a sopravvivere o a vivere nella gloria.
Comunque bisogna leggere questo romanzo e i precedenti per capire cosa voglia dire saper scrivere bene, in un italiano corretto e con un ricorso puntuale a un’analisi logica ferrea, in un fiume di parole che sanno essere tumultuose, oppure quiete, tanti piccoli ceselli a formare un mosaico che stupisce e affascina.
Il tutto in un tessuto di originalità, certamente non frequente, e che fa rivivere un’epoca passata come in una pellicola cinematografica, un succedersi di vicende interpretate da uomini e donne, di varia umanità, che sembrano muoversi autonomamente, non guidate dal regista. Eppure non c’è una nota storta, non c’è un attacco o uno stacco al di fuori del tempo giusto, in un equilibrio armonico che regge, stabile, perfetto, senza la minima sbavatura, dall’inizio alla fine.
E non è solo la trama ad avvincere, ma anche le riflessioni dell’autore poste in bocca a questo o a quel personaggio,  perché in fondo gli uomini, chi più chi meno, è giusto che debbano farsi un’idea sui perché della loro esistenza.
Le pagine scorrono veloci, la mente di chi legge s’invola, si sarebbe tentati di proseguire a oltranza, fino all’ultima pagina, ma non è giusto, occorre procedere adagio, per non lasciarsi sfuggire nulla, per il timore di non poter godere di ogni parola di questo splendido romanzo, un altro capolavoro di Marco Salvador.

Marco Salvador è nato a San Lorenzo, in provincia di Pordenone, nella casa in cui vive tutt’oggi. Ricercatore storico, per professione e per passione, con un interesse particolare per il Medioevo, ha pubblicato numerosi saggi sulle comunità rurali nel medioevo e sulle giurisdizioni feudali minori. Inoltre ha scritto sei romanzi: Il longobardo (Piemme, 1^ Edizione 2004, 2^ Edizione 2008),  La vendetta del longobardo (Piemme, 2005), L’ultimo longobardo (Piemme, 2006), La casa del quarto comandamento (Fernandel, 2004), Il maestro di giustizia (Fernandel, 2007), La palude degli eroi (Piemme, 2009) e L’Erede degli Dei (Piemme, 2010).. 
Renzo Montagnoli

 

07/12/2010

Gabriele D'Annunzio
nelle lettere a Giancarlo Maroni

(1934)
di Ruggero Morghen
Edizioni Solfanelli
www.edizionisolfanelli.it

Saggistica
Collana Micromegas


D'Annunzio meno mito

Chi sia Gabriele D'Annunzio penso, e spero, lo sappiano tutti, mentre assai meno noto è Giancarlo Maroni, tanto che viene lecito chiedersi chi fosse mai costui che, fra l'altro, poteva permettersi una fitta corrispondenza con il grande poeta abruzzese.
Giancarlo Maroni (Arco, 1893 - Riva del Garda, 1952) è stato un architetto, anzi l'architetto del Vittoriale, la dimora Mausoleo di Gabriele D'Annunzio a Gardone, ove si ritirò dopo l'esito infausto dell'impresa fiumana.
Quindi, fu in virtù di questo incarico che si avviò un'intensa corrispondenza fra i due, reperita da Ruggero Morghen e di cui si disserta in questo breve, ma interessante saggio.
In effetti può sorprendere come un epistolario possa gettare nuova luce su un artista tanto amato dagli italiani da venerarlo, spesso senza mai aver letto qualcosa di suo. In queste lettere, in cui si esprimono giudizi su alcuni lavori realizzati, si formulano ipotesi su altri, si chiedono e si rilasciano consigli, si rileva un progressivo affiatamento che porta al sorgere di una vera e propria amicizia, ma soprattutto si notano caratteristiche dell'uomo D'Annunzio che, nel separarlo da quell'alone di mito di cui lui stesso si era circondato, lo rendono più simpatico evidenziando una comune vulnerabilità.
Il poeta è tutto lì, è carne e ossa, sentimenti e affetti non da dio, ma da umile mortale, e in questa riscoperta di una dimensione normalmente umana in un'artista che finì con il diventare prigioniero del suo mito sta tutta la sua reale grandezza; ha fretta che l'opera sia conclusa, perché sa di essere mortale, e infatti, quattro anni dopo le lettere di questo epistolario che risalgono al 1934, Gabriele D'Annunzio morirà per un'emorragia cerebrale.
Sorgono spontanee molte domande, vista la differenza fra il D'Annunzio uomo e il D'Annunzio vate, ma una sopra tutte: fu fascista? Si può rispondere tranquillamente che non lo fu, benché il fascismo gli dovette molto. Se posso esprimere una personale opinione, dico solo che Gabriele D'Annunzio fu certamente uomo di destra, conservatore, ma libertario, non inquadrabile in nessuna ideologia politica, amante dell'ordine, ma anche di comportamenti fuori dei canoni, insomma un personaggio complesso in cui luci e ombre si alternavano con sorprendente rapidità.
Il saggio di Morghen è quindi un elemento prezioso per conoscere di più il poeta abruzzese, ma lo è anche per avere un altro angolo di visuale di un anno del ventennio che inevitabilmente si riflette, è presente in quelle lettere.
Da leggere, quindi, perché ne vale la pena.

Ruggero Morghen (1957) di Riva del Garda, laureato in sociologia all'Università di Trento con una tesi sulla rappresentazione dell'ambiente montano nella cinematografia, è pubblicista e bibliotecario. Da anni lavora presso la Biblioteca civica della sua città, dove si occupa in particolare di catalogazione ed acquisizione di nuovi documenti al Catalogo bibliografico trentino.
Ha pubblicato varie opere di letteratura e satira - tra cui il "Dizionario del Belpensante" - e sue poesie sono apparse in forma antologica. Nel 2007 ha pubblicato "La perdutissima setta" (Solfanelli, Chieti), sulle rappresentazioni della massoneria nei documenti pontifici.
Renzo Montagnoli
 

05/12/2010

Non tutti i bastardi sono di Vienna
di Andrea Molesini
In copertina L'attesa, di Dario Treves
Sellerio Editore Palermo
www.sellerio.it

Narrativa romanzo
Collana La memoria

L'orrore di una guerra segna la fine di un'epoca

"Io… io, madame… ho visto i miei soldati venire su da quel fiume, venivano su dall'acqua, come i vostri gnocchi di patate nel tegame, mi capite, madame? Gnocchi nell'acqua che bolle".

Non ci sono eroi, ma solo le vittime in questo bel romanzo di Andrea Molesini. La guerra è un mostro che fagocita tutto, che irrompe nelle vite di ognuno imponendo sacrifici e decisioni in contrasto con la propria natura.
L'occupazione nemica delle terre a est del Piave dopo la disastrosa ritirata di Caporetto è stato un tema sempre sfiorato, ma mai effettivamente affrontato e quindi questo romanzo, dal titolo insolito, pone rimedio a una mancanza quasi colpevole. Infatti, se è vero che le nostre truppe compirono immani sacrifici lungo le sponde del Piave per difendere il nostro paese, lo è altrettanto che gli italiani, caduti sotto il dominio militare austriaco, resistettero eroicamente, colpiti dalle violenze, dai saccheggi, dalla fame, totalmente in balia del nemico.
Quindi non c'è l'orribile guerra di trincea, così ben descritta da Remarque in Niente di nuovo sul fronte occidentale o da Lussu in Un anno sull'altipiano, c'è invece l'attesa nelle retrovie, lì occupazione nemica, il sentirsi ospiti in casa propria. E forse la visione che danno dei semplici civili di un così immane conflitto offre la misura dell'angoscia di chi non combatte con le armi, ma con la sua coscienza, con la propria dignità.
In queste pagine, che partono da un fatto realmente accaduto, si dipana una storia di vita e di morte, in un'atmosfera spesso pesante, foriera di continue sventure, in cui sembra non esserci posto per la pietà, anche se poi questo pregio, così tanto in disuso, si svilupperà come la brace che accende il fuoco.
In un conflitto crudele e sanguinoso c'è posto per tutto, per la ferocia dell'omicidio e per l'aiuto al nemico ferito, contrasti tipici dell'uomo in situazioni limite.
Fra gli scoppi delle bombe, i gemiti dei moribondi, la puzza di piscio, la fame che regna ovunque, si concretizza anche la fine di un'epoca, quella delle buone maniere che accomunavano la borghesia sorta con la restaurazione e i patrizi d'origine, quelle dei baciamano, quella cavalleria intesa come irrinunciabile vocazione estetica.
E così le divise inamidate si sporcano del lordume della guerra, gli animi intessuti di convenzionali ideali si trovano a combattere fra un concetto della vita messo in discussione dagli eventi e la rinascita di una coscienza individuale, e non più collettiva di ceto, che sembra incapace di reagire razionalmente. Non c'è forse nessun odio fra i protagonisti, ma in tutti c'è la rassegnazione per la consapevolezza della fine di un mondo che non potrà più ritornare.
La disponibilità a una relazione fra la zia Maria e il barone von Feilitzsch , il suo quasi patetico tentativo di offrirsi a lui per salvare il ragazzo dalla fucilazione e la sofferta reazione dell'uomo che non si piega, perché siamo in guerra, perché l'Austria si avvia alla sconfitta, perché non può perdonare dopo che ha visto i suoi soldati morti salire in superficie dal ribollire del Piave, danno il senso chiaro del dramma che, serpeggiando, alla fine è uscito allo scoperto.
La belle epoque è finita, i valzer alla corte di Vienna saranno solo un ricordo e c'è qualche cosa che è peggio della morte ed è uno stile di vita cancellato per sempre, il cui ricordo sarà strangolato dal rimpianto.
Molesini ha uno stile asciutto, a volte perfino essenziale, anche se non disdegna inserire alcune note poetiche; i personaggi sono calibrati, una caratterizzazione che non denota mai eccessi, alcuni anche naturalmente simpatici, e fra questi pure dei nemici; la narrazione scorre fluida, senza intoppi, equilibrata armonicamente, una sorta di lungo adagio che, in alcuni momenti di particolare drammaticità, opportunamente si impenna, si accentua senza mai però arrivare all'eccesso; la trama, dove non poco conto ha lo spionaggio, è indovinata e quindi non c'è da meravigliarsi se questo romanzo riesce ad avvincere dall'inizio alla fine.
Altra nota positiva è l'uso esemplare della lingua, non accademico, ma sciolto.
E il titolo un poco strano? E' il moccolo che tira un sacerdote, anche lui in preda al turbine della guerra.
Non tutti i bastardi sono di Vienna segna un esordio ampiamente positivo, è un bel romanzo e quindi sicuramente da leggere e anche da rileggere, perché non mancano di certo spunti per ampie e approfondite riflessioni.

Andrea Molesini è nato e vive a Venezia. Ha curato e tradotto opere di poeti americani: Ezra Pound, Charles Simic, Derek Walcott. Ha scritto storie per ragazzi tradotte in varie lingue. Non tutti i bastardi sono di Vienna è il suo primo romanzo.
Renzo Montagnoli
 

01/12/2010

Menelicche
di Valentino Rocchi

Presentazione di Pina Vicario
Edizioni Agemina
www.edizioniagemina.it

Narrativa romanzo
Collana I tipi

Le insormontabili barriere sociali

"Tutto ha avuto inizio un secolo prima o giù di lì. Fra la fine degli anni '80 e i primissimi anni del '90 del 1800.
A quel tempo la città, che aveva goduto della sua maggior fortuna nel periodo rinascimentale, non era ancora uscita dalla cinta pentagonale delle mura fatte costruire dai Della Rovere. Contava d'una manciata di migliaia di cittadini e di poche centinaia di portolotti.".


Valentino Rocchi, purtroppo scomparso il 30 gennaio del corrente anno, è stato un autore di narrativa particolarmente fecondo e per quanto i romanzi pubblicati siano stati numerosi, i familiari, mettendo le mani nei cassetti della sua scrivania, ne hanno trovati non pochi, così che alcuni sono stati inviati all'editore di riferimento, la fiorentina Agemina.
Uno di questi è Menelicche, che più che romanzo è da considerare un racconto lungo, che trae origine da una filastrocca, versi popolari di una vicenda forse veramente accaduta, e che l'autore pesarese ha utilizzato, non senza aver prima fatto accurate ricerche, per imbastire una storia che nelle sue linee rientra nelle tipologie a lui così care e che, in altre forme, sono presenti nella sua produzione.
L'attenzione per le differenze di classe, un tempo più marcate di oggi, la difesa dei ceti più deboli, l'appassionata presa di posizione in favore dei portatori di handicap sono innate in Valentino Rocchi, convinzioni ben radicate nella sua intima natura al punto da costituire motivi ricorrenti nei suoi lavori. Quello che cambia nel caso specifico è l'ambiente, non più quello agricolo a lui particolarmente caro, ma quello marinaro, con il sottoproletariato delle attività a terra ad esso connesso.
La vicenda è di quelle che portano gradualmente a una profonda commozione, perché disegnata in un mondo in cui c'erano limiti invalicabili fra una classe e l'altra, confini che nemmeno l'amore poteva valicare e, se lo faceva, portava inevitabilmente ad accentuati conflitti che segnavano per sempre l'esistenza delle persone coinvolte.
E' così che in una Pesaro di fine '800, da poco passata dal dominio del papa allo stato italiano, sboccia un'amicizia, che poi diventerà affetto e infine un sentimento più forte. La ricchezza della protagonista e la miseria di un operaio del cantiere navale sono il contrasto più stridente, ancor più della menomazione di lei, due mondi diversi, in cui convenzioni e sottomissioni imperano a dispetto di qualsiasi sentimento.
La mano di Valentino Rocchi è precisa, ma lieve, nel narrare questa storia, la cui conclusione sarà inevitabilmente non positiva, ed è con ogni probabilità che qualcosa di simile deve essere accaduto, perché la filastrocca è nata in ambiente popolare, in quella classe sottomessa che per prima rimprovera all'innamorato il tentativo di elevarsi, superando il confine.
E il difetto fisico diventa anche oggetto di scherno, una inconscia rivalsa di chi, per nascita debole, nei confronti di chi invece per origini dovrebbe essere forte. Il popolino, ignorante, si nutre anche di invidia, ma non manca di un congenito sentimento di pietà che fa sì che una ballata improntata allo scherno finisca con il diventare un pietoso canto all'amore negato.
Da leggere, senz'altro, come tutti i libri di Valentino Rocchi.

Valentino Rocchi (Savignano sul Rubicone, 1929 - Pesaro, 2010)
Ha pubblicato: "Una Storia a Castelvecchio" (Società editrice Il Ponte Vecchio - Cesena); "L'Eredità di Venanzio" (Guaraldi - Rimini) Vincitore del Premio letterario "Il Pungitopo" 2001."Notte all'Hotel La Guercia" (Argalìa Editore);"Gli uomini di Bluma" (Giraldi Editore) II Classificato al Premio "Palazzo al Bosco", 2002;"La saggezza di Toni" (Giraldi Editore);Esce nell'anno del V centenario della morte di Pandolfo Collenuccio, uomo di corte e di legge, dalla vita straordinariamente avventurosa: "Notte all'Hostaria La Guercia", Pandolfo Collenuccio, uomo di corte del XV secolo, (Giraldi Editore) ambientato nel XV secolo, di cui è l'autore è profondo studioso e conoscitore; nel 2008 "La Magia del fuoco" (Agemina) e "1504 - Notte all'Hostaria La Guercia" (Agemina); nel 2009 "Il pianoforte a coda" (Giraldi Editore), "La padrona di Santa Maria" (Giraldi Editore), "Confrontarsi con Karolina" (Agemina), nel 2010 "Giolina" (Agemina) e Menelicche (Agemina).
Renzo Montagnoli
 

28/11/2010

Morte dell’inquisitore
di Leonardo Sciascia

Prefazione dell’autore
Adelphi Edizioni
Collana Piccola Biblioteca Adelphi

L’annullamento delle fonti

“Pazienza
Pane, e tempo.

Queste parole, graffite sul muro di una cella del palazzo Chiaramonte, sede del Sant’Uffizio dal 1605 al 1782, Giuseppe Pitré riesce a decifrare nel 1906: insieme ad altre di disperazione, di paura, di avvertimento, di preghiera; tra immagini di santi, di allegorie, di cose ricordate o sognate.”

Il destino, spesso, riserva delle sorprese del tutto particolari e al riguardo Leonardo Sciascia mai avrebbe immaginato che quel personaggio di Fra Diego La Matina, incontrato casualmente raccogliendo i documenti d’epoca per il suo romanzo Il Consiglio d’Egitto, sarebbe diventato il protagonista di un altro libro, un’opera ultimata anche se incompiuta, suscettibile di nuove aggiunte, di altre ipotesi.
Certamente, più che il personaggio, è la genesi del reperimento della documentazione, incompleta, che portò lo scrittore siciliano a compiere un lavoro il cui grado di soddisfazione era per lui, per quanto possa sembrar strano, nella possibilità e nell’esigenza di rimettervi mano.
La vicenda in sé non è di eclatante interesse, con questo frate, recidivo, più volte condannato a pene sempre più severe e che infine, dopo aver ammazzato per esasperazione a manettate il suo inquisitore, viene giudicato, ritenuto colpevole e sanzionato con la pena capitale, secondo la più classica delle forme preferite dal Sant’Uffizio: il rogo.
I diari dell’epoca sono scarni, con poche informazioni, anche perché i documenti ufficiali sono stati bruciati nell’incendio ordinato dal viceré Caracciolo ed è quindi lecito formulare più di un’ipotesi in ordine al movente, e fra queste Sciascia respinge decisamente quella del delitto passionale a suo tempo formulata da William Galt nel romanzo storico Fra Diego La Matina. O forse questo frate era reo di aver interpretato il messaggio di Gesù Cristo in modo del tutto personale, con uno stravolgimento della dottrina corrente, al punto che era meglio non scrivere nulla delle sue idee teologiche, assumendo l’ipotesi che lamentasse l’esistenza di un Dio non giusto se tollerava le ingiustizie. Insomma, la mancanza degli atti del Tribunale lascia aperte tante porte, nessuna delle quali tuttavia pare condurre a qualche cosa di certo. Tutto sparito, anche se rimane il racconto dell’ultima notte del condannato, assolutamente da leggere con la massima attenzione, e la sua esecuzione, che avviene come se si svolgesse una festa paesana, con nobili in gran sfoggio e gente bramosa di annusare il profumo della morte.
Meticoloso nella ricerca com’era proprio Sciascia non c’è dubbio che anche in questa circostanza abbia proceduto con il massimo rigore, ma resta il fatto che, in assenza degli atti del Tribunale, le certezze sono poche e che quindi non è difficile comprendere il perché nella sua prefazione scriva, fra l’altro: “ La ragione è che effettivamente è un libro non finito, che non finirò mai, che sono sempre tentato di riscrivere e che non riscrivo aspettando di scoprire ancora qualcosa…” 
Pagina dopo pagina si giunge alla convinzione che l’ispirazione per l’opera non sia tanto la vicenda di questo frate, ma la mancanza di fonti certe, la presenza solo di indizi che possono fornire al più l’atmosfera di tragedia per l’operato del Sant’Uffizio, tutti elementi che avrebbero fatto desistere qualsiasi autore, ma che per Sciascia costituiscono l’idea di una riscrittura, che si avvale proprio dell’annullamento delle fonti, per artatamente ricrearle, dotandole di una sottile vena ironica che giunge a vette eccelse nella pignolesca descrizione della parata che porta al supplizio.
L’autore realizza in tal modo un saggio esemplare, probabilmente una delle più acute e lucide condanne della repressione delle libertà di pensiero che siano mai state scritte.
E definirlo un’opera incompiuta è riduttivo, perché in effetti è un lavoro che nel momento in cui si completa lascia aperte nuove possibilità, nuove ipotesi, non tanto forse per un’altra riscrittura, ma per una ulteriore integrazione.  In pratica non c’è un’ultima pagina, ma solo una pagina che chiude una porta nella consapevolezza che se ne potrebbero aprire altre.
Morte dell’inquisitore non è un libro facile, come è possibile comprendere, ma è di grande valore, senz’altro uno dei migliori fra quelli scritti da Sciascia.

Leonardo Sciascia (Racalmuto, 8 gennaio 1921 – Palermo, 20 novembre 1989). E’ stato autore di saggi e romanzi, fra cui: Le parrocchie di Regalpietra (Laterza, 1956),  Il giorno della civetta (Einaudi, 1961), Il consiglio d’Egitto (Einaudi, 1963), A ciascuno il suo (Einaudi, 1966), Il contesto (Einaudi, 1971), Atti relativi alla morte di Raymond Roussel (Esse Editrice, 1971), Todo modo (Einaudi, 1974), La scomparsa di Majorana (Einaudi, 1975), I pugnalatori (Einaudi, 1976), Candido, ovvero Un sogno fatto in Sicilia (Einaudi, 1977), L’affaire Moro (Sellerio, 1978), Il teatro della memoria (Einaudi, 1981), La sentenza memorabile (Sellerio, 1982),  Il cavaliere e la morte (Adelphi, 1988), Una storia semplice (Adelphi, 1989).
Renzo Montagnoli

 

25/11/2010

d'Amore 2 di Romantica Vany e King Lear
Lulu.com
Poesia silloge

Già la copertina appare civettuola, con quel letto sfatto, sulle cui coltri tuttavia campeggia un libro, a significare che l’arredo non serve solo a riposare le membra, ma anche a rilassare e a nutrire la mente.
Poi, qualcuno più malizioso potrà dare una diversa interpretazione, ma anche in questo caso la stessa non potrà che essere complementare alla mia.
Le poesie d’amore sono spesso frutto d’impeto, poi mitigato in una successiva ristesura, soprattutto per un naturale pudore, ma nel caso di D’Amore 2 sembrano scritte di getto, senza ulteriori ripensamenti, sono il frutto di un momento di passione e in questo non possono che essere considerate sincere (Come vampira / di sete assetata / io che amor conosco / e non conosco / consapevole vittima / al Peccato prestata / io ti mordo, / il tuo nudo corpo sfioro  /  con la lingua / lasciando / che sia serpente sulla tua carne /…). E’ indubbiamente quella componente dell’amore che è l’erotismo, ma traslata in versi, senza occhieggiare la verve dell’Aretino; non infastidisce, anzi interessa perché naturale senza essere volgare, pur se risente di millenni di educazione cattolica che porta a considerare la passione un peccato. O forse quell’accenno è un istante di pudore che, pur non frenando l’espressione esplosiva del sentimento, tende a ricercare una scusante per ciò che in effetti non è da scusare.
Ma ci sono anche riflessioni, meno spontanee e frutto di un’elaborazione mentale che si radica lentamente nel tempo ( …/ Selvaggia la pelle tua / addosso alla mia, carnose / le tue labbra mi sanno conquistare, / baci uguali non esistono, / trasformano / i battiti del mio cuore / nell’eco d’un cannone, / Fiero animale / un po’ orso un po’ alieno / profumo effuso di te / mio desiderio).
Non manca, tuttavia, anche la quieta serenità che riviene dalla certezza di un amore consolidato, ben espressa, senza astruse fantasie, e comunque immediata, pur se questi versi non possono che essere stati oggetto di una stesura più dilazionata, attenta a ricreare un momento di estatico compiacimento ( …/ Mi son vista proiettata / indietro nel tempo / - come in un sogno - / e noi eravamo là mano nella mano / a ridere senza motivo / per un nonnulla, per la pasta scotta / e il cocomero tagliato a spicchi /…). La quotidianità dei gesti, il senso di una vita in comune emerge come una rassicurante certezza di un sentimento indissolubile, in un appagamento sensoriale che svela solo pudicamente il sogno.
E non bastasse, a stemperare, non guasta un po’ di romanticismo, non melenso, ma comunque volto a completare un quadro d’amore che non è solo passione e carnalità, ma anche febbre che brucia dentro nel profondo e che si sfoga in gesti, in parole in cui il sentimento finisce con il prevalere (Piove, / la verde erba del mattino bagnata; / su quel raggio di sole / - che le nubi divide / facendomi l’occhiolino - / vorrei segnare i nostri nomi / sognando una gentile serata / di luce di stelle. /…).
Se questa è l’espressione poetica di Vany, altra cosa è quella del coautore, una sorta di comportamento burbero, quasi distaccato, sotto il quale si cela tuttavia una non meno forte passione. Il maschio è meno disponibile a scendere a compromessi, a squarciare il suo petto per mostrare il suo sentimento, eppure questo fra le righe compare, con versi solo in apparenza scanzonati (Bimba, amami ancora / Amami prima che ceda alla pazzia / Non m’interessa il Sole / non me ne frega un piffero della Luna / Ho un chiodo fisso solamente e sei tu /…).
Ciò non toglie che lui veda lei come un soggetto da proteggere, sotto le sue ali di maschio solo in apparenza navigato, e così dedica al suo “amore” dei versi quasi civettuoli (Il mio amore al vento è una bambina / tenera e piccina, romantica e testarda /…); è un passo graduale che alfine sfocia pure in una visione romantica, in parole che non lasciano scampo, né possibilità di fraintendimento ( Se mi chiedessero di morire / per un tuo bacio, / lo farei. / Così potrei vantarmi / con gl’angeli / d’aver visto il paradiso / prima di arrivarci.).
Sorprende, nel leggere questa silloge, di trovare un Giuseppe Iannozzi tenero e delicato sotto una patina di uomo vissuto e una Viola Corallo più concreta, più trasparente, messa a nudo nei suoi sentimenti senza ombra di pudore. Nel gioco delle parti in una coppia non ci dovrebbero essere né vincitori né vinti, però, se fosse in mio potere dare un giudizio in una tenzone amorosa come questa, propenderei di attribuire la vittoria, ai punti, a lei, alla donna, all’oggetto delle nostre attenzioni a cui non riusciamo a sottrarci e in questo senso la silloge ben rappresenta l’eterno contrasto fra lo spirito femminino e quello maschile, contrasto indispensabile per giungere a un accordo di coppia sincero, autentico e duraturo.
D’Amore 2 è una piacevole raccolta di poesie, per certi aspetti una positiva sorpresa, che sono sicuro non deluderà i lettori. 

Gli autori

Romantica Vany è l’alias di Vanessa Viola Corallo, mentre King Lear è quello di Giuseppe Iannozzi. Piuttosto restii a fornire informazioni sulla loro vita, sono comunque conosciuti su Internet per i loro blog e siti; Giuseppe Iannozzi è noto in qualità di giornalista e critico letterario indipendente e fuori dai canoni.    

Pubblicazioni:

1)       Iannozzi GiuseppeMorte all’alba – narrativa, tramite Lulu.com; Racconti di nani e giganti  - narrativa, tramite Lulu.com; Premio Strega – narrativa, tramite Lulu.com; Nere gli anni delle innocenze – poesia – tramite Lulu.com.

2)       Giuseppe Iannozzi e Vanessa Viola Corallod’Amore – poesie – tramite Lulu.com; d’Amore 2 – poesie – tramite Lulu.com.

Siti e blog:
http://iannozzigiuseppe.blogspot.com/
http://www.jujol.com/
http://iannozzigiuseppe.wordpress.com/
http://biogiannozzi.splinder.com/
http://romanticavany.splinder.com/

Renzo Montagnoli

 

23/11/2010

Plettri nelle mani di Dio
Improvvisi a quattro mani sul tema
The Beatles

di Andrea Barghi e Maurizio Grasso
Presentazione di Italo Inglese
Copertina di Vincenzo Bosica
Edizioni Tabula Fati
www.edizionitabulafati.it

Saggistica
Collana Maschera e volto

Musica e mito

Sul quartetto di Liverpool sono stati scritti libri a profusione, così che non farebbe notizia questo  Plettri nelle mani di Dio se non fosse strutturato in modo particolare, con tanti capitoletti che si possono leggere senza un ordine logico, articoli anche di critica e curiosità, spesso ignote ai più.
Resta il fatto che scrivere di questo complesso, che è senz’altro quello di maggior successo di sempre, non è in ogni caso mai troppo, visto il rilievo che hanno avuto in campo artistico, di fatto influenzando profondamente il mondo della musica leggera nella seconda metà del secolo scorso.
Con il trascorrere del tempo, poi, il mito anziché calare, aumenta vistosamente, complici anche eventi successivi allo scioglimento del quartetto, come l’omicidio di John Lennon o la morte, per malattia, di George Harrison.
Perfezionisti fino all’incredibile, i Beatles inaugurarono un nuovo genere, a base ritmico-melodica,  di elevatissima qualità, con canzoni che sono entrate nella storia come Yesterday e Penny Lane. Anche sotto il profilo delle esecuzioni, accanto a un batterista e percussionista come Ringo Star, c’erano le magiche chitarre soliste di John Lennon, George Harrison e Paul McCartney, e non a caso il titolo di questo libro è azzeccato (Plettri nelle mani di Dio, dove il plettro, per chi non lo sapesse, è quel piccolo triangolo di plastica con cui si pizzicano le corde di quegli strumenti).
Barghi e Grasso, pur restando nel filone mitico dei Beatles, forniscono notizie che possono andare oltre la semplice curiosità, indubbiamente interessanti per un patito di questo complesso e in ogni caso eloquentemente significative per quelli (non molti in verità) ne ignorano addirittura l’esistenza.
Si passa così dal primissimo periodo di gavetta, analizzando la trasformazione della loro impronta musicale grazie soprattutto a Lennon, al fortunato incontro con George Martin, che oltre a divenire il produttore di tutti i loro album, grazie alla sua formazione classica, riuscì a tradurre le tantissime idee del quartetto nei famosi arrangiamenti e li supportò, coordinandoli, nella particolare tecnica del suono.
Addirittura ci sono alcune pagine dedicate al famoso basso di Paul McCartney, suonato in modo divino, quasi da farlo diventare voce e strumento.
Insomma, Plettri nelle mani di Dio, è un libro da leggere, magari con il sottofondo musicale dei brani che vengono citati, un’occasione in più per riascoltare o ascoltare per la prima volta musiche veramente immortali. 

Andrea Barghi è nato in Toscana nel 1953 ed è un fotografo naturalista affermato in Italia e all’estero.
     Ha collaborato con famose riviste di cultura e fotografia ("Airone", "Oasis", "I Viaggi di Repubblica", "Fotografia Reflex", ecc.) e curato numerosi libri fotografici e pubblicazioni multimediali
(come Io Fotografo e Video per E-ducation ed RCS).
     Da una decina di anni ha fondato l’agenzia di progetti creativi "Everland" insieme alla compagna, art-director e copy-writer, con la quale ha realizzato reportages, mostre e numerose pubblicazioni - per citarne alcune Andrea Barghi - Fotografo di Emozioni (Everland, 2005), Luci e Silenzi (Everland, 2006), Il Rinascimento del Paesaggio (Pacini, 2009).
     È attualmente impegnato in progetti di comunicazione in collaborazione con soggetti pubblici e privati per la valorizzazione del patrimonio internazionale di natura, arte e cultura.
     Vive tra la Toscana e la Svezia.

Maurizio Grasso è nato a Roma nel 1956 ed è un ex manager aziendale. In campo letterario, dopo un paio di prove narrative giovanili (L’uomo che piange lacrime d’ambra, Edicias, Roma 1985; La bestia, Solfanelli, Chieti 1992), nel 2009 ha pubblicato la raccolta di racconti Luci di costiera (Aracne, Roma). A partire dagli anni Novanta ha iniziato un’intensa attività di traduzione dal francese per conto di varie case editrici (Newton Compton, Mondadori, Editori Riuniti, Lucarini ecc.), curando una quarantina di volumi, soprattutto classici della letteratura francese: Flaubert, Stendhal, Maupassant, Proust, Gautier, Hugo, Mérimée, Sade, Voltaire, Verne, Zola e altri. Ha collaborato con racconti, versioni e articoli alle riviste “Foreste sommerse”, “Idea”, “Inonija”, “Nuovo Confronto” e “Lettera internazionale”.
Renzo Montagnoli

 

21/11/2010

Georgiche
di Publio Virgilio Marone

Testo latino a fronte
Introduzione, traduzione e note
di Mario Ramous
Garzanti Libri
Poema
Collana I Grandi Libri

Il valore del lavoro per uno scopo comune

Virgilio si è ormai imposto come autore di grande pregio con le Bucoliche e ha l'opportunità di conoscere Mecenate, di origine etrusca, ricco, ascoltato consigliere di Augusto, aperto alle arti e alle idee, protettore di numerosi artisti di rango. Entra subito nel suo giro e ha così modo di conoscere Ottaviano, che solo dopo la battaglia di Azio, sconfitto Antonio, potrà formalmente concretizzare l'idea di uno stato con Roma imperiale.
Le guerre civili hanno lasciato pesanti strascichi di carattere economico, con le campagne abbandonate, anche perché l'incertezza che ha dominato sovrana per anni incuteva, giustamente, grossi timori negli agricoltori, poco propensi a coltivare una terra che poteva loro essere strappata da un momento all'altro.
La riorganizzazione dello stato non può prescindere dalla soluzione, ormai indifferibile, degli approvvigionamenti alimentari e quindi Augusto deve ridare fiducia a chi coltiva la terra, avviando una vasta campagna, che si potrebbe definire pubblicitaria, imperniata soprattutto sul valore del lavoro dei campi, non disgiunto dall'apprendimento di tecniche di coltura, quasi dimenticate in quegli anni di sangue, paure e incertezze.
E' così che Mecenate propone a Virgilio di scrivere un poema didattico e il poeta mantovano accetta alle condizioni che non gli vengano posti inderogabili limiti di tempo e che possa mantenere una certa indipendenza, di modo che l'opera non sia esclusivamente didascalica, ma anche letteraria.
Nascono così le Georgiche, un lavoro in 4 libri per complessivi 2.183 esametri, forma metrica idonea a un poema epico-didascalico.
Il risultato è stupefacente e Virgilio, grazie al suo genio, travalica i suggerimenti di Mecenate, con una visione dell'umanità indubbiamente asservita al potere imperante, ma comunque del tutto universale, una comunità dagli stretti legami, laboriosa, rivolta solo al bene comune, proprio come le api dell'alveare.
Ottaviano ne fu addirittura estasiato, perché il poeta mantovano aveva scritto un'opera perfetta, non solo sotto l'aspetto stilistico, ma anche perché aveva capito perfettamente l'essenza della politica del primo imperatore ed era riuscito a tradurla in lettere in modo del tutto accattivante e comprensibile.
Del resto le Georgiche, a differenza delle Bucoliche in cui la vita è di pura fantasia, parlano di un mondo reale, e benché la creatività dell'autore lo abbia aiutato nella stupenda descrizione dei paesaggi, si avverte in modo incontrovertibile che questa era frutto di un'osservazione diretta degli stessi.
La circostanza non è strana, se consideriamo l'origine celtica di Virgilio, con tutti gli influssi che ne derivano e con una visione di animali e di piante, considerati del tutto simili all'uomo, con sentimenti analoghi.
Le Georgiche sono un altro capolavoro e quindi la lettura è vivamente raccomandata.

Publio Virgilio Marone (Andes, 15 ottobre 70 a.C - Brindisi, 21 settembre 19 a.C.).
Opere principali: Bucoliche, Georgiche, Eneide.
Renzo Montagnoli
 

15/11/2010

Amicizia fra le dune
di Silva Ganzitti

Copertina di Elisaberra Gallina
Illustrazioni di Carolina Savonitto

Edizioni Tabula Fati
www.edizionitabulafati.it

Narrativa favola
Collana Fiabetica
 

Una simpatica favola

Si fa spesso confusione fra fiaba e favola, ritenendoli perfetti sinonimi. Ma non è così, perché la favola si distingue per il fatto che i suoi personaggi sono animali ed è fornita di una morale.
Silva Ganzitti, autrice di numerosi testi per bambini, ha confezionato con Amicizia fra le dune una graziosa favola che vede come protagonista principale un animale spesso trascurato, un simpatico crostaceo, che ha avuto la disgrazia di nascere con due robuste ventose al posto delle classiche chele.
Ovviamente in lui si riflettono comportamenti e atteggiamenti umani che rappresentano proprio la chiave di successo di questo genere. Azioni, pensieri, reazioni non sono proprie dell’animale, ma sono tipiche di ogni uomo, e questo il mezzo che, nell’attrarre l’attenzione di un bimbo, consente anche di educarlo.
Il simpatico gamberetto, che si sente emarginato per questo difetto fisico, cercherà sulla terra di avere una risposta e magari una soluzione al suo problema. Lì incontrerà degli amici, un’anatra e due fenicotteri, con tante avventure, sovente esilaranti, che portano, come si conviene, a un lieto fine.
In questa favola viene tratteggiato il valore dell’amicizia che può molto, anche se non tutto, e, in relazione alla tematica del “diverso”, finisce con l’essere l’unico sistema per uscire dall’emarginazione.
Ripeto, il protagonista principale, a cui la fantasia dell’autrice ha fatto mettere in testa un ciuffo, desta immediata e particolare simpatia, così come gli amici che poco a poco incontrerà.
Scritto con garbo e accompagnato da illustrazioni in tema realizzate dalla figlia della favolista, Amicizia fra le dune è un racconto spigliato e gradevolissimo, adatto a bimbi a partire dagli otto anni, ma che non deluderà di certo nemmeno gli adulti, visto che a me ha strappato più di un sorriso.

Nata nel 1962 in Friuli, Silva Ganzitti alla scrittura c’è arrivata d’un tratto. Passione tardiva, ma ugualmente coinvolgente, in pochi anni ha riempito quaderni di appunti e fiabe abbozzate, che sono poi diventate storie e racconti non solo dedicati all’infanzia.
     Ha pubblicato quattro testi per l’infanzia con 0111 edizioni: Amici di Duna (2005), Mistero nel Sottobosco (2005), Domitilla voleva un Unicorno (2007) e Abdul genio in ribasso (2007). Tutti i testi sono prevalentemente commercializzati online.
     Abdul genio in ribasso, è entrato nel catalogo Danae in seguito ad una bella recensione di un autore di racconti e romanzi per l’infanzia, Beppe Forti.
     Racconti dal Sottobosco raccoglie tre storie legate tra loro da una cornice geografica che le ambienta nella pedemontana friulana, territorio di origine dell’autrice.
Renzo Montagnoli

 

12/11/2010

Le quattro stagioni di un vecchio lunario
di Luisito Bianchi
Sironi Editore
www.sironieditore.it

Narrativa
Collana Indicativo Presente

Gli irripetibili istanti del cerchio della vita

“Come il puntino che salda il cerchio della vita con le sue quattro stagioni, sempre più piccolo man mano che il cerchio si perfeziona fino a diventarne un tutt’uno con esso. Càpita quindi di indicare un qualsiasi punto del cerchio e dire con sicurezza: è questo il punto che salda tutto, e sono infiniti i punti dato che il cerchio è perfetto. Come il respiro, il battito del cuore e delle ciglia in questo preciso momento in cui scrivo salda tutti quelli che ci sono stati con quelli che verranno.

Per dirvi, cari, che, nella perfezione del cerchio che è la vita di ogni uomo, ogni momento è importante quanto il tutto, e che questo sentimento lo si prova nella sua profonda verità quando i ricordi di stagioni lontane diventano memoria, proprio come queste pagine di ricordi sono diventate in me memoria. E la memoria è il puntino impercettibile che salda il cerchio della vita e mi fa dire, come succo di queste storie di vecchio lunario: vivere, ne valeva la pena

                                 28 novembre 1984 – 8 agosto 1985”

 Così, con queste parole, frutto di una profonda riflessione che i ricordi hanno maturato, si conclude l’ultimo libro di Luisito Bianchi, un inno all’epoca più bella della vita di ogni essere umano, quella della giovinezza, spensierata, gaia, in cui gli ideali non devono ancora far conto con la realtà del mondo.
E un paese della pianura padana, immerso nelle nebbie dell’autunno, quattro anime, tre case e una chiesa, torna a rivivere com’era tanti anni fa, in un processo di elaborazione dei ricordi che si trasforma in memoria.
Vescovato è ancor oggi un piccolo borgo, per certi versi irriconoscibile rispetto a quello degli anni giovanili dell’autore, ma qui torna a essere il centro di ogni interesse, l’immagine ingiallita di un’epoca che si colora ancora delle emozioni trascorse, sopite e che prepotenti riemergono. Così la penna, sapientemente guidata, ferma sulla carta figure e paesaggi, a definire un microcosmo in cui si muovono personaggi ormai scomparsi, che ora tornano a nuova vita.
Più che un racconto questa narrazione finisce con il diventare il recupero della propria trascorsa esistenza, nell’avvicendarsi di stagioni astronomiche che  si confondono con quelle della vita, una sinfonia di suoni, di voci, di visioni e di aromi che piano piano avvolge il lettore, fino a penetrargli dentro, a coinvolgerlo, sì che da semplice spettatore ambisce a essere protagonista di una storia irripetibile.
E questo è il grande merito di questo libro, perché la memoria di Luisito diventa anche la nostra memoria, perché Vescovato diviene il nostro paese in cui avremmo desiderato di essere nati, per vivere con lui, con l’autore, le esperienze di una giovinezza ricca per l’animo e ritrovare quelle radici che il tempo che passa, convulso e orfano della nostra attenzione, sembra aver reciso.
Dal gioco della lippa alla festa di paese, dai giorni scanditi dalle ricorrenze religiose alla neve nei campi, al profumo di pulito dei fiori del granturco, si disegna così, armoniosamente, questo grande cerchio fatto di momenti, tutti egualmente importanti.
Appaiono figure vicine, come quelle dei familiari, oppure altre, solo in apparenza meno rilevanti, perché la vita di ognuno di questi è stata un cerchio che si è intersecato con quello di Luisito, personaggi che la storia non ricorderà, perché quella parla solo dei capi, ma questi protagonisti minori sono assai più importanti, perché il loro modo di essere ha rappresentato un’esperienza diretta insostituibile.
La mano dell’autore è lieve, mai incline alla facile commozione, ma in questa commedia umana ci sono attori che di per sé portano a sensazioni di grande emotività, come Giuliano con il suo asino, o meglio ancora Nèna e Céli, la cui bontà è tanto grande quanto la loro miseria.
Ho scritto prima che Luisito ha dato memoria a un microcosmo, ma ognuno dei componenti di questa piccola realtà ha una sua grandezza, in molti casi immensa, perché ognuno ha saputo restare nel ricordo, ora diventato memoria.
Se La messa dell’uomo disarmato è considerato il più bel libro sulla Resistenza - e non solo su quella aggiungo io -, Le quattro stagioni di un vecchio lunario è uno stupendo canto alla vita, una di quelle opere, rare, che non gettano sassi nelle acque ferme degli stagni, ma che sussurrano lievi agli uomini l’autentico significato da dare alla loro esistenza.
E mi sembra d’obbligo ringraziare Luisito Bianchi per averci dato un altro capolavoro.

Luisito Bianchi è nato a Vescovato nel 1927 ed è sacerdote dal 1950. È stato insegnante e traduttore ma anche operaio, benzinaio e inserviente d’ospedale. Ora svolge funzione di cappellano presso il monastero di Viboldone (Milano). Ha pubblicato: Salariati (1968), Gratuità tra cronaca e storia (1982), Dittico vescovatino (2001), Simon mago (2002), Dialogo sulla gratuità (2004) e Monologo partigiano (2004). Con Sironi ha pubblicato Come un atomo sulla bilancia (2005), I miei amici-Diari (2008) e La messa dell’uomo disarmato (2002), il suo grande romanzo sulla Resistenza, elogiato da critica e pubblico.
Hanno detto di lui: «Un punto di riferimento per chi ama la letteratura, per i critici e per i lettori che hanno trovato nei libri di questo autore un seme di verità, una parola vera e necessaria» (Avvenire); «Un autore di densissimo spessore umano e spirituale» (La Stampa); «Don Luisito Bianchi è sempre stato ed è un prete "scomodo", di quelli pronti a mettersi in gioco» (L’Unità).
Renzo Montagnoli

 

10/11/2010

Il mondo Sottosopra
raccolta poetica di
Maristella Angeli

Rupe Mutevole Edizioni 2010
www.reteimprese.it/rupemutevoleeedizioni

E’ un nuovo inno all’amore questa raccolta poetica di Maristella Angeli?
Certo che l’amore la pervade. C’è quello per il suo compagno di vita, quello per la bambina che nasce, quello per la Natura, a cui l’autrice ci ha ormai abituati, dal momento che è sempre protagonista nelle sue poesie, e c’è quello per le persone comuni che, affrontando giorno dopo giorno la vita, tentano disperatamente di vivere meglio che possono. Ma soprattutto c’è l’amore per la madre che, scomparsa da poco, lascia una ferita profonda e inguaribile nell’anima di Maristella. Una mamma che ci viene descritta pittrice, poetessa, un’artista insomma, ma anche una protagonista irriducibile della vita, una figura materna che è universale e che, come in ognuno di noi, trova il suo posto per sempre nell’anima dell’autrice. Il dolore per la sua morte però è immenso e destabilizza, ma proprio questo fa scattare qualcosa che la poetessa non ha mai manifestato precedentemente nelle sue sillogi. La ribellione! Tra le parole che, struggenti, in un afflato di sentimento davvero coinvolgente e commovente, incantano per la loro bellezza e che hanno del magico, si insinua la voglia di riscatto verso un destino beffardo e tiranno. C’è meno rassegnazione questa volta nei confronti della vita che nega e fa soffrire e che, nella sua ineluttabilità, strappa con la morte la figura della madre, la figura cioè dell’amore vero, assoluto, incondizionato e pertanto insostituibile. La poetessa soffre moltissimo, come del resto soffriamo noi, leggendo il suo dolore, vivendo insieme a lei la straziante assenza di colei che s’identifica con la stessa gioia di vivere. L’autrice mescola il proprio pensiero nel colore del mare e nel colore della nostalgia di un campo di papaveri e fiordalisi.  Ritornano i fantasmi del passato, i ricordi funesti di un’infanzia che ha tolto più che regalato, e il tempo delle speranze perduto ormai per sempre, portato via dal vento che contemporaneamente ha portato via mamma Giuliana. Quindi stavolta è un amore che s’impone, non più tanto languido e malinconico soltanto, ma determinato, deciso, spavaldo, coraggioso, in una parola invincibile.  La sfida alle leggi che regolano il tempo e lo spazio si legge spesso tra le righe e la ribellione dell’autrice arriva a voler capovolgere il mondo conosciuto, perché facendolo, mira a capovolgere le spietate regole che la vita ci impone. Sono convinto che tutti noi abbiamo tante volte sperato di tornare indietro, anche solo per poco, di attorcigliare indietro il nastro dei giorni, far procedere il tempo all’incontrario per vincere la morte e, nel caso della Angeli, per rivedere la madre e poter ancora parlare con lei.
Coerentemente è chiaro che l’incanto a cui la poetessa ci ha abituato nelle precedenti sillogi, come pure la ricerca di rifugio e serenità nella magica Natura, sua vera e propria musa ispiratrice, sono elementi velati di disillusione, mentre i contrasti che ne conseguono si fanno evidenti, violenti quasi a tratti, e solo la possente forza vitale della Angeli riuscirà a domare tanto annichilimento interiore.
Così l’autrice si  veste di vento, malgrado i pensieri siano in balìa di fitte nebbie e la notte riporti paure da tempo sopite. La luce si contrappone ad un buio minaccioso tra bianco e nero e amore per la prima volta fa rima con dolore. Allora la poetessa alza lo sguardo al cielo, perdendosi a contare le stelle, si eleva alla luna per fuggire una realtà troppo spietata, ma la luna è a pois, ed è fredda, anche se ancora riscalda i cuori innamorati. La Angeli sembra disperata nella sua ricerca di infinito e di amore che non muore e ancora una volta chiede aiuto alla sua forza naturale, a quella incontrastata voglia di vivere, malgrado tutto, che la rende invincibile. Nel sentimento profondo e puro verso il proprio compagno ella si eleva al di sopra di tutto e finalmente riesce a sorridere, a risentire il vento soffiare da amico, la luce baciarla come sempre trasformando la voce dell’amore in un iridato arcobaleno che di nuovo e per sempre splende negli occhi innamorati.
Emanuele Marcuccio nella sua prefazione arriva ad accostare la poetica della Angeli in questa silloge a quella del grande Ungaretti, per musicalità ed essenzialità. Aggiungerei che in questa raccolta l’autrice, per la forma poetica, il respiro interiore, la dolcezza visiva e la notevole vis onirica, a mio avviso si avvicina molto, pur nella diversità, ad un’altra grande poetessa: Emily Dickinson.
Una silloge preziosa questa della Angeli, che si dimostra ancora una volta e sempre di più una grande interprete dei sentimenti umani e della vita di ognuno di noi.
Sandro Orlandi

Maristella Angeli è nata a Foligno (PG) nel 1957, risiede a Macerata (MC). Dopo aver conseguito il Diploma ISEF a Perugia (PG), ha insegnato Educazione Fisica acquisendo, previo corso biennale, la Specializzazione Polivalente. Da molti anni, presta servizio come docente di Sostegno.

Ha frequentato corsi di mimo e la Scuola di Recitazione Sangallo a Tolentino (MC) conseguendo, previo corso regionale biennale, l'attestato di «Animatrice attrice teatrale e sociale». È stata una componente di un Gruppo Teatrale Amatoriale partecipando a rappresentazioni nazionali, internazionali e al IX Festival Mondiale Principato di Monaco (Montecarlo). Ha condotto corsi di recitazione per adulti, ha coordinato progetti a favore dell'integrazione sociale dei soggetti diversamente abili, basati sulla “Globalità del linguaggio”.

Ha pubblicato: «Alla ricerca del proprio corpo: animazione e ricerca gestuale nell'Educazione fisica» (Lo Faro Editore, Roma 1982, didattica), «Gocce di vita» (Il Filo Editore, Roma 2008, poesia), «Tocchi di pennello» (MEF L'Autore Libri Firenze, 2008, poesia), «In ascolto» (MEF L’Autore libri Firenze, 2010, poesia), «Specchi dell’anima» (Edizioni Progetto Cultura, Roma 2010, poesia), «Il mondo sottosopra» (Rupe Mutevole Edizioni Bedonia (PR) 2010, poesia).

Ha conseguito primi premi in concorsi: 1982 «T. Campanella» Roma, per il libro edito; Premio Internazionale «Pennello d'oro» Corno Giovine (MI) per la pittura; 2008 per la poesia: Premio Internazionale «Una terra di leggende» Parco dei Castelli Romani (RM). E’ giunta quarta al concorso Internazionale di poesia Città di Torvaianica (RM) 2009. Ha ricevuto il Diploma di merito per l’Opera «Gocce di vita» e per la silloge «Tocchi di pennello» conferiti al Premio Nazionale AlberoAndronico Roma 2008 e 2009. La sua raccolta poetica «Specchi dell’anima», è stata inserita tra le iniziative per il 5 giugno Giornata Mondiale Ambiente e sul sito della Regione Marche, Cultura Marche.

Il suo racconto “Una vita passata” è stato selezionato ed è inserito nell’antologia I sentieri del cuore,edito dalla Casa Editrice Montag, Tolentino (MC).

Ha ricevuto Menzioni d’onore ed è giunta finalista in numerosi Concorsi Letterari nazionali ed internazionali. Le sue poesie sono state selezionate dal noto scrittore Elio Pecora ed inserite nella rivista internazionale «Poeti e Poesia» 2009. Sue poesie, sono state inserite nell’Antologia Il rifugio dell’aria, Poeti delle Marche 2010.

Ha partecipato ad eventi letterari: 2008 Festival Internazionale di Letteratura Aggiornata, Poetesse nel Parco, Poetry Slam IV edizione a Macerata (MC); V, VI e VII edizione della mostra itinerante «Poesia in libertà» Toffia (RI). E' entrata a far parte del «Club dei 100» Dimensione Autore, Torino (TO). Sue poesie e note bio-bliografiche sono inserite in antologie, in siti e blog letterari.
 

 

10/11/2010

Il giorno dei morti
L’autunno del commissario Ricciardi

di Maurizio de Giovanni

Fandango Libri
www.fandango.it
Narrativa romanzo

Le solitudini di un piovoso autunno

La domenica sotto la pioggia è tutta un’altra cosa.
Ti mette di fronte a quello che non pensavi, a quello che non avresti mai voluto…..La domenica sotto la pioggia chiude le porte…”

Il brevissimo estratto del capitolo XLIX offre già la misura di quello che è Il giorno dei morti, un romanzo giallo ( per la prima volta nella serie che ha per protagonista il commissario Ricciardi c’è un’indagine complessa e intricata, come nelle opere dei migliori autori del genere), ma soprattutto un libro sulla solitudine, accentuata da una fine di ottobre piovosa, umida, quasi laida, che allontana fra di loro i protagonisti.
Il tutto prende spunto dal ritrovamento del cadavere di un bambino, uno scugnizzo, in una nicchia di una scalinata, il corpo composto come se dormisse e accanto, a vegliare, un cane bastardo. I risultati autoptici diranno che è stato avvelenato, probabilmente con l’ingestione, per fame, di un boccone per topi contenente stricnina. Quindi l’ipotesi più plausibile non è di trovarsi di fronte a un delitto, bensì a un mero incidente. Ma il commissario Ricciardi non ne è sicuro, perché quella sua possibilità e condanna che è in lui di vedere le vittime da vive, nel momento del trapasso, udendo altresì le loro ultime parole, nel caso del bambino non si concretizza, segno che il corpo è stato messo lì dopo la morte e, se è così, allora i dubbi e i sospetti sorgono.
In una città di piccole gioie e di grandi dolori come Napoli, sotto una pioggia inclemente che acuisce la profonda malinconia di base, nei giorni immediatamente antecedenti a una visita di Mussolini che agita  le istituzioni locali e che stringe gli abitanti in una morsa d’acciaio, lui, Ricciardi, proseguirà le indagini per conto suo, non ufficialmente quindi, perché è evidente che gli è impossibile contestare in modo logico l’ipotesi dell’incidente e per farlo troverà una scusa (affinchè ad altri poveri bambini non accada di mangiare, per fame, un boccone avvelenato) che finisce con il diventare il vero e autentico messaggio dell’opera: lo sdegno, immenso, per le ingiustizie che nasce da un convinto sentimento di pietà per le vittime.
Fra mille avventure, affollate da personaggi indimenticabili, fra i quali spiccano il fidato brigadiere Maione, la cantante Livia che lo brama da tempo e la dirimpettaia Enrica silenziosamente innamorata, si arriverà alla fine del libro, con la soluzione del caso, lasciando la condizione indispensabile affinchè Ricciardi e gli altri attori di questo teatro della vita non ritornino nell’ombra, ma possano ancora allietare i lettori.
Dei quattro romanzi, corrispondenti alle quattro stagioni, Il giorno dei morti è senz’altro il più maturo, il più equilibrato e anche il più riuscito, ma questo era logico, perché de Giovanni, nei suoi precedenti, è andato ancor più accentuando l’eccellente livello di quel suo primo Il senso del dolore con cui si è rivelato;  fra l’altro,  è un autore che continua a sorprendere per lo stile pulito, per l’accuratezza dell’ambientazione, per pagine, molte, venate da una provvidenziale vena poetica, per la caratterizzazione ineccepibile dei protagonisti, senza dimenticare la grande capacità di non ripetersi, ma di cercare e trovare ogni volta qualche cosa di veramente nuovo che possa ulteriormente interessare.
Il giorno dei morti
è quindi un capolavoro, un romanzo di rara bellezza, avvincente come pochi, la cui lettura, più che consigliata, è vivamente raccomandata. 

Maurizio de Giovanni è nato nel 1958 a Napoli, dove vive e lavora. Ha scritto, fra l’altro, Il senso del dolore (Fandango Libri 2007), La condanna del sangue (Fandango Libri 2008), Il posto di ognuno (Fandango Libri 2009). La serie del commissario Ricciardi è stata già venduta in Germania e in Francia.
Renzo Montagnoli

 

09/11/2010

Le guerre navali nel Mar Baltico
di Gabriele Faggioni
Edizioni Solfanelli
www.edizionisolfanelli.it

Saggistica storica
Collana Faretra

Un teatro di guerra poco conosciuto

Il Mar Baltico, per la sua conformazione e per il suo accesso all'Oceano Atlantico limitato dalla Danimarca che si protende quasi ad unirsi alla penisola scandinava, è un bacino che poco si presta a grandi scontri navali fra flotte consistenti; tuttavia, nel corso del primo e del secondo conflitto mondiale, è stato teatro di numerosi scontri, più importanti in un quadro tattico che in una visione strategica. Del resto, a rendere ancora più piccolo questo specchio d'acqua provvidero i contendenti creando vaste zone minate in cui incapparono, con le immaginabili conseguenze, non solo navi mercantili, ma anche scafi militari. In ogni caso le perdite, se non furono eclatanti come in altri teatri operativi, come il Mare del Nord, furono tuttavia di non poco conto, soprattutto per una marina, quella Russa, che di fatto più di altre era impegnata a difendere le sue coste.
Gabriele Faggioni con questo suo libro ha esaminato le condotte belliche dei due principali contendenti nelle due guerre (Germania Imperiale e Russia Zarista per la prima, Germania Nazista e Unione Sovietica per la seconda), fornendo un quadro assai esaustivo sulle principali azioni condotte e sulle perdite di entrambi i belligeranti.
Da queste pagine, integrate con cartine geografiche e con fotografie delle principali navi impegnate, esce un quadro di scontri quasi quotidiani, mai comunque di battaglie del tipo di quelle avutesi nell'Atlantico e nel Pacifico, proprio perché la limitata estensione del Baltico rende impossibile manovre di grandi flotte, che sarebbero altresì sottoposte, data la vicinanza delle coste, a interventi aerei piuttosto frequenti e incisivi.
Così, giorno dopo giorno assistiamo alla progressiva disfatta della Germania, sia nel primo che nel secondo conflitto mondiale, tuttavia fino in ultimo in grado con le sue navi di impensierire gli avversari.
E ci sono anche imprese epiche, come l'evacuazione per mare, avvenuta negli ultimi mesi del conflitto, di oltre due milioni e mezzo di cittadini tedeschi minacciati dalla violenta offensiva sovietica, risultato ottenuto grazie a un'organizzazione non ancora sfaldata e all'indubbio eroismo dei marinai tedeschi, di cui non pochi perirono in questo sforzo titanico.
Il libro di Faggioni riesce quindi a fornire un resoconto di un teatro di guerra marittima forse minore, ma se il Mar Baltico ha costituito lo scenario di tante scaramucce, sui suoi fondali giacciono tanti ignoti marinai, di entrambi i contendenti, a dimostrazione che in una guerra mondiale non esistono posti più o meno sicuri e teatri più o meno importanti.
Da leggere, sicuramente.

Gabriele Faggioni, nato nel 1970, vive a Lugano. Ha una formazione universitaria come economista aziendale, informatico ed archeologo. Questi variegati studi gli sono utili nella sua attività professionale e nel suo tempo libero per la realizzazione di diverse ricerche storiche e archeologiche che ha realizzato negli ultimi anni. Collabora con diverse riviste storico-militari, tra cui "Raids", "RID", "Rivista Marittima Militare", "Storia & Battaglie", "Storia & Verità", "Storia militare", "Panorama Difesa", "Seconda Guerra Mondiale" e "Mezzi corazzati".
     Ha pubblicato: Sistema difensivo della Piazza Marittima della Spezia nella prima metà del Novecento, in "Castrum" (Luna Editore, La Spezia 2007); Fortificazioni in Provincia della Spezia (Ritter, Milano 2008); Vallo Ligure (Ligurexpress, 2010 Genova); Castelli e fortezze delle Alpi svizzere (Mattioli 1885, Fidenza 2010), Fortificazioni del Levante Ligure (Mattioli 1885, Fidenza 2010), La guerra aeronavale nel Mare Nord, assieme con Alberto Rosselli (Mattioli 1885, Fidenza 2010).
Renzo Montagnoli
 

06/11/2010

L'oro del Vaticano
di Claudio Rendina
Newton Compton Editori
www.newtoncompton.com

Argomenti:
Religione e spiritualità
Storia
Economia
Collana Controcorrente

Che ne direbbe Gesù Cristo?

E' uno staterello minuscolo (0,44 Kmq., escluse le sovranità extraterritoriali), ma il Vaticano è indubbiamente una superpotenza, e non tanto dal punto di vista militare ed economico, bensì sotto l'aspetto religioso e soprattutto sotto quello finanziario.
Le ricchezze accumulate in più di XX secoli, l'influsso esercitato, prima sui sovrani e poi sulle nazioni moderne ha qualche cosa di ineguagliabile, e comunque nemmeno paragonabile a quello di altri credi, fatta eccezione per l'ebraismo e l'islamismo, la cui sfera però di operatività è limitata ai paesi in cui queste religioni sono preponderanti.
Rendina deve avere un rapporto particolare con il Vaticano, visto che ha scritto parecchi libri sull'argomento, l'ultimo dei quali, in ordine di tempo, è questo L'oro del Vaticano, un'analisi minuziosa delle immense ricchezze della Chiesa Apostolica Romana.
Agli occhi del cattolico di stampo clericale questo volume potrà apparire di parte, tendenzioso, volto a screditare il papato, mentre per gli altri risulterà una semplice conferma di una ricchezza smodata costituita da immensi tesori accumulati nel corso dei secoli legalmente e anche illegalmente. Non entro in merito sulla questione morale e cioè sul pensiero del Cristo che ha sempre predicato l'umiltà e la povertà, ma di certo a leggere queste pagine si resta non poco indignati nello scoprire affari intrapresi più da pescicani da industria che da ferventi cristiani. Le vicende dello IOR, di Monsignor Marcinkus, di Calvi, di Sindona, del Banco Ambrosiano sono le ultime eclatanti di un modo di investire e speculare del tutto disinvolto e sovente in contrasto con le leggi scritte e con quelle morali.
Rendina, per praticità, inizia la sua osservazione dalla caduta di Roma, con la proclamazione del Regno d'Italia, e la perdita quindi della sovranità territoriale, di cui il Vaticano fu ampiamente ripagato con un congruo indennizzo, diventato stratosferico a seguito della firma, nel 1929, dei Patti Lateranensi. A parte il rilevante patrimonio immobiliare e i tesori d'arte, ogni occasione è buona per incrementare le ricchezze, e se questa non c'è viene creata, sia che si tratti di Giubilei, sia di iniziative finanziarie e speculative esclusivamente molto redditizie e perciò rischiose, al punto che, qualche volta, i forzieri del Vaticano finirono con lo svuotarsi.
Poiché si tratta di uno stato sovrano, non c'è nulla da eccepire sulle sue scelte economiche, ma sulle modalità di raggiungimento degli obiettivi ci sarebbe molto da dire, soprattutto da un punto di vista etico. Al riguardo basti pensare a ingenti partecipazioni detenute in società che si occupano della produzione di armamenti da guerra.
L'argomento in sé è di notevole interesse, ma mi sembra che Rendina, al fine di dimostrare la veridicità delle sue asserzioni, abbia finito con lo scrivere un libro un po' greve e sovente soporifero, con pagine e pagine che riportano l'elenco dettagliato dei patrimoni immobiliari e delle partecipazioni societarie, così che non poche volte si ha chiara l'impressione di trovarsi davanti all'inventario di una ditta di pezzi di ricambio.
In questo modo, lo spazio lasciato alle osservazioni e ai commenti si riduce notevolmente, tanto che i numeri prevalgono sulle parole e questo è proprio il limite del libro, che, pagina dopo pagina, fa calare l'interesse del lettore, obbligandolo a uno sforzo per poter proseguire.
E' un peccato, perché impostato in modo diverso, cioè entrando più accuratamente nei retroscena di certe speculazioni finanziarie, non solo si avrebbero idee più chiare sul peso avuto nelle vicende dal Vaticano, ma si potrebbe anche scoprire il modus operandi degli altri sodali, quasi tutti italiani e nomi spesso non sconosciuti.
Resta comunque un testo meritevole di lettura, perché l'argomento trattato non è di poco conto e aiuta meglio a comprendere certi rapporti con uomini politici o anche affaristi del nostro paese, le cui fortune procedono di pari passo con quelle di questo staterello, sì limitato territorialmente, ma di grande influenza e straordinariamente ricco.

Claudio Rendina scrittore, poeta, storiografo e romanista, ha legato il suo nome a opere storiche di successo, tra le quali, per la Newton Compton, La grande guida dei monumenti di Roma, I papi. Storia e segreti; Il Vaticano. Storia e segreti; Guida insolita ai misteri, ai segreti, alle leggende e alle curiosità di Roma; Storia insolita di Roma; Le grandi famiglie di Roma; Storie della città di Roma; Alla scoperta di Roma; Gli ordini cavallereschi; Le chiese di Roma; Roma giorno per giorno; La vita segreta dei papi, La santa casta della Chiesa, I peccati del Vaticano, Cardinali e cortigiane e L'oro del Vaticano. Ha diretto la rivista "Roma ieri, oggi, domani" e ha curato La grande enciclopedia di Roma. Ha scritto il libro storico-fotografico Gerusalemme città della pace, pubblicato in quattro lingue. Attualmente firma per "la Repubblica" la rubrica di storia, arte e folclore "Cartoline romane".
Renzo Montagnoli
 

04/11/2010

Anzol”, di Haria, Rupe Mutevole Edizioni, 2006

 “Tutti i sentieri non tracciati confluiscono ad Anzol, perché Anzol è il centro di un labirintico sogno non segnato sulla carta del Destino.”

 Un incipit che non nasconde l’ombra di curioso mistero e di fatalità che ripercuote le pagine del lungo racconto della città di Anzol. “Anzol”, edito nel 2006 presso la casa editrice Rupe Mutevole Edizioni nella collana “Letteratura di confine”, è un interessantissimo viaggio nella mente della visionaria autrice Haria. La seconda edizione di “Anzol” è del 2010.

 “Anzol” consta di tre parti suddivise in paragrafi. Si inizia con “La prima sorte” (sei paragrafi), seguono “La seconda sorte” (sette paragrafi) e “L’ultima sorte” per un totale di ottanta pagine. È caratteristica la presenza dell’elenco dei personaggi del racconto, in realtà sono le personificazioni presenti e non i “reali” personaggi che s’incontrano nella lettura. Le personificazioni sono: Il Destino, La Sorte, La Scelta, La Piana, La Nebbia, Il Gaigo, Il Gioco degli Strati, L’Azzardo, Il Mercato, Anzol, I Soldi, L’Ot, Il Rio Gemello del Cen, Il Suolo, Il Vento, Gli Intrichi, Il Tempo, Gli Uomini. Figurazioni che raggruppano lo svolgimento delle varie nascite della città di Anzol.

 Anzol è una piana limitata da rovi. Ne “La prima sorte” inizia la saga della città. Cena, la veggente, si nasconde nella piana per evitare il mondo degli uomini, un mondo crudele e governato dalla violenza e dall’ignoranza. Quando una coppia con una donna incinta entra nella piana, Cena decide di prendere con se la donna e di lasciar ai limiti della piana il suo compagno. Al momento della nascita Cena lascia la piana per altre erranti visioni ed i due restano ad Anzol con il loro bambino che sarebbe divenuto, per profezia di Cena, il fondatore della città. Così avvenne. La coppia ebbe anche altri figli e la vita scorreva ad Anzol libera dalle regole degli uomini. La natura è stata la padrona sino all’arrivo di altre persone che decisero di stanziarsi nella piana.

 Ot, figlio di Drusca, per caso riesce ad inventare una bevanda che inebria ed incupisce la mente nonché riscalda nei gelidi inverni. La bevanda prende il nome del suo creatore così come la locanda nella quale si poteva bere l’ot. L’oteria diventa una vera e propria droga per gli abitanti, anche i bambini ne possono accarezzare il fluido nella loro mente. Ma come in tutte le comunità, Anzol muta o meglio gli anzolani mutano e dagli stranieri che arrivano riescono a prendere soltanto i difetti, così si lascia il baratto per il denaro, per il soldo.

“Lulla, al suo ultimo giorno di mercato e di vita rifletté: “I soldi invecchiano i sogni e soffocano l’anima delle cose. Chissà da dove vengono”. Smontò il suo banco, distribuì le pentole, le pignatte, i tegami e si incamminò guardando con tenerezza il fare della sera.”

Il Tempo veniva calcolato in stagioni e ben presto con il cambio di potere in “tempi”, i mesi in “aspetti” e le giornate in nove momenti e mezzo. I soldi divennero “falchi” per il signore Falco di Piana. Le mutazioni che avvengono ad Anzol sono continue e celeri, sotterfugi e mistificazioni, uccisioni macabre, prese di potere da parte delle streghe che nascondono la città in labirinti nebbiosi, abitanti originari che preferiscono addentrarsi nella nebbia.

 “Falco smise di ridere, si alzò, fece un passo avanti e rovinò a terra travolgendo brocche, tavoli e panche. Luna era nata, Falco era morto, Anzol sbigottiva nel caos.”

 Ne “La seconda sorte” e “L’ultima sorte” si incontrano altre due ricostruzioni della città dall’originaria piana. La distruzione arriverà puntualmente anche nelle altre prove, e tornerà l’ot, la nebbia ed il vento. Anzol è una sorta di labirinto per gli usi e costumi, tutto si ripeterà sino a che saranno gli uomini ad abitarlo, sino a che non si ascolterà Il Destino e La Sorte.

 “< Il passato non dovrebbe mai tornare. Ma puoi aprire un banco a fianco del mio, se ti va >, rispose Itta.”

 Lascio link utili per visitare il sito dell’autrice, della casa editrice.

http://www.rupemutevoleedizioni.com/

http://www.reteimprese.it/rupemutevoleedizioni

http://www.poesiaevita.com/

Alessia Mocci
Responsabile Ufficio Stampa Rupe Mutevole Edizioni

 

03/11/2010

A dieci minuti da Urano
(poesie di tentata conquista)

di Carla De Angelis
Prefazione di Stefano Martello
Postfazione di Carla De Angelis
e Stefano Martello
Copertina di Laura Timpano
Fara Editore
www.faraeditore.it

Poesia silloge
Collana Sia cosa che

Un'esplosione magmatica senza clamore

Cos'è la poesia, se non un'intima confessione di quanto il nostro "io", rapportandosi con il mondo intorno e con l'esistenza, elabora scientemente e, soprattutto, inconsciamente?
La poesia non è versi ritmati, magari piacevoli, ma vuote parole; no, la poesia è un urlo silenzioso che squarcia un buio fatto di grigiore quotidiano, di assopimenti e frenesie incontrollate, è riflessione scaturita da un'idea, da un'emozione, da un sentimento.
E' anche scoperta di noi stessi, resa nota agli altri; è solitudine che invano si cerca di spezzare, è gioia sempre temperata da quella malinconia di fondo che riviene dalla consapevolezza che nessuno potrà mai comprendere completamente che cosa si celi dietro quei versi.
Ed è poeta chi cerca di comprendere gli altri scavando in se stesso, chi piega la testa senza spezzarla, colui che insegue un sogno che sa che non potrà avverarsi.
Carla De Angelis, con questa silloge che evoca spazi siderali, ripercorre invece un mondo terrestre, nell'ottica di una trascendenza venata da una tenue, ma sempre presente malinconia.
Fra ciò che è e ciò che il suo io avverte non esiste differenza se non quella sensazione, spesso inconsapevole, che conduce a una visione prospettica della realtà, che non è fatta solo da materia e da eventi, ma è costituita anche da ciò che incide sull'animo del poeta (Invece di morire / traghetto parole / fino a farne una culla / per le mie ferite /….). E' un dolore reale, ma avvertito solo all'interno e i versi sono lo sfogo, il risultato di un magmatico confronto intimo che esplode senza clamore.
E in fondo Carla De Angelis riesce in questo modo ad accendere nel lettore il desiderio di confrontarsi, di iniziare quel percorso intimo che solo può avvicinarlo alla conoscenza di se stesso, per comprendere meglio, per essere parte consapevole di quella realtà così diversa quanti sono quelli che l'osservano (Tra le mani nuvole e sole / pianto e sorriso / Un solo gesto per placare l'ansia / un solo tocco per la scintilla).
Noi non siamo artefici di noi stessi, ma la riscoperta di ciò che siamo è l'unico traguardo umanamente possibile e a ciò possiamo arrivare soprattutto grazie alla poesia, anche a quella di questa riuscita e piacevole silloge.

Nata a Roma nell'ottobre del 1944, Carla De Angelis ha pubblicato i primi versi nel 1962. È Cavaliere al merito della Repubblica Italiana dal 1995. Sue poesie sono presenti in diverse antologie edite da Aletti, da Perrone e da Estroverso. Con Fara ha pubblicato la raccolta di poesie Salutami il mare, il libro dialogato con Stefano Martello Diversità apparenti (i due libri sono stati vincitori e finalisti in vari premi) e, sempre con Martello, ha curato il libro di testimonianze Il resto (parziale) della storia. Sue sillogi sono inserite nelle antologie Il silenzio della poesia (2007) e in Poeti profeti? (2008). Altri suoi versi sono stati recentemente pubblicati in Demokratica (Limina Mentis, 2010). Fa parte della redazione di Kolibris, casa editrice di Chiara De Luca.
Renzo Montagnoli
 

02/11/2010

Andrea Camilleri
Il sorriso di Angelic
a
Ed. Sellerio
Romanzo noir

“Il saggio non è che un fanciullo che si duole di essere cresciuto”.

Nella nota alla fine del libro Andrea Camilleri parla del motivo ispiratore de Il Sorriso di Angelica; a Roma, qualche tempo fa, una banda di ladri ha svaligiato numerosi  appartamenti con la stessa tecnica descritta nel romanzo, da questo fatto di cronaca  ha desunto la traccia da prende l’avvio la storia,  ma per quali tortuosità poi, prosegue e finisce, lo sa solo la sua fantasia.
Incipit medesimo: arrisbigliamenti di Montalbano, questa volta non è solo nel letto, c’è Livia, ma ha già dimenticato la sua presenza dormiente. Il romanzo inizia con un sollenni moto di gelosia di Montalbano e nel corso della narrazione Salvo sarà geloso, furioso e libidinoso ai limiti della lascivia.
Una serie di furti nelle case di noti professionisti animano il commissariato di Vigàta, Montalbano è alle prese con questi reati e come sempre diventa una partita personale tra lui e l’autore o gli autori dei medesimi reati. A scompaginare la faccenda, la presenza di una bella trentina, di Trieste, di “stanza” a Vigàta, pardon, cassiere capo alla Banca siculo americana, anche lei vittima di questi ladri, che farà perdere il lume della ragione a Salvo. La vicenda giudiziaria si complicherà a seguito di   due omicidi, ma  questo farà parte delle indagini il cui corso lo lasciamo a tutti quelli che leggeranno il libro.
La presenza che primeggia e dà il titolo al romanzo è femminile, quei ritratti di femmina che forse sono retaggio della gioventù dell’autore, in questo caso contaminato da reminescenze letterarie, ma così conturbanti e di bellezza dirompente da far uscir di senno.  Il primo incontro è un’apparizione metafisica, la donna di carta, l’Angelica dell’Ariosto che s’incarna nella realtà. “Era precisa ‘ntifica,na stampa e’na figura, con l’Angelica dell’Orlando furioso, accussì come lui se l’era immaginata e spasimata viva, di carne, a sidici anni, talianno ammucciuni le illustrazioni di Gustavo Doré   che so zia gli aviva proibito”. E’ solo il principio di una passione tanto improvvisa quanto tardiva; non è la prima volta che il nostro eroe si trova invischiato nelle maglie degli spasimi amorosi e di esserne letteralmente travolto come un adolescente, infatti frammisti, sono inseriti due versi della poesia di Cardarelli  Adolescente “Un pescatore di spugne,/avrà questa perla rara”. La confusione fatta tra il sogno di picciotto, ogni pensiero ed incontro con Angelica sono intercalati da versi dell’Orlando Furioso, e la realtà di uno squasi sessantino, lo rendono  ridicolo, non era dignitoso per un uomo come lui dare di spettacolo indegno e miserabili. Sensi di vrigogna e pentimenti non gli impediscono di abbandonarsi con tutti i sensi tra le braccia di Angelica “ Pieno di dolce ed amoroso affetto/alla sua Donna, alla sua Diva corse/che con le braccia al collo il tenne stretto…
Il commissario romanzo su romanzo si priva della sua scorza esteriore e si disarma di volta in volta che l’età avanza., la sua è un’anàbasi indotta dall’incalzare del tempo che ce lo rendono sempre più indifeso, solo, e la sua millantata ed incauta improntitudine è una difesa sempre più debole. Le sue sfuriate memorabili, i suoi colpi di scena sono in difetto rispetto ai suoi dialoghi interiori in cui il suo io ha il sopravvento.
Mentre Salvo acquista sempre più sfaccettature introspettive e sembra uscire dalle pagine scritte come la vagheggiata Angelica, gli altri personaggi, senza sminuirli,  sono cristallizzati nei loro ruoli come maschere teatrali. Se di teatro si tratta con tutte le messinscena immaginabili, quello di Camilleri è imperdibile, da teatro di prestigiosa memoria.
La scrittura sta subendo una irreversibile mutazione verso la lingua dialettale, una naturale anastomòsi   più involuta e più aderente alla tradizione orale, direi ermetica nei suoi vocaboli così fissati nel tempo,  la lettura diviene un esercizio acrobatico, linguistico-espressivo anche per chi siciliano è.
Senza  enfasi né lodi sperticati chioserei con uno slogan trito e un po’ frivolo: Camilleri è sempre Camilleri e…Montalbano è sempre Montalbano anche quando corre il rischio di essere nazional popolare o considerarlo solo un marchio di garanzia. 

Autore. Andrea Camilleri (1925), è autore di oltre 60 romanzi tra storici, civili e polizieschi, e di diverse raccolte di racconti, tradotti in più di 30 lingue. Vincitore di numerosi premi in Italia e all’estero, è noto al grande pubblico anche per i romanzi dedicate alle inchieste del commissario Montalbano, da cui è stata tratta la fortunata serie televisiva. Tra i tanti titoli ricordiamo: “La forma dell’acqua”, “Il cane di terracotta”, “Il ladro di merendine”, “La voce del violino”, “La stagione della caccia”, “Il birraio di Preston”, “La concessione del telefono”, “La gita a Tindari”, “Maruzza Musumeci”, “Il casellante”, “Il campo del vasaio”, “L’età del dubbio”, “Un sabato, con gli amici” “Il sonaglio”  “ La caccia al tesoro”…
Arcangela Cammalleri

 

01/11/2010

Il piccolo principe  di Antoine  Marie Roger de Saint-Exupèry
Con le illustrazioni dell’autore
Titolo originale Le Petit Prince
1° Edizione 1943

Racconto fantastico
Tascabili Bompi
ani

Come esplicita nella dedica al libro, l’autore si rivolge ai ragazzi e “A tutti i grandi che sono stati bambini una volta. Ma pochi di essi  se ne  ricordano”.
Questo capolavoro, ormai un cult della letteratura europea e non, è  amato da generazioni di diversa cultura, lingua e trasversalmente piace a piccoli ed adulti.
La trama è ben nota, basta solo accennarla. Un pilota a causa di un guasto del suo aereo è costretto ad atterrare nel deserto del Sahara: nella vastità sabbiosa del deserto, nella solitudine a mille miglia da una qualsiasi regione abitata, nel  silenzio totale, assoluto, improvvisa, una strana vocetta: “Mi disegni, per favore, una pecora?” Il ragazzino è Il piccolo principe che ha abbandonato il suo pianeta nativo,  poco più grande di una casa, e vaga per gli spazi, incontra  personaggi bizzarri che impersonano vari aspetti dell’animo umano. Nel nostro pianeta indaga non solo sull’amore, l’amicizia, ma anche sul senso dell’esistere e della morte. La sua apparizione è così tanto misteriosa quanto  la sua scomparsa.
Fin qui la storia, esile come il filo delle Parche, ma intensa e profonda quanto la vita di una persona.
La figura del piccolo principe nella sua essenza di completa innocenza accarezza il nostro animo di lettori e ce lo fa amare sin dalla prima comparsa in scena. Come non intenerirsi al suo bisogno di affetto, come non partecipare alla sua dolente e disperata solitudine: tutto ciò che ha compreso ce lo insegna con il linguaggio di chi sa che “ Si vede bene solo con il cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi
L’immagine del piccolo principe è l’emblema dell’infanzia, lo stato di grazia ritrovato, così prezioso perché raro, così possibile quando sarebbe impossibile. È un paradosso affermare che il libro è destinato o era destinato ai bambini perché non è necessario che  si insegni a loro i valori autentici che noi adulti ci compiace pedissequamente ripetere, siamo noi adulti che li dimentichiamo negli atti quotidiani e che abbiamo bisogno di recuperarli ritornando  bambini con la mente e il cuore.
In uno stile così semplice, oserei dire disarmante, privo di sovrastrutture lessicali, l’autore ci pone davanti a verità incontrovertibile, a considerazioni assolute ed universali, stupefacenti perché suggerite da un fanciullo.
La lettura di questo breve scritto rinfranca la mente e come una sorgente d’acqua pura ci spiana l’animo e ci  dispone agli altri e a considerare che quello che ci sembra così tanto importante da occupare spesso la nostra esistenza, forse, forse…anzi proprio,  non lo è. 
Tanti critici hanno analizzato, questo racconto, hanno  scritto fiumi di definizioni, parole difficili, interpretazioni tra le più disparate, ma oltre la critica, la grandezza e il fascino  di questa opera è che attraversa il tempo e le generazioni  mantenendo intatto il suo linguaggio poetico, l’autentica meraviglia di chi l’ha scritto e il  fascino quando la logica della nostra ragione è incrinata e messa a dura prova  da domande  apparentemente ingenue e infantili.  

L’autore. Antoine Saint-Exupéry nasce a Lione nel 1900 in una famiglia dell’aristocrazia francese di provincia. A 4 anni rimane orfano del padre, ma trascorre con le sorelle e il fratello un’infanzia serena e con la madre manterrà un rapporto molto stretto. Nel collegio dei gesuiti di  Sainte- Crois a Le Mans soffre per la disciplina rigida di tipo militare che vige. Diventa malinconico e solitario, nel 1912 sale per la prima volta sull’aereo  del futuro asso dell’aviazione francese nella prima guerra mondiale, Jules Védrines.  A Parigi conclude gli studi superiori dopo la morte del fratello François, ama la meccanica e la filosofia, disegna modellini di aerei e frequenta gli ambienti letterari della capitale. Dopo non essere riuscito ad entrare all’Accademia navale, frequenta la facoltà di architettura. Conseguito il brevetto di pilota civile e militare, dopo un incidente, fa solo il pilota civile. In Africa la vita da pilota è intensa,  di notte scrive. Nel 1926 pubblica il suo primo libro Volo di notte, scrive prefazioni e reportage per i giornali Paris soir da corrispondente a Mosca. Nel 1935 tenta di battere il record di volo Parigi-Saigon, ma nel deserto della Libia in un atterraggio di fortuna si salva per miracolo. Nel 1938 torna in Europa, ormai famoso, riceve la Legione d’Onore, le sue scoperte scientifiche sono significative nell’ambito della navigazione aerea. Compie missioni pericolose durante la seconda guerra mondiale, nel 1942 fugge in America in esilio, dopo la firma del trattato tra la Francia del maresciallo Pétain e la Germania di Hitler. In America vive con i diritti d’autore di Terra degli uomini, proclamato il libro dell’anno. Quando l’attacco a Pearl Harbour provoca la mobilitazione generale, lascia New York, dove ha scritto il suo capolavoro Il piccolo principe  e si arruola per partire in Nord Africa. Nel 1944 durante una missione di volo nella regione di Grenoble, di lui non si saprà più niente. La sua ultima opera Cittadella esce postuma.
Del pilota Antoine de Saint-Exupéry non si è trovata traccia, sino alla primavera del 2004, quando, sono stati riconosciuti i resti del suo aereo al largo di Marsiglia. 
Arcangela Cammalleri

 

31/10/2010

La clessidra d'avorio
di Davide Cassia
e Stefano Sampietro

Copertina di Jessica Angiulli
e Lucio Mondini - Diramazioni
Edizioni XII
www.xii-online.com

Narrativa romanzo
Collana Mezzanotte

Un'infinita partita a scacchi

E' l'anno 1592 e due uomini avviano una partita a scacchi. Così comincia La clessidra d'avorio e così termina, con la vittoria del bianco sul nero. Ma, finisce veramente questo scontro, con la diciassettesima mossa con la quale l'alfiere bianco posizionato nella casella e2 dà scacco matto?
No, non termina e continuerà fino a quando l'uomo, questo microcosmo continuerà a cercare la spiegazione della sua esistenza.
La narrazione, sviluppata su tre diversi piani temporali (a cavallo fra il XVI e il XVII secolo, agli inizi del XIX secolo e in epoca attuale), è tutto un susseguirsi di avventure per porre le mani sulla clessidra d'avorio, oggetto misterioso proveniente dall'antico Egitto, l'unico in grado, assieme ad altri analoghi, a misurare il tempo esattamente per consentire all'alchimista di trasformare l'infima materia in prezioso oro, ma soprattutto per ottenere quell'Elisir di vita eterna, in grado di porre l'uomo al sicuro della sua predestinata caducità.
E' un rincorrere continuo della conoscenza, dell'esperienza, uniche a consentire il progresso in un'evoluzione delle capacità intellettive che serva a penetrare il profondo e insoluto mistero della vita.
Il diario della ricerca della clessidra tenuto dal bolognese Giacomo Bandini, colui che dà scacco al re nero del grande Paracelso, si snoda in un percorso di conoscenza che lo conduce da Venezia al Cairo, indi di nuovo a Venezia e infine a Roma, dove termina. Si intercalano fra i giorni riportati dalle pagine le avventure di due nobili francesi, padre e figlio, che, in epoca napoleonica vanno alla ricerca di un amico scomparso, in un itinerario che come, per Giacomo Bandini, troverà la realizzazione dei loro scopi a Roma, fra mille peripezie, in una serie d'avventure che non solo avvincono, ma addirittura affascinano.
E verso la fine del libro si gettano le basi di un nuovo viaggio che compiranno, ai giorni nostri, un discendente del Bandini, dallo stesso nome, e un altro di uno dei due nobili francesi, il figlio, pure lui con identico nome e cognome.
Stranezze degli autori, coincidenze artificiose? Assolutamente no; sono i protagonisti di una storia infinita, di un'interminabile partita a scacchi fra il proprio io e il desiderio di dare una risposta definitiva al perché dell'esistenza.
Questo romanzo, scritto veramente in modo eccellente, perché non è facile intercalare nella narrazione epoche diverse senza far venir meno l'interesse, è in pratica una grande metafora, un'opera che a prima vista può essere scambiata per una spy story, o per un affondo nel mondo oscuro dell'esoterismo, ma se c'è una magia qui c'è solo quella di due autori che hanno saputo creare un meccanismo perfetto ad incastri per raccontarci del desiderio dell'uomo di andare oltre il possibile, alla ricerca inconscia dell'immortalità.

Davide Cassia nasce a Varese nel 1970; il suo esordio nel 2001 con il romanzo noir Morte di un perdente, è autore di romanzi e racconti che spaziano dall’avventura all’umoristico, passando per l’horror e il fantasy. Esperto di videogiochi, tra il 1999 e il 2004 ha collaborato con NGI Magazine, di cui è stato caporedattore. Con Edizioni XII ha pubblicato nel 2007 il thriller Inferno 17, e ha partecipato alle antologie TaroT – Ludus Hermeticus e Corti.

Stefano Sampietro nasce a Como il 20 febbraio 1973. Dopo la Laurea in Economia, consegue il Dottorato di Ricerca in Finanza Matematica e diviene docente a contratto presso l’Università Bocconi, prima, e presso l’Università LIUC Carlo Cattaneo, poi. A fianco dell'attività accademica, svolge il ruolo di analista in una società di ingegneria finanziaria. Suoi racconti sono stati pubblicati sulla rivista di fantascienza Futuro Europa (Perseo Libri), e nell’antologia Corti di Edizioni XII. La clessidra d’avorio è il suo primo romanzo.
Renzo Montagnoli

 

30/10/2010

D’un tratto nel folto del bosco di Amos Oz ed. Einaudi

Titolo originale Suddenty in the Depth of the Forest-A Fairy Tale
Traduzione di Elena Loewenthal

Racconto fiabesco
Quarta di copertin
a

“ Tutto era cominciato tanti, tanti anni prima che i bambini del paese nascessero, in tempi in cui persino i loro genitori erano ancora piccoli. Nello spazio di una notte, una qualunque notte piovosa d’inverno, tutti gli animali spariti dal villaggio. Bestiame e uccelli e pesci e insetti e rettili”.

Alcuni titoli (Lo stesso mare, Non dire mai notte…) dei romanzi di Amos Oz sia per i piccoli sia per gli adulti evocano versi poetici, atmosfere  rarefatte, un mondo sospeso tra realtà contingente e fiaba misteriosa.
In questo racconto incantato ricorrono i motivi stilistici dell’autore: un ritmo narrativo equilibrato e una forma cristallina e trasparente stratificata da sotterranee profondità. Infatti il bosco, metafora di memoria dantesca, ci  addentra nell’inconscio delle nostre paure e angosce esistenziali, ma, in questa sorta di sogno narrativo, sono i due  piccoli protagonisti che, mossi dalla curiosità, iniziano un percorso alla ricerca di quello che si cela. La storia nella prima parte, è un porre domande e ricevere risposte velate, reticenti, elusive, con incertezza ed estremo imbarazzo dagli adulti, che spesso non vogliono vedere oltre…perché la meraviglia e l’entusiasmo sono spenti dal grigiore delle loro esistenze. Maya e Mati vivono in un paese senza animali, anzi non ne hanno mai visto alcuno, se non attraverso le immagini a scuola. Non sono per niente convinti che non esistano altri esseri. Il piccolo Nimi comincia a sognare la notte animali e a raccontare, tanto da essere preso in giro. Un giorno scappa via e torna dopo tre settimane ancora più svagato e diverso, ha perso l’uso della parola ed emette nitriti. Il paese è sempre più cupo e triste, solo montagne, nuvole e vento. Isolato e sperduto in un valle chiusa, oppresso da uno strano, totale silenzio. Non un muggito, un raglio, solo il gorgoglìo del fiume giorno e notte, che scorre fra i boschi e i monti. Di notte il silenzio si tinge di nero e aleggia intorno alle case  Nehi, il demone dei boschi.  Molti anni prima, nello spazio di una notte tutti  gli animali erano spariti dal paese e dai suoi dintorni, inghiottiti dal bosco, la gente viveva da allora in silenzio, nella paura. Alle domande dei bambini i genitori preferiscono negare, o insabbiare nel silenzio la questione. Certi personaggi sui generis contrappuntano la trama, strani e cristallizzati in comportamenti reiterati, ma con un che nell’animo di fanciullesco e innocente. Mati e Maya, tra tutti i bimbi, sono attirati dai boschi tenebrosi, affascinati, e l’immaginazione li spinge a scoprire cosa mai si annidi, là dentro. Custodiscono un segreto, aver intravisto un guizzo fulmineo, saettante presso un’ansa del fiume, un pesce con squame iridate che sembrano fatte di argento vivo, piccolo, lungo non più di mezzo dito, le pinne delicate e le branchie trasparenti. Lo stupore della scoperta e vaghi suoni come di sogno li spingono ad inoltrarsi nel bosco. Tra i grovigli fitti e bui di piante ombrose, seguendo il  corso del fiume come guida, tra l’echeggiare di suoni, fischi, sospiri, scoprono un parco, una delizia per gli occhi:  ruscelletti, vasche d’acqua, aiuole in fiore, siepi, alberi e… animali di ogni specie, un giardino delle meraviglie per i loro occhi sgranati e  sbalorditi. Incontrano Nehi, il demone, ma è solo un essere malvoluto ed emarginato  dal paese perché non conforme al comune sentire e nel bosco insieme agli animali, che lo hanno seguito perché anch’essi maltrattati e vittime di tormenti, vive in una dimensione paritaria dove  non esiste la vergogna di ciò che è vero e essere fieri di ciò che è menzogna. Di notte scende nel villaggio e per  vendicarsi degli abitanti  li spaventa a morte, ma sbircia anche tra le finestre alla ricerca di un contatto umano che  gli manca.
I bambini con l’animo sgombro da pregiudizi  assumono il ruolo di mediatori  e forse quando gli animi fossero cambiati, sarebbero scesi gli animali e non sarebbero più stati picchiati i cani con i bastoni, frustati i cavalli con le strisce di cuoio e avvelenati i gatti randagi, affogati i topi nei pozzi neri, non uccisi a fucilate i cerbiatti, le volpi e venderne le pellicce e mettere le trappole per le lepri e anatre selvatiche.
Insieme agli animali sono scomparsi i sentimenti, la solidarietà; lo scherno e l’irrisione per chi viene escluso dominano i cuori, una sorta di gelo attraversa le loro anime e nascondere la verità è la regola che domina nel loro vivere quotidiano. Un vento impetuoso ha spazzato il villaggio di ogni risorsa d’amore, di convivenza armoniosa, in preda gli abitanti ad una paura inconscia che offende  ogni rapporto reciproco. In uno stile evocativo e fiabesco si adombra la storia di venature inquietanti, ma anche  di spiragli di luce: il mondo salvato dai bambini?
In questa narrazione la sensazione predominante è la perdita di qualcosa di profondo negli abitanti, i quali costituiscono un microcosmo rappresentativo di un’umanità più vasta,  alla ricerca,  di se stessi.   

Amos Oz, scrittore israeliano, è nato nel 1939 a Gerusalemme. Dopo avere studiato filosofia nell’Università ebraica della sua città, ha   perfezionato la sua preparazione in istituti universitari in Inghilterra e negli Stati Uniti. Oggi all’attività di scrittore affianca quella di insegnante di letteratura all’Università Ben Gurion del Negev, una regione dello Stato d’Israele. Tra le sue opere più note In terra d’Israele (Marietti,1992), Lo stesso mare (Feltrinelli, 2000), Una storia d’amore e di tenebra, Contro il fanatismo (Feltrinelli, 2004), Non dire notte  ( Feltrinelli, 2007).
Arcangela Cammalleri

 

28/10/2010

Bucoliche di Publio Virgilio Marone
A cura di M. Geymonat
Testo latino a fronte

Garzanti Libri
Collana I grandi libri

La serenità che infonde la natura

Le Bucoliche, dal greco  Βουκολικά, cioè pastore, mandriano, è la prima  grande opera scritta da un ancor giovane Virgilio in un’epoca fra le più tragiche nella storia di Roma, quella delle guerre civili.
Ci sono tutti i motivi per ritenere che questa raccolta di componimenti, costituita da dieci ecloghe esametriche, sia stata il frutto di un’idea spontanea volta a evidenziare il quieto mondo pastorale in contrapposizione all’orrore e ai lutti che allora insanguinavano il mondo romano.
Quindi sono scaturite con un senso nostalgico e di rimpianto, ancor più acuito dalla perdita delle proprie terre, distribuite ai veterani nel 42-41 a.C. dal II Triumvirato.
A differenza delle Georgiche e dell’Eneide, commissionate, nelle Bucoliche c’è una piena e completa libertà creativa, che permea l’opera, verso dopo verso, mai ribelle od ostile, ma additante un modo di vita che, anche all’epoca e stante la situazione politica, sembrava ormai remoto.
La purezza dello stile, i temi trattati, un continuo senso evocativo, non disgiunto da un rimpianto dai toni tuttavia mai accesi, incantano ancor oggi il lettore e in un certo qual senso non fanno rimpiangere i tratti epici e anche intimisti dell’Eneide.
Si avverte chiara la palpitazione di un poeta che brama esiliarsi volontariamente in un mondo idealizzato, che va oltre i ricordi fanciulleschi della sua casa ad Andes, dimora natia e quindi legata al cuore, ora più che mai, giacché non più sua, ma di un ignoto legionario.
Sono pagine di un animo tormentato in cerca di una pace, metafora di un mondo, quello romano, che brama la stabilità, senza più lotte fratricide.
Le Bucoliche furono un immediato successo e rivelarono in quel giovane che veniva dalla Gallia, di carnagione scura, poco incline all’ars retorica, un poeta nuovo, un artista che aveva in serbo idee che andavano oltre la linea tradizionale e che era in grado di trasformarle in lavori di grande fascino e pressoché perfetti.
Quello che stupisce di quest’opera è la straordinaria attualità, perché Virgilio ci dice sostanzialmente che, nel caso di perdita dei valori, al fine di evitare che la realtà possa essere insopportabile, si deve avviare un dialogo con il proprio “io” volto alla continua scoperta di ciò che è in noi, in un ritorno all’essenza delle cose e della vita anche con l’osservazione, umile, della natura che sta intorno a noi.
Per quanto ovvio, Bucoliche è un autentico capolavoro.

Publio Virgilio Marone (Andes, 15 ottobre 70 a.C – Brindisi, 21 settembre 19 a.C.).
Opere principali: Bucoliche, Georgiche, Eneide
Renzo Montagnoli

 

25/10/2010

Mozart era il mio preferito di Matteo Pugliares
Presentazione di Stefania Ciacci
Edizioni Tabula Fati
www.edizionitabulafati.it

Narrativa racconto
Collana Carta da Visita

Un piccolo gioiello

"Mozart era il mio preferito: amavo tutto di lui." Questa frase, tambureggiante come Il bolero di Ravel, è ripetuta più volte nelle riflessioni sorte dal subconscio della protagonista, Rosaria, una ragazza che soffre del male di vivere, che rifiuta un mondo di indifferenze e di ingiustizie e che, rifiutando il cibo, si ammala di anoressia.
E' lei che racconta, coricata in un letto d'ospedale, mantenuta in vita da macchine e da farmaci.
E' un quadro di una pur breve esistenza in cui tuttavia sono riassunti tutti quegli aspetti di una società ormai cronicamente amorale e che distrugge, ancor prima di costruire.
La storia è dolente, ma la mano dell'autore è felice nel descrivere situazioni, sensazioni, poche fugaci emozioni.
La musica, quella di Mozart soprattutto, oltre che essere di conforto, aiuta Rosaria a evadere, a salire in un mondo che promette quello che lei si attende.
Se frequenti scorrono le sue lacrime, la commozione può investire il lettore, ma non condizionarlo mai, non portarlo a uno stato di depressione emotiva proprio come quello della protagonista.
La sensibilità di Pugliares ha permesso di affrontare questa vicenda senza mai pervenire a eccessi e se la storia, come suppongo, sostanzialmente risponde a verità, non è di quelle che vengono prese a pretesto per narrazioni di carattere commerciale così purtroppo frequenti.
L'autore, nel disegnare un personaggio, si pone in effetti il problema di un'esistenza vuota, piatta, senza amore e proprio nell'amore trova una soluzione, senz'altro condivisibile, un amore punto di partenza per accettare questo mondo e cercare anche di migliorarlo.
L'anoressia verrà così vinta, Rosaria conoscerà questo sentimento capace di rigenerare, di far sbocciare il desiderio di vivere, ma la storia non avrà un lieto fine, per gli imperscrutabili disegni del destino.
Un passaggio definitivo a quell'oltre, accompagnato ancora una volta dalle note di Mozart, perché era il suo preferito, chiude il racconto, e solo allora il lettore comprenderà il valore di questo libro, poche pagine intense, scritte benissimo, un autentico gioiello forgiato dalle mani e dall'anima di Matteo Pugliares.

Matteo Pugliares, nato ad Augusta (SR) nel 1972, è Frate Minore Cappuccino. Vive a Modica (RG) dove si occupa di pastorale giovanile, come Assistente Regionale per la Sicilia della Gi.Fra. (Gioventù Francescana).
Ha studiato Teologia a Palermo e Ragusa. Ha frequentato corsi di Editoria e Scrittura Creativa a Ragusa e Catania. Al momento studia Counselling e frequenta seminari a indirizzo educativo e del benessere.
Collabora con diverse case editrici quali Edizioni Creativa (direttore Collana Le Pleiadi), Enrico Folci Editore (organizzazione premi letterari, editor, correttore di bozze), Edizioni Tigullio-Bacherontius (prefazioni e correttore di bozze), Parole Sparse Edizioni (direttore editoriale), Edizioni del Poggio (direttore Collana Pindaro), Tabula Fati (prefazioni).
Ha ottenuto molti premi e riconoscimenti letterari, fra i quali il Premio alla cultura Xifonia 2007.
Collaboratore di riviste e gruppi culturali, tiene corsi di Scrittura Narrativa e Poesia.
Ha sei pubblicazioni personali all'attivo, di poesia, narrativa e saggistica, di cui l'ultima è Francesco d'Assisi. Figlio del Dio dalle braccia larghe (Edizioni Creativa, Torre del Greco 2009).
Ha curato una decina di antologie poetiche e di narrativa.
È responsabile dell'associazione "Club leggere:tutti - Modica" e Presidente dell'associazione "Servizi Letterari - Modica".
Renzo Montagnoli
 

22/10/2010

Accabadora di Michela Murgia Edizioni Einaudi
Narrativa romanzo
Collana Supercoralli

Eutanasia alla sarda

Già dopo le prime pagine ho capito che questo è un romanzo da leggere prima con il cuore e poi con la testa, una narrazione stilisticamente eccellente che offre l'immagine di un mondo chiuso, isolano, in cui i gesti hanno una ripetitività ancestrale, in una specie di pellicola in bianco e nero che riporta agli albori del cinema e che è il quadro di un ambiente in una certa epoca.
La tradizione dell'affiliazione di fatto vede unite una bimba, Maria, a una signora che veste il lutto da quando l'amato non ha fatto ritorno dalla prima guerra mondiale, ed è un rapporto fatto di poche parole e di molti silenzi assai più significativi di qualsiasi linguaggio.
Ma Bonaria Urrai, così si chiama la signora, è anche un'accabadora, cioè una persona tanto ricercata quanto temuta che pietosamente pone fine alle sofferenze altrui, in una forma di eutanasia tipicamente del luogo.
Non nascondo che il libro mi ha entusiasmato e avvinto, con quel suo ritmo lento, ma non statico, almeno fino a pagina 119, perché dopo, una volta che Maria scopre quest'attività tenutale prima sempre celata, se ne va, lascia la casa dove ha vissuto gran parte della sua fanciullezza e fugge a Torino a fare la baby sitter.
Ora, se la reazione della giovane Maria è più che comprensibile, del tutto inutile è la narrazione di questo periodo con cui si cerca di cancellare la memoria del passato; sono pagine artificiose, che nulla aggiungono alla storia, e che anzi troncano quell'equilibrio così apprezzabile che mi aveva soggiogato. Da romanzo d'ispirazione classica si passa così a uno scritto quasi insipido, un cambiamento repentino che non giova al libro e che prelude all'ultima parte, con il ritorno di Maria al capezzale di Bonaria Urrai, costretta in un letto per un ictus.
E qualche cosa deve essere accaduto all'autore, perché cade ancora una volta l'omogeneità dello scritto, il ritmo diventa altalenante e si arriva a una conclusione che, fra le tutte possibili, è senz'altro la meno azzeccata.
C'è la volontà di dare a un mondo di naturale dolore un sviluppo positivo che stona con la logica dell'opera, almeno per quella presente nelle prime 119 pagine.
La fretta di chiudere, fra l'altro, svilisce il ritrovato affetto (e forse un giorno amore) fra Maria e Andrìa, quest'ultimo suo compagno d'infanzia.
Si perde, soprattutto, il concetto di come in una vita che si chiude con la morte l'unica cosa che conti è l'amore.
E' un peccato, perché le intenzioni erano ottime, ma poi si sono perse per strada, e così può anche capitare che un premio (Il Campiello) tributi gli onori non tanto a un'opera coerente, ma solo alle sue intenzioni.

Michela Murgia è nata a Cabras il 3 giugno 1972. Ha pubblicato Il mondo deve sapere (Isbn, 2006), Viaggio in Sardegna,. Undici percorsi nell'isola che non si vede (Einaudi, 2008), Accabadora (Einaudi, 2009), vincitore del super Mondello e del Campiello 2010.
Renzo Montagnoli
 

19/10/2010

Irregolare di Vincenzo Bosica Edizioni Solfanelli www.edizionisolfanelli.it
Narrativa romanzo
Collana Pandora

Un giallo fantascientifico

La fantascienza mi interessa maggiormente quando viene descritto un futuro non lontano, ma assai prossimo e questo è il caso di Irregolare, di Vincenzo Bosica.
In un pianeta Terra ammorbato dall'inquinamento vive una società ipertecnologica al punto di consentire il ricambio di organi fra i più comuni, compresa l'epidermide, con braccia, gambe metalliche che assicurano prestazioni del tutto inusuali.
In buona sostanza nella società del futuro imbattersi in un cyborg è del tutto normale, anche perché c'è chi ricorre a queste protesi per vivere più a lungo e c'è chi invece ne fa uso per esaltare la bellezza del proprio corpo, con tanto di addominali e di bicipiti artificiali.
E' una tecnologia già acquisita da tempo e ovviamente pubblicizzata in un sistema ove conta sempre di più l'apparenza, mentre la sostanza sfugge, la mancata omologazione è osteggiata, insomma per certi versi è un futuro già attuale.
Fra l'altro il collasso demografico viene evitato in forza di una legge internazionale che rilascia permessi di procreazione in presenza di altrettanti decessi, e non è che sia possibile essere inadempienti, poiché le identità di ognuno, codificate digitalmente, sono una traccia informatica univoca e incancellabile, in un mondo popolato di occhi elettronici, di sensori speciali, che tutto vedono e tutto registrano.
Francamente credo che un futuro così non poteva ipotizzarlo nemmeno Orwell, anche se, per certi aspetti, il grande scrittore inglese ha tracciato un percorso lungo il quale effettivamente stiamo camminando.
La società di Irregolare è ben lungi dall'essere perfetta e se le supertecnologie hanno consentito di risolvere pressoché totalmente tutti i casi di omicidio, ce n'è uno, apparentemente inspiegabile, che assilla la polizia di una città americana, la fa disperare perché non esiste il più piccolo indizio. Tutto il romanzo si sviluppa su questo caso, sulle indagini che finalmente porteranno al colpevole.
Quindi, fantascienza certamente sì, ma anche thriller, piuttosto raffinato, con colpi di scena non prevedibili, ma logici, in un crescendo di tensione che impedisce al lettore di togliere gli occhi dal libro.
In questo senso Bosica è riuscito a scrivere un'opera convincente, oltre che, ovviamente, avvincente e fra l'altro con uno stile pulito e un italiano corretto, cosa rara quest'ultima ai giorni nostri.
L'unico appunto che mi sento in dovere di muovere all'autore riguarda la localizzazione del fatto e i personaggi. Secondo me, in un mondo come quello, del tutto uniformato, non c'era bisogno di ambientarlo negli Stati Uniti, ma tranquillamente in Italia, con il vantaggio anche di poter ideare protagonisti più vicini ai nostri gusti.
Se di peccato si tratta, comunque è da considerare veniale, perché il libro merita senz'altro d'essere letto.

Vincenzo Bosica (Pescara 1977) è un giovane autore la cui creatività ricca e sfaccettata lo spinge spesso ad approfondire aspetti dell'esistenza tutt'altro che banali.
Sostenuto da un percorso di studi scientifici e filosofici, è attratto da quanto è misterioso, eccentrico e indecifrabile; dagli sviluppi spesso straordinari a cui potranno condurre le scoperte scientifiche; dalla direzione che prenderà il futuro; da quanto e come l'uomo sarà capace di adattarvisi.
Il suo primo racconto, Capsule ("IF-Insolito e Fantastico", n. 2/2009), è quasi un saggio sulla scienza moderna. declinato con ironia e uno stile personalissimo, che gli giova grandi consensi di pubblico e di critica.
Irregolare è il suo primo romanzo, ambientato in un futuro non troppo distante e non troppo inverosimile.
Renzo Montagnoli
 

16/10/2010

Le parrocchie di Regalpetra di Leonardo Sciascia
Prefazione dell’autore
Adelphi Edizioni
Collana Fabula

Il problema storico della miseria

Pubblicato nel 1956 dall’editore Laterza, Le parrocchie di Regalpetra non è un romanzo, bensì una saggio che parla dell’ambiente, della gente, della storia di Racalmuto, paese natio di Sciascia, denunciando apertamente, senza remore, i problemi ancestrali, ormai cronicizzati, che affliggono quella località e finendo per estensione con il caratterizzare qualsiasi unità amministrativa siciliana.
Ma perché allora non intitolarlo Le parrocchie di Racalmuto?
Lo spiega lo stesso autore nella prefazione, precisando Debbo aggiungere che il nome del paese, Regalpetra, contiene due ragioni: la prima, che nelle antiche carte Recalmuto (cui in parte le cronache del libro si riferiscono) è segnata come Regalmuto; la seconda, che volevo in qualche modo rendere omaggio a Nino Savarese, autore dei Fatti di Petra.
C’è un ordine logico in queste cronache che non è solo temporale, ma anche finalizzato a dimostrare appunto quell’Enorme tempo, cristallizzato, che Giuseppe Bonaviri ha reso perfettamente con il suo omonimo libro.
Si parte così dalla storia del paese, andando indietro di circa quattro secoli per approdare, abbastanza rapidamente, al periodo intercorrente fra le due guerre, con gustose rappresentazioni dell’era fascista, ma è soprattutto il dopoguerra, frutto dell’esperienza diretta, il cardine di tutta l’opera, con l’acuta osservazione della politica, i cui rappresentanti locali, dismessa la camicia nera, ora ne indossano di altri colori, ma, si sa, come l’abito non faccia il monaco.
L’effettiva preoccupazione di Sciascia, però, è il fine stesso dell’opera e cioè di mostrare le condizioni in cui versavano le classi povere, con la scarsa e inadeguata paga per il necessario sostentamento, accompagnata dal rischio insito nel lavoro proprio dei cavatori di sale e degli zolfatari.
Se la descrizione della vita di questi quasi servi della gleba provoca sdegno nel lettore, Le cronache scolastiche dello Sciascia maestro sono di quelle che stringono il cuore, che fanno venire in mente l’infanzia di tanti derelitti descritta già dal Verga e che nel Cuore di De Amicis risulta sì commovente, ma edulcorata.
Qui la verità cruda è che gli scolari patiscono la fame, soffrono il freddo, già alla loro età maturano gli espedienti per sopravvivere, vestiti di stracci, spesso alternando lavori faticosi agli studi, senza un avvenire, immiseriti fuori e dentro.
Ricordo che siamo negli anni 50 del XX secolo e non nel XVIII o XIX secolo; l’Italia è uscita dalla guerra impoverita, desiderosa  tuttavia di raggiungere migliori condizioni di vita, ma lì, a Racalmuto – Regalpetra, si vive solo per morire.
Credetemi, poiché non è un romanzo in cui vien dato spazio alla fantasia, ma è una cronaca, un’indagine e quindi c’è solo realtà, a leggere queste pagine si è pervasi da un’intensa commozione e anche da un senso di vergogna, per noi che ora abbiamo tutto, quando loro invece non avevano niente, ma solo la fatica di vivere.
Come se Le cronache scolastiche non fossero sufficienti l’ultimo articolo di questo libro, intitolato La neve, il Natale è di quelli che è impossibile dimenticare, perché allargano quella ferita che già si è aperta in noi. Un inverno rigido, di quelli da tenere a memoria, con tanta neve e gli scolari vestiti quasi come Arlecchini, perché le mamme rimediano quello che è possibile trovare per attenuare il senso di freddo, il Natale che si avvicina, che arriva e il diario di tre di loro su come hanno trascorso la festività cristiana. Sono stilettate vere e proprie, come questa: “ Io il giorno di Natale ho giuocato con i miei cugini e i miei compagni. Avevo vinto duecento lire e quando sono ritornato a casa mio padre me le ha prese e se ne è andato a divertirsi lui. “.    
E’ comprensibile quindi l’altra funzione di queste cronache, cioè l’essere la base, lo spunto per le opere successive di Sciascia, tanto che nel 1967, a proposito di Le parrocchie di Regalpetra, l’autore scrisse “ Tutti i miei libri in effetti ne fanno uno. Un libro sulla Sicilia che tocca i punti dolenti del passato e del presente e che viene ad articolarsi come la storia di una continua sconfitta della ragione e di coloro che nella sconfitta furono personalmente travolti e annientati.”.
Questo libro è assolutamente imperdibile.  

Leonardo Sciascia (Racalmuto, 8 gennaio 1921 – Palermo, 20 novembre 1989). E’ stato autore di saggi e romanzi, fra cui: Le parrocchie di Regalpietra (Laterza, 1956),  Il giorno della civetta (Einaudi, 1961), Il consiglio d’Egitto (Einaudi, 1963), A ciascuno il suo (Einaudi, 1966), Il contesto (Einaudi, 1971), Atti relativi alla morte di Raymond Roussel (Esse Editrice, 1971), Todo modo (Einaudi, 1974), La scomparsa di Majorana (Einaudi, 1975), I pugnalatori (Einaudi, 1976), Candido, ovvero Un sogno fatto in Sicilia (Einaudi, 1977), L’affaire Moro (Sellerio, 1978), Il teatro della memoria (Einaudi, 1981), La sentenza memorabile (Sellerio, 1982),  Il cavaliere e la morte (Adelphi, 1988), Una storia semplice (Adelphi, 1989).
Renzo Montagnoli

 

13/10/2010

La verità sugli uomini e sulle cose del Regno d’Italia
Rivelazioni di J.A.
Antico Agente secreto del Conte Cavour

di Filippo Curletti

A cura di Elena Bianchini Braglia

Presentazione di Walther Boni
Introduzione di Elena Bianchini Braglia
Edizioni Solfanelli
www.edizionisolfanelli.it

Collana Saperi
Storia

Luci e ombre sul Risorgimento

Negli archivi privati di Teodoro Bayard De Volo, ministro del duca di Modena Francesco V, si trova anche uno scritto, quasi anonimo, in quanto firmato solo J.A., con delle straordinarie rivelazioni.
Il documento è attualmente conservato nell’Archivio di Stato di Modena e ha destato l’interesse di Elena Bianchini Braglia, che, in questo libro, lo riporta integralmente. E’ curioso notare l’italiano di altri tempi, non gravido di errori, ma di espressioni ormai desuete.
Ma cosa ha di così tanto interessante questo scritto?
In pratica, J.A., che risponde poi al nome di Filippo Curletti, agente segreto del regno sabaudo al servizio del Conte di Cavour, getta nuove luci sul nostro Risorgimento, anche se sarebbe più esatto dire che getta nuove ombre.
Non è che siano rivelazioni assolutamente imprevedibili, perché gli storici si sono finalmente liberati da quella visione del periodo risorgimentale riportata sui testi scolastici, ripetuta da insegnanti sia in epoca prefascista, sia durante il ventennio che negli anni successivi.
Che il nostro Risorgimento non corrisponda alle lezioni ricevute è ormai assodato e questo sulla base di indizi, numerosi, circostanziati e, per la loro logica, quasi del tutto probatori.
Lo scritto di Curletti costituirebbe invece la prova inoppugnabile di come sono andate finalmente le cose, perché l’uomo non è solo spettatore degli eventi, ma vi partecipa o addirittura li promuove.
Resta da stabilire la sua attendibilità.
In ordine alla sua autenticità sembra che non ci siano dubbi, tanto che è conservato nell’Archivio di Stato; se poi sia stato redatto proprio da un agente segreto, certe situazioni riportate, che trovano riscontri e che non erano comunque all’epoca di dominio pubblico, sembrano avvalorare l’ipotesi.
C’è un ultimo quesito da considerare, e cioè se Curletti ha scritto la verità, magari inserendo abilmente menzogne fra fatti realmente accaduti.
Questo è impossibile da verificare, per quanto quegli indizi di cui ho sopra accennato siano compatibili con il documento in questione.
Curletti sembra voler lasciare ai posteri la spiegazione di un fatto di grande portata come il Risorgimento, proprio perché possano comprendere come mai sia stato realizzato uno stato, con le sue istituzioni, ma sia mancata la nazione italiana, cioè non vi sia quel senso di forte identità che accomuna i suoi abitanti.
Così, leggendo queste pagine, potremo capire come delle finalità puramente dinastiche e di potere furono spacciate per il più nobile scopo di un’indipendenza, potremo vedere con occhi nuovi Vittorio Emanuele II, definito il re galantuomo, perché appunto non lo era, troveremo un Garibaldi al di fuori della tradizione mitizzante, un brigante con vaghe idee di dare agli italiani un paese libero.
Su tutto domina la corruzione, che emana dal personaggio di Cavour, un male ormai diventato endemico e che condanna l’Italia a un’arretratezza morale che aggrava la mancanza di una forte identità nazionale.
Da leggere, inoltre, la presentazione di Walther Boni e l’esauriente e approfondita introduzione della curatrice Elena Bianchini Braglia, che, riferendosi alla imminente ricorrenza dei 150 anni dell’Unità d’Italia, termina con un invito che non è disaggregante, ma di autentica speranza affinché, come disse Massimo d’Azeglio, “Fatta l’Italia, ora dobbiamo fare gli italiani”.
Il suo pensiero è’ frutto di saggezza e di sincero amore per il paese, ma essere consapevoli del nostro passato è l’unico modo per essere tutti effettivamente italiani.
Scrive infatti Elena Bianchini Braglia: In realtà l’unico modo per celebrare l’Italia sarebbe quello di restituirle tutta la sua storia, tutti i suoi eroi, valorizzare tutte le sue antiche tradizioni, riconoscere le diversità dei popoli che la compongono. Solo così si potrà dare un senso a questa ricorrenza, solo così, forse, superate le violenze, le incongruenze e le forzature, l’unità potrà “ essere forte e durevole”.    
Questo libro non può solo essere letto, ma deve essere letto, perché la verità, sepolta da anni di menzogne, possa finalmente trionfare e consentire a noi italiani un processo cognitivo delle nostre origini, delle nostre tradizioni, peculiari delle varie zone in cui l’Italia era divisa 150 anni fa, presupposto indispensabile per costruire un futuro di effettiva unione nel quadro di un’identità nazionale che fino a ora non è mai esistita.

Elena Bianchini Braglia, nata a Modena il 26 ottobre 1972, vive a Modena con il marito e la figlia Irene.
Titoli di Studio: Laurea in Filosofia conseguita presso la Facoltà di lettere e Filosofia dell’Università di Parma e Laurea in Scienze dell’Educazione conseguita presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Bologna.
Attività culturali ed editoriali: da anni interessata alla storia Estense collabora con riviste, istituti culturali ed enti locali. È direttrice editoriale della rivista «Terre Estensi», presidente del Centro Studi sul Risorgimento e gli Stati Preunitari (www.centrostudirisorgimentali.it), collabora all’organizzazione di eventi culturali, partecipa a convegni e tiene conferenze.
Principali pubblicazioni:oltre a vari saggi sulla storia Estense, sul Risorgimento e diversi contributi su miscellanee, le pubblicazioni più recenti sono:
Adelgonda di Baviera, l’ultima duchessa di Modena, Reggio, Massa Carrara, TeI, Modena 2003
Maria Beatrice Vittoria, Rivoluzione e Risorgimento tra Estensi e Savoia, TeI, Modena 2004
O Regina o santa. Maria Beatrice d’Este, l’unica italiana sul trono d’Inghilterra, spodestata per la fede, Tei, Modena 2005
In esilio con il Duca. La storia esemplare della Brigata Estense, Il Cerchio, Rimini 2007
Donna Rachele, Mursia, Milano 2007
Madama Parisina, la protagonista del peccaminoso scandalo estense nella storia e nella letteratura, TeI, Modena 2007
Sito Internet:
http://www.elenabianchinibraglia.it/
Renzo Montagnoli

 

09/10/2010

L’intermittenza di Andrea Camilleri
Ed. Mondadori

Romanzo

Migliaia di lavoratori a rischio.
Manager spregiudicati. Due donne bellissime.
Un thriller spietato, veloce come un battito di ciglia.

L’intermittenza, l’ultimo libro di Camilleri non può non richiamare alla memoria Un sabato con gli amici: stesso stile secco ed essenziale quasi a cogliere e collocare i personaggi ( il lettore riesce questa volta a districarsi tra i vari nomi dei personaggi e loro relativi ruoli e legami grazie all’elenco presente all’inizio del libro) all’interno delle proprie crepe morali.

Siamo dentro il mondo degli affari sporchi, dell’imprenditoria spietata e predatrice, della politica cialtrona e opportunista. Senza soluzione di continuità s’intersecano i rami dei vari settori alla cui base ci sono profitto, convenienza e malaffare, ma Camilleri idealmente vuole spezzare questo fil rouge di vasi comunicanti inventandosi: l’intermittenza. “Silenzio totale, assoluto, come se intorno gli fosse sorta una bolla d’aria insonorizzat, inglobandolo. I muscoli paralizzati, non obbediscono agli impulsi inviati dal cervello. Poi, senza preavviso, si sblocca.  Il contatto con il mondo viene ristabilito. Per una frazione di secondi i rumori hanno un così forte  innalzamento di volume che gli rintronano dentro la testa, lo stordiscono”.

Una corrente che si alterna o un black- out momentaneo interrompono  ambizioni ed illusorie vanaglorie di chi mercifica tutto quello che tratta.

Siamo in una metropoli del nord (Camilleri istantaneamente assume un registro linguistico formale e composto), al centro il patriarca-presidente di una grande industria, la Manuelli il cui figlio, Beppo, una nullità totale, ricopre indegnamente la carica di vice Direttore generale; il Direttore del Personale, Guido Marsili è  un rullo compressore, senza ripensamenti, senza scrupoli, freddo e implacabile, ma con una segreta passione per la poesia e il Direttore generale  Mauro De Blasi, è manager importante che tiene tutto sotto controllo, eppure…avvisaglie di défaillance lo frastornano e lo lasciano inerme: “Fu allora che ebbe lacerante certezza della prossimità della sua morte”. La crisi nazionale aleggia sul Paese e la Manuelli fagocita l’azienda Artenia di Birolli sull’orlo del fallimento. Mauro De Blasi porta avanti le trattative in segreto, offrendo  una certa  cifra per il  pacchetto azionario dell’azienda soccombente. Portare le perdite in riduzione dei loro utili: cento milioni di perdite finanziarie giacenti nell’Artenia sarebbero sprecati, portati nel bilancio della Manuelli varrebbero 40 milioni di minori tasse. Birolli si sarebbe  liberato dei creditori e la Manuelli avrebbe guadagnato di più di quel che  avrebbe pagato: il pesce grosso che divora quello più piccolo. Personaggi maschili tagliati con l’accetta, di sordido profilo, sempre pronti a captare l’affare losco e a mantenere il potere senza cedimenti. Tagli del personale, cassa integrazione galoppante e trattative con il  politico di turno tracciano un quadro economico e finanziario molto simile alla realtà odierna. Le figure femminili assumono connotati propri dell’ambiente in cui vivono, Marisa, la bella moglie ricca ed annoiata incline ai tradimenti; Anna, la segretaria di Mauro  la cui vita pubblica sicura e motivata contrasta con la privacy deserta e vuota, facile agli abbagli amorosi; la bella nipote di Birolli, Licia, consulente del capo di un grande gruppo industriale, Luigi Ravazzi,  si occupa di economia con grande disinvoltura. Eppure in queste donne apparentemente così risolute, granitiche per il lavoro che svolgono e per i ruoli che ricoprono sono da Camilleri rappresentate sempre con estrema cautela e, spesso, spogliate dalla scorza esteriore che le caratterizza. La donna, l’eterno femminino appare in tutto il suo spessore e anche l’oca cristallizzata nella sua apparenza gradevole e accattivante mostra le sue fragilità interiori. In questo romanzo Camilleri assume il ruolo di  evocatore dei destini italici, senza cadere nella trappole della retorica e nelle insidie del moralismo. In una prosa curata e controllata, dove le parti dialogiche non sono meno a quelle narrative- riflessive non c’è scampo  alfine per chi vuole alzare sempre la bandiera del vincitore. Ha ancora fatto centro Camilleri? Senza aspettarsi il capolavoro o l’intuizione geniale, a mio modesto parere e da fans della prima ora,  risponderei di sì.              

Autore. Andrea Camilleri (1925), è autore di oltre 60 romanzi tra storici, civili e polizieschi, e di diverse raccolte di racconti, tradotti in più di 30 lingue. Vincitore di numerosi premi in Italia e all’estero, è noto al grande pubblico anche per i romanzi dedicate alle inchieste del commissario Montalbano, da cui è stata tratta la fortunata serie televisiva. Tra i tanti titoli ricordiamo: “La forma dell’acqua”, “Il cane di terracotta”, “Il ladro di merendine”, “La voce del violino”, “La stagione della caccia”, “Il birraio di Preston”, “La concessione del telefono”, “La gita a Tindari”, “Maruzza Musumeci”, “Il casellante”, “Il campo del vasaio”, “L’età del dubbio”, “Un sabato, con gli amici” “Il sonaglio”  “ La caccia al tesoro”…
Arcangela Cammalleri

 

08/10/2010

Filastrocche per l’angelo
di Anna Vincitorio
con testo francese a fronte
di Daniela Fiorini
Presentazione di Anna Ventura
Postfazione di Daniela Fiorini
II Edizione
Edizioni Tabula Fati
www.edizionitabulafati.it

Poesia
Collana Flores

Non solo musicalità

La filastrocca è un componimento di estrazione popolare, molto in voga in un passato nemmeno tanto lontano, e caratterizzato da un’armonia cantilenante. Le nonne vi si cimentavano con i nipotini, per attirare la loro attenzione e comunque per trasmettere un senso di appagamento e di sicurezza.
Anna Vincitorio, autrice di numerosi libri di poesia, ha rispolverato questa forma oggi non del tutto usuale con una serie di componimenti che, oltre a ben estrinsecare il significato della filastrocca, ne riportano tutte le caratteristiche salienti in modo egregio, con risultanze, oltre che piacevoli, anche di eccellente livello.
Queste poesie non sono come le ninne nanne, in genere fini a se stesse e che hanno come scopo quello di conciliare il sonno, ma portano un messaggio, sotto forma metaforica,  e comunque a una morale più adatta agli adulti che ai bimbi.
(Cantilena cantilena / non mi basti dolce Nena / non mi basta il cielo azzurro / non mi bastano le foglie / e nessuno le raccoglie. / La canzone è troppo triste / troppi gli anni sulle spalle. / Più non viene Lancillotto / a salvare la sua dama. / C’è una donna sola e vecchia / che si sente una puttana / degradata inascoltata / sola sola abbandonata. / Vieni presto, vieni presto / fa qualcosa, stringi forte / ma consegnami alla morte.). L’esperienza dell’esistenza, il grigiore di una vita al termine sono espressi in modo convincente e senz’altro immediato, senza ricorrere a termini inconsueti, pur in presenza  di un lessico colto.
Come si può notare non ci troviamo di fronte a poesiole più basate sull’orecchiabilità che sul contenuto, perché ci si sbaglierebbe e non poco.
No, Anna Vincitorio ricorre alle filastrocche per esprimere le sensazioni del suo “io”, come un altro poeta magari invece userebbe il canto o la ballata.
Non c’è solo ritmo, né semplicemente sillabe ripetute, ma un flusso continuo di emozioni, di sentimenti, di ricordi, di gioie e di dolori, insomma tutto l’animo dell’autrice porto in modo garbato al lettore, una comunicazione spirituale che solo la poesia può consentire, anche ricorrendo alla filastrocca.
Una particolarità di questo libro: per ognuno dei componimenti vi è il testo in francese a fronte e vi assicuro che anche in questa lingua la musicalità permane, forse addirittura migliora.
Da leggere per meditare, piacevolmente. 

 Anna Vincitorio è nata a Napoli. Fin dalla primissima infanzia si è trasferita a Firenze dove ha seguito studi classici cui ha fatto seguito la laurea in Giurisprudenza. Si occupa attivamente di letteratura, poesia, critica letteraria dal 1974. È docente dal 1976 presso istituti di scuola secondaria superiore di materie giuridiche ed economiche.
     Ha pubblicato di poesia: Nebbie e chiarori (Rebellato, Padova 1982); Trama verde sull’aria (Ed. Hellas, Firenze 1986); Il canto fermo della fine (Ed. Del Leone, Treviso 1988); L’esilio delle tartarughe (Ed. Del Leone, Treviso 1991); I girasoli (Ed. Funghi, Firenze 1992); Alchimie (Gazebo verde, Firenze 1993); Dissolvenze/Flots (Gazebo verde, Firenze 1995); L’agguato sommerso (PuntoStampa, Firenze 1997); Le nozze di Cana, in “’900 e oltre” - Inediti italiani di poesia Contemporanea (Ed. Italiana di Cultura Napoli, 1ª ed., gennaio 1997); Le nozze di Cana (Bastogi, Foggia 1999); L’ultima isola (PuntoStampa, Firenze 2000); Filastrocche per l’angelo (Tabula fati, Chieti 2001); La notte del pane (Genesi Editrice, Torino 2004), Sognando Estoril (Punto Stampa, Firenze 2007); Sognando Estoril (con testo spagnolo a fronte, Punto Stampa, Firenze 2009).
     Per la narrativa: San Saba (dall’inedito Il limo di Eva, in “Eleusis”, 1990); L’Adelina (racconto), in “Fuori Binario”, n. 14, febbraio 1996; Lettera ad un amico (racconto), in “Fuori Binario”, n. 14, febbraio 1996; Ermanno (racconto), in “Fuori Binario”, n. 18, giugno 1996; i racconti: Da diletto, L’arbitro, La strana coppia, in “Vernice”, n. 36, 2007.
     Traduce e pubblica poeti dal francese e dall’inglese. Attualmente collabora alla rivista “Vernice” di Torino, diretta da Sandro Gros-Pietro.
Renzo Montagnoli

 

0610/2010

L’enorme tempo di Giuseppe Bonaviri
A cura di Salvatore Silvano Nigro
Sellerio editore Palermo
www.sellerio.it
Narrativa romanzo
Collana La memoria
 
Un tempo cristallizzato
 
Il tempo sembra essersi fermato a Mineo, immobile da secoli, come se si fosse cristallizzata la vita in una miseria a cui gli abitanti si sono assuefatti al punto che questo “enorme tempo” attenua i drammi quotidiani, le sofferenze, in una rassegnazione che sì stupisce, ma, soprattutto, lascia attoniti quelli, come noi, che trascorrono l’esistenza in un susseguirsi di periodi che non sono mai uguali.
Giuseppe Bonaviri, fresco laureato in medicina, dopo gli studi a Catania e il servizio militare in Piemonte, ritorna al paese natio e lo riscopre, fra l’entusiasmo di chi avvia una carriera e l’umana profonda pietà che sgorga, costante, pur essa immensa, nel corso di tutto il romanzo.
La sua è una discesa in un girone infernale, dove la miseria si autoalimenta; lo accompagna un vigile sanitario che di volta in volta può somigliare al Virgilio della Divina Commedia, soprattutto quando insieme si abbandonano a pacate riflessioni, oppure al Sancho Panza, fedele scudiero di un Bonaviri-Don Chisciotte che combatte contro i mulini a vento dell’ottusità burocratica, della superstizione e del potere che toglie, con l’acqua, quel poco che la povera gente ha.
E’ una scrittura che ricorda quella del Sarto della strada lunga, incline a un verismo senza sconti, ma pur tuttavia di tanto in tanto impreziosita da quella vena fantastica che è propria dell’autore siciliano e che nell’accostamento fra la semplice solennità della natura e la tragedia dell’esistenza umana ricorda e riconduce l’uomo al suo ruolo nell’ambito della creazione.
Già gli inizi del libro, con il ritorno in treno e poi in corriera a Mineo, sono di quelli che non possono lasciare indifferenti, perché è l’omaggio dello scrittore, nonché poeta, alla sua terra (…Mentre il treno riprendeva ansimando il suo cammino verso Grammichele, la corriera, con un tonfo gorgogliante, s’avviava per il piano di Càllari in cui già mugolava e si doleva il vento…).
E’ evidente che ci troviamo di fronte a una forma espressiva quasi poetica, che ogni tanto si ripresenta nel corso del romanzo, a stemperare o anche ad accentuare per contrasto un profondo senso di tristezza per la gente del paese, vista nelle sue ataviche tradizioni, forse anche indisponente nel rifiuto del progresso, come nel caso delle vaccinazioni, ma anche accarezzata con affetto per la sua tribolata e ignota esistenza.
Dove tutto è fermo da secoli, accompagna gli esseri umani la rassegnazione propria dell’immobilità dentro l’enorme tempo e non sfugge a questa precarietà esistenziale anche il Dr. Giuseppe Bonaviri, in cui si affievoliscono poco a poco gli entusiasmi iniziali, la voglia di fare, il desiderio di cambiare, nei limiti delle sue possibilità, quella situazione.
In un paese dove perfino i morti dell’obitorio stanno all’acqua sotto il tetto sfondato e le case si stringono l’una all’altra quasi per farsi forza e continuare, gli episodi che conducono a una non ricercata commozione sono innumerevoli. Lì si vive in una sola camera, spesso assieme alle bestie, si nasce e si resta in attesa della morte, poco nutriti, senza avvenire se non la disperata emigrazione; Mineo finisce con il diventare il cimitero di se stesso, dove vivi e morti quasi si confondono, dove nulla cambia, in cui regna sovrano l’enorme tempo.
Mi pare superfluo aggiungere che ci troviamo di fronte a un romanzo bellissimo, da leggere e rileggere, perché nulla è lasciato al caso fra quelle righe, nulla è di troppo o di troppo poco, in un equilibrio stilistico che, non a caso, fa di Bonaviri uno dei grandi della letteratura. 

Giuseppe Bonaviri, nato nel 1924 a Mineo, in provincia di Catania, è scomparso nel 2009. Primo di cinque figli di un sarto, Bonaviri ha vissuto per anni a Frosinone dove ha esercitato la professione di medico. Fra le sue opere più note: L’incominciamento (1983), Il dottor Bilob (1994), Il vicolo blu (2003), L’incredibile storia di un cranio (2006), Il sarto della stradalunga (2006), La divina foresta (2008) e Notti sull’altura (2009).
Renzo Montagnoli

 

01/10/2010

Canale Mussolini di Antonio Pennacchi Edizioni Mondadori
Narrativa romanzo

Un'occasione sprecata

Una saga familiare per raccontare un'epoca non è certo una novità e non sono pochi gli autori, non solo italiani, che hanno scritto al riguardo. Ci ha provato anche Pennacchi, narrandoci delle vicende della famiglia Peruzzi, spostatasi, per necessità, dal rovigotto alle ex Paludi Pontine, risanate dall'intervento massiccio del regime fascista teso a dare nuova terra coltivabile agli italiani.
Si potrebbe pensare quindi a un romanzo storico e in parte Canale Mussolini lo è, ma è influenzato da quel desiderio di riappacificazione nazionale volto a riscrivere l'avvento e il dominio del fascismo, compito certamente difficile e in cui l'autore si è gettato a capofitto, evidenziando però carenze culturali e di approccio che fanno di quest'opera un libro sicuramente leggibile, ma anche approssimativo, dalle facili conclusioni che cadono come sentenze, in un quadro di eccessive semplificazioni dei problemi proprie di chi crede di sapere come siano andate effettivamente le cose perché convinto che la sua conoscenza sia completa e assoluta.
Alla base del romanzo quindi c'è un peccato di presunzione che finisce con l'inficiare la validità delle asserzioni, spesso gratuite, frutto non tanto di una disamina attenta, quanto di un credo politico.
Ed è un peccato perché l'idea di partenza era e resta buona e così, anziché trovarci di fronte a un rigoroso romanzo storico, scorre davanti agli occhi una lunga telenovela, con personaggi che sono degli stereotipi del socialista, dell'anarchico, del fascista, insomma una sorta di opera rientrante nella cultura nazionalpopolare, così cara ai regimi illiberali e feconda sia sotto il fascismo che sotto il governo dei soviet.
Ciò nonostante il libro riesce più di una volta ad avvincere, perché le vicende rientrano in quei percorsi della natura umana in cui tutti, chi più chi meno, ci ritroviamo.
Ci sono in effetti pagine da epopea, come quella della bonifica delle paludi, un racconto corale che ben si presta all'agiografia, anche se proprio lì si riscontra un atteggiamento didascalico che appesantisce il romanzo, in cui peraltro sono frequenti divagazioni, variazioni di tempi non sempre giustificabili, che finiscono per portare al lettore una certa stanchezza e comunque tale da fargli scorrere velocemente le pagine per ritrovare quelle di un discorso più snello e quindi più appagante.
Il ritmo della narrazione è altalenante, discontinuo, con improvvisi acuti seguiti da vere e proprie fasi di stanca, quasi che l'autore volesse prendere un po' di fiato e del resto si potrebbe dire che Pennacchi ricorre a un italiano più parlato che scritto, con frequenti frasi in un dialetto veneto un po' particolare, quasi modificato per aumentarne la comprensibilità.
Se l'impostazione colloquiale (l'autore si rivolge a un ipotetico lettore) è strutturalmente interessante, però, data la lunghezza del libro, finisce con l'annoiare e peraltro il testo stesso poteva essere ridotto alquanto, perché le frequenti divagazioni, che tirano in ballo anche personaggi occasionali e di scarso rilievo per l'opera, occupano non poche pagine.
In questo bilancio i difetti, fra i quali un uso della lingua italiana non proprio da manuale, sono parecchi e i pregi pochi; resta un certo fascino della vicenda che desta interesse, ma se questo consente di considerare il romanzo un prodotto nel complesso leggibile, le numerose pecche non giustificano assolutamente l'assegnazione del Premio Strega, che conferma ancora una volta lo scadimento delle ultime edizioni.

Antonio Pennacchi è nato a Latina il 26 gennaio 1950. Si appassiona alla politica fin da giovane, aderendo al Movimento Sociale Italiano, ma poi passa a sinistra con i marxisti-leninisti. Operaio dell'Alcatel muta continuamente opinione politica iscrivendosi al Partito Socialista Italiano e alla CGIL, da cui verrà espulso con l'accusa di essere un filo-brigatista. Entra quindi alla UIL, poi si iscrive al Partito Comunista Italiano e ritorna alla CGIL, da cui sarà nuovamente espulso. E' l'occasione per lasciare la politica attiva, per laurearsi sfruttando un periodo di cassa integrazione e per iniziare l'attività di scrittore.
Ha scritto, fra l'altro:
- Mammut (Donzelli, 1994);
- Palude. Storia d'amore, di spettri e di trapianti (Donzelli, 1995);
- Una nuvola rossa (Donzelli, 1998);
- Il fasciocomunista (Mondadori, 2003);
- Shaw 150. Storie di fabbrica e dintorni (Mondadori, 2006);
- Canale Mussolini (Mondadori, 2010).
Renzo Montagnoli

29/09/2010

I Viceré di Federico De Roberto Baldini Castoldi Dalai Editore

Narrativa romanzo
Collana Classici Tascabili

I Viceré è indubbiamente il romanzo più famoso di Federico De Roberto, un’opera piuttosto corposa che a stento ed eufemisticamente può rientrare in una collana di tascabili. Considerato da non pochi critici un autentico capolavoro (Sciascia addirittura scrive che dopo I Promessi Sposi è il più grande romanzo che conti la letteratura italiana), ma in un certo qual modo stroncato da Benedetto Croce (Il libro di De Roberto è prova di laboriosità, di cultura e anche di abilità nel maneggio della penna, ma è un’opera pesante, che non illumina l’intelletto come non fa mai battere il cuore) è in effetti un romanzo complesso, anche strutturalmente, e presenta luci e ombre, di cui tuttavia le seconde non ne intaccano l’intrinseca valenza.
E il valore è indubitabile, perché I Viceré, nel descrivere le vicende dei numerosi componenti della nobile famiglia siciliana Uzeda, finisce con l’essere la devastante biografia di una nazione, un’immagine impietosa di ciò che siamo noi italiani, con una narrazione impregnata da una forte vena critica e ironica.
La storia in effetti è costituita dalla vittoria, in apparenza, della rivoluzione patriottica siciliana e dal suo pratico insuccesso, con un esito quindi impietoso e deludente di tutto il processo risorgimentale, perché le risultanze siciliane vengono di fatto estese all’intero paese. In questo senso De Roberto è stato un’analista del fenomeno non solo attento a tutti i suoi risvolti, ma anche profetico, come infatti sembrerebbe testimoniare l’attuale situazione italiana, di Stato di forma, ma non di sostanza.
Per quanto ovvio balza subito alla mente un altro capolavoro, quel Gattopardo pur esso in grado di anticipare situazioni successive, ma scritto molto tempo dopo I viceré ed è quindi logico supporre fosse stato letto e in un certo qual senso preso a spunto e ad esempio da Tomasi di Lampedusa.
Dice bene Matteo Collura quando scrive che “Nel cospicuo contributo dato dagli scrittori siciliani alla moderna letteratura italiana, s’impone un dato costante: la delusione per la mancata rivoluzione promessa dal Risorgimento, il fallimento delle speranze dei meridionali nel compiersi dell’Unità d’Italia. Viene da lì gran parte dei mali che continuano ad affliggere questo Paese, la scarsa autorevolezza dello Stato, le divisioni e incomprensioni tra regioni del Nord e regioni del Sud e, propriamente oggi, il rischio dello scardinamento dell’unità nazionale.”.
Indubbiamente, basterebbe solo questa visione profetica per classificare I Viceré come un capolavoro, ma c’è dell’altro, quali la caratterizzazione dei personaggi, invero troppi, ma precisa e rappresentativa di modi d’essere e pensare, l’atmosfera quasi irreale di un corpo in decomposizione pronto però a trasmigrare in un altro, fermo restando l’obiettivo di conservare le proprie prerogative. Negli Uzeda c’è tutta una famiglia stranamente attuale, con vizi, furberie, astuzie, cialtronerie e perciò senza cuore. De Roberto non ha pietà per questi personaggi, ma non travalica mai il limite sottile fra avversione e odio, quasi da spettatore e cronista di fatti che avverte come emblemi di una realtà ben più grande.
Benedetto Croce non ha quindi compreso l’effettivo significato dell’opera, soprattutto quando dice che non illumina l’intelletto, forse perché aborre l’idea che quello stato di cui fa parte è una struttura altamente imperfetta che deriva dal fallimento delle idee risorgimentali, pregevoli, eccellenti nelle intenzioni, scomparse nella realizzazione.
L’opera è invece indubbiamente pesante, troppo lunga, e caratterizzata da un ritmo lento che induce a frequenti soste durante la lettura, difetto che tuttavia incide in modo trascurabile sull’effettivo rilevante valore.  
Da leggere, senza dubbio.

 Federico De Roberto (Napoli, 16 gennaio 1861 – Catania, 26 luglio 1927).
Opere (romanzi e raccolte di racconti):

-      La Sorte (1887);
-      Documenti Umani (1888);
-      Ermanno Raeli (1889);
-      Processi verbali (1890);
-      L’albero della scienza (1890);
-      L’illusione (1891);
-      I Viceré (1894);
-      Spasimo (1897);
-      La messa di nozze (1911);
-      Imperio, uscito postumo.
 Renzo Montagnoli

 

28/09/2010

 

  Il quinto libro di Alessandra Galdiero s'intitola "Sentire che stai male mi toglie il respiro… perdutamente" edito dalla CSA Editrice.
Un romanzo psicologico denso di passione in cui s'intrecciano amore e morte, immaginazione e poesia.
Andrea, il protagonista del libro, si sente perduto nel momento in cui la donna con cui ha condiviso la maggior parte del suo tempo lo abbandona a se stesso.
Lui si mostra come un uomo fragile, indifeso, che non riesce ad accettare il vuoto che si crea da quell'attimo. Entrando in contatto con la difficile realtà inizia la sua lotta contro tutto e tutti, uccidendo coloro che ama, ma da cui non si sente ricambiato e capito.
Vede attorno a sé solo tradimento e menzogna, guarda ogni cosa solamente dal suo punto di vista e tutto gli appare diverso da ciò che è. Si tratta di follia, di paura o di un errore di valutazione?
Quello che il protagonista vuole, che desidera ardentemente, è sincerità, fiducia e affetto. Ma incontra sul suo percorso solo delusione e incomprensione.
Andrea è frustrato da una vita spietata e non può fare a meno di bruciare dietro di lui tutto ciò che fa parte del passato, per poter ricominciare, per contrastare la sua solitudine, per ritrovare la verità.
Ma quello che scopre non è facile da accettare, gli sembra addirittura impossibile convivere con la nuova realtà che si va delineando dinanzi a lui. E il rimorso per gli sbagli commessi diventa una colpa da espiare…

… Forse tutto ciò che è osservabile è così come lo vediamo. Ma cosa c'è invece nel fondo dello stomaco? Quali sono le sensazioni che vibrano allo stato puro? Basta porsi delle domande per scoprirlo? Basta respirare per sentirsi vivi? E quando manca il respiro non siamo comunque vivi? E se questo libro rispondesse per noi almeno ad una di queste domande, non avremmo raggiunto uno stato d'incoscienza tale da essere in grado di capire quello che siamo veramente?

Citazione
I nemici vivono in casa, ci osservano, ci studiano, carpiscono le nostre debolezze e ce le puntano contro, fino a che siamo costretti a saltare dal grattacielo per non finire divorati dalle fiamme e per questo la nostra morte potrebbe quasi definirsi un suicidio...

Biografia
Alessandra Galdiero, scrittrice napoletana e dottoressa in scienze politiche, ha pubblicato Attraverso i miei occhi (L'autore Firenze Libri), Ritorno Andando (CSA Editrice), Non ho problemi a credermi (CSA Editrice) e La verità si offende (Il Filo).
È co-fondatrice del portale www.recensionelibro.it
Si può leggere di lei sul suo sito www.alessandragaldiero.it

 

21/09/2010

Bàrnabo delle montagne di Dino Buzzati Edizioni Mondadori

Narrativa romanzo
Collana Oscar scrittori moderni

Bàrnabo delle montagne, scritto nel 1933, è stato il primo romanzo di Dino Buzzati. Opera breve, tuttavia ha in sé i germi di tutta la produzione successiva, con l’immensità della montagna, raccolta in un silenzio al tempo stesso imperioso e sublime, che crea un’atmosfera magica tale da rapire l’attonito escursionista, o comunque da lentamente attrarre a sé l’uomo che ritrova in essa un senso della vita in completa armonia con il creato.
C’è anche l’attesa di Bàrnabo nel il desiderio di riscattarsi, attesa che sarà il fil rouge di un’opera successiva di grandissimo valore, Il deserto dei Tartari. In un certo senso il personaggio di Bàrnabo anticipa, pur in veste diversa, quello del tenente Drogo, in questo tempo sospeso che fa dimenticare il trascorrere dei giorni, stregati rispettivamente dalla montagna e dal deserto, tutti intenti inconsciamente a ricercare e a concretizzare un senso della propria esistenza.
La costruzione del racconto, denso di metafore, l’aria fiabesca che vi si respira nella comunione con una natura spettatrice imparziale dei tentativi dell’uomo di affermarsi come essere privilegiato, le descrizioni dei paesaggi, gli affascinanti misteri dell’ambiente evidenziano una propensione naturale di Buzzati verso il fantastico, ma contingentata ai luoghi dove egli, più che vissuto, ha soggiornato da appassionato escursionista.
E se Il deserto dei Tartari è stato ispirato dalla solitudine in cui si trovava da giornalista nella sua stanzetta presso Il corriere della sera, in Bàrnabo delle montagne c’è tutta la meraviglia verso la maestosità della montagna che lo accompagnerà per tutta la vita.
In particolare, oltre agli umani, sembrano avere un’anima anche gli alberi, i torrenti, il vento, la nuda roccia, circostanza che mi induce a pensare che in Buzzati sia emersa una visione celtica del mondo, propria di chi cerca di vivere in armonia con il creato.
Comunque si resta stupiti per il fascino di questa narrazione, per la fantasia che la pervade e che porta il lettore a fantasticare, a vedere questo mondo magico come se fosse presente, come se ne fosse parte.
La lettura, ovviamente, è più che raccomandabile.  

Dino Buzzati (Belluno 1906 - Milano 1972), tra i più originali autori italiani del Novecento, poco prima di laurearsi in Legge, nel 1928, entrò al "Corriere della Sera", di cui fu cronista, redattore e inviato speciale. Iniziò l'attività letteraria nel 1933 pubblicando Bàrnabo delle montagne, cui sono seguiti racconti di successo e numerosi romanzi tra i quali Il deserto dei Tartari resta il suo capolavoro. Fu anche disegnatore e pittore di talento.
Renzo Montagnoli

 

20/09/2010

L’uomo dei cerchi azzurri di Fred Vargas Editions Viviane Hamy 1996
Titolo originale: L’homme aux cercles bleus
Traduzione di Yasmina Melaouah
Ed. italiana Einaudi stile libero big
Noir

Quarta di copertina
Ciò che più desta curiosità è la scritta tracciata intorno a ogni cerchio in una bella grafia inclinata, colta, si direbbe, la frase che fa piombare gli psicologi in un mare di interrogativi: “Victor, malasorte, il domani è alle porte”.

Jean-Baptiste Adamsberg: l’avevano nominato commissario a Parigi, nel quinto arrondissement. Procedeva a piedi verso il nuovo ufficio, per il suo dodicesimo giorno. Diventato sbirro a 25 anni, nei Bassi Pirenei, dove aveva vissuto e risolto uno dietro l’altro  4 omicidi, era chiamato silvestre. E’ un uomo forse bello forse no, piccolino, vestito malissimo, che scarabocchia sempre qualche disegno sul lato del ginocchio destro piegato, invece di prendere appunti come un qualsiasi poliziotto nel corso delle indagini. Un uomo vago e lento nei gesti e nell’eloquio, “in certi momenti era più altrove che mai”, dalla figura piccola, solida e scura. Questo l’identikit, in breve, del poliziotto nato dalla penna di Fred Vargas,; ma che razza di tipo è questo? Si chiedono i colleghi parigini e noi lettori. Tipi strani questi commissari, solitari, ma dotati di una strana quanto inspiegabile fascinazione. Ha l’aura di genio dell’investigazione assemblata all’aspetto trasandato e niente di speciale, una complessiva trascuratezza del personaggio, Adamsberg, ma dalla voce piacevole ad udirla quasi come una carezza. Attorno ad un fatto apparentemente banale e di scarsa importanza investigativa, l’uomo che traccia durante la notte misteriosi cerchi azzurri, con un’inquietante scritta “Victor, malasorte, il domani è alle porte”,  dentro i quali giacciono oggetti abbandonati ormai privi di utilità e segnalati all’attenzione degli altri, Fred Vargas ordisce un preciso meccanismo narrativo, che si sviluppa in un crescendo di attesa. Tra  metodi investigativi sui generis di Adamsberg affiancato da Adrien Danglard, il suo ispettore preferito considerato reale, molto reale dal commissario, tra personaggi strambi come la scienziata Mathilde  Forestier, che segue e annota gli altri per strada, la settantenne Clémence Valmont, con un’unica idea, trovare un amore e un uomo, il cieco Charles Reyer ambiguo e misterioso, l’ometto Louis Le Nermond, professore bizantinista, si amalgama un buon romanzo poliziesco, dalla prosa semplice e dalla piacevole lettura. Il nome Fred Vargas è un marchio di garanzia di qualità, senza parlare di capolavori, la sua scrittura è ben calibrata tra riflessioni serie ed ironia lucida. L’idea di letteratura come rappresentazione della realtà immaginativa o riflessiva può essere accantonata quando un buon giallo, di livello alto, un genere, può far vagare e divagare la mente per puro senso della piacevolezza della lettura.    

L’autrice: Fred Vargas è lo pseudonimo di Frédérique Audouin-Rouzeau adottato in omaggio alla sorella Jo, una pittrice che nelle sue opere si firma appunto Vargas (Vargas è il cognome del personaggio interpretato da Ava Gardner nel film La contessa scalza). È nata a Parigi nel 1957, figlia di una chimica e di un surrealista. È ricercatrice di archeozoologia presso il Centro nazionale francese per le ricerche scientifiche (Cnrs), ed è specializzata in medievistica. Per 5 anni ha lavorato sui meccanismi di trasmissione della peste dagli animali agli uomini. Scrive ogni suo romanzo in 21 giorni, durante il periodo di vacanza che si concede ogni anno. Rivede poi il testo per 3 o 4 mesi, con il suo editor privilegiato: la sorella Jo. Scrive dall’85. Dal ’92 ha pubblicato quasi un libro all’anno. È tradotta in 22 lingue ed è considerata l’anti-Patricia Cornwell. Tra i suoi scritti: Io sono il tenebroso (200, 2003,2006), Chi è morto alzi la mano, Parti  in fretta e non tornare, L’uomo a rovescio,Prima di morire addio, I quattro fiumi, Le raccolte La trilogia Adamsberg, che riunisce le prime inchieste del commissario. Scorre la Senna, raccolta di tre racconti con protagonista il commissario Adamsberg e tanti altri…
Arcangela Cammalleri

 

19/09/2010

Il Consiglio d'Egitto di Leonardo Sciascia Adelphi Edizioni www.adelphi.it
Narrativa romanzo
Collana Gli Adelphi

Ieri come oggi
Il Consiglio d'Egitto è il primo romanzo storico di Leonardo Sciascia, scritto nel 1963, ricorrendo a una tecnica che sarà presente anche nelle opere successive, vale a dire con l'ambientazione in un tempo passato della vicenda, ma con il preciso scopo di criticare il presente. Così, con l'ironia e il sarcasmo che sono propri dell'autore siciliano, si narra dell'episodio dell'abate Vella, che sul finire del XVIII secolo ebbe la bella pensata di buggerare gli intellettuali siciliani e anche parte di quelli europei falsificando la traduzione di un codice arabo e poi costruendone uno completamente nuovo, grande esercizio di impostura svolto unicamente per trarne propri benefici.
La truffa, perché questo è il reato commesso, ha quasi dell'incredibile, ma è d'obbligo precisare che questo religioso ebbe l'indubbia capacità di attirare il positivo interesse dei nobili siciliani con il primo codice (Il Consiglio di Sicilia), mentre con il secondo (Il Consiglio d'Egitto) invece capovolse la situazione, con principi e baroni timorosi di perdere i loro secolari privilegi a vantaggio del Re.
Detto così sembrerebbe poca cosa, la semplice storia di un birbante, ma inserito nel contesto dell'epoca è rimarchevole l'intreccio fra l'impostura e il tentativo di modernizzare l'isola grazie all'opera dell'illuminato Viceré Caracciolo.
In effetti esisteva un dissidio, nemmeno tanto latente, fra la corona e la nobiltà sicula, privilegiata da secoli al punto da costituire nella scala sociale un'entità di potere autonoma, sulla quale il re poteva ben poco.
I fuochi della rivoluzione francese, lo spirito libertario ed egualitario che la stessa portava tuttavia finì per rinsaldare i legami fra il monarca e i suoi vassalli, spezzando e di fatto seppellendo ogni tentativo di modernizzazione.
Al personaggio emblematico dell'impostore si accompagna quello di chi invece ha voluto essere se stesso fino in fondo, quell'avvocato Francesco Paolo Di Blasi, illuminista ed eticamente convinto dell'uguaglianza degli uomini al punto di tentare di avviare una vera e propria rivoluzione; la congiura, scoperta prima di essere posta in atto, lo porterà prima all'arresto, poi alla tortura e infine alla condanna a morte per decapitazione. Per quanto il paragone possa sembrare distonico, la figura dell'abate, scoperto nell'inganno e rinchiuso in carcere, è una luce viva che poco a poco si spegne, mentre quella del cospiratore è una lampada che, anche dopo la sua morte, arde soave, un segno di speranza per un futuro, anche se molto di là a venire. Infatti, Di Blasi ha provato almeno a smuovere le acque, torbide, limacciose della forza parassita che domina in Sicilia, ieri come oggi, ieri i nobili, oggi la mafia.
L'ultimo capitolo, quello della esecuzione della sentenza di morte del cospiratore, è di rara e incomparabile bellezza, poche pagine preziose che chiudono nel migliore dei modi un romanzo di grande valore.

Leonardo Sciascia (Racalmuto, 8 gennaio 1921 – Palermo, 20 novembre 1989). E’ stato autore di saggi e romanzi, fra cui: Le parrocchie di Regalpietra (Laterza, 1956),  Il giorno della civetta (Einaudi, 1961), Il consiglio d’Egitto (Einaudi, 1963), A ciascuno il suo (Einaudi, 1966), Il contesto (Einaudi, 1971), Atti relativi alla morte di Raymond Roussel (Esse Editrice, 1971), Todo modo (Einaudi, 1974), La scomparsa di Majorana (Einaudi, 1975), I pugnalatori (Einaudi, 1976), Candido, ovvero Un sogno fatto in Sicilia (Einaudi, 1977), L’affaire Moro (Sellerio, 1978), Il teatro della memoria (Einaudi, 1981), La sentenza memorabile (Sellerio, 1982),  Il cavaliere e la morte (Adelphi, 1988), Una storia semplice (Adelphi, 1989).
Renzo Montagnoli

 

Il cinese di Henning Mankell Ed. Marsilio

Genere Thriller politico
Titolo originale Kinesen
Traduzione di Giorgio Puleo

In un villaggio svedese, a Hesjövallen, avviene una strage: 19 corpi trucidati, tutti di persone anziane tranne quello di un ragazzino di circa 12 anni, vengono ritrovati  nelle loro case. 19 nomi, tre famiglie, un corpo dopo l’altro, tutti contraddistinti dallo stesso furore folle, le stesse ferite inferte con un’arma affilata. Non è una normale indagine, tutto è così orribile da risultare incomprensibile. La responsabilità del caso è affidata  alla poliziotta Vivi Sundberg, tenace e con una grande capacità di analizzare anche i più piccoli indizi. Per una strana e misteriosa tela di parentele sarà coinvolta nell’inchiesta, sia pure non in forma ufficiale, il giudice Birgitta Roslin. Da questo truce fatto di sangue si dirama una storia le cui radici affondano in un lontano passato lungo 140 anni. Dalle gelide foreste scandinave attraverso differenti piani temporali la trama si snoderà in Cina,  negli USA, in Africa per ricomporre il suo tragico epilogo in Svezia.
Mankell costruisce un libro corposo, una storia d’ampio spettro storico e riesce a dar vita ad un quadro di vite consunte dalla vendetta e dalla sete di riscatto sociale. Un frammento di storia, nell’800 molti cinesi furono venduti e sfruttati come schiavi in USA, nel Nevada, durante la costruzione della ferrovia, racconta con toni forti e partecipi la condizione di chi non ha riconosciuti nemmeno i più elementari diritti umani e soffre della propria dignità offesa. Di quanto la via del progresso e del profitto economico abbiano sacrificato migliaia di vite umane. Il passato, a volte, quando è stato troppo doloroso non si dimentica e l’odio è un fiele che avvelena l’esistenza.
Dall’inizio della storia al suo svolgimento, il lettore è trasportato all’interno di un’altra storia  a tinte fosche che costituisce il corpo centrale del plot  in cui si dispiegano le vicende umane di Wang San, di Ya Ru, di Liu… Il diario di San esprime la rabbia cresciuta dentro di sé, il  viaggio umano nel dolore di un uomo e lo scrive perché  i suoi discendenti non dimentichino le ingiustizie subite. L’ingiustizia pesava su tutta la Cina. La parte finale si ricollega all’inizio come uno schema concentrico. Mankell racconta della Cina di Mao, del movimento contadino convinto di sollevarsi dalla miseria e che ha fatto enormi passi avanti, ma devono i cinesi ancora combattere contro la miseria che è ancora grande. Il cammino è ancora lungo.  La Cina pre-olimpiade che ai suoi vertici ordisce trame politiche e i cui leader moderni si sono sostituiti ai vecchi capi del partito comunista con metodi corrotti e antidemocratici. L’eterno scontro tra gli ideali che non riescono a sopravvivere alle pressioni di una    realtà che i vecchi teorici non avevano mai compreso.
Mankell intreccia il genere giallo e quello storico in modo naturale senza discrepanze  stilistiche né di  contenuto, tutto viene ricomposto nella sua giusta collocazione. I personaggi si delineano man man che ci si addentra nello scritto, la loro natura umana  emerge in tutte le proprie sfaccettature.
È un romanzo interessante che appassiona sin dalle prime pagine e  si legge come “si suol dire” tutto di un fiato.

L’autore. Henning Mankell, scrittore e regista teatrale, è nato a Stoccolma nel 1948, vive tra la Svezia e il Monzambico. Dal 1998 è sposato con la regista teatrale e televisiva Eva Bergman, figlia di Ingmar Bergman. È autore dei gialli con protagonista il commissario Wallander, nove episodi tradotti in 40 lingue che hanno venduto nel mondo 30 milioni di copie. La serie comprende i titoli: Assassino senza volto, I cani di Riga, La leonessa bianca, L’uomo che sorrideva, La falsa pista, La quinta donna, Delitto di mezza estate, Muro di fuoco e Piramide. A ottobre 2010 verrà pubblicato L’uomo inquieto, l’ultimo caso del commissario Wallander. Nel catalogo Marsilio, anche i gialli Il ritorno del maestro di danza, Il cinese, e il libro testimonianza Io muoio, ma il ricordo vive. Un’altra battaglia contro l’Aids.
Arcangela Cammalleri

 

17/09/2010

Appena finirà di piovere di Aurelio Zucchi
Non amo molto la parola "poeta" perché troppo spesso viene abbinata a chi poesia non fa. Non basta scrivere poesie in un sito di scrittura per essere poeta. Così facendo si finisce con lo svilire chi poesia fa davvero.

E poesia fa davvero Aurelio Zucchi che - dopo aver favorevolmente sorpreso la critica col suo romanzo "Viaggio in V classe" - fa ancora bingo con questa splendida raccolta di poesie dall'accattivante titolo "Appena finirà di piovere", editato dalla Global Press Italia.

È uno splendido viaggio tra i pensieri dell'autore che trovano forma e sostanza nel suo modo di approcciare la poesia: semplice, ma con quella capacità di "colorare" ogni verso che è tipico solo di chi "sa dipingere" con le Parole.

Aurelio Zucchi in questa difficile arte è splendido maestro: egli riesce a liberare un potenziale creativo capace di determinare in modo nuovo i concetti stessi di "soggetto" e di "realtà".

In particolare, l'analisi critica del linguaggio, dei luoghi e degli spazi avviene attraverso un radicale confronto con un'immagine che non c'è e che pure, se chiudete gli occhi, si palesa e sembra assumere un valore quasi filosofico. Un esempio di ciò si evince fortemente in "Datemi un'alba" dove i versi che vedono […Gino, mio fratello, / equilibrista sullo scoglio nero] richiamano un paesaggio di Gauguin.

Nella sua poesia solare traspare Monet, mentre in quella introspettiva è un trionfo di fiamminghi per trasformarsi in un Rousseau il doganiere nei suoi ricordi d'infanzia verseggiati in modo naif, assumendo connotazione fortemente romantica nella sezione "Lei", degna dell'affascinante Modì.

Così - di volta in volta - l'autore propone gli attimi della sua vita, da una Reggio Calabria, sempre nel cuore, ad una Roma che l'ha adottato come figlio meritevole.

Personalmente trovo che è nei ricordi del mare, del suo mare, che l'essenza poetica di Aurelio Zucchi esplode con tutta la sua irruente bellezza! Perché qui ritrovo sia la mimesi sia la catarsi. La poetica di Aurelio Zucchi la racchiude il pensiero aristotelico: "alcune cose che la natura non sa fare, l'arte le fa."

E mi tornano alla mente le parole di un grandissimo Robin Williams ne "L'attimo fuggente", di Peter Wieir: "Noi leggiamo e scriviamo poesie perché siamo membri della razza umana, e la razza umana è piena di passione. Medicina, legge, economia e ingegneria sono professioni necessarie al nostro sostentamento, ma la poesia, la bellezza, l'amore… sono queste le cose che ci tengono in vita."

Fin quando ci saranno autori come Aurelio Zucchi è sicuramente vero.
Danilo Mar
 

14/09/2010

Muti e Fuggenti
Poesie in amore al mondo e alle sue creature
di Anna Amadori Lizzeri
Prefazione dell’autrice
Edizioni Il Foglio Letterario
www.ilfoglioletterario.it
 

Già nella sua precedente silloge “Poesie per ricordare” (La riflessione, 2008) Anna Amadori aveva trattato dei tre temi cardinali di ogni esistenza, con l’amore che è tormento e passione, con le grandi domande senza risposte certe concernenti la vita e con l’inevitabile conclusione della stessa, quella morte che tutti ci accoglie, quasi beffarda per la nostra incoscienza e alterigia che ci può indurre ad esserle superiori.
In questa nuova raccolta ritornano questi temi, ma con una visuale diversa, quasi un’analisi dei risultati dell’evoluzione della specie, di questi minuscoli esseri che credono di essere sopra ogni cosa e che finiscono con il diventare così carnefici e vittime di un’illusione irrazionale che mortifica, anziché esaltare, l’esistenza.
Come precisa l’autrice nella sua prefazione l’umanità è diventata così muta e fuggente, cioè isolata e prigioniera della sua condizione. Il progresso e l’evoluzione hanno cambiato con i sentimenti anche il senso della vita di ognuno di noi, ci hanno indotto a credere che la scienza ci possa consentire di essere speciali e avulsi dalla realtà naturale, che inquadra ogni essere vitale in un disegno dal delicato equilibrio, minato dalle inevitabili conseguenze di ordine materiale e, soprattutto, comportamentale determinate dalla nostra assurda idea di predominio. E’ inutile illudersi che se si vive di più si possa vivere in eterno, è inutile credere che la nostra realizzazione di uomini sia nel metterci al centro dell’attenzione, di elevarci insomma quasi a divinità. Come il fiore che nasce e muore, anche l’uomo ha lo stesso percorso obbligato, con la differenza che il suo egoismo, l’egocentrismo a livelli esponenziali lo porterà a una morte in solitudine, chiaro risultato di un’esistenza inutile.
Anna Amadori è ovviamente parte di questa umanità, ma la sua amara constatazione si accompagna a un autentico senso di pietas, virtù sempre più rara che la porta ad amare gli altri, indipendentemente dal loro comportamento, anzi a stringerli a sé quanto maggiore è la loro responsabilità di azioni e atti contro gli altri e inconsciamente contro se stessi.
In particolare la poetessa tiene a che non si spenga il ricordo, cioè l’unica forma di perpetuare la vita oltre la morte, soffocato com’é da vanaglorie, egoismi e indifferenza, e al riguardo particolarmente esplicativa è la poesia iniziale, che dà il titolo all’intera raccolta, ma che è anche il filo conduttore della stessa (Muti e fuggenti - Muti e fuggenti / anonimi volti, / prigionieri di catene / da egoismo e vanagloria / saldate. / Simulacri atei / di loro stessi,/ vacui fantasmi / su dimenticati sepolcri.). Pochi versi, incisivi, senz’altro anche sofferti, ma non urlati, anzi percorsi da un adagio quasi mistico che è il riscontro della pietà che li ha ispirati.
Ma se l’uomo con il progresso è cambiato, non ha saputo cogliere la verità che ogni scoperta svela (la nostra nullità, la nostra impotenza, la comprensione di essere piccoli ingranaggi in una macchina che mai comprenderemo), la natura è rimasta la stessa, e così gli animali e i vegetali, consapevoli forse inconsciamente della grandezza del disegno di cui umilmente fanno parte (Farfalla - Non ti dolere / amorfa crisalide / amaro abbozzo di farfalla, / le ali al mondo non / spiegasti ancora, / adorne / degli opalescenti colori. /…) oppure ( Gabbiano -  Con maestoso volo / e plano d’ali, / t’è giocoso / burlar le rade / nubi / sfidando l’azzurro cielo. /…).
E senza dilungarmi ancora, perché è giusto che chi leggerà possa scoprire piacevolmente versi particolarmente pregnanti, non mi resta, ovviamente, che raccomandare questa raccolta all’attenzione di chi ama la poesia, una poesia fatta a misura d’uomo, comprensibile, a tratti anche soave, eppur profonda. 

Anna Amadori nasce a Sassari il 16 gennaio 1972, città in cui vive e lavora come libera professionista.  Laureata in giurisprudenza è sposata e madre di tre figli; alla passione per la scrittura accompagna quella per la musica, per la lettura e per la storia antica. Oltre ad una pubblicazione scientifica su una rivista medica nel 2004, ha pubblicato come coautrice, sempre nello stesso anno, una monografia sul tema della violenza sessuale sui minori in Sardegna, edita da “Scuola Sarda Editrice”.Nel 2008 ha pubblicato la silloge “Poesie per ricordare” (La Riflessione).
Renzo Montagnoli

 

13/09/2010

L’ultimo libro di Zoran Živkovic Ed.Tea
Romanzo noir
Traduzione dal serbo di Jelena Mirkovic e Elisabetta Boscolo Gnolo

Un thriller evocativo di atmosfere oniriche e surreali. Un’ appassionante lettura dal contenuto metaletterario.
Questo romanzo è un thriller postmoderno sulle orme di Borges, a detta di tanti critici, la cui trama ricorda alla lontana Il nome della rosa di Umberto Eco.
Il protagonista della storia è il libro e precisamente l’ultimo libro che svelerà il mistero di cui è intricato il plot.
La trama sarà solo accennata per non togliere la suspense a chi vorrebbe leggere il romanzo.
Delle morti si susseguono, luogo inusuale, in una libreria Il Papiro, mentre abituali clienti stanno leggendo un libro. L’ispettore Dejan Lukic, le due libraie Vera Gavrilovic e Olga Bogdanovic indagano alla ricerca di motivazioni e colpevoli di questi decessi inspiegabili, ma la soluzione dell’enigma sarà inaspettata e imprevedibile, al limite del paradossale e metafisico.
Sullo sfondo della capitale serba, ai giorni nostri, in giornate autunnale e piovose, scorrono sensazioni di déjà lu, immagini oniriche ed incubi surreali; scaffali di libri come montagne sovrastanti occupano le pagine del romanzo. La libreria, la sala da tè in cui si consuma un cerimoniale tanto raffinato quanto orientale, in un’atmosfera di esalazioni di essenze che sovrapponendosi inebriano, l’edificio di medicina legale grigio e cupo, oltre un’alta recinzione, una villa segreta, luogo d’incontri di una setta di incappucciati, tutto secondo un sistema rigido proprio di un ordine segreto, sono gli ambienti in cui si muovono i personaggi della storia. Tema dominante è la letteratura e i suoi rapporti intercorrenti con l’autore: dov’è il confine tra immaginazione e realtà? In una fascinazione misteriosa si dipanano sogni e fantasia.
Sulla superficie della letteratura, della cultura libresca e dell’amore per la scrittura, l’autore inventa una storia dal sottofondo scuro e criptico. Il libro e il suo ambiguo contenuto di verità e menzogna diventa un sortilegio che confonde e spiazza. Lo stereotipo dell’equazione: giallo uguale bassa letteratura è da Živkovic superato; l’alta letteratura non si nutre di generi letterari, li travalica!
In uno stile alto, fascinoso e scorrevole, il romanzo s’incentra su un’idea vincente, un’emozione, un’invenzione godibile e fruibile per tutti quelli che amano le buone letture.

 L’Autore: Zoran Živkovic è nato nel 1948 a Belgrado dove vive con la moglie e i due figli gemelli. Ha compiuto gli studi di filologia e teoria della letteratura all’università della sua città. Ha pubblicato diciotto volumi di narrativa e cinque di saggistica, con i quali ha vinto numerosi premi, in patria e all’estero. Le sue opere sono tradotte in molti Paesi tra i quali Danimarca, Francia, Germania, Giappone, Inghilterra, Olanda Russia, Spagna, Stati Uniti e Ucraina.
Il suo blog è zoranzivkovic.wordpress.com.
Arcangela Cammalleri

 

Il deserto dei tartari di Dino Buzzati Mondadori Editore

Narrativa romanzo
Collana Oscar scrittori moderni

L’attesa

Dino Buzzati, giornalista e scrittore, nei suoi romanzi fugge dalla realtà per fornirci una visione onirica della stessa, entrando a far parte, con pieno merito, della elite degli autori del genere fantastico. Il ricorso alla metafora per esprimersi raggiunge in lui vette eccelse e del resto la sua opera più celebre, Il deserto dei tartari, cosa è se non una metafora della vita degli uomini, sempre in attesa di un evento che non sanno nemmeno immaginare e che finirà con il concretizzarsi sempre nella morte?
E’ ciò che accade al tenente Giovanni Drogo, protagonista di una vita che potremmo definire anche non vita e che arriva come sua prima destinazione alla Fortezza Bastiani, l’estremo avamposto  dell’impero, oltre il quale si stende una landa deserta, del tutto inanimata.
In un lontano passato lì correvano a briglia sciolta i tartari, durante le loro incursioni, ma ora non c’è che silenzio e invano tutta la guarnigione attende di veder comparire un ipotetico nemico, in uno scorrere monotono del tempo che finisce con il segregare i militari, per renderli prigionieri di se stessi, come giocatori accaniti di carte sempre fiduciosi nel colpo della loro vita.
Benchè Drogo arrivi alla fortezza convinto di restarvi per poco, piano piano viene ammaliato da quell’atmosfera di tempo sospeso e, se da un lato, ci sono i buoni motivi per essere destinato altrove, dall’altro più pressanti, più forti sono le inconsce ragioni per rimanere.
In una vita in cui tutto è ripetitivo e regolato dalla struttura militare il giovane tenente si assopisce nel sogno di una prossima calata dei tartari, in battaglie in cui coprirsi di gloria, vivendo, di fatto, due vite, ma alla fin fine non vivendone nessuna.
Solo dopo 15 anni di permanenza si accorgerà del tempo trascorso, di quella giovinezza appassita nel nulla e sfuggitagli di mano “la prima sera che fece le scale un gradino per volta.”.
E’ troppo tardi per ricominciare e del resto la malìa della fortezza, se lascia squarci di lucidità, è solo perché, nella consapevolezza di non poter rimediare, ravviva il sogno per il quale restare.
Passano altri anni, Drogo invecchia e proprio quando sta per lasciare quel luogo, minato da una grave malattia, per ironia della sorte il deserto si anima e i tartari attaccano.
Il tenente morirà in solitudine, nella camera di un’anonima locanda della città, cercando tuttavia di comprendere il senso della sua vita.  E così si convince che l’autentica missione, quella suprema, è quella a cui sta andando incontro e in cui proverà tutto il suo valore; affronterà così la morte con dignità “mangiato dal male, esiliato tra ignota gente”.  Ha combattuto una sola battaglia, quella autentica, da cui non si esce mai vincitori, ma grazie alla quale, pur vinti, è possibile dare un senso anche ultraterreno a tutta un’esistenza.
“La porta della camera palpita con uno scricchiolio leggero. Forse è un soffio di vento, un semplice risucchio d’aria di queste inquiete notti di primavera. Forse è invece lei che è entrata, con passo silenzioso, e adesso sta avvicinandosi alla poltrona di Drogo. Facendosi forza, Giovanni raddrizza un po’ il busto, si assesta con una mano il colletto dell’uniforme, dà ancora uno sguardo fuori dalla finestra, una brevissima occhiata, per l’ultima sua porzione di stelle. Poi nel buio, benché nessuno lo veda, sorride.”

 Dal romanzo, pubblicato nel 1940, è stato tratto nel 1976  un bellissimo film diretto da Valero Zurlini.

 Da leggere il romanzo, perché è stupendo, e da vedere il film, perché è una pellicola di grande pregio.

Dino Buzzati Traverso nacque a San Pellegrino di Belluno il 16 ottobre 1906 e morì a Milano il 28 gennaio 1972. Scrittore, giornalista e pittore è autore dei seguenti romanzi: Bàrnabo delle montagne, Il segreto del Bosco Vecchio, Il deserto dei Tartari, La famosa invasione degli orsi in Sicilia, Il grande ritratto, Un amore.
Renzo Montagnoli

 

Opera settima
- L’Equinozio del tempo –
di Davide Vaccino

Prefazione dell’autore
A cura di Enigma Divì
Collana Autori contemporanei Poesia
 

La poesia di Davide Vaccino è permeata da un profondo pessimismo, che muove da una visione malinconica della vita, come se l’autore si chiedesse continuamente che logica c’è nel condurre l’esistenza fra le poche gioie e i molti dolori per concluderla poi inderogabilmente con il passaggio di quella porta oscura oltre la quale non vi sono certezze, ma al più speranze.
Già in Presenze e Assenze, edito dal Foglio Letterario, avevo riscontrato questa caratteristica, che trova conferma ulteriore in questa Opera Settima – L’equinozio del tempo - , come del resto precisa Vaccino nella prefazione da lui stesso stilata.
Il problema esistenziale, che è di tutti, in questo poeta assume una veste di particolare drammaticità al punto che vive proprio solo di esso e questo fa sì che a volte possa apparire anche un po’ cinico, ma è solo una parvenza, perché quel flusso di angoscia sottile che, racchiusa nel suo animo, permea i versi non è frutto di uno sguardo disincantato, bensì di un deluso che, nonostante tutto, cerca ancora la sua illusione  (…/ ché il Paradiso / può aprirsi a chiunque, / si dice, / e, dunque, io, mi ergo / a Cristo in Croce.). E il pessimismo si accompagna a momenti di scoramento, come se la visione di un buio incipiente venisse stretta nella morsa delle tenebre (…/ Il mio albero, ora, / è un frutice spoglio.) .
Eppure, fondamentalmente, il poeta è legato alla vita, certamente insoddisfacente, pessima, incongruente, irreale nella sua realtà, non rispondente al suo anelito, ma per lui è motivo di confronto, è occasione per analisi interiore, è passaggio nel deserto, ma è ciò che si trova per le mani e che se non riesce ad assaporare, è comunque tutto ciò che possiede, unico bene, unico dolore (…/si capisce d’essere vivi / quando viene la Sera.) (…/Seppellitemi con una poesia / scritta in momenti gioiosi / che narri di giorni felici / che narri di giorni felici /…).
Non a caso poi le liriche sono precedute dall’aforisma di un altro autore, che dalla vita ebbe ben poco se non la soddisfazioni di esprimersi in poesia a livelli eccelsi;  sono dell’opinione che queste poche parole siano idonee,  molto di più delle mie, a delineare, in breve e con precisione, la poetica di Vaccino. Giovanni Pascoli, uno dei miei poeti preferiti, infatti scrive: Confessa, / che è mai la vita? / E’ l’ombra / d’un sogno fuggente.
Opera settima non è un ombra, ma raccoglie la penombra di un animo, lo sfogo di un poeta in cerca di sé.
Da leggere, senz’altro.

Davide Vaccino, Cavaliere della Poesia, Cavajer ëd le Tradission, nonché Medaglia d’Argento e di Bronzo conferitegli dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, è  nato a Vercelli l’otto settembre del 1970.
Nella sua carriera artistica, iniziata nei primi anni Ottanta, a soli 9 anni e concretizzatasi professionalmente intorno alla metà dei Novanta, l’Autore piemontese ha conseguito 95 Onorificenze, Premi e Riconoscimenti.
Un referendum promosso nel 1998 dal quotidiano “La Stampa” ha indicato Vaccino fra i quattro personaggi vercellesi più apprezzati.
Numerose sue liriche sono state tradotte in inglese, francese, spagnolo, tedesco e in vari dialetti nazionali, diventando oggetto di studio in diverse scuole ed università europee, venendo anche pubblicate su almeno 20 antologie italiane e straniere; inoltre, dal 1999 ad oggi Davide Vaccino è organizzatore, insieme a tre Amministrazioni comunali, del prestigioso Premio di Poesia “Albano Greggio Oldenico”, di cui è mente e Presidente di Giuria.
Ha pubblicatole sillogi:
1996:
- Frammenti di Pazzia.
1999:
- Benvenuti nel Crepuscolo.
2001:
- Passaggi: Canti di Demoni e di Dei.
2004:
- Alba Priméva.
2006:
- Le Catacombe dell'Anima.
2008:
- Presenze e Assenze.
2010:
- Opera Settima - L'Equinozio del Tempo
Renzo Montagnoli

 

24/08/2010

Il fuoco nel mare di Leonardo Sciascia Adelphi Edizioni www.adelphi.it
a cura di Paolo Squillacioti

Narrativa racconti
Collana Biblioteca Adelphi

Contrasti insanabili

I libri di racconti non hanno mai avuto in Italia una particolare fortuna, il che, soprattutto nell’epoca attuale, in cui il tempo è sempre breve, appare alquanto illogico. Leggere poche pagine che avviano e concludono un discorso è fattibile in ogni circostanza, durante un viaggio in treno o anche fra un bagno e l’altro nel corso delle vacanze. Eppure il racconto, lo scritto breve ha sue valenze particolari, ma richiede una capacità di sintesi che non è propria di tutti gli autori. E poi è ancor più difficile coniugare lo svago con la profondità del discorso, con quelle riflessioni imposte da un angolo di visuale che potremmo definire a 360 gradi. Sciascia ci riesce benissimo e questa raccolta di brani realizzati per lo più fra il 1956 e il 1970, oltre a essere godibilissima, ripropone in modo chiaro le ben note qualità dello scrittore siciliano. La fine analisi psicologica, non disgiunta da una attenta indagine sociologica, conducono per mano il lettore a una rivisitazione della Sicilia, ma per estensione, soprattutto dei difetti, dell’intera Italia.
Del resto, sono brani tutti percorsi dalla sottile ironia di Sciascia, teso a evidenziare i contrasti di un’isola dove luce e buio riescono a convivere, dove, appunto, è presente Il fuoco nel mare, il titolo dell’ultimo, una straordinaria favola in cui la metafora appare lucida, pregnante, densa di quel significato che è tanto caro all’autore.
Ma c’è posto anche per le miserie umane, come quella di Calcedonio Fiumara, divenuto ricco nel tempo al pari del suo egoismo e che teme la morte solo per la fine che possono fare le sue fortune, che non dovranno dare gioia a chi le avrà, come gioia non ne ha provato mai nemmeno lui. E che dire poi di Una storia vera, una di quelle cronachette che nelle mani di Sciascia si dilatano fino a diventare l’emblema di un popolo che crede ai marziani e non sa che cosa sia la mafia.
Nell’analizzare quel presente, nel ripercorrere comuni vizi, si legge poi il futuro, cioè l’oggi, con una denuncia implacabile della classe politica, in eterno contrasto fra l’apparire e l’essere, una nota ben presente nella visione del mondo da parte di Sciascia e immancabile in tutte le sue opere.
Sono racconti che sembrano non percorsi da un filo comune, ma invece, letti tutti, apparirà in tutta la sua evidenza il perché possa esistere il fuoco nel mare, il perché si possa essere tutto e il contrario di tutto, in un’analisi attenta, per nulla greve, inconfondibilmente sciasciana.
Da leggere, senza alcun dubbio.

Leonardo Sciascia (Racalmuto, 8 gennaio 1921 – Palermo, 20 novembre 1989). E’ stato autore di saggi e romanzi, fra cui: Le parrocchie di Regalpietra (Laterza, 1956),  Il giorno della civetta (Einaudi, 1961), Il consiglio d’Egitto (Einaudi, 1963), A ciascuno il suo (Einaudi, 1966), Il contesto (Einaudi, 1971), Atti relativi alla morte di Raymond Roussel (Esse Editrice, 1971), Todo modo (Einaudi, 1974), La scomparsa di Majorana (Einaudi, 1975), I pugnalatori (Einaudi, 1976), Candido, ovvero Un sogno fatto in Sicilia (Einaudi, 1977), L’affaire Moro (Sellerio, 1978), Il teatro della memoria (Einaudi, 1981), La sentenza memorabile (Sellerio, 1982),  Il cavaliere e la morte (Adelphi, 1988), Una storia semplice (Adelphi, 1989).
Renzo Montagnoli

 

2370872010

pannALimone
di Tinti Baldini e Flavio Zago
Note critiche introduttive
di Marcello Plavier e Maria Cristina Vergnasco
Autorinediti
www.autorinediti.it

Poesia

Dolce e aspro

Strana raccolta di poesie, strana anche perché non è frequente che due autori si mettano insieme per scrivere a tema, uno indipendentemente dall’altro o anche congiuntamente.
Peraltro, già il titolo, con cui si coniuga la candida e per lo più dolce panna con il giallo e aspro limone, lascia propendere a un modo diverso di affrontare e svolgere le tematiche, in un contrasto di visioni, acuito dall’asprezza che si accompagna alla quieta e serafica visuale delle cose.
Così, come nel caso dell’amore, alla veemenza di Tinti (Amami ancora / con nocche scarne / e rughe di taglio /…) si contrappone la soavità di Flavio (Per te sarei grano, / per inventarti valle; / mi farei madre / per ambirti figlia, /…).
Questioni di indole, indubbiamente, ma è evidente che panna può essere benissimo Zago, mentre il limone meglio si addice a Tinti. Sarà proprio così? Propendo per il sì, perché, pur non avendo mai letto nulla prima di Flavio, conosco bene la poetica di Baldini, in cui a volte lo sdegno quasi iroso prevale in modo marcato, animando i versi di un impeto travolgente.
Tuttavia, a complicare le cose, figurano anche alcune poesie scritte insieme, in cui l’amalgama fra panna e limone porta a risultati che vanno oltre le aspettative, come in Il tuo mare (Vivi il tuo mare, / possente di creste / schiumate / e fluenti / seriche pieghe, / ornate di suoni / struscianti / e sferzate / su rive d’attese / in granelli di credo /…). Ecco così che l’aspro si stempera, pur senza perdere il suo originario gusto, così come il delicato si irrobustisce, conservando comunque la sua indole caratteristica.
E’ evidente che questa esperienza di scrittura e di pubblicazione, tutta tesa ai contrasti, può far perdere di vista l’analisi indipendente, autonoma di ogni singolo testo, e questo è da evitare, proprio per assaporare il gusto pieno, che sia aspro o che sia dolce, portato dai versi, liberi, anzi sciolti, tesi al risultato di evidenziare il messaggio, pur senza scadere nella banalità o comunque nella quotidianità dell’espressione (In questa notte / solitaria di suoni / canta tu solo / al mio orecchio / canta in ardente fuoco. / …)    (… Anche la stanza canta / all’unisono / col nostro fiato / si strugge, / confonde, ci cinge / e / incanta.).
Da leggere, con calma e attenzione.

Tinti Baldini
Di origine langarola,insegnante in pensione, due figli e due nipotine, già nel percorso di docente, nei laboratori di scrittura creativa, con i ragazzi ho cominciato a buttare giù emozioni e le è diventato indispensabile,fa parte di lei. Ha pubblicato una silloge "Segni"con Altromondo editore e molte poesie sono su blog di amici cari. Nella raccolta"Panna al limone"si è cimentata a specchiarsi in un altro e al riguardo ha dichiarato che è stata una esperienza molto stimolante.

Flavio Zago
Di sé dichiara che scrive da sempre, non seguendo stili ma concedendosi al momento.
Ama la semplicità e questo ricerca nelle sue composizioni, che ha iniziato a far conoscere nel 2002, pubblicandole sul sito Internet “Poetare” e successivamente sul suo blog Cantiere Poesia.
Renzo Montagnoli

 

18/08/2010

Fiume pagano di Laura Costantini e Loredana Falcone Historica Edizioni www.historicaweb.com
Introduzione delle autrici
Foto di copertina e di quarta
di Maurizio Distefano
Narrativa romanzo

Vestali in giallo

Questa volta le due simpatiche narratrici romane hanno voluto giocare in casa, in una città eterna in cui il desiderio di alcuni di rivederla come Caput mundi si confonde con la nebbia di un febbraio che ricorda un po' Milano.
La scelta del luogo di residenza, imposta peraltro dalla tematica, ha giovato indubbiamente alla narrazione, con la riscoperta di aspetti meno turistici di Roma e più pregnanti per la sua popolazione.
Accadono cose strane in quei giorni di carnevale, con clochard che si buttano giù dai ponti, affogando miseramente nel Tevere, indotti al suicidio da una misteriosa figura femminile, una donna velata che aspira a restaurare il culto per la dea Vesta. Se consideriamo poi che esiste un'associazione culturale, la Brigata Coclite, che si prefigge di rivalutare il ruolo di Roma, offuscato dal Papato, ci sono tutti i motivi per pensare che stia divampando un neopaganesimo.
I suicidi si susseguono, senza che riescano a venire a capo dell'indagine un simpatico giornalista, Nemo Rossini, e un maresciallo dei carabinieri, Quirino Vergassola. Ma è interessata anche un'altra persona, Monica, bella, ricca, che opera nel volontariato a sostegno dei senza tetto, soprattutto per cercare il padre, fuggito da casa quando ancora lei era piccola e diventato uno di quei diseredati.
Combattuta fra due uomini, il portiere Claudio e Attilio, il capo della Brigata Coclite, finisce con il diventare l'effettiva protagonista, pur senza che gli altri che ho nominato si limitino ad essere dei semplici comprimari.
La scrittura veloce, i continui colpi di scena, alcuni argomenti di estremo interesse appena sfiorati per non intaccare l'agilità della narrazione risultano godibilissimi, facendo passare un po' in secondo piano la ricerca del colpevole, che ho capito peraltro chi era già a metà libro, senza tuttavia che ciò facesse venir meno la mia attenzione per il romanzo.
Credo che le autrici abbiano inteso soprattutto fornire un'opera di agevole e piacevole lettura, un giallo con cui trascorrere alcune ore in spiaggia sotto l'ombrellone o in casa, accomodati in poltrona, cullati dall'aria condizionata.
Nonostante ciò hanno voluto inserire elementi tipici di altri generi, in un curioso e riuscito cocktail che amplifica i potenziali lettori.
Così, chi ama le storie d'amore o per chi si appassiona a vicende di figli che desiderano ritrovare i genitori qui troverà pane per i suoi denti. Non manca anche un po' di horror, considerato che i suicidi hanno marchiato a fuoco sul petto alcune lettere latine, che sono sillabe di Animula vagula blandula, la poesia scritta in punto di morte dall'imperatore Adriano. Magari c'entrano poco con la vicenda i bellissimi versi, ma sono una nota che impreziosisce il romanzo e fa conoscere a quei lettori che l'ignoravano una delle più belle liriche, non solo dell'antichità.
Non aggiungo altro, se non la raccomandazione di leggerlo, perché ne sarete soddisfatti.

Laura Costantini e Loredana Falcone scrivono insieme da più anni di quanti piaccia loro ricordare. Un sodalizio nato sui banchi di scuola e mai interrotto, nonostante impegni familiari e professionali.
Laura Costantini ha intrapreso la carriera di giornalista.
Loredana Falcone quella non meno irta di difficoltà della mamma.
Laura Costantini ha spaziato dai quotidiani (Il Secolo XIX) ai settimanali (OGGI, CHI, GENTE) per approdare nel 2003 nella redazione del programma di RaiUno LA VITA IN DIRETTA. Ma trova comunque il tempo per continuare a seguire, insieme a Loredana, i sentieri della fantasia.
Madri letterariamente parlando fecondissime, Laura e Loredana hanno dato ai loro romanzi un centro di gravità permanente: le donne. Ognuno dei loro libri nasce, cresce e si sviluppa sempre intorno a figure femminili che vengono esaminate, amate, sviscerate attraverso epoche e ambientazioni le più diverse.
Renzo Montagnoli
 

16/08/2010

La rizzagliata di Andrea Camilleri Sellerio Editore Palermo

Narrativa romanzo
 

Un quadro, realistico, dello squallore attuale

Povera Italia, verrebbe da dire giunti all’ultima pagina, ma sarebbe più opportuno concludere con un poveri noi.
La rizzagliata, infatti, è un giallo alla Sciascia in cui si rappresenta il diffuso cinismo che sembra soffocare ogni giorno di più quello che un tempo veniva chiamato Il bel paese.
Non troviamo il commissario Montalbano e questo giustamente, perché la denuncia di Camilleri di un’insieme di cose quotidiane a cui ormai ci siamo quasi assuefatti esula da quello che è il semplice romanzo giallo che vede protagonista il simpatico poliziotto (anche se a volte pure lì ci sono allusioni nemmeno tanto velate ai mali attuali). La rizzagliata non è stato scritto per divertire il lettore, ma per avvertirlo, per mostrargli il degrado in cui è immerso e di cui sovente ha solo una vaga consapevolezza. In questo senso può essere anche considerato un romanzo storico, pur nell’ambito di personaggi di esclusiva fantasia, ma il mondo rappresentato, le connivenze e le furberie, gli interessi solo in apparenza contrapposti costituiscono un preciso atto d’accusa a una classe, quella dei politici, che vive una realtà tutta sua, in una sorta di limbo infernale le cui manifestazioni esteriori sono di pubblico dominio, una sorta di rissa in cui gli altri- cioè il popolo - sono ridotti al rango di semplici spettatori.
Se è vero che la rizzagliata è una rete da pesca da cui il pesce difficilmente può scappare, è altrettanto vero che è pressoché impossibile sfuggire alla rete che il potere politico, economico e mediatico costruisce attorno a una persona. Nel libro c’è una costruzione siffatta che, nella sua individualità, può essere tuttavia estesa all’intera collettività, impotente di fronte a un accerchiamento di forze che di fatto ha addormentato le coscienze e nauseato, fin quasi allo sfinimento, chi ancora ha occhi per vedere.
In particolare, nel romanzo l’intreccio esistente fra gli organi di informazione, potere politico, potere economico e potere mafioso portano a un profondo senso di disgusto che è la prova certa di quanto la decadenza a tutti i livelli, compresi quelli familiari, stia corrodendo gli animi, in un trionfo dell’amoralità, in cui tutto viene fatto senza il benché minimo esame di coscienza. E poiché nell’uomo sono naturalmente presenti il male e il bene, nel ridursi ai più bassi istinti finirà sempre con il prevalere, senza battaglia, il male.
Camilleri questa volta ha inteso scrivere un romanzo più impegnato, ha lanciato un grido, per non dire un urlo che chissà se sarà udito. Indubbiamente si nota nello scritto quanto la questione gli stia a cuore, c’è insomma una sua partecipazione emotiva che nuoce un po’  all’equilibrio del testo (o forse questo mondo di pazzi, così ben descritto, è squilibrato per sua natura).
La rizzagliata è un piatto freddo, per non dire gelido, un’unica portata per un popolo che sembra non avere più fame di verità. Eppure, a Camilleri va un plauso per la sua incrollabile tenacia che lo porta a condurre, nonostante l’età avanzata, una battaglia che sembra persa in partenza.
Tanto di cappello, quindi, con la speranza che chi leggerà questo eccellente romanzo possa comprenderlo nel suo autentico significato, risvegliando magari una coscienza da troppo tempo sopita.

 Andrea Camilleri nasce a Porto Empedocle (Ag) nel 1925.
Scrittore particolarmente prolifico, ha pubblicato, fra l’altro, oltre a tutta la serie con protagonista il commissario Montalbano, Il corso delle cose (1978), Il birraio di Preston (1995), La concessione del telefono (1998), La scomparsa di Patò (2000), Il re di Girgenti (2001), Le inchieste del commissario Collura (2002), La presa di Macallé (2003), La pensione Eva (2006), Il colore del sole (2007), Le pecore e il pastore (2007), Pagine scelte di Luigi Pirandello (2007), Maruzza Musumeci (2007), Il casellante (2008), La vuccina (2008), La tripla vita di Michele Sparacino (2009), La rizzagliata (2009).
Renzo Montagnoli

 

02/08/2010

In ascolto

raccolta poetica di Maristella Angeli

MEF L’Autore Libri Firenze 2010

http://www.firenzelibri.com/libri/9788851721008.html

 

 

Già dal titolo si evince ciò che emerge, entrando pian piano, a passi delicati, nella lettura delle poesie di Maristella;l’attenzione all’altro, alla natura, al mondo tutto, in ascolto, con amore.

L’autrice, nella presentazione, spiega al lettore“perché scrive” e lo racconta poi magistralmente, con passione, in modo naturale, senza veli né orpelli in alcuni testi della raccolta che sono emblematici: poesia …è chiaro il bussare in testa, quell’idea che passa e vuole uscire…, è riconoscimento di intenti di chi scrive e “sente la vita”, è come creare una sinfonia in “note di parole... che compongono melodia” (la sua storia di pittrice e amante della musica sempre si scorge e se ne sente tocco e suono), poesia è sole al mattino che apre il giorno…, la voce del poeta tutto tocca e soffre, … tuona il petto… mentre veglia la luna… e il viandante poeta sogna il ritorno alla sua terra… tali versi sono sparsi nella raccolta ,come se, ogni tanto, l’autrice volesse tornare all’origine della sua passione, spiegare attraverso emozioni e metafore a volte raffinate, a volte dolci di bimba e quasi tangibili, la sua spinta incontenibile e pressante a scrivere versi.

Tra le tante poesia sul tema una in particolare.

 

La prima poesia della silloge, mi pare, essere una sintesi eloquente, chiara della sua poetica “scoprire il silenzio sovrastando voci inquietanti… ” con quella grazia di uccello che vira sull’ala, che è sua propria e le dà valenza di poeta autentico.

 

Ascolto ed attesa in armonia sono il filo conduttore di tutta l’opera e non vengono mai meno, sono la scena del suo poetare e le emozioni sono i protagonisti, sono il tessuto intimo, danno timbro e voce all’opera tutta.

“Attesa” per esempio parte da un suono quasi impercettibile di fruscio di foglia fino al galoppo di puledro che scalpita in crescendo di movimento, immagini ed

emozioni… e attesa ancora in speranza quando “appoggia il pensiero” (splendida immagine) e ascolta il cuore che batte perché il cuore vuole che lo si ascolti . L’ascolto continua lineare, morbido, senza scatti, seguendo la sua musica e il suo pennello che accompagnano pensiero e anima, un ascolto con sentimento sorpreso a volte, sospeso altre, nitido e fulgido poi, nelle chiuse, sempre di apertura e luce, sempre “alte”. 

 

Poi si delinea, con colori tenui, il passaggio all’amore in “Come pulsar” l’amore/il primo ti amo/dalle labbra sgorgato/come pulsar da anni luce proiettato”, da oltre il tempo , sempre nell’aria, solo da cogliere. E’ un invito di Maristella, quasi un dolce soccorso al lettore affinché viva la sua gioia, ne faccia parte. Narrando l’amore poi l’autrice diventa bambina con il naso all’insù ed esplodono colori, profumi e suoni del ricordo …

 

O “Il bacio” oppure “Sipario privato” o “Sentimento d’amore” o “Come ciondolo di baci”  amore che pervade tutta la silloge e mi pare si riassuma magicamente in amore universale con “se la luna ti guarda imbronciata, richiama la tua stella con un ultrasuono del cuore” e trascina oltre.

 

“Interstizi di terra” è poesia sulla stessa lunghezza d’onda, quella dell’ascolto amoroso, pacato e fulgido ad un tempo anche verso la morte (al buio che chiude gli occhi).

 

Ecco che Maristella, Emily oggi, diventa nuvola che si racconta, si veste di rosa ,di piccole ciabattine e dà libero sfogo alla fantasia, al sogno puro e cristallino oppure personifica in modo inusuale, originale gli elementi naturali che parlano e ci ascoltano.

 

Oppure il telefono che, in “Duetto d’amore”, soffre per esser solo strumento passivo..

 

Vi sono poi numerose poesie “sociali” come “Oscurità” ”Guerre” ”Emigranti”

“Stupro”(che chiude la silloge, quasi un monito al mondo, scarno come freccia lanciata e arrivata a segno) e altre che troverete nel percorso di lettura in cui l’autrice rivolge uno sguardo amoroso ma vigile, attento e giudice, quando si trova dinnanzi l’invidia, l’ingiustizia, la meschinità, l’arroganza e il sopruso. Passa nei suoi versi il dolore di fronte a chi lascia la sua terra con la valigia gonfia di sudore e di attesa spesso disattesa.

 

In “Accordi di vita” ecco l’armonia, la musica dentro, la vita… oppure in “Il canto dell’anima” il sax accompagna e cerca , con l’autrice, senza stridore , la propria essenza.

“Monte dei pegni”, a mio avviso, è poesia emblematica , di forte spessore in cui Maristella si sofferma con malinconia sui ricordi che spesso sono “lama”, rimpianto e rimorso mentre in altri testi il ricordo è un soffio nuovo, ritrovato che dona al passato un senso di rinascita, un “approdo” in cui il tempo quasi purifica.

 

Con pennellata delicata, mai stridente né invasiva, Maristella tocca anche il tema della vanità, della vita senza ideali, dell’immagine innanzi tutto senza sostanza senza “vita interiore” per esempio in “bambola ” ove la metafora della bambola in vetrina riporta a quella di tante donne senza vita dentro, esposte, senza sorriso oppure nell’osservare le sbarre che tolgono il libero volo agli uccelli come all’uomo.

 

Vi sono poi alcune poesie descrittive sulla natura come “Autunno” “Pioggia “Primavera” che fanno parte del senso del tempo, dello spazio dell’autrice, morbido ,ovattato: è suo territorio il mondo tutto da osservare senza rovesci né sbavature, con occhio d’artista. Immagini come scatto di foto, suggestive sono “Todi” “La foglia” “Donna” “Gli artisti” “L’anziana signora” e altre ancora che troverete nel vostro percorso di lettura (infatti, credo, che ognuno, dopo la prima scorsa, si faccia nella mente una corsia preferenziale e parta da… poi ritorni a… , poi cerchi, poi raccolga…con Maristella è d’uopo, tanti sono gli stimoli e le emozioni che offre)

 

Altro tema ricorrente è quello del sogno, del volo della fantasia in cui Alice-Maristella trova quiete, naviga solitaria e vince il male con l’amore che accoglie

tra le braccia.

Proprio in questa poesia, a mio parere, vi è la sintesi lirica della visione del mondo dell’autrice: anche se il suo sguardo amico e dolce, sensibile e profondo vede il dolore e lo soffre, è la forte spinta interiore salda e positiva, armoniosa e forte ad un tempo che la salva, la porta in alto e purifica l’anima. Nei suoi versi si sente un odore di buono, di pulito che consente, anche dopo la tempesta e la caduta, il lutto e la sofferenza, la rinascita. In “Bagagli di vita” poi l’autrice ci porge dolcemente ,senza “spingere”, con amore, la sua ricetta: non tradire sogni, speranze, ideali mai.

“Mistero limbico “offre invece un giudizio originale, una metafora inusuale ma autentica e condivisa: il tempo passato rimbrotta il male nell’oggi in modo esemplare in quanto è lo sguardo della natura che ci insegna e ci parla nel divenire della vita . 

 

La poetica di Maristella, come già ho evidenziato nel rapido excursus sulla silloge, è

una poetica profonda, che tocca molti aspetti del vivere e dell’essere affidandosi ad un registro “intimo” legato alla gioia comunque del vivere, all’apprezzamento della vita utilizzando versi che hanno colore, calore, profumo di un fiore unico. Lo stile consono ai temi è lieve, fresco, non artificioso mai, spesso d’essenza pur avendo dietro riflessione, sensibilità e forti emozioni e corrisponde al linguaggio dell’autentico ascolto.

Vale la pena leggere “In ascolto” in quanto, poi, ci si sente meno soli, più buoni e si acquista coraggio e spinta a rinascere. E’ un libro da gustare tutto di un fiato o da centellinare pian piano. Sta a voi la scelta.

Grazie a Maristella!

 

Maristella Angeli, è nata a Foligno (PG) e vive a Macerata. Ha pubblicato Alla ricerca del proprio corpo (saggio) e le sillogi poetiche Gocce di vita, Specchi dell’anima, Tocchi di pennello e In ascolto. Ha insegnato Educazione Fisica e presta servizio, da molti anni, come docente di Sostegno. Ha frequentato corsi di mimo e recitazione, partecipando a rappresentazioni teatrali nazionale e internazionali. Ha partecipato a numerosi concorsi letterari, ottenendo primi premi e importanti riconoscimenti. Le sue poesie sono state selezionate da Elio Pecora per la rivista internazionale “Poeti e poesia” 2009. Ha conseguito primi premi in concorsi: 1982 «T. Campanella» Roma, per il libro edito; Premio Internazionale «Pennello d'oro» Corno Giovine (MI) per la pittura; 2008 per la poesia: Premio Internazionale «Una terra di leggende» Parco dei Castelli Romani (RM). E’ giunta quarta al concorso Internazionale di poesia Città di Torvaianica (RM) 2009. Ha ricevuto il Diploma di merito per l’Opera «Gocce di vita» e per la silloge «Tocchi di pennello» conferiti al Premio Nazionale AlberoAndronico Roma 2008 e 2009. La sua raccolta poetica «Specchi dell’anima», è stata inserita tra le iniziative per il 5 giugno Giornata Mondiale Ambiente e sul sito della Regione Marche, Cultura Marche.

Ha partecipato ad eventi culturali, alla V, VI VI edizione della mostra itinerante «Poesia in libertà» Toffia (RI). e sue poesie sono state pubblicate in antologie, riviste, siti e blog letterari. E' entrata a far parte del "Club dei 100" Dimensione Autore, Torino(TO).

Tinti Baldini

 

01/08/2010
 

Specchi dell’anima
raccolta poetica di Maristella Angeli
Edizioni Progetto Cultura 2010

Maristella Angeli, qui alla sua terza raccolta, propone una poesia che fa delle emozioni e delle sensazioni il punto di partenza di una ricerca per una leggerezza e semplicità dell'esistere.
Uno dei motivi fondamentali da cui scaturisce questa ricerca, di cui i versi sono lo strumento, è la natura, come rimarcato dalla stessa autrice nella nota introduttiva. Il gabbiano, Nuvole, La scogliera, sono solo alcuni titoli esemplificativi di questa tendenza, che da semplice motivo descrittivo (“l’aria che sembra impennarsi”, in Occhi che s’incontrano) diventa a volte un vero e proprio desiderio di identificazione, come nella lirica Vorrei essere pioggia che disseta: “Vorrei avere l’energia / dell’acqua […] vorrei avere la leggerezza / dell’aria […] vorrei essere rigogliosa / come isola hawaiana”. La natura spinge alla contemplazione e attraverso questa alla comprensione, forse, di un equilibrio da cui l’uomo è da tempo escluso.
Con versi liberi, brevi e scanditi, Maristella Angeli cerca da un lato di evocare queste sensazioni sopite, dall’altro di addolcire il dolore (il “richiamo sofferente” di un cane che “abbaia la sua solitudine”, in L’eco risuona) e ricondurre alla quiete i ricordi, allontanare “il freddo gelo” per trattenere “solo il gusto e il dolce profumo” che “inebriava la mente” (Inverno). La forma riflette questa propensione alla quiete, è pacata e musicale, assonanze e rime sono quasi nascoste, l’andamento dei versi è lineare e non eccede mai.
L’autrice, delicatamente ma con ostinazione, prosegue con la poesia un cammino che è prima di tutto esistenziale, consapevole delle difficoltà ma pieno di speranza. La lirica che chiude la raccolta (Valigie) è significativa di questa attitudine: “dolci parole / stelle / che non si spegneranno”.

Giuseppe Nava

 

27/07/2010

Appena finirà di piovere
di Aurelio Zucchi
Global Press Italia, Terni 2010

L’opera prima poetica “Appena finirà di piovere” di Aurelio Zucchi (Global Press Italia, Terni 2010) delinea un approccio orientato a temi di particolare impegno, anche etico, nel non facile tentativo di decifrare le antinomie esistenziali lungo un crinale dai precari equilibri.

In questi casi è ricorrente il rischio di una lettura critica che tenti interpretazioni psico-sociologiche difficilmente generalizzabili a partire da vissuti o dall’osservatorio individuale. L’Autore traccia invece, in uno stile personalissimo, la semplice via del poeta che vive il suo tempo e cerca di interpretarlo grazie al "grimaldello" poetico, offrendo nei suoi versi dei "casi" significativi in cui il lettore potrà trovare le proprie chiavi di lettura o ritrovarsi.

Dovendo schematizzare, i momenti e moventi nativi sono riconducibili a pulsioni: che, da un lato, attivano l'io poetante lungo un percorso introspettivo-memoriale; che, dall'altro, vengono dal mondo esterno e in particolare dalla condizione umana vista nella quotidianità; e che, infine, inducono ad una sorta di "ping pong" dagli incerti esiti tra l'io e l'altro da sé.

L'insieme dei testi della silloge – anche seguendo la ripartizione in sezioni – ha il suo “nocciolo duro” in “Io e me” con circa la metà delle liriche. L’altra metà è rivolta all’altro da sé: primariamente alla natura con le sezioni “Mare” e “Notte”, poi “Lei” e “Io e gli altri” ed infine “Lui”, di cui via via si dirà.

Nei monologhi dell’io poetante, i suoi tormenti sono ben evidenti in liriche quali “Chissà” (dal significativo incipit: “Chissà se basterà una vita / per dire poi d’averla ben vissuta”) o “I sogni che non ho fatto mai”, la cui chiusa è: “E odorano, odorano di rosa, / la specie più esclusiva inesistente, / aspettando che almeno li accarezzi, / i sogni che non ho fatto mai”.  

Se va a ritroso lungo sentieri memoriali, è forte la presa di coscienza che la macina del tempo tritura sogni e speranze, come in “Stand-by” (“Nasceranno ancora, lo so, / le sofferenze per gli affetti persi. / Mi stringeranno nella morsa / del recinto che sarà blindato”) oppure “In sella ad un cavallo bianco”: “Tra gli insistenti sguardi al mio futuro / e le carezze del passato prepotente, / ahimé ho smarrito il filo...”.    

La fondatezza delle conclusioni dell'io dialogante con se stesso finisce per avere riscontro in un puntuale esame di momenti quotidiani, scremandoli di banalità che appiattiscono encefalografie e elettrocardiografie comportamentali, per rilevarne invece gli aspetti più dolenti e laceranti.

Ed ecco che poeticamente il gioco si fa duro: si va dalle ansie che paradossalmente possono anche passare inosservate – si veda in “Come zucchero leccato in una latta”: “Il pane della felicità sempre lontano, / lungo la strada io l’annuso, l’assaggio / e quando mai l’inghiottirò?” – a quelle che lasciano morti sul campo e ferite nell'animo, come nei versi di “Cerco poesia in questo tempo strano”: “e splende il luccichio d’indegna vanità / mentre la terra geme, insieme a me. / Ridatemi il prezzo che ho pagato / per l’illusione di abitare in pace”.   

Non c'è scampo, allora? E qui, naufrago nel mare esistenziale, il poeta cerca, nel gioco di rimandi tra sé e il mondo, approdi o appigli, mettendocela tutta. Quale possibile via salvifica?

Forse l'amore, quello universale e solidale in “Dell’amore secondo me” da cercare “tra una bomba e un’altra ancora / tra le polveri delle vite ignare / o tra sagome d’innocenti in fuga” e finalmente conquistare perché “è tipo che t’ascolta, / che si scioglie in mille pezzi e te ne regala uno. / Non prendiamoci la briga di rimproverarlo, / dicono che lui ha sempre ragione”. O l’amore per la letteratura, icasticamente  richiamato nella lirica il cui titolo è esteso all’intera silloge: “Da parte lascerò  la solitudine, / sopra il lavello la caffettiera vuota / e, fischiettando mezzo pomeriggio, / un libro, aperto al primo capoverso” quale parte integrante, irrinunciabile, della propria quotidianità. O ancora l’amore in senso stretto della sezione “Lei”.

Forse il sogno, che si è già visto affiorare qua e là, sia quello che, nonostante tutto, riesce a trovare spazio in un fare poesia sempre con i piedi ben saldi a terra e mai con la testa fra le nuvole, sia  quello che, "mixato" alla fantasia, esplode in forma tra l’onirico e il visionario in “35 agosto 2007”.

Forse la fede, cui è dedicata la sezione “Lui” con liriche che vibrano d’intensa pìetas.

Forse la poesia, quale extrema ratio sì, ma non certo rassegnata scelta, come ben espresso in “Respirare me”: “implorerò un alfabeto in più / e sceglierò perfetti i suoni / per ogni cosa di cui io parli”.

In definitiva, come volevasi dimostrare, l’Autore sceglie la poesia ed il perché è chiaro: lo fa da poeta sapendo – come scrive in “Tentativi” – che “La buon’idea / di chi libera il giardino / dalle foglie marce, corre”. Questo correre è la sua conclusione esistenziale e poetica.

Aggiungo qualche altra considerazione. Sotto il profilo antropologico, i versi di Aurelio Zucchi sono definibili dei "cortometraggi" del quotidiano, scelti nell'ampia parte di vissuto necessariamente convissuto insieme ad altri. Ogni giorno è segmentato, in misura più o meno variabile, da momenti "singolari" – rientranti esclusivamente nella sfera individuale – e "plurali" che ciascuno, volente o nolente, deve condividere o comunque convivere. L'Autore disbosca una giungla di tipologie e comportamenti umani in cui c'è poca condivisione e molta collisione o almeno il rischio, ma il suo ritrarsi o partecipare è di volta in volta un giudizio di valore che esplicitamente dà o suggerisce.

Scrivere versi intrisi di vita vissuta, attentamente osservata, e dei suoi tanti aspetti nel bene e nel male è, in ultima analisi, un modo per esorcizzare le pulsioni dell'inconscio e farne il prezioso uso indicato da Robert Musil (ne "L'uomo senza qualità"), cioè di considerarlo "zona d'irresponsabilità della persona cosciente, donde vengono le fiabe e le poesie".
Raimondo Venturiello

 

Le due chiese
di Sebastiano Vassalli
Introduzione dell’autore
Edizioni Einaudi
Narrativa romanzo
 

Il novecento italiano in 322 pagine

Quello che può sembrare impossibile a volte si avvera ed è così che Sebastiano Vassalli ci offre con Le due chiese un grande e prezioso affresco del XX secolo in Italia. Giunti alla fine del libro c’è lo stupore di avere letto la storia del nostro paese in un romanzo scritto con uno stile innovativo, ma di notevole e rara efficacia.
Gli anni, i fatti, le rivoluzioni, le guerre sono viste in un microcosmo costituito da un piccolo paese alpino, Rocca di Sasso, nome inventato come quello della montagna che lo sovrasta, il Macigno Bianco, ma, conoscendo Vassalli è certo che corrispondono a entità reali, almeno nelle loro linee generali. E del resto le descrizioni paesaggistiche sono così puntuali e sicure nel tratto che non possono che essere il frutto di una visione diretta da parte dell’autore. E’ assai più probabile, invece, che i personaggi risultino di pura fantasia, fatta eccezione per il maestro Prandini, insegnante elementare, socialista, dapprima contro la guerra, poi ad essa favorevole, tanto che vi parteciperà coprendosi di gloria, e infine fascista della prima ora, onorevole, sgherro della repubblica di Salò, condannato poi a morte e fucilato.
In questo protagonista si ravvisano infatti alcuni tratti familiari, propri di Benito Mussolini, anche se la somiglianza è pur generica, ma non tanto da non indurre al sospetto (al riguardo basti pensare che l’amante giovanissima si chiama Clara…).
Quello di Rocca di Sasso è agli inizi del secolo un mondo fermo, in cui i giorni, scanditi dal ritmo delle stagioni, sono senza sussulti, con una comunità coesa dallo spirito religioso espresso non solo con l’assiduità alle funzioni, ma anche con l’edificazione di templi, che nella zona sono un centinaio. Sopravvivono nel ricordo degli avi, nelle superstizioni che portano a individuare il paradiso oltre la cima del grande Macigno Bianco e l’inferno sotto i suoi ghiacci eterni. Nascite, matrimoni, morti si susseguono con una monotona regolarità, in una vita dura, di fatiche quotidiane per contrastare la miseria. E’ vero che ci sono in giro teste calde che aspirano a una rivincita del proletariato, ma i più sembrano disinteressati, oppure rassegnati, nonostante che sia stato un maestro di musica della valle a comporre L’Internazionale.
Sarà la prima guerra mondiale a scardinare per prima le porte di quest’eremo, con i coscritti che, per supplicare la salvezza della vita, costruiranno una chiesetta.
Ne torneranno pochi e non tutti integri, ma questi reduci decideranno di innalzare un altro tempio, come ringraziamento per averla scampata. Lo spirito però è diverso, perché la guerra ha cambiato profondamente uomini nel complesso semplici, abituati a un evolversi secondo antichi stilemi e messi improvvisamente di fronte alle barbarie di un conflitto e alla paura di soccombervi.
Prandini, pluridecorato, non crede più alla dittatura del proletariato, ma solo al proprio tornaconto personale, che lo porterà ad abbracciare il fascismo. In netto contrasto è invece Ansimino, uomo di cuore che ha nelle mani l’intelligenza, fedele a se stesso, coerente prima e dopo.
Saranno loro a due a lasciare una traccia, così come nei secoli precedenti lo erano stati L’Eretico e il Beato << due contrari, in cui si riassumono e si annullano tutti i possibili contrari di questo mondo>, come la luce e il buio, il bene e il male.
Terminata la seconda guerra mondiale, a cui in verità Vassalli ha dedicato poche pagine, nel trionfo del tecnicismo piano piano scompare Rocca di Sasso, non come paese, ma nella sua atmosfera, con i templi sempre meno gremiti di fedeli, spesso vuoti di parroci, con le due chiese, quella dei coscritti e quella dei reduci, abbattute per far posto a un parcheggio, con la vecchia officina di Ansimino adibita a Centro culturale islamico
Resta solo il Macigno Bianco, eterno spirito della natura, non toccato dalla furia degli eventi; alla illusione di una dittatura del proletariato si è sostituita la speranza più equa e quindi irrealizzabile di un domani in cui l’Internazionale sarà il genere umano.
Scritto con grande abilità, venato da una provvidenziale e feconda ironia Le due chiese è un romanzo imperdibile, la conferma dell’elevato valore di Sebastiano Vassalli, di cui ho avuto già modo di apprezzare lo splendido La chimera.

Sebastiano Vassalli è nato a Genova e vive in provincia di Novara. Presso Einaudi, dopo le prime prove sperimentali, ha pubblicato La notte della cometa, Sangue e suolo, L'alcova elettrica, L'oro del mondo, La chimera, Marco e Mattio, Il Cigno, 3012, Cuore di pietra, Un infinito numero, Archeologia del presente, Dux, Stella avvelenata, Amore lontano, La morte di Marx e altri racconti, L'Italiano, Dio il Diavolo e la Mosca nel grande caldo dei prossimi mille anni e Le due chiese.
Renzo Montagnoli

26/07/2010

Dedicato a Lorenzo
di Mara Faggioli
Prefazione di Neuro Bonifaci
Cenni critici di Giovanni Nocentini e
di Lia Bronzi
In copertina "Lorenzo" opera dell'autrice
Edizioni Helicon
www.edizionihelicon.com

Favole, poesie e sculture

Sensibilità e dolcezza

Per uno strano gioco del destino il nipotino di Mara Faggioli è stato chiamato Lorenzo, come il mio, assai più giovane, essendo nato il 27 aprile del corrente anno. L'artista fiorentina, che nella gentilezza ha una delle sue non poche virtù, mi ha fatto avere questo libro, anche con la convinzione che, con l'omonimia, mi sarebbe risultato ancor più gradito.
Ciò è stato, anche se la mia valutazione resta indipendente dalla circostanza.
Dedicato a Lorenzo è un libro strano, perché ricomprende favole, poesie e sculture, ma lo scopo per cui è stato scritto è veramente encomiabile, con quella sua ricerca del fermo della memoria sia per Mara Faggioli, sia per raccontare un giorno al nipotino quanto a lui potrà interessare del periodo che ha preceduto il lieto evento.
Questo del ricordo, patrimonio personale da trasmettere ai posteri, affinché sappiano da dove sono venuti, è indubbiamente un motivo che dimostra l'attenzione per le radici di ciascuno, indispensabili per poter iniziare la vita con
l'esperienza altrui.
Fra le favole - ma questo è più un racconto di un fatto realmente accaduto, anche se la sensibilità dell'autrice tende a renderlo soffuso di un alone fiabesco - appare di indispensabile lettura Dedicato a Zahra, presente peraltro su Arteinsieme. Frutto di un'esperienza di volontariato, appare in tutta la sua dolcezza come un'apertura dell'animo di una madre, se pur temporanea, verso una creatura indifesa. Fra l'altro questo brano ha colto nel segno grazie alla raffinata e per nulla retorica esposizione di un afflato, tanto d'aver meritato il 1° premio al Concorso Letterario "L'arcobaleno della vita" e, se pur ex-aequo, al Concorso Letterario "G.Gronchi".
Analoga valenza hanno le poesie, testimonianza di sentimenti di madre e di nonna, e anche di figlia, sempre esposti con rara sensibilità e dolcezza.
E per finire ci sono le sculture di terracotta, visi, figure, madonne, nelle cui espressioni si riflette limpida quella di Mara.
E' inutile che aggiunga che il libro merita di essere letto, anche da chi non ha nipoti di nome Lorenzo.

Mara Faggioli è nata a Firenze e vive a Scandicci (FI).
Ha pubblicato "Dedicato a Lorenzo" (ovvero storia di un bambino dolce e tenero, molto amato, chiamato "Kom Ombo") -Ed. Helicon (2001) con prefazione di Neuro Bonifazi.
Nel 2004 ha pubblicato la raccolta poetica "Piuma Leggera" - Ed. Masso delle Fate con saggio introduttivo di Vittorio Vettori, vincitrice del 1° premio "FIORINO d'ORO" al Premio Firenze-Europa ed il Premio "Città di Vienna".
Renzo Montagnoli
 

17/07/2010

Il Vampiro
La storia segreta di Lord Byron
di Tom Holland
Tre Editori
www.treditori.com

Narrativa romanzo

Poeta e vampiro

George Gordon Noel Byron nasce a Londra il 22 gennaio 1788 e muore di meningite a Missolungi (Grecia) il 19 aprile 1924.
La fama di poeta è contesa con quella di uomo dissoluto, dal carattere forte, ma accompagnato da una malvagità che in famiglia non era cosa nuova, visto che un prozio era soprannominato Il malvagio.
Peraltro, come riferisce anche la moglie, la sua cattiveria si rivolge a chi più ama, pur nella consapevolezza di sbagliare. Si potrebbe dire che il male che portava dentro era più forte di lui.
Su questa base caratteriale, Tom Holland, uno storico inglese che normalmente scrive di greci e persiani, ha imbastito un romanzo della sua vita in cui si ripercorrono tutti gli eventi salienti, ma con una visione fantastica secondo la quale Lord Byron era un vampiro.
Quest'ipotesi, per quanto frutto di creatività, trova tuttavia elementi di ipotesi quanto mai abbondanti, anche se rivenienti da opere letterarie. Il suo medico personale, John William Polidori, pubblicò nel 1819 il primo romanzo di successo sui non morti, intitolato appunto Il vampiro. Nel testo il protagonista ha il nome inventato di Lord Ruthven, ma descrizioni e vicende sono proprie di Lord Byron. Inoltre Caroline Lamb, amante del poeta e da questi poi allontanata, diede alle stampe un'altra opera, intitolata guarda caso, Lord Ruthven, in cui il personaggio principale è chiaramente il poeta baronetto, descritto in tutte le sue nefandezze al punto da destare scandalo.
Sulla base di questi scritti e di ricerche effettuate Tom Holland ha elaborato un romanzo senz'altro avvincente, aderente alla realtà dei fatti (viaggi, amicizie, turpitudini), da cui esce un Byron straordinariamente vivo, un'incarnazione del potere assoluto del male che qui lo trasforma in un vampiro dalle infinite facoltà, in pratica un vero e proprio monarca dei non-morti.
Può far sorridere questa visione, ma non si possono dimenticare il rapporto incestuoso con la sorellastra, il fascino perverso che esercitava sulle donne e anche la sua omosessualità, quest'ultima più per un'esigenza cerebrale che fisica, anche se non disdegnava saltuariamente la compagnia di giovani uomini.
La vita di Byron resta comunque un mistero e come se tutto quanto a lui attribuito non bastasse occorre ricordare che le sue Memorie, già purgate dallo stesso autore - che al riguardo scrisse "omettendo tutte le parti davvero pertinenti e importanti, per rispetto verso i morti, verso i vivi e verso coloro che debbono essere l'una e l'altra cosa" -, furono poi bruciate dal suo editore per evitare uno scandalo senza precedenti. Dall'ipotesi che di tali memorie esistesse una copia prende avvio il romanzo di Holland con la ricerca del manoscritto da parte di Rebecca, una sua discendente, e così finisce con l'imbattersi nelle stesso avo, il quale racconterà la vera storia della sua vita.
La scrittura fluida, una tensione costante che a tratti si accentua, i rapporti con personaggi realmente vissuti, come il poeta Percy Shelley e la sua compagna Mary, la sorellastra di quest'ultima Claire Clairmont, una delle sue numerose amanti, da cui ebbe una figlia, Allegra, strappata alla madre e morta giovanissima in convento, la descrizione di un mondo quasi in disfacimento, la presenza di pagine di chiara ispirazione poetica sono tutti fattori che, sapientemente accostati, tengono avvinto il lettore, scosso ogni tanto da sottili brividi quando il male appare in tutta la sua cieca potenza.
Ne esce in ogni caso una figura di Byron grandiosa e tremendamente negativa al tempo stesso, animata dalla molla della vanità di raggiungere e dimostrare l'onnipotenza. Sì, perché un tipo come il baronetto non si accontentava di essere un vampiro, ma doveva essere sopra tutti, una specie di Supervampiro. In proposito ricorderò sempre quella parte del racconto in cui Byron descrive la sua visita al luogo in cui avvenne la battaglia di Waterloo, con il terreno impregnato del sangue dei caduti che inizia a ribollire e con gli eserciti dei deceduti che escono dalle zolle, acclamando in lui il loro imperatore.
Da leggere, senza ombra di dubbio, perché è un gran bel romanzo.

Tom Holland è autore di romanzi e saggi storici che hanno vinto importanti premi. Ha adattato Omero, Tucidite, Erodoto e Virgilio per la radio della BBC. Vive a Londra con la moglie e le due figlie.
Renzo Montagnoli
 

15/07/2010

Sputami a mare
(Le voci)
di Stefano Bianchi
Prefazione di Rita M. Astolfi e Guido Lucchini
Postfazione di Alessandro Ramberti
Fara Editore
www.faraeditore.it

Collana Sia cosa che
Poesia


Pace
Scorta appena tra i filari delle viti
intravista nei grappoli succosi
che mi porgi con le dita
e di cui gravi la mia mano
piena di tutto ciò che è
niente.

…..


Le foglie di novembre
Vivo solo di parole
aria e fumo
son le foglie di novembre
sui marciapiedi colorati
dell'autunno.


….

Nebbia
I miei occhi respirano nebbia a pieni polmoni
con tutto il fiato che la bicicletta
mi lascia.


….

Che un poeta veda diversamente dagli altri è più che mai ovvio, perché l’osservazione in lui non è mai fine a se stessa, ma è l’inizio di un processo di spesso inconscia ricerca dentro di sé. E’ così che in poche parole giunge l’immagine dell’autunno, venata da una malinconia propria dell’incedere di questa stagione, oppure il velo lattiginoso assume consistenze materiali, grevità ed affanni che si inspirano pedalando.
La poetica di Stefano Bianchi, pur inserita nel presente che la sua ancor non veneranda età giustifica, è però il risultato di esperienze che sempre accompagnano gli uomini dagli albori della vita.
A scorrere questi versi, proposti e mai imposti, mi sono sovvenuto degli Amores di Ovidio; è stato un attimo, un imbarazzo improvviso, il paragone mi è sembrato eccessivo. Eppure, a pensarci bene, ci sono comuni elementi, a parte il linguaggio ovviamente diverso che può farli sembrare distanti anni luce. No, i sentimenti non sono mutati e il poeta continua a interrogarsi sui perché dell’esistenza, sull’irrazionalità delle emozioni, oggi, come allora, incapaci dopo così tanto tempo di dare una definitiva risposta razionale.
Ma tutto deve essere ridotto a logica? I numeri devono prendere il sopravvento su di noi? No, fino a quando ci sarà poesia.
Bianchi sposta nel tempo l’espressione delle emozioni, ma si avvale di iscrizioni antiche, ricorre perfino all’epigramma come in Frammento ( E’ difficile a volte / stare nel presente / i ricordi ed i sogni / costano meno).
Verrebbe da dire che non vi è nulla di nuovo sotto il sole e invece balza agli occhi la forma espressiva, un verso libero, scevro da regole metriche, costruito però in un disegno di organicità dell’intero testo in grado di ottenere un risultato equilibrato ed armonico.
E una certa ironia di Stefano Bianchi evidenzia, a dispetto delle apparenze, la capacità di non prendere mai tutto troppo sul serio, perché Le voci, di Nino Pedretti – A volte da per me / nel letto, in un corridoio / in un treno per Milano / ascolto le voci./ E allora mi faccio / più grande / perché risuonano dentro / di me / come campane.
Quanta verità in questi versi, sicura fonte d’ispirazione per l’intera silloge, perché sono sicuro che Bianchi abbia sentito queste voci.
Da leggere, non c’è il minimo dubbio.

Stefano Bianchi nasce nel 1972 a Rimini. È diplomato al Liceo classico e Laureato in Economia e commercio. Ha pubblicato le raccolte di poesie La bottiglia (Edizioni
Pendragon, Bologna, 2005) e Le mie scarpe son sporche di sabbia anche d’inverno (Fara Editore, 2007), che ha presentato assieme a testi inediti in vari contesti pubblici, compresa una breve apparizione televisiva. Alcune sue poesie sono presenti in rete (ad esempio, nel blog farapoesia), nelle antologie tematiche: Il desiderio, Sogno, Il Ricordo, Nella notte di Natale. Racconti e poesie sotto l’albero presentata alla fiera Più libri più liberi 2007) edite da Perrone Editore, Roma, tra il 2007 e il 2009, e nella raccolta Poeti romagnoli d’oggi e Federico Fellini, Società Editrice << Il Ponte Vecchio >>, Cesena, 2009. Attualmente collabora con il «Corriere Romagna».
Renzo Montagnoli

 

13/07/2010

Profili critici
di Vincenzo D'Alessio
Presentazione di Alessandro Ramberti
Postfazione di Massimo Sannelli
Fara Editore
www.faraeditore.it


Mi riesce un po' difficile scrivere la recensione di un libro che raccoglie numerose recensioni scritte da un unico autore. In effetti mi pongo una domanda un po' sibillina, ma che esige una risposta che forse con difficoltà riuscirò a darmi.
Mi chiedo: che diritto ho di buttar giù due righe, insomma di scrivere la recensione delle recensioni?
Vincenzo D'Alessio ha una sua sensibilità, una sua metodologia nell'esaminare un lavoro, nel trarne l'esito e poi nell'esporlo che differisce dal mio. Non è una questione di lana caprina, perché in questo contesto tutto sommato oggettivo entrano poi fattori soggettivi che possono esulare dalla qualità dell'opera e che sono rappresentati dalla sua piacevolezza istintiva. E' in fondo lo stesso problema che mi pongo quando metto nero su bianco le impressioni di lettura di un lavoro ed è un tarlo sempre presente, anche se ricacciato giù negli anfratti più nascosti: che titolo e diritto ho per giudicare un poeta, un narratore, un saggista?
Sono tante le risposte e nessuna mi convince; pertanto spero che Vincenzo D'Alessio abbia la bontà di comprendermi per quello che andrò a scrivere e lo consoli il fatto che le mie non eccelse capacità saranno espresse al massimo, come l'atleta che non vince pur spremendosi a fondo.
A complicare le cose, poi, è il fatto che la quasi totalità delle opere recensite non sono da me conosciute e allora ho deciso di calarmi nei panni di un lettore normale che segue, per orientarsi, i consigli di lettura.
Senza parlare di un articolo in particolare le impressioni che ho avuto si estrinsecano in questi elementi:

1) L'indipendenza del giudizio che mi sembra chiara, senza che insorgano sospetti, merce rara si direbbe, considerata l'epoca in cui il dio denaro induce non pochi editori a condizionare numerosi critici:
2) Una struttura espositiva sperimentata e che si ripete, perché ormai radicata nella logica di D'Alessio; quindi niente improvvisazioni, tanto che, se non fossimo in campo letterario, direi che il metodo ha connotati scientifici;
3) L'indole poetica che, a volte di più, a volte di meno, lo conduce a diventare, peraltro piacevolmente, un coprotagonista nel testo e anche a ricorrere a un ragionamento metaforico;
4) La semplicità e la praticità, insomma il giudizio che può farsi l'eventuale lettore dell'opera recensita appare supportato da tutti gli elementi indispensabili, esposti razionalmente e in modo accessibile ai più.

Viene da chiedersi, quindi, che valore attribuire a questi Profili critici e allora nei panni del comune lettore posso dire che l'opera di volta in volta trattata viene enunciata, richiamandone gli aspetti essenziali, ma non svelata, insomma D'Alessio fornisce tutti gli elementi che servono per comprendere se il libro recensito può interessare oppure no.
Poco? No, tanto, perché il critico deve essere di supporto nella scelta e non imporla, deve essere chiaro senza raccontare tutto. Compito non facile, vero?
Vincenzo D'Alessio, però, è sicuramente riuscito ad assolverlo, e anche bene.

Vincenzo D'Alessio è nato a Solofra (AV) nel 1950. Vive a Montoro Inferiore (AV). Laureato in materie letterarie presso l'Università di Salerno, ha ideato il Premio Nazionale Biennale di Poesia "Città di Solofra", ha fondato il Gruppo Culturale "Francesco Guarini" e la casa editrice omonima. Ha pubblicato diversi saggi di archeologia e storia locale e le seguenti raccolte poetiche: La valigia del meridionale
(1975), Un caso del Sud (1976), Oltre il verde (1989), Lo scoglio (1990), Quando sarai lontana (1991), L'altra faccia della luna (1994), Costa d'Amalfi (1995), La mia terra (1996), Ippocampo (1998), D'amore e
d'altri mali (1999), Elementi (2003), Versi di lotta e di passione (2006).
L'ultima raccolta, Figli (2009), è dedicata al figlio Antonio, prematuramente scomparso. La raccolta Padri della terra è inserita nell'antologia Pubblica con noi 2007 (Fara) che raccoglie le opere dei vincitori dell'omonimo concorso. È presente in numerosi blog letterari e siti web, ne ricordiamo solo alcuni:
farapoesia.blogspot.com
viadellebelledonne.wordpress.com
www.viacialdini.it
lucaniart.wordpress.com
Renzo Montagnoli
 

10/07/2010

Claire Clairmont
di Marco Tornar

Presentazione di Roberto Mussapi
Edizioni Solfanelli
www.edizionisolfanelli.it

Narrativa romanzo
Collana Pandora

Quando termino la lettura di un libro e mi sento scosso profondamente, so di aver avuto per le mani una perla rara; se poi questo stato emozionale si ripresenta dopo alcuni giorni al solo riaffiorare di alcune immagini o situazioni che ho ritenuto particolarmente significative e provo un turbamento interiore che gradualmente si scioglie in un senso di serenità, sono consapevole che quanto ho letto è un'autentica opera d'arte, un capolavoro che rimarrà sempre dentro di me.
A essere del tutto sincero, prima della lettura nutrivo il timore di potermi trovare di fronte a un feuilleton, insomma a un romanzo d'appendice, in questo indotto dal poco che sapevo della protagonista, sorellastra di Mary Shelley e quindi cognata del poeta, amante di Lord Byron, da cui ebbe Allegra, una figlia morta in tenera età. La vicenda di Percy Shelley, perito in un naufragio, e del poeta baronetto inglese morto di meningite a Missolungi, unita a quella della prematura scomparsa della bimba lasciavano infatti presagire una narrazione volta a commuovere facilmente il lettore, non rivestendo la figura di Claire Clairmont un interesse particolare, se non quello di essere stata privata dei suoi più stretti affetti ancora in età giovanile.
Per fortuna mi sbagliavo, e anche di molto, perché la protagonista principale è una donna di eccezionali qualità, forse non versata per la poesia, ma testimone di fatti, di eventi importanti, lei stessa attrice e vittima dei medesimi, condannata a vivere moltissimi anni con il suo dolore, una figura che si riassume nell'epitaffio che lei volle fosse scolpito sulla lapide della sua tomba nel cimitero di Antella: Passò la vita soffrendo, espiando non solo le proprie colpe ma anche le proprie virtù.
Scomparsa dal ricordo, a differenza di Percy e Mary Shelley e di Lord Byron, Claire Clairmont è tornata a vivere in questo meraviglioso romanzo di Marco Tornar che ha sollevato i veli dell'oblio, realizzando ciò che unisce i morti ai vivi, quella memoria che diventa patrimonio comune, che ci permette di volgerci all'indietro e di saper proseguire in avanti.
L'autore è l'io narrante, sia nel momento in cui percorre il viaggio alla ricerca dei luoghi di questa memoria, sia quando si cala nei panni di Edward Silsbee, ricco americano, docente universitario, che nella seconda metà del XIX secolo viene in Italia e si reca a Firenze con la speranza di avere un colloquio con l'unica che ancora sia in grado di dire qualche cosa di nuovo sui coniugi Shelley e su Byron.
Così si svolge la vicenda, in una tensione sottile, quasi evanescente, ma sempre presente, e come in un palcoscenico l'apertura del sipario rivela gli attori, qui si scostano progressivamente drappi polverosi per svelare una vita e un personaggio straordinario.
L'atmosfera di quell'epoca, la luce di Firenze nelle stagioni, la passione amorosa che divampa fra Edward e Georgina, pronipote di Claire, i dialoghi, spesso monologhi, fra l'americano e la protagonista, uno spaccato di vita sociale in un'Italia nel periodo immediatamente successivo all'unità, il funerale di Shelley sono un grande esercizio di stile da cui traspare la natura poetica di Tornar, che riesce a mantenere per tutta la narrazione un ritmo equilibrato, proprio di una cosa del passato, come una fotografia ingiallita la cui osservazione ci porta poco a poco a scoprire e a definire i soggetti ritratti.
In un italiano estremamente preciso e corretto, sempre più raro oggi, pagina dopo pagina si passa da un'iniziale curiosità alla necessità di conoscere, anche perché sapere di Claire Clairmont vuol dire scoprire un passato che è nostro patrimonio, significa riflettere sull'esistenza e sulle tante domande che inconsapevolmente ci poniamo.
A un certo punto del romanzo Claire dice: Penserei volentieri che la mia memoria possa non perdersi nell'oblio com'è accaduto alla mia vita; ebbene questo suo desiderio si è realizzato grazie a Marco Tornar, che ci ha fatto dono di un libro di stupefacente bellezza.

Marco Tornar (Pescara 1960) ha pubblicato le raccolte di poesia Segni naturali (Bastogi, Foggia 1983) e La scelta (Jaca Book, Milano 1996); le prose Rituali marginali (Bastogi, Foggia 1985) ed Errando di notte in luoghi solitari (Quaderni del Battello Ebbro, Porretta Terme 2000); il romanzo Niente più che l'amore (Sperling & Kupfer, Milano 2004). Ha curato l'antologia di poesia italiana La furia di Pegaso (Archinto, Milano 1996).
Renzo Montagnoli
 

06/07/2010

Stefano Borgia
Governatore del Ducato Pontificio
di Benevento nel XVIII secolo

di Pietro Zerella
Presentazione di Andrea Mugione Arcivescovo di Benevento

Secolo XVIII, quello dell'illuminismo per intenderci, Ducato di Benevento spina pontificia nel fianco del Regno di Napoli, un nobile avviato a una carriera ecclesiastica di prestigio, briganti e grassatori, miseria diffusa, terremoti, epidemie, carestie, un quadro storico che la penna di Pietro Zerella delinea in modo encomiabile e convincente, tutto questo ed altro è Stefano Borgia, Governatore del Ducato Pontificio di Benevento nel XVIII secolo.
Premetto che, più che una biografia, è una valida rappresentazione di un'epoca in una piccola città del meridione, eseguita con scrupolo, sulla base di documentazioni d'archivio riportate con neutralità, senza esprimere giudizi che, anche a posteriori, sarebbero più che opinabili.
Benché ci troviamo di fronte a un saggio storico, l'esposizione non è mai greve, anzi scorre come un placido fiume, senza infastidire, ma interessando il giusto, e cioè la naturale curiosità del lettore di conoscere come si vivesse, come si patisse soprattutto, come si morisse nell'Italia meridionale quasi quattro secoli fa.
E' soprattutto in questo il pregio del libro, perché la figura di Stefano Borgia, omonimo ma non parente del nefasto casato che diede alla Chiesa uno dei pontefici più negativi, è quella di un uomo che, inviato a governare il Ducato, compie il suo incarico con capacità, ma senza eccellere in modo particolare, visto che alla fin fine i suoi principali meriti risiedono nella capacità di aver limitato i danni della terribile carestia del 1763-1764 e di aver scritto pure lui di storia, in particolare Le Memorie Istoriche della Pontificia Città di Benevento.
Non fu certamente un illuminista, né avrebbe potuto esserlo, e del resto è notorio l'avversione della Chiesa per questa corrente di pensiero; forse il Borgia può essere definito meglio un politico a tratti illuminato, ligio nel portare a termine il suo incarico, volto a un sostanziale mantenimento dello status quo.
Infatti, nulla cambia di sostanziale nel Ducato, con i nobili che restano sempre ricchi e potenti e con il popolo che sembra avere come destino prefissato la miseria, non l'indigenza, ma quella miseria fatta di una vita di stenti e senza speranza.
Ecco, le pagine di Zerella scorrono impietose su questo esercito di straccioni e, pur nella sua equidistanza, si avverte come l'autore nutra nei confronti di questi diseredati un profondo senso di pietà. Miserabili erano prima dell'arrivo del nuovo governatore Stefano Borgia e miserabili furono anche dopo. Per l'uomo di governo Benevento rappresentò la prima tappa di una carriera ecclesiastica che lo vedrà prima cardinale e poi addirittura candidato a pontefice.
Morirà nel 1804 a Lione, così lontano da quella città dei suoi esordi e che tutto sommato, considerando l'inazione dei governatori precedenti, vide in lui qualche cosa di diverso, rilevò almeno l'interesse dell'uomo per adempiere con cura all'incarico conferito, senza dimenticare che contribuì con i suoi studi e i suoi libri a far conoscere agli stessi beneventani un po' della loro storia.
La lettura è più che consigliata.

Pietro Zerella, nato a Beltiglio di Ceppaloni (BN) il 1938, vive a San Leucio del Sannio (BN), Dott. in Scienze Politiche e Sociali. Promotore culturale.
E' inserito in tre Edizioni (1996 - 2001 - 2006) del "Dizionario Autori Italiani Contemporanei" Ed. Guido Miani, Milano ed in altre antologie.
Ha vinto premi letterari e di poesia (Città di Telese, Apice…) Negli ultimi anni si è dedicato con particolare passione alla ricerca storica.
Ha pubblicato:
- "Frammenti di vita", Raccolta di poesie Ed. Ibiskos. Empoli 1994;
- San Leucio del Sannio - Frammenti di Storia, Poligrafica S. Giorgio del Sannio (BN) 1994;
- San Leucio del Sannio - Viaggio nel tempo, tipografia A.G.M. Ceppaloni /BN) 1996;
- Ho conosciuto il nonno del mio bisnonno, tipografia A.G.M. Cepppaloni (BN), 1997; (Menzione speciale Comune di Montecelio Romano Ed. 1998-1999, Roma;
- Il Clero Sannita nella crisi dell'Unificazione (1860-1862) saggio pubblicato nella Rivista Storica del Sannio, 3^ Serei, Anno IV, Arte tipografica Napoli, 1997;
- San Leucio del Sannio- Ieri e Oggi in Bianco e Nero - Tipogr. A.G.M. Ceppaloni (BN) 1998;
- Preti Contadini e Briganti nell'Unità d'Italia (1860-1862) Ed. La Scarna, Benevento, 2000. ( Premio Speciale 2001 alla 7^ Edizione del Premio letterario "Giuseppe D'Alessandro", Benevento;
- Arturo Bocchini e il mito della sicurezza (1926 - 1940) Ed. Il Chiostro, Benevento, 2002;
- Il Sole dei Lupi, Ed. Il Chiostro, Benevento , 2006; Ristampa nel 2007. A:G:M: Ceppaloni, (BN) 2007. (Vincitore Premio di Merito al concorso letterario di Anquillara Sabazia. VI Edizione).
- Fondatore e organizzatore Premio Letterario "Città di San Leucio del S."
- Collabora con il periodico Specchio del Sannio;
- Il quotidiano "Il Sannio Quotidiano".
Renzo Montagnoli
 

26/06/2010

Sinfonia per l'imperatore
di Donato Altomare
Introduzione di Ugo Malaguti
Elara S.r.l.
www.elaralibri.it
Narrativa romanzo
Collana Narratori europei di science fiction

L'apoteosi della fantasia

Ricordo che, nel corso di un mio viaggio in Puglia svoltosi alcuni anni fa, ebbi l'occasione di visitare il famoso Castel del Monte. Vi arrivai che il sole iniziava a tramontare, con un cielo carico di nubi plumbee, che di li a poco si sarebbero accumulate in uno strato uniforme, dando inizio a un temporale, con saette che sembravano scaricarsi sulle mura del maniero. L'atmosfera, intrisa di elettricità, l'oscurità quasi improvvisa mi sembrarono più proprie di un vecchio castello inglese o tedesco, abitualmente frequentato da fantasmi.
Per fortuna, a fugare ogni mio timore non ero l'unico visitatore, ma ve n'erano altri, anche se pochi, tutti intenti a rimirare l'interno di una fortezza assai più appagante vista dal di fuori. Mi sorse subito una domanda: che scopo aveva quella costruzione in cima al colle? Aveva una funzione strategica? No, di certo, perché non arroccava su strade di accesso alla Puglia uniche o di vitale importanza. Era forse una dimora gentilizia, base per battute di caccia? No, troppo spoglia e, soprattutto, eccessivamente protetta da possenti mura, anche se non cinta da un fossato. Era eventualmente una prigione? Forse, ma per rinchiudervi ben pochi detenuti, vista la limitata e inadeguata superficie coperta. E poi perché quella ricorrenza del numero otto? La pianta ottagonale e le otto torrette, pure loro ottagonali, sono insomma un richiamo continuo a quella figura geometrica intermedia fra il quadrato e il cerchio, vale a dire fra la terra e il cielo.
Ho pensato allora, da profano, che l'edificio potesse avere una funzione religiosa, insomma potesse considerarsi una sorta di tempio ibrido fra paganesimo e cristianesimo. Del resto il castello fu costruito dietro preciso ordine di Federico II Hohenstaufen, una figura quasi leggendaria, già mitizzato nella sua epoca (XIII secolo), al punto che, vox populi, si divulgava la profezia che dopo la sua morte sarebbe ritornato nelle sue terre trascorsi mille anni.
Le stranezze del castello, quest'alone mitologico che ha sempre avvolto Federico II devono avere interessato e affascinato in modo particolare Donato Altomare, tanto da indurlo a scrivere un romanzo di genere fantastico, con la vicenda che appunto si svolge in due epoche distinte, il XIII e il XXI secolo.
Premetto che la realtà storica costituisce solo la base di partenza, sulla quale l'autore pugliese costruisce pure lui un castello, in un intreccio di passato e futuro, con ammiccamenti al presente attuale, che, anziché stancare, come spesso accade quando si alternano epoche diverse, è una delle chiavi di valore di quest'opera, una vera e propria apoteosi della fantasia.
Per rispetto nei confronti del lettore e anche perché un pur sintetico sunto risulterebbe estremamente difficile mi limito pertanto a evidenziare i tanti meriti di questo romanzo, fra i quali di sicuro rilievo vi è la capacità di avvincere con invenzioni creative che non capitano a caso, ma si inseriscono perfettamente nella struttura narrativa. Le pagine scorrono veloci, grazie all'italiano fluente e di uso corrente, tranne forse nelle digressioni di carattere architettonico e musicale, comunque sempre comprensibili pur nella loro complessità. Né mancano riflessioni pertinenti, ma di logica corrente, su tematiche come la religione e le guerre per la religione (vedasi il colloquio fra Federico II e l'emiro Fakhr al-din ibn ash-Shaikh), oppure osservazioni sul potere temporale della chiesa, che non potevano non essere presenti, dato il carattere dell'Imperatore, non certo ateo, ma comunque anticlericale.
Ho parlato prima di apoteosi della fantasia e questo termine mi sembra particolarmente appropriato, perché Donato Altomare, nello scrivere Sinfonia per l'imperatore, ha anche composto una sinfonia della fantasia, con idee e intuizioni che arrivano continuamente, tanto da farmi pensare che di materiale a disposizione ce n'era per scrivere certamente più di un romanzo.
Ma quel che più conta è che l'abbuffata non satura, non sazia l'appetito del lettore, che anzi si trova naturalmente disposto a chiedere ancora di più, senza che per questo si corra il rischio di essere infastiditi, perché appunto tutto rientra in un equilibrio armonico che, in alcuni passi, mostra pure accenni poetici.
Duecentoottantotto pagine non sono poche, ma se non si legge tutto d'un fiato poco ci manca ed è i con sensi tesi al massimo che si arriva alla fine, a una naturale e positiva conclusione che, forse, lascia aperto lo spiraglio per un auspicato seguito.
Da leggere, non ve ne pentirete, perché questo romanzo, altamente avvincente, è veramente splendido.

Donato Altomare nasce a Molfetta nel 1951 e vi risiede. È laureato in Ingegneria Civile presso l’Università di Bari ed esercita la libera professione.
     Ha vinto due Premi Italia a San Marino e Courmayeur, il Premio Urania 2000 col romanzo inedito Mater Maxima, il Premio Urania 2007 con Il dono di Svet  e nel 2005 il Premio Le Ali della Fantasia per l’inedito col romanzo Surgeforas.
     Tra le varie pubblicazioni da ricordare i volumi Cuore di ghiaccio (La Vallisa, Bari 1989), La risata di Dio (Solfanelli, Chieti 1993), L’albero delle conchiglie (Milella, Bari 1994), Prodigia (Tabula fati, Chieti 2001), Mater Maxima (Mondadori, Milano 2001), Uno spettro, probabilmente (Mondo Ignoto, Roma 2004), E la padella disse… (Delos Books, Milano 2004), Il fuoco e il silenzio (Perseo Libri, Bologna 2005), Il tesoro della Grancia (BESA, Nardò 2005), Surgeforas (Tabula fati, Chieti 2006). Sono stati pubblicati all’estero: Cas je spiràla (tit. orig. Dolcissima Roberta, romanzo breve, Svet Fantastiky n. 1, Praga 1990); Il popolo del cielo (testo in cirillico, Gradina, Belgrado 1993); La casa degli scheletri (testo in cirillico, Gradina, Belgrado 1996).
Renzo Montagnoli

 

25/06/2010

Acqua in bocca di Camilleri Lucarelli
Ed. Minimum fax
Narrativa Giallo
Quarta di copertina.

Per la prima volta Salvo Montalbano e Grazia Negro indagano insieme
Camilleri ha rinverdito il romanzo epistolare e insieme a Lucarelli ha dato vita ad un esperimento a dir poco originale. La genesi dell’opera è quanto mai inusuale e casuale, niente di progettato a tavolino e tanto meno nella mente dei due scrittori. Come raccontato dalla nota dell’editore Daniele di Gennaro riportata alla fine della storia, tutto ha inizio nella primavera del 2005.  A Roma nello studio di Andrea Camilleri, con Luca Lucarelli si girano le immagini di un documentario per Raitre A quattro mani prodotto da minimum fax media per parlare di letteratura poliziesca, e tra battute e rimandi di frasi tra i due scrittori, l’editore butta lì una domanda su come si comporterebbero i due personaggi letterari, l’ispettrice  Grazia Negro e il commissario Salvo Montalbano, le rispettive creature di Lucarelli e Camilleri, con un cadavere in mezzo, come avrebbero interagito in un’inchiesta… E’ stato il là d’inizio di una sorta di jam session letteraria, in cui l’uno parla, l’altro ascolta in un continuo sorprendere e sorprendersi. Da una semplice provocazione azzardata di  scrivere una storia, nasce in nuce una trama che tramite uno scambio epistolare,  ha trasformato la jam session iniziale in una partita a scacchi senza esclusione di colpi. Il gusto del rischio, dell’imprevedibile ha preso entrambi gli scrittori, il cui cimento per il gioco ha prodotto questo libro, dal plot  rimaneggiato e smontato durante  la lunga gestazione, con varie interruzioni, durata ben 5 anni. L’Acqua in bocca già dal titolo e dalle prime righe di lettura assume connotazioni semantiche diverse: significato letterale  e metaforico. Infatti  un cadavere rinvenuto con la testa dentro ad un sacchetto di plastica e tre pesciolini rossi stecchiti vicino, apre la scena del crimine: è l’inizio di un’indagine non autorizzata che in una sorta di dialogo a distanza cioè  a colpi di lettere più o meno segrete Grazia Negro e Salvo Montalbano collaborano alla risoluzione del mistero. Si dà vita al genere crossover già inaugurato al cinema con Chi ha incastrato Roger Rabbit, il cosiddetto gioco degli incontri di autori, personaggi in una stessa narrazione, in uno scarto della fantasia  semplicemente siderale. Questo trucco combinatorio, o pastiche o incrocio narrativo dei due campioni letterari è un vero gioco divertente sia per gli autori sia per i lettori. Ma in barba ad ogni logica Montalbano subisce due mutazioni: una fisica, è calvo; una linguistica,  parla in italiano con un cabasisi ogni tanto,  tanto per non perdere l’abitudine del dialetto. L’effetto prodotto è uno “straniamento brechtiano” (Camilleri), che trasferisce il lettore in quei mondi possibili e paralleli in cui tutto può accadere. I due geniali artefici di questo puro esercizio letterario non subiscono mutazioni  di stile, si alternano e si completano a vicenda in un clima narrativo che di stupefacente ha l’atto della scrivere per il piacere di raccontare storie. 

Autori. Andrea Camilleri (1925), è autore di oltre 60 romanzi tra storici, civili e polizieschi, e di diverse raccolte di racconti, tradotti in più di 30 lingue. Vincitore di numerosi premi in Italia e all’estero, è noto al grande pubblico anche per i romanzi dedicate alle inchieste del commissario Montalbano, da cui è stata tratta la fortunata serie televisiva. Tra i tanti titoli ricordiamo: “La forma dell’acqua”, “Il cane di terracotta”, “Il ladro di merendine”, “La voce del violino”, “La stagione della caccia”, “Il birraio di Preston”, “La concessione del telefono”, “La gita a Tindari”, “Maruzza Musumeci”, “Il casellante”, “Il campo del vasaio”, “L’età del dubbio”, “Un sabato, con gli amici” “Il sonaglio”  “ La caccia al tesoro”…

Luca Lucarelli (1960) ha pubblicato 14 romanzi e una dozzina di opere di non-fiction sulla recente storia criminale del nostro paese, riscuotendo vasti consensi di pubblico e riconoscimenti critici (premio Scerbanenco, Silver Dagger Award).E autore e conduttore del programma televisivo Blu notte, e ha scritto numerosi soggetti e sceneggiature per il cinema e la tv.
Arcangela Cammalleri

 

24/06/2010

La vittoria del 1934
I campionati mondiali di calcio
nella politica del regime

di Alessandro D'Ascanio
Edizioni Solfanelli
www.edizionisolfanelli.it

Saggistica
Collana Faretra

Il gioco del calcio non è mai stato per me una passione, ma un'occasione di svago e divertimento, e solo nel caso che le partite vedano di fronte due squadre disposte a dar spettacolo. Siamo comunque in periodo di mondiali e mi sembra giusto dare un po' di spazio a questo sport che ha rappresentato più di mezzo secolo fa uno strumento di sostegno di un regime all'interno del paese e di supporto anche a una certa politica estera fatta di proclami roboanti, seguiti spesso da azioni moderatrici, del tipo insomma proprio della tattica del bastone e della carota.
E in questo sta l'interesse di questo bel saggio di Alessandro D'Ascanio che ha come punto di partenza la nostra prima vittoria dei mondiali calcio, quella del 1934, con la nazionale italiana guidata dal mitico Vittorio Pozzo.
Il testo è un lucido spaccato di un periodo nel quale anche una partita di calcio e soprattutto la conquista del primato rappresentavano un biglietto da visita di un paese che voleva emergere a tutti i costi, rinsaldando il fronte interno con la comune passione per questo sport e cercando di conferire uno spirito nazionalistico, indispensabile al regime per poter avere basi solide. Non è che questo consenso sportivo si rivelò poi inossidabile, anzi si poté notare e ancor oggi si vede l'assenza di una forte identità di popolo, quella coesione ferma e irremovibile che invano il fascismo tentò di realizzare richiamandosi anche alle glorie dell'antica Roma.
La manifestazione sportiva del 1934 fu voluta fortemente da Mussolini e, grazie anche a un ingente sforzo finanziario, riuscì bene, culminando con il meritato successo dei nostri giocatori. Il tutto appare come una delle più efficaci campagne di propaganda, come detto rivolta non solo all'interno, ma anche all'esterno.
L'impressione che si voleva dare era quella di un paese unito e orgoglioso, pacifico, ma non disponibile a cedere ad altri le proprie ambizioni di riscatto per arrivare ad essere alla pari con le grandi potenze.
Era il 1934 e quindi mancavano sei anni alla nostra entrata in guerra, evento che in breve avrebbe dissolto un'immagine così faticosamente costruita anche attraverso quel campionato del mondo.
Il libro di D'Ascanio è un'analisi di quella Coppa Rimet (come allora si chiamava), di quanto fosse sentita dal fascismo, e quindi degli scopi che si proponeva il regime, delle sue ricadute, cioè dei risultati, sempre in funzione politica.
Si respira nelle pagine una storia ancor recente, si scoprono tante cose che ignoravamo, ma, soprattutto, si comprende come il gioco del calcio ad alto livello possa costituire anche una risorsa per chi detiene il potere in un paese.
Da leggere, ne vale senz'altro la pena.

Alessandro D’Ascanio, laureato in Scienze politiche con una tesi in Storia dell’Italia contemporanea dal titolo Lo scacchiere mediorientale nella politica estera italiana. Il centro-sinistra e la guerra dei sei giorni, ha conseguito il Dottorato di ricerca in “Critica storica giuridica e economica dello sport” presso l’Università di Teramo. Cultore della materia presso la cattedra di sociologia dei fenomeni politici dell’Università “G. D’Annunzio” di Chieti, collabora all’attività della cattedra di Storia del Novecento della Facoltà di Scienze politiche dell’università di Teramo.
     Ha pubblicato saggi e articoli su riviste di storia contemporanea tra i quali: Lo scacchiere mediorientale nella politica estera italiana. Il centrosinistra e la Guerra dei sei giorni, in “Italia Contemporanea”, n. 250, marzo 2008, pp. 121-145; Lo sport come strumento di politica estera nella prima metà degli anni trenta: una peculiarità solo italiana?, in “Sportlex”, anno I, n. 10, ottobre 2008, pp. 3-11; I gravi fatti di Roccamorice del 1904. Il brusco impatto del mondo industriale in una provincia rurale dell’età giolittiana (in corso di pubblicazione su “Abruzzo contemporaneo”) e contributi in volumi collettanei tra i quali Il mare tra le terre, in Luigi Mastrangelo (a cura di), Giochi e sport in Abruzzo dall’antichità ai giorni nostri (Edizioni Scientifiche Abruzzesi, Pescara 2009) e Una rassegna bibliografica, con Luca Gasbarro e Francesca Mazzarini, in Giuseppe Sorgi (a cura di), Lo sport dopo le ideologie (Guaraldi, Rimini 2009), La concezione neo-marxista dello sport nell’analisi dei comunisti italiani, in Anna Di Giandomenico (a cura di), Le luci dello sport (Franco Angeli, Milano, in corso di pubblicazione).

Renzo Montagnoli
 

22/06/2010

Il nipote del Negus
di Andrea Camilleri
Sellerio Editore

Narrativa romanzo
Collana La memoria

Montelusa – Albergo Trinacria 20/12/1929 0re 14

-      Oddiodiodiodiodiodiodiodiodiodiodiodiodio…

 Montelusa – Albergo Trinacria 20/12/1929 Ore 17

-      Cosìcosìcosìcosìcosìcosìcosìcosìcosìcosì...

 Montelusa – Albergo Trinacria 20/12/1929 Ore 19

-      Ancoraancoraancoraancoraancoraancora...”

Sono frasi che non necessitano di ulteriori spiegazioni, quasi tipiche della miglior commedia all’italiana, ma Il nipote del Negus, di Andrea Camilleri, se può avere la parvenza di una commedia fra l’umoristico e il boccaccesco è invece una satira spietata attraverso la messa in scena di una commedia sugli italiani.
E quando s’apre il sipario sul palcoscenico si stenta a notare la differenza fra attori e pubblico, i primi impegnati al massimo della loro capacità a tratteggiare un regime dietro la cui parvenza di grandezza i piccoli e i grandi protagonisti si muovono come marionette  fra ipocrisie, timori e apparente fierezza, mentre gli altri, il pubblico in sala, sorride, ride, anche fragorosamente, non accorgendosi di trovarsi dinnanzi a uno specchio.
Il periodo fascista descritto da Camilleri è quello di un’Italia dai roboanti proclami a cui si finge di credere affinché nulla possa turbare i propri traffici privati, spesso illeciti, nella totale assenza di senso per lo stato.
La storia è ambientata nel 1929, ma per come agiscono i personaggi, per come insomma gira la carrozza del paese, si ha l’impressione di un qualche cosa di già visto e che, purtroppo, è sotto ai nostri occhi tutti i giorni, una lenta assuefazione tale da non accorgerci di questa perenne recita a soggetti, tutto uno sbandierare di apparenze, di deformazione della verità, una sorta di sogno infantile il cui risveglio potrebbe tramutarsi in incubo.
Fra l’altro Camilleri per raccontare si è rifatto all’esperienza de “La concessione del telefono” e così è tutto un fiorire di carteggi fra commissari di Pubblica Sicurezza, Questori, Federali, Podestà, ministeri degli Interni e degli Esteri, intercalati da prime pagine di giornali che più di tutti rivelano un totale asservimento a un regime in cui la notizia non è il fatto come  accaduto, ma come, secondo la illogicità di un sistema, viene offerto, anzi imposto, agli occhi di un lettore che ormai non può più discernere fra vero e falso.
Non mancano anche siparietti colloquiali, inseriti nel momento giusto e tesi soprattutto a dimostrare che fra l’ufficialità dei comportamenti e la relativa sicurezza del privato tutto era completamente diverso, come se ciascuno potesse contare su una doppia, e distorta, personalità.
L’autore siciliano parte così da un evento vero, e cioè il fatto che negli anni 1929 – 1932 si trovava a Caltanissetta il principe Brhané Sillassiè, nipote del Negus Ailé Sellassié, come studente della Regia Scuola Mineraria, da cui uscì diplomato. 
Di lui si sa che era bello, focoso, gran spendaccione e questa è la realtà, tanto che opportunamente il buon Camilleri ci precisa alla fine che tutto il resto è solo frutto di fantasia.
Senza descrivere la trama, per non dispiacere al lettore, dico solo che questo etiopico, dalla pelle nera, si rivelerà pagina dopo pagina non lo sprovveduto e quasi selvaggio di cui Mussolini intende avvalersi, ma un attore astuto e consumato tanto da prendersi gioco del regime.
Allora un nero in Italia era una rarità, ora non lo è più, ma in un contesto socio-comportamentale assai analogo non oso pensare quello che un altro nipote del Negus, o di un capo tribù del Ciad, o addirittura anche un ex morto di fame del Biafra potrebbe combinare. Perché se c’è un posto in cui tutto può accadere e anche accade è proprio l’Italia, ove grazie a personali ragion di stato, a furberie da asilo infantile e a soporiferi intrattenimenti dei media, tutto procede in una irreale realtà in cui anche “un alieno” di pelle scura potrebbe dimostrare che la logica vince sempre, soprattutto quando opera in un terreno in cui è assente.
Ho riso, più volte, ma è un riso amaro che si allarga nello specchio in cui mi rifletto.
Semplicemente un libro imperdibile.

Andrea Camilleri nasce a Porto Empedocle (Ag) nel 1925.
Scrittore particolarmente prolifico, ha pubblicato, fra l’altro, oltre a tutta la serie con protagonista il commissario Montalbano, Il corso delle cose (1978), Il birraio di Preston (1995), La concessione del telefono (1998), La scomparsa di Patò (2000), Il re di Girgenti (2001), Le inchieste del commissario Collura (2002), La presa di Macallé (2003), La pensione Eva (2006), Il colore del sole (2007), Le pecore e il pastore (2007), Pagine scelte di Luigi Pirandello (2007), Maruzza Musumeci (2007), Il casellante (2008), La vuccina (2008), La tripla vita di Michele Sparacino (2009), La rizzagliata (2009).
Renzo Montagnoli

 

21/6/2010

L’americano tranquillo di Graham Greene
Titolo originale The Quiet American
Ed. Arnoldo Mondadori

Narrativa: giallo politico

Da questo romanzo sono stati tratti due film, uno del 1958 e uno più recente made in USA del 2003 di Philip Noyce.
Nella dedica iniziale a degli amici di Saigon, Greene precisa che questo è un racconto, non un libro di storia, per cui i fatti reali sono stati in qualche modo rimaneggiati, ciò non toglie che i fatti stessi narrati rispecchiano riflessioni, considerazioni ed attività realmente vissuti dallo scrittore durante la sua esperienza come inviato speciale anche in Indocina.
Siamo nel marzo 1952, a Saigon, durante la guerra tra Francia e Indocina, il cinquantenne cronista, o meglio come ama definirsi reporter, inglese Thomas Fowler conosce un giovane funzionario americano della Missione per gli aiuti economici Alden Pyle;  tra i due nasce, nel breve rapporto intercorso, una forma labile di amicizia messa in crisi dall’amore per una stessa giovane vietnamita, la dolce Phuong “Fenice”. Il giallo assume i connotati del poliziesco psicologico nell’istante in cui Pyle viene ucciso in circostanze misteriose e Fowler cercherà la verità ripercorrendo nella memoria  i momenti passati insieme, da quando tutto era cominciato, a Pyle che si era seduto al suo fianco al Continental e…alla sua morte che gli arreca dispiacere. Al centro dell’opera si pone il confronto tra due personaggi implicati in uno stesso conflitto, ma con atteggiamenti opposti: Fowler disincantato e cinico, con un matrimonio in rotta di collisione, ricorre all’oppio come rimedio  al tormento delle sue angosce private e Pyle, apparentemente ingenuo, è considerato  un uomo tranquillo, mosso da ideali patriottici che legittimano la presenza degli USA nei punti caldi del mondo. Emergono due tipologie umane bifronti, Fowler considera con triste distacco e consapevolezza e la ruvidezza  di cui è fatta la sua professione: “Ero un corrispondente e pensavo per titoli: Funzionario americano assassinato a Saigon. Nel giornalismo non si impara come comunicare le cattive notizie” e gli accadimenti bellici che diventano una sorta di amara riflessione sugli uomini e il mondo, Phyle imbevuto del sogno americano non esita a diventare complice di una serie di sanguinosi attentati su civili per favorire il sospetto dell’opinione pubblica contro i comunisti. La storia narrata ha tutti gli ingredienti tipici del giallo e del giallo di marca Greene:  la suspense, i colpi di scena, il messaggio altamente etico sugli uomini sia carnefici sia vittime, l’amore tormentato per una donna più giovane. Greene nell’intreccio privilegia la dimensione morale e una posizione personale emotiva più che politica di fronte ai tragici eventi militari; i dubbi interiori di Fowler cozzano con le certezze granitiche di Pyle, ma “prima o poi bisogna scegliere con chi stare, se si vuole restare esseri umani”. Sul piano linguistico, la scrittura scivola come la sabbia nella clessidra, regolare, precisa e chiara: un formidabile uso dello  strumento espressivo che rende agevole e interessante la lettura.

L’Autore: Graham Greene nacque a Berkhamsted, in Inghilterra, nel 1904 e morì a Vevey, in Svizzera. Laureatosi a Oxford, fra il 1926 e il 1927 si convertì al cattolicesimo, abbandonando la fede protestante della sua famiglia. Redattore del Times, lasciò il lavoro nel 1929 per dedicarsi interamente all’attività letteraria. Nel 1935 tornò al giornalismo come inviato speciale, e viaggiò in tutto il mondo, rimanendo a lungo in Indocina. Durante la seconda guerra mondiale collaborò con il controspionaggio britannico. La sua produzione narrativa, che inizia nel 1929 con il romanzo L’uomo dentro di me, è vastissima: fra i molti titoli sono da ricordare Un campo di battaglia, 1934, Il potere e la gloria, 1940, Quinta colonna 1943, Il nocciolo della questione 1948, Il nostro agente all’Avana 1958,  Il console onorario 1973, Il fattore umano 1978, etc…Da segnalare anche i due volumi autobiografici Una specie di vita 1971 e Vie di scampo 1980, le opere saggistiche Viaggio senza mappa 1936, Due diari africani 1961, J’accuse 1982.
Arcangela Cammalleri

 

17/06/2010

Intervista a Claudio Magris
di Sergio Sozi
Historica Edizioni
www.historicaweb.com
Saggistica letteraria

E’ indubbio che i libri di Sergio Sozi, fatta eccezione per il romanzo Il menù, presentino caratteristiche del tutto particolari, ricomprendendo forme espositive diverse. E’ accaduto con Ginnastica d’epoca fredda, con un bel racconto intitolato appunto così, accompagnato da un breve, ma esaustivo saggio sulla Storia della Letteratura degli italiani d'Istria, Quarnaro e Dalmazia.
In Intervista a Claudio Magris, un vero e proprio dialogo culturale avvenuto nel 2006, è ricompresa l’analisi di una lettera, pubblicata nell’estate del 2009 sul Corriere della sera, e indirizzata dallo stesso Magris al Ministro della Pubblica Istruzione Mariastella Gelmini, epistola che fra l’ironico e il satirico è una decisa presa di posizione sull’unità linguistica e sull’identità nazionale, .
Ora, le interviste possono magari incuriosire, ma è meno frequente il caso che possano veramente interessare e quella presente in questo libro è una di quelle, rare, che veramente costituiscono un’occasione da non dimenticare. I motivi della pregevolezza di questo scambio di domande e di risposte risiedono da un lato nella capacità di Sozi di formulare quesiti che, pur nell’ambito della cultura, sono di portata ampia e tale da essere considerati imprescindibili nell’attuale contesto sociale, e dall’altro nell’elevato livello intellettuale di Claudio Magris, disponibile a un dialogo schietto, sincero, non dogmatico e, soprattutto, non politicizzato.
E’ fuor di dubbio che l’autore triestino rappresenti ormai da tempo un faro per la cultura non solo italiana, ma mondiale; in lui convivono, interagendo, un profondo senso etico che tende a restituire alla conoscenza il valore di accrescimento spirituale dell’uomo, e la capacità di analizzare i fenomeni mettendo a frutto la corposa cultura assimilata con spirito critico nel corso della sua esistenza.
Magris è certamente un nome conosciuto, ma ritengo opportuno brevemente sintetizzare chi sia veramente. Triestino, laureato in Lingua e Letteratura tedesca, che insegna nell’università di Trieste, saggista di primo piano (suoi sono i Tre studi su Hoffmann, Lontano da dove, Joseph Roth e la tradizione ebraico-orientale, ancora Tre saggi su Hoffmann, Utopia e disincanto), è anche narratore (Un altro mare, Le voci, Microcosmi, con cui ha vinto il Premio Strega). Figura di assoluto rilievo in campo letterario, è sovente nella rosa dei papabili per il Premio Nobel.
Per quanto concerne Sergio Sozi mi permetto di rimandarvi alla breve biobibliografia esposta in calce.
Ritorno all’intervista, un vero e proprio dialogo, fra un uomo di frontiera come Magris e un italiano proiettato nella complessa realtà di quella frontiera come Sozi; la stessa inizia prendendo spunto da Microcosmi, il romanzo dell’autore triestino che ha avuto come riconoscimento il Premio Strega, e in particolare dalle pagine riguardanti il Monte Nevoso (Sneznik). Non ho letto questo libro, ma sono dell’opinione che quel rapporto-conflitto tra uomo e natura non possa che suscitare il mio più pressante interesse. Credo che Magris abbia saputo cogliere quel problema esistenziale che, nel mentre ci porta a fuggire da una vita convulsa e irrazionale, ci pone di fronte anche a un dilemma, un dubbio amletico sui motivi della nostra presenza e sull’accettazione di essere umili parti di un caos perfetto.
Non vado oltre, evitando anche di riferirmi alle successive domande, perché l’interesse diretto e immediato che può offrire solo la lettura del libro finirebbe inevitabilmente con il disgregarsi, tentando un lezioso e tutto sommato inutile riassunto.
Il breve saggio invece sulla citata lettera al Corriere della sera è l’occasione, ghiotta, per Sozi, che ovviamente condivide i contenuti di quest’epistola, per rivendicare la nostra italianità, tema a lui sempre caro, al punto da costituire l’oggetto delle sue opere di narrativa, e che si tratti di un uso corretto della nostra lingua, oppure della riaffermazione di una comune nazionalità, le cose non cambiano.
Bella, ironica, anche sarcastica è la lettera di Magris, puntuale, esauriente e senza retorica ne é il commento di Sozi.
Quindi ci troviamo di fronte a un libro strano, senz’altro di estremo interesse, parole distillate per compendiare concetti e forme in modi più che corretti, decisamente comprensibile, l’ideale per una lettura gradevole, ma che induce a frequenti riflessioni. Gli antichi romani, ma anch’io, lo definirebbero con una semplice, ma efficace locuzione: jucunde docet.

 Sergio Sozi è vissuto in Umbria e in Slovenia. Giornalista culturale per testate italiane e slovene, poeta e narratore, già Premio Scritture di Frontiera di Trieste e Primorska Srecanja, ha pubblicato colloqui con Dacia Maraini, Sebastiano Vassalli, Diego Marani e Claudio Magris.
Il suo primo libro fu la raccolta poetica ''Oggetti volanti'' (Perugia 2000, segnalato dal Premio Sandro Penna 1999), seguito da ''Il maniaco e altri racconti'' (Roma 2007, racconto eponimo segnalato dal Concorso Scritture di Frontiera).
Il racconto ''Ginnastica d'epoca fredda'', prima di essere pubblicato nel 2009 in Italia da Historica Edizioni, è stato segnalato e antologizzato in Croazia nel 2008 a cura del Premio Fulvio Tomizza – Lapis Histriae.
Interessato alla conservazione dell’autentica lingua italiana e dell’identità nazionale ha pubblicato nel 2009 per i tipi delle Edizioni Historica il romanzo “Il menù”.
Renzo Montagnoli

 

15/06/2010

ISLAM NAZISMO FASCISMO
Storia di un'intesa ideologica e strategica che avrebbe potuto modificare l'assetto geopolitico mediorientale ed euroasiatico
di Alberto Rosselli
Edizioni Solfanelli
www.edizionisolfanelli.it
Saggistica
Collana Faretra


Muhammad Amin al-Husayni è un nome certamente a molti non noto, ma ben conosciuto dagli ebrei e dal mondo arabo in generale. Quest'uomo fu a lungo il Gran Mufti di Gerusalemme, cioè la massima autorità giuridica islamica sunnita responsabile della corretta gestione dei luoghi santi islamici in Gerusalemme.
Costui, fra il 1934 e il 1945, intrattenne complessi rapporti con Adolf Hitler e più in generale con il nazismo tedesco e con il fascismo italiano. Riesce difficile comprendere una stretta relazione fra un capo religioso e il dittatore, notoriamente ateo, di una nazione impregnata di antisemitismo, tanto più che se gli ebrei sono semiti, altrettanto lo sono gli arabi.
Questo bel saggio storico di Alberto Rosselli si propone di fare chiarezza su questi rapporti, delineandone i motivi alla base e le finalità, e lo fa in modo convincente, con una scrittura precisa, ma accessibile anche ai non addetti ai lavori.
Due realtà, apparentemente inconciliabili, trovarono punti di contatto nella comune avversione nei confronti dei sistemi democratici e verso quel mondo occidentale (Inghilterra e Francia) che, se da un lato costituiva per Hitler un naturale ostacolo al suo espansionismo, per il Gran Mufti invece era simbolo di colonialismo, lo stesso di cui molte popolazioni arabe scontavano gli effetti, anche se Francia e Inghilterra agivano in Siria, Libano, Iraq, Algeria, Tunisia, Egitto, Palestina non come pieni proprietari, ma come esercenti un mandato volto a consentire con gradualità il passaggio alla piena autonomia delle popolazioni di quei territori.
Meno comprensibile è il rapporto con il fascismo, stato coloniale che aveva represso sanguinosamente la rivolta senussita in Libia, ma qui entrano in gioco ragioni di stato, le stesse per le quali Mussolini varò le leggi razziali, unico effettivo punto di contatto e di condivisione con il Gran Mufti.
Del resto Mussolini mirava ad ampliare l'area d'influenza italiana e questa gli sembrò l'occasione buona. Agì tuttavia con prudenza in una visione politica volta a tenere sotto pressione l'Inghilterra senza giungere a un punto di rottura.
Hitler invece perseguì una politica più strettamente militare, volta da un lato ad alimentare l'irredentismo islamico onde creare complicazioni ai suoi avversari e dall'altro a mettere le mani sulle corpose riserve petrolifere dell'Iraq.
Non è improbabile, invece, che il Gran Mufti fosse animato da una sincera infatuazione per il nazismo che, per quanto ateo, propugnava idee di forza, volontà e coraggio che ben si sposavano con il suo acceso radicalismo religioso, tanto che, nel corso della seconda guerra mondiale, furono costituiti reparti di SS di fede islamica, composti per lo più da elementi europei dei paesi occupati dalla Germania.
La vicenda, complessa, anche se appassionante, si delinea nelle pagine con scorrevolezza, senza pervenire a facili semplificazioni e a conclusioni di comodo.
Il merito di Rosselli non è di scrivere la Storia, ma di mettersi al servizio della stessa, di indagare, di reperire documenti, di esporre, senza un indirizzo politico, ma solo i fatti, mai giudicati, o al più formulando logiche ipotesi.
Questo libro è senz'altro da leggere, perché in questo viaggio nel passato è possibile comprendere il presente, l'instabilità del Medio Oriente e la sanguinosa guerra non dichiarata che da così tanti anni vede combattersi israeliani e palestinesi.

ALBERTO ROSSELLI, giornalista e saggista storico, collabora da tempo con diversi quotidiani e periodici nazionali ed esteri e con svariati siti internet tematici. Come studioso di storia moderna e contemporanea e di geopolitica ha al suo attivo diversi saggi tra cui Québec 1759 (Erga Edizioni); Il Conflitto anglo-francese in Nord America 1756-1763 (Erga Edizioni), opera tradotta anche in lingua inglese; Il Tramonto della Mezzaluna. L’Impero Ottomano nella Prima Guerra Mondiale (Rizzoli BUR); La resistenza antisovietica in Europa Orientale 1944-1956 (Settimo Sigillo); L’Ultima Colonia. La guerra coloniale in Africa Orientale Tedesca 1914–1918 (Iuculano Editore); Il Ventennio in celluloide (Settimo Sigillo); Sulla Turchia e l’Europa (Solfanelli); L’Olocausto armeno (Solfanelli); Storie Segrete (Iuculano Editore); Il Movimento Panturanico e la "Grande Turchia" (Settimo Sigillo) e La persecuzione dei cattolici nella Spagna repubblicana. 1931-1939 (Solfanelli).
Renzo Montagnoli
 

14/06/2010

Oltre il sipario
di AA.VV.
a cura di Giuseppe Gambini
Immagine di copertina e disegni all'interno
di Antonia Perrini

Albus Edizioni
www.albusedizioni.it

Poesia antologia

Il Teatro è Vita e la Vita è Teatro, così Giuseppe Gambini ha voluto sotto intitolare questa antologia poetica da lui curata e ora fresca di stampa per i tipi della Albus Edizioni, opportunamente inserita nella collana Le parole per te.
Non è un caso se il poeta, napoletano d'origine, ma milanese d'adozione, ha inteso rendere omaggio a una sua vecchia e costante passione, vale a dire la rappresentazione teatrale, da lui da anni coltivata, anche se l'intento va oltre le semplici parole, si articola più in là del palcoscenico, andando a cercare, a esplorare in un mondo metaforico che appunto è Oltre il sipario.
Infatti, se vogliamo ben guardare, tutta la nostra vita ci vede al contempo protagonisti e spettatori, con un interscambio dei ruoli del quale nemmeno ci accorgiamo. E non è sempre detto che qualora facciamo parte dell'anonimo pubblico non siamo in effetti i più incisivi attori, muovendoci in silenzio nell'ombra del palcoscenico, figure che non si notano, che non appaiono alla ribalta, ma che sono lì, servono, sono necessarie, come i macchinisti, gli scenografi, il regista.
Ognuno ha un suo ruolo ben preciso, perché la vita si compone, si scompone, come le pietruzze di un mosaico, e se una c'è è perché esistono le altre, in un'interdipendenza di cui nemmeno ci accorgiamo se non quando qualcuno viene a mancare, una comparsa, anzi un attore che si allontana in silenzio per sfumare dietro le quinte del palcoscenico della vita.
Gambini ha scelto bene le poesie, in modo da presentare una varietà di liriche che, nel tema, hanno la dignità della loro diversità.
Si va così dalle quattro pareti in cui si consuma ogni sera il dramma della vita, lirica opera dello stesso Gambini all'ultima danza, che muore col sogno, di Gloria Venturini, passando per l'esplicito sipario della vita, di Giuseppina Iaccarino, e per i tasselli ribelli di un pianoforte, di Antonella Marseglia.
Cosa resterà di questa commedia dell'esistenza?
Forse il rimpianto di aver recitato un copione che abbiamo per forza dovuto accettare.
E' una bella antologia, varia e veramente interessante, e quindi senz'altro da leggere.

Gli autori
Giuseppe Gambini, Renzo Montagnoli, Rita Pagliara, Gloria Venturini, Anna Maria Consolo, Fernando Ciriolo, Geo Vasile, Annabella Mele, Carmelo Di Pena, Maria Pia De Martino, Giambattista Bergamaschi, Davide Niero, Paolo Meneghini, Maddalena De Leo, Mattia De Poli, Adele Bevacqua, Salvatore D'Aprano, Giuseppe Vetromile, Liliana Arena, Antonio Beozio, Cristiano Maria Carta, Antonella Marseglia, Marzia Cabano, Maria Chiara Quartu, Valeria Tomasulo, Nicoletta Corsalini, Agnese Monaco, Fernando Antonio Buccelli, Giuseppina Iaccarino, Andrea Bertolaso, Marco Managò, Mariapia Altamore, Roberto Marzano, Ludovica Mazzuccato, Michela Del Priore, Milvia Lo Forte, Alessia Mocci, Marina Bisogno, Ivana Mereu, Anna Gala.

Il curatore
Giuseppe Gambini nasce a Torre del Greco (NA) nel 1948, ma da oltre 30 anni vive e fa il pensionato a Garbagnate Milanese. Da giovanissimo, aldilà della professione esercitata, si è sempre interessato di teatro e poesia, recitando e scrivendo un po' di tutto. Per il teatro, nelle vesti di regista, di solito presenta lavori di autori contemporanei poco conosciuti, non disdegnando autori noti. Per la poesia e la narrativa solo da alcuni anni ha partecipato ad alcuni concorsi nazionali, riscuotendo premi e menzioni varie. Sinora ha pubblicato solo una silloge "L'amaro caffè della Vita", il cui ricavato l'ha devoluto in beneficenza. Alcuni suoi testi sono presenti in diverse antologie letterarie e su alcuni siti letterari
Renzo Montagnoli
 

28/05/2010

La firma del diavolo
di Fiorella Borin
Copertina di Gian Luca Peluso
Edizioni Tabula Fati
www.edizionitabulafati.it
Narrativa romanzo
Collana Malacandra
 

Biastemo il giorno che me innamorai,
Biastemo il giorno che ti misi amore,
Biastemo il giorno che in te mi fidai,
Biastemo il giorno che ti déi il mio core;
Biastemo il bene ch’io te volsi mai,
Biastemo l’alma mia, che per te more…

E’ l’anno di grazia 1588 e a Triora, un paesino della Valle Argentina, sito nel retroterra di Ventimiglia, corre la paura, c’è la caccia alle streghe, ree di aver fatto mancare la pioggia e di aver ridotto alla fame gli abitanti. Sono giorni di sospetti, di calunnie, di confessioni estorte con la violenza, di nomi di innocenti fatti sotto tortura, con i nuovi incolpati che, per lenire le sofferenze, chiamano in causa altri incolpevoli, in una spirale di crescente terrore. Spadroneggia, forte della sua carica, il commissario Giulio Scribani, feroce persecutore di seguaci del diavolo e fra queste Magdalena, la più bella del paese, amante di un nobile soldato, peraltro coniugato, e che farà di tutto per salvarla dal rogo.
I fatti accaduti in quell’anno sono veri e sono documentati da incartamenti d’epoca e da saggi storici. Pure vero è il commissario Scribani, mentre la vicenda di Magdalena e del suo amante è frutto di fantasia, innestata però con perizia nella realtà degli eventi, al punto di apparire del tutto verosimile.
Fiorella Borin si destreggia abilmente fra realtà e invenzione scrivendo un romanzo, in cui superstizione, fanatismo religioso e amore contribuiscono a costruire una storia di grande interesse e anche di notevole bellezza.
C’è solo follia, la follia della gente ignorante e pavida che soggiace alla volontà della Chiesa tramite le parole del vicario Gerolamo Dal Pozzo che di fatto insinua il sospetto e indica le prove, gli elementi di chi potrebbe essere una strega e trasformando così la paura in terrore; c’è la follia ancor più malvagia di Giulio Scribani, un fanatico che vede intorno a lui solo streghe; e infine c’è la follia di un innamorato che cerca inutilmente di salvare la propria amata.
E per tutto il romanzo arde costante un solo fuoco, quello di un amore che va oltre ogni limite, al punto che, proprio per amore, si può anche dare la morte affinché non si abbia troppo a soffrire.
Lei, rea confessa, la cui assunzione di colpa appare, oltre che inspiegabile, stupefacente, finisce con il diventare la vera protagonista, lei e tutte le donne che nei secoli sono state comodi capri espiatori. Il fuoco del rogo brucia tutto, anche ogni speranza, ma non l’amore e solo dopo, per un caso fortuito, sapremo il perché delle strane parole della confessione, un ulteriore, supremo e sublime atto d’amore.
Così, dopo aver letto e apprezzato due libri concernenti processi di stregoneria (Tu non dici parole, di Simona Lo Iacono, e La chimera, di Sebastiano Vassalli), ho seguito con passione ed emozione questa storia, con un senso di presenza ai crudeli interrogatori, alla disperazione dell’innamorato, sotto un cielo cupo e in un’atmosfera dal pungente lezzo della paura. Presunte streghe, povere donne innocenti sacrificate all’altare della superstizione, volti sconosciuti, ma quello di Magdalena me lo sono immaginato, provato, scavato, ma radioso nell’amore che la sosteneva, questa forza quasi immortale che resta anche dopo povere ceneri.
La firma del diavolo è un romanzo semplicemente stupendo. 

Nata a Venezia nel 1955, laureata in psicologia, Fiorella Borin si è dedicata per qualche anno all’insegnamento di scienze umane e storia negli istituti superiori. Ha collaborato con l’Università di Padova come cultrice della materia; in seguito ha maturato qualche esperienza in seno a piccole case editrici e nelle redazioni di riviste letterarie. Attualmente collabora con un settimanale femminile del più importante gruppo editoriale italiano.
     Oltre duecento suoi piccoli lavori di narrativa, poesia e saggistica sono presenti in antologie e riviste; il racconto La tela di Penelope è uscito sul mensile “Vera” (settembre 1995) commentato dallo scrittore Alberto Bevilacqua. Ha pubblicato il romanzo breve Le putine del Canal Gorzone (Montedit, Milano 2002), la raccolta di racconti La Signora del Tempio Nascosto (Alberto Perdisa Editore, Bologna 2003), il racconto storico-fantastico Il bosco dell’unicorno (Tabula fati, Chieti 2004), e i sei brevi romanzi storici: Mir i dobro (Montedit, Milano 2005), La sciarpa azzurra (Era Nuova, Perugia 2005), La congiura degli Olderichi (Edizioni Cofine, Roma 2007), Lo scrivano (Montedit, Milano 2007), Il pittore merdazzèr (Tabula fati, Chieti 2007) e La strega e il robivecchi (Tabula fati, Chieti 2010).
     Ha vinto una novantina di primi premi in concorsi letterari nazionali e internazionali.
Renzo Montagnoli

 

26/05/2010

Finestre e balconi
di Luigi Panzardi
Pubblicato tramite Unibook.com
Poesia

Già il titolo, con quel fiorire di aperture, più o meno ampie, sui muri di palazzi evoca vie di fuga, ma anche di contatto, dalle realtà opprimenti di una società che sembra aver smarrito i più elementari, nonché primordiali, concetti di esistenza.
La visione del mondo che ha l'autore non è pessimista, o di rigetto, ma drasticamente di chiusura, nella consapevolezza che il farne parte non dipende da lui, presente nella materialità corporea, ma non partecipe, membro di un consesso senza alcuna volontà di esserlo.
Per quanto questo libro si componga di più raccolte, con tematiche e modi espressivi anche diversi, spaziando dal verso libero al sonetto, inscindibile appare il pathos che ha condotto la mano alla scrittura.
Il risultato può essere un grido lancinante come in Sonetti di guerra, oppure una desolata rassegnazione come in Smarrimenti urbani, ma la filosofia del poeta è sempre la stessa, una disillusione che tende a svellere dal suo ruolo abituale la materia inerte, la carne, carrozzeria del corpo, per permettere all'IO di subentrare nella realtà di ogni giorno, contestandola, rifiutandola, una voce forte lanciata all'umanità da una finestra o da un balcone, un lamento per una vita non più accettata e dalla quale c'è la disperata ricerca di una via d'uscita, nel presupposto, logico, che debba essere necessariamente condivisibile.
Così l'identificazione dell'uomo Panzardi con il poeta Panzardi non è più solo un artificio, una finzione che artisticamente serva allo scopo di rappresentare un pensiero, bensì è uno sfogo e al tempo stesso un ritratto impietoso della propria inquietudine, che poi è quella di un'umanità sempre più confusa, vagante senza meta nella nebbia, perché ormai priva di quel senso di orientamento interiore costituito da valori di cui si è persa la memoria.
Finestre e balconi sul mondo e dal mondo, squarci sulla propria anima sbigottita, ma soprattutto un grido forte, intenso, benché silenzioso, quasi l'urlo di Munch si potrebbe dire, una disperata rassegnazione per una vita che poco a poco perde il suo ieri, non s'accorge dell'oggi e ignora cosa sia il domani.

Luigi Panzardi è nato a San Giorgio Lucano in provincia di Matera il 27 maggio 1942 e vive a Taranto. Ha pubblicato, oltre a questa, due raccolte di poesie intitolate Parole bianche e Istanze e sogni, nonché una raccolta di racconti(Addii di un rosso inconscio).
Renzo Montagnoli
 

25/05/2010

RacCorti - Storie brevi e brevissime che sembrano film
di Adalberto Fornario
Edizioni Jamm, 2010

DI CUORE E DI PENSIERO
Trame di films, appunti di vita, tracce di racconti autobiografici e non. Sono prodotti e pulsioni della fervida fantasia di Adalberto Fornario, che, come lui stesso a volte ama sottolineare divertito, non interrompe mai la sua attività. La curiosità è la molla principale che pompa ossigeno e sangue nel cuore e nella testa : cinema, al primo posto, narrativa, soprattutto noir, teatro, musica, soprattutto l'amato Faber, arti visive, insomma Adalberto è un divoratore onnivoro di tutto quanto l'umana creatività può produrre. E da queste abbuffate culturali sortiscono le sue elaborazioni creative, che diventano un impellente bisogno di misurarsi con se stesso e condividere con gli altri. Così scrive e pubblica poesie (Faccia a faccia 2006), gira e monta videoclip e corti, ipotizza trame di film mai visti e che magari prima o poi film diverranno. Divertendosi prima di tutto e divertendoci con la sua arguta e visionaria capacità che si traduce in nobili "pensieri e parole".
Ivana Jachetti
 

24/05/2010

La caccia al tesoro
di Andrea Camilleri
Sellerio edizioni Palermo

Genere noir 

Il sedicesimo libro della serie con Montalbano ha un incipit diverso: il commissario non ha passato una nottata fitusa, non s’arroviglia tra le lenzuola, ma più avanti si legge: “e fu accussì che inveci d’essiri, come al solito, arrisbigliato dalla prima luci del jorno, fu lui a vidiri il jorno che s’arrisbigliava”. Sembra di entrare subito nell’atto criminoso, ma poi Camilleri ci svia, ci addentra in un commissariato sonnolento, intorpidito, senza fatti violenti o cruenti sia pure di scarsa entità, Montalbano che non sa come passare il tempo tra un libro di Simenon, una Domenica del Corriere del 1920 e l’osservazione entomologa del percorso di una mosca intorno alla scrivania.
Montalbano primo che interloquisce con Montalbano secondo sulla vecchiaglia,  riflessioni sul suo modus operandi più cauteloso: si rimprovera e poi si assolve.
Catarella con le sue proverbiali storpiature lessicali, sciddricate della mano sulla porta e divagazioni con  rebus e cruciverba allenta la tensione che tra le pagine s’insinua. La sempiterna e slapita Livia distante anni luce, solo telefonicamente rivendica ancora un minimo di attenzione da parte di Salvo. Fazio, Mimì Augello, Gallo, Galluzzo, la svedese Ingrid cristallizzati nei loro ruoli, ci accompagnano in questa nuova e più noir storia: due vecchi fanatici religiosi, due bambole gonfiabili, lettere anonime che in giochi enigmistici invitano il commissario ad una strana e poco credibile caccia al tesoro, la scomparsa di una giovane e bella ragazza e un giovane aspirante epistemologo, tutto questi elementi sparsi e apparentemente slegati tra loro trovano la giusta collocazione. Montalbano rimette a posto con la sottile arguzia che lo contraddistingue tutti i pezzi del puzzle, quando un lapsus e due omissioni gli illuminano la mente e la risoluzione del caso prende forma anche senza uno straccio di prova, ma “la mancanza di prove non è prova della mancanza”, (Rumsfield).  Da “L’età del dubbio” e “La danza del gabbiano” il commissario di Vigàta, 57 enne, s’interroga, si analizza sempre più nel profondo: sì, ripete i suoi rituali legati alla cucina, la buona cucina di Adelina o di Enzo, la passiata al molo, fino sutta al faro, l’assittatina supra allo scoglio con relativa sicaretta, le parole che lo fanno arraggiari, il guasto della natura, della politica,  dell’animo umano che lo feriscono, l’offendono, ma ad una certa età s’addiventa insofferenti su tutto. Conferme per lui che sta diventando vecchio. Una forma di spleen cova nel suo cuore e squieta la mente, la solitudine che prima era quasi uno status naturale ora l’avverte con  più sofferta sensibilità. Camilleri attinge a piene mani alla sua fantasia, ma anche alle sue eccellenti letture,  echi e riferimenti letterari, come il nome della via Brancati  al Don Giovanni in Sicilia, bambole gonfiabili comprate all’estero, espressione di un erotismo stravagante e alla moda e altro. La caccia al tesoro è un’altra gemma letteraria di Camilleri che ci emoziona fino all’ultima riga. Come il personaggio Arturo Pennisi, il picciotto ventino, preciso intifico a un Harry Potter, è interessato al funzionamento del cervello di Montalbano quando conduce un’indagine, così noi lettori siamo incuriositi e affascinati della mirabolante struttura linguistica di Camilleri e degli architettonici ed ingegnosi intrecci narrativi delle sue opere. E come se Camilleri sfidando se stesso in un gioco di specchi lanciasse una sfida anche ai suoi lettori facendoli giostrare a più livelli   mentali e ingannandoli- da ottimo giallista- per gran parte del testo.         

L’autore. Andrea Camilleri è nato a Porto Empedocle nel 1925. Ha esordito come romanziere nel 1978 con “Il corso delle cose”. Della sua ricchissima produzione letteraria tutti i romanzi con protagonista il commissario Montalbano sono pubblicati dalla casa editrice Sellerio e altri, tra questi ricordiamo: “La forma dell’acqua”, “Il cane di terracotta”, “Il ladro di merendine”, “La voce del violino”, “La stagione della caccia”, “Il birraio di Preston”, “La concessione del telefono”, “La gita a Tindari”, “Maruzza Musumeci”, “Il casellante”, “Il campo del vasaio”, “L’età del dubbio”, “Un sabato, con gli amici” “Il sonaglio” “Il cielo rubato” “La danza del gabbiano”, “Il nipote del Negus”.
Arcangela Cammalleri

 

22/05/2010

Raimondo Mirabile, futurista
di Graziano Versace
Edizioni XII
www.xii-online.com

Narrativa romanzo
Collana Eclissi

Già dalle prime pagine l'IO narrante, rappresentato da Gregorio Valli, il maggiordomo di Raimondo Mirabile, l'effettivo protagonista, mi ha fatto venire in mente un altro personaggio, Archie Goodwin, il segretario di Nero Wolfe; poi, nello svolgimento della trama, un vero e proprio feuilleton ambientato in una fosca Milano degli inizi del secolo scorso, l'autore ha attinto a piene mani ad altri generi e sottogeneri. Così, nell'ambito di una vicenda di extraterrestri e quindi propria della fantascienza, si innestano, oltre a elementi del giallo, anche aspetti e situazioni tipiche del gotico, dell'esoterico, con una puntata nell'atmosfera dello steampunk. Nasce così un curioso cocktail in cui Graziano Versace sembra trovarsi, tutto sommato, a suo agio e di questa costruzione narrativa il lettore non potrà che essere appagato, costantemente teso a scoprire come i nostri eroi riusciranno finalmente a sventare una diabolica cospirazione messa in atto da esseri alieni. Giova molto, peraltro, l'agilità di una scrittura dal tono velatamente distaccato, quasi di epoca vittoriana, che più che tendere a drammatizzare induce ad alimentare una curiosità sull'evolversi della vicenda che cresce progressivamente, fino a quasi il parossismo delle pagine finali, con una discesa in una cripta, gigantesca, di una tomba monumentale del cimitero di Milano in cui ritroviamo strumenti e macchinari tipici dei romanzi di Jules Verne Viaggio al centro della terra, Dalla Terra alla Luna, L'isola misteriosa e Ventimila leghe sotto i mari.
L'impressione è così di immergersi nei ricordi delle letture della giovinezza, allorché attiravano maggiormente le avventure narrate dallo scrittore francese anziché quelle di Asimov, forse perché le prime avevano un sapore pionieristico, quasi artigianale, meno tecnologico del mondo dei robot.
Oggi la fantascienza è una proiezione della scienza nel futuro ed è quasi scontato che un giorno sarà così, ma il sapore di qualche cosa che sembra più dimensionato all'uomo si ritrova in opere come quelle di Verne, di Wells e anche in questo piacevolissimo romanzo di Versace.
Peraltro, il richiamo al futurismo non è solo opportunistico, vista l'epoca, ma va ben oltre e sembra avere un significato profetico, con quel delirio di volontà e di potenza con il quale gli alieni intendo asservire i terrestri. Le loro parole circuiscono, nel dire una cosa se ne imprime un'altra nelle menti, un'allusione all'attuale comunicazione televisiva che non libera, ma assoggetta.
Fra trovate geniali, come quella dell'olio sostituito al sangue, e altre con vaghi richiami letterari, come la serata futurista, è un salto nel passato per comprendere il presente, e, secondo me, sta in questo la reale grandezza del romanzo, peraltro godibilissimo anche come letteratura fantastica.
Da leggere, non ve ne pentirete.

Graziano Versace è nato a Belmore (Australia) nel 1964. Laureatosi in Lettere Moderne, ha svolto l'attività di psicoterapeuta umanistico-esistenziale, lavoro che ha svolto occupandosi di Bioenergetica reichiana e loweniana, e di altre terapie umanistiche, approfondendo anche la ricerca sugli studi di Carl Gustav Jung e dei neo-junghiani in genere, privilegiando l'aspetto del sogno, o meglio della dimensione onirica. Attualmente, insegna Materie Letterarie a Sant'Agata di Militello (ME) dove vive insieme alla moglie Ketty e al figlio Davide. Ha pubblicato un libro di narrativa per la scuola dal titolo Biglie colorate. A settembre 2009 è uscito per San Paolo un suo romanzo: Ladri di locandine. Finalista due volte al Premio Urania, coltiva da sempre la passione per la Fantascienza.
Renzo Montagnoli
 

21/05/2010

L’isola della paura
Di Dennis Lehane

Thriller
Ed. Piemme LineaRossa
Titolo originale Shutter Island

“Dobbiamo sognare i nostri sogni e dar loro vita?”
Elisabeth Bishop. Question of travel
Questo romanzo è un thriller ad alta tensione, psicologico e coinvolgente. La trasposizione cinematografica di Martin Scorsese ricrea le stesse atmosfere cupe e claustrofobiche del libro, scene apocalittiche  durante l’imperversare dell’uragano e personaggi tetri e foschi, alcuni dei quali hanno solo parvenze umane. L’isola è la protagonista assoluta della storia, una cosa che cattura nelle sue spire chi approda e  non sa che è un viaggio senza ritorno. Ciò che appare sembra, ma non  è reale,  la vita reale è labile come foschia che dirada all’orizzonte, solo gli incubi depredano il cervello umano e come alieni invadono i gangli nervosi. L’agente federale Teddy Daniels, eroe di guerra ( nella seconda guerra mondiale), porta i suoi fantasmi interni sull’isola. Nel settembre del 1954, da Boston dove abita, è inviato nell’isola di Shutter, a Ashecliffe Hospital, un manicomio criminale per indagare la scomparsa di una  certa paziente Rachel Solando. La trama non si può raccontare, come ogni noir degno di questo nome deve rimanere nel mistero e solo chi lo legge può trarne le sue conclusioni. Ma si può sottolineare i temi di fondo sottesi alla storia: la guerra che fabbrica eroi mediante omicidi legalizzati e devasta il cervello e il fisico fino a, volte, all’annientamento, le pratiche psichiatriche da camicia di forza e pene detentive, spacciate per cure per le malattie mentali, la società americana con i suoi perversi meccanismi di supposta autodifesa che annega i suoi fantasmi nell’alcool e in un rigido moralismo patriottico. Un finale aperto sorprende e le ultime pagine e le ultime righe sono un colpo mancino da parte dell’autore assestato con astuzia e con una buona dose di perfidia. Lambiccarsi il cervello e indurre alla riflessione sono i messaggi sublimali che Dennis Lehane lancia al lettore. Come rimanerne? Delusi? No, perché il protagonista ci entra nella mente, in quel suo continuo arrovellarsi; le visioni, i sogni, sono così fisici da frantumare l’interezza dell’io. Le sue sofferenze così tangibili dilaniano ogni fibra del suo corpo che sembra quasi di sentire  e percepire, attraverso le pagine, tutte le sensazioni  più intime. I traumi passati diventano un’arma che si ritorce su stessi, ci sono esperienze, quali la guerra, la morte violenta che segnano inesorabilmente l’animo sconvolgendo la psiche. In questa narrazione l’amore del protagonista per la moglie è totalizzante, terribile”Lei era stato tutto l’amore che avesse mai provato” e questo amore è descritto come gioia, esaltazione prima, dopo sofferto, tormentato  e senza tregua  consuma il suo spirito. Lehane coglie ogni dettaglio dei sentimenti che vivono nella mente di Teddy, esplora l’animo umano con grande psicologia. E come se svegliasse la memoria intorpidita dal troppo dolore e scavando in profondità facesse affiorare tutto l’indicibile non altrimenti sopportabile. La verità non sempre è il bene, l’apparenza di essa è eticamente accettabile quando la pretesa di possedere una verità assoluta  è relativa all’individuo.  Una bella scrittura, un bell’intreccio ben congegnato, una intensa riflessione sull’uomo quando la sua vita si trasforma in dramma e tutto precipita, dei motivi per leggere questo libro ed apprezzare l’intenzione profonda che muove l’autore a raccontare questa vicenda.

L’autore. Dennis Lehane Di origine irlandese, vive a Boston, dove ha ambientato tutti i suoi romanzi. Dopo aver fatto i mestieri più disparati, si è dedicato interamente alla scrittura. I suoi romanzi sono venduti con grande successo in tutto il mondo e pubblicati in Italia da Piemme. Tra gli altri ricordiamo La casa buia. Gone Baby Gone, diventato un film per la regia di Ben Affleck. Mistic River. La morte non dimentica, bestseller internazionale da cui è stato tratto il celebre film di Clint Eastwood, e Quello era l’anno, con cui si cimenta nel grande romanzo epico. Da L’isola della paura Martin Scorsese ha tratto il film Shutter Island, con Leonardo DiCaprio e il Premio Oscar Ben Kingsley.
 Arcangela Cammalleri

 

I racconti del cavolo
di Marino Solfanelli
II Edizione
Presentazione di Giuliana Cutore
In copertina Filosofo in meditazione, di Rembrandt (1632)
Edizioni Tabula Fati
www.edizionitabulafati.it
Narrativa racconti

Il titolo può trarre in inganno, ma state tranquilli che questi racconti non sono bagatelle, bensì piacevoli incursioni nel quotidiano che, arricchito da una buona dose di creatività, finisce con l'apparire degno di considerazione, a volte divertendo e altre inducendo alla riflessione.
Non è la prima volta che un editore invade il campo degli autori, ma Marino Solfanelli sembra che abbia voluto, più che altro, aprirsi agli altri attraverso storie, per lo più brevi, desunte da osservazioni guidate dall'occhio esperto e attento del giornalista.
Si passa così dal surreale "Furto al supermercato", una satira graffiante del paradigma giudiziario, che si riconferma in "Il processo" con protagonista un avvocato di manzoniana memoria, all'aneddoto, come in "Il comizio", per confluire maestosamente nel didascalico "In cerca dell'amore", passando attraverso l'amara constatazione di "Il creditore del terzo giorno" e il brevissimo, ma intenso "L'uomo dalle stampelle".
E' un microcosmo di personaggi, di situazioni, di vita di ogni giorno che emerge alla ribalta impreziosito dalla creatività dell'autore e dal garbo, peraltro colloquiale, dell'esposizione.
Sono tutti racconti che si leggono alla svelta e con piacere, ma non crediate che servano solo a trascorrere un paio d'ore, magari mentre si viaggia in treno. Infatti, arrivati all'ultima pagina, dopo aver scorso un brano un po' fuori dal coro, un'esperienza certamente di vita vissuta, quale quella di "La città verboten", un quadro realistico e allucinante di ciò che ci capita pressoché ogni giorno, asfissiati dallo smog, incolonnati nelle nostre scatole di latta in gironi quasi danteschi, è d'obbligo tirare le somme, ripensando alla lettura fatta, a certe osservazioni, ad alcuni personaggi, e solo allora ci si accorge che è rimasto dentro qualche cosa, che non è stato solo svago e che in fondo Marino Solfanelli è riuscito a comunicare con noi.
No, credetemi, non sono proprio racconti del cavolo, ma ben altro.
     

Marino Solfanelli, iscritto all'Albo dei Giornalisti dal 1957 (Tessera N. 60323), il 23 marzo 2002 ha ricevuto una medaglia ricordo per i 45 anni di iscrizione.
     Dal 1955 al 1970 è stato Redattore Capo della Redazione di Chieti del quotidiano Il Tempo.
     In tempi diversi ha collaborato con i quotidiani: Il Corriere della Sera, Il Gazzettino di Venezia, Il Mattino di Napoli, Il Secolo d'Italia, Linea.
     Esperto di Pubbliche Relazioni, Promozioni vendite, Ricerche di mercato, ha collaborato con Istituti di Ricerche, Fondi Comuni di Investimento, Assicurazioni.
     Negli anni '60 è stato consulente per le Pubbliche Relazioni della Marwin Gelber (già Camiceria Adriatica)
     Esperto di editoria, nel '72 ha fondato e diretto, sino al 1995, la Casa editrice Solfanelli, di rilevanza e prestigio nazionale.

Attualmente collabora con la casa editrice Tabula fati del figlio Marco.
     Ha fondato e diretto diversi periodici fra i quali L'Alternativa del Centro Studi Politici e Costituzionali del prof. Giacinto Auriti. Attualmente è direttore responsabile di alcune pubblicazioni, tra cui la rivista di cultura teatrale InTeatro
     Da oltre 50 anni, è editore e direttore dell'Agenzia di informazione ABRUZZOpress. Prima Agenzia di notizie a diffusione settimanale sorta in Italia, negli anni '50, con la testata ABRUZZO-MOLISE-press, trasformatosi in ABRUZZOpress dopo il distacco amministrativo della Regione Molise (1963); per decenni ha diffuso - per le pubblicazioni abruzzesi sparse nel mondo - notizie di attualità, politica, cultura e tradizioni popolari della nostra Regione. ABRUZZOpress, dall'anno 2000 diffonde, con periodicità quotidiana (via E-mail o per Fax), notizie ad Agenzie di Informazioni (italiane e straniere), Quotidiani e Periodici, Tadio-Tv (locali e nazionali), Organi dello Stato, Parlamentari, Amministrazioni, Enti, Associazioni, Partiti. ABRUZZOpress dispone del sito internet che viene quotidianamente aggiornato con le notizie diffuse dal quotidiano.
     Svolge di quando in quando lezioni di giornalismo - con particolare soddisfazione di insegnanti ed allievi "speciali" - in alcune classi di V Elementare.
Renzo Montagnoli

 

09/05/2010

Nonostante il Vaticano
di Gianluca Ferrara
Castelvecchi Editore
www.castelvecchieditore.com

Collana Tazebao

Alcuni giorni fa ho letto sul n. 17 dell'Espresso un interessante editoriale di Eugenio Scalfari intitolato Il potere e il Vangelo. In esso l'autore, notoriamente ateo, evidenzia che dalla lontana donazione di Costantino la Chiesa è dibattuta fra la realizzazione del messaggio di Cristo e la difesa, o meglio ancora, il rafforzamento del potere temporale. E' una discrasia ormai più che millenaria, un conflitto che sembra insanabile e che in alcuni periodi si riduce, per poi riprendere vigore e riaffermarsi.
In pratica è di ciò che parla anche questo interessante e pregevole libro di Gianluca Ferrara, con un fondo di amarezza tipico dell'autentico credente che soffre nel vedere quanto la realtà differisca dai propositi, quanto il messaggio evangelico entri in aperto contrasto con un "fare" istituzionalizzato non difforme da logiche e da scelte di potere.
Mi si potrà far osservare che la questione è vecchia, che nulla è in effetti cambiato e nulla cambierà, che i difetti della Chiesa come istituzione sono tanti e facilmente evidenziabili e che quindi parlarne è facile, ma soprattutto inconcludente, perché il problema non si risolve.
Ferrara, però, non spara nel mucchio; la sua è un'analisi che cerca di essere la più fredda possibile per spiegare i motivi, additando una soluzione tanto semplice quanto, proprio per questo, di difficile, ma non impossibile realizzazione. Il percorso è quello segnato, è il messaggio di Gesù Cristo e basta seguirlo, così come hanno fatto e fanno tanti religiosi.
Questi preti scomodi, umili perché non mossi dalla brama del potere, in effetti finiscono con l'essere la salvezza della Chiesa, un'istituzione che, quando loro non possono più nuocere, li eleva ad esempio, magari anche beatificandoli, se non santificandoli.
Eppure in vita hanno dovuto subire mortificazioni, disagi, emarginazioni, proprio come tutti coloro che si attivano per ridare dignità all'essere umano, per fare in modo che le disuguaglianze vengano eliminate, per ridare vita e speranza
agli oppressi, ai diseredati.
E così Ferrara ci parla di Don Milani, della sua opera, di quanto sia stato osteggiato dalla gerarchia ecclesiastica, come pure scrive di altri religiosi, facendoli addirittura parlare, come nel caso di Don Gallo, di Don Della Sala, di Padre Zanotelli, tutti sacerdoti scomodi, perché portano avanti il messaggio di Cristo mettendolo in pratica in prima persona, senza trincerarsi dietro motivi di comodo o, peggio ancora, di aspirazioni di potere.
Se la Chiesa come istituzione ancora esiste è anche per merito loro, per questi uomini fra gli uomini, per queste schegge di Cristo, come li ha ben definiti Beppe Grillo nella sua introduzione.
Nonostante il Vaticano non è un libro per soli credenti, ma è il libro per tutti gli uomini che sperano in un mondo più giusto.

Gianluca Ferrara, laureato in Scienze Politiche a pieni voti presso l'università Federico II di Napoli, ha collaborato su Internet a riviste letterarie e culturali su argomenti d'attualità e saggi a sfondo sociale.
Nel 2000 ha pubblicato "Viaggio nella droga proibita" , presentato al Salone del Libro di Torino, e vincitore del premio letterario internazionale "Mondolibro", è stato inserito in prestigiose antologie letterarie. Un saggio sulla droga, la cui introduzione è stata effettuata dall'onorevole Ernesto Caccavale, che ha riscosso notevole interesse tra gli addetti ai lavori. Ad esso hanno partecipato attraverso interviste e testimonianze l'ex commissaria europea Emma Bonino, il ministro Maurizio Gasparri, il direttore del giornale di San Patrignano Forquet. Nel 2005 gli è stato conferito il diploma speciale dalla giuria del Gran Premio Letterario Europeo Penna d'Autore.
Renzo Montagnoli
 

06/05/2010

L'amante dell'Orsa Maggiore
di Sergiusz Piasecki
Mondadori Editore
Narrativa romanzo

Se c'è un romanzo che incarna il desiderio di libertà e lo spirito di avventura è proprio L'amante dell'Orsa Maggiore. L'autore è riuscito a narrare una sua esperienza di vita innestando anche fatti ed eventi di pura fantasia con straordinaria abilità, rendendo così la sua opera particolarmente attraente tanto da trovare non pochi entusiasti al punto tale da indurre il regista Valentino Orsini a trarre un buon film nel 1971 e Anton Giulio Majano a dirigere uno sceneggiato televisivo nel 1983.
La trama, densa di avvenimenti, ruota intorno alla figura di Vladek, nome che si attribuisce l'autore e che altri non è se non un contrabbandiere che percorre di notte sentieri appena tracciati per passare dalla Polonia all'Unione Sovietica.
Il pericolo sempre presente, le suggestive descrizioni di cieli stellati, di una natura solo in apparenza ostile e le innumerevoli vicende che si susseguono con ritmo serrato danno a questo romanzo un'atmosfera di ribellione a tutto ciò che è imposto dagli uomini per restituire così all'individuo la originaria libertà.
Vladek non è un eroe, ma solo un uomo che ama correre nel vento come un cavallo selvaggio, forse anche un anarchico ammantato da un velo di istinti primitivi che lo portano a vivere un'esistenza avventurosa giorno per giorno fino a quando anche lui si accorgerà che non è più il tempo di una spensierata giovinezza trascorsa all'insegna di una beata incoscienza, ma che l'ultima stagione va sempre più approssimandosi.
In questo romanzo ciò che è emerge è la bellezza di vivere, il desiderio di esistere intensamente ogni giorno come se questo fosse l'ultimo; l'ho letto che ero giovane e mi ha letteralmente entusiasmato, l'ho riletto molti anni più tardi con un senso di rimpianto per il tempo andato, per giorni trascorsi a rilento, per un'esistenza che non è che una pallida ombra di quella di Vladek.
E non c'è più un'Orsa Maggiore a guidare il mio cammino nell'oscuro sentiero della vita.
Leggete questo romanzo, riscoprite il significato della vera libertà.

Sergiusz Piasecki (Lachowicze, 1 aprile 1901 - Londra, 12 settembre 1964). Scrittore polacco molto apprezzato, combatté prima contro i bolscevici, poi contro i tedeschi, nell'ambito di una vita avventurosa che lo vide svolgere l'attività di contrabbandiere, conclusa nel 1929 con il suo arresto. Di questo periodo di illegalità ha scritto nel suo romanzo più famoso, L'amante dell'Orsa Maggiore.
Renzo Montagnoli
 

03/05/2010

L'opera al nero
di Marguerite Yourcenar
Nota dell'autore
Giangiacomo Feltrinelli Editore
Narrativa romanzo

Quando Marguerite Yourcenar scrive nel 1968 L'opera al nero sono già trascorsi più di cinque lustri dalla prima edizione di Memorie di Adriano, che può essere considerato il suo libro più riuscito e, in assoluto, un capolavoro. Il suo è un ritorno al romanzo storico, un genere che le è indubbiamente congeniale e che appunto con Memorie di Adriano le ha dato fama e risonanza a livello mondiale. Se però nel descrivere la crisi che colpisce l'imperatore illuminato, ormai prossimo alla morte, evoca anche l'atmosfera della grande Roma ormai incamminata verso la sua fine, con L'opera al nero, nel narrarci della vita del medico e alchimista Zenone, ci mostra splendidamente il passaggio storico dal Medioevo al Rinascimento. Marguerite Yourcenar non si limita a un grande affresco di un'epoca di transizione all'evo moderno, in cui convivono le rigide e apparentemente immutabili regole di un periodo oscuro con i primi bagliori di luce della nascita di una nuova era in cui l'uomo ambisce a squarciare il pesante telo di ignoranza e di superstizione, ma va più a fondo, e come nel caso di Adriano, instaura un dialogo fra l'essere e la sua anima, fra la materialità del corpo e la sua essenza spirituale, in una ricerca della verità interiore di rara e stupenda bellezza.
Mentre Adriano è esistito veramente, Zenone è esclusivo frutto della creatività, pur se influenzata indubbiamente dalla vita di personaggi dell'epoca quali Paracelso e Tommaso Campanella. Al pari di questi uomini dotti e famosi, il povero medico e alchimista ha dovuto subire le conseguenze derivanti dall'essere un anticipatore dei tempi nuovi. Precorrere nuove idee che un giorno andranno ad affermarsi è sempre un rischio e a tal riguardo basti pensare al processo che dovette subire Galileo Galilei. Si viene a determinare così uno scontro fra la razionalità che ammette possibilità diverse e il pensiero dominante che può e deve essere solo unico. Non a caso Zenone, processato per eresia, discutendo con i teologi dice loro queste parole "Non esiste accomodamento durevole tra coloro che cercano, pensano, analizzano e si onorano di pensare domani diversamente da oggi, e coloro che credono o affermano di credere, e obbligano con la pena di morte i loro simili a fare altrettanto.". E' un'evidente accusa al dogma, a quel credere ciecamente che porta a un assolutismo tale in base al quale anche gli altri sono costretti a credere. Lo sviluppo culturale non può quindi che essere frutto del dubbio, ma ciò significa entrare in aperto contrasto con le religioni imperanti monoteiste, quali il cattolicesimo, il luteranesimo, l'islamismo, in eterno contrasto con la razionalità della scienza e sempre inclini a negarla, non riuscendo, né volendo, tenere separati il soprannaturale e la realtà materiale del mondo in cui si vive.
Zenone è uno spirito libero e come tale vuole condurre la sua esistenza, costretto però per professare le sue idee a usare un nome falso, a nascondersi, a una clandestinità che tuttavia lo ripaga dell'immenso piacere di porsi domande cercando risposte. Come altri uomini nuovi (basti pensare a Giordano Bruno) finirà con l'essere scoperto, processato e condannato a morte; lo spirito di libertà che lo anima, tuttavia, gli impedirà di essere consegnato al carnefice e così la sera prima dell'esecuzione in un ultimo atto di ribellione si toglierà la vita.
L'opera al nero è un romanzo avvincente e dai profondi significati; la lettura, quindi, è vivamente raccomandata.

Marguerite Yourcenar, pseudonimo di Margherite de Crayencour, nasce a Bruxelles l'8 giugno 1903 e muore a Mount Desert il 17 dicembre 1987, dopo una vita avventurosa ed errabonda. Le sue opere principali sono Alexis o il trattato della lotta vana (1928), Il colpo di grazia (1939), L'opera al nero (1968) e, soprattutto, Memorie di Adriano (1951).
Renzo Montagnoli
 

02/05/2010

L’eleganza del riccio
di Muriel Barbery
edizioni e/o

Se volessi sintetizzare in quattro parole questo libro direi: Elogio del buon gusto.
Mi ha fatto molto piacere leggerlo perché ho trovato un netto contrasto con quanto avevo letto in una recensione che lo liquidava come “romanzo disturbato da citazioni dotte” che non ne avrebbero fatto fruire in modo agevole la trama, e come “una sorta di esibizione di cultura filosofica e artistico-letteraria” da parte dell’autrice che, con questo sistema di citazioni, avrebbe spogliato il romanzo delle sue essenziali caratteristiche strutturali e di contenuto facendone una cosa diversa senza riuscire ad attirare che pochi lettori cervellotici.
In un primo momento avevo deciso che non valesse la pena leggere un romanzo presentato in modo così poco accattivante. Ma poi ho voluto provare a leggerlo per avere la possibilità di confermare quelle opinioni o di smentirle.
E mi ritrovo qui a scrivere questa recensione breve, per dire appena due cose su un romanzo che a me è piaciuto molto.
La prima cosa che voglio evidenziare è che il romanzo ha una caratteristica di struttura forse non originale, (in quanto altri romanzi precedenti sono stati scritti in modo simile), ma che ne semplifica molto la lettura: è come se fossero due racconti di vita affiancati, quello di una portinaia e quello di una ragazzina di famiglia bene di appena dodici anni.
Le loro narrazioni, ciascuna in prima persona in quanto le due protagoniste parlano della propria esperienza, si incrociano spesso nel richiamo che entrambe fanno alle conoscenze accumulate e/o allo stile di vita che preferiscono. E sono proprio le citazioni culturali che in qualche modo sottendono i legami psicologici delle due narratrici.
Il secondo rilievo che voglio fare riguarda proprio l’elemento messo sotto accusa nella recensione che avevo letto: le citazioni, ancora una volta. Ma smentisco che siano di peso nella lettura del libro, prima di tutto perché non è affatto vero che sono eccessive, e in secondo luogo perché catalizzano l’attenzione del lettore proprio su ciò che le protagoniste hanno in comune, lasciando in tal modo che si formi nella sua mente, in maniera quasi automatica, una sorta di complicità con entrambe.
La lettura quindi tiene legato il lettore alle vicende raccontate e alternativamente ci si trova a simpatizzare ora con l’una e ora con l’altra.
Lo stile di scrittura è limpido, elegante, non ricercato, ed è funzionale ai due diversi stili di narrazione. È un libro che si legge con attenzione mai forzata, anzi trascinata inconsapevolmente in avanti, come per voler arrivare fino in fondo tutto d’un fiato. Ma anche con l’imporsi dovute pause allo scopo di far durare di più la magia degli incontri con i fatti e con i personaggi.
Carmen Lama, 2 maggio 2010

 

Mille volte niente
di Emma La Spina
Di Piemme

Romanzo autobiografico
Dopo Il suono di mille silenzi, il seguito dell’opera è Mille volte niente, una narrazione sul filo dell’incredibile: una serie di sventure che si abbattono sulla protagonista in un crescendo di sofferenze  inaudite. Come può una sola persona vivere un carico di dolore così pesante? Come può il destino accanirsi con così tanto accanimento? Si resta sgomenti dinanzi a tanto patimento e, in questa fase della vita dell’autrice, non si risparmiano le offese e le avversità. Dopo la lettura rimane nella mente l’eco delle parole scritte con l’animo straziato, così penetranti da permanere per più giorni senza tregua.
Dopo l’orfanotrofio, si apre un nuovo capitolo per la diciottenne Emma alle soglie dell’esame di maturità: le insidie della vita esterna sembrano sempre più trascinarla in abissi senza fine: sperimenta i bassi estremi  dell’animo umano altrui e con pervicacia riemerge con fatica e rinnovata speranza. E’ un continuo risorgere alla luce quando il buio sembra inghiottirla e fagocitarne tutte le risorse. Ma la speranza sia pure flebile e lontana illumina il suo percorso di vita, le gioie fugaci si alternano alle cocenti delusioni. L’autrice, però, non soccombe mai, come un’eroina intrepida pur tra mille difficoltà, va avanti, soprattutto quando l’essere madre le dà una forza interiore e quell’affetto tanto desiderato e non corrisposto. Una piccola e grande donna sempre in continua lotta per la sopravvivenza, alla ricerca di una vita dignitosa e indipendente. La paura di ritrovarsi al punto di partenza, povera, sola al mondo e abbandonata diventa paradossalmente la spinta ad aiutarsi a vivere meglio.
Il degrado sociale in cui viene a trovarsi, suo malgrado, la giovane Emma non intacca la sua purezza di fondo, in una  sorta di romanzo ottocentesco, tra  un’umanità miserabile e brutale, l’anima il desiderio di un riscatto finale: la nebbia che avvolgeva la sua vita si dirada e il presente offre possibilità migliori. Certo le ferite dell’infanzia, della giovinezza sono rimarginate, ma non si cancellano, nell’espressione degli occhi  traspare una velata e dolce malinconia, ma i suoi scritti, oggi, testimoniano la sua lotta per la vita “con incrollabile fiducia”.  
Il suo racconto autobiografico è un concentrato d’angoscia  che lascia sconcertati e solo il tempo potrà diluirne il denso contenuto.
Leggere e conoscere  la storia di Emma è un’esperienza di vita.

L’autrice: Emma La Spina è nata a Catania nel 1960. Ha scritto "Il suono di mille silenzi",  il suo primo romanzo.
Arcangela Cammalleri

 

27/04/2010

Presagio triste di Banana Yoshimoto

Ed. Super UE Feltrinelli

Titolo dell’opera originale

Kanashii Yokan 1988

Traduzione dal giapponese di Giorgio Amitrano

Narrativa  - romanzo

Yayoi, la protagonista del romanzo, è una ragazza diciannovenne che vive apparentemente felice con i suoi genitori, amorevoli e comprensivi e il fratello Tetsuo. Tutto sembra scorrere in un clima idilliaco e calmo, ma come lampi nella mente di Yoyoi   turbinano pensieri molesti che la turbano e la rendono inquieta; immagini e sogni di un passato confuso che non riesce a decifrare. Tanti sono gli interrogativi che si affollano nell’animo della giovane e la tormentano; le sue fughe improvvise sono i segnali di un disagio lontano da superare. La figura della giovane zia, insegnante di musica, che conduce una vita solitaria e fuori dai canoni soliti, l’affascina e la spinge a ricercarne la vicinanza. Il disvelamento del mistero della sua infanzia maturerà Yoyoi rendendola consapevole di certi aspetti del suo carattere e della sua rappresentazione della realtà. Un breve romanzo dallo stile lieve e carezzevole, in cui la sensibilità della scrittrice si condensa in suggestive impressioni paesaggistiche e mentali Le tante domande che la protagonista si pone prefigurano risposte incerte  e aperte sulla vita, riflessioni interiori  che imprimono spessore ai personaggi. Il ritmo narrativo ha  un andamento poetico, la fluidità espressiva scorre limpida e cristallina come ruscello di montagna, i suoni diventano immagini e viceversa. E la protagonista immersa nell’ascolto di una dolce melodia, si sente trascinata nelle profondità marine e un triste presagio l’avvince come se il buio fosse sceso di colpo e l’avesse trascinata lontano dalla marea con il rischio di perdersi. È la discesa negli inferi dell’animo per poi risalire in una parabola ascendente che la porta alla scoperta di sé, di una sorella e un compagno. Un bel romanzo, nella sua brevità racchiude una storia esistenziale, ammantata di fascino, sfumata e contenuta nei toni.  

L’autrice. Banana Yoshimoto è nata a Tokyo nel 1964, ha conquistato un grandissimo numero di lettori in Italia a partire da Kitchen, pubblicato da Feltrinelli ne 1991. Suoi libri: N.P. 1992, Sonno profondo 1994, Tsugumi 1994, Lucertola, 1995, Amrita 1997, L’ultima amante di Hachiko e tanti altri.
Arcangela Cammalleri

 

24/04/2010

La luna è tramontata
di John Steinbeck
Mondadori Editore S.p.A.

Narrativa romanzo
Collana Oscar classici moderni

Quando nel 1962 a John Steinbeck fu conferito il premio Nobel per la letteratura la motivazione fu la seguente: Per le sue scritture realistiche ed immaginative, unendo l'umore sensibile e la percezione sociale acuta.
In effetti lo scrittore americano è riuscito nei suoi libri a sondare l'animo umano inserendo la sua ricerca in un contesto sociale, in forza di un'interdipendenza che si attua in un doppio flusso: dal singolo uomo alla collettività e da questa ancora al singolo uomo. Steinbeck ha ben compreso che gli aspetti interiori di ognuno si riflettono socialmente e che sempre il comportamento individuale è influenzato dal contesto in cui l'individuo opera.
Con diverse sfumature questo concetto è base di opere di notevole livello, quali I pascoli del cielo, Pian della Tortilla, Uomini e topi, Furore, L'inverno del nostro scontento e La valle dell'Eden; tuttavia, almeno secondo la mia opinione, dove risulta esposto più chiaramente è ne La luna è tramontata, romanzo edito per la prima volta nel 1942 allorché le sorti della seconda guerra mondiale non erano ancora ben definite.
In questo romanzo, ambientato in Norvegia, contano più i personaggi, le situazioni, le riflessioni dei protagonisti che la trama stessa, in sé in verità abbastanza semplice. Un piccolo paese viene occupato dai tedeschi con un vero e proprio blitz e con l'aiuto di un traditore, quello che tutti i cittadini fino ad allora consideravano un autentico benefattore. Colti di sorpresa, provano un generale disorientamento, una sorta di annichilimento della volontà e, soprattutto, della propria identità, ma poi la dignità di essere uomini ancora liberi emerge e ha inizio una guerriglia non solo bellica in senso stretto, ma anche psicologica nei confronti degli invasori che poco a poco si scoprono non macchine da guerra, ma uomini, con le loro debolezze e le loro paure.
In questo contesto i protagonisti di maggior spessore a cui lo scrittore attribuisce il compito di portare avanti il suo messaggio sono da un lato il colonnello tedesco Lanser che è dibattuto fra l'assurdità degli ordini ricevuti e i contrasti della sua coscienza. Non viene meno al suo dovere, ma gradualmente subentra in lui la disperazione di compiere azioni sanguinarie che ritiene del tutto inutili, maturando di pari passo una crescente stima verso il sindaco, ben diversamente motivato dalla necessità di costituire un punto di riferimento per i suoi concittadini, senza remore o tentennamenti, arrivando perfino al sacrificio personale.
Sono due uomini in antitesi, ma se il tedesco si accorge della progressiva perdita della sua dignità, il norvegese è invece consapevole del suo graduale riacquisto.
Su tutto regna un tragico dolore: quello degli occupanti, che nel loro indottrinamento credevano di essere accolti festosamente e che invece sono costretti a vigilare nel timore di attentati; quello dei cittadini occupati che non possono tollerare di perdere la loro liberta e che intendono riprendersela, a qualsiasi costo.
Se la Luna è tramontata è un romanzo antibellico e antimilitarista è però anche un libro che, partendo dalla stupidità della guerra, travolge i normali schemi del patriottismo per rendere giustizia agli oppressi, a chi è stato vinto senza aver voluto una guerra, a chi crede che la dignità valga più della vita. Ma è anche un'opera con cui si evidenzia che, deteriorando i dogmi inculcati negli uomini da un regime, si ottengono un disorientamento e una progressiva disaffezione per una missione che da vincitori li rende vinti, prima ancora che sul campo di battaglia con il risveglio della coscienza.
La luna è tramontata non è solo un bel romanzo, ma è anche un libro con cui, attraverso la creatività, si giunge a una visione realistica, senza appelli, senza attenuanti, della guerra e della sua inutilità.
Da leggere, senz'altro, anche e soprattutto nelle scuole, affinché i giovani comprendano che con un conflitto tutto è perduto, mentre con la pace tutto è possibile.

John Steinbeck (Salinas, 27 febbraio 1902 - New York, 20 dicembre 1968), premio Nobel per la letteratura nel 1962.
Ha scritto: La santa rossa, I pascoli del cielo, Al Dio sconosciuto, Pian della Tortilla, La battaglia, Uomini e topi, Furore, La luna è tramontata, La valle dell'Eden, Quel fantastico giovedì, Il breve regno di Pipino IV, L'inverno del nostro scontento, Viaggio con Charley, Le gesta di Re Artù e dei suoi nobili cavalieri, Diario russo, Diario di bordo dal mare di Cortez, C'era una volta una guerra, L'America e gli americani e altri scritti.
Renzo Montagnoli
 

14/04/2010

IL SUONO DI MILLE SILENZI di EMMA LA SPINA

ED. PIEMME

E’ l’opera prima di un’esordiente che, come confessa nell’introduzione, ha scritto spinta  da un autentico bisogno interiore.

L’autrice narra i suoi primi diciotto anni trascorsi in un istituto per bambini abbandonati, subendo sevizie fisiche e psicologiche indicibili, ogni sorta di sofferenze tra umiliazioni, miseria e privazioni totali. E tutto questo in tempi recenti (anni “60) e nella nostra società  “evoluta”.

Il sentimento che muove il lettore leggendo già le prime pagine del libro è di veemente indignazione e profonda commozione, in cui serpeggia un moto di scetticismo e incredulità…Può essere vero, tutto questo? La letteratura che prevale sull’autenticità dei fatti per non diventare cronaca? Ma le parole della scrittrice sono autentiche e ciò che può sembrare invenzione è terribilmente vero.

I fatti narrati rimbombano come i silenzi, i mille silenzi di bimbi sfortunati su cui la sorte si accanisce e li colpevolizza come se fossero carnefici e non già vittime sacrificali. La redenzione potrà sceglierne alcune di voci o solo “una voce delle mille bambine in silenzio nelle grandi stanze di un istituto”. Colpisce la storia, colpisce lo  stile del narrare piano, chiaro, essenziale; senza retorica. Senza orpelli psicologici, con estrema semplicità, Emma La Spina ci restituisce una figura di bimba e poi di ragazza intrepida, dotata di grande forza d’animo, indomita nella sua lotta e per la sopravvivenza e per l’affermazione di sé. Alla ricerca disperata di un riscatto morale, sociale, la sua intelligenza perspicace l’avrà vinta sugli accadimenti avversi e difficili. Il processo di emancipazione rimane sospeso alla fine del libro e lascia uno strappo in chi legge come lo strappo subito dai tanti bambini soli, senza affetto e privi di amorevoli cure famigliari. Il lato oscuro degli esseri umani traspare sia pure senza toni accesi e accusatori, quello che poteva essere un libro solamente a tinte fosche,  dall’autrice è temperato da sfumature più sottili e variegate in cui la ricerca d’amore, di comprensione domina in una sorta d’invicibile speranza. Lo scoramento, le inevitabili cadute nell’abisso più nero si alternano a una riconquistata iniezione di fiducia in se stessa, nell’amore verso la conoscenza, lo studio vissuto come riscatto di sé. Un libro da conoscere e amare e da consigliare a chi si ama e non.  

L’autrice: Emma La Spina è nata a Catania nel 1960. Il suono di mille silenzi, è il suo primo romanzo.      
Arcangela Cammalleri

 

12/04/2010

IL NIPOTE DEL NEGUS di ANDREA CAMILLERI

Ed. SELLERIO

Quest’ultimo libro di Camilleri di genere storico, come espresso dall’autore, ha la stessa struttura narrativa de “La concessione del telefono”- documentazioni d’archivio o missive che sembrano dispacci perentori s’intersecano a frammenti dialogici-narrativi in un rimando continuo di stampo tipico camilleriano. Secondo notizie veritiere, si narra di un nipote del Negus etiopico, Haileè Sellassiè che negli anni 1929-1930, frequentò a Caltanissetta la Regia Scuola Mineraria presso la quale si diplomò perito minerario nel 1932. Qui finisce “la verità” e da qui inizia la fantasia! Sì, lo sfondo storico fa da fondale alla rappresentazione teatrale della vicenda, ma i cerchi concentrici che attorniano i fatti, i personaggi, sono frutto esclusivo dell’inventiva dello scrittore: la retorica tronfia dell’epoca investe come vento impetuoso e trascina sentimenti e azioni in una sorta d’irriverente pantomima di memoria goliardica. Tra le righe entriamo da spettatori in una sorta di film in 3D, ci sembra di rivivere, certo in toni farseschi e burleschi, situazioni quasi reali ed attuali e non già fantasmi del passato ormai desueti. Come non ridere con un retrogusto amaro agli ossequi inverecondi verso i superiori, ai titoli onorifici così ridondanti ed enfatici, alla supponente grandeur di una nazione piccina piccina. Con sarcastica vis Camilleri ci presenta una verità storica in modo talmente burlesco da risultare falsa e una falsità storica così pronunciata da risultare vera. E’ il gioco degli inganni di chi si crede furbo e s’inganna e a sua volta viene ingannato. Una farsa che ha le movenze di un minuetto e il tono scanzonato e irriverente di uno sberleffo. L’intreccio ricorda una novella boccaccesca, tra intrighi ed intrecci amorosi, tra ragion di stato e convenienze personali, tra vizi confusi con desideri in un carosello umano più farsesco che reale. Camilleri ci diverte e ci delizia, ma forse avremmo voluto ridere meno su noi stessi, su quello che siamo stati e siamo, perché c’è poco da ridere quando i sogni dei più vengono meno e non albergano speranze di reali cambiamenti positivi per tutti.

L’autore. Andrea Camilleri è nato a Porto Empedocle nel 1925. Ha esordito come romanziere nel 1978 con “Il corso delle cose”. Della sua ricchissima produzione letteraria tutti i romanzi con protagonista il commissario Montalbano sono pubblicati dalla casa editrice Sellerio e altri, tra questi ricordiamo: “La forma dell’acqua”, “Il cane di terracotta”, “Il ladro di merendine”, “La voce del violino”, “La stagione della caccia”, “Il birraio di Preston”, “La concessione del telefono”, “La gita a Tindari”, “Maruzza Musumeci”, “Il casellante”, “Il campo del vasaio”, “L’età del dubbio”, “Un sabato, con gli amici” “Il sonaglio” “Il cielo rubato”etc… Arcangela Cammalleri

 

05/04/2010

Il leone rosso
Elisir di vita eterna

di Maria Szepes
Tre Editori
www.treditori.com

Narrativa romanzo

La vita, qualunque sia, potrebbe essere accettabile se non vi fosse la sua inevitabile conclusione, quel vero e proprio salto nel buio che tutte le religioni hanno cercato di addolcire con l'idea di una prosecuzione nel "dopo", sia pure in altra forma. Non ci sono però certezze al riguardo e quindi, soprattutto in passato, in epoche in cui gli alchimisti inseguivano risultati miracolosi, quali la fabbricazione dell'oro, non poteva mancare nelle loro ricerche quella dell'Elisir di vita eterna. Ubbie di ciarlatani, si potrebbe obiettare, idee strampalate che ancor oggi potrebbero prendere piede, soprattutto nel nostro paese, guidato da un personaggio che non accetta non solo la morte, ma anche la vecchiaia.
E' di questo desiderio di immortalità che si parla nel Leone rosso, un romanzo che mi ha profondamente avvinto, perché va ben oltre queste storie un po' strampalate di gente che non muore, ma, pur restando nell'ampio campo dell'esoterismo, abbozza un concetto di esistenza per nulla in contrasto con la religione cristiana e che affascina in quanto potrebbe rispondere al vero. Queste reincarnazioni in una serie di passaggi in cui l'individuo ascende a gradi sempre più alti di trascendenza propone una visione non solo dell'umanità, ma dell'intero universo in un crescendo quasi rossiniano che lascia ampi spazi per riflessioni su avvenimenti realmente accaduti, come nel caso della rivoluzione francese. L'abilità di Maria Szepes, l'autrice, è quella di saper correre in equilibrio sul sottile confine fra ipotetico credibile e pura astratta fantasia. In verità qualche volta incespica, il racconto si fa meno convincente, ma poi, nel giro di un paio di pagine, riesce a ritrovare la giusta via e a ricreare nel lettore la convinzione che quanto narrato sia effettivamente avvenuto. In questo l'aiuta una notevole capacità di saper comunicare imponendo un ritmo quasi da pellicola cinematografica in una serie di sequenze, anche d'effetto, che non fanno mai venir meno l'attenzione che, anzi, si acuisce nel legittimo desiderio di sapere come andrà a finire questa storia così irreale, sebbene convincente. Se in ciò è aiutata dall'esperienza maturata come sceneggiatrice, vi è anche da rilevare una profondità di pensiero del tutto ragguardevole, una sicurezza di esposizione, pur nella complessità del tema, che accresce la fiducia del fortunato lettore, consapevole ormai di trovarsi fra le mani un libro straordinario.
Si assiste così a una cavalcata attraverso i secoli, grazie alla quale questo formidabile romanzo sull'immortalità riesce ad avvincere anche i più scettici, in forza delle componenti psicologiche e filosofiche che emergono, splendidamente esposte, e che non possono lasciare indifferenti. Si potrà non credere a tutte queste reincarnazioni, ma alle dottrine concettuali sull'universo e sul destino dell'umanità nulla si può eccepire, anzi solo prendere atto, magari anche dissentendo, perché si tratta di interpretazioni, di teorie che, senza avere la pretesa di essere dei dogmi, hanno una base logica tale da costituire oggetto di discussione.
Il viaggio di Hans Burgner, il personaggio principale, diventa così una metafora del percorso sempre più complesso dentro di noi, alla ricerca di un assoluto che possa dare un autentico senso alla nostra esistenza.
Non aggiungo altro, se non il consiglio di leggerlo, perché anche chi non vorrà approfondire rimarrà stregato da un libro di rara bellezza.

Maria Szepes (14 dicembre 1908 - 3 settembre 2007).
Attrice, poi sceneggiatrice, questa signora ungherese, che si interessava di filosofia ermetica, scrisse Il leone rosso nel corso della seconda guerra mondiale. Il libro, pubblicato nel 1946, diventò subito un autentico best seller della letteratura esoterica. Di grande successo a livello mondiale, in Italia fu pubblicato per la prima volta nel 2001 dalla Tre Editori, che ora lo ripropone con questa terza ristampa.
Renzo Montagnoli
 

04/04/2010

Il segreto del Morbillaio
di Danilo Giovanelli
Edizioni XII
Narrativa romanzo
www.xii-online.com

Fra la fine del XIX e l'inizio del XX secolo visse a Vermiziano, paese di gente ignorante, analfabeta e polentona, Saturnetto Vinceslovo, da ricordare e da venerare per le sue qualità poetiche, tanto più sorprendenti qualora si consideri l'ambiente in cui si sviluppò a livello eccelso la sua qualità artistica. Prima che si vada a cercare su un libro di storia della letteratura italiana o su internet il nome di questo personaggio è doveroso premettere che è solo frutto della fervida fantasia di Danilo Giovanelli, autore di questo romanzo di genere fantastico che ha vinto nel 2008 il Premio iNarratori. Del resto bastano poche righe per comprendere che Saturnetto Vinceslovo non è mai esistito e sono quelle con cui si spiega il suo soprannome, Morbillaio, che nulla ha a che fare con la nota malattia infantile, se non per le piccole cicatrici che portava sul volto provocate dalle forchettate dei parenti, tutti presi dalle gran mangiate di polenta al punto che nemmeno riuscivano a distinguere questo cibo dal volto giallognolo del futuro poeta e quindi affondavano i rebbi dove capitava, anche nella carne del pargoletto.
A distanza di molti anni, morto già da tempo Saturnetto, la vicenda prende corpo partendo dalla scuola costruita in suo onore ed edificata sulla sua stessa vecchia casa.
Ogni pagina che scorrevo, prendendo le annotazioni del caso, mi veniva continuamente alla mente un romanzo ben più famoso, I ragazzi della via Pal di Ferenc Molnar. Non è che lo sviluppo della trama sia uguale, ma ci sono analogie in un ritratto garbato del passaggio dall'infanzia alla pubertà.
Impostato come un giallo il racconto non presenta tuttavia tensioni particolari o spasmodiche e anche lo scioglimento del mistero su cui è intessuta la fragile vicenda non è di quelli che faranno epoca fra gli appassionati.
Non era sicuramente uno scopo dell'autore imperniare il tutto sull'atmosfera del thrilling, perché lui voleva scrivere un romanzo i cui personaggi contano più della vicenda.
E sono protagonisti godibilissimi, azzeccati al meglio, una squadra di figure che, pur nell'evidenza caricaturale, riporta simboli di salti generazionali con una vena comica che induce il lettore ad amarli tutti.
Dal plurilingue Ebète, che mescola le parole in una sorta di personale esperanto, a Elio Sumello, gran secchione, ma simile a un batrace, dalla dotta Donnetta al bizzarro maestro Tomino è tutto un agitarsi di ombre che poco a poco schiariscono per essere focalizzate dalla mente e quindi diventare più familiari.
Sinceramente, a un certo punto ho quasi dimenticato la trama per godermi le situazioni, anche umoristiche, in cui i protagonisti si ficcano quasi spontaneamente, come se fossero liberi di costruire la storia, indipendentemente dalla volontà del loro creatore, che più che imporre suggerisce.
Ne esce un romanzo di straordinaria freschezza e assai gradevole, 179 pagine che volano via e con loro le inevitabili fantasie dei lettori, in un sano divertimento sia per gli adulti che per i ragazzi.

Danilo Giovanelli è nato a Sassuolo, Modena, nel 1976. Si è laureato in Ingegneria Informatica coltivando parallelamente la passione per la lettura, il disegno e la scrittura.
E' autore del romanzo pulp-surreale L'enigma dei bastardi, uscito nel 2004, e di diversi racconti pubblicati in antologie.
Illustratore e vignettista, alcune sue creazioni sono state selezionate ed esposte alla seconda e terza edizione di BilBOlbul - Festival Internazionale di Fumetto di Bologna. Altre cadono sparpagliate sul suo blog.
Renzo Montagnoli
 

17/03/2010

Siddharta di Hermann Hesse Edizioni Adelphi

Nota introduttiva e traduzione di Massimo Mila

Collana Piccola Biblioteca 32

Narrativa romanzo 

Hermann Hesse è un autore che con ogni sua opera lascia un segno indelebile, perché racconta del viaggio dell’uomo alla ricerca del senso della vita. Già con Il Lupo della steppa aveva trattato il tema del dolore di vivere, fornendo una soluzione logica, per quanto semplice: per superarlo, mai prendere troppo sul serio se stessi e i propri sentimenti, e ciò grazie a una salvifica autoironia.

Con Siddharta, il cui successo venne solo dopo il conferimento del Nobel, il tema dell’esistenza è più generale e finisce con il diventare in questo “romanzo indiano” una lezione di vita e proprio per questo al suo apparire entusiasmò la generazione dell’epoca. A distanza di tempo, comunque, il testo presenta ancora quell’interesse e nelle conclusioni resta di immutata validità.

Ambientato in India nel VI secolo a.C. narra di Siddharta, un ragazzo che cerca la sua strada, ambisce sapere quale è il suo ruolo e per far questo intraprende un viaggio che lo porterà alla sua verità attraverso una serie di esperienze, tipiche peraltro della realtà umana. In effetti si tratta di un lungo cammino all’interno di se stesso, in cui prova un po’ tutto quello che può essere colto nel percorso di una vita. Dall’esperienza mistica al piacere carnale, ma anche cerebrale dell’amore, il giovane invecchia, adottando sensi e scopi che  poi magari rivelano un’insoddisfazione o comunque un mancato totale appagamento.

Ogni incontro, ogni esperienza sono un banco di prova, un confronto con il proprio “io” da cui trarre degli insegnamenti, e, se nell’apparenza sono solo gli eventi positivi atti a questa funzione, si comprenderà come anche quelli negativi entrino a far parte di quel grande patrimonio individuale che è l’esperienza.

Hesse nel raccontare questa metafora in fondo ci vuole dire che è necessario conoscere il mondo che ci circonda e, specialmente, quello interiore tramite un percorso materiale e spirituale che porta alla scoperta di noi stessi. Nel nostro intimo non c’è nulla di tutto buono o di tutto cattivo, esiste, è latente il peccato, frutto di un errore da cui trarre insegnamento, ma in fondo, purché si abbia voglia di vivere veramente, ci sono tante possibilità per ogni uomo di trovare una pace interiore che non sia solo di aspetto, ma che radichi in profondità. Tutto questo può e deve avvenire solo per mezzo della conoscenza, del dubbio, che deve essere una costante, e dell’esperienza, tutti elementi che arricchiscono dando la certezza di avere vissuto.

Il libro è quindi indubbiamente di assoluto interesse e in questa ricerca filosofica ha il suo effettivo pregio. L’unica nota negativa, se così può essere chiamata, è la costante pesantezza della narrazione, tipica del resto di molti autori di lingua tedesca del XIX e del XX secolo.

Comunque, proprio perché si tratta di un discorso filosofico, è inevitabile soffermarsi spesso sulle righe e quindi la complicazione nell’esposizione risulta meno fastidiosa.

Siddharta resta, a distanza di anni dalla sua pubblicazione, un libro di assoluto valore, una tappa fondamentale nella storia della letteratura ed è proprio questa inalterata qualità che lo fa rientrare fra i capolavori di ogni tempo.  

Hermann Hesse (Calw, 2 luglio 1877 – Montagnola, 9 agosto 1962) è stato uno scrittore, poeta e pittore tedesco.
Ha scritto i romanzi Peter Camenzind, Demian, Siddharta, Il lupo della steppa, Narciso e Boccadoro, Il mago della pioggia, Il gioco delle perle di vetro.
Nel 1946 gli fu conferito Il Premio Nobel per la Letteratura.
Renzo Montagnoli

 

16/03/2010

Emanuela, Barbara, Flavia e Simonetta,
le quattro figlie della poetessa recentemente scomparsa
Alda Merini presentano il nuovo sito dedicato alla madre.
I tristi rintocchi funebri delle campane del
Duomo di Milano pesano ancora sui nostri cuori mentre
ricordiamo quello che raccontava di noi:
Ho avuto quattro figlie. Allevate poi da altre famiglie.
Non so neppure come ho trovato il tempo per farle. Si
chiamano Emanuela, Barbara, Flavia e Simonetta. A loro
raccomando sempre di non dire che sono figlie della poetessa
Alda Merini. Quella pazza. Rispondono che io sono la loro
mamma e basta, che non si vergognano di me. Mi commuovono.
Nonostante le parole della nostra amatissima madre siamo
onorate di comunicare che in sua memoria abbiamo fortemente
voluto la realizzazione del sito internet
http://www.aldamerini.it/.
Un’antologia in ricordo di Alda, un elogio all' "ape
furibonda”, alla sua figura di scrittrice e madre perché
niente per una donna è più simile al paradiso di un
figlio che le farà sognare l’amore per sempre.
Il sito sarà aggiornato periodicamente con nuove poesie, video,
aforismi e una sezione interattiva per gli amanti della poesia.
Le figlie di Alda
 

Nutrimenti per l’anima di Maria Teresa Santalucia Scibona Edizioni Joker www.edizionijoker.com

Postfazione di Sandro Montalto

In copertina: Enzo Santini, Cello player, 1990,

encausting painting

Poesia

Collana I Fuori Collana 

C’è chi scrive poesia, grazie a un naturale talento, magari rafforzato e affinato dalla lettura di versi di altri autori. Ma c’è anche chi è “poesia”, cioè persone che intimamente hanno una visione di qualsiasi aspetto della vita, anche il più semplice e normale, che li porta a permearsi con lo stesso, trasferendo sensazioni, del tutto normali per i più, in versi, un linguaggio forse inconsueto, ma che è l’unico con cui riescono a dialogare prima con se stessi e poi con gli altri.

Maria Teresa Santalucia Scibona è una rara avis, perché è poesia. Possono essere tante le occasioni, da un viaggio a un panorama, da un fatto a una persona conosciuta, ma resta comunque il fatto che le stesse sono intraviste e avvertite poeticamente. E’ una visione che travalica l’ordinario, che dona importanza alle piccole cose del Creato, in un’ottica religiosa e spirituale che è talmente radicata da esondare spontaneamente dalle righe.

Che sia il ritratto di un amico, oppure la metafora della vita, lei è sempre presente con questa sua grande caratteristica, con un linguaggio armonioso che sgorga come un’antica fonte dall’anima.

Questa raccolta di poesie si compone in realtà di quattro sillogi, di cui la prima potrebbe essere definita delle dediche, la seconda ha invece un titolo esplicativo (Elogio dell’amore), come del resto la terza (Elogio per la giustizia), mentre la quarta è più esplicitamente l’immagine da noi conosciuta di Maria Teresa Santalucia Scibona, perché l’Elogio dello spirito riconduce il libro a un’aura di misticismo, che, tuttavia, più larvatamente è presente in tutte le altre liriche del libro.

Ciò che è rimarchevole, comunque, è la soavità che permea i versi, che sembrano quasi scritti in un connaturato distacco dalle cose terrene, anche se invece è la consapevolezza che, esistendo in quanto parte di un disegno perfetto, tutte, nessuna esclusa, sono motivo di stupore, da un lato, e di rafforzamento della fede dall’altro.

Nulla ci può più stupire di quanto c’è a questo mondo, dal piccolo sasso alla grande montagna, e così ogni cosa ha sua inalterata dignità, a cui all’occorrenza dedicare versi.

Frequenti sono queste attenzioni per gli amici, fra i quali Salvatore Niffoi e Massimo Maugeri, intravisti fra le righe con gli occhi di chi sa cogliere l’essenza di ognuno ( Salvatore, vaga meteora / che appare e scompare / dalla mia stanca vita /…; Dopo aver schivato le ire / dell’arcigno Poseidone / e i vortici infidi / delle onde sonore; / un giorno approderai / con felice attracco / nella Trinacria solare / odorosa di zagare. /….).

Fra gli Elogi, quello dell’amore, vola L’allodola felice ( L’allodola messaggera dell’alba / si dondola lieve su un bocciolo di rosa. / Si è invaghita del salice leggiadro/ …). Non più persone, ma rappresentanti delle meraviglie del creato a cui riconoscere uguale stupita dignità . E’ quasi un canto questa poesia, con i versi portati sule ali dell’allodola, più che lievi, meglio leggiadri.

La giustizia, la giustizia giusta, la giustizia vinta, la giustizia sepolta; qui la voce di Maria Teresa si fa più forte, ferma senza essere dura, un desiderio di equità che mai trascende se non nel sogno, magari una speranza ( …Alta si proclami la verità, pura e splendente come l’oro di Ofir. / Liberi dalle trame degli iniqui / da codarde omertà, sarà un ritorno / dalla morte alla vita.).

Non poteva che essere alla fine del libro, ma L’ultimo tempo rivela, nelle consapevolezze, la certezza di una vita vissuta appieno, nel saluto agli amici che tanto mi ricorda come grande serenità Il mio funerale di Nazim Hikmet, senza nessun timore, ma con una ultima gratificante speranza (…/ Di me, vorrei solo che diceste, / ha seguito le orme di sua madre. / Come lei, bella nell’anima / e ornata di sobria dignità. ). Io mi permetto di aggiungere un ultimo verso: Lei fu poesia.     

M. TERESA SANTALUCIA SCIBONA, è nata e vive a Siena, già Presidente Provinciale della FENALC (Federazione Nazionale Liberi Circoli),è Presidente per Siena del MOPOEITA ( Movimento per la diffusione della Poesia in Italia).  La Biblioteca Universitaria senese della Facoltà di Lettere e Filosofia, ha istituito un Fondo Letterario a suo nome.(Seduta 27/4/2005).

    Il 15 Agosto 2000, dal Concistoro del Mangia, è stata insignita di medaglia d’oro di civica riconoscenza, per alti meriti culturali. Il 17 Ottobre  2009, è stata insignita del Premio “ Idilio Dell’Era, “alla Carriera dal Comitato Associativo “ Idilio Dell’Era”. E’ Socia effettiva del P.E.N. Club Italiano, del Sindacato Liberi Scrittori Italiani, della Fondazione Letteraria “ Luciano Bianciardi “di Grosseto, del Centro di Documentazione sulla Poesia contemporanea

 “ Lorenzo Montano” di Verona. Fa parte del Consiglio “Cateriniani nel Mondo” per la Letteratura, con diritto al voto. Per oltre un decennio ha curato le serate letterarie del “Salotto  della Cultura e del Vino” della Enoteca Italiana di Siena. Come giornalista ha seguito per 17 anni, le sorti del  “Premio Letterario Viareggio – Rèpaci”              

         Ha pubblicato i seguenti libri di Poesia:-

IL MIO TERRENO LIMITE” 1984  Ed. La Nuova Fortezza (Li),  a cura di Miriana Bogi

I GIORNI DEL DESIDERIO” 1988  Piovan Ed. Abano Terme, a cura di Gabriella Sobrino

IL TEMPO SOSPESO”     1993  Edizioni del Leone (Ve),  prefazione di Giorgio Luti.

MOSE’ ”   1996  Edizioni dell’Oleandro (Roma),  prefazione di Angelo Lippo.

VARIANTI D’AMORE” Suppl.to n. 35 (gennaio-marzo 1988) Rivista “Portofranco” (Ta)

IL VIAGGIO VERTICALE” 2001, I Quaderni della Valle N. 27 Edizioni di Emilio Coco.

LE TEMPS SUSPENDU ET LA VIE ASSISE” 2002  Prospettiva Editrice a cura di Giorgio  Luti, postfazione di Walter Nesti, traduzione di Ben Felix Pino.

L’AMORE  IMPERFETTO” 2003  Helicon Edizioni - Arezzo, a cura di Neuro Bonifazi

LA CONTESA DEI VINI”     2005   Pascal Editrice (Siena), a cura di Vinicio Serino.

IL SOGNO DEL CAVALLO “  2008   Pascal Editrice (Siena) a cura di Mario Comporti   e Fausto Tanzarella

NUTRIMENTI PER L’ANIMA” 2009 Joker Editore a cura di Sandro Montalto

VERSI E CROMIE” Solodieci Poesie  2009 Lieto Colle Editore

   Audio CD POESIE SCELTE (2005), disco recitato dall’attrice Paola Lambardi

   CD “MISCELLANEA POETICA”(2007) recitano, gli attori Walter Maesosi, Daniela     Barra, al piano M°.Giovanni Monti. Edizioni Le Carrozze Records di Vanni Vincenzo- Siena                           

         Il suo testo di Lauda “ Accanto a Te Signore”,  è stato musicato dal  M° Gian Paolo Luppi, tradotto in tedesco e pubblicato dalle  dalle Edizioni Musicali Peters di Francoforte.

      Alle sue opere si sono ispirati i pittori Giuseppe Amadio, Angelo Battista, Angela Carli, Ida Negrini, Paola Imposimato, Enzo Santini, Anna Sticco, gli scultori Michele Donadoni e Andrea Roggi.

           La recitazione del poemetto in versi “MOSE’ con gli attori Paola Lambardi, Guido Bocci, Erminio Jacona , è alla sua tredicesima replica           

         E’ inserita  in numerose Antologie di autori contemporanei come :- “ Greta Garbo e Sergio Vacchi nel Palazzo del Ridotto di Cesena” – Catalogo      del Novembre 2003 - Fondazione Vacchi - Castello di Grotti – Ville di Corsano- Siena                                                                                                                    

“ La Donna e gli Amori” a cura di Gabriella Sobrino e Antonietta Garzia  (giugno 2001) –                                     Introduzione di Paolo Crepet   - Loggia  de’ Lanzi Editori -Firenze

“ C come Cuore” saggio di Gabriele La Porta ( Ottobre2003) Pratiche Editrice Mondadori

 “P  come Passioni – Dizionario delle emozioni e dell’estasi” a cura di Gabriele La Porta (Ottobre 2005) Marco Tropea Editore – Mondadori  Printing S.p.A – Milano 

 EDIZIONI SCETTRO DEL RE - ROMA“ Appunti Critici” La poesia Italiana del tardo Novecento tra conformismi e nuove proposte “-  saggio a cura di  Giorgio Linguaglossa - (Dicembre 2002)- “ Poeti Italiani Verso il Nuovo Millennio”- saggio a cura di Dante Mafia ( Dicembre. 2000)

-  E’ inclusa nel Dizionario Autori e nella Letteratura Italiana del Secondo Novecento -Edizioni Bastogi (Foggia), Helicon (Ar), Guido Miano (Mi).
Sulla sua poetica Pina Frascino Panussis ha scritto :- “Saggi e interventi” (1995) -Edizioni. Pisangrafica - Pisa ; “ LE OCCASIONI DEL PENSIERO ” (1997) Masso delle Fate Edizioni - Signa, con interventi critici di Sandro Briosi, Guido. Cecchi, Gaetano Chiappini, Marcello Fabbri, Giorgio Luti, Carmelo Mezzasalma, Walter Nesti, Vinicio Serino, Gabriella Sobrino e testimonianze di Oreste Macrì, Giuliano. Manacorda, Giorgio Saviane, Ferruccio Ulivi,Vittorio Vettori ed altri noti scrittori. 
Renzo Montagnoli
 

27/02/2010

Stagioni sovrapposte e confuse
di Franca Canapini
In copertina fotografia dell'autrice
Montedit Editrice
www.montedit.it

Poesia silloge
Collana Le schegge d'oro (i libri dei premi)

L'immagine di copertina ritrae una bimba (l'autrice) a cavalcioni di un pennuto in legno o bronzo, ma quel che colpisce è lo sguardo, apparentemente solo imbronciato, ma che se osservato con attenzione sembra essere quasi di sfida. Probabilmente cela l'inconscio desiderio di essere realmente presente nella vita, un "adesso ci sono io" che vuole ipotecare il futuro. E' sempre così, perché si è alla prima stagione e si guarda solo in avanti, ma poi, con gli anni che passano, si arriva a un punto che ci si rivolge all'indietro, si ricorre alla memoria per delineare un quadro esistenziale di luci e di ombre che non ci soddisferà mai pienamente.
E così le stagioni di questo libro non sono propriamente quelle astronomiche, che ben conosciamo, ma esprimono metaforicamente il ciclo della vita ed è in questa ottica che deve essere letta la bella raccolta di Franca Canapini.
Che poi il percorso inconscio del ricordo riaffiorante a tratti faccia sì che nascano sovrapposizioni e confusioni è nell'ordine dell'esistenza, perché mai saremo in grado di controllare gli stimoli improvvisi della nostra memoria, sollecitata da fatti ed eventi che spesso non sono strettamente correlati al presente.
Si alternano così a note gioiose anche riflessi malinconici, in un quadro generale che è inutile scomporre perché è la reale immagine di un presente e di un passato che si avvicendano, quasi a voler testimoniare l'imprescindibilità per una vita corrente dall'esperienza trascorsa.


Abbandono
(omaggio alla mia vecchia auto)

Come mi hai lasciata
spenta
desolata
nella piazza assolata.

…..

Non è che un oggetto, un agglomerato di lamiera che tuttavia ha accompagnato la persona nel suo andare, creando quindi un legame quasi affettivo che nel ricordo delinea altri fatti ad essa correlati; è un bene inanimato che in un transfer psicologico assume una valenza vitale attraverso l'identificazione con ciò che a suo tempo ha rappresentato.

La poesia di Franca Canapini può essere definita di esperienza, quindi, di sentimenti e di emozioni fotografate, come in Gioia ( Vola in alto/spirito mio/ risorto/straripante di gioia/così calmo/così grande/infine/…), senza dimenticare una naturale inclinazione verso toni malinconici, che si esprimono soffusamente, come in Lari (…Non ti chiedo che tu torni per me / ma ti prego, proteggi la casa) o come in Cosa pensavi allora (a mio padre) (…E tu / cosa pensavi allora? / Come passasti la giornata? / Con chi parlasti? / Persi ancora una volta / un giorno della tua vita).
Quest'ultima poesia collega il ricordo al rimpianto, a fatti accaduti e ad azioni non concretizzate, l'aspetto negativo della memoria il cui affiorare a volte infonde un senso di colpa tanto più acuto quanto maggiore è il nostro bisogno nel presente di renderci disponibili a comunicare, per liberarci dell'ansia che stritola dentro quando si comprende ciò che si poteva fare e che non si è fatto, né più potrà mai essere realizzato. Sono occasioni perdute, frequenti in tutti noi, e il rammentarle vena di tristezza un momento della realtà nel quale abbiamo la necessità di confessarci le nostre presunte colpe. E' uno sfogo, un tentativo in un bilancio generale per trovare spunti che possano permetterci di sperare in un futuro che ogni giorno che passa diventa sempre più opaco.
Ci sono anche due poesie, fra le più interessanti della raccolta, che rappresentano un primo abbozzo di ricorrere all'epica. La prima è Risiera di San Sabba, con la confessione di una mazza di acciaio e di legno utilizzata per uccidere dei poveri deportati. Poesia non veemente, che sposta il discorso dal carnefice al suo strumento di morte, conferendo ad esso una dignità che disonora ulteriormente l'uomo che l'utilizzava. Anche in questo caso c'è quindi un transfer, finalizzato alla possibilità di un dialogo con il poeta, destinatario di una supplica che condanna irrimediabilmente i tanti Fritz ed Helmutt di quel lager.
L'altra è Cornacchie, una metafora che si esprime nel contrasto fra le cornacchie sui tetti e la gente rinchiusa nelle case, con l'evidente significato che la libertà per gli animali sta nella loro indole e per gli umani nel calore della propria famiglia, accrescendo però così la tendenza all'incomunicabilità. Gli uccelli nascono liberi, come gli uomini, ma questi ultimi finiscono con il rinchiudere poi se stessi e così la propria libertà.
Quale è la poesia migliore? E' difficile a dirsi e molto dipende dal gusto di chi legge, dal suo stato d'animo in quel momento, dalla maggiore o minor propensione a dialogare emotivamente con l'autore. Secondo me, considerato l'argomento trattato, credo che Fuori stagione sia altamente sintomatica di quell'avvicendarsi di stagioni che è proprio della vita, e in cui l'autunno, secondo Franca Canapini, è indubbiamente quella che ci pone di fronte a domande che prima non ci eravamo mai poste. Troppo tardi per ricominciare, nasce la consapevolezza di una sterile utilità a noi stessi e agli altri. Come in un palcoscenico in cui gli attori interpretano ora solo se stessi (…Fantasmi di un tempo giocondo / aspettano estenuate / la gelata della fine.) inizia un conto alla rovescia a cui invano cercheremo di por rimedio per abbandonarci, ormai vinti, alla gelida attesa nell'ultima stagione.
Il lavoro di più anni ha trovato così compendio in questa silloge vincitrice, meritatamente, del Premio di Poesia Jacques Prévert 2009.
Quindi per varietà e per svolgimento c'è tutto quello che può interessare l'appassionato di buona poesia ed è anche per questo che caldeggio la lettura di Stagioni sovrapposte e confuse.

Franca Canapini è nata a Chianciano Terme (SI) il 17 ottobre 1951. Sposata, due figli e due nipotine, vive ad Arezzo e insegna Lettere in una scuola media della città. Alcune sue poesie sono state pubblicate nel 2004 in un'antologia di poesia contemporanea, ma solo da qualche anno ha trovato il tempo necessario per dedicarsi seriamente alla scrittura.
Stagioni sovrapposte e confuse è la sua prima raccolta poetica edita.
Renzo Montagnoli
 

25/02/2010

Il sole dei lupi
Un sopravvissuto ai Gulag di Stalin
di Pietro Zerella
Prefazione dell’autore
Copertina di Alessio Zuzolo
Opera stampata in proprio

Narrativa romanzo 

La storia di un “uomo qualunque”.

Dei gulag di Stalin, i famigerati campi di prigionia situati in Siberia, abbiamo più di una testimonianza letteraria, dal noto Ho scelto la libertà, di  Viktor Andrijovyč Kravčenko al più conosciuto Arcipelago Gulag, di  Aleksandr Isaevič Solženicyn. Sono opere di denuncia, di chi vi è stato rinchiuso e che ha inteso così testimoniare la brutalità di un regime totalitario che si reggeva esclusivamente sul terrore. Si tratta però di oppositori, anche se blandi, di un sistema, rinchiusi per aver espresso una semplice opinione e danno un quadro di un’epoca e di un folle dittatore quale fu Stalin che parrebbe irripetibile.
Il sole dei lupi, scritto da Pietro Zerella, è una storia vera, magari un po’ romanzata, della vita di Anatolio Molinari, italiano, nato a Odessa, certamente non un oppositore e nemmeno uno che si lasciava andare a facili commenti. In effetti bastavano semplici sospetti, anche delazioni non verificate, per segnare la sorte di un uomo e questo è il caso del protagonista, non un politico, né un rivoluzionario, nemmeno un eroe, ma un semplice uomo qualunque, uno come la maggior parte di noi.
Se la narrazione di Zerella si fermasse a questa fase dell’arresto, del processo farsa, dei lunghi anni trascorsi in un gulag fino alla liberazione, Il sole dei lupi sarebbe un libro che avrebbe il senso del déjà vue, non raccontando sostanzialmente nulla di nuovo rispetto a quanto già non sia a nostra conoscenza grazie al lavoro letterario di Solženicyn.
Invece, il romanzo assume inaspettate valenze con il ritorno in Italia del protagonista, in piena epoca fascista, con quell’inevitabile raffronto fra due regimi sostanzialmente analoghi, fatta eccezione per la più blanda repressione di quello mussoliniano. Però è la stessa aria che si respira, c’è l’identica paura di esprimere un’opinione, e nemmeno vi sono differenze sul concetto di cittadino, da considerarsi al servizio dello stato e non viceversa.
Zerella però va ancora più in là, a un dopoguerra di speranze, di libertà, di eguaglianza, in cui tuttavia ci sono i germi, sempre presenti, di un tentativo di prevaricazione, come se fosse nel codice genetico dell’umanità. L’autore campano scrive, a proposito della competizione elettorale all’epoca del Fronte popolare: “ Tutti parlavano di libertà, progresso, pane e lavoro. Tutti erano bravi ad illustrare i loro programmi. Ognuno era il migliore, il più bravo, il più capace. Gli altri erano chi servi dei russi e chi dell’America.”.
Insomma, non avversari, ma nemici, per quanto in politica si debba rimanere sorpresi di quanto i programmi siano analoghi, pur in fazioni nettamente contrapposte.
Quel definire il contendente o servo dei russi o dell’America non era una semplice risorsa elettorale, ma nascondeva la realtà e cioè che il Fronte popolare era foraggiato dai sovietici e che la Democrazia cristiana esisteva solo grazie ai fondi americani.
In pratica erano tutti servi di qualcuno e l’essere tali comportava anche la supina accettazione degli ordini o delle immagini di comodo predisposte dai padroni, il terreno ideale per coltivare nuove dittature.
Anatolio è un personaggio che desta subito simpatia, è l’umile che entra nella storia non per sua scelta e lotta strenuamente per conservare la sua silenziosa dignità. Non crede a nessuno, riflette, pensa e parla solo il necessario. Tuttavia dentro di lui c’è una fierezza che lo porta a essere il naturale oppositore di qualsiasi regime che soffochi la naturale personalità. Zerella sembra volerci dire che qualsiasi dittatura può privarci della libertà, tranne quella che conserviamo dentro di noi, a patto che lo vogliamo e che siamo disposti a non cavalcare l’onda, ma a farci portare passivamente da essa.
Il sole dei lupi, per la sua originalità e il suo messaggio, è un libro che merita sicuramente di essere letto, da tutti, ma soprattutto dai giovani, affinché sappiano che la libertà si deve conquistare e poi difendere ogni giorno.

Pietro Zerella, nato a Beltiglio di Ceppaloni (BN) il 1938, vive a San Leucio del Sannio (BN), Dott. in Scienze Politiche e Sociali. Promotore culturale.
E’ inserito in tre Edizioni (1996 – 2001 - 2006) del “Dizionario Autori Italiani Contemporanei” Ed. Guido Miani, Milano ed in altre antologie.
Ha vinto premi letterari e di poesia (Città di Telese, Apice…) Negli ultimi anni si è dedicato con particolare passione alla ricerca storica.
Ha pubblicato:
- “Frammenti di vita”, Raccolta di poesie Ed. Ibiskos. Empoli 1994;
- San Leucio del Sannio – Frammenti di Storia, Poligrafica S. Giorgio del Sannio (BN) 1994;
- San Leucio del Sannio – Viaggio nel tempo, tipografia A.G.M. Ceppaloni /BN) 1996;
- Ho conosciuto il nonno del mio bisnonno, tipografia A.G.M. Cepppaloni (BN), 1997; (Menzione speciale Comune di Montecelio Romano Ed. 1998-1999, Roma;
- Il Clero Sannita nella crisi dell’Unificazione (1860-1862) saggio pubblicato nella Rivista Storica del Sannio, 3^ Serei, Anno IV, Arte tipografica Napoli, 1997;
- San Leucio del Sannio- Ieri e Oggi in Bianco e Nero - Tipogr. A.G.M. Ceppaloni (BN) 1998;
- Preti Contadini e Briganti nell’Unità d’Italia (1860-1862) Ed. La Scarna, Benevento, 2000. ( Premio Speciale 2001 alla 7^ Edizione del Premio letterario “Giuseppe D’Alessandro”, Benevento;
- Arturo Bocchini e il mito della sicurezza (1926 – 1940) Ed. Il Chiostro, Benevento, 2002;
- Il Sole dei Lupi, Ed. Il Chiostro, Benevento , 2006; Ristampa nel 2007. A:G:M: Cdeppaloni, (BN) 2007. (Vincitore Premio di Merito al concorso letterario di Anquillara Sabazia. VI Edizione).
- Fondatore e organizzatore Premio Letterario “Città di San Leucio del S.”
- Collabora con il periodico Specchio del Sannio;
- Il quotidiano “Il Sannio Quotidiano”.
Renzo Montagnoli
 

18/02/2010

Unità senza identità
Come il Risorgimento ha schiacciato le differenze fra gli Stati italiani

di Giuseppe Brienza
Edizioni Solfanelli
www.edizionisolfanelli.it

Saggistica
Collana Saperi/Storia

Sono evidenti, sotto gli occhi tutti, i problemi che affliggono lo stato italiano, che appare non ancora maturo e consolidato dopo quasi un secolo e mezzo dalla presa di Roma. In particolare il popolo è affetto da particolarismi, da spinte eccessivamente autonomiste che finiscono con il minare la struttura, già di per sé debole in origine. Manca una forte identità nazionale, circostanza che impedisce la realizzazione di quelle riforme indispensabili per l'essere al passo dei tempi.
Unità senza identità affronta questo problema cercando di far emergere i motivi per i quali, se si è realizzata l'unità d'Italia, l'unificazione degli italiani è invece ancora ben lungi da essere concretizzata, con il fondato timore che la cosa sia ormai impossibile.
Per far questo parte necessariamente da una rigorosa analisi storica, al di là di ciò che è da sempre insegnato nelle scuole relativamente al risorgimento italiano.
Precisiamo subito che non è stato un moto di popolo quale si vuol far credere, anzi i nostri concittadini di quell'epoca furono abbastanza indifferenti.
Del resto i Savoia mai ambirono a unire l'Italia, già divisa in stati e staterelli, ma concepirono la loro azione solo come conquiste di territori da annettere allo stato piemontese, senza tener conto delle aspirazioni di chi li popolava, da secoli costituenti autonome realtà accomunate, come oggi, solo dalla lingua.
Vittorio Emanuele II, sempre descritto come un fervente patriota, in effetti considerava l'Italia solo come una mera espressione geografica, tanto che nei giorni precedenti alla proclamazione ufficiale del Regno d'Italia si oppose decisamente a questa denominazione del nuovo stato, intendendo invece mantenere quella di Regno di Piemonte. La presa di posizione del monarca fu tuttavia contrastata con successo da Cavour, timoroso che la decisione del re potesse costituire una palese smentita di ciò che era stata promesso da anni, con immaginabili conseguenze nei territori annessi e con riflessi non certo positivi nei confronti dell'alleato occulto (Inghilterra) che tanto si era prodigato per l'unità del nostro paese; e non si creda che questo aiuto fosse motivato solo da simpatia, perché da un lato la politica inglese mirava a temperare con una nuova realtà abbastanza forte le mire espansionistiche di Francia e Austria, e dall'altro intendeva indebolire lo stato pontificio, da sempre inviso alle logge massoniche di oltremanica.
Quindi già la premessa per la concretizzazione dell'unità era debole e lo fu ancor di più nella realizzazione pratica, perché non si tenne conto del fatto che i territori annessi avrebbero dovuto almeno godere di quell'autonomia a cui erano abituati, magari armonizzandola in un contesto di prudente trattativa, un po' come fece la Prussia con i non pochi staterelli che costituivano la Germania, ancora sola espressione geografica, ma che in breve divenne uno stato federale coeso e con gli abitanti dotati di una forte comune identità.
Il Regno di Sardegna, anche perché poco esteso e influenzato dal concetto di stato sorto con la rivoluzione francese, e poi indirettamente riconfermato con la restaurazione, era un forte accentratore e si oppose decisamente alla soluzione proposta da qualche parlamentare e volta a dividere amministrativamente l'Italia in comuni e regioni, più o meno corrispondenti queste ultime alla realtà antiunificazione.
In questo contesto si può quindi comprendere come i mali, forse insanabili di oggi, abbiano avuto origine da decisioni sbagliate, da un risorgimento sabaudo che in effetti risorgimento non era e da una visione proprietaria dello stato tipica proprio dei Savoia.
Il saggio storico di Giuseppe Brienza ha il pregio di ricercare le cause del malessere, con l'unico limite di non approfondire più di tanto il tema, il che avrebbe giovato non poco a fare luce completa su quanto invece fino ad ora divulgato per interessi di parte.
Resta comunque un'opera che incide su una vulgata tramandata nel tempo e che introduce a riflessioni di non poco conto sui tanti come e perché si è realizzata l'unità d'Italia, ma non l'unificazione degli italiani.

Giuseppe Brienza, giornalista pubblicista, è dottore di ricerca presso la Facoltà di Scienze Politiche dell'Università di Roma "La Sapienza".Ha pubblicato una cinquantina di saggi scientifici ed i libri: Famiglia e politiche familiari in Italia (Carocci editore, Roma 2001), Famiglia, sussidiarietà e riforma dei servizi sociali (Città Nuova Editrice, Roma 2002), Libertà ed identità religiosa nell'Unione europea (Edizioni Solfanelli, Chieti 2006, vincitore Selezione saggistica edita del Premio letterario internazionale Arché "Anguillara Sabazia-Città d'Arte", Roma 2007), I Gesuiti e la Rivoluzione italiana nel 1848 (Edizioni Solfanelli, Chieti 2007) e Identità cattolica e anticomunismonell'Italia del dopoguerra. La figura e l'opera di mons. Roberto Ronca (D'Ettoris Editori, Crotone 2008).
Renzo Montagnoli
 

16/02/2010

L’ISOLA SENZA PONTE
Uomini e storie di Sicilia
Di Matteo Collura
Ed. Longanesi

In questi saggi e storie l’autore ci addentra dentro le cose della Sicilia, nel cuore dell’Isola il cui respiro soffia in chi dall’isola è andato via, ma anche solo con la mente è ritornato dopo. In paesaggio e destino, l’ambizione di essere isola è un archetipo da Omero in poi, passando per Dante, la letteratura ha attinto riccamente al concetto di isola come valore aggiunto o perlomeno pieno di insiti significati. Giuseppe Tomasi di Lampedusa diceva che bisogna partire presto dall’Isola, altrimenti la crosta è già fatta. Leonardo Sciascia evase, ma rimase attaccato come una patella allo scoglio. Gli isolani, affermava Pirandello, avvertono il contrasto tra il loro animo chiuso e la natura aperta, chiara di sole; è il mare che li isola e li fa soli, diffidano, e ognuno è e si fa isola a sé. Gesualdo Bufalino coniò il termine isolitudine, con ciò intendendo il trasporto di complice sudditanza che avvince al suo scoglio ogni naufrago. In Ombre nei luoghi dei romanzi, la citazione del bellissimo titolo di un libro dell’argentino Osvaldo Soriano: “Un’ombra ben presto sarai” per indicare l’importanza della forma che i veri artisti danno alla letteratura e usano darne la consistenza di un’ombra. L’artista è un visionario perché la visione che egli riesce a costruirsi è forma perfetta: Borges la considerava prerogativa e privilegio della letteratura. I luoghi visitati o natii, attraverso il punto di vista dei grandi scrittori, vedi Pirandello - Agrigento, si trasfigurano e si cristallizzano in visioni avvinte strettamente alla loro sensibilità e al loro attaccamento sentimentale. La poesia di Pirandello Ritorno chiude con i seguenti versi:
“…guarda la casa accanto
dall’aereo terrazzo, ove felice
visse la famigliola,
ma serra in cuore il pianto;
e sconsolata e sola
neppur tra sé con un sospiro dice:
“ Quando stavamo là…”
Sciascia, dice Collura, forse nessun scrittore italiano del ‘900, ha mostrato di essere così legato al suo paese d’origine, restringeva la Sicilia a Racalmuto” il desiderio acuto di lei”
Collura ripercorre i luoghi in cui la letteratura ha trovato casa, Santa Margherita Belice, Palma Montechiaro, … tappe dell’epopea del Gattopardo.
Una storia d’amore e di guerra racconta di due giovani siciliani che decisero di continuare la guerra secondo i loro ideali. In Luigi e Antonietta nella vampa della follia spiega quanto la drammatica vicenda umana di Pirandello è teatro allo stato puro: un teatro di natura da cui scaturisce quello artistico.. La capacità di fare teatro delle proprie angosce, dell’inferno che per lui fu il rapporto con la moglie (folle), al punto che è difficile distinguere i drammi rappresentati sui palcoscenici da quelli vissuti dal loro autore. In Enigmi analizza il dipinto L’uomo ignoto di Antonello da Messina (Museo Mandralisca, Cefalù), comunica in quel suo enigmatico ed irritante sguardo di un uomo compiaciuto di se stesso, un realismo che rende l’opera oltremodo misteriosa. Ebbene come tanti messaggi criptici inserite in opere di artisti forse il mistero sta in una virgola, una goccia, un capriccio grafico disegnato al centro di un rettangolo di colore bianco che traspare dalla giubba. Una piega? No. Le pieghe non presentano rotondità, Ecco il perché di quel sorriso beffardo. Antonello avrebbe lasciato un segno della sua virile gioia di vivere…
Disorienta e sconcerta l’epitaffio che Sciascia lascia su un biglietto alla moglie per la sua tomba perché non gli assomiglia, “Ce ne ricorderemo, di questo pianeta”. Nel libro-intervista La Sicilia come metafora aveva scritto che di lui si dicesse “Ha contraddetto e si è contraddetto”.
In Cimitero e Teatro si racconta dell’epitaffio di un monumento funebre ad Agrigento, dettato dalle sue alunne, di un professore del Piemonte, che per effetto della legge Casati aveva fatto confluire nel Mezzogiorno un cospicuo numero di insegnanti piemontesi.
Su un altro monumento funebre, un epitaffio in latino racconta la terribile fine di una famiglia nel terremoto di Messina del 27 dicembre 1908, La messa in scena della morte, spiega l’autore, come nelle rappresentazioni sacre in Sicilia, è una forma, forse, di elaborazione del dolore, del lutto. Una particolare ritualità dei siciliani nel celebrare il mistero della morte.
In Gattoparderie ricorda quando a Palermo negli anni Cinquanta Giuseppe Tomasi di Lampedusa stava lavorando al suo Gattopardo e delle lettere private dimostrano quanto fosse interessato alle vicende politiche dell’Italia e dell’Europa. In un altro saggio dedicato alle donne siciliane, Collura parla del personaggio Concetta, la seconda delle tre figlie del principe di Salina nel Gattopardo. Con lei si conclude il romanzo, un archetipo letterario magnifico, quel suo bagliore ferrigno, si coglie nelle donne siciliane più di quanto si pensi. Collura scorge delle dirette somiglianze tra le donne siciliane guardiane ferree del potere in famiglia e nella società, sottovalutandone il loro vero ruolo e il personaggio Concetta che in questo suo rimanere in secondo piano regge su di sé un intero romanzo. Il cospicuo contributo dato alla letteratura nazionale dagli scrittori siciliani dall’Unità d’Italia ai nostri giorni, s’impone con un dato costante: la delusione per la mancata rivoluzione promessa dal Risorgimento. Le tante, molte Sicilie che emergono da quanti ne hanno scritto e detto i viaggiatori che l’hanno visitata, perché ciascuno viaggiando visita ciò che si vuole visitare, e si vede ciò che si vuole vedere. Gli strani percorsi che sceglie la letteratura come nel romanzo Paolo il caldo di Vitaliano Brancati. In Uomo disperato, scrittore felice l’omaggio è rivolto ad un altro grande scrittore siciliano, Gesualdo Bufalino. Dal ricordo emerge un realistico, ma affettuoso ritratto dello scrittore che vive in Sicilia, ma non la vive. Un po’ come Borges con l’Argentina: la canta, la ricorda standone sempre fuori come un aristocratico inglese in una colonia del Regno Unito. In Due promontori Palermo e Cefalù affacciate sul mare ai piedi di un promontorio, come due sorelle che si specchiano, l’una pittorescamente simile all’altra., ma nei loro segreti recessi, uniche. Il ponte dei giganti una sorta di breve racconto fanta-realistico: da un’astronave l’io narrante avvista un’isola riportata su un libro antico, ma a distanza non era né un deserto né una terra fertile, ma qualcosa di morto. Inizia l’esplorazione di un’isola o quel che rimaneva di un’intera isola…Nella nota dell’autore, il giornalista-scrittore dice che scrivendo, molte volte, abbia cercato di evadere dalla Sicilia, ritrovandosi sempre in una posizione più interna da dove era partito. Non perché la Sicilia è una prigione, ma perché non si finisce mai di parlare della propria terra, più si cerca altrove, più si trovano nuove occasioni per meglio comprendere il luogo dove si è nati e per un certo tempo vissuti. E’ questa “la scienza certa” di cui parla Borges. E Collura la conosce perché, come diceva Sciascia, la Sicilia è metafora del mondo: un’isola che non potrà essere collegata con un ponte, perché è impossibile collegare un continente a un altro, anche servendosi delle tecniche ingegneristiche più strabilianti.
E’ un libro “forse” che può essere apprezzato da chi è siciliano e della Sicilia condivide la storia e il sentimento che suscita in chi c’è nato e da lontano volge lo sguardo. Ho scritto, forse, perché si potrebbe in modo speculare parlare di un’altra terra e viverla con i medesimi e contrastanti stati d’animo. La propria terra diventa l’ombelico del mondo, più che un raffronto con il mondo e così ogni territorio diventa metafora del mondo. Si parla di luoghi amati, di scrittori amati e di momenti di vita propria e altrui vissuti.
Interessante, ricco di annotazioni letterarie e scritto con grande garbo, questo libro offre un’occasione per conoscere aspetti e lati di una Sicilia multiforme e affascinante nella sua unicità.

L’autore: Matteo Collura è nato ad Agrigento nel 1945, ha pubblicato Il Maestro di Regalpetra, Eventi - Il racconto dell’Italia del Novecento, Alfabeto eretico, In Sicilia, Sicilia sconosciuta etc…Scrive per Il Corriere della Sera e vive a Milano.
Arcangela Cammalleri
 

15/02/2010

Giolina
di Valentino Rocchi
In copertina Maternità di Bruno Baratti
Edizioni Agemina
www.edizioniagemina.it

Narrativa romanzo

E' fuor di dubbio che l'ultimo romanzo di Valentino Rocchi, pubblicato alcuni giorni prima della sua scomparsa, segni, dopo la parentesi giallistica di Confrontarsi con Karolina, un ritorno a un mondo e a temi a lui particolarmente cari, già oggetto di precedenti narrazioni. La civiltà contadina, che fa da sfondo alla Magia del fuoco e che è invece teatro, palcoscenico di La saggezza di Toni, L'eredità di Venanzio, Gli uomini di Bluma, La Padrona di Santa Maria, sembra quasi riemergere dai ricordi per un ultimo saluto al suo autore.
Certo è che Rocchi è stato un profondo conoscitore della realtà rurale fra le due guerre e negli anni immediatamente successivi all'ultima, descrivendola in modo tale da costituire una visione storica di vita, usi, costumi e condizioni di quel periodo. Quindi, in aggiunta agli interessanti e importanti temi trattati, i suoi lavori finiscono con l'essere schemi archeologici di un'epoca e di una società che non esiste più.
Ha ragione Ferdinando Camon quando dice e scrive che la civiltà contadina è finita e perciò va dato merito all'autore padovano e a quello pesarese per averla riportata alla luce, per averla fatta conoscere a generazioni che ignoravano e che ignorano tuttora di come fosse il mondo delle campagne tanti anni fa.
Valentino Rocchi guarda a quella società, composta per lo più da miseri, con uno straordinario affetto, proprio di chi è giustamente convinto che il tempo delle stagioni, che regola la vita dei campi, sia l'unico per gli uomini, con quelle ore di lavoro che vanno dal sorgere del sole al suo tramonto, una metafora della vita che ogni giorno si rinnova.
Se ha un occhio pietoso per i casanti, cioè coloro che offrivano le loro braccia per brevi periodi o anche per alcune ore, ha un particolare riguardo per i mezzadri, illusi di avere le mani sulla terra che lavorano e sempre indebitati nei confronti dei padroni, che così li soggiogavano e li rendevano simili ai servi della gleba.
Da figlio di quella terra Rocchi non può evidentemente dimenticare l'indigenza di questi coltivatori, mai tale da farli morir di fame, ma al limite della sussistenza, con la certezza pressoché totale che nulla sarebbe potuto cambiare. Del resto i padroni erano per lo più esosi, prepotenti, alcuni pregni di stravizi, come nel caso di Pietro, giocatore incallito e galletto della zona, in cui è forte il senso della potenza al punto di violare le donne che non intendono cedere.
Quindi, anche l'aspetto femminile rientra in un quadro generale di soggezione, di cui è parte anche la padrona, Bianca, moglie di Pietro, una donna che nonostante l'epoca (siamo agli inizi del XX secolo) riuscirà a riemergere da quel fango di prepotenze, riservato al suo rango di "non maschio".
Se il titolo del libro è Giolina e non è il soprannome di una femmina come invece si potrebbe pensare, la vera protagonista, attorniata da numerosi comprimari, alcuni dei quali quasi con la sua stessa evidenza, è proprio lei, Bianca, capace di reagire alla sua condizione imposta di essere inferiore e di dimostrare, con l'intelligenza e con quell'intuito che è proprio del gentil sesso, che il mondo può cambiare, che questo non deve essere solo dei maschi, ma che su questa nostra terra siamo tutti uguali al punto che identiche devono essere le opportunità.
Ne nasce un affresco corale di grande bellezza, dove i protagonisti, il paesaggio, gli animali, le storie hanno un nesso logico; non ci sono comparse nel senso stretto del termine, perché anche i volti anonimi di coloro che ascoltano la messa sono nell'insieme l'emblema di un ceto e qui si innesta un altro discorso caro all'autore, vale a dire quel senso innato di solidarietà, di riscatto sociale senza violenza, di rivendicazione della propria dignità che pagina dopo pagina emerge dalle righe divenendo palpabile e che dona all'opera un ampio anelito di libertà e di uguaglianza.
In questo contesto non si può non evidenziare come in Valentino Rocchi non alberghi mai l'odio, anche nei confronti dei personaggi più esecrabili, bensì sia diffuso e tangibile un autentico senso di pietà. Quindi siamo ben lontani da rivendicazioni di giustizia violente e foriere di scontri insanabili, perché tutto viene stemperato in un generale quadro di misericordia che porta, a piccoli passi, a una visione di speranza di un mondo in cui tutti abbiano la consapevolezza di essere egualmente indispensabili.
In Giolina ci sono pagine che portano alla commozione, mai pretesa, mai reclamata, nel pieno rispetto della personalità del lettore e s'accompagnano spesso allo sfondo di una natura ancora in sintonia con l'uomo, una natura amica perché di essa l'uomo ha rispetto.
Mentre leggevo, scorrevano nella mia mente tutti i personaggi, immaginati a modo mio, come appunto voleva Rocchi, non imponendo, ma proponendo.
Giolina è l'ultimo canto a una civiltà scomparsa, sostituita dalla freddezza delle macchine, da un'attività divenuta quasi industriale, spersonalizzante, non più secondo gli atavici ritmi della natura.
Bianca, il burbero ma buon Simone, la sfortunata Sabina vi resteranno nella memoria, perché vi accorgerete di averli accanto a voi.
Quanto a Giolina, questo personaggio è quasi una metafora, il passaggio da un mondo all'altro, senza che sia cosciente di quel che è, da dove viene e dove va.
Nei primi rilievi dietro a Pesaro, alla Badia, ove è ambientato il romanzo, voglio sperare che fra quei personaggi inventati, magari su delle piccole basi concrete, ombre ideate dalla fantasia, aleggi lo spirito di Valentino, riunito per sempre alle sue creature.
La lettura è senz'altro più che raccomandata.

VALENTINO ROCCHI (Savignano sul Rubicone, 1929 - Pesaro, 2010)
Ha pubblicato: "Una Storia a Castelvecchio" (Società editrice Il Ponte Vecchio - Cesena); "L'Eredità di Venanzio" (Guaraldi - Rimini) Vincitore del Premio letterario "Il Pungitopo" 2001."Notte all'Hotel La Guercia" (Argalìa Editore);"Gli uomini di Bluma" (Giraldi Editore) II Classificato al Premio "Palazzo al Bosco", 2002;"La saggezza di Toni" (Giraldi Editore);Esce nell'anno del V centenario della morte di Pandolfo Collenuccio, uomo di corte e di legge, dalla vita straordinariamente avventurosa: "Notte all'Hostaria La Guercia", Pandolfo Collenuccio, uomo di corte del XV secolo, (Giraldi Editore) ambientato nel XV secolo, di cui è l'autore è profondo studioso e conoscitore; nel 2008 "La Magia del fuoco" (Agemina) e "1504 - Notte all'Hostaria La Guercia" (Agemina); nel 2009 "Il pianoforte a coda" (Giraldi Editore), "La padrona di Santa Maria" (Giraldi Editore), "Confrontarsi con Karolina" (Agemina), nel 2010 "Giolina" (Agemina)
Renzo Montagnoli

10/02/2010

TESORETTO SICILIANO
Compendio storico-culturale regionale
di Ezio Biuso-Rizzo

Presentazione di Marco Solfanelli
Edizioni Solfanelli
www.edizionisolfanelli.it

Saggistica storica
Collana Faretra

Non è infrequente che si viva di impressioni, o che comunque non si possa prescindere dalle stesse. A volte ci si azzecca, altre no, ed è quest'ultimo il caso di Tesoretto Siciliano che, prima di accingermi a leggerlo, immaginavo come un volumetto a uso del turista che intenda visitare la Sicilia e prima desideri avere un'infarinatura della sua storia. E invece non è così, ma è molto di più e penso che possano trarre giovamento dalla sua lettura gli stessi siciliani per sapere da dove sono venuti, come si è evoluta la struttura sociale nel corso dei secoli e il perché di una certa arretratezza economica che, dopo decenni di Cassa del Mezzogiorno, non è ancora stata sanata. Quest'isola è sempre stata una terra di frontiera, preda di diversi contendenti che ambivano a impossessarsene per la sua indubbia posizione strategica. Biuso-Rizzo, l'autore, senza approfondire troppo, riesce a condensarne la storia in modo tale che chi legge può comprendere facilmente e senza la necessità di ricorrere a fonti alternative, perché in quelle pagine c'è tutto quello che serve per farsi un'idea, abbastanza completa, dell'isola.
Dalla colonizzazione greca a quella romana, e poi a quella araba, soppiantata da quella normanna, per approdare a quella spagnola, matura chiaramente l'opinione della trascuratezza dei vari "padroni" per questa terra, mai considerata parte integrante e indispensabile del loro dominio, fatta eccezione per i Normanni, che lì posero le fondamenta di uno stato in una identità geografica che dagli altri era considerata invece una lontana periferia. La dominazione ispanica fece poi regredire la Sicilia a semplice territorio coloniale e proseguì questo atteggiamento anche con i Borboni, l'ultima dinastia prima dell'avvento dei Savoia e quindi dell'unità d'Italia. Resta il fatto che l'averla sempre considerata solo come una terra oggetto di scambio fra regnanti finì con il determinare non solo la mancanza di una forte identità regionale, ma anche una struttura statale debole e spesso vacante. Dal punto di vista economico è sempre stata vista come una zona agricola, ma il fenomeno dei latifondi portò sempre a produzioni modeste, quasi di sussistenza, di cui fece le spese un numeroso proletariato agricolo che, oppresso dalla miseria, nutrì sempre sfiducia nei confronti dei padroni, visti come rappresentanti di un potere feudale. Di conseguenza, l'assenza di un vero e proprio concetto di stato, fenomeno che è presente tuttora, è stato ed è il terreno fertile per lo sviluppo dell'attività mafiosa. A questa organizzazione criminale l'autore dedica un intero capitolo con osservazioni e conclusioni che mi trovano per lo più d'accordo e esprimono bene le difficoltà per debellare definitivamente un fenomeno ormai ben radicato.
La storia, però, non è fatta solo di dinastie e di eventi, ma anche di cultura ed ecco che allora ci son ben tre capitoli dedicati all'arte, alla musica e alla letteratura. Se, come mi sembra di aver compreso, le prime due non sono state produttive di nomi prestigiosi - per quanto tuttavia non sia possibile dimenticare il barocco siciliano e le opere di Vincenzo Bellini - , la terza è invece di notevole rilievo, visto che vi sono autori che esulano ampiamente il ristretto spazio regionale e che ormai sono considerati dei classici, conosciuti in tutto il mondo. Capuana, Verga, Pirandello, Rapisardi, Martoglio, Tomasi di Lampedusa, Quasimodo, Sciascia, Bonaviri, Camilleri - per brevità ne ometto molti altri di rilievo - hanno donato a quest'isola, ma soprattutto alla cultura opere che lasciano il segno, romanzi e poesie indimenticabili. Questa terra, arretrata, emarginata, quasi soffocata dalla mafia, ha nella letteratura degli autentici tesori e non sembra stanca di produrne di nuovi, quasi si trattasse, e forse lo è, di una scuola, in cui il rapporto fra uomo e natura, fra materia e spirito, nell'impossibilità di una verità assoluta, segue una ferrea logica narrativa, secondo un processo di elaborazione filosofica di altissimo livello.
Concludono l'opera delle utili tavole sinottiche, a carattere informativo, affinché il turista sappia cos'altro visitare.
Tesoretto siciliano è un autentico scrigno di conoscenza e quindi la lettura è senz'altro raccomandabile.

Ezio Biuso-Rizzo è nato a Adrano nel 1960 e ivi risiede. Dopo la Laurea in storia e filosofia (1985) ha partecipato ai concorsi a cattedra, ottenendo quattro abilitazioni all'insegnamento. Al lavoro scolastico accompagna una intensa attività di ricerca nel campo delle scienze sociali, della filosofia della scienza e delle attività cinematografiche.
Questi interessi sono confluiti nella pubblicazione di numerosi articoli su riviste specializzate e in alcune pubblicazioni tra le quali: "Dalla fine dell'urbanistica alla civiltà della crisi" (Aesse Edizioni, Santa Maria di Licodia 1997), "Cultura e società" (Aesse Edizioni, Santa Maria di Licodia 1999), "Manuale ragionato del Mondialismo" (Aesse Edizioni, Santa Maria di Licodia 2006).
Renzo Montagnoli
 

09/02/2010

LA MORTE
(di Vladimir Jankélévitch - Ed. Einaudi)
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Recensione a cura di Carmen Lama


La morte, di V. Jankélévitch, è stato definito un libro "sconvolgente".
Si può fare Filosofia della morte e scriverne per 474 pagine dopo aver affermato fin dall'incipit della Premessa che sia "dubbio che la morte sia un problema specificamente filosofico" e che sulla morte "Non c'è proprio nulla da dire"?
È quanto ha fatto in modo veramente sconvolgente questo filosofo ebreo di origine russa e naturalizzato francese, vissuto dal 1903 al 1985, la cui opera filosofica è un vero e proprio compendio di idee originali e di cultura raffinata ed amplissima.
Il libro si suddivide in tre parti, i cui titoli già orientano il lettore riguardo ai contenuti specifici su cui sarà portato a riflettere.
Nella prima parte, che occupa quasi la prima metà del libro, l'autore disserta su "La morte al di qua della morte", portandoci effettivamente ad una lunga riflessione su quanto della morte è possibile confusamente intuire stando all'erta mentre siamo vivi. La sua non è una vera e propria indagine sulla morte, poiché di ciò che è assolutamente impossibile conoscere non si saprebbe neppure come e su cosa indagare. Vi è, invece, un esame approfondito delle varie teorie della morte, dell'anima, dell'essere, del non-essere, del divenire, del nulla, su cui la filosofia classica ha lungamente dibattuto, ed anche un esame delle teosofie, delle visioni filosofico-religiose sugli stessi temi.
Lo scopo principale di quest'analisi è, ovviamente, quello di poter poi confutare le precedenti teorie, dimostrando, per quanto sia possibile su temi così sfuggenti all'ambito razionale, la fallacia di tali visioni o, nel migliore dei casi, come esse siano semplici tentativi di portare una sorta di consolazione e di speranza di fronte all'angoscia del nulla che attende al varco ciascun essere umano, senza peraltro che ci sia alcuna possibilità di sfuggire alla tragedia estrema, al punto ultimo di ogni esistenza, e senza alcuna eccezione per alcuno. Consolazione e speranza che, di fronte alla realtà empirica, ineludibile quanto assurda e tuttavia necessaria, sono forse motivo di maggior disperazione e non offrono comunque alcun appiglio per poter cambiare le carte del destino. Jankelevitch tiene a sottolineare l'impossibilità di rendere "univoco", certo, definitivo, il concetto di morte che è invece un concetto "equivoco", in quanto tiene insieme dei contraddittori, la vita e la morte, e su cui non ci potranno mai essere delle verità definitive.
La dimostrazione di Jankelevitch, pur ammesso che nulla si possa dimostrare con metodi empirici quando l'oggetto su cui si discute è di ordine metaempirico, procede con uno specifico ordine, molto convincente in effetti, poiché il processo filosofico di avvicinamento all'evento straordinario (ma del tutto ordinario), che egli ci propone, risulta a dir poco lampante come una verità di La Palisse. Ci guida, infatti, a distinguere la morte in terza persona, dove ciascuno di noi è semplice spettatore della morte di altri, cosa del tutto naturale, ordinaria, e persino scontata da che esiste il mondo, dalla morte in seconda persona, dove si è spettatori della morte di un congiunto o di una persona cara, la cui scomparsa già appare più ingiusta della precedente, meno naturale ed ordinaria, dalla morte in prima persona, la morte-propria, che contrariamente al buon senso e all'evidenza, appare a ciascuno di noi come altamente improbabile, comunque lontana nel tempo e come un evento del tutto straordinario.
Ponendoci nelle diverse prospettive, potremmo insieme a Jankelevitch seguire il processo di conoscenza di questo istante tragico che è la morte, senza tuttavia poterne avere effettiva conoscenza; al più potremmo giungere ad una "scienza nesciente", che nulla ci dice del nucleo profondo di quell'istante, se mai quell'istante abbia un nucleo essenziale che possa essere oggetto di conoscenza. Jankelevitch porta avanti il suo discorso servendosi di moltissimi esempi, tratti tutti, com'è ovvio, dal mondo di quaggiù, dall'empiria, da ciò che solo può essere oggetto di discorso e di comprensione per un essere razionale, utilizzando anche un'efficace ed originale terminologia, come quando definisce la "semelfattività" della morte, indicando con ciò l'accadere di un evento di tale portata come quello che avviene una e una sola volta e in modo necessario.
La realtà tragica dell'istante mortale è ciò che tutti sanno in quanto si tratta di una "quoddità", ma nessuno conosce la "quiddità" di tale istante: in altri termini, tutti conoscono "il fatto che" ma non conoscono il "che", cioè nessuno conosce le modalità effettive del quod, le sue coordinate spazio-temporali e il modo in cui accadrà. In questa prospettiva, e solo per questa ambiguità della morte che è certa nel suo quod, ma incerta nel suo quid, la vita assume il grande ed inestimabile valore che ha. Valore che si esprime in tutte le azioni che siamo continuamente spinti a compiere, quasi con il sottinteso ed implicito intento di allontanare quanto più sia possibile l'istante supremo ed ultimo.
La morte, inoltre, svolge un compito essenziale quando accade, perché è solo e soltanto da quell'ultimo istante in poi che si ha il quadro completo di un'esistenza. Salvo che per il diretto interessato, per il quale questa nozione specifica non può essere mai posseduta, poiché prima è troppo presto (il quadro non è completo) e dopo è troppo tardi (non c'è più nessuno che possa sapere).
Viene analizzato il va-da-sé del divenire, nel quale consiste la continuazione dell'intervallo che costituisce la vita vera e propria, e che si situa tra il precedente non-essere, da cui ogni esistenza è tratta nel momento della nascita, e il nulla che mette fine a questo intervallo, senza che ci sia null'altro dopo, perché il nulla della fine è un nulla-più, un mai-più-nulla, un nulla definitivo ed una volta per tutte, un nulla eterno. E non ci sono misure comuni per comparare il non-essere precedente all'esistenza con il nulla che segue all'ultimo istante, il quale è un nulla del tutto, nulla di tutto l'essere, in quanto non c'è alcunché a seguire.
Nella sua lunga dissertazione Jankelevitch ci spiazza, anche perché mentre si aggira nei dintorni della morte, afferma categoricamente che mentre siamo in vita la morte non esiste affatto, ogni momento della nostra esistenza è vissuto in tutta la sua pienezza di vita, anche quando incalza l'invecchiamento, tanto è vero che la morte arriva sempre "all'improvviso" anche se sorprende una persona più che novantenne. In questo caso, si è solo percepita una maggiore probabilità, ma mai la sua approssimazione. La morte, vicinissima alla vita in quanto può arrivare in qualsiasi momento senza chiedere affatto il parere, è sempre lontanissima dalla vita. Ed è questa una fra le tante difficoltà di saperne alcunché. Non ci può essere neppure un apprendimento della morte, come certe religioni pretendono quando stimolano i credenti a "prepararsi alla morte". Risulta del tutto inutile prepararsi, vivere continuamente mortificandosi, vivere le piccole morti quotidiane e le rinunce in vista di un bene postumo, poiché non si può apprendere ciò che nessuno ci può insegnare perché nessuno ha mai vissuto l'esperienza, unica - singolare - estrema, della morte-propria, per potercene poi dare neppure la più pallida idea, e perché nulla si sa di questo incerto bene postumo.
In questa prima parte del libro, sono moltissimi i concetti di volta in volta messi in luce, senza tuttavia raggiungere una certezza sull'essenziale: è come fare una sorta di giro panoramico intorno ad una località sconosciuta, ma restando sempre alla periferia, poiché non ci sono mezzi che arrivino al centro.
Nella seconda parte, dal titolo che appare quasi come una sfida per quanto appena detto, Jankelevitch affronta "La morte nell'istante mortale". Qui la dissertazione si fa più insistente, più pericolosa, più dettagliata e sempre più tragica, mano a mano che cerca di avvicinarsi a quel centro inesplorabile che continuamente sfugge e si allontana quanto più sembra stia per essere raggiunto.
È come se il centro fosse dappertutto e per ciò stesso da nessuna parte. Come si può fare per individuarlo in modo esatto per poterlo poi ben esaminare? Ancora una volta si frappongono questioni puramente filosofiche che sono assolutamente ineludibili: la morte è un evento soltanto fisico, biologico, non può essere indagato con strumenti metafisici. Si può tentare di entrare nel dettaglio di cosa rappresenti l'ultimo istante rispetto a tutti gli istanti che l'hanno preceduto, ed affermare la sua assoluta particolarità, senza tuttavia poterlo mai cogliere "sul fatto", neppure quando si tratti dell'ultimo istante di una seconda o terza persona.
In questa seconda parte del libro, sono anche molto interessanti i raffronti che Jankelevitch ci presenta tra i modi in cui in letteratura sono state affrontate le situazioni di morte da parte di alcuni protagonisti di romanzi, di drammi, di opere musicali. Ed è pertanto molto ampia anche la mole di testi indicati nelle note, a cui il filosofo ha fatto riferimento nel suo lungo e complesso discorso filosofico sulla morte.
I quattro capitoli che si susseguono in questa seconda parte analizzano nel dettaglio quell'ultimo istante mortale fuori-categoria, di tutt'altro ordine rispetto a tutti gli altri istanti che compongono il nostro intervallo, cioè il divenire e la continuazione della vita, arrivando fino al quasi-niente dell'articolo di morte, ma eludendo la vera e propria soglia della morte.
Inoltre, viene mostrato come nel tempo dell'intervallo di vita sia l'irreversibilità temporale ad avere la meglio, in quanto, mentre ci permette un'andata e ritorno nello spazio, ci impedisce di fatto un ritorno indietro nel tempo.
Ed infine, una sola nota di vera consolazione (ma di consolazione si tratta?) ci viene offerta da Jankelevitch nel capitolo in cui, pur affermando l'irrevocabilità sia dell'istante mortale sia dell'irreversibile temporalità vissuta, ci mette davanti all'impossibilità di cancellare e nichilizzare, insieme a tutto l'essere, anche il fatto di esser-stato. Una volta che un'esistenza, che poteva anche non-essere, sia venuta alla luce con la nascita, diventando un essere, nessuna morte potrà mai cancellare il fatto che questo essere sia vissuto.
Nessun olocausto con l'annichilimento di milioni di esseri potrà mai cancellare il fatto che questi esseri siano stati.
A questo proposito, vorrei sottolineare come Jankelevitch, filosofo ebreo, la cui esperienza è stata fortemente segnata dall'innominabile tragedia della "morte di massa" di milioni di ebrei, non faccia mai esplicito riferimento a quella mostruosa e immane e gratuita carneficina dettata solo da menti demoniache e folli, tranne in un punto, ma quasi di sfuggita, come uno fra i tanti esempi che adduce per spiegare meglio i concetti che esprime. Ma molto probabilmente, come ci dice nell'Introduzione Enrica Lisciani Petrini che ha curato l'edizione italiana del libro, quell'esperienza è lo sfondo costante e ineludibile di tutta la sua riflessione filosofica sulla morte.
Nella terza ed ultima parte del libro, Jankelevitch torna su alcuni concetti già affrontati, approfondendoli ancora, pur senza darci una virgola in più di conoscenza sul concetto di morte vero e proprio. Se l'indagine riguarda "La morte al di là della morte", e se Jankelevitch ha avuto sin dall'inizio del libro l'intento dichiarato di mostrare l'inutilità delle teorie profetiche o consolatorie circa l'al di là, è del tutto evidente che nulla avrebbe da dire su qualcosa che ritiene assolutamente inesistente. E tuttavia, nei quattro capitoli che compongono quest'ultima parte, prova a chiedersi se l'al di là è un avvenire, che senso ha la paura dell'istante estremo, quali speranze sostengono la capacità di affrontare questo istante tragico in vista di qualcosa di completamente incerto che ci attenderebbe dall'altra parte della soglia. E si sofferma, in particolare, nel dimostrare l'assurdità della sopravvivenza, i concetti di immortalità, di resurrezione e di vita perpetua, distinguendo l'anima dal corpo, ma non nel senso consueto delle filosofie tradizionali. L'anima, per il nostro autore, non è altro che l'essere pensante, l'anima può esser tale solo se esiste un essere pensante, essa non ha un luogo determinato nel corpo, così come i pensieri non risiedono nel cervello ma sono impossibili senza di esso. Dimostrando infine l'assurdità della nichilizzazione dell'individuo, cioè di tutto l'essere pensante, prodotta dalla morte, indugia sulla continuazione della specie che può aver luogo solo a partire dalle singole morti individuali. Sono queste ad innescare quel processo generativo per il quale le nascite sembrano in qualche modo compensare le morti, ma, - ahimé! - c'è di mezzo quell'insostituibilità di ogni singola esistenza che alla fine non rende giustizia, in nessun modo, al singolo individuo. Perché la compensazione quantitativa non ha nulla a che vedere con la sostituzione qualitativa. E questo anche a prescindere che si tratti di un nuovo individuo o che si tratti di una "rinascita" nell'al di là. Non fosse altro perché una rinascita si compie in un diverso momento temporale, e dunque non può che trattarsi di individui diversi.
Mai due volte una cosa, mai due volte un evento! Figuriamoci una persona!
La riflessione conclusiva porta Jankelevitch sul terreno della surcoscienza e poi sui concetti di Amore, Libertà, Dio, nei confronti dei quali afferma la superiorità della morte, ma reciprocamente la loro superiorità sulla morte dal punto di vista generale, in quanto l'eternità della Vita è la stessa eternità della Verità, che nessuna morte individuale potrà mai scalfire.
E dunque, non ci resta che prendere atto che tutto ciò che di noi resterà saranno le azioni giuste che avremo compiuto in quest'unica vita che abbiamo avuto in sorte e, insieme a ciò, il nostro esser-stati, sì minima parte, ma non insignificante, anzi unica, irripetibile e di inestimabile valore, della totalità di un universo. Il fatto d'esser-stati, il fatto d'aver-fatto le cose che abbiamo fatto, il fatto d'aver-amato, nessuna morte potrà mai cancellarlo.
E grazie alla nostra esistenza, la Vita continuerà a dispetto della Morte.
La lettura di questo libro è senz'altro molto impegnativa, ma per chi volesse cimentarsi con un modo nuovo di filosofare intorno a Quella-Cosa che mentre ci appartiene singolarmente non ci appartiene affatto finché viviamo, potrà essere un ottimo esercizio per tenerla lontana, abbordandola con l'appellativo "la morte, questa sconosciuta!", stigmatizzandola e rimandandola alle calende greche. Un ottimo antidoto, insomma. Una sorta di vaccino, per cercare di curare la malattia delle malattie, l'unica davvero incurabile, se non guardandola dall'alto della surcoscienza universale.

P.S.: Ne ho ricavato una semplice "Equazione" che si conclude con un augurio:

La vita sta alla morte
come il sole a una notte
senza luna né stelle,
a cui non seguirà
alcuna nuova alba.

Su questo fondo buio
cupo nero profondo
tanto più sfolgorante
appare a noi la vita.

Che sia un felice intervallo
tra il non-essere e il nulla!

Carmen Lama, 3/2/2010
 

08/02/2010

Mali di famiglia. Maltrattamenti, stalking, mobbing, gambling, dai racconti dei protagonisti agli aspetti psicologici e giuridici.
Gina Lupo e Vittorio Ricapito
Casa editrice Edit@ 
Copertina di Pillinini

Mali di famiglia.
Nuove difficoltà dai risvolti giuridici e psicologici esaminate da chi le affronta quotidianamente.

Si raccontava di famiglie intorno al fuoco, ove il fuoco era al centro di tutto. Scoppiettava nel camino e la sua era la voce più importante. La famiglia in cerchio si uniformava a lui arrossando le guance. Aveva la spalla gelida, oltre la quale regnava il buio e il freddo. La schiena serviva da baluardo e in schiera quadrava il nucleo. Ciascuno schermava la famiglia come avrebbero difeso se stesso. Era, ed è questa la verità inconfutabile: solo difendendo la famiglia si provvede a se stessi. Ce lo insegnano i padri. Volendo riportare la definizione aristotelica di sapore giuridico "La famiglia è l'associazione istituita dalla natura per provvedere alle quotidiane necessità dell'uomo". L'uomo non è nato per vivere solo. Non è neanche nato per vivere in un mondo virtuale, come inizia ad accadere. La famiglia, ancora adesso, è un bene insostituibile.
"A parte i beni materiali, l'unica vera eredità che possiamo lasciare ai nostri figli è l'amore. Amore per il prossimo, per la vita. L'unica nostra chance di immortalità, di sopravvivenza alla nostra vita terrena, sta nel trasmettere quel riconoscimento simbolico, attraverso il nostro esempio alle future generazioni. Pensare di fermare il tempo e il mondo che si modifica intorno a noi, è utopia pura. Chi cerca di propagandare sotto forma di valori tradizionali una bieca restaurazione, è destinato ad essere condannato dalla storia. Dobbiamo imparare a governare gli eventi, impedire al "vento di cambiamento" di spazzare via quei valori che sono state le fondamenta del nostro sviluppo e che sono e saranno indispensabili alla buona riuscita del naturale progetto di organizzazione della famiglia che ha reso possibile la nostra evoluzione filtrandoli però ed eliminando elementi storici anacronistici. La parola d'ordine è compromesso: trovare l'equilibrio tra gli antichi valori di unione della famiglia e il moderno stile di vita imposto dall'attuale contesto. Sarà questa la nuova sfida che attende il nostro futuro. L'ingrediente essenziale è l'amore."
Nel prologo, di cui ho riportato solo una parte, si parla di vento di cambiamento. In effetti, la famiglia sta evolvendosi forse in più di una direzione. Si parla di famiglia malata non ancora di famiglia moribonda. Al termine "famiglia" si aggiunge "a tempo" per la facilità della sua disgregazione. Causa la vita frenetica, l'intensità dei ritmi, la coppia ha ridotto il tempo del colloquio e dell'ascolto. Ci si sposa, comunque, con poco interesse per l'altro, ma pronti a soddisfare nel matrimonio, come nel resto della vita, unicamente il proprio egoismo, come stabilisce questa società che premia solo lo sfrenato carrierismo. L'affettività, una futilità da non perderci la testa, è ritenuta null'altro tenerezza. Purtroppo, senza, non si conosce né ci si fida di nessuno.
Uomo e donna, marito e moglie, secondo la formula religiosa un solo corpo e una sola anima. Ne servono due di forze e due di attenzioni per reggere le insidie quotidiane. E quelle esterne hanno potenza distruttiva sempre più accesa, nel loro numero centuplicato.
Ma rientriamo tra le mura domestiche. Appena in casa ci si libera di scarpe, vestiti e maschera di compiacenza. Che si viva soli o in famiglia si è se stessi. La famiglia però pretende il rispetto delle regole che si è creata. Sono sane quelle in cui la violenza non è eccezione né regola. Quelle che fanno sì che il proprio nido non sia peggiore dell'inferno.
I guai di famiglia nascono dalla e nella famiglia stessa. I maltrattamenti hanno una connotazione comune: il dover mantenere il segreto. Secondo un proverbio ancora recitato e applicato "i panni sporchi si lavano in famiglia". Tempo non troppo addietro, questi era lecito lavarli anche col sangue in virtù del diritto d'onore. La concezione della famiglia patriarcale includeva il dominio totale del pater familias su tutti i componenti, i quali, non avevano alcun diritto di replica. C'era un vertice che era anche un collante, ed un'unica direzione. La mentalità del capofamiglia sceglieva quali comportamenti si potessero assumere all'interno e all'esterno di essa. Erano leciti atteggiamenti violenti, senza che se ne prevedesse alcuna giustificazione. Spesso vigono tuttora le stesse regole: violenza e segreto. Infrangere questi precetti, con i quali si è nati e cresciuti, è più doloroso del sopportare la violenza stessa. Vergogna e pudore sembrano sentimenti in disuso, invece esistono. Tagliano l'anima. E la forza non sembra sufficiente per superarli. Eppure è indispensabile farlo. Il non reagire in tempo conduce a situazioni irreversibili. In Italia c'è un omicidio in famiglia ogni 2 giorni: in 7 casi su 10 la vittima è una donna. A Fabio, chiamiamo così un bambino di tre anni il protagonista di una vicenda giudiziaria di pedofilia, era stato chiesto dalla maestra di mantenere il segreto. Le parole non dette impediscono di dare un senso a ciò che è successo e autorizzano implicitamente la ripetizione dell'abuso. Ancor più nei bambini per i quali il segreto rientra nella sfera del magico e del fantastico, e quindi assume un fascino difficilmente scalfibile. Bisogna imparare a parlare perché esistono leggi e strutture che possono prestare soccorso, e bisogna imparare a dire no.
La violenza assume forme svariatissime che solo da poco tempo hanno un nome come, ad esempio, stalking, mobbing familiare, gaslighting. Personalità psicologicamente deformate producono comportamenti inammissibili ormai sanzionati affinché le vittime ritrovino la serenità. Persecutori e vittime, per uscire dalla situazione creatasi, hanno bisogno di aiuto. La relazione distorta sconvolge nell'intimo facendo perdere la psiche in labirinti sconfinati. Non si torna indietro da soli. Per questo, vecchie e nuove figure professionali approfondiscono la loro preparazione su questi comportamenti emergenti.
Si da la colpa alla solitudine. Un dramma che non si accetta, perché contrario alla natura umana. Si racconta che lo stesso Creatore si sia immediatamente reso conto del bisogno di Adamo e gli abbia creato la compagna Eva. E il primo appellativo di Eva è proprio "compagna". Sarebbe stata la complice in tutte le vicende della vita, buone o brutte. E Adamo ed Eva, insieme, sono usciti dal Paradiso terrestre, ed, insieme, hanno creato l'intera umanità.
Adesso si è soli, senza sentirsi in simbiosi col compagno, e sempre fuori dal paradiso.
Per solitudine si diventa stalker. Nel 1987 ha enorme successo un thriller erotico sentimentale dal titolo "Attrazione fatale". La trama è un'escalation di ferocia di una donna, respinta dopo un'intesa notte d'amore, ai danni della famiglia dell'amato. Quella che avrebbe dovuto essere solo l'avventura di una notte culmina in un finale alla Psyco. Il film scolpisce irreversibilmente lo stalker, l'affetto dalla sindrome di Clèrambault, tanto che difficilmente un'altra produzione artistica potrebbe apportarvi aggiunte o modifiche significative. Glenn Close, Alex nel film, interpreta magistralmente la pazzia di una donna che ritiene di aver incontrato l'amore ma è, forse per l'ennesima volta, abbandonata. Lo stalker è appunto questo, una persona che vive in una profonda condizione di solitudine e idealizza un partner, non sopportando l'abbandono diventa persecutore. Traduce il suo fallimento in ripicca. Non è legalmente necessario che la vendetta diventi sanguinaria, bastano minacce o insistenze, pedinamenti, aggressioni e comportamenti simili. Angelo lascia Mariapia dopo due anni di fidanzamento e riceve sms con "Non ti libererai mai di me. Ovunque vai, guardati intorno, io ci sarò. Sarò tua e tu sei mio. Per sempre. A qualsiasi costo". Ma questo è solo il primo passo. Angelo permetterà alla sua stalker di braccarlo ancora a lungo prima di rivolgersi alle forze dell'ordine. Le vittime maschili hanno molta più difficoltà a chiedere aiuto, in più, Angelo ha un carattere mite e introverso.
La solitudine è anche la caratteristica dominante della vittima di mobbing e di mobbing familiare. È sempre una persona con difficoltà di contatti, introversa, sensibile e debole. La violenza psicologica porta il mobbizzato a chiudersi ulteriormente verso l'esterno, motivata dall'impossibilità di esprimere il disagio, poiché si è sottoposti ad una terribile limitazione della libertà. Il suo carattere diventa sempre più cupo e depresso, a volte sino a conseguenze estreme. Il mobbizzato perde del tutto la capacità comunicativa. Mobbing, letteralmente significa "assalto di un gruppo all'individuo". Uno contro tanti, forse proprio contro tutti. Il mobber è di diversi tipi. C'è il frustrato, il sadico, il criticone, il leccapiedi, il tiranno, il carrierista, etc., ma è sempre uno che esegue una linea d'azione ben precisa in quanto utilizza l'intelligenza cognitiva e strategica. Al contrario, il mobbizzato si relaziona in modo intuitivo ed emotivo, risultando sempre il perdente. Una generalizzazione vorrebbe lo stalker sempre donna e il mobber uomo. Al contrario, l'emancipazione porta la donna ad assumere atteggiamenti sempre più prevaricatori tipici maschili ma con l'aggiunta di sottigliezze indiscutibilmente femminili. Anche la donna può essere una formidabile mobber, acutamente sadica, e l'uomo uno stalker.
Vivere in famiglia non è mai stato facile. Anche in essa si misurano le forze, le astuzie, i rancori. Alle grane ataviche, la famiglia ne sta aggiungendo di nuove. Ho accennato solo di alcune, poche rispetto a quelle presenti nella realtà societaria. In modo molto professionale se ne sono occupati Lupo e Ricapito nel libro "Mali di famiglia". Un avvocato e un giornalista, coadiuvati da un validissimo team di esperti, hanno pubblicato, con la casa editrice Edit@, un testo che prende in considerazione avvenute cause processuali per analizzare psicologicamente e giuridicamente situazioni diventate comuni. Sarebbe presuntuoso dare formule per un matrimonio riuscito. Lupo e Ricapito, infatti, evitano accuratamente di elargire facili consigli, ma mettono soltanto in guardia contro possibili disavventure.
L'epilogo di Ruggero Ruggeri, docente di psicologia dinamica presso l'università di Salerno, si presenta con questo titolo: "Famiglia Mulino Bianco o Famiglia Addams?". Il professore attribuisce validità ad entrambe. Ambedue basate sul rispetto, accoglienza e fiducia reciproca. Riconosce soprattutto il legame saldo e inscindibile tra i componenti. Talmente tenace da far passare in secondo piano le personali esigenze. Identifica il mito che queste due famiglie rappresentano. La trasposizione del mito nella realtà non sembra possibile, a giudicare dai fatti di cronaca nera e dagli atti giudiziari. Sarebbe, come sempre, giusta soluzione la via di mezzo: la famiglia con saldi legami e opportuni conflitti da smussare giornalmente. Il benessere non è determinato dalla mancanza di divergenza, ma dalla continua ricerca di'equilibrio.
Quando le difficoltà sovrastano non è matematico vincerle. Incidono, che siano interne o esterne alla famiglia stessa. L'ago della bilancia, della risoluzione, lo muove solo la fiducia. È lei che stabilisce se il legame è la catena di un carcerato o la risorsa per superare qualsiasi avversità. È il laccio che, una volta sfilacciato, non c'è niente che possa ricucirlo. Ruggero Ruggieri suggerisce caldamente di ricorrere alla mediazione familiare prima del passo irreparabile. Se le proprie forze non bastano, non è ancora il caso di arrendersi. Si può ricorrere ad un nuovo anello che ricongiunga la catena, cioè che ristabilisca una relazione. Capirsi non è mai facilissimo, nei momenti di crisi molto meno. A volte, queste aiutano ad accrescere il rapporto, non consideriamole solo come negative. Buttare via tutto, senza manco un piccolo tentativo di riconciliazione, come se non si fosse vissuto insieme niente, né costruito, né progettato, né superato mai alcun ostacolo, non è la decisione giusta. La relazione spesso si guasta perchè si danno per scontate cose che non lo sono affatto, sono presunte e mai verificate. Altre perchè non si ha una giusta modalità per rapportarsi al coniuge, ma questa la si può imparare. E così tanti altri scogli. Ogni coppia ha il suo personalissimo problema e l'unicità di risolverlo.

Si raccontava di famiglie intorno al fuoco, ove il fuoco era il centro di tutto. La pioggia scrosciava a raffiche senza penetrare le mura. Diluviava. Forte, sempre più forte.
Il fuoco scaldava e illuminava. A volte le lingue erano molto alte, a volte bisognava scuotere le ceneri, altre gettarvi dentro un ceppo. Sul fuoco un pentolone colmo di minestra. Il suo profumo diventava quello della casa. Una donna rimescolava ripetutamente. Un uomo a capotavola tagliava il pane, mentre bambini e adulti suonavano piatti e bicchieri battendo le mani sul tavolo. Un anziano sdraiato sulla poltrona poggiava le mani scheletriche su un gatto ugualmente spelacchiato. E l'allegria risuonava forte. Sempre più forte.
Il televisore acceso richiamava l'attenzione. I bimbi corsero a tuffarsi sul divano, dove li accolse un bacio della mamma. Il padre infilò un DVD e premette il comando play, poi si rannicchiò contro la moglie. La strinse forte, sempre più forte. Come si stringe il più agognato trofeo di gara. Aveva vinto la sfida della vita.
Angela Plati
 

06/02/2010

La principessa di ghiaccio
di Camilla Läckberg
Traduzione di Laura Cangemi
Marsilio Editori
www.marsilioeditori.it

Collana Farfalle / I GIALLI
Narrativa romanzo

Occorre premettere che ho sempre diffidato dei best sellers, libri in genere di piacevole svago, ma di modeste qualità letterarie, tranne rari casi. Così, quando ho preso in mano La principessa di ghiaccio, oggetto di una notevole campagna pubblicitaria, ero un po' scettico, immaginando il solito romanzo giallo, dal meccanismo ben oliato, magari di gradevole lettura, ma privo di spunti che potessero andare oltre il genere. Tuttavia, già dalle prime pagine, ho dovuto ricredermi , riscontrando che l'aspetto investigativo volto alla ricerca del colpevole o dei colpevoli di un delitto è quasi marginale, costituendo l'ossatura intorno alla quale costruire uno spaccato della società svedese. La morte violenta di una giovane e bella donna, Alexandra Carlgren, avvenuta a Fjällbacka, un tempo piccolo paese di pescatori, trasformatosi successivamente in ridente località turistica, innesca una serie di reazioni e mette a nudo le pecche di una società che, per abitudine, consideriamo assai più progredita della nostra.
Mano a mano che procedono le indagini, a cui partecipa attivamente anche Erica Falck, scrittrice di biografie e alla ricerca di dare una svolta alla sua vita ormai avviata a un destino da nubile, si scopre la tipica mentalità gretta di un piccolo borgo, in cui la maldicenza sembra imperare, nonostante i tempi moderni in cui svolge la storia.
Non è tuttavia solo una questione di mentalità ristretta, ove ciò che conta è l'apparenza oltre ogni logica, ma anche di una chiara invalicabile separazione fra le classi sociali, in cui una borghesia ricca cristallizza il suo mondo, rendendolo inaccessibile agli altri.
E' una visione della società svedese che stupisce, pur se indubbiamente veritiera, e che lascia molto a pensare sulle nostre convinzioni di un popolo molto più evoluto e libero del nostro. Anche per quanto concerne l'aspetto sessuale appare in netto contrasto con quanto abbiamo sempre pensato degli svedesi, al punto che perfino una violenza subita diventa motivo di vergogna per i familiari della vittima, quando addirittura non viene usata per tornaconti meramente economici.
Scopriamo così cosa c'è dietro la facciata, un mondo fatto di silenzi, di urla mute di chi subisce senza poter reagire, di come con il denaro si compri tutto, anche la dignità e la vita delle persone.
Camilla Läckberg non si dimostra per nulla tenera nei confronti dei suoi connazionali, additando invece come elementi positivi uomini e donne che cercano di condurre la loro esistenza nel pieno rispetto di sé e degli altri, fieri di essere quello che sono e che della loro umiltà fanno una ragione d'orgoglio, mai disponibili a scendere a compromessi, alla ricerca continua della verità, anche la più scomoda.
Pagina dopo pagina incontreremo personaggi che non possono che destare simpatia, oppure altri che finiremo con il detestare, nonostante le apparenze, in un intreccio che si fa sempre più fitto, una matassa di nodi intricati che si scioglierà solo alla fine, con l'inevitabile scoperta del colpevole nei confronti del quale non potremo che provare un autentico senso di pietà, in quanto anche lui vittima della sua condizione sociale.
Scritto benissimo, mai greve, con un'attenta e precisa caratterizzazione dei ruoli, La principessa di ghiaccio è uno dei pochi best seller di elevata qualità letteraria.

Camilla Läckberg (1974), prima di diventare una delle più celebri e vendute autrici di polizieschi della Svezia, ha lavorato per diversi anni nel marketing. Oggi, madre di due figli, vive a Stoccolma dove continua a scrivere la sua fortunata serie tradotta in ventisette paesi, che ha venduto finora nel mondo più di sei milioni di copie. Da questo primo episodio della serie, vincitore in Francia del Grand Prix de Littérature Policière, sarà realizzato un film.
Renzo Montagnoli
 

Un altro giro di giostra
Viaggio nel male e nel bene del nostro
tempo
Di Tiziano Terzani
Ed. Longanesi
Autobiografia

L’autore ricorda quando un’immagine attraversò la sua mente: gli parve che tutta la sua vita fosse stata come su una giostra: su un cavallo bianco a girare a piacimento, senza che qualcuno mai gli avesse chiesto il biglietto. Ora passava il controllore e pagava il dovuto e se gli andava poteva fare ancora …un altro giro di giostra.
Quando lessi su L’ESPRESSO del libro di Terzani, rimasi colpita dalla recensione e lo comprai leggendolo con grande partecipazione. A distanza di qualche anno mi è ricapitato tra le mani e l’impulso irresistibile di rileggerlo è stato istantaneo. Come la prima lettura, questa seconda ha affondato nelle radici dell’essere ed ha lasciato una scia indelebile nell’animo. Terzani come giornalista fu un viaggiatore di paesi, profondo conoscitore di angoli del mondo lontani, in questo libro il viaggio verso la ricerca di una risoluzione del suo male diventa anche un’introspezione dentro e fuori di sè. Con speranza e con perseveranza inizia un pellegrinaggio che lo porta dagli Stati Uniti all’India alla Cina in una spasmodica ricerca e sperimentazione di medicina alternativa, tibetana, ayurveda, reiki, yoga, omeopatica, pozioni, erbe, diete…Alla fine quello ch’era stato un percorso esterno, ricco di contatti umani, tra città affollate e villaggi sperduti si volge in un percorso interno, nel silenzio immanente di paesaggi solitari ritrova un contatto diretto con la natura in un’armonia e un equilibrio tra il mondo e se stesso. Quando un problema sembra senza una soluzione, improvvisamente compare fuori della logica delle soluzioni a cui si è abituati. La domanda che Terzani si pone negli ultimi tre mesi :”Io, chi sono?” cerca risposte nelle varie religioni orientali; spesso, non si conclude con una risposta, la risposta sta nel porsi la domanda, la risposta è senza parole, è nell’immergersi silenzioso dell’Io nel Sé. La prolungata solitudine e il silenzio creano un vuoto, la mente si concentra, si ha l’impressione di capire tutto. Il tempo è solo presente, perché solo al presente se ne fa esperienza. Gli esercizi per impratichirsi a morire alla maniera dei sufi, non cambiano nulla dentro di lui. La lezione dei Vedanta: tutto ciò che nasce muore, tutto ciò che muore rinasce.. Solo il Sé, la coscienza pura che non è mai nata, che è fuori del tempo, resta.
“Come il grano
L’uomo matura,
Come il grano
Egli di nuovo rinasce”

La morte non è negativa, grazie a lei ci poniamo le grandi domande sulla vita.
Però dopo mesi di isolamento, il ritorno alla vita normale lo spaventa, capisce che dipendere dalla solitudine per essere in pace non è la soluzione. Ritorna nel suo eremo, nell’Himalaya, dove aveva sì trovato il silenzio fuori, ma non aveva fatto pace con se stesso, in quanto la lontananza dal mondo è ancora una condizione necessaria del suo stare in equilibrio. Compie degli esercizi che i sufi, i tibetani e altri hanno fatto per secoli: disteso a guardare il cielo e le nuvole e come una nuvola vagare, aleggiare fino a disfarsi e scomparire. La nuvola non c’è più, lui non c’è più. Resta solo la coscienza, libera, senza legami, una coscienza che si espande. Lavora su se stesso per trovare pace in qualsiasi luogo si trovi. Forse, riflette, senza questo malanno che lo ha colpito non avrebbe fatto il viaggio che ha fatto e non si sarebbe posto le domande che contavano. Aspira a raggiungere quel distacco che un grande poeta ha descritto con questo famoso haiku:
L’ombra del bambù spazza gli scalini di pietra
Ma la polvere resta.
La luna si riflette sul fondo dello stagno
Ma non tocca l’acqua.

Terzani non ha trovato nessuna medicina per guarire, ma il malanno l’ha spinto a rivedere le sue priorità, a riflettere, a cambiare prospettiva e cambiare vita. Cambiare vita per curarsi, cambiare vita per cambiare se stessi. I libri sacri, i maestri, i guru, le religioni servono, dice, come gli ascensori per risparmiare le scale, ma l’ultimo pezzo del cammino va fatto a piedi, da soli. Non aspettarsi risultati, senza sperare in ricompense. Terzani vive con la sensazione che l’universo è straordinario, che niente mai ci succede per caso e che la vita è una continua scoperta. Si sente fortunato perché, ora più che mai, ogni giorno è davvero un altro giro di giostra. Dopo poco tempo Terzani morì, come le sue parole lasciano presagire, probabilmente in pace con se stesso.
Questo libro oltre ad essere un testamento spirituale, è la testimonianza di una vita vissuta fino alle radici dell’esistenza, intensamente e profondamente in un continuo lavoro su se stessi. Una straordinaria vita nella sua ordinaria umanità.

L’autore: Tiziano Terzani nasce a Firenze nel 1938 e per trent’anni vive con la moglie e i due figli in Asia. Come corrispondente del settimanale tedesco Der Spiegel risiede a Singapore, Hong Hong, Pechino, Tokyio, Bangkok e Nuova Delhi, da dove collabora anche a La Repubblica, L’Espresso e Il Corriere della Sera. Nel corso della sua  vita asiatica pubblica molti libri, tutti editi dalla Longanesi e tradotti in altre lingue, sulle grandi storie di cui si trova a essere testimone: Pelle di leopardo e Giai Phong! La  liberazione di Saigon sulla guerra in Vietnam: La porta proibita, sulla Cina del dopo Mao; Buona notte, signor Lenin, sul crollo dellUnione Sovietica. Il volume In Asia raccoglie le sue migliori corrispondenze dai paesi d’Oriente. Sono del 1995 le riflessioni su dove va il mondo contenute in Un indovino mi disse; del 2002 Le lettere contro la guerra che mettono in guardia contro il pericolo dell’uso della violenza per la sopravvivenza dell’umanità. In Un altro giro di giostra, Tiziano Terzani si pone le domande finali sul senso della vita dell’uomo. Muore ad Orsigna nel luglio del 2004. Dalle conversazioni avute con il figlio negli ultimi mesi di vita è nato il libro La fine è il mio inizio, pubblicato nel 2006. Dal 1999 gli è stato dedicato il sito www.tizianoterzani.com.
Arcangela Cammalleri

 

05/02/2010

NGF
L'ultimo trapianto

di Giuseppe Magnarapa
Copertina di Stefano Marinetti
Edizioni Tabula Fati
www.edizionitabulafati.it

Narrativa racconto
Collana Malacandra

Racconto primo classificato alla quinta edizione del Premio letterario "Tabula Fati" 2007

Chi non ha mai letto Frankenstein, o il moderno Prometeo, di Mary Shelley, da cui furono tratte alcune fortunate trasposizioni cinematografiche con l'indimenticabile Boris Karloff nei panni del mostro?
L'associazione fra lo scienziato, Victor von Frankenstein, e "la creatura" è stata tale che spesso quest'ultima viene identificata con il nome del suo ideatore.
Giuseppe Magnarapa, sulla scia di questo celebre romanzo, allestisce un racconto ambientato in epoca moderna e quindi plausibile alla luce delle sue conoscenze mediche, con una geniale variante: scienziato e creatura diventano un tutt'uno.
Era difficile inventare qualche cosa di nuovo, ma la vicenda del dottor Varaldi, il più famoso chirurgo esperto in trapianti, che vuole sfuggire alla morte a causa di un cancro che gli devasta il corpo, ma non è ancora arrivato alla testa, è congegnata in modo del tutto originale ed avvincente. Non si tratta più di confezionare un "mostro" con organi recuperati esclusivamente da cadaveri, ma di innestare nel corpo, sano, di un morto per incidente l'intera testa di Varaldi, grazie al compiacente aiuto del suo allievo prediletto Wender e di altri tre medici di chiara fama. L'intervento di per sé si presenta già difficilissimo, ma c'è anche il rischio che, qualora positivamente riuscito, le terminazioni nervose del donatore e del ricevente non riescano a dialogare fra loro. Varaldi, però, ha un asso nella manica: una sostanza chiamata NGF (Nerve Groving Factor) , già sperimentata da Rita Levi Montalcini, in grado di ripristinare l'integrità delle fibre nervose.
Non vado oltre, perché il seguito è troppo piacevole e a sorpresa per togliere al lettore il gusto di sapere cosa avverrà.
Caratteristica del racconto è di partire con un fantastico quasi convenzionale, assumendo via via maggiore credibilità, anche perché l'autore è, come si suol dire, un addetto ai lavori. Infatti è medico e specialista in Neurologia e Psichiatria e trasfonde nell'opera le sue conoscenze scientifiche al punto di riuscire a convincere piano piano che la vicenda narrata potrebbe essere possibile. Fra l'altro, dopo le prime pagine interviene un positivo connubio di horror e di noir che consente di pervenire a un finale inaspettato e che penso che risulterà più che gradito al lettore.
Esposto con uno stile mai greve, anzi piuttosto agile, NGF L'ultimo trapianto è veramente un bel racconto, tanto che ne consiglio senz'altro la lettura.

Giuseppe Magnarapa è nato a Roma nel 1947: come è facile intuire, è un medico specialista in Neurologia e Psichiatria che ha lavorato in Ospedali Psichiatrici e Carceri, ed è stato Dirigente Responsabile del Centro di Salute Mentale di Guidonia (Roma) presso cui ha svolto la sua attività per circa vent'anni.
È autore di diversi saggi di argomento criminologico, ma ha anche pubblicato cinque romanzi di genere thriller, horror, fantapolitico: Complotto Finale (Solfanelli, Chieti 1991), I sogni degli altri (Silver Press, Genova 1995), La Morte non basta - Obiettivo Berlusconi (Edizioni Associate, Roma 2007), L'altro capo del filo (Runde Taarn, Varese 2008), Psicomicidio (Il Rovescio, Roma 2008). È autore, inoltre, di diversi racconti di genere analogo pubblicati su riviste ed antologie varie. Nel 1990 ha vinto il Premio Tolkien per la Letteratura Fantastica col racconto dal titolo "Liofilìa".
Renzo Montagnoli
 

30/01/2010

La banalità del bene  di Enrico Deaglio
Storia di Giorgio Perlasca
Ed. Feltrinelli
Genere: giornalismo-storico

La banalità del bene. Storia di Giorgio Perlasca (Como, 1910-1992) è costruita da un reportage giornalistico, il cui materiale è servito prima per una trasmissione televisiva: “Omaggio a Giorgio Perlasca”, andata in onda nell’aprile 1990, rivelando una vicenda rimasta ignota nel nostro paese per 40 anni,  poi come stesura di  questo libro. La storia di Giorgio Perlasca  ha ispirato nel 2002  il film TV “ Perlasca - Un eroe italiano” di forte impatto emotivo.

L’autore ha raccontato la vicenda dalla viva voce del protagonista Giorgio Perlasca, ormai ottantenne, nel 1989, il commerciante italiano che a Budapest, nell’inverno del 1944, riuscì a salvare migliaia di ebrei spacciandosi per un diplomatico spagnolo, dalle pagine del diario che aveva scritto Perlasca stesso per fissarne il ricordo e da alcuni testimoni diretti, salvati e sopravvissuti. Diventa lo scritto una testimonianza a più voci, un resoconto storico di ciò che accadde in Ungheria durante l’occupazione nazista, una riflessione sul presente pericolosamente  intriso di rigurgiti d’intolleranza, violenza e razzismo  striscianti e subdoli. Non un politico, non ricco né tanto meno famoso, un uomo come ce ne sono tanti, dice l’autore,  ma si comportò come pochi sanno comportarsi. “Non potevo sopportare la vista delle persone marchiate come animali, non potevo sopportare di vedere uccidere i bambini, credo che sia stato questo, non credo di essere stato un eroe. Io ho avuto un’occasione e l’ho usata”. Chi era Giorgio Perlasca? Un commerciante di carni, bloccato a Budapest dall’8 settembre, si era trovato nella capitale ungherese solo e senza documenti. Trovato rifugio nella sede diplomatica spagnola e avendo ricevuto dall’ambasciatore un falso passaporto, si era messo al servizio di un programma umanitario di salvataggio degli ebrei, che la Spagna conduceva insieme ad altre delegazioni di paesi neutrali e alla Croce Rossa Internazionale. Ma quando l’ambasciatore lasciò l’Ungheria, Perlasca invece di cercare di salvarsi, si  autonominò rappresentante della Spagna  e come rappresentante di una nazione neutrale protesse più di 5.000 ebrei ungheresi destinati alla deportazione nei campi di concentramento, nascondendoli in edifici posti sotto la giurisdizione spagnola, a rischio più volte della vita. (Lo sterminio organizzato degli ebrei ungheresi durò otto mesi, dal marzo 1944 al gennaio 1945, quando Hitler aveva perso la guerra, nel corso dell’avanzata dell’Armata Rossa da est e degli anglo-americani da ovest. Fu l’unico olocausto a rimanere interrotto a causa della precipitosa ritirata dell’esercito nazista e Budapest l’unica città dell’Europa centrale a non vedere completamente i suoi ebrei sterminati). Dopo la guerra,  tornato in Italia, aveva provato a raccontare la storia, ma sembrava che nessuno gli credesse, così successe che, piano piano, se ne dimenticò anche lui. A Perlasca successe quello che capitò a tante vittime; cercare di raccontare le sofferenze patite e di non essere creduti, anzi, neppure ascoltati fu comune a molti prigionieri del lager, come ebbe a ricordare Primo Levi in  I sommersi e i salvati. Lo stesso Primo Levi solo dopo tredici anni dalla fine della guerra riuscì a pubblicare Se questo è un uomo. Così come si seppe con cautela delle vittime, per tacita legge di compensazione, si tacque dei salvatori. Di Perlasca come di  colui che aiutò migliaia di ebrei durante gli anni dell’Olocausto ci si ricordò solo dopo mezzo secolo e solo in seguito alla tenace ricerca condotta da alcuni sopravvissuti, i riconoscimenti ufficiali vennero dopo anni di silenzio (a Gerusalemme è tra i Giusti delle Nazioni) e quando ormai la sua storia rischiava di cadere nell’oblio. Questa libro è un genere misto, informazione e letteratura, quando i giornalisti si fanno scrittori o viceversa quando gli scrittori, per esempio Natalia Ginzburg, scrivono su casi di cronaca, in cui i personaggi destano nel pubblico  senso morale,  passione civile ed emozioni personali. “ Perlasca ha dato la prova che esiste - perché è propria dell’animo umano - una tentazione irriducibile, indicibile, alla “ banalità del bene”. 

Una storia toccante, lontana da ogni retorica,  la scelta del bene quando era più comodo seguire il male, nella generale morte della coscienza, perché il male, nel Terzo Reich, aveva perduto la proprietà che permette ai più di riconoscerlo per quello che è; in Perlasca e in altri come lui era inculcata la volontà di perseguire e far trionfare “il  bene”.

L’autore Enrico Deaglio è nato nel 1947 a Torino dove ha studiato laureandosi in medicina. Ha abbandonato in questi ultimi anni la professione di medico per quella di giornalista, che esercita sia come collaboratore del quotidiano “La Stampa” che come autore di inchieste televisive. E’ stato direttore del quotidiano “Lotta Continua”, negli anni dell’impegno politico giovanile. Ha scritto brevi testi narrativi in una sorta di reportages immaginari: Cinque storie quasi vere (Palermo, Sellerio, 1989), Il figlio della professoressa Colomba (Palermo, Sellerio, 1992).
Arcangela Cammalleri

 

27/01/2010

Le città invisibili
di Italo Calvino
Presentazione dell'autore
Arnoldo Mondadori Editore S.p.A.
Narrativa romanzo

"Che cos'è oggi la città per noi? Penso d'aver scritto qualcosa come un ultimo poema d'amore alle città, nel momento in cui diventa sempre più difficile viverle come città."
Da una conferenza di Calvino tenuta a New York nel 1983


Il fantastico in Calvino è quanto di più ancorato alla realtà che ci possa essere. Per certi aspetti l'avveniristico nelle sue opere è un ritorno a un mondo più a misura d'uomo, un rientro nel perfetto ordine della natura da cui con il tempo ci siamo allontanati credendo di non essere sue semplici parti, ma dominatori. Del resto nel Barone rampante quella vita vissuta sugli alberi del bosco, anziché rinchiuso fra le quattro mura domestiche, è una metafora di un'evidente ritorno a una primigenia libertà che l'essere umano, nel tempo, ha sacrificato in funzione di un gretto principio di tornaconto, così come l'armatura che rinserra il Cavaliere inesistente richiama la spersonalizzazione dell'uomo che trascorre molto del suo tempo fra le lamiere di un automobile.
I primitivi all'inizio vivevano in una grotta, poi costruirono capanne, magari le une vicine alle altre per evidente difesa, ma conservando così quel principio di libertà che rende l'umano isolato quando vuole, senza togliergli la possibilità di contatto con i suoi simili. Le attuali città, fatte da condomini di molti appartamenti, finiscono invece con l'essere celle di un alveare in cui trascorrere il minor tempo possibile, forzatamente, e dentro rigide norme che, anziché regolamentare la convivenza, di fatto l'impediscono. Si conosce tutti e non si conosce nessuno; in strada c'è lo stesso scenario di una vita frenetica in cui le possibilità di contatto sono sporadiche, un saluto, per educazione, e via.
Quindi in Calvino il fantastico non è una società avveniristica e tecnologica, ma un ritorno al passato, un desiderio, forte, ma anche sussurrato, affinché l'uomo ritrovi la sua strada e la sua naturale collocazione.
Se poi vogliamo avere un esempio di scrittura del "fantastico" ai suoi massimi livelli occorre per forza di cose leggere Le città invisibili, un libro che è necessario quasi spiluccare come se i vari capitoli fossero gli acini di un grosso grappolo d'uva. Del resto l'intento dell'autore non è solo quello di darci una rappresentazione metafisica della realtà, ma anche di stimolare le nostre percezioni sensoriali affinché possiamo costruire un nostro libro sul suo libro partendo dalla base che ci viene offerta. Se il pretesto è un resoconto di Marco Polo all'imperatore Kublai Kan del regno che ha attraversato e delle città che ha visto e conosciuto, tutte identificate da nomi femminili vagamente classicheggianti, in effetti lo scopo è quello di far giungere il lettore in un'altra dimensione, in cui l'aggancio con la realtà si affievolisce per lasciare spazio allo sviluppo della fantasia secondo la volontà di ognuno.
Così è possibile leggere descrizioni di questi agglomerati urbani, completamente diversi l'uno dall'altro, perché diversi sono i loro abitanti, non coincidenti sono le loro necessità e i loro desideri.
Se già questo è molto, occorre considerare i dialoghi surreali fra Polo e l'imperatore all'inizio e alla fine di ogni descrizione, quasi una cornice del discorso che è il fulcro di tutta l'opera, vale a dire entrambi tendono ad avere una visione di questi abitati trascendentale, ben oltre l'aspetto materiale delle costruzioni, ma volto alla ricerca di un significato, che potremmo definire assoluto e divino pur in una dimensione umana, non solo delle città, ma anche dei suoi abitanti, e dell'uomo in generale.
La loro visione della città è funzionale agli uomini che ne fanno parte e al centro del tutto vi sono proprio essi, così che il grande agglomerato urbano non sia semplicemente uno stanco e depauperante dormitorio, destinato progressivamente a svuotarsi, ma uno spazio in cui, anziché relegare i suoi abitanti, li proietti verso una libertà sempre più ampia.
Il vivere comune non deve essere motivo di un isolamento individuale, perché in caso contrario la città muore e i suoi abitanti, già morti dentro, l'abbandonano. Ritorna quindi un tema caro a molti letterati, cioè quell'incomunicabilità a cui sembra destinata sempre di più l'umanità.
Il grande insegnamento di Calvino è però che è sempre possibile intraprendere o riallacciare un dialogo, lo stesso che Marco Polo e Kublai Kan intrecciano nel corso delle pagine, pur essendo due esseri del tutto isolati e prigionieri dei loro ruoli, il primo reduce da un deserto che non è solo quello che ha attraversato, ma che l'animo umano tende a costruire quando cozza contro la chiusura altrui, e il secondo, per la sua natura d'imperatore, ristretto nella gabbia d'oro della sua funzione.
Per quanto possa sembrar strano, Calvino, con la sua grandiosa fantasia, non avrebbe potuto descrivere meglio il tema della città in funzione degli uomini in contrapposizione di quella che, giorno dopo giorno, nonostante i proclami di politici ed architetti, diventa un luogo di dissociazione.
Le città invisibili finisce con l'essere, con il suo alone poetico, un atto d'amore, forse l'ultimo, per quell'agglomerato di case, di persone che vogliono vivere e non vegetare, e che noi chiamiamo genericamente città.

Italo Calvino (Santiago de Las Vegas, 15 ottobre 1923 - Siena, 19 settembre 1985).
Ha scritto numerosi testi di narrativa, fra i quali:
Il sentiero dei nidi di ragno (1947), Ultimo viene il corvo (1949), Il visconte dimezzato (1952), Fiabe italiane (1956), Il barone rampante (1957), Il cavaliere inesistente (1959), Marcovaldo ovvero Le stagioni in città (1963), La giornata di uno scrutatore (1963), Il castello dei destini incrociati (1969), Le città invisibili (1972).
Renzo Montagnoli
 

25/01/2010

Gli scorridori infernali
di Luca Rocchi
Copertina di Stefano Marinetti
Edizioni Tabula Fati
www.edizionitabulafati.it

Narrativa racconto
Collana Malacandra

Racconto secondo classificato alla quinta edizione del Premio letterario "Tabula Fati" 2007.

L'historia di Gaspare Barbarigo, raccontata dal medesimo, inviato dalla Serenissima Repubblica di Venezia per investigare sui terribili fatti di sangue che, sul finire dell'anno del Signore 1475, sconvolsero il contado bergamasco.

Sono gli ultimi anni del Medioevo e già il Rinascimento, con la riforma di Lutero, bussa alle porte del tempo. Tuttavia l'epoca storica, prima di finire, ha gli ultimi guizzi di quell'oscurantismo che in parte l'ha contrassegnata, con fatti straordinari, da inferno in terra, nei possedimenti bergamaschi della Serenissima. Morti misteriose, senza una precisa logica se non quella della violenza, si susseguono, con vittime che sembrano frutto della casualità. Più che opera di esseri umani si ha l'impressione che la ferocia dei delitti sia più ricollegabile a bestie, o meglio ancora a uomini-bestie, secondo i canoni tipici della "Caccia Selvaggia", o della "Katertempora", comunque la si voglia chiamare.
Questa serie impressionante di fatti di sangue si svolge nel feudo del vecchio Bartolomeo Colleoni, il grande condottiero, Capitano di Terra della Serenissima Repubblica Veneta, e nel suo castello di Malpaga giunge Gaspare Barbarigo, su incarico del Doge, per svolgere le indispensabili indagini.
Benché la vicenda si svolga nello spazio ristretto di un racconto, l'autore è riuscito a condensare notevolmente la narrazione, così da essere completa, esauriente e appassionante nelle sole 40 pagine del libro.
Premetto che l'aspetto "horror" dell'inizio poco a poco sfuma in un thriller la cui soluzione, peraltro logica, si ha, come si conviene, solo alla fine, in una specie di duello tacito fra il colpevole e un rappresentante della fede, più portato alla stringente razionalità che alla superstizione, propria invece di un popolino terrorizzato da eventi inspiegabili.
Per quanto ovvio non anticipo nulla, al fine di non togliere il piacere della scoperta che conclude degnamente un racconto ben scritto e dove i caratteri dei protagonisti emergono pagina dopo pagina, portando alla considerazione, tema anche di altri scrittori, che sovente le persone non sono quel che sembrano e che quindi anche la verità ha molte facce, tanto da non essere mai assoluta.
La lettura, assai piacevole, è quindi senz'altro consigliata.

Luca Rocchi è nato nel 1976 e risiede nelle vicinanze di Bergamo. Autore per diletto da qualche anno, svaria dalla poesia alla narrativa non disdegnando di scrivere fiabe e abbandonarsi a una vena fantastica.
Di recente è stato tra i finalisti, o menzionati, in alcuni premi nazionali e suoi lavori compaiono in antologie e siti letterari.
Amante del genere storico, i suoi racconti sono ambientati quasi esclusivamente nel passato; sua massima aspirazione è, infatti, cercare di far rivivere luoghi e persone avvolti dalle nebbie del tempo.
Renzo Montagnoli
 

21/01/2010

Racconti dal sottobosco
di Silva Ganzitti

Copertina di Elena Bertoni
Illustrazioni frutto della collaborazione
fra Silva Ganzitti e Carolina Savonitto (8 anni)
Edizioni Tabula Fati
www.edizionitabulafati.it

Narrativa per l'infanzia

La narrativa per l'infanzia riserva a volte delle vere e proprie sorprese, lavori adatti indubbiamente a dei bimbi, ma che riescono a soddisfare culturalmente anche gli adulti. Sono casi non frequenti in verità, ma Racconti dal sottobosco è uno di questi.
Il pretesto per la narrazione di alcuni racconti è prettamente naturalistico: una passeggiata lungo un itinerario del Friuli precollinare, chiamato Ippovia del Cormôr, che segue il corso di un torrente in un paesaggio dolce e atto a suscitare fantasie. L'osservazione dell'ambiente, fatta in modo non superficiale, fa scoprire anche un microcosmo costituito dagli animaletti del sottobosco, esseri tutti con uguale dignità di vivere, in un contesto di raro equilibrio in cui è assente ancora l'intervento destabilizzatore dell'uomo.
Nascono così le storie in cui si immaginano questi piccoli esseri simili agli umani, pur con le loro peculiari caratteristiche, e sono racconti che mirano da un lato ad avvicinare i bimbi al meraviglioso mondo della natura e dall'altro a fornire indirizzi comportamentali in cui prevale quella solidarietà che nel mondo attuale diventa sempre più rara.
Diviso in tre parti, corrispondenti ad altrettante prose, il libro è costituito soprattutto dalla prima, di una sessantina di pagine, in cui la rappresentazione di questo microcosmo cela metaforicamente quella del nostro mondo, con esseri buoni e altri malvagi, come il mago scorpione Poisonio, che per il potere uccide, ma che poi farà una brutta fine. Nulla di diverso, quindi, dagli stilemi favolistici, in cui a prevalere, come dovrebbe essere, è sempre il bene, ma la capacità dell'autrice di destare simpatia per i protagonisti con piccoli tocchi, quasi sfumati, è indubbiamente di tutto rispetto.
A ciò aggiungo che è un'opera scritta bene, in un italiano ricercato e più che corretto, circostanza non frequente al giorno d'oggi, in cui l'uso della nostra lingua è spesso caratterizzato da un lessico ridotto, non di rado anche sgrammaticato.
Racconti dal sottobosco, per i temi trattati e il modo di esporli, è in grado quindi di soddisfare anche gli adulti, caratteristica che determina però un limite nella fruibilità da parte dei minori, perché secondo me è adatto a un'infanzia già in parte scolarizzata, cioè bimbi di 9-10 anni.
Ciò non toglie che, se letto dai genitori, può risultare comprensibile anche ai più piccoli, che finiranno col porre quelle inevitabili domande che sono proprie della curiosità della loro età.
Racconti dal sottobosco è quindi un testo più che raccomandabile.

Nata nel 1962 in Friuli, Silva Ganzitti alla scrittura c'è arrivata d'un tratto. Passione tardiva, ma ugualmente coinvolgente, in pochi anni ha riempito quaderni di appunti e fiabe abbozzate, che sono poi diventate storie e racconti non solo dedicati all'infanzia.
Ha pubblicato quattro testi per l'infanzia con 0111 edizioni: Amici di Duna (2005), Mistero nel Sottobosco (2005), Domitilla voleva un Unicorno (2007) e Abdul genio in ribasso (2007). Tutti i testi sono prevalentemente commercializzati online.
Abdul genio in ribasso, è entrato nel catalogo Danae in seguito ad una bella recensione di un autore di racconti e romanzi per l'infanzia, Beppe Forti.
Racconti dal Sottobosco raccoglie tre storie legate tra loro da una cornice geografica che le ambienta nella pedemontana friulana, territorio di origine dell'autrice.
Renzo Montagnoli
 

20/01/2010

Diceria dell'untore
di Gesualdo Bufalino

Nota dell'editore
In copertina
La donna della scodella
di Felice Casorati
Sellerio editore Palermo
Collana La rosa dei venti
Narrativa romanzo

E questo era bello: andarsene così a spasso con passi d'aria per montagne e pianure, clandestini senza biglietto, contrabbandieri di vita.

Ci sono romanzi che iniziano in sordina, quasi che l'autore sia timoroso di offendere il lettore travolgendolo da subito, ma che poi pagina dopo pagina, riga dopo riga si intrufolano, ma sempre in punta di piedi, nell'animo di chi dapprima scettico sente crescere in sé un entusiasmo che non lo lascerà fino alla fine.
C'è una narrativa che, pur non cercando di indulgere alla commozione, poco a poco insinua nel cuore una vena di malinconia, mettendo a nudo e alla prova la capacità di sentire e di umanamente comprendere.
C'era un vecchio insegnante che ha voluto parlare della vita di uomini vicini alla morte e in tal modo è riuscito a far comprendere quanto, in quell'attesa, si possa ancora essere uomini.
Ecco, Diceria dell'untore di Gesualdo Bufalino è tutto questo.
Pubblicato per la prima volta nel 1981 ottenne subito un grande successo di critica e di pubblico, vincendo il Campiello lo stesso anno.
E' stato, quindi, un debutto clamoroso, sia per la qualità dell'opera che per l'età dell'autore, che all'epoca aveva sessant'anni.
Bufalino racconta l'esperienza autobiografica della degenza nel sanatorio della "Rocca" di Palermo, un percorso della memoria che dapprima lo portò ad abbozzare il testo verso il 1950, scrivendolo poi nel 1971 e dedicando i successivi dieci anni a continue revisioni.
La trama in sé, che potremmo definire "una tresca d'amore e di morte", si può ben riassumere, senza per questo togliere il piacere della lettura, in quel che al riguardo dice Bufalino:
"Si racconta la convivenza di alcuni reduci di guerra moribondi in un sanatorio della Conca d'Oro, nel '46. Fra il protagonista e una paziente dai trascorsi ambigui (Marta) nasce un amore, puerile e condannato in partenza, più di parole che d'atti, il cui sbocco è una fuga a due senza senso, e, subito dopo, la morte di lei in un alberghetto sul mare. Egli, invece, guarisce, inaspettatamente, e rientrando nella vita di tutti, vi porta un'educazione alla catastrofe di cui probabilmente non saprà servirsi, ma anche la ricchezza di un noviziato indimenticabile nel reame delle ombre."
E' una interpretazione dell'eterno connubio di eros e thanatos, in cui nulla è lasciato al caso, tanto che Marta, amante dell'io narrante, ha le stesse consonanti della morte.
Fra l'altro, in questo romanzo stupiscono lo stile e l'abbondanza del linguaggio, che a tratti presenta caratteristiche baroccheggianti, soprattutto prima di introdurre profonde riflessioni, quasi che il ricorso a parole inconsuete, anche se nel passato utilizzate da letterati, servisse a procedere con maggior lentezza, predisponendosi così a una pausa meditativa.
Resta il fatto che sovente ci si trova di fronte a ampi laghi di parole, messe in bocca anche a personaggi che per le loro caratteristiche dovrebbero avere invece un lessico più modesto, il che dapprima mi ha indotto a pensare che in tal modo Bufalino volesse dare dimostrazione della sua erudizione, ma poi riflettendo, accostando le parti dell'opera fra di loro, credo d'aver capito i motivi e cioè evidenziare la forza dirompente del verbo in un ambiente immobile quale quello di individui che si trascinano alla fine, dove i suoni normalmente dovrebbero essere solo i frequenti colpi di tosse, e che invece danno un senso di intensa vitalità - potremmo quasi pensare agli ultimi fuochi - in chi è solo in attesa.
I personaggi, che potremmo chiamare i morituri, non sono mai semplici comparse, perché ognuno ha la sua storia nella storia comune dell'imminente fine, un residuo di vita che ogni giorno si spegne e che è retta da un patto tacito di non sopravvivere gli uni agli altri.
Compagni di sventura, emblemi di un'umanità che è parte del ciclo generale della vita, un cerchio infinito di nascite e morti che Bufalino ben tratteggia nel corso della fuga dei due protagonisti principali con l'immagine dell'agave, a cui occorrono dieci anni per fiorire, ma che, subito dopo, muore, una metafora per dire che la vita necessariamente salda con la morte il debito contratto per esistere.
Del resto, nell'opera sono contenuti diversi messaggi, anche se elementi salienti sono certamente il sentimento della morte, il sanatorio visto come luogo di sicurezza, più dalla vita che dalla morte, e addirittura quasi incantato, nonché l'imprevista guarigione considerata come un tradimento nei confronti dei compagni di sventura, quasi una diserzione da un destino che si è comunemente accettato.
Diceria dell'untore è sicuramente un romanzo stupendo.

Gesualdo Bufalino (Comiso, 15 novembre 1920 - Comiso, 14 giugno 1996).
Ha scritto, fra l'altro, Diceria dell'untore (Sellerio, 1981), Argo il cieco ovvero i sogni della memoria (Sellerio, 1984), La luce e il lutto (Sellerio, 1988), Saldi d'autunno (Bompiani, 1990), Qui pro quo (Bompiani, 1991).
Renzo Montagnoli

 

15/01/2010

Finzioni   di  Jorge Luìs Borges
Ed. Einaudi
Narrativa

Quarta di copertina
“Pubblicati in Argentina nel 1944, gli otto racconti che compongono Finzioni, tradotti per la “Nuova Universale Einaudi” nel 1955, possono ormai considerarsi come classici di questo genere narrativo. Pietro Citati presentava l’opera come racconti che esprimono l’universo borghesiano dalla logica alla sofistica  di Schopenauer, tra gli eresiarchi medievali ai pensatori gnostici ed esoterici raccoglie citazioni vere ed immaginarie. Pensatore mistico ed empio uomo moderno in Borges convivono le anime del visionario immaginifico, dell’erudito lettore dove, secondo Citati, la ragione di Borges  è solo una facoltà illusionistica che, dopo aver servito a sconcertare e a stupire, si compiace infine di dissolvere, insieme a se stessa, la natura del mondo”.
Nella premessa dell’autore: “L’ottavo racconto, “Il giardino dei sentieri che si biforcano” è un poliziesco, gli altri sono fantastici, simbolici”. Borges si compiace di scrivere su libri immaginari articoli brevi a fronte di altri che hanno scritto moltissime pagine quando potevano risparmiarsi con un riassunto o un commentario.
I racconti di Borges non possono essere riassunti secondo il senso comune della narrazione, siamo su piani di livello altissimi e i contenuti sono come scatole cinesi che racchiudono tesori. In Borges la fantasia, l’immaginazione danno vita  a personaggi deprivati di note biografiche, ma con propositi impossibili o soprannaturali, progetti magici che esauriscono lo spazio della propria anima; scaturiscono paesaggi indefiniti dalle caratteristiche universali che si rispecchiano e si rinfrangono in schegge di luce. La scrittura borghesiana è poesia allo stato puro, così faconda, ricercata ed effusiva che suscita incanto e stupore in chi legge; il pensiero, l’analisi, l’invenzione sono la normale respirazione della sua intelligenza,  la sua letteratura si fa metafisica e la filosofia in lui si trasmuta in un gioco dialettico o in sofismi concatenati come frammenti di uno stesso elemento. La narrazione è  un moltiplicarsi di espressioni, un indefinito fluire della memoria che si sperde in meandri 
labirintici, regno di specchi e falsi piani, non segue percorsi orizzontali e dunque sequenze temporali ordinate: citazioni dotte, letture rare e misconosciute o inventate, teorie filosofiche, scientifiche, ci rapiscono e non sempre la bussola dell’orientamento ci aiuta. Le parole stesse hanno un intrinseco valore metaforico, le voci neologiche non ancora consacrate dall’uso sono impiegate in modo temerario e non tutti gli intendimenti di affabulazione sono comprensibili. Borges è  scrittore poliedrico e multiforme: non solo modella   una forma forbita ed estremamente limata, ma contiene nella materia narrativa, impressa, una pluralità argomentativa con tutte le permutazioni possibili. Borges informa le sue opere di una soggettività indivisibile con altri autori  e le sue storie assumono dimensioni atemporali.  

 L’autore. Jorge Luis Borges è nato il 24 agosto 1899 a Buenos Aires. Dal 1914 al ’21 segue i suoi genitori in Europa. Frequenta gli studi a Ginevra e in Spagna. Nel 1925 incontra Victoria Ocampo, la musa che sposerà quarant’anni dopo. Con lei stabilisce un’intesa intellettuale destinata a entrare nella mitologia della letteratura argentina. Borges è afflitto da una forma incurabile di miopia, la cecità progressiva, da fattore fisiologico, esplode con virulenza in un nucleo metaforico nelle sue opere. I suoi capolavori sono stati raccolti e pubblicati nel ’44 con il titolo di Ficciones. Ha scritto I racconti di Aleph, la biografia “Inventata” di Evaristo Carriego, i racconti “falsificati”: Storia universale dell’infamia, i saggi a carattere “ divagante”: Discussione, Storie dell’eternità…Le prose de L’artefice, L’elogio dell’ombra etc…Libri di poesia: L’altro, L’oro delle tigri…Le opere di saggistica: Altre inquisizioni, Nove saggi danteschi. Borges è uno degli scrittori più importanti del900 e i suoi scritti sono innumerevoli e racchiudono conoscenze enciclopediche e generi molteplici. È morto il 14 giugno 1986.
Arcangela Cammalleri
 

14/01/2010

Un onorevole siciliano
Le interpellanze parlamentari di Leonardo Sciascia

di Andrea Camilleri
Ed. Passaggi Bompiani

Saggistica

Quarta di copertina. “Secondo me, questo è il punto; l’illecito arricchimento. Questa proposta va benissimo, ma bisogna allargarla, estenderla; il controllo, cioè, deve estendersi anche a noi, che stiamo su questi banchi, a coloro che siedono sui banchi del senato, a coloro che siedono nelle assemblee regionali e nei consigli municipali, non trascurando nemmeno certi funzionari e certi ufficiali che hanno il compito di prevenire e reprimere appunto il fenomeno mafioso.”
Leonardo Sciascia, Sul fenomeno mafioso

Andrea Camilleri in questo scritto riporta e commenta Sciascia politico, le interrogazioni e le interpellanze che fece quando (il suo primo impegno politico risale al 1975 quando si candidò come indipendente nelle liste del partito del PCI alle elezioni comunali di Palermo), fu deputato alla Camera  come indipendente nelle liste dei radicali nell’arco di tempo tra il 1979 e il 1983. Fece parte della commissione per gli Affari esteri e della commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Moro. L’impegno politico dello scrittore siciliano fu diretto come deputato e indiretto attraverso degli articoli che pubblicò prima sul Corriere della Sera e poi sulla Stampa relativi all’evolversi delle BR, al terrorismo. Veemente, incisivo ed eticamente impegnato sia nella scrittura sia nella politica profuse idee, energie e grande forza espressiva. Nella realtà politica vedeva come una specie di proiezione  dei fatti immaginati nei suoi scritti, la prefigurazione  e poi il verificarsi di essi erano la comprova di quanto smarrimento e preoccupazione potesse destare una classe politica criticabile nei suoi atti; “il mio essere contro lo Stato” va visto – diceva - come una delusione e non come un’avversione”. Infatti affermava che la politica fosse un’attività mediocre per uomini mediocri. Ma a chi gli chiedesse perché facesse politica lui che mediocre non era né pensava di esserlo rispondeva che un uomo vivo ha diritto alla contraddizione, in nome della vita, della speranza. Occuparsi di politica nel  senso etico, anche se è confusione voler scambiare la politica con l’etica; sarebbe stato felice se gli italiani cadessero in tale ben salutare confusione.
Camilleri riporta fedelmente gli undici interventi di Sciascia che sicuramente risultano di suo pugno e li commenta brevemente  evidenziando i punti cardine di ciascuna.
Come deputato, Sciascia partecipò attivamente alle sedute della commissione d’inchiesta sul sequestro e l’assassinio di Moro,  redigendo una relazione di minoranza; fu attivo con interrogazioni e interpellanze (in tutto 19) su diversi argomenti: sull’uso delle armi da parte delle forze dell’ordine, sul fenomeno della mafia, sulla vicenda dei petroli e sul caso Pecorelli, sull’uccisione del magistrato Ciaccio Montalto…Ricorda Marco Boato  che  nell’aula della camera parlò pochissimo e sempre con interventi di pochi minuti, leggeva con voce lenta e roca, dopo averli preparati con una scrittura  minuta e minuziosa. Emblema dellicasticità di parole brevi e quasi scolpite sulla pietra… mentre un silenzio assoluto regnava in aula. Attraverso alcune interpellanze veniamo a conoscere le idee di Sciascia: in merito all’uso delle armi da parte delle forze dell’ordine, affermava che il dare alla polizia più poteri e ai colpevoli pene più dure non avrebbe fatto diminuire di un millesimo i fenomeni delinquenziali; non di leggi speciali, di poteri più vasti e arbitrari, la polizia aveva bisogno, ma di una buona istruzione, di un addestramento accurato, di una direzione intelligente; leggi speciali e poteri più ampi fanno demagogia e sarebbero pericolosi per noi cittadini e per la polizia stessa ( tutte cose che vennero a mancare per esempio alle forze dell’ordine durante ilG8 di Genova). Queste leggi servono “A fare tabula rasa in questo paese dell’idea stessa del diritto”. Nell’interpellanza riguardante il fenomeno della mafia faceva riferimento ad un suo racconto paradossale Filologia cioè un dialogo sull’etimologia della parola mafia; ebbene, Sciascia, dice che si è rimasti alla filologia, alla sociologia del fenomeno non perché i carabinieri, i marescialli di pubblica sicurezza non facevano  il loro dovere, ma più in alto non si era fatto quello che si doveva fare. Cita l’esempio del commissario Giuliano quando indagava sul caso De Mauro, un uomo riservatissimo,  Sciascia aveva notato nel suo comportamento una sorta di diagramma, era partito con una certa euforia, poi era subentrata la delusione. Per Sciascia il fenomeno mafioso si poteva combattere  “Riformando il sistema delle misure di prevenzione secondo criteri che introducano forme di controllo sugli illeciti arricchimenti”…( Quarta di copertina).   
Nella nota bibliografica Camilleri annota di aver attinto  il materiale del libro dalla rivista “Euros” diretta da Vittorio Nisticò (maggio-agosto 1993), dove sono raccolte le interpellanze e le interrogazioni d Leonardo Sciascia con note e commenti di Alfonso Madeo, Marco Boato, Igor Man, Fernando Savater. Inoltre   è stato fondamentale anche il volume-intervista La palma va a nord  Gammalibri, 1982.
Noi lettori possiamo ringraziare Camilleri per averci fatto conoscere Leonardo Sciascia come politico e di quanto il suo pensiero sia attuale in un’Italia di ieri e di oggi immutabile nelle sue anomalie, viziata da un immobilismo ignorato dai politici professionisti, ma additato da quella razza rara di scrittori il cui acume e la cui indignazione non li mette a tacere. E Sciascia è stato uno di quella speciale razza.   

L’autore. Andrea Camilleri è nato a Porto Empedocle nel 1925. Ha esordito come romanziere nel 1978 con “Il corso delle cose”. Della sua ricchissima produzione letteraria tutti i romanzi con protagonista il commissario Montalbano sono pubblicati dalla casa editrice Sellerio e altri, tra questi ricordiamo: “La forma dell’acqua”, “Il cane di terracotta”, “Il ladro di merendine”, “La voce del violino”, “La stagione della caccia”, “Il birraio di Preston”, “La concessione del telefono”, “La gita a Tindari”, “Maruzza Musumeci”, “Il casellante”, “Il campo del vasaio”, “L’età del dubbio”, “Un sabato, con gli amici” “Il sonaglio” “Il cielo rubato”etc… Arcangela Cammalleri
 

La strega e il robivecchi
di Fiorella Borin
Copertina di Gian Luca Peluso
Edizioni Tabula Fati
www.edizionitabulafati.it

Narrativa

Fiorella Borin, veneziana trapiantata ormai da tempo in terraferma, sembra di casa a questo concorso (il Premio Tabula Fati) alle cui edizioni partecipa con puntualità, ottenendo lusinghieri risultati, come testimonia il secondo posto nell'edizione 2008 di questo suo racconto (in verità, nel 2009 è andata ancor meglio, vincendo la settima edizione con Christe Eleison).
Narratrice esperta, dotata di uno stile snello, scorrevole, è naturalmente portata alla narrativa storica o di ambientazione storica, come dimostrano Il pittore Merdazzer, secondo nell'edizione 2006, e anche Il bosco dell'unicorno, pure secondo nel 2003.
Fiorella Borin ha la capacità di essere accattivante inserendo in contesti storici degli elementi fantastici, così che sempre riesce a dare forma a un'originalità che non può che sorprendere piacevolmente il lettore.
Anche con La strega e il robivecchi, una vicenda da epoca di Santa Inquisizione, ricrea abilmente la vita di un borgo, Triora, a suo tempo famoso per le streghe, senza che però il periodo storico sia esattamente identificabile. Eppure la grande carestia, le superstizioni, la miseria, l'amore offerto e quello bramato finiscono con il fornire un convincente quadro in cui a fianco di due personaggi che hanno tutta l'apparenza di essere reali (il robivecchi Bigiarino e il riuscitissimo notaio Basadonne), si profilano dapprima, per poi concretizzarsi in modo del tutto naturale nella vicenda, elementi che sono propri del fantastico.
E' dalla superstizione che condanna al rogo le presunte streghe che emerge, in modo sottile, la creatività dell'autrice, capace di rendere credibili fatti e soggetti che la nostra logica tende a considerare frutto di fantasia.
Del resto l'inquisizione c'era per debellare le adepte di Satana, quasi sempre vittime di calunnie, oppure povere pazze; e se il tribunale religioso credeva all'esistenza delle streghe, per quale motivo questa convinzione non avrebbe dovuto entrare nella modesta, per dire inesistente cultura del popolo?
Così la vicenda di Bigiarino, innamorato in silenzio di Isotta la Bella, finita poi sul rogo, trova quel substrato di plausibilità che riesce a convincere e ad avvincere il lettore su una domanda che alla fine per forza si pone: sono solo superstizioni?
Fresco e spumeggiante come un vino novello questo è un racconto che merita senz'altro di essere letto.

Nata a Venezia nel 1955, laureata in psicologia, Fiorella Borin si è dedicata per qualche anno all'insegnamento di scienze umane e storia negli istituti superiori. Ha collaborato con l'Università di Padova come cultrice della materia; in seguito ha maturato qualche esperienza in seno a piccole case editrici e nelle redazioni di riviste letterarie. Attualmente collabora con un settimanale femminile del più importante gruppo editoriale italiano. Da una quindicina d'anni si dedica con passione allo studio della storia di Venezia.
Oltre duecento suoi piccoli lavori di narrativa, poesia e saggistica sono presenti in antologie e riviste; il racconto La tela di Penelope è uscito sul mensile "Vera" (settembre 1995) commentato dallo scrittore Alberto Bevilacqua. Ha pubblicato il romanzo breve Le putine del Canal Gorzone (Montedit, Milano 2002), la raccolta di racconti La Signora del Tempio Nascosto (Alberto Perdisa Editore, Bologna 2003), il racconto storico-fantastico Il bosco dell'unicorno (Tabula fati, Chieti 2004), e i cinque brevi romanzi storici: Mir i dobro (Montedit, Milano 2005), La sciarpa azzurra (Era Nuova, Perugia 2005), La congiura degli Olderichi (Edizioni Cofine, Roma 2007), Lo scrivano (Montedit, Milano 2007) e Il pittore merdazzèr (Tabula fati, Chieti 2007) ambientati nella Venezia del Cinquecento.
Ha vinto una novantina di primi premi in concorsi letterari nazionali e internazionali.
Renzo Montagnoli

 

13/01/2010

Atti relativi alla morte di Raymond Roussel
di Leonardo Sciascia
Nota dell'editore
Sellerio editore Palermo
Narrativa

La prima cosa che mi sono chiesto, prima di leggere questo lavoro di Sciascia, è stata molto semplice, una domanda quasi naturale: chi era Raymond Roussel, che personaggio è stato da indurre il grande scrittore siciliano a scrivere un libro sulla sua morte, indagando come al solito per cercare una verità nascosta da molte omissioni volontarie e da colpevoli negligenze?
Ai tempi di Internet non è difficile, si digita nel motore di ricerca Raymond Roussel fra virgolette ed ecco diversi link, fra i quali ho scelto quello di Wikipedia. Non che questo sia la verità assoluta, ma ha almeno il pregio di essere sintetico e così ho letto: Raymond Roussel (Parigi, 20 gennaio 1877 - Palermo, 14 luglio 1933) è stato uno scrittore, drammaturgo e poeta francese. Nel prosieguo della pagina scopro che era di famiglia molto ricca e che aveva una sorta di passione sfrenata per l'ostentazione della sua immensa fortuna, che serviva forse da contrappeso alle notevoli delusioni provate in campo letterario. Insomma, la sua fama derivava unicamente dalla sua ricchezza e dai suoi atteggiamenti strani e dandistici, non certo dai suoi libri e dalle sue commedie che non risultavano apprezzati né dalla critica né dal pubblico.
Questo spiega anche il notevole successo che ebbe il testo di Sciascia in Francia, peraltro confortato da analoghi riscontri positivi in Italia.
Il libro prende spunto dal decesso avvenuto nella stanza 224 del Grand Hotel delle Palme a Palermo appunto di Raymond Roussel, che interessa a Sciascia per la particolare vicenda umana del francese, perché pone in modo emblematico il tema dell'identità così caro a Pirandello. In effetti, di Roussell si può dire che era un letterato talmente misterioso da apparire in una sola foto ufficiale, quasi che lui stesso rifiutasse la propria identità; da un lato si portava appresso il fardello di una grande fortuna e dall'altro il tentativo, non riuscito, di affermarsi letterariamente solo per qualità intrinseche, che tuttavia difettavano. E' un personaggio talmente oscuro nelle sue caratteristiche che anche la sua morte non ha la normale chiarezza. E' stato un incidente? Si è suicidato? O forse è stato ammazzato?
Sciascia, partendo dalle indagini giudiziarie, lacunose e frettolose, esamina tutte le varie possibilità, soppesando con un bilancino da farmacista i pro e i contro e se anche non arriva a determinare la verità sulle cause del decesso, sconfessa però, almeno così come dedotta dagli inquirenti, l'ipotesi del suicidio.
Quello che ne risulta, però, è uno straordinario saggio narrativo sulla morte, squallida, avvenuta in una camera d'albergo, mentre avvengono due festeggiamenti, per Santa Rosalia a Palermo e in tutta l'Italia per la trasvolata atlantica di Balbo. E' il 14 luglio 1933 e ulteriore stranezza è pure l'anniversario della presa della Bastiglia. Tutte celebrazioni importanti che si contrappongono alla fine di un uomo che, schiavo del suo nome e del suo denaro, aveva cercato inutilmente la fama con la sola forza del suo intelletto, ma fallendo il proprio obiettivo.
Si dice spesso che il denaro non è tutto, ed è vero, ma nel caso di Raymond Roussel non è stato nulla, fonte invece di un'insoddisfazione divenuta lancinante con l'esito infausto del suo tentativo di diventare "Raymond Roussel, lo scrittore".
Da leggere? Senz'altro, perché Sciascia non sbaglia un colpo.

Leonardo Sciascia (Racalmuto, 8 gennaio 1921 - Palermo, 20 novembre 1989). E' stato autore di saggi e romanzi, fra cui: Le parrocchie di Regalpietra (Laterza, 1956), Il giorno della civetta (Einaudi, 1961), Il consiglio d'Egitto (Einaudi, 1963), A ciascuno il suo (Einaudi, 1966), Il contesto (Einaudi, 1971), Atti relativi alla morte di Raymond Roussel (Esse Editrice, 1971), Todo modo (Einaudi, 1974), La scomparsa di Majorana (Einaudi, 1975), I pugnalatori (Einaudi, 1976), Candido, ovvero Un sogno fatto in Sicilia (Einaudi, 1977), L'affaire Moro (Sellerio, 1978), Il teatro della memoria (Einaudi, 1981), La sentenza memorabile (Sellerio, 1982), Il cavaliere e la morte (Adelphi, 1988), Una storia semplice (Adelphi, 1989).
Renzo Montagnoli
 

12/01/2010

Gocce di Sicilia di Andrea Camilleri Piccola Biblioteca Oscar Mondadori

 Breve raccolta di racconti che impressionano immagini dense e antiche di una Sicilia evocata con dolce nostalgia.

In sette scintillanti storie, il nostro autore distilla immagini di una Sicilia personale ed intima e nel contempo collettiva, di tutti.
Nel suo stile inconfondibile, nella sua parlata distintiva di un siciliano ragionato e strutturato, Camilleri pennella ritratti di persone, evoca fatti e detti che trasferisce dalla memoria sulla carta e  sa renderli unici ed irripetibili.
In Gocce di Sicilia sono raccolti gli scritti originali comparsi sull’Almanacco dell’Altana negli anni 1995-96-97-98-99-2000. Parte di Piace il vino a San Calò è stata revisionata e rielaborata dal romanzo Il corso delle cose (1978 Sellerio 1998). Il racconto Ipotesi sulla scomparsa di Antonio Patò è comparso in forma ridotta sul quotidiano La Stampa e poi ampliato, è diventato il volume La scomparsa di Patò (Mondadori 2000). Il cappello e la coppola fa parte delle Favole del tramonto (ed. Dell’Altana 2000). Ne Lo Cola, persona pulita, l’autore specifica che è un falso monologo e si usa dire a teatro quando chi parla non si rivolge a se stesso, ma ad un interlocutore che non risponde o le cui risposte non vengono riferite. A parte questo dettaglio tecnico, il contenuto è vero. 
A Roma in un pomeriggio del 1950 in una banca, Camilleri incontrò il noto boss dell’Agrigentino Nicola “Nick” Gentile. Nel colloquio avuto, Camilleri prese nota a casa, per, poi, scriverne la storia. Il giornalista Felice Chilanti riportò l’intervista avuta con il boss in un libro intitolato “Vita di gangster”. Il mafioso era ritornato clandestinamente in Italia dagli U.S.A., nell’aprile del ’43 per preparare lo sbarco degli Alleati in Sicilia. Camilleri afferma che a rileggere adesso l’incontro, appare anacronistica la figura del boss lontana da certi schemi operandi della mafia. Riguardo a convincere qualcuno a fare qualcosa che non vuol fare, dice il boss, ci vuole pazienza e persuasione senza perdere la pazienza ed arrivare all’omicidio. Perché  muore la persona, ma il mafioso perde la battaglia perché è stato incapace. “Ad ammazzare tutti sono buoni!” Logica distorta e criminale certo, ma lontana da quella di oggi in cui la morale, la deontologia a modo loro erano rispettate.
“U zz’Arfredu : la memoria di uno zio speciale, colto, ricco di interessi è ammantata da affettuosa nostalgia e dolce rievocazione; grazie a lui, l’amore per i libri divenne sacro.
“Piace il vino a San Calò”: le feste religiose legate strettamente alle tradizioni, al folclorismo, quando la statua del Santo portata in processione è oggetto di culto semi-pagano e diventa tutta la scenografia parossismo collettivo. Con una sorta di compiacimento e allegria, Camilleri ricorda queste rappresentazioni sacre come quadri oleografici in cui la voce del popolo è la vera anima di una sacralità fattasi spettacolo.
“Il primo voto”: Camilleri ricorda, divertito, la paradossale guerra scatenatasi tra i Separatisti, i Comunisti e i Democristiani per il colore di una bandiera alla vigilia delle prime elezioni regionali in Sicilia.
“L’ipotesi sulla scomparsa  di Antonio Patò”: il nostro autore fa riferimento a teorie scientifiche sull’universo fluttuante in un continuum spazio-temporale, oggetto di accanite discussioni accademiche. La scomparsa di qualcuno in un fosso del tempo, non materiale, ma all’interno di quel continuum spazio-temporale dentro il quale fluttua l’universo, spiegherebbe il fenomeno. Chi cade all’indietro di questa piega comporta una risalita verso il passato, chi in avanti comporta una risalita verso il futuro.  La scala dei Penrose sarebbe la materializzazione di un incubo; essa obbligherebbe chi si viene a trovare in cima ad una singola scala quadrata e intraprende la discesa, a scendere sempre. Così Patò impersonando Giuda, nella rappresentazione del venerdì santo de“Il Mortorio” nel momento dell’impiccagione, cadde nella botola del palco e scomparve.  
“L’incontro tra il cappello e la coppola”: ambigua e singolare metafora di un incontro tra due cose inanimate e chi li indossa in una sorta di sineddoche.
“Vicenda di un lunario”: è la storia di un mensile letterario“Lunario siciliano”, pubblicato intorno agli anni 1927/28, attento ai valori e agli apporti isolani, in un tentativo di saldare la letteratura e la cultura alla creatività popolare. Un articolo merita menzione, “Le considerazioni sui punti cardinali”, un rovesciamento dell’atlante in modo che le Alpi siano la base di un tronco che ha come cielo, il mare mediterraneo. Il Sud al posto del nord. Il lunario dopo due annate  (1927/28), ebbe una ripresa nel 1931, ma la rivista, ormai, prescindeva dalla realtà per arroccarsi nello studio delle tradizioni popolari.
“Gocce di Sicilia” si legge, tutto di un fiato; la forza dell’evocazione trova riscontro nella forza delle parole fattesi persone, pensieri. L’intensità concreta della parola scritta, in Camilleri, densa e corposa, esprime con vigore quello che racconta, la realtà prosaica nel ricordo assume dimensioni fantastiche e suggestive

L’autore. Andrea Camilleri è nato a Porto Empedocle nel 1925. Ha esordito come romanziere nel 1978 con “Il corso delle cose”. Della sua ricchissima produzione letteraria tutti i romanzi con protagonista il commissario Montalbano sono pubblicati dalla casa editrice Sellerio e altri, tra questi ricordiamo: “La forma dell’acqua”, “Il cane di terracotta”, “Il ladro di merendine”, “La voce del violino”, “La stagione della caccia”, “Il birraio di Preston”, “La concessione del telefono”, “La gita a Tindari”, “Maruzza Musumeci”, “Il casellante”, “Il campo del vasaio”, “L’età del dubbio”, “Un sabato, con gli amici” “Il sonaglio” “Il cielo rubato”etc… Arcangela Cammalleri

 

09/01/2010
 

Maria Grazia Niutta : " RASPODIE " - vita e pensieri di un gatto " indoor " - Arpabook , collana "Minicomics " , Milano , 2009 .
 
L' Autrice , pediatra in Roma ,  appassionata di fumetti dall' età di cinque anni , ha sempre coltivato il disegno anche come " reazione " ( afferma lei stessa nella prefazione ) all' incomprensione dei suoi insegnanti durante gli anni di scuola verso questo genere a torto considerato " minore " .  Le " strips " di questo agile volumetto ci offrono dei disegni dal tratto etereo , quasi impalpabile , limitati veramente all' essenziale ,  quasi che l' Autrice non abbia voluto che il lettore distogliesse lo sguardo dalla parola scritta . Il messaggio che ci viene proposto é la riflessione di un gatto d' appartamento , iperprotetto dai suoi padroni  che non si rendono conto delle sue naturali e legittime aspirazioni : la caccia ai topi , la passeggiata sui tetti , le graffiature dei mobili e delle pareti ... Va bene l' amore per gli animali - sembra dirci l' Autrice - ma i nostri amici a quattro zampe non vanno tenuti nella bambagia : dobbiamo cercare di " adattarci " al loro mondo , di " capirli " . Specialmente il gatto , apparentemente indifferente all' Uomo , ha bisogno di un dialogo con il suo padrone che non sia fatto solo di " coccole " , ma anche di attenzione verso i suoi naturali bisogni .  Definirei il libro di Maria Grazia Niutta un piccolo " manuale di Etologia " che può dare un contributo alla campagna contro l' abbandono degli animali .

 

05/01/2010

L'altra storia - Aldo G. Gargani - Ed. Il Saggiatore
RECENSIONE a cura di Carmen Lama

Perché "L'altra storia"…?
Ciò che viene narrato nel libro L'altra storia, di Aldo Giorgio Gargani, ed. Il Saggiatore, è un discorso al confine tra filosofia e psicologia; lo stile dell'autore ricorda un po' quello di un romanzo molto particolare (e, a sua volta, molto significativo, ma per aspetti molto diversi), Le ceneri di Angela, di Frank McCourt, irlandese trapiantato a New York.
Questo di Gargani è un po' più ordinato, ma mi sorprende la ripetizione quasi ossessiva di certe espressioni, il fatto che l'autore giri intorno alla stessa idea praticamente per tutto il libro. Forse così vuole confermare quello che lui stesso afferma, cioè che la nostra vita è il racconto di una frase, sempre la stessa, che continua all'infinito e che non si completa mai.
Ci sono dei pensieri profondi, che fanno riflettere su chi siamo, come ci rapportiamo tra noi, perché viviamo, come e perché non comunichiamo mentre crediamo di comunicare, ecc…
Il tutto però mi pare pervaso da un certo pessimismo, che forse per l'autore è più realismo. Egli ammette che questa è la vita: un misto di felicità e di infelicità e la felicità sta soprattutto nel riuscire a mantenere la nostra infelicità senza assumerci l'altrui infelicità e senza permettere agli altri di interferire con la nostra infelicità.
In certe espressioni mi pare di cogliere un pensiero filosofico, quasi come fosse filosofia teoretica, ma subito dopo si concretizza in esempi che vorrebbero illuminare meglio quel pensiero e alla fine ci girano intorno così tanto che sembra perdere di vista il pensiero originario ma, nel frattempo, altri pensieri si sono presentati e anche per loro c'è lo stesso procedere. In realtà, anche questo fa parte di affermazioni sul modo di procedere dei pensieri e, con l'andamento della scrittura, si confermano quelle stesse affermazioni.
Alcune cose non riesco a condividerle, anche se, a pensarci bene, potrebbero far parte, a buon titolo, della realtà così come noi riusciamo a rappresentarcela.
L'impressione più forte che mi ha fatto, il leggere questo libro, è quella continua ossessione di ripetere più e più volte le stesse cose, in modi e con esempi sempre diversi, ma che portano sempre nello stesso luogo, per dimostrare l'implausibilità di quel luogo e del soggetto che racconta, in quanto quello che racconta è in realtà una cosa diversa da quella che noi crediamo di comprendere e da quella che l'autore stesso crede di raccontare: quello che effettivamente racconta non è quello che leggiamo e che lui ha scritto, ma una seconda storia che sta fuori e oltre quello che è stato scritto e che noi leggiamo: da qui, il senso del titolo…
Insomma, un bel ginepraio, dentro il quale ci siamo dentro a capofitto, e questa è la complessità della nostra vita!
Forse sarebbe meglio non pensarci e non pensare più.
Anche questo dice infatti Gargani, ad un certo punto: egli sostiene che se il nostro pensiero serve sempre per pensare allora vuol dire che non riusciremo mai a vedere null'altro che il rumore del mondo, riflesso dal nostro pensiero; se invece dopo tanto leggere e pensare e riflettere, ci fermiamo e smettiamo di pensare, di leggere e di riflettere, allora potremmo vedere le cose in modo nuovo, forse nel modo nuovo in cui le cose stesse saranno state illuminate dalle letture, dai pensieri e dalle riflessioni.
Questa parte mi piace in modo particolare. Tutto il libro è comunque interessante, anche se sembra quasi che l'autore faccia di tutto per avvitare su se stesso il suo pensiero e, di riflesso, il pensiero del lettore.
Un paragrafo che voglio segnalare, perché molto istruttivo per la vita di tutti i giorni, riguarda "Le persone metafisiche": qui, Gargani parla degli amici del tipo delle persone metafisiche e sostiene che queste fanno di tutto per dimostrare di voler aiutare, ma in realtà quell'aiuto è tanto più volentieri dato quanto più porta al risultato di annientare l'altro, di farlo sentire umiliato dal fatto stesso e solo dal fatto stesso di dover avere bisogno di aiuto da qualcuno.
D'altra parte, a chi si può o si vuole chiedere aiuto se non a chi si dimostra amico/a?
Ed ecco che così si entra in una trappola e l'aiuto che viene concesso con così grande generosità ed espansione d'animo, in realtà maschera lo scopo di far sentire superiore colui che offre il suo aiuto, non di una spanna ma di mille e più spanne, proprio "metafisicamente!" in quanto, chi aiuta e protegge con i suoi consigli, con le sue attenzioni e preoccupazioni, lo fa perché ha il potere, i mezzi intellettuali e la forza psicologica per poterlo fare. Non così chi viene aiutato, che altrimenti non sarebbe stato spinto dal bisogno di chiedere aiuto…!
Ma da cosa dipende la metafisicità di certe persone? Sta forse nel non saper discendere dal piedistallo della cultura (libresca) per farla diventare parte di sé come persona (fisica) e per metterla a disposizione degli altri considerati come persone (a loro volta, fisiche).
Infine, in questo libro c'è anche un bel concetto della vita e della morte e della stretta relazione tra loro, che fa molto riflettere…
Ma ora… è giunto per me il momento di smettere di pensare e di riflettere, per… vedere le stesse cose di sempre in modi nuovi, se possibile.
Buona lettura a voi, se la curiosità vi avrà tentato.
Carmen Lama


Esperienza degli affanni di Nicola Vacca
Edizioni Il Foglio Letterario
www.ilfoglioletterario.it

Poesia
Collana Plaquette I Blu

Per come vanno le cose a questo mondo c'è più di un motivo che induce a riflessioni sulla nostra e l'altrui condizione e che porta a esprimere in versi o una protesta o un dissenso.
Nicola Vacca, né più né meno di chi ha autonomia di coscienza ed è portato pertanto a esaminare con spirito critico, con Esperienza degli affanni, plaquette delle Edizioni Il Foglio Letterario, volge il suo sguardo all'intorno, poi si confronta con sé, quasi attingendo allo specchio dell'anima, e in tono sommesso, ma non sussurrato, senza veemenze, ma con fermezza, esprime il suo dissenso (La vita non è facile / lo sanno i poeti. / Tutte le mattine / fanno i conti con le parole / camminano senza mappa. / Tengono tra le mani / la poesia che succede nella crudeltà / di un altro giorno di paura.).
Tuttavia, non si tratta di una raccolta di impressioni e di giudizi fini a se stessi, perché, pur essendo presente l'aspetto introspettivo, è anche poesia civile, intesa nel duplice aspetto di richiamo ai valori fondamentali e per il tono estremamente corretto che viene utilizzato. Peraltro, ben consapevole del rischio insito in questo genere, Vacca ricorre a un linguaggio per niente aulico, rifuggendo da ogni retorica, anzi esponendo e proponendo con grande calma, non disgiunta da una determinazione che incontriamo più volte: da È condannato alla notte più buia solo chi non sa raccontare il male a Si dissangua la vita perché uccidiamo sempre le cose che amiamo.
C'è anche una dominante in questa raccolta ed è data dal ricorso ai termini "buio", "oscurità", che con ogni probabilità nelle intenzioni dell'autore servono ad esprimere il senso di sgomento che si prova nel guardare il mondo con spirito critico. Ma è un buio che per me va oltre il significato di assenza di luce e in pratica rappresenta quel senso di vuoto che prende anima e corpo nell'impotenza di ogni giorno, nella certezza che ogni denuncia non sortirà l'effetto auspicato (Il vuoto afferra la realtà / la distruzione non molla la presa / con le lacrime si resta appesi a un perché.).
Eppure il poeta continua a segnalare, a indicare gli errori, mostra una realtà di cui molti non si accorgono e in questo la sua funzione è esemplarmente civile. Forse non verrà ascoltato, probabilmente verrà anche deriso proprio da quelli che lui vuole mettere sull'avviso, un destino ingrato, che però non lo scoraggia, consapevole di avere occhi anche per chi ne è privo.
Ne consiglio senz'altro la lettura.

Nicola Vacca è nato a Gioia del Colle, nel 1963, laureato in giurisprudenza vive a Roma . È scrittore, opinionista, critico letterario, collabora alle pagine culturali di quotidiani e riviste.
Svolge, inoltre, un'intensa attività di operatore culturale, organizzando presentazioni ed eventi legati al mondo della poesia contemporanea. È il curatore del blog Nel verso giusto ( http://nicolavacca.splinder.com ). Ha pubblicato: Nel bene e nel male (Schena,1994), Frutto della passione (Manni, 2000), La grazia di un pensiero (prefazione di Paolo Ruffilli, Pellicani, 2002), Serena musica segreta (Manni, 2003), Civiltà delle anime (Book editore, 2004), Incursioni nell'apparenza (prefazione di Sergio Zavoli, Manni,2006), Ti ho dato tutte le stagioni (prefazione di Antonio Debenedetti, Manni,2007) Frecce e pugnali (prefazione di Giordano Bruno Guerri, Edizioni Il Foglio, 2008).
Renzo Montagnoli
 

04/01/2010

Il teatro della memoria
La sentenza memorabile
di Leonardo Sciascia
Edizioni Adelphi

Collana Piccola Biblioteca

Le identità usurpate, uomini che si sostituiscono ad altri, prendendone in pratica il nome e il ruolo, abbandonando quella che era la personalità innata, è questo il tema di questi due saggi storici che Leonardo Sciascia ha affrontato con la sottile capacità di analisi che gli è propria.
Non so quanti siano a conoscenza dell'incredibile vicenda Bruneri o Canella che appassionò, meglio ancora infiammò l'Italia sul finire degli anni venti del XX Secolo. Non sto a raccontarla perché sarebbe inutile per chi non la ignora e costituirebbe invece un'indebita ingerenza nella curiosità dei futuri lettori che, cono certo, saranno avvinti da una trama che sembra quasi inventata.
Ma da un fatto certo, oggetto di numerosi dibattiti giudiziari, che cosa avrebbe potuto dire di nuovo Leonardo Sciascia?
Ecco che qui si mostra, nel pieno del suo vigore, quella capacità di andare a fondo nei fatti, di porsi domande, di cercare risposte, più che per arrivare a una verità - che una volta tanto non è di comodo, ma corrisponde alla realtà - per pervenire a una spiegazione del perché dilemmi di così facile soluzione finirono invece per dare luogo a vere e proprie battaglie contro ogni logica.
C'è così chi riconosce il Bruneri nel prof. Canella senza la benché minima razionalità, per non parlare della moglie, che più di altri dovrebbe essere in grado di smascherare l'usurpatore e invece se lo tiene stretto solo perché vuole credere che quell'individuo sia il marito disperso in guerra.
Eppure la soluzione è facilissima, perché basta confrontare le impronte digitali e allora senza ombra di dubbio quello che si fa passare per Canella è il tipografo e pregiudicato Bruneri.
Ma anche quando viene portata dall'accusa la prova dattiloscopica e la sentenza smentisce "i canelliani" non è finita, perché ormai turbina nel paese una tifoseria quasi calcistica fra i fautori dell'usurpatore e invece quelli che non gli credono.
E' una pantomima che dissacra perfino le aule giudiziarie e questo con il tacito assenso del regime fascista, che approfitta del clamore dell'evento per imporre in sordina la sua dittatura. Quindi matura ed evolve un'altra usurpazione, ben più pericolosa, poiché le basi democratiche piano piano vengono sostituite da un unico partito che continua a professarsi liberale, ma che da lì a poco potrà in tutta tranquillità inneggiare alla dittatura del fascio.
Se con Il teatro della memoria Sciascia ha analizzato la vicenda Bruneri e Canella, con La sentenza memorabile si occupa di un caso analogo avvenuto molto prima in Francia nella seconda metà del XVI secolo: l'affaire Martin Guerre.
Analogo non vuol dire uguale e anche se la comunanza è per l'usurpazione di un'identità la vicenda, pur presentando alcuni aspetti simili, è completamente diversa.
Certo, si tratta di un'altra epoca, forse altrettanto se non maggiormente oscura, però resta il fatto che l'usurpatore, che finirà condannato a morte, desta una naturale simpatia, in quanto assume sì l'identità di un altro, ma non cela la propria naturale personalità e anche perché il reato non è commesso per lucro, bensì per amore, un amore così forte al punto che, nonostante la donna che ha voluto riconoscerlo come legittimo marito poi lo disconosca in corso d'udienza nel timore di fare una brutta fine, lui si precipita a salvarla, confessando e così determinando la sua infausta sorte.
Nel lavoro Sciascia si avvale delle memorie del caso lasciateci da Montaigne, altra mente raffinata che non prendeva mai nulla per certo e al riguardo l'autore siciliano accompagna questi due saggi da alcune note che finiscono con l'introdurre all'appendice finale, una riflessione di grande valore dello stesso Montaigne intitolata "Degli zoppi", assolutamente da non perdere e che conclude il tutto nel migliore dei modi.
La lettura è senza dubbio caldamente raccomandata.

Leonardo Sciascia (Racalmuto, 8 gennaio 1921 - Palermo, 20 novembre 1989). E' stato autore di saggi e romanzi, fra cui: Il giorno della civetta (Einaudi, 1961), A ciascuno il suo (Einaudi, 1966), Il contesto (Einaudi, 1971), Todo modo (Einaudi, 1974), La scomparsa di Majorana (Einaudi, 1975), I pugnalatori (Einaudi, 1976), Candido, ovvero Un sogno fatto in Sicilia (Einaudi, 1977), L'affaire Moro (Sellerio, 1978), Il cavaliere e la morte (Adelphi, 1988), Una storia semplice (Adelphi, 1989).
Renzo Montagnoli
 


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