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La guerra civile
(De bello civili)
di Gaio Giulio Cesare

Introduzione di Giovanni Cipriani
e Grazia Maria Masselli
Testo latino a fronte
Traduzione di Lorenzo Montanari
Con un saggio di Federica Introna
Barbera Editore
www.barberaeditore.it
Collana Classici Greci e latini
Diretta da Anna Giordano Rampioni

La guerra civile è la seconda opera letteraria scritta da Giulio Cesare. In tre libri spiega e racconta, ovviamente dal suo punto di vista - sulla cui imparzialità sorgono diversi dubbi, essendo uno dei contendenti - la guerra civile che imperversò nel 49 a.C., cercando di giustificare anche il suo rifiuto di obbedire agli ordini del Senato.
Già con La guerra gallica aveva celebrato le sue vittorie in quella sanguinosa campagna militare, con intento soprattutto apologetico, stante il contrasto che si era instaurato con il Senato della repubblica, che non approvava né la condotta, né l'estensione del conflitto.
In La guerra civile il grande condottiero dà ampio spazio alle vicende militari, dal famoso passaggio del Rubicone, alle battaglie condotte in Spagna, e alla definitiva vittoria a Farsalo, dopo la quale Pompeo fu costretto a fuggire, rifugiandosi da Tolomeo, il re dell'Egitto, dal quale fu fatto uccidere.
Se le descrizione degli scontri, delle tattiche e delle strategie occupano gran parte della narrazione e, grazie alla fluidità di esposizione riescono ad avvincere il lettore, è riscontrabile tuttavia il continuo tentativo di Cesare di presentarsi come uomo costretto alla lotta unicamente per i torti subiti. Così ricorrono frequentemente le proposte di pace, rimaste inascoltate da Pompeo, di cui pure l'autore evidenzia la capacità politica e militare, ma solo con l'intento di dimostrare i torti dell'avversario contrapposti alle virtù e alle grandi capacità di comandante dello stesso Cesare.
Viene il sospetto che l'origine di questo libro sia proprio quella di convincere i contemporanei della validità della sua condotta, un modo per ribadire che a lui non interessava tanto il potere, ma la grandezza di Roma e il rispetto delle prerogative e dei diritti propri di quella repubblica.
Sembra quasi che abbia voluto applicare la strategia che la miglior difesa è l'attacco, mettendo a disposizione dei romani
un memoriale che sancisse l'estrema correttezza del suo operato, fornendo quindi le risposte prima ancora che gli venissero effettuate le domande.
La vicenda, nella realtà, fini con il concludersi con un Cesare non "augusto", ma dittatore, che esercitò di fatto un potere assoluto, e ciò dal 49 al 44 a.C., fino a quelle famose Idi di Marzo quando in Senato venne ucciso da una congiura.
Resta una figura di uomo singolare, grande letterato, il miglior genio militare della storia romana e anche politico di elevatissimo livello.
Troppe doti eccelse in un solo uomo perché potesse governare in un triumvirato ed è per questo che si arrivò alla guerra civile. Ma non era già più tempo di Repubblica, gli ideali romani di governo si erano sfilacciati e il Senato di fatto chiedeva di non essere più la fonte primigenia del potere, ma quella secondaria, e Cesare recepì in pieno la situazione, gettando le basi per il successivo periodo imperiale.
La guerra civile è un libro assolutamente da leggere.

Gaio Giulio Cesare ( 100 - 44 a.C.), grande condottiero romano, nonché uomo politico illustre.
I suoi libri (La guerra gallica e La guerra civile) sono scritti storiografici, considerati unanimemente dalla critica fra i più originali dell'antichità.
Attraverso gli stessi realizzò un'apologia di se stesso e delle proprie scelte politiche e militari, fornendo ai posteri l'immagine di un condottiero coraggioso, fine stratega e fondamentalmente fedele ai valori repubblicani.
Renzo Montagnoli


Quattro stracci, una rupia e una bambola di cartapesta
di Felice Muolo
Introduzione di Antonella Calzolari
Fermenti Editrice
www.fermenti-editrice.it
Letteratura per l'infanzia
Collana Garrula

La letteratura per l'infanzia vanta una tradizione che si perde quasi nella notte dei tempi, dalle favole di Esopo alle fiabe di Perrault e dei fratelli Grimm. Non pochi autori si sono cimentati in questo non facile genere e non è raro il caso che si sia trattato di scrittori la cui normale produzione era dedicata maggiormente a tematiche care agli adulti, come per esempio Wilde e Molnar.
Questa premessa è necessaria perché Felice Muolo normalmente si occupa d'altro, se non vado errato di noir, ma ciò non toglie che abbia voluto cimentarsi con un racconto lungo nel delicato genere della letteratura per l'infanzia. Il passaggio dalla narrativa per adulti a quella per bimbi e ragazzi non consiste solo nel cambiamento del tema, ma comporta anche una radicale modifica dello stile espressivo in modo che l'opera possa risultare leggibile e comprensibile da menti che hanno ancora un'istruzione incompleta e difettano di esperienza. Devo dire che Muolo è riuscito perfettamente in questo compito, dando luogo a un lavoro intellegibile ai minori, ma anche appetibile per gli adulti. Come è nella logica delle cose, dalla lettura i bimbi trarranno una loro interpretazione, più semplicistica, ma comunque non nebulosa, mentre i grandi troveranno motivi di riflessione per la fine analisi psicologica di una condizione particolare, derivante dall'adozione.
In pratica si racconta di Pragasi, bambina indiana adottata da genitori italiani e al riguardo credo di poter dire con quasi certezza che Felice Muolo è il padre non biologico, considerando la dedica iniziale: A Rupa, il tizzone di papà.
E' la stessa Pragasi che narra, ricorrendo a una sorta di diario infantile diviso in tre parti, di cui la prima è propedeutica, con l'arrivo in Italia e la conoscenza dei nuovi genitori. La seconda è quella che, specialmente per noi adulti, riveste più interesse, con un sogno della bimba, che ormai da tempo nel nostro paese si interroga sulle sue origini, nel dilemma se restare o ritornare da dove è venuta. E' un comportamento del tutto naturale in chi sa di non essere stato generato da quelli che in quel momento figurano come genitori e l'abilità di Muolo è di aver posto il problema ricorrendo a un linguaggio semplice e pregno di fantasia, caratteristiche tipiche di un infante. La capacità di costruzione mentale di un bimbo deve trovare per forza supporto nell'immaginazione e in questo sogno presente e passato si mescolano, così che laddove prevale l'uno, subito dopo l'altro si prende la rivincita. Potremmo dire che è un calcolo razionale dei pro e dei contro della nuova condizione, ma soprattutto, e qui entra in gioco la terza parte, è la base per una decisione sul significato da dare alla propria vita. Pragasi resterà, sognando un futuro con i nuovi genitori, ma senza recidere i legami con il passato, e così i quattro stracci, cioè i vestiti, la rupia e la bambola di cartapesta con cui era arrivata dall'India non verranno gettati, ma conservati gelosamente.
L'insegnamento di Pragasi è importantissimo e vale non solo nel caso specifico o per le adozioni: per vivere bene il presente e pensare al futuro non possiamo, né dobbiamo ignorare il nostro passato.
La lettura è senz'altro raccomandata.

Felice Muolo è nato e vive a Monopoli (BA). Da ragazzo ha viaggiato per l'Europa con l'autostop e lavorato nei campi di lavoro del Servizio Civile Internazionale. Divenuto direttore d'albergo e giornalista pubblicista, ha abbandonato entrambe le attività per dedicarsi completamente a scrivere romanzi. Ne ha pubblicati sei: Magda, Angelo, Complanare putta, Cristo non si corica, Il ruolo dei gatti e il presente.
Renzo Montagnoli


Il cielo è rosso di Giuseppe Berto BUR Biblioteca Univ. Rizzoli
Narrativa romanzo

Il cielo è rosso è un romanzo che penetra nel cuore con un'iniziale stilettata, ma poi la lama affonda, progressivamente, pagina dopo pagina, fino a quando, arrivati all'ultima, ci si accorge che l'intimo dolore e la commozione che prorompono in modo incontenibile danno un senso a tutta l'opera, facendo conoscere al lettore il vero significato della parola pietà.
Se Niente di nuovo sul fronte occidentale è il più bel libro contro la guerra, questa opera prima di Berto non è certo inferiore, quasi una parabola dell'uomo impotente di fronte a eventi troppo grandi per lui.
E' un romanzo corale, imperniato su quattro orfani sopravvissuti a un terribile bombardamento della loro città nel corso del secondo conflitto mondiale. Sono niente più che dei ragazzini che all'improvviso devono maturare in fretta per poter sopravvivere in un mondo sconvolto dalle rovine, dall'abbrutimento, dalla fame, dal vuoto che le bombe hanno creato dentro di loro.
Tre provengono da un quartiere degradato, popolato da gente povera, o addirittura misera, e perciò sono avvezzi da tempo ad arrangiarsi, a combattere quotidianamente per non soccombere, ricorrendo anche a mezzi non leciti o comunque riprovevoli. L'altro è fuggito dal collegio di preti dove i suoi genitori, benestanti, lo hanno mandato per studiare e per stare lontano dai rischi dei bombardamenti.
La differenza di classe diventa quindi un altro spunto di Berto
per un'analisi approfondita della stessa, con la trovata, geniale, di praticare un percorso di progressivo avvicinamento. Così l'ingenuo Daniele, posto di fronte alla nuova realtà, cercherà di adeguarsi ai suoi tre amici, i quali, con altrettanta difficoltà, proveranno ad andargli incontro.
E' una storia di miseria e di sentimenti, di illusioni e delusioni, in cui il singolo rifulge in quanto parte del gruppo.
Ma è anche una vicenda di sconfitti, di ragazzi che non conosceranno la gioventù gaia e spensierata, troppo occupati a lottare per vivere. Una sola resterà, Carla, la più pragmatica, la non idealista, disposta a fare la prostituta per tirare avanti; eppure anche lei conoscerà la sconfitta, perdendo prima Tullio e poi Daniele, i due ragazzi di cui subisce l'ascendente.
In questo quadro crepuscolare, in cui notevole è l'abilità di Berto di descrivere l'abbrutimento degli uomini a seguito della guerra, non si può tacere un personaggio, Giulia, innamorata di Daniele, troppo tardi ricambiata, un'esile figura di dolcezza quasi materna che soccomberà alla tubercolosi (al riguardo il suo funerale notturno, con la sepoltura fra le rovine, è una delle pagine più struggenti che abbia mai letto).
Non intendo svelare il finale, com'è giusto per rispetto di chi vorrà leggere questo libro, anche se potrà essere intuito da queste righe tratte appunto dal romanzo.
"Compiva ogni gesto rigidamente e con lentezza, spaventato di perdere quel senso di calma che aveva dentro per la gran cosa che gli restava da fare. Ecco che sentiva un gran freddo, perché si era fatto nudo per l'amore degli uomini. Come Gesù e anche altri santi, adesso non ricordava bene chi."
Il cielo è rosso è la storia di vite vissute solo pochi mesi; Il cielo è rosso è un romanzo stupendo.

Giuseppe Berto è nato a Mogliano Veneto (Treviso) nel 1914. Ha partecipato alla seconda guerra mondiale sul fronte africano ed è poi stato prigioniero di guerra in un campo statunitense maturando un distacco dal fascismo. Vissuto tra Roma e Capo Vaticano (Calabria). E' morto nel 1978 a Roma. Ha pubblicato libri di narrativa in parte ascrivibili al filone neorealista: Il cielo è rosso (1947) pubblicato da Leo Longanesi e vincitore nel 1948 del premio Firenze per la Letteratura, Le opere di Dio (1948), Il brigante (1951). Altre opere sono in parte volti a una inquieta indagine psicologica: Il male oscuro (1964) il suo romanzo più noto e vincitore in una sola settimana del premio Viareggio e del premio Campiello - "eccezionalmente, e senza che nessuno lo volesse", come ebbe a scrivere qualche anno dopo -, La cosa buffa (1966). All'apologo "fantascientifico" si è dedicato con La fantarca (1965) edito da Rizzoli con 11 tavole a china di Herbert H. Pagani. Il racconto è quello di chi postula, provocatoriamente, la risoluzione dei problemi meridionali (sottosviluppo ecc.) tramite l'eliminazione del problema alla radice: inviando tutti i meridionali tramite un'astronave via dalla Terra. Racconto tra il satirico e l'umoristico, alla cui base è un sentimento offeso e acre. Diario-testimonianza sulla guerra d'Africa è Guerra in camicia nera (1955). Pamphlet provocatoriamente "conservatore" è la Modesta proposta per prevenire (1971). Una rilettura della figura del Giuda evangelico è ne La gloria, tra le sue cose migliori accanto a "Il male oscuro". Immagine di copertina di "Oh, Serafina!" edito da Rusconi nel 1973. Interessante anche la "fiaba di ecologia, di manicomio e d'amore" (come è nel sottotitolo) intitolata Oh, Serafina! (1973) pubblicato presso Rusconi. Mentre la società letteraria italiana cercava in qualche modo di reagire alle diverse sollecitazioni di quello che accadeva - a livello sociale e politico, l'età dei movimenti collettivi e delle contestazioni - Berto sornione dice la sua imbastendo una sua "fiaba" che è anche controcanto a tutti i cantori delle utopie industrialiste o terzomondiste dell'epoca. Protagonista è un giovane industriale incapace di accettare il mondo del "miracolo economico": Augusto Secondo, il suo nome, è un disadattato che trova nella compagnia degli uccelli gli unici compagni degni a questo mondo; nell'epoca dell'industria e della cementificazione, non trova nessuno che lo comprenda, finisce in manicomio e qui incontra la donna (Serafina, appunto) nelle vesti di una freak mistico-induista anche lei alla ricerca della sua nicchia dal mondo. La troveranno, perché questa è una favola, in cui anche la morte quando è presente - il suicidio del padre Giuseppe, la morte della madre ecc. - non dà "problema", è solo un elemento del percorso fiabesco. Una favola grondante elementi di attualità, profondamente evasiva: attraverso l'apologo fiabesco il "disimpegnato" Berto vuol dire la sua morale, in controtendenza e controcorrente rispetto ai modi e alle formule (spesso astratte) del dibattito contemporaneo, ma anche divertendosi e divertendo. Le cose migliori di Berto sono quelle in cui si inserisce nel filone psicologico-esistenzialista. Ci si riferisce soprattutto a "Il male oscuro", contraddistinto da una prosa fluida, che mostra di aver digerito e metabolizzato la lezione joyceiana del "flusso di coscienza", senza più esibirne le caratteristiche di "avanguardia" ma usandone in maniera precisa e opportuna. E a "La gloria", in cui la vicenda umana si pone a confronto e in contatto con la vicenda divina, con i grandi problemi collettivi e esistenziali, ma sempre dalla parte dell'umano.
Tratto da Zam.  
Renzo Montagnoli


L’orda
Quando gli Albanesi eravamo noi
di Gian Antonio Stella
Ed. Rizzoli
Saggistica

Quarta di copertina: “Volevamo braccia, sono arrivati uomini.” Max Frisch

Durante le grandi ondate migratorie dall’Ottocento in poi, tanti Italiani, moltissimi, emigrarono in America, in Australia e in Europa (Francia, Svizzera, Germania, Belgio…) e divennero immigrati, stranieri mal sopportati e, quasi fino a tempi recenti (anni ’70) disprezzati. Il giornalista Stella ripercorre attraverso documentazioni e reperti delle varie epoche l’emigrazione di tanti nostri compatrioti, come erano percepiti e trattati dai Paesi “ospitanti”.
“La feccia del pianeta”, questo eravamo, o meglio, così eravamo visti. Bel paese, brutta gente. La differenza tra gli emigrati di oggi in Italia e noi all’estero è solo temporale, noi abbiamo vissuto l’esperienza prima, loro dopo, ma gli stessi pregiudizi, gli stessi stereotipi ci accostano per ostilità e diffidenze simili. Oggi si sputa su quelli come noi eravamo o siamo stati. Nell’introduzione del libro è racchiuso il senso del titolo e di tutto il contenuto del medesimo. Negli States del Sud eravamo catalogati non visibilmente negri, sporchi e verrebbe da scrivere brutti e cattivi parafrasando il titolo di un arcinoto film. Essere accusati di qualsiasi misfatto raccapricciante, di qualsiasi losco malaffare, essere qualificati come mafiosi, facili alle risse a all’uso del coltello erano inevitabili accuse. Quanti Italiani furono percossi, ingiuriati, arrestati e uccisi solo perché crumiri o perché eravamo tutti siciliani. Era l’orda, solo paragonabile agli Unni, quella che sbarcava negli U.S.A. “La discarica senza legge”: l’invasione giornaliera dei nuovi immigrati direttamente dai bassifondi d’Europa, così eravamo raffigurati in una illustrazione del Judge, 6 giugno 1903, tanti sorci bollati come anarchici, mafiosi…mentre campeggia la scritta: Occhio zio Sam: sbarcano i sorci!
Non avevano nome i nostri bisnonni, nonni, ma solo appellativi, nomignoli sprezzanti ed insultanti. Per i paesi anglosassoni eravamo i Dagger, da coltello, popolo dello stiletto, facile da usare allo stesso modo per mangiare e per uccidere. Per gli Australiani i Ding, il cane selvatico. Per gli Argentini tutti Napoletani, per i Francesi, Français de Coni (Cuneo). In dialetto svizzero-tedesco Cinquaioli, dal grido cinq, nel gioco della morra. Una sfilza di definizioni senza fine: Uàp ( Guappi),
Cristos ( bestemmiatori), Chianti (ubriaconi), Greaseball, non tanto per la brillantina in testa quanto per le teste unte e grasse. Sul Croniche di San Francisco 1904: al di sotto del 45° parallelo sono tutti malfattori. Difficili da inserire come gli Slavi e gli Unni. Straccioni maleodoranti. I peggiori rifiuti d’Europa, popolo dai bassi istinti. In tempi più recenti la situazione migliora, ma l’equazione Italiani=Mafia permane. Immigrati clandestini, quanti nel secondo dopoguerra oltrepassando il Gran San Bernardo per andare in Francia furono gettati da qualche dirupo…ricorda gli scafisti che gettano in mare i poveri emigranti dopo aver sborsato tanti quattrini. Furono trentamila i bambini nascosti perché clandestini, in Svizzera. “Come Anna Frank”, il caso di una bambina nascosta per 4 anni in casa senza uscire mai.
Stella afferma che piace ricordare solo i nostri compatrioti emigrati che hanno fatto fortuna e hanno dato lustro, ma tutti quelli che non ce l’hanno fatta e sopravvivono oggi tra mille difficoltà nelle periferie, si fa fatica a ricordarli. Le stime parlano di milioni di padri, fratelli di cui non si ha traccia, testimonianza di una storica sconfitta soprattutto nell’Italia della retorica risorgimentale, savoiarda e fascista. Non c’è stereotipo di oggi che non sia stato rinfacciato, un secolo o solo pochi anni fa, a noi. “Loro” sono clandestini? Lo siamo stati anche noi. “Loro” si accalcano in osceni tuguri in condizioni igieniche rivoltanti? L’abbiamo fatto anche noi ( un prete irlandese teorizzava che gli Italiani riescono a stare in uno spazio minore di qualsiasi altro popolo, se si eccettuano, forse, i Cinesi. “Loro” vendono le donne? Le abbiamo vendute anche noi. Rubano il lavoro ai nostri disoccupati? Anche noi accusati di questo. Importano criminalità? Noi ne abbiamo esportata dappertutto. Fanno troppi figli rispetto alla media italiana? Noi spaventavamo allo stesso modo. Perfino l’accusa più nuova, dopo l’11 settembre, che tra gli immigrati ci sono tanti terroristi, è per noi vecchissima: a seminare il terrore, per un paio di decenni, furono i nostri anarchici. In questa doppia versione dei fatti può essere riassunta la storia dell’emigrazione italiana.
Detto questo, alla larga dall’apertura totale delle frontiere, dall’esaltazione del melting pot, ma alla larga più ancora dal razzismo, dalla xenofobia, in una società che ha rimosso una parte del suo passato. La lettura del libro è interessante e fa riflettere: tanti di noi puntano l’indice sugli immigrati perché ricordano una parte di noi che vogliamo dimenticare. Ma la Storia non si cancella.

L’autore. Gian Antonio Stella, giornalista del “Corriere della sera”, ha scritto diversi libri, tra i quali i bestseller Schei, Dio Po, Lo spreco, Chic e Tribù.
Arcangela Cammalleri


Visi
di Giovanni Buzi e Marcella Testa
a cura di Lodovico Gierut
Edizioni Comitato Archivio
Artistico documentario Gierut
www.gierut.it
Collana Il volto e la maschera

Opuscolo, catalogo, libro? Non trova una collocazione esatta questo piccolo volume dove sono presenti opere pittoriche di Giovanni Buzi e una specie di dialogo poetico intessuto fra Marcella Testa e Buzi stesso.
Se le prime pagine sono rivolte alla riproduzione di volti enigmatici, frutto di un lavoro completato nel corrente anno dall'artista viterbese, opere su cartoncino in originale esposte con altre di analoga tematica nella mostra "Visi 1979-2009" ospitata nel Centre de documentation de l'Etui a Bruxelles ( dal 7 dicembre all'8 gennaio, tranne la chiusura per le festività di fine anno dal 18 dicembre al 3 gennaio), le altre sono occupate da versi in cui entrambi i poeti avviano una schermaglia di genere poetico.

Buzi:
….
La mia unica tortura è
L'attendere invischiato nella tela,
l'arrivo del ragno.
So che è in agguato,
fra le fronde fresche della sera.
E, a questo pensiero
Come colore che si spegne,
tremo.

Testa

Il ragno può salvarti
Cucendo tutti i pezzi
Come Iside
Oppure può disfare
E tessere l'inganno
Di Penelope.
Moglie, madre o amante:
che sia la tua bocca
a battezzarmi.

Tuttavia, a un esame più approfondito, non si tratta di un'ispirazione venuta dalla lettura dell'Aminta di Torquato Tasso, e del resto il dialogo poetico, se pur non frequente, in passato era una forma abbastanza ricorrente.
No, in questa sorta di poemetto, più che una conversazione ricca di sottintesi, di allusioni, di parole dette e non dette, sembra che emerga invece una sorta di riflessione stimolata dai reciproci spunti, esposta con molto garbo e peraltro con una vena di lirismo che più la fa assomigliare al duetto di un'opera settecentesca.
Poiché non ho capacità artistiche tali da poter esprimere un'opinione compiuta sui quadretti, opere tuttavia moderne, benché non astratte, il soffermarmi sui versi mi è quasi d'obbligo.
Verrebbe voglia di leggerli con l'accompagnamento in sottofondo di un clavicembalo, in un salotto patrizio in cui un gentiluomo imparruccato e una damina ingioiellata duellano, senza mai toccarsi, davanti a una piccola platea in rigoroso perfetto silenzio.
Un esercizio di stile, un remaque di un tempo passato accompagna così la modernità di quei visi dipinti, una cornice dorata in cui racchiuderli e rinchiudere quei versi.

Giovanni Buzi
1961 - nato a Vignanello (Provincia di Viterbo).
1980 - trasferimento a Roma.
1984 - diplomato all'Accademia di Belle Arti di Roma.
1985 - lunghi soggiorni a Parigi.
1986 - prima esposizione personale "La Memoria" al Centro Culturale "Saint-Louis de France" a Roma. Presentazione di Paolo Raffaeli nel dépliant.
- ritorno a Parigi dove fa la conoscenza di Gilles Vallée, domenicano che organizza dal 1952 la Galleria "Haut-Pavé".
- primo soggiorno a Mézels, villaggio ai bordi della Dordogna nel quale, sotto la direzione di G. Vallée, si trovano gli atelier di serigrafia e incisione della Galleria. Una decina d'artisti provenienti dal mondo intero si ritrovano per lavorare, discutere, vagabondare. In occasione dell'esposizione collettiva di dicembre, espone l'unica serigrafia (30 esemplari) e le due incisioni (3 esemplari ciascuna) realizzate fino ad oggi, oltre a qualche disegno e acquerello.
- Bruxelles. Quadri del "periodo grigio", olio su legno.
1987 - illustrazione collettiva d'un libro di poesia "Motus", pubblicato da "Edizioni Lavoro", Roma.
- esposizione alla Libreria "EL" a Roma: "Pietre nel verde sacro". Presentazione di Paolo Raffaeli nel dépliant.
1988 - esposizione-asta collettive al Palazzo di San Michele a Ripa a Roma (tra gli altri : Matta, Fioroni, Ziveri, Turcato, Pomodoro, Attardi, Baruchello).
- esposizione "12 meno 35" organizzata dal Comune di Roma al Foro Boario. Sei critici d'arte presentano ciascuno due artisti. Testo di Gianfranco Proietti nel catalogo.
- secondo soggiorno a Mézels, con gli artisti della Galleria "Haut-Pavé" di Parigi.
1989 - esposizione collettiva "Dopo il Boario" a Spoleto per il Festival dei Due Mondi. Presentazione di Rossella Siligato nel catalogo.
1990 - Inizia la collaborazione col "Centro documentazione ricerca artistica contemporanea Luigi di Sarro" di Roma. Esposizione collettiva "Orizzonti Verticali" , organizzata da questa galleria, nella Torre di Ciarrapico, Francavilla al Mare (Chieti), ottobre. Presentazione d'Alessandro Masi nel catalogo.
- Lunghi soggiorni a Bruxelles.
- pubblicazione in copertina di "Toro", olio su tela del 1989, Fazil Iskander, "Le buffle front large", Editions Complexe, Bruxelles.
1991 - laureato in Storia dell'Arte Contemporanea alla Facoltà di Lettere dell'Università "La Sapienza" di Roma. Tesi : "Il gruppo Cobra, 1948-51".
1992 - esposizione collettiva "Art Rivages", Galleria "Patrick Vicqueray", Bruxelles.
1993 - pubblicazione d'un manuale di storia dell'arte, "Guida all'esame di maturità: Storia dell'Arte (dal XVI° al XX° sec.)" in collaborazione con Paolo Raffaeli, Edizioni "Sovera multimedia" di Roma.
1994 - pubblicazione di "Noir Blanc", plaquette di 100 esemplari, testo e illustrazioni.
1995 - esposizione "Fragments" nella "Maison des Tulipes Noires" (Waterlandkerkje, Olanda). Nel catalogo testi di F. Lalande, D. Soil, J. Vogel, A. Raulier. 150 esemplari, 50 numerati, firmati e copertina realizzata con un "frammento" originale. Altro catalogo di 50 esemplari con riproduzioni d'opere e un testo dell'autore.
- esposizione collettiva "Cocoon", Bruxelles. Introduzione di B. Thomas nel catalogo.
- pubblicazione del testo "Mon premier contact avec la peinture", con riproduzioni di quadri, nella rivista trimestrale del "Centre d'Expression et de Créativité, les Atelier de la Banane", Bruxelles.
1996 - pubblicazione a 150 esemplari della plaquette "Eaux Turquoise" (testo, foto, illustrazioni) ispirata da un soggiorno di tre mesi a Cancùn (Messico).
- esposizione collettiva alla Galleria "Laetitia", Seraing (Liegi).
- pubblicazione a 200 esemplari della plaquette "Lumières géométriques" (testo, foto) ispirata da un viaggio in Tunisia.
- partecipa alle esposizioni di creazione contemporanea "Parcours d'artistes", Bruxelles.
1997 - esposizione collettiva "Dare corpo all'illusione", Scuderie di Palazzo d'Atri, Napoli, organizzata dal "Centro Documentazione Ricerca Artistica Contemporanea Luigi di Sarro" di Roma. Testo del catalogo di Federica di Castro.
- esposizione personale "Fragments" a Bruxelles, Spazio Bucella. Catalogo con testi di Isabelle Fessaguet, Ana Isabel Pérez-Gavilán, Federica di Castro.
- esposizione collettiva "Traits d'union" in occasione del 45esimo anniversario della Galleria "Haut-Pavé" di Parigi.
1998 - esposizione "Artistes italiens du XXème siècle" al "Centre International d'Art Contemporain" (CIAC), Palazzo del Principe Vescovo, Liegi.
- pubblicazione in copertina della rivista "Performances" del quadro "fragment n° 571", Tolosa.
1999 - esposizione personale alla Galleria "Pro Vision Europe" di Bruxelles.
- pubblicazione del primo romanzo "Faemines", Edizioni Libreria Croce, Roma.
2000 - esposizione "Bruxelles, 10 années de peinture" Bruxelles, Atelier 11.
- esposizione "Pitture, 1980-2000" al "Centro Documentazione Ricerca Artistica Contemporanea Luigi di Sarro" di Roma.
- pubblicazione del romanzo "Il Giardino dei Principi", Massari Editore, Bolsena.
2001 - pubblicazione della plaquette "Passeggiate romane" (100 esemplari), testo e quadri, che accompagnano l'esposizione personale dello stesso titolo, Atelier 11, Bruxelles.
2002 - pubblicazione del saggio "Le mystère des Logogrammes de Christian Dotremont", Atelier 11, Bruxelles, (plaquette di 200 esemplari).
- esposizione personale "De la figuration aux Fragments", Galleria "L'Arté", Bruxelles.
2003 - pubblicazione del saggio "William Turner in Etruria", Massari Editore, Bolsena. Presentazione e commento di 23 disegni inediti conservati alla Tate Gallery di Londra. Questo volume è presente nel catalogo della biblioteca del Metropolitan Museum of Art di New York
2004 - esposizione personale "Hommage à W. Turner", Galleria "L'Arté", Bruxelles.
- pubblicazione della novella breve : "Il pesce d'oro", sulla rivista-on line "Progetto Babele" n° 9. Seguono pubblicazioni dei racconti : La lupa di Roma, Metamorfosi, Haiku.
- pubblicazione della raccolta di novelle horror "Fluorescenze", prefazione di A. Teodorani, Il Filo, Roma.
2005 - pubblicazione del poema "La neige" in Christian Dotremont, "Mémoire de neige", Editions Tandem, Bruxelles.
- inizia a insegnare Soria dell'Arte Contemporanea nell'Accademia di Belle Arti di Bruxelles.
- pubblicazione di "Sesso, orrore e fantasia", raccolta di 4 novelle, tradotte nello stesso volume in francese e inglese, più 65 riproduzioni di acquerelli a colori. Prefazioni di A. Teodorani e O. Duquenne. Massari Editore, Bolsena.
- 2006 - Con il racconto La collana di perle celesti ha vinto il Premio Profondo Giallo 2005 (il racconto è stato pubblicato insieme al romanzo di Giulio Leoni, I delitti del mosaico, collana Il Giallo Mondadori n. 2896, Milano.
- 2007 - pubblicazione della raccolta di novelle "Alchimie d'amore e di morte", Tabula Fati.
- Nel mese di settembre 2007 all'ISTI, Institut Supérieur de Traducteurs et Interprètes, di Bruxelles, è stata sostenuta la tesi: "Il Giardino dei Principi: gli anni Cinquanta e il rinnovamento dell'Italia", tesi che comprende la traduzione in francese del romanzo "Il Giardino dei Principi".
- 2008 - pubblicazione del romanzo "Uragano", Delos Books.
- pubblicazione del romanzo "Agnese, ancora", Akkuaria.
- 2009 - pubblicazione del romanzo "La signora dalla maschera d'oro".
- Numerose partecipazioni in antologie.
- È presente nel Dizionario Piron che raccoglie i maggiori artisti belgi, o di differente nazionalità che hanno vissuto in quel Paese.

Marcella Testa
E' nata a Castellamare di Stabia nel 1972 e risiede a Scafati, dove insegna materie letterarie presso il liceo scientifico "R. Caccioppoli".
Suoi racconti e poesie sono presenti in antologie edite da Montag, Perrone, Cicorivolta, Farnedi, Edizioni Progetto Cultura e sul Writers Magazine Italia. Il nuovo egocentrismo ha vinto la decima edizione del Premio WMI. Nel 2009 un suo racconto è risultato vincitore nella IV edizione del Premio Letterario Logos indetto dalla Perrone Editore. Nello stesso anno è uscita la sua prima silloge Come una nebulosa, ed. Montag.
Renzo Montagnoli


La corsa selvatica di Riccardo Coltri Edizioni XII www.xii-online.com
Copertina di Diramazioni
Appendice Caccia Selvaggia
di Dario Spada
Narrativa romanzo

"La corsa selvatica, la chiamavano. E a poco servivano le barricate, i fucili, le trappole segnalate da rami incrociati o il riunirsi tutti nello stesso luogo, attendendo che finisse. Erano grossi cani neri, forse tanti quanti poteva contenerne la contrada stessa."

Nei primi anni del Regno d'Italia, ai confini con il Tirolo, accadono fatti strani, inspiegabili, oltre ogni umana comprensione. Qualche cosa di indefinibile è arrivato, o forse solo ritornato, mobilitando un vero e proprio esercito di soldati, di stregoni e di medium.
In un paesaggio incantevole, ma anche incantato, nel silenzio della neve che copiosa lo ricopre, sembrano materializzarsi certe storie di lontane leggende, in un'atmosfera cupa, di tensione, nella quale orrore, disperazione e brama di conoscenza riescono a convivere perfettamente.
La corsa selvatica è un romanzo dalla trama continuamente in bilico fra realtà e mondo oscuro, fra le fatiche del giorno e gli ancestrali timori notturni. E' ambientato alla fine del 1800, ma sembra di tornare molto più indietro nel tempo, come se all'improvviso l'illuminismo dovesse ancora arrivare a far prevalere la razionalità. Sono bestie infernali quelle che avviano la corsa selvatica, ma anche gli uomini, quelli in carne e ossa, le vittime per intenderci, sono figure emblematiche dei turbamenti dell'inconscio, e non di rado prede e cacciatori.
In questo romanzo, che riesce ad avvincere il lettore nonostante ci sia un po' troppa carne al fuoco, si ritrovano così le atmosfere di certe narrazioni dei vecchi nonni ai nipotini, frutto anche esse di una tradizione orale che caratterizza ogni comunità e in cui ogni invenzione ha un qualche fondo di verità. Ricordo io stesso di storie di lupi mannari, di streghe e di bestie diaboliche, tutti specchi delle nostre paure, di quei timori latenti che il buio fa risvegliare.
E' l'incapacità di comprendere che fa nascere gli spettri, è l'umana debolezza che scaramanticamente li evoca, è l'ignoto di noi stessi che cerchiamo di rappresentare.
Eppure, la Katertempora, la caccia selvaggia così come tramandata nel Tirolo, nelle sue lontane origini non può essere solo un fenomeno di credenza collettiva; alla base ci deve pur essere qualche cosa di concreto, ma cosa? Notti di neve e latrati di cani? Ombre che circondano il viandante?
La corsa selvatica ha inizio; fortunato è solo chi non è la preda, ma soprattutto il lettore.

Riccardo Coltri è interprete di un genere a cavallo tra fantastico e horror, che attinge nel profondo del folclore e delle leggende alpine e mediterranee in una miscela personalissima e affascinante, portandoci verso un tempo e un mondo che potrebbero esistere (e forse sono esistiti) giusto fuori dalla porta di casa nostra; scrittura elegante, cattiveria, e una reale capacità di inquietare il lettore completano il quadro di uno degli autori nostrani più interessanti.
Oltre a molti racconti su diverse riviste e antologie, suoi sono il romanzo horror Non c'è mondo (2001, basato sulla leggenda di Giulietta e Romeo) e Zeferina (2007, fantasy ambientato nel Regno d'Italia, riedito in versione ampliata nel 2009).
Renzo Montagnoli


Romanza di Zurigo di Francesca Mazzucato Historica Edizioni www.historicaweb.com   info@historicaweb.com
Con appendice fotografica a colori
Collana Cahier di viaggio

Devo ammettere che a Francesco Giubilei, tuttora il più giovane editore italiano, non manca il coraggio, perché di questa dote, non frequente e spesso fraintesa, ne occorre non poca per pubblicare un cahier de voyage, o quaderno di viaggio, o libro di viaggio comunque lo si chiami. E' infatti questo un genere che in Italia non ha mai avuto fortuna, a differenza che in diversi paesi esteri. Il lettore medio italiano ama poco viaggiare con la mente, magari prende una guida del Touring, ma poi la dimentica nel corso delle immancabili gite collettive, anche perché un cahier de voyage non è un semplice libretto pratico per orientarsi su cosa andare a vedere, dove dormire, dove mangiare, anzi rifugge da questi consigli spicci perché il suo intento non è di supporto logistico al viaggiatore, non è il Bignami di un paese, bensì è un'opera letteraria che ha l'occhio solo per la cultura. Da noi questi libri sono in genere rifuggiti peggio di quelli di poesia. Eppure sono opere di indubbia validità, ma tanto è la disaffezione per l'autentica cultura di una larga parte dei lettori italiani che questi cahier finiscono con l'essere negletti. Certo Giubilei avrà ben valutato i pro e i contro, e fra i primi il peso non trascurabile è dato dall'autrice, assai nota che, in questo testo, come poi si vedrà, profonde al massimo le sue qualità letterarie.
Fra l'altro questo libro inizia una nuova collana, intitolata appunto Cahier di viaggio, diretta proprio da Francesca Mazzucato.
Zurigo ai più potrà risultare una meta non particolarmente appetibile, probabilmente secondaria rispetto a Parigi, a Londra o a New York, ma l'autrice ha scelto questa località per compiere un viaggio dell'anima, per proporsi una serie di riflessioni, anche sentimentali, che non sempre sono direttamente collegabili alla meta.
Certo c'è l'omaggio a Joyce, che lì morì e vi è sepolto, uno scrittore che deve avere rivestito un'influenza particolare sulla Mazzucato tanto che la visita della sua tomba finisce con il diventare quasi il suggello della fede di un pellegrino con il proprio santo prediletto.
Peraltro, all'inizio del viaggio da Bologna in vagone letto, il barbone che sul marciapiedi del binario si orina addosso in completa indifferenza rappresenta la fine del quotidiano e l'inizio di quel progressivo distacco dalla realtà materiale che in itinere diventerà un percorso dentro se stessi, con le occasioni offerte da una città in cui muoversi per trarre spunti, far nascere idee, riflettere soprattutto.
C'è tanta cultura in questo libro e non a caso i riferimenti a Joyce, ad Annemarie Schwarzenbach, a Canetti, a Chagall e perfino a Jung sembrano propiziati dalla presenza delle loro ombre in questa città svizzera di impronta tedesca.
Ci sono piccoli spunti, in apparenza insignificanti, abitudini giornaliere con cui l'autrice cerca quasi un dialogo con il lettore, descrizioni che sembrano casuali di edifici, insomma tante pietruzze di un mosaico che non solo riescono a ricreare l'atmosfera di Zurigo, ma vengono a delineare, come nell'opera di un pittore, un quadro culturale che nobilita il libro, che è quasi la fusione di un diario con un romanzo, non di rado espresso con una prosa poetica.
Resta da chiarire il perché del titolo e a questo provvede una piccola nota all'inizio, dove si dice che la romanza è una composizione musicale per voce e accompagnamento, di struttura variabile ma di carattere per lo più sentimentale.
Ecco, in effetti il libro ha il ritmo di un lungo adagio in cui la voce dell'autrice si inserisce con una vena di lirismo, un violino di cui ancora sento il suono malinconico.
La lettura è vivamente raccomandata.

Francesca Mazzucato è laureata in Lettere e specializzata in Biblioteconomia con un master al Parlamento Europeo. E' scrittrice, consulente editoriale e traduttrice. Ha pubblicato 16 romanzi, prefazioni, saggi brevi e racconti. Si occupa di erotismo, viaggi, costume, fotografia, new media e critica letteraria. Studiosa di letteratura marsigliese, è l'autrice del saggio in formato e-book:"Louis Brauquier, il poeta del mondo meticcio di Marsiglia", Kult Virtual Press. Ha scritto per il teatro e tiene regolarmente corsi di scrittura creativa e sui mestieri dell'editoria. Nel 2003 ha vinto il premio Fiuggi e si è classificata seconda al premio Argentario- Narrativa Donna.
Fra i suoi romanzi più noti, alcuni dei quali tradotti in Francia, Germania, Grecia e Spagna: "Hot line", Einaudi, "Relazioni scandalosamente pure", "Amore a Marsiglia" e "Web cam", Marsilio, "L'anarchiste" Aliberti, " Enigma Veneziano", Borelli e "Kaddish profano per il corpo perduto" Azimut, ambientato a Budapest e dedicato al premio Nobel Imre Kértesz. Nel 2008 è uscito un suo racconto nell'antologia "M'ama? Mamme madri matrigne oppure no", Il Poligrafo, e il romanzo "Generazione McDonald's" Marlin editore, da cui è stato tratto uno spettacolo in forma di reading, Fast Food Elettronico, a cura di Marco Nardini con musiche di To-Bork- Ram, portato con successo in giro per l'Italia.
A Febbraio 2009 è uscita negli Stati Uniti l'antologia "Rome Noir", per Akashic Books. Contiene racconti dei più importanti scrittori italiani fra cui Lucarelli, Carofiglio, Fois : dell'antologia, di prossima pubblicazione in Italia, fa parte il racconto "Tiburtina noir blues" di Francesca Mazzucato.
Sempre nel 2009 un suo intervento è uscito nel volume "Dai blog ai social network. Arti della connessione nel virtuale. " , a cura di Mapelli e Margiotta, Mimesis editore.
Dal 2009 ha creato e dirige la collana "Cahier di viaggio" per le edizioni Historica. Fa parte del Who's Who in Italy 2009 nella sezione Arte e cultura (ne aveva già fatto parte nel 2006 e nel 2007) . Collabora con magazine come, riviste letterarie, portali come Menstyle.it Da anni cura lo spazio di recensioni e interviste Books and other sorrows (http://scritture.blog.kataweb.it ) che fa parte dei blog d'autore del gruppo Kataweb-L'Espressso. Sulla sua opera sono state scritte alcune tesi di laurea. Ha in uscita un testo breve su Marsiglia per questa collana e sta lavorando a un saggio di costume e a un nuovo romanzo.
Vive in una terra di frontiera.
Il blog della collana Cahier di viaggio, da lei gestito
http://cahierdiviaggio.blogspot.com 
Cahier di viaggio su Twitter
http://twitter.com/cahierdiviaggio
Renzo Montagnoli


Colloqui con Hitler.
Le confidenze esoteriche del Führer e i suoi piani per la conquista del mondo
di Hermann Rauschning
Traduzione di Anna Maria Baiocco
Edizioni Tre Editori
www.treditori.com


"La coscienza è un'invenzione degli ebrei. E' come la circoncisione, una mutilazione dell'uomo."
"Noi poniamo termine al cammino sbagliato imboccato dall'umanità."
"Non esiste la verità, né in senso morale né in senso scientifico.
"

Sono alcune delle massime che Hitler produceva a getto continuo, lapidarie, incontrastabili a meno che il loro creatore le facesse decadere con altre, una filosofia - ma il termine è esagerato - spicciola, frutto non tanto di un complesso processo di pensiero, quanto di improvvisazioni o di folgorazioni di cui tanto amava compiacersi.
Hermann Rauschning, membro del partito nazionalsocialista e capo del governo della Città libera di Danzica nel 1933-34, ebbe, per gli incarichi ricoperti, l'opportunità di colloquiare sovente con Hitler e annotò questi dialoghi, per poi riprenderli, una volta rotto con il nazismo e riparato all'estero, e scrivere un libro che fu pubblicato per la prima volta in Francia nel 1939. Per quanto ovvio, l'opera fu proibita nei paesi dell'Asse.
Pur con le riserve che possono derivare dal fatto che questi incontri con il Fuhrer avevano un carattere per lo più privato e che quindi non è possibile un riscontro diretto con quanto scritto, l'opera in sé costituisce un ulteriore prezioso tassello nella ricostruzione della figura del piccolo caporale austriaco.
Non è un caso se ho ricordato l'esperienza militare di Adolf Hitler, perché fa parte della sua vita, qui non raccontata, prima di diventare fondatore del grande Reich. Militare di truppa, pittore di trascurabili qualità, una famiglia di modeste condizioni, con il peso di un padre nato illegittimo e con ascendenti probabilmente di razza ebraica, insomma Hitler non aveva molto di che esser contento per i suoi trascorsi e probabilmente un desiderio di riscatto, del tutto legittimo in verità, lo portò a cercare di raggiungere una posizione preminente. Tuttavia questo non spiega a sufficienza l'ascesa di un uomo dallo smisurato senso di onnipotenza e dalla latente profonda frustrazione, sempre pronta a esplodere, nell'eterno contrasto fra insoddisfazione e autoconvincimento della propria presunta grandezza.
Il libro, oltre a ricostruire la continua evoluzione delle teorie naziste, è una fonte valida per comprendere questo contrasto caratteriale, fatto di momenti di estasi e di altri di abbattimento, che portano a evidenziare un quadro clinico di notevole complessità comprendente due distinte personalità del tutto inconciliabili.
L'istruzione di Hitler è modesta, quello che apprende gli deriva da "un fai da te", che finisce con il diventare in una mente così folle l'unica verità. E se non bastasse deve cercare una giustificazione per la sua investitura di guida della nuova umanità, in una confusione di approssimativi concetti religiosi e di vagheggiamenti esoterici, questi ultimi frutto delle idee propugnate dalla Società di Thule (cfr. dello stesso editore Il viaggiatore di Agartha).
In una ridda di controsensi, inevitabili in un continuo sdoppiamento della personalità, fra alti esaltanti e bassi paurosi, possiamo così leggere l'evolversi della scalata al potere di Adolf Hitler e i prodromi di quello che avverrà da lì a pochi anni: una guerra mondiale sanguinosa, l'olocausto, l'eliminazione di milioni di cittadini sovietici, la distruzione della Germania, la fine del Fuhrer a Berlino nel bunker della cancelleria. Tutte queste sciagure sono facilmente prevedibili se si leggono con attenzione questi colloqui, più che altro monologhi del dittatore, perché è evidente, non è nemmeno nascosta la vocazione nichilista a un crepuscolo non tanto di dei, ma di folli e illusi superuomini.
La lettura, appassionante, è senz'altro raccomandabile.

Hermann Rauschning (7 agosto 1887 - 8 febbraio 1982).
E' stato un conservatore e reazionario, membro del partito nazista, capo del governo della Città Libera di Danzica dal 1933 al 1934, anno in cui, non più convinto dall'ideologia, si rifugiò dapprima in Inghilterra e poi negli Stati Uniti. Scrisse Colloqui con Hitler, pubblicato per la prima volta in Francia nel 1939 e poi nell'originale in tedesco dalla Europa Verlag di Zurigo. In Italia venne stampato, clandestinamente, nel 1944, nella traduzione dal francese.
Altre pubblicazioni:
La Rivoluzione del Nichilismo (1939), Make and Break With the Nazis (1941), The Conservative Revolution (1941), The Redemption of Democracy, the Coming of the Atlantic Empire (1941), The Beast from the Abyss (1941), Men of Chaos (1942), Makers of Destruction - Meetings and Talks in Revolutionary Germany (1942), Time of Delirium (1946).
Renzo Montagnoli


Ti prendo e ti porto via di Niccolò Ammaniti Ed. Piccola Biblioteca Oscar Mondatori

Letto quando era uscito, mi era piaciuto per lo stile dell’autore e per la storia dei personaggi un po’ così…fuori da certi schemi: balordi, incasinati, problematici, ingenui; insomma la gamma infinita dei caratteri umani. Una galleria d’individui viva e tragicomica, data in pasto ai lettori. Oggi rileggerlo, offre le stesse sensazioni positive, non certo  di un libro dalla lettura frettolosa e via al prossimo. Un vero libro si rivela  e poi si conferma quando una seconda lettura è più interessante e apre altre chiavi d’interpretazione e approfondisce pensieri e suggestioni. La trama in breve: a Ischiano Scalo, piccolo paese con poche opportunità di svago e di cultura vivono i nostri eroi: due ragazzini Pietro e Gloria, compagni di scuola, d’estrazione sociale ed economica diversi. Gloria, bella e spavalda, di famiglia ricca e  perbene e Pietro, timido e introverso, di famiglia proletaria che più non si può, e anche  disastrata: padre violento e alcolizzato, madre con problemi psichici e un fratello incolto che nutre vaghi ed assurdi sogni; insomma un bambino definito, secondo il linguaggio scolastico, un caratteriale. Tra l’altro perseguitato da tre compagni bulli e balordi, che così esprimono il degrado e il disagio di certe realtà umane: lo opprimono con continue offese verbali e fisiche. Eppure tra questi due ragazzi Pietro e Gloria c’è una sintonia d’intenti e una vicinanza affettiva che va oltre una semplice amicizia adolescenziale. L’altra coppia scombinata è quella di Graziano Biglia play boy da strapazzo, un po’ attempato che insegue ancora futilità e vanaglorie trascorse e la professoressa Flora Palmieri, donna trentenne dall’aspetto misteriosamente bello e dal carattere riservato e solitario. Eppure casualmente i due destini ad un certo punto del proprio curriculum vitae s’incrociano e le due diversità si combinano…
Ammaniti scandisce le tappe della vita, contrassegnate da rituali obbligati, marcatori dei passaggi generazionali e lo fa con graffiante ironia e con partecipe adesione sentimentale.
L’autore ci ammannisce con un lessico immediato ed autentico ed un  periodare breve e conciso; alterna una scrittura calibrata e precisa, ad un’altrettanta scrittura non osservante di precise schemi narrativi. Alterna registri verbali diversificati dando la misura del suo profondo scavare nel centro delle vite umane e restituendoci non tanto personaggi, ma persone in carne ed ossa. Carpisce con sorprendente inquietudine i lati oscuri e controversi dell’animo umano dosando malinconiche asprezze e ironiche dolcezze. Senz’altro questo romanzo più che godibile, è amabile come certi vini dal sapore dolce e dal retrogusto asprigno.

L’autore Niccolò Ammaniti è nato a Roma nel 1966. Ha pubblicato Fango 1996, Branchie 1997, Ti prendo e ti porto via 1999, Io non ho paura 2001, Come Dio comanda e l’ultimo Che la festa cominci
Dei suoi libri sono stati tratti film di successo, di importanti registi. E’ pubblicato in 44 Paesi e il suo sito ufficiale è all’indirizzo www.niccolòammaniti.com.
Arcangela Cammalleri


Pubblicato il saggio "Schiavi degli Dei - L'alba del genere umano" di Biagio Russo - Edizioni del Poggio
Con la prefazione del Professor Gabriel-Aldo Bertozzi ed il contributo scientifico del Professor Tonio Di Battista, il testo, per i suoi straordinari contenuti, farà sicuramente molto parlare di sé.

L'uomo moderno è davvero l'erede dell'uomo di Neanderthal?
Egli rappresenta davvero l'ultimo anello dell'evoluzione dell'uomo?
Da dove provenivano i Sumeri?
Come e da chi essi appresero, ben 5.000 anni fa, le straordinarie conoscenze astronomiche circa la creazione del nostro sistema solare?
Ci sono mai stati un primo uomo di nome Adamo e una prima donna di nome Eva?
E' mai esistito un serpente tentatore?
E chi erano gli Angeli?
A queste e a tante altre domande, l'autore risponde con una puntualità e chiarezza come mai accaduto prima.
Risposte frutto di una ricerca severa, portata avanti sempre e costantemente con l'ausilio di testi originali, anche molto antichi, scritti o curati da autorevoli esperti internazionali di assiriologia e sumerologia e da esponenti di spicco del mondo accademico dell'astronomia, della storia, della statistica, della lingua e della letteratura straniera. Ma soprattutto grazie alla testimonianza redatta in scrittura cuneiforme su tavolette d'argilla da un popolo straordinario: i Sumeri.
Un percorso d'indagine in cui l'autore porta per mano il lettore in un crescendo di coinvolgente interesse che tocca il suo culmine nelle due parti finali.
Il "Progetto", ovvero "L'alba del genere umano", altro non è che la chiara e precisa descrizione del perché, quando e come si procedette alla realizzazione di un essere essenzialmente lavoratore ed ubbidiente: l'uomo primitivo, lo "schiavo degli dei".
"Schiavi degli Dei" è molto più di un saggio: è uno scrigno aperto da cui estrarre risposte sensazionali e le cui profondità scuoteranno sicuramente le coscienze dei lettori.
Un libro che farà clamore. Un libro non solo da leggere, ma da diffondere.
Biagio Russo


La pratica rende perfetti
di Giusy Ragni
con illustrazioni dell'autrice
Edizioni Il Foglio Letterario
www.ilfoglioletterario.it
ilfoglio@infol.it

Poesia
Collana PLAQUETTE - I PORPORA

Questa raccolta poetica è ispirata e incentrata sull'amore, esaminato, sviscerato, visto in tutte le sue innumerevoli sfaccettature, con l'emozione di esperienze e l'estro dell'artista. Rilevo, in particolare, che queste esternazioni in versi hanno il particolare pregio di essere comprensibili, perché semplici. Ma semplici non vuole dire elementari, bensì chiarezza di esposizione frutto di un'analoga chiarezza di idee.
Si leggono sovente oggi testi pretesi poetici che sono più un intreccio sgraziato di parole che una vera e propria composizione armonica che dovrebbe caratterizzare la poesia per distinguerla dalla prosa. Spesso sono sciatti, senza inventiva, privi di un'espressione artistica. Ebbene, non è il caso di questa raccolta che si contraddistingue per una creatività poetica che riesce a interpretare il sentimento e a renderlo consapevole non solo all'autore, ma anche al lettore.

A QUESTA TERRA
Abbracciando
le fatiche dei padri
mi sono avvicinata
a questa terra
e ho riempito lo sguardo
dei suoi fossi... dei rovi.
Ho fatto mio il suo canto
nel gallo ,nella tortora...
ho amato la sua gente
condiviso l'idioma.
Abbracciando
uno ad uno i suoi pioppi
salutando la gallinella gentile...
ed il regale airone
mi sono avvicinata
a questa terra
e ho riempito lo sguardo
dei suoi campi... dei suoi campanili
Abbracciando
il sapore del pane
mi sono avvicinata
a questa terra
io non più straniera... io figlia.

Certamente, questa dote innegabile di comunicatività deriva da un afflato con la natura, dal considerarsi parte di essa. Il raggiungimento della consapevolezza della nostra vera posizione nell'ambito dell'apparente caos del creato consente così di interagire meglio non solo con il mondo che è intorno, ma anche di esprimerci più comprensibilmente con chi ci sta vicino. In questo senso non si può che apprezzare la marcata vena elegiaca che accompagna i versi, quel senso di pace interiore che si ritrae leggendoli e infine quell'unione ideale che si concretizza fra il pensiero dell'artista e l'impressione che ne ritrae il lettore.

SCALZA TRA LA SETE
scalza tra le parole
allarga il sole
il volo
di pensieri
su musica e deliri
nelle sere d'estate
una zanzara d'oro
sussurra
di isole lontane
un mare di nuvole
rincorre tra i prati
nella mente
una rondine
col viso d'angelo
e risa di bambini
come corolla
al fiore della vita
stanca cicala
che sorride
a questa sera
di mille sere
scalza tra le sete
della fonte
stringe la luna
il sonno

Queste visioni, quasi oniriche, un riflesso della natura sull'anima, immagini che comunemente sono sotto i nostri occhi, finiscono per l'assumere una trasposizione che altri non è se non l'impressione che ne riceve il poeta, il quale poi creativamente la trasforma in parole. E' questo procedimento che connota l'opera d'arte, una tecnica di cui Giusy Ragni sembra ben consapevole e che accompagna la sua mano non solo quando ha stretta fra le dita una penna, ma anche quando porge alla tela un pennello intriso di colore.
Una raccolta sicuramente meritevole di essere letta.

Giusy Ragni nasce a Milano nel
1959, trascorre un'infanzia tranquilla in una meravigliosa famiglia povera. La passione per il disegno è precoce. Si inventa dj in una radio locale dove si cimenta per circa due anni e fa mille lavori per contribuire al bilancio familiare.
Dopo il disegno scopre ed esplode la passione per la scrittura, tenendo per sé questa passione per molto tempo.
Si trasferisce in Lomellina nel 1986. Nel 2006 approda in un sito internet sull'immaginario collettivo, ben presto inizia a collaborare scrivendo articoli e altro e divenendo in breve tempo capo amministratore del sito e cuore pulsante del portale. Inizia a pubblicare poesie sul portale non tralasciando racconti, editoriali ed articoli di vario genere. Sul portale stesso è presente un'interessante
galleria di disegni per la quale è molto conosciuta. Attualmente lavora sempre per www.Evulon.net
Renzo Montagnoli


Occidente
Il diritto di strage
di Ferdinando Camon
Edizioni Garzanti
Collana Gli elefanti
Narrativa romanzo

Perché fra i non pochi libri che ha scritto mi sono procurato e ho letto Occidente? Camon ha la straordinaria capacità di analizzare i fenomeni non superficialmente, ma cercando di capire i motivi e questo considerando tutta una serie di variabili che vanno dalla situazione contingente in cui hanno iniziato a manifestarsi alla psicologia degli uomini che insieme sono stati soggetti attivi e passivi dell'accadimento.
Il nostro paese è stato travagliato da un lungo periodo di terrore, di matrice di estrema destra e di estrema sinistra, che necessita di una comprensione, per capire il perché, per trovare una giustificazione logica a un qualche cosa di illogico, per sapere, onde evitare che questi anni di piombo si possano ancora ripresentare.
Il romanzo di Camon, difficile soprattutto perché in una persona normale certi comportamenti e alcune motivazioni entrano in aperto e doloroso contrasto con la sua natura, è una discesa all'inferno per cercare di comprendere i motivi di questo orrore.
E' un viaggio nell'incubo, nella follia di menti che, sconvolte, hanno con le loro azioni sconvolto un paese e la vita dei suoi abitanti.
Se con La vita eterna il racconto dell'autore era improntato a un velo di pietà per un mondo definitivamente sparito, qui a volte emerge la rabbia e non c'è la minima assoluzione per questi terroristi, anzi la loro condanna è nelle stesse parole che Camon ha fatto loro dire.
Non c'è nulla di più drammaticamente conclusivo dei concetti espressi da Franco, il capo dei neri, un individuo che teme la morte, anzi il solo pensiero che un giorno tutto dovrà finire gli rende impossibile la vita; e allora si fa lui portatore di morte, indiscriminatamente la esporta verso ignari cittadini, ritraendo il sottile piacere di liberarsi momentaneamente del suo incubo concretizzandolo in altri.
Per far questo si costruisce anche un'idea che sia lo specchio della coscienza, così da giustificare il suo odio e il suo crimine. In questo mondo ci sono gli eletti e lui è uno di questi, mentre tutti gli altri sono comparse inutili, o meglio sono utili quali vittime sacrificali per la purificazione di un sistema in cui l'apoteosi è solo il senso di onnipotenza del carnefice, in una convulsione di egocentrismo che prevede solo la sua esistenza.
E' inutile dire che in simili individui non esistono né la pietà, né la consapevolezza dei propri limiti; uccidere diventa così una necessità quale respirare per vivere e le loro stragi non sono considerate atti criminosi, trovando giustificazione in una contorta e aberrante filosofia che non è alla base del loro comportamento, ma è stata adattata appositamente per fornire una motivazione dello stesso.
In realtà gente come Franco è il ritratto dell'insoddisfazione per ciò che realmente si è, rispetto a ciò che si vorrebbe essere, è la figura di frustrati, pavidi e in rotta con se stessi, ma che trovano sfogo al rancore che li pervade scaricandolo su altri, del tutto inermi ed incolpevoli, e proprio per questo idonei capri espiatori.
Camon ci ha fornito un quadro, un'analisi attenta e apolitica di un movimento, sondando gli aspetti psicologici dei componenti e mettendo a nudo l'altra verità che è in noi, quella paura ancestrale che a volte, come nel caso specifico, può portare a uno stato di follia individuale e collettiva. L'onnipotenza bramata dall'uomo è quindi il segno manifesto della sua debolezza, l'uccisione di altri, del tutto innocenti, è rivelatrice di una sete di vendetta per la propria condizione di immaturità.
Ma il terrorismo è anche rosso ed ecco allora il narratore che ci parla di Miro che, a differenza di Franco, non sogna di distruggere una società, ma brama cambiare un sistema, un fine da raggiungere con qualsiasi mezzo, anche con l'omicidio di coloro che rappresentano la struttura portante dello stato.
E' una figura in apparenza solo migliore di quella di Franco, se non altro perché non c'è una vocazione nichilista, ma anche qui esiste quel diabolico potere, che si autoalimenta, di poter disporre della vita d'altri, una frenesia che sconvolge e travolge.
Nel caso di Franco è la visione dell'individuo che prevale, in quella di Miro invece è quella della massa, un fiume che avanza e che spezza tutto.
Nel primo si potrebbe dire che i mezzi sono il fine, nel secondo i mezzi servono a raggiungere il fine, ma in entrambi è presente un egocentrismo che li porta a considerarsi superiori a tutti e quindi a decidere anche per gli altri. E non è un caso se in una battaglia cittadina quasi si rendono gli onori delle armi.
Occidente è un romanzo sì difficile, ma è anche un capolavoro.

Ferdinando Camon (San Salvaro d'Urbana, 1935) è romanziere, poeta e saggista.
Ha pubblicato:
Il mestiere di poeta (Garzanti, 1982), Il mestiere di scrittore (Garzanti, 1973), Letteratura e classi subalterne (Marsilio, 1974), I miei lettori mi scrivono (Garzanti, 1987), Il Quinto Stato (Garzanti, 1970), La vita eterna (Garzanti, 1972), Liberare l'animale (Garzanti, 1973), Occidente (Garzanti, 1975), Storia di Sirio (Garzanti, 1984), Un altare per la madre (Garzanti, 1978), La malattia chiamata uomo (Garzanti, 1981), La donna dei fili (Garzanti, 1986), Il canto delle balene (Garzanti, 1989), Il Super-Baby (Rizzoli, 1991), Mai visti sole e luna (Garzanti, 1994), La terra è di tutti (Garzanti, 1996), Dal silenzio delle campagne (Garzanti, 1998), Conversazione con Primo Levi (Garzanti, 1991), La cavallina, la ragazza e il diavolo (Garzanti, 2004), Tenebre su tenebre (Garzanti, 2006), Figli perduti La droga discussa con i ragazzi (Garzanti, 2009).
Le sue opere hanno ricevuto numerosi premi, fra i quali uno Strega (Un altare per la madre), due Selezione Campiello (La donna dei fili e Il canto delle balene) e un Viareggio per la poesia (Liberare l'animale).
Sito internet: www.ferdinandocamon.it
Renzo Montagnoli


Sulla riva del fiume di Giovanna Giordani Aletti editore

"Non pretendo sia una recensione ma un esprimere a voi quello che mi ha dato in emozione e altro la lettura d'un fiato della silloge di Giovanna Giordani "Sulla riva del fiume" Aletti editore.
Innanzi tutto il titolo prepara a quello scorrere di versi semplici si per la loro pulizia interiore, la limpidezza cristallina di chi, come l'autrice, non si copre, si dà all'altro con autentica passione.

Vi sono versi forti d'impatto sociale, subito, all'inizio della lettura in "Ah se potessi con la poesia/ l'orror del mondo spazzar via" o "Contro la guerra" "Vorrei trovar parole tonanti... missili io le lancerei..."  poi gli Haiku che sono una bellezza per l'armonia di getto: ve ne cito uno a caso: "Inverno"  "impronte lievi/su candidi silenzi./ Il sole sogna (è un'immagine fantastica quella del sole che lascia libero il cielo per sognare...).
Raggrupperei insieme alcune poesie metapoetiche che "parlano" di poesia in un modo estremamente  personale e terso: "bello mi sembra credermi poetessa/strofinar versi su appannati specchi/per disvelar l'immagine riflessa" (come meglio disvelare la spinta che prende il cuore ..) oppure "anche il poeta è un illlusionista" o "l'amore dei poeti" è un urlo sconfinato... e "la mia poesia è una regina scalza" che trovo la summa di tutto, poesia senza presunzione, fatta di tocchi sublimi senza accorgersi, quasi in sordina.
Poi i versi legati alla natura che sempre, implicitamente  o meno, fa da sfondo al poetare di Giovanna: "la notte" "Mi invita il cielo"  "Incanto" e molte altre ancora ...

Vi sono poi alcune liriche di riflessione sul senso della vita, su Dio e sulla ricerca di esso nella splendida "Piccoli fiori gialli " e nella poesia di chiusa "il mio Dio" che è piccola luce "che soltanto io vedo" quando fa di poesia e trova la fede nell'uomo e nella speranza.
Lo stile è sobrio, senza vezzi, uno stile di chi dentro ha la serenità giusta per cogliere il meglio attorno e passarlo in emozioni linde, delicate, a passi leggeri ma che ti attraversano.
Grazie Giovanna!
Tinti Baldini


Archetipi di AA. VV.
A cura di Luigi Acerbi
e Daniele Bonfanti
Prefazione di Gianfranco Nerozzi
Illustrato da Diramazioni
Edizioni XII
www.xii-online.com
Collana Camera Oscura - n. 2
Narrativa antologia di racconti

La fantasia è sovente frutto dei nostri timori inconsci e si riflette in visioni oniriche in cui paure varie appaiono dilatarsi, pur in un quadro reale, determinando uno sfogo e in tal modo metabolizzando quel tanto o quel poco di oscuro che è dentro di noi.
Quando c'è la capacità letteraria di narrare questo processo nascono dei racconti che hanno un origine comune, avvolti da un'aria di mistero propria di ciò che non conosciamo e che perciò non riusciamo a spiegarci.
E' il caso di Archetipi, raccolta curata da Luigi Acerbi e da Daniele Bonfanti, che figurano pure fra gli autori.
Sono dodici racconti con cui il mistero e l'inconscio si esplicano in narrazioni accattivanti, quando addirittura non avvincono il lettore, e che costituiscono, oltre che motivo di svago, anche un interessante studio della psicologia umana.
Come sempre accade in questi casi ce ne sono alcuni che mi sono piaciuti maggiormente e altri meno, fermo restando però una comune innegabile rilevante qualità.
Fra quelli che più mi hanno colpito per il pathos che riescono a creare e per lo svolgimento che è più aderente alla realtà, pur se immersa in un contenitore di fantasia, ricordo in particolar modo jay.rtf (Lake Effect), in cui le paure recondite emergono con Pazuzu, il demone del vento, che trova una consacrazione nel reperto archeologico di una statua che lo rappresenta. L'autore, Danilo Arona, sembra volerci dire che sta a noi non materializzare il nostro inconscio.
Sempre inserito nell'archeologia è anche Il Diluvio, di Daniele Bonfanti, dove con il ritrovamento della mitica Arca con il suo Noè, risvegliatosi dopo millenni, si esprime il timore latente di una nuova tragedia, con l'innalzamento delle acque, per effetto dello scioglimento dei ghiacci.
La Fenice di David Riva, che ho particolarmente apprezzato per il linguaggio metaforico, con la forte carica della verità tale da prevalere sulle forze del male, è un appassionante duello in un campo di reclusione sovietico. Per descrizioni dell'ambiente, per l'atmosfera rarefatta, secondo me questo è il migliore dei dodici.
Ma anche Matmon, di Strumm, e Sirene, di Samuel Marolla, evidenziano timori ancestrali, con un percorso narrativo che avvolge il lettore in una spirale, senza poi dimenticare Di Madre in Figlia, di Biancamaria Massaro, che tratta con finezza psicologica nuove paure rivenienti da conquiste allucinanti della scienza.
Un discorso a parte, stante una forte componente filosofica , è invece quello che merita Il Cartografo, di Alberto Priora. Il suo è un fantastico atipico di grande creatività, ma è anche un discorso sulla continua ricerca da parte dell'uomo dei suoi limiti. Alessandro il Macedone teso alla conquista del mondo non riesce a concretizzare un'ossessione che è anche il destino di chi vuole conoscere completamente se stesso.
Non è che gli altri cinque racconti siano minori o che non possano essere considerati meritevoli di lettura, perché anche per essi il piacere è assicurato, ma, a differenza di quelli che ho citato, non hanno lasciato in me un segno così forte da costituire motivo di particolare approfondimento.
Nel complesso, comunque, consiglio caldamente di leggere Archetipi, perché sono certo che in questa antologia tutti potranno trovare più di un motivo d'interesse, oltre a trascorrere ore indubbiamente gradevoli.

Gli autori
Danilo Arona, Daniele Bonfanti, Ian Delacroix, David Riva, Giuseppe Pastore, strumm, Samuel Marolla, Biancamaria Massaro, Alberto Priora, Elvezio Sciallis, J. Romano, Luigi Acerbi.
Renzo Montagnoli


Segni di Tinti Baldini altromondo editore

Segni” di Tinti Baldini è un libro di poesie che ho letto centellinandolo come faccio generalmente con i libri di poesie.
Un libro di poesie è per me come una riserva d’ossigeno alla quale attingo quando ho bisogno di dar maggior respiro all’anima.
Generalmente non inizio mai dalla poesia della prima pagina, ma ne scelgo sempre una a caso.
E così sono subito stata catturata da “I versi” che mi hanno conquistata in un baleno “odorano di figlio/dentro il corpo/….di terra che suona/sotto i passi, di voli e cadute./….e piovono sul capo/ come petali”. Come non sentirsi in sintonia?!
Continuo a sfogliare e intravedo componimenti brevi sui quali mi soffermo incuriosita poiché so quanto si può dire in poche parole. Ed è in “Casa” che m’imbatto per prima e che posso trascrivere totalmente “Di senso amato/di furori e silenzi/di sbarre di burro”. Scorro queste brevi poesie ad una ad una ed è come osservare un quadro impressionista, tante folgorazioni emotive impresse subito sul foglio perché rimangano nella loro spontaneità e genuinità e non si dissolvano senza lasciare segno.
La libertà del verso, l’intensità e l’intrinseca tensione alla ricerca del senso dell’esistere sono alla base della poesia di Tinti. Dunque, poesia pregna, incisiva, senza sbavature, essenziale che guarda all’interno del sé per poi espandersi oltre i confini dell’io verso la vita dell’intera umanità con i suoi muti perché, il suo dolore, le ingiustizie e gli orrori come in “Auschwitz” ….” E trecce bionde a migliaia/in mucchio/e sguardi di spettro/in angoli remoti…../poi..dinnanzi all’entrata/prendi il panino/nella borsa/schiacciato/pestato e senza forma/e lo butti dentro il bidone.
L’autrice lascia scorrere il suo sguardo, a volte stupito, a volte estasiato, sempre partecipe, gioioso o addolorato perché l’indifferenza non fa parte del suo essere e la definisce così : “IndifferenzaVeder passare/ombre/e non scoprirle.” Avendo inoltre insegnato per tanti anni, leggendo questa poesia, si capisce tutto l’affetto e la comprensione che prova per i suoi “Alunni” : “Se ti va di sentire/se passa piacere/se ascolti il vento/se vuoi capire/è perché hai avuto amore”. Mentre in “Donna bambina” Tinti esprime tutta la sua amarezza per l’infanzia e l’adolescenza abbandonate a se stesse ”…Allora/ho cominciato a svuotare/il mio corpo/e poi/per sentirmi bella/a darlo in prestito.
Anche la natura non si sottrae dal suo ruolo di musa ispiratrice e si lascia cantare anche dalla nostra poetessa con questa bella “Luna/Muta assapora/di nuvole il passaggio/e di stelle/la lontananza/in silenzioso tocco/d’infinito.
Più che mai nel poetare di Tinti traspare l’essenza della sua anima, la sua sincerità nell’esprimersi, senza reticenze, senza veli e per questo la sentiamo, oltre che poeta, amica discreta, partecipe, attenta, sensibile, leale.
Mi congedo da queste mie impressioni su questa silloge con questa ultima perla lasciando a voi la meraviglia di scoprire l’intera collana:
Lascia
Lasciami/vivere/soffi leggeri/di felicità/senza sguardo/giudice o mesto:/carezza la mia gioia/e/diventerà qualcosa/di grandioso.
Grazie Tinti
Giovanna Giordani


Mafalda di Savoia Assia
Facile essere una principessa…

di Ninel Ivanovna Podgornaja
Traduzione di Alfredo Bertollo
e revisione letteraria di Pier Luigi Coda
Edizioni Solfanelli
www.edizionisolfanelli.it
Biografia

Secondogenita di Vittorio Emanuele III, Re d'Italia, e di Elena Petrovich di Montenegro, Mafalda di Savoia nacque il 19 novembre 1902 a Roma. Sposata il 23 settembre 1925 con Filippo di Assia, morì il 24 agosto del 1944 nel lager di Buchenwald, a seguito delle gravi ferite riportate nel bombardamento del campo da parte di una formazione anglo-americana.
Il suo calvario iniziò il 23 settembre 1943, dopo essere stata arrestata a Roma il 22 settembre. Era ritornata in Italia, dalla Bulgaria, il 12 settembre, atterrando a Chieti Scalo, probabilmente ignara dell'avvenuto armistizio o forse anche consapevole dell'evento, ma sicura che non avrebbe avuto rappresaglie, in quanto cittadina tedesca dopo il matrimonio con Filippo d'Assia, fra l'altro membro delle SS, anche se sospettato di essere uno dei congiurati dell'attentato a Hitler.
Venne rinchiusa a Buchenwald, sotto il falso nome di Frau von Weber, con il divieto di rivelare la propria identità.
Fu un personaggio sfortunato, in quanto la sua reclusione è da ricollegarsi unicamente al tradimento del padre e non a un'attività antinazista.
Comunque la sua è una storia quasi unica fra personaggi di sangue reale e bene ha fatto Ninel Ivanovna Podgornaja a scriverne, in un libro-biografia di Mafalda, che è anche indirettamente il racconto del crollo di una dinastia, i Savoia.
Non si pensi al solito librone di storia alla ricerca di verità, moventi, scopi, perché in fin dei conti la protagonista è diventata un personaggio solo per la sua dolorosa fine. In effetti, in un ambiente regnante dove alle donne non era consentito esprimere giudizi di carattere politico (ma Vittorio Emanuele II non voleva che il gentil sesso si pronunciasse anche in altri campi), non c'è poi molto da raccontare, se non vicende ordinarie, ma di interesse in quanto afferenti una principessa peraltro irrequieta e anticonformista rispetto al rigido e chiuso ambiente voluto dal padre.
In questo testo non troverete lo spirito critico di uno storico attento, ma episodi, matrimoni, rapporti fra nobili, sullo sfondo di un'Italia in cui la monarchia era già esautorata dal fascismo, in un clima tuttavia irreale da Belle Epoque.
In questo senso è un'importante testimonianza storica di un ceto e di un'epoca, che gli orrori della guerra cancelleranno.
Mafalda di Savoia, suo malgrado, ha segnato con la sua morte la resa di una dinastia ai venti nuovi, vittima di quell'armistizio con cui il padre tradì non solo i tedeschi, ma anche gli italiani, lasciandoli in balia di un ex alleato furioso e feroce.
Il libro è corredato da numerose fotografie dei luoghi e delle persone di cui parla.
Di gradevole lettura, può essere un valido aiuto per saperne di più di un periodo così tragico della nostra storia.

Ninel Ivanovna Podgornaja è nata nel 1930 a Pavolge, vicino a Stalingrado. Nel 1955 si laurea in lingue straniere a Krasnodar e si specializza all'università di Mosca in lingue romanze. Sempre a Mosca lavora come corrispondente nel Ministero degli Affari Esteri.
A Riga, in Lettonia, fonda il Museo Pushkin e dei Paesi Baltici di cui è attualmente direttrice e storica.
Traduce autori italiani e pubblica in Russia opere a tema storico e poetico fra le quali: I cavalieri dell'ordine di San Giorgio di primo e secondo grado, Per l'amore e per la patria: trecento biografie di donne insignite della Croce di Santa Caterina, Io vi ho amato: le Muse di Pushkin e, sempre su Pushkin, l'interessante e approfondito studio sui rapporti intrattenuti dal Poeta con i Paesi Baltici: E Alessandro Serghievic passeggia per le strade del duomo.
Nel 2004, dopo una personale ricerca con la famiglia Assia-Savoia, edita a Riga la drammatica storia di Mafalda, Facile essere una principessa...
Renzo Montagnoli


Marina di Carlos Ruin Zafòn Ed. Mondadori

Romanzo narrativa
Prefazione.

“Marina è il libro più indefinibile e il più difficile dei tanti romanzi che ho scritto, e forse il più personale di tutti. Scritto a Los Angeles tra il 1996/97, all’età di 33 anni quando iniziavo a sospettare che la prima gioventù mi stesse scivolando tra le dita a velocità di crociera”.
Carlos Ruiz Zafòn ha scritto questo romanzo anticipando quelli che sarebbero stati i topos comuni agli altri due grandi scritti di successo: “L’ombra del vento” e  “Il gioco dell’angelo”: la Barcellona, gotica, ammantata dal mistero del suo passato, le atmosfere magiche, gli intrighi che creano aspettative nel lettore. Certo aver letto Marina, dopo i due precedenti, il romanzo se ne svantaggia perché abituati al tipico linguaggio avvolto di enigma e sorpresa, perde tanto della sua autenticità. Sembra tutto già letto e conosciuto prima, si anticipano le mosse investigative ed espressive dell’autore, la risultanza è una tiepida piacevolezza scevra di quel sentimento di  trepidazione e sospensione dell’Ombra del vento, in particolare. Trait d’union dei tre romanzi è un protagonista, ragazzo impelagato in storie più grandi di lui, con lo stesso amore per la bellezza, la conoscenza e una sorta d’ingenuità d’animo in contrasto netto con i fatti in cui è coinvolto. Si tratta di Oscar Drai, un giovane trentenne che rievoca un periodo della sua vita quando studente quindicenne studiava al collegio di Vallvidrera a Barcellona. “Era la fine degli anni ’70 Barcellona era un’illusione di vicoli e viali in cui si poteva viaggiare a ritroso nel tempo oltrepassando la soglia di una portineria o di  un caffè. Il tempo e la memoria, la storia e la finzione, si fondevano in quella città stregata come acquarelli sotto la pioggia”. Fu lì…così l’incipit del romanzo. Conoscere una giovane ed  enigmatica fanciulla d’altri tempi come Marina, dalla bellezza incorporea e delicata,  portatrice di un dolore nascosto, suo padre, il pittore German e la defunta e rimpianta moglie Kirsten sconvolgerà la sua vita; sarà un percorso di maturazione e di passaggio verso l’età adulta. Il mistero della scomparsa di  Kolvenik, di  sua moglie Eva e di altri oscuri personaggi connotati da una forte carica fiabesca e surrealista  contornano tutta la vicenda. Siamo nei meandri di una città che nasconde   nel suo ventre segreti di un passato mitizzato. Le figure così ammantate di misteriosa aura fluttuano sospese ed evanescenti nella mente del giovane Oscar e la realtà è un sogno ad occhi aperti. Le antinomie tra realtà e immaginazione, tra amore e odio, tra bellezza ed orrore sono i tratti distintivi della materia narrativa di Zafon, le similitudini enfatiche percorse da un senso lugubre e sepolcrale, il fascino per l’ignoto e, spesso, il dolore della scoperta di ciò che non vorremmo. Segni del destino  ricorrenti trascinano i personaggi verso confini inconoscibili.
Qua e là Zafòn fa dire ai suoi personaggi frasi di saggezza come perle “rare” tipo: “Dipingere è scrivere con la luce. Innanzitutto devi imparare il suo alfabeto; poi la sua grammatica. Solo allora potrai avere stile e magia”. “La bellezza è un soffio rispetto al vento della realtà”. “Se la gente pensasse un quarto di quanto parla, questo mondo sarebbe il paradiso”. “La verità non si trova, è lei che trova noi . “Ricordiamo solo quello che non è mai accaduto perchè le cose reali succedono solo nell’immaginazione”. Queste trame, così coinvolgenti, ricordano certi romanzi ottocenteschi ricchi di colpi di scena che si prestano a traduzioni filmiche, perché Zafon sa rendere visive le descrizioni  che scrive come sequenze cinematografiche. Sembra di essere dentro il libro leggendo quella polvere nebulosa che si posa su palazzi e cose abbandonati dall’incuria del tempo, quei silenzi sinistri rotti da impercettibili rumori di sottofondo e creature che emergono dal nulla e al nulla ritornano. Zafon rispolvera il passato e ce lo presenta trasfigurato dalla memoria e in una commistione di fantasia e vero. Un romanzo godibile, da lettura veloce e ininterrotta, dallo stile ampolloso e, a volte, stucchevole, un puro romanzo d’evasione: e forse, non è poco.        

L’autore: Carlos Ruiz Zafòn, nato a Barcellona il 25-9-1964, è autore di assoluto talento e di successo mondiale, ha cominciato la sua carriera nel 1993, con una serie di libri per bambini. Nel 2001 ha pubblicato il suo primo romanzo per adulti, L‘ombra del vento (Mondadori 2004), divenuto immediatamente un caso letterario internazionale, con un milione e mezzo di copie vendute solo in Italia. Con Il Gioco dell’angelo, "El Juego del Ángel" torna all’universo del Cimitero dei Libri Dimenticati, che tutti i suoi lettori ricordano con grande passione. Le sue opere sono tradotte in più di quaranta lingue e hanno conquistato numerosi premi e milioni di lettori nei cinque continenti. Vive a Los Angeles dal 1993, dove è impegnato nell'attività di sceneggiatore. Collabora con le pagine culturali di “El Pais” e “La Vanguardia”.
Arcangela Cammalleri


L'affaire Moro di Leonardo Sciascia Sellerio Editore
Nota dell'editore
Collana La rosa dei venti
Saggistica politica

Fra il 12 dicembre 1969 (strage di piazza Fontana a Milano) e il 2 agosto 1980 (strage della Stazione di Bologna) si sono consumati in Italia i cosiddetti anni di piombo, secondo una strategia della tensione che vedeva da un lato movimenti extraparlamentari di destra e dall'altro analoghi di sinistra.
Fu un periodo tragico, purtroppo indimenticabile e di cui ancora si ignorano, più che le origini degli eversori, le menti segrete che li manovravano.
In un contesto di stragi senza vittime predestinate, di gambizzazioni, di rapimenti, di omicidi mirati, si inserisce anche la famosa vicenda di Aldo Moro, presidente della Democrazia Cristiana. La mattina del 16 marzo 1978, lo stesso giorno il cui il nuovo governo guidato da Giulio Andreotti e costituito con l'appoggio del Partito Comunista Italiano si apprestava a presentarsi al Parlamento per il voto di fiducia, l'automobile che trasportava Aldo Moro dalla sua residenza alla Camera dei Deputati fu intercettata da un gruppo di fuoco delle Brigate Rosse. Gli uomini della scorta, 5, furono tutti uccisi, mentre il presidente della Democrazia Cristiana venne sequestrato. Tenuto in prigionia per 55 giorni, processato e condannato a morte, il suo corpo fu fatto ritrovare il 9 maggio nel baule di una Renault 4 parcheggiata a Roma in via Caetani, ubicazione non scelta a caso perché a poca distanza da Piazza del Gesù, dove c'era la sede nazionale della Democrazia Cristiana, e da via delle Botteghe Oscure, dove invece si trovava la sede nazionale del Partito Comunista.
Leonardo Sciascia, all'epoca parlamentare del Partito Radicale e poi membro della commissione d'inchiesta sul delitto Moro, ha scritto un libro che ripercorre con spirito critico quei quasi due mesi di prigionia dell'uomo politico democristiano.
Sulla base dei comportamenti dei politici, soprattutto dello scudo crociato, e delle lettere che Moro faceva pervenire ai compagni di partito e ad altri, assistiamo al tentativo di dare una risposta ai tanti interrogativi della vicenda.
Scritto a caldo, in quell'anno rovente, pubblicato prima in Francia e solo successivamente in Italia, L'affaire Moro suscitò, come del resto aveva già previsto Sciascia, un'ondata di incomprensioni e di polemiche, e questo costituì anche la riprova che il lucido percorso intellettuale seguito dall'autore per arrivare ad avere un po' di chiarezza in effetti aveva raggiunto il suo scopo.
Uno scrittore attento a svelare ciò che si cela sempre sotto l'evidenza non poteva, sulla base dei pochi elementi certi, non praticare un'analisi fredda, razionale, che lo portasse a formare un'idea sì personale, ma suffragata dalla bontà del metodo, consistente nell'interpretazione delle lettere inviate dal politico rapito dal suo luogo di prigionia. Moro, che era stato un maestro nel dire in un modo per far intendere in un altro, viene così svelato grazie a quelle frasi, a quei periodi mai sicuramente dettati dai suoi carcerieri, come invece molti dei suo colleghi di partito sostenevano.
L'analisi logica di un testo di un letterato della qualità di Sciascia, capace di discernere fra apparente inutile forma e reale velata sostanza, finisce con il coinvolgere il lettore che cerca di pervenire a una sua personale interpretazione, tuttavia quasi sempre coincidente con quella dell'autore siciliano.
Emerge così la certezza che un partito che non aveva mai avuto il concetto di stato improvvisamente trovò nei suoi massimi esponenti uomini ampiamente permeati da questo principio e così, opponendosi a uno scambio di prigionieri, come richiesto dalle Brigate Rosse, Andreotti, Cossiga, Piccoli, insomma gli alti nomi della Democrazia Cristina, di fatto consentirono l'esecuzione di Aldo Moro, un atto crudele tuttavia all'apparenza inutile.
Sciascia accenna appena - e del resto costituisce solo un'ipotesi non suffragata da riscontri certi - che certamente l'aver Moro favorito un governo con l'appoggio del Partito Comunista non risultò cosa gradita agli Stati Uniti, e nemmeno all'ala marxista estrema, più propensa alla lotta di classe che agli accordi politici.
L'impressione che si ricava è che la morte del presidente della Democrazia Cristiana fosse stata decisa a priori, indipendentemente dall'esito di un processo politico in cui Moro non disse nulla di più di quel che già non si sapesse.
L'affaire Moro, che riporta alla fine la cronaca storica di quei 55 giorni, nonché la relazione di minoranza presentata dallo stesso Sciascia al termine dei lavori della Commissione Parlamentare d'inchiesta costituita per far luce sull'intera vicenda (e la relazione di maggioranza più che far luce amplia le zone d'ombra), è un libro assolutamente da leggere, per il suo elevato valore storico e politico, unito all'elevata qualità letteraria che ha sempre contraddistinto le opere del grande scrittore siciliano.

Leonardo Sciascia (Racalmuto, 8 gennaio 1921 – Palermo, 20 novembre 1989). E’ stato autore di saggi e romanzi, fra cui: Il giorno della civetta (Einaudi, 1961), A ciascuno il suo (Einaudi, 1966), Il contesto (Einaudi, 1971),  Todo modo (Einaudi, 1974), La scomparsa di Majorana (Einaudi, 1975), I pugnalatori (Einaudi, 1976), Candido, ovvero Un sogno fatto in Sicilia (Einaudi, 1977), L'affaire Moro (Sellerio, 1978), Il cavaliere e la morte (Adelphi, 1988), Una storia semplice (Adelphi, 1989).
Renzo Montagnoli


Che la festa cominci  di Niccolò Ammaniti Einaudi Stile libero Big

Quarta di copertina: Benvenuti al party del secolo.
L’Italia fatta a pezzi in una sfrenata ed esclusiva Apocalisse.

Sottotitolo “Quel che resta dell’Italia…”ovverosia una favola a rovescio
Un Ammaniti inedito per certi versi; toltasi la pesantezza di testi più grevi, si è lasciato scivolare una storia impazzita che ricorda certi musical degli anni ottanta dove tutto è esagerato e paradossale ( ma non troppo). La trama, in breve, è quella di un parvenu della peggior specie, Sasà Chiatti, un immobiliarista/palazzinaro, cafone quanto non  basta e megalomane all’ennesima potenza, il quale organizza una super-mega festa a Roma, a Villa Ada, di  sua proprietà, ed invita “Tutti i nomi che contano” del rutilante mondo dei VIP. Ci sono proprio tutti, politici, attori e attoruncoli, artisti di svariati generi, calciatori, donne e donnine inconsistenti se non ornate di bellezza, per lo più rifatta, elefanti, tigri e quant’altro, insomma un campionario  e una fauna umana, archetipa di una specie tanto stigmatizzata e, al contempo, corteggiata dai  mass media perché spettacolarizza e sensazionalizza! C’è lo scrittore di successo, “Tu sei forte, tu sei bello, tu sei imbattibile, tu sei incorruttibile, tu sei un …AH…AH…Cantautore”, Fabrizio Ciba, preoccupato solo del suo ego e dell’immagine che deve dare di sé. Da antologia cinefila, la scena…”Con un colpo gli strappò  la chiavetta USB da 40 gb dal collo…” del grande autore dei capolavori della letteratura italiana degli anni settanta, ormai cadavere. Ci sono le belve di Abaddon, una patetica setta satanica di Oriolo Romano, il cui leader Saverio Moneta cerca nel male un riscatto alla sua tapina e fantozziana vita. Una folla di personaggi affolla la scena narrativa, impazza in preda ad un’euforia lugubre da bolgia infernale, è una festa tragicomica, iperrealistica e sopra le righe dall’inizio alla fine. Un’umanità tronfia e ridicola, persa nel suo isterico vaneggiare, tesa ad inseguire e perseguire, spesso il nulla, cieca nel non vedere il precipizio che gli si para di fronte. Sono scene apocalittiche, in tono mondano, fatuo e satirico, quelle che si palesano davanti agli occhi dei lettori, dove tutto è esasperato fino al parossismo,  la comicità graffia e irride. Sembrano tutti delle marionette senza umanità e sensibilità, omnia transeat “Con il tempo, anche questa brutta esperienza sarebbe passata, avrebbe perso la sua drammaticità e l’avrebbe ricordata con un misto di divertimento e di rimpianto”,  gli umani si orientano come certi voltagabbana della politica e non. Critica feroce all’ex URSS, gli atleti sovietici partecipanti alle olimpiade del ’60 a Roma che preferiscono alla vita soffocante in Unione Sovietica quella altrettanto soffocante, ma libera delle catacombe: alla prigionia della mente la libertà di scelta… Siamo una società, si spera una parte, alla deriva, travolti da quell’onda anomala, “ l’acqua della condotta esplose dal bacino ed aprì una voragine nella terra e sfondò la volta di tufo di una galleria che passava proprio sotto il lago, e cominciò a riempirla come fosse un’enorme tubazione”, che tracima e porta a galla senza una razionale selezione. Certo che siamo anni luce lontani dalla morale manzoniana della peste che amministra la giustizia separando i vizi dalle virtù; i confini  tra il male e il bene non sono più tracciabili, tutto può essere accettato, importante che raccolga consensi e plausi pubblici. Il romanzo non è un pamphlet, Ammaniti non è un fustigatore delle storture e delle deviazioni di certa umanità, ma come gli artisti di razza, imbastisce una favola, ma rovesciata, non sono protagonisti gli animali umanizzati, bensì gli uomini animalizzati in tutta la loro ferinità. Dialoghi e battute sarcastiche e comiche fanno da contrappunto ad uno stile pungente e carico di vena sardonica dove galleggia ciò che resta della nostra “Povera Patria” , gli avanzi di un pranzo o di una cena mal digerita.  

L’autore Niccolò Ammaniti è nato a Roma nel 1966. Ha pubblicato Fango 1996, Branchie 1997, Ti prendo e ti porto via 1999, Io non ho paura 2001, Come Dio comanda. Dei suoi libri sono stati tratti film di successo, di importanti registi. E’ pubblicato in 44 Paesi e il suo sito ufficiale è all’indirizzo www.niccolòammaniti.com.
Arcangela Cammalleri


Quando la notte  di  Cristina Comencini Ed. Feltrinelli
Romanzo narrativa

Due protagonisti assoluti, Marina, giovane madre del piccolo Marco, sposata con Mario  e Manfred separato da Luna. Due vite complicate e chiuse s’incontrano e si aprono l’uno all’altra per un’attrazione misteriosa ed un’affinità intrinseca che si mostra in apparente ritrosia e avversione. L’autrice al di là dei dialoghi stringati ed essenziali, fa parlare le menti di Marina e Manfred in una sorta di inconsapevole telepatia che li fa comunicare a distanza; si leggono reciprocamente i pensieri misti a  diffidenza e fastidio, l’uno conosce quello che solo lui/lei sa del proprio intimo agire e sentire. La montagna, il freddo, i paesaggi aspri e silenziosi come i caratteri dei suoi abitanti fanno da sfondo alla vicenda, lontane dai rumori frenetici delle città, sembra che le sofferenze si attutiscono o si esacerbano in ruvidezza e singolarità dei comportamenti. Manfred appare come il tipico montanaro “strano” chiuso nel suo bozzolo di vita  scandita dalle azioni quotidiane in cui la scontrosità e le parole smozzicate e rade ne caratterizzano l’indole, esasperata dall’infanzia spezzata per aver vissuto due abbandoni femminili. Il rancore verso il genere femminile ne limita le prospettive esistenziali donandogli una corazza che difficilmente si lascia scalfire, ma quando arriva Marina una crepa scalfisce le sue difese così ostinatamente costruite. Marina vive una maternità sofferta ed inconfessabile, cerca di controllare la sua mente moltiplicando le attenzioni verso il figlioletto e contrastando un’oscura e insopprimibile inadeguatezza di madre che la colpevolizza e la tormenta. Le fragilità e le contraddizioni di due animi si rivelano a ciascuno e in un tempo infinitesimale  a fronte di un’intera esistenza, quel  desiderio estremo che provano l’uno per l’altro, trasporta Marina a cercarlo dopo anni, a rivedersi e ad  avvicinarsi fisicamente. Il finale rimane sospeso: in dubbio per  Manfred: “ Se vado a cercarla, chi lo sa come la trovo?” in consolatoria attesa mista a incertezza per Marina: “Se ha dimenticato tutto, se non verrai mai, se è stata una fantasia. Ma non mi muovo, dovessi morire senza più incontrarti, sei tu che devi venire da me”. Questo romanzo dallo stile asciutto e dalla prosa colloquiale, parla di sentimenti senza scadere nel sentimentalismo, certo non è tra i romanzi migliori dell’autrice, laddove il tunnel interiore dei personaggi era percorso in profondità e capace di rifrangere nel lettore coinvolgimento emotivo (vedi La bestia nel cuore), tuttavia si lascia leggere senza annoiare,  diremmo, a mio modesto parere, senza infamia né lode.

L’autrice. Cristina Comencini è nata a Roma nel 1956, scrittrice e regista, vive e lavora a Roma. Con Feltrinelli ha pubblicato Le pagine strappate, 1991, Passione di famiglia 1994 ( Premio Rapallo), Il cappotto del turco 1997, Matrioška 2002, La bestia nel cuore 2004, Due partite 2006, L’illusione del bene 2007. Come regista ha firmato:Zoo 1988, La fine è nota 1992, la trasposizione cinematografica del romanzo di Susanna Tamaro Va’ dove ti porta il cuore 1996, Matrimoni  1998, Liberate i pesci 2000, Il più bel giorno della mia vita 2002, Bianco e nero 2008,. Dal suo romanzo La bestia nel cuore, che ha vinto il premio Castiglioncello, Cristina Comencini ha tratto il film candidato all’Oscar. Nel 2006 ha messo in scena Due partite, scritto per il teatro, da cui nel 2009 Enzo Monteleone ha tratto l’omonimo film.
Arcangela Cammalleri


Il viaggiatore di Agartha di Abel Posse Edizioni Tre Editori www.treditori.com
Narrativa romanzo

<Chiameremo Vril l'energia cosmica, primaria, che risiede in ogni uomo. L'atrofizzata forza dei geni, degli eroi. La forza che alita sotto la nostra necrosi>.
<E' incredibile la quantità di vita che possiede ancora il defunto Wood. La vive in me.
>

Al movimento nazionalsocialista si sono volute forzatamente attribuire origini filosofiche, prendendo a pretesto il famoso Superuomo teorizzato da Friedrich Wilhelm Nietzsche. Indubbiamente, nella visione pessimistica del filosofo tedesco, che vede concettualmente il mondo occidentale e, soprattutto, l'Europa come una colossale messinscena, considerando che i suoi valori come la scienza, il progresso e la religione siano privi di fondamento e abbiano una natura esclusiva di finzione, il nazismo trovò la base per la definizione di un uomo nuovo, depurato dai vizi borghesi d'origine e quindi di razza pura, senza mescolanze che ne possano minare l'identità.
In realtà le origini di questa ideologia si trovano nella Società di Thule, di carattere segreto, fondata nel 1910 da Felix Niedner, sotto l'influenza degli scritti di Lanz von Liebenfels, un miscuglio di paganesimo nordico, di antisemitismo, di teosofia. Questa setta si ispirò al buddismo tibetano, deformandolo ed adattandolo alle sue esigenze di potere, nonché alle teorie esoteriche di Helena Petrovna Blavatsky, celebre medium, che asseriva di essere in rapporto telepatico con gli antichi "Maestri sconosciuti", i superstiti di una razza eletta, che sarebbe vissuta in Asia Centrale, fra il Tibet e il Nepal, e che si sarebbero rifugiati a causa di un'immane catastrofe in una zona desertica, fondando una civiltà sotterranea, la mitica Agartha.
Ora i seguaci di Thule miravano, attraverso contatti extrasensoriali, a collegarsi con questa sorta di superuomini, al fine di ricreare la razza superiore.
Tutto questo preambolo è indispensabile per la comprensione del libro di Posse, un autentico capolavoro, in parte romanzo, anche storico, in parte fine analisi dell'identità dell'autentico nazista.
In un anno, il 1943, in cui le sorti della guerra già si avviano alla sconfitta per il Reich, Hitler affida una missione difficile e disperata a un giovane delle SS: trovare la mitica Agartha e con i poteri dei suoi superuomini ribaltare le sorti del conflitto.
E' un'avventura nel mistero, un lungo viaggio per strada e all'interno di sé in cui il protagonista vedrà cadere una a una le certezze dell'ideologia e Agartha in un certo senso rivelerà il magico potere di far riacquistare all'uomo la consapevolezza dei suoi limiti, l'impotenza di fronte a fatti ed eventi più grandi di lui.
Altro motivo di interesse è la progressiva immedesimazione del personaggio principale con un agente inglese, Wood, di cui ha preso l'identità, dopo che questi, catturato in Francia, è stato ucciso dai nazisti.
Prima le osservazioni, poi i dubbi e infine i raffronti fra il tedesco e l'inglese, finiscono per incrinare la monoliticità del primo, il tutto narrato con una finezza psicologica di grande effetto.
La vicenda si svolge in un territorio in cui il tempo non ha senso, ci sono sì albe e tramonti, ma non esistono giorni della settimana, né mesi, né ore, tutto appare avulso dai concetti dell'uomo per così dire evoluto, in un'unione cielo, terra e anima che porta piano piano a un'infinita beatitudine e anche l'aspetto sessuale appare sfrondato da relazioni complesse e caotiche, in una naturalezza completa che finisce per costituire un altro mezzo per giungere all'equilibrio perfetto.
Per chi teme di trovarsi di fronte a qualche cosa di fantastico senza alcun fondamento dico solo che c'era chi credeva, c'era chi basava i suoi concetti distorti su un esoterismo a tratti raffinato, a tratti volgare.
Invece, per coloro che possono paventare una certa pesantezza, evidenzio che la struttura narrativa è agile e snella e si avvale di un ritmo e di una serie di cambi di scena propri dei libri di avventura.
Non posso dimenticare, poi, la straordinaria capacità dell'autore nel rappresentarci un mondo sospeso fra sogno e realtà, con immagini di deserti, di alte montagne, di riti tibetani che sembrano scorrere davanti ai nostri occhi stupiti e ammirati.
E sta proprio in questo la grandezza del libro di Posse: l'aver parlato di un tema così difficile come l'esoterismo nazista attraverso una struttura narrativa propria del romanzo, rendendolo così gradevole e maggiormente accessibile, senza che con questo si sia corso il rischio di esaltare Hitler e i suoi seguaci, visti come i protagonisti di un delirio immane in un crepuscolo di pretesi dei.
Termino dicendo solo che questo libro è imperdibile e che dopo averlo letto nasce magicamente il desiderio di intraprendere questo viaggio.

Abel Posse è nato a Cordoba, Argentina, nel 1934. Diplomatico di carriera, studioso di politica internazionale e scrittore, è autore di numerosi romanzi di successo tradotti in molte lingue tra cui I cani del Paradiso, La Passione secondo Eva, Diari di Praga, L'inquietante giorno della vita.
Con Il Viaggiatore di Agartha ha ottenuto diversi premi e il libro si è trasformato in un vero e proprio oggetto di culto.
Renzo Montagnoli


Breviario di italiano di Lucio D'Arcangelo Edizioni Solfanelli www.edizionisolfanelli.it
Saggistica
Collana Micromegas

Non posso fare a meno di concordare con Lucio D'Arcangelo sui pericoli che sta correndo la nostra lingua, in una evoluzione che assomiglia però più a un imbarbarimento che a un naturale ed equilibrato progresso.
E' in quest'ottica che l'autore ha scritto questo breve testo, che ha chiamato Breviaro di italiano, sottotitolato "18 punti per salvare la nostra lingua".
Esagerazioni, timori infondati? Assolutamente no, perché purtroppo è sotto gli occhi di tutti, ma soprattutto di chi ama il proprio paese e la propria lingua che è in atto una progressiva spersonalizzazione che ne fa perdere i caratteri basilari, dando luogo a un linguaggio sgrammaticato, con un abuso ingiustificato di anglicismi.
Giustamente D'Arcangelo scrive che Dante creò una lingua per creare una nazione; se continuamente ci allontaniamo dal vocabolario delle nostre parole si perde così non solo l'identità linguistica, ma anche quella nazionale, tanto più che ancor oggi l'unico elemento unificatore è il linguaggio.
Purtroppo ci stiamo dimostrando un popolo ingrato delle nostre origini, di cui invece dovremmo essere fieri, prono alla conquista anche culturale degli Stati Uniti, di cui tendiamo a scimmiottare quell'inglese che è già una derivazione e una deformazione di quella lingua che è nata in Gran Bretagna.
Il ricorso a termini inglesi, anche storpiandoli, spesso in sostituzione di analoghi italiani, è la chiara dimostrazione dell'asservimento, da noi stessi voluto, a un paese che ha tradizioni culturali inferiori alle nostre.
E' un servilismo non preteso dagli americani, ma, purtroppo, quasi amato dagli italiani.
In particolare, l'inglese è diventato una sorta di latinorum, di pessimo gusto, adatto a tutti gli usi e le occasioni.
Ed ecco che si scopre che sono circa 6.000 gli anglicismi in uso nella nostra lingua, quasi sempre del tutto inutili, perché vanno a sostituire termini già esistenti.
Che senso ha ricorrere al vocabolo share quando già, assai più comprensibile nel significato, abbiamo il termine quota? E perché, per una momentanea sosta nel lavoro, non diciamo più "facciamo una pausa", ma quasi ci ingrassiamo a dire "facciamo un break"?
Si ha l'impressione di certi parenti poveri e ignoranti che, arricchitisi di colpo, vogliono dimostrare anche una crescita culturale ricorrendo, nel linguaggio, a termini astrusi, a vocaboli stranieri (nel XIX secolo faceva tanto "chic" intercalare delle parole francesi), quasi sempre usati a sproposito o addirittura senza conoscerne esattamente il significato.
E come sta sparendo nell'uso comune il congiuntivo, incorrendo peraltro in grossolani errori, questo popolo di santi, di navigatori e di storpiatori di parole si è inventato anche dei neologismi in sostituzione di termini da sempre usati, forse per gratificare di ben altra considerazione attività che restano sempre del tutto manuali, ma più che necessarie e dignitose.
Il netturbino diventa così operatore ecologico, il bidello operatore scolastico. A parte che così al posto di una parola se ne usano due, la nuova terminologia non riesce a chiarire esattamente l'attività svolta e non c'è nemmeno la possibilità di un'analisi etimologica per comprenderla. L'operatore ecologico, tanto per dare un esempio, potrebbe essere non solo l'operaio addetto alla raccolta delle immondizie, ma anche colui che si interessa alla conservazione della qualità dell'acqua, dell'aria, ecc. Per dirla in breve, per non far capire il tipo di lavoro svolto, ci si è inventati una qualifica che non ha nessun senso.
Del resto, di pari passo con lo svilimento della lingua si nota una sfilacciatura dell'unità nazionale, non più cementata da un idioma comune che richiama a quelle tradizioni che conferiscono agli italiani una base storica e culturale di cui tranquillamente si sono dimenticati, con il risultato che siamo diventati un popolo incapace di costruire il presente e di programmare il futuro.
"Ahi serva Italia, di dolore ostello", giusta invocazione di Dante, ma questa volta gli italiani non sono servi d'altri, ma di se stessi, bambini non cresciuti che scimmiottano i grandi.

Lucio D'Arcangelo è stato allievo di Giuliano Bonfante all'Università di Torino, dove si è laureato in Glottologia con una tesi su "La trascrizione dei nomi iranici in greco". Docente dal 1971, prima presso la Facoltà di Magistero dell'Università di Torino e poi presso la Facoltà di Lingue dell'Università degli Studi "G. D'Annunzio", nel 2000 ha lasciato l'università per dedicarsi più liberamente agli studi.
È stato il responsabile tecnico-scientifico del disegno di legge n. 993/2001 (ora n. 354/2008), per l'istituzione del Consiglio Superiore della Lingua Italiana.
Tra i suoi ultimi libri Difesa dell'italiano (Roma 2003), considerato una specie di "libro bianco" sullo stato della nostra lingua.
Già collaboratore del quotidiano "Il Tempo", negli ultimi anni ha scritto su "Libero" e "Il foglio". Nel 2006 ha partecipato alle trasmissioni di RAI International e in particolare al programma "Viva Dante!".
Attualmente collabora a "Vita e pensiero" e a "Lingua italiana d'oggi".
Renzo Montagnoli


Il colore del caffè di Arturo Bernava Edizioni Solfanelli www.edizionisolfanelli.it
Copertina di Vincenzo Bosica
Narrativa romanzo

Di un libro si devono leggere le pagine interne per poterlo valutare, ma mi permetto questa volta di iniziare parlando della copertina di Vincenzo Bosica, che introduce benissimo all'atmosfera del romanzo.
Quei tre personaggi d'altri tempi, fotografati lungo la via di un borgo, che si nota con le sue torri sullo sfondo, il militare che fa parte del terzetto e, più in alto, quasi a sbucare dal cielo, le immagini dei volti di un maresciallo dei carabinieri e di una donna sognante sono la miglior porta d'ingresso che potesse essere fatta per una vicenda che, al primo colpo, può sembrare scontata, ma che poi, evolvendo pagina dopo pagina, avvince il lettore costringendolo, beninteso volentieri, a vivere in un'epoca passata e in un mondo piccolo, popolato da piccoli grandi uomini.
Bernava è riuscito a ricreare l'atmosfera di un paesino abruzzese nel periodo che va dagli anni '30 alla fine della seconda guerra mondiale, una realtà chiusa solo in apparenza, perché nell'ambito ristretto fioriscono personaggi e idee forse più che in una grande città.
C'è tutta la solidarietà della povera gente, la dignità di quelli che sembrano vinti dalla vita, ma che invece hanno saputo conoscere il suo vero significato, il tutto raccontato con piccole storie che piano piano si concatenano, dando vita a un affresco corale di rara efficacia e peraltro assai gradevole.
Sì, il personaggio principale è il maresciallo Modiano, della locale stazione dei Regi Carabinieri, ma all'intorno si animano figure solo in apparenza minori, ognuna con un ruolo ben definito che recita al meglio.
Romanzo che agli inizi può apparire senza pretese, Il colore del caffè finisce con il diventare uno di quei piccoli gioielli della letteratura che sono delle vere e proprie icone non solo per il messaggio contenuto, ma anche per lo stile, non consueto, agile, mai ridondante e che consente all'autore anche delle divagazioni di prosa poetica senza che le stesse risultino fuori luogo e comunque tediose. Anzi, queste poche parentesi sono le riflessioni del narratore che forniscono spiegazioni, consuntivi dei fatti che si susseguono, spesso esposti con un tono velatamente ironico che stempera certe malinconie che prendono a leggere del cieco Alfredo, del trovatello Nennè e di Gerolamo, rinchiuso a lungo in manicomio perché non parlasse.
In questo romanzo, poi, troviamo la grande forza del libro, la sua capacità di raggiungere i cuori, di far pensare, di emozionare, e in questo senso è un omaggio alla scrittura, alla carta stampata che permette di farla conoscere a tanti, al suo profumo inconfondibile, come quello del caffè, che piace tanto al maresciallo Modiano.
Nelle pagine c'è già chi ha fatto delle scelte, mentre alla fine ci sarà chi finalmente e consapevolmente saprà fare la sua scelta, scoprendo il vero senso della vita.
Il colore del caffè è un romanzo d'esordio, eppure sembra scritto da un autore già esperto, che rifugge facilmente la retorica e la facile commozione per offrirci un lavoro di autentica eccellenza.
La lettura è vivamente raccomandata.

Arturo Bernava, nato a Chieti nel 1970, è sposato dal 1997 con Barbara, dalla quale ha avuto due figlie, Chiara e Maria Elena. Inizia a scrivere giovanissimo, vincendo il suo primo concorso letterario ad appena dodici anni. Poi, però, causa molteplici interessi tra cui la musica e lo sport, abbandona temporaneamente questa passione per riprenderla in età adulta.
Attualmente lavora a Roseto degli Abruzzi, dove dirige una filiale del Credito Cooperativo Adriatico Teramano.
Tra i risultati letterari più importanti spiccano i primi posti ottenuti ai concorsi:
Hombres Città di Pereto 2009 (Pereto - AQ), Premio alla cultura città di Tortoreto 2009 (Tortoreto - TE), Kriterion 2009 (Avellino), Racconta la solidarietà 2009 (Salerno), San Benedetto nel cuore 2009 (San Benedetto - AP), Tutti Scrittori 2008 (Coarezza - VA), Città di Tocco da Casauria 2008 (Tocco da Casauria - PE), Una terra di leggende - Parco castelli Romani 2008 (Roma), Giammario Sgattoni 2008 (Garrufo - TE), Città di Tocco da Casauria - Premio Giovani 2008 (Tocco da Casauria - PE), Città di Pescocostanzo 2008 (Pescocostanzo - AQ), Giammario Sgattoni - Premio giuria Giovani 2008 (Garrufo - TE), Arci Equinozio 2007 (Milano), Hombres Città di Pereto 2007 (Pereto - AQ).
È risultato inoltre tra i primi posti in oltre quaranta premi letterari.
Renzo Montagnoli


Un giorno perfetto di Melania Mazzucco Libri Oro Rizzoli

La famiglia è il luogo in cui dimorano le speranze del nostro paese, il luogo che fa spuntare le ali ai sogni. 
George W. Bush
Discorso sullo stato dell’Unione, 2004

E’ di una famiglia si tratta, il nucleo ispirativo della storia, affiancata da un altro nucleo famigliare.
L’elemento distruttivo campeggia e dilania alcuni dei personaggi, la tensione accomuna e unisce il lettore e sullo sfondo una Roma vista dagli occhi di chi la ama e la vive. Tutto accade nell’arco di 24 ore, in una notte di maggio, a Roma, un giorno che per tutti i protagonisti della pietosa storia doveva essere perfetto e compiuto, in un appartamento di via Carlo Alberto riecheggiano degli spari, si sentono delle grida d’aiuto. Il romanzo inizia dalla fine e come uno squarcio che si apre vivono a ritroso Emma Tempesta separata dal poliziotto scelto Antonio Bonocore e i due figli, l’adolescente Valentina e il piccolo Kevin, dall’altra barricata l’onorevole avvocato Elio Fioravanti a cui Antonio fa da capo - scorta, la seconda giovane moglie Maja, il figlio del primo matrimonio Ari - Zero, il nome che rispecchia il nichilismo e l’anarchia del suo carattere e la piccola Camilla. Come figure marginali, ma non per questo meno importanti, il professore d’italiano di Valentina e la madre di Emma. I destini degli uni s’intersecano con i destini degli altri in un apparente e casuale gioco di vite incrociate e sospese. Sentimenti di fondo, una profonda sofferenza e un’estenuante lacerazione degli animi che non lasciano spazio alla speranza se non per intermittenti barlumi di luce. Grande l’introspezione psicologica dei personaggi, Emma ritratto di donna sensuale e ferita più volte dalla vita, Maja, delicata e preziosa che pur sente un’enigmatica attrazione per Aris – Zero, lontano dal suo patinato e ipocrita mondo alto-borghese; Antonio che come un animale ferito, nella sua nebulosa sofferenza cova la più inammissibile vendetta trasversale e innaturale e l’onorevole Fioravanti che sente pesare amaramente come un totale fallimento e la sua carriera politica giunta al capolinea e la sua identità di essere. Grande spazio ai dettagli, ai particolari dell’anima e del cuore. Roma bella suggestiva e grandiosa, carnale, sfatta, vista attraverso i finestrini della metropolitana, dai quartieri esclusivi tra palme e magnolie di ville e giardini privati ai palazzoni di periferia come torri di cemento armato scrostato, ultimi avamposti della città fra un prato punteggiato di panchine divelte e una brughiera incolta. Edifici simili a caserme o prigioni dalle verande abusive, dalle padelle di parabole e panni stesi ad asciugare sui balconi. Sul filo di una catastrofe imminente si dispiega la struttura narrativa come un’erosione mentale e fisica, l’autrice racconta paure e infelicità, stati d’animo stratificati e mai in superficie in uno stile fluente di parole dense e forti che lasciano il segno.

Riporto: Notte
Sì, passerà il tempo, che tutto accomoda, e si ristabiliranno i rapporti di prima, cioè si ristabiliranno in tal grado che io non sentirò sconvolgimento nel corso della mia vita. Lei deve essere infelice, ma io non sono colpevole, e perciò non posso essere infelice.
Lev Tolstoj, Anna Karenina

L’autrice: Melania Mazzucco è nata a Roma. Prima di Un giorno perfetto ha scritto Il bacio della Medusa 1996, La camera di Balthus 1998, Lei così amata 2000, Superpremio Napoli e Superpremio Vittorini, Vita premio Strega 2003. I suoi romanzi sono tradotti in ventun paesi.
Arcangela Cammalleri


Tracce d’infinito
di Beatrice Zanini
Prefazione di Renzo Montagnoli
Postfazione di Cristina Bove
In copertina immagine di Elia Belculfiné
Edizioni Il Foglio Letterario
www.ilfoglioletterario.it
ilfoglio@infol.it

Collana Promo Poesia

Siamo tutti viandanti lungo un percorso dall’alba al tramonto, siamo di passaggio e quasi sempre procediamo soli. Sono rari gli incontri e spesso casuali, ma quando si tratta di un contatto poetico si scopre l’immensa bellezza di trovarci insieme.
Bea è apparsa come una cometa, un lampo di luce che ha illuminato noi viandanti, un attimo solo, ma ha lasciato dentro di noi il palpitante calore dei suoi versi, ha riflesso in noi la sua anima e questa prefazione a un libro -  che avrebbe meritato in ogni caso di essere pubblicato - altri non è che la riconoscenza di un poeta a un altro poeta.
Questa è una raccolta abbastanza consistente di liriche, di quella traslazione in parole dei suoi sentimenti e delle sue emozioni, dalle prime ancora incerte, ma già avviate con sicurezza verso uno stile compiuto, alle ultime, in cui ha messo tutta se stessa, il suo saluto al mondo terreno e agli amici poeti.
Se piace leggere questi versi, che profumano d’amore (Sapesse parlare il mio cuscino / -ti stupiresti- dei tanti abbracci / lievitati tra le radure /  o dietro gli scogli / che non hanno occhi e bocca / da sfamare- /…), esposti in una linearità che sembra frutto di un accostamento semplice, immediato alla tematica, ma che se ben analizzati, con quegli incisi così puntuali, denotano una ricerca formale in corso di evoluzione, non si può non restare indifferenti, anzi ci si lascia trascinare e coinvolgere dalla forza ferma e inflessibile utilizzata per ricordare l’olocausto (…/Di carne e di sangue / la mano di colui / annientava l’estremo respiro, / e l’attimo attraversava spietato /  l’ultimo Shabbat e l’amen mai detto./…).
Chi mai direbbe che è la stessa mano che ha vergato i versi d’amore e che ora sembra brandire una spada, anziché una penna? Eppure è così, perché il poeta rispecchia le sensazioni che prova e chi ama nel senso più ampio del termine non può che reagire in modo veemente quando si uccide l’amore.
Già, l’amore, che corre con noi o che noi cerchiamo, e in Bea è un tema ricorrente. Si avverte nei suoi versi un forte desiderio di amare, ma anche di essere compresa, di trovare chi sia disposto a donare se stesso come lei avrebbe fatto con lui (…Viaggerò con te / una notte almeno / nella tua ventiquattrore, / mi stringerò il profilo / per starti più vicina... amore / e non sarà la solita mia notte / maledetta, / chè d’amore si può morire / senza farsi male.)
Sono tante le poesie di questa raccolta e se ho anche la tentazione di accennare a ognuna per il suo contenuto, lo spazio, ma soprattutto il rispetto per i lettori, che non è mia intenzione né tediare né influenzare, mi costringe a fare delle scelte, a riferirmi solo a quelle che a mio giudizio sono più significative  -  e non dico belle, perché belle lo sono tutte - e con il termine significative intendo quelle che meglio servono a identificare la personalità artistica dell’autrice.
Così, nel tempo che trascorre, Bea avverte che la vita sta per sfuggirle e reagisce con questi versi: Sto qui / con la sola tristezza / di sempre. / Il battere della pioggia / annulla ogni sentire / e i miei silenzi dissolti / sui muri / colano speranze. /…
Poche parole per esprimere, benissimo, quella sensazione di consapevole rassegnazione, ma senza indulgere alla facile commozione, senza strepiti, bensì sommessamente, un flash che fissa indelebilmente la fotografia di un essere che si appresta al commiato. In questi versi, scarni ma bene amalgamati ritroviamo tuttavia la forza che è presente nello svolgimento del tema dell’olocausto, una forza non più esteriorizzata, ma interna e che appena trapela.
Ed è proprio questa saldezza che emerge nelle ultime poesie, quando ormai Bea è conscia dell’ineluttabilità del suo destino; non c’è disperazione, ma solo dolorosa consapevolezza e allora trae da sé il meglio della sua arte, un’ultima sfida alla morte che s’appresta a coglierla. Bea è sconfitta, ma non vinta, perché sa che nessuno può uscire vittorioso da una battaglia con il destino, e allora intona il suo canto alla vita nei versi di commiato, struggenti nella loro umana intensità.

Ancora_ta

mi coglie

il soffio caldo della vita

dentro un pugno di vetro

che guardo e attraverso

mentre il risucchio dell'agguato

mi zoppica addosso.

È tempo di azzerare il timer

e ripartire

è tempo di conciliazione

e di respiri.

Non abbandonare il figlio, Padre

ora che ha conosciuto

il tepore della buona stagione

e il frinire delle cicale.

Non avrei mai potuto immaginare la difficoltà che poi ho incontrato nello scrivere queste righe.
Ho cercato di essere asettico, di non lasciarmi prendere dalla commozione e ci sono riuscito quasi fino in fondo, ma poi sono un essere umano anch’io e parlare del lavoro di un’amica che troppo presto mi ha lasciato è diventato un percorso del ricordo, una memoria di emozioni e di sentimenti che ha finito per travolgermi.
Però, di una cosa sono certo: della qualità delle poesie di Bea, il suo lascito perché abbia a goderne anche chi non l’ha conosciuta.
Se n’è andata, ma in qualsiasi momento possiamo ritrovarla in questi versi  che ci parlano di lei.
Grazie Bea per quanto sei riuscita a darci.

Beatrice Zanini

(30 settembre 1964 – 2 ottobre 2009)

“Sono tutto e sono niente…

E sono in quanto esisto.

Per alcuni sono semplicemente Marbe.”

Blog: http://beamarbe.splinder.com/

Renzo Montagnoli


La Rizzagliata di Andrea Camilleri
Sellerio editore Palermo

Romanzo storico di storia più che contemporanea, attuale.
Anche questa volta Camilleri ha teso la rete ai  suoi fedeli lettori che non sono 25, li ha incastrati in questa storia in cui è complicato districarsi anche se non sono i pesci “ cchiù stùpiti o cchiù lenti, ma lo stesso non si sono  scansati ’n tempo”.
Dal titolo: dicesi rizzaglio, una rete a forma di campana, chiusa in alto e aperta sotto, contornata da piombini. Si fa roteare perché deve ricadere come un ombrello aperto, cade in acqua per il peso dei piombini, il pescatore tira una corda e la parte inferiore si chiude. Dentro restano i pesci: una bella rizzagliata. Questo romanzo, pubblicato prima in Spagna con il titolo “La muerte de Amalia Sacerdote”, ruota attorno all’omicidio di una studentessa universitaria, Amalia, figlia di Antonino Sacerdote, il segretario capo dell’assemblea regionale, trovata uccisa e che per atto dovuto è  inviato un avviso di garanzia al fidanzato Manlio, figlio dell’onorevole senatore Caputo. Relazioni pericolose, macchinazioni, geometrie occulte e disegni criptati s’intersecano in un gioco che di teatrale ha poco e di reale molto, la politica volta e travolta, come le cronache ci insegnano,  nel suo inesorabile deviamento verso sordidi obiettivi ed interessi personali. Il caso è seguito da Michele Caruso, il direttore di un telegiornale della Sicilia occidentale  “Telepanormus”, la sua storia intima e privata  fa da contraltare alla vicenda, in generale, come un cerchio concentrico che si espande e pesca solo quello e quelli che deve pescare. Camilleri fa muovere i personaggi come dentro una scacchiera, le mosse delle pedine inizialmente un po’ imprecise, reticenti, man mano trovano la loro naturale collocazione e alla fine non c’è la sorpresa o il botto come se fin da principio una strategia pianificata portasse alla risoluzione del caso “Ad usum Delphini”. L’imbarbarimento della società e sommamente della politica, il malaffare, la corruzione globalizzati, un blob che ingloba partiti politici, finanza, magistratura, mafia, poteri pubblici…il tutto mixato da battute mordaci e allusive, con il doppio senso della parola siciliana che l’autore orchestra con svariate coloriture stilistiche. Personaggi  e situazioni, come tiene a dichiarare e ribadire Camilleri sono frutto di una pura e semplice invenzione senza nessun riferimento con persone realmente esistenti, ma come non poter ravvisare gli stessi scenari che quotidianamente giornali e televisioni ci mostrano e quanto le anomalie italiane ci stanno trascinando in uno dei punti più bassi della nostra storia. 

L’autore. Andrea Camilleri è nato a Porto Empedocle nel 1925. Ha esordito come romanziere nel 1978 con “Il corso delle cose”. Della sua ricchissima produzione letteraria tutti i romanzi con protagonista il commissario Montalbano sono pubblicati dalla casa editrice Sellerio e altri, tra questi ricordiamo: “La forma dell’acqua”, “Il cane di terracotta”, “Il ladro di merendine”, “La voce del violino”, “La stagione della caccia”, “Il birraio di Preston”, “La concessione del telefono”, “La gita a Tindari”, “Maruzza Musumeci”, “Il casellante”, “Il campo del vasaio”, “L’età del dubbio”, “Un sabato, con gli amici” “Il sonaglio” “Il cielo rubato”, “ La tripla vita Michele Saracino”.
Arcangela Cammalleri


La guerra gallica
(De bello Gallico)
di Gaio Giulio Cesare
Traduzione e note di Lorenzo Montanari
Prefazione di Anna Giordano Rampioni
Introduzione di Giovanni Cipriani e Grazia Maria Masselli
Barbera Editore
www.barberaeditore.it
Collana Classici Greci e Latini diretta
da Anna Giordano Rampioni

Gaius Iulius Caesar (Gaio Giulio Cesare) è probabilmente il personaggio romano più conosciuto e non solo per le sue indubbie qualità militari, ma anche come scrittore.
Ci ha lasciato due opere, fondamentali per comprendere una certa epoca: La guerra gallica e La guerra civile.
Il primo è senz'altro il testo più conosciuto, anche per motivi scolastici. Ricordo, anche se è passato molto tempo, che non era infrequente nei compiti in classe di latino la traduzione di brani del De bello gallico, circostanza del resto preferita dagli studenti, sia per la tematica che in un giovane appare più interessante, sia per l'essenzialità della scrittura di Cesare, meno complessa, per esempio, di quella di Cicerone.
Resta il fatto che essendo ormai un'opera classica, oggetto di studi scolastici, si tende a identificarla più come un libro di testo che non per quello che effettivamente è, e cioè la storia di un lungo e sanguinoso conflitto grazie al quale Roma, non ancora imperiale, sottomise definitivamente la Gallia.
Dalla lettura si può comprendere l'elevata cultura di Cesare che riesce a descrivere con minuziosità, ma senza essere greve, un'importante evento non solo bellico, ma anche politico.
Certo che la storia di un fatto narrata dallo stesso che ne è stato partecipe può sollevare più di un dubbio sull'attendibilità delle notizie fornite, ma non è questo il caso, perché il grande condottiero romano si dimostra per niente incline alla retorica, tracciando in modo semplice e scarno la cronologia degli eventi, tanto quasi da apparire un diario di bordo, ad uso e consumo del senato romano.
E' un lavoro piuttosto lungo, diviso in 8 libri, scritto presumibilmente fra il 58 e il 50 a.C., corrispondente proprio al periodo in cui si svolsero i fatti. Nei primi sette libri, dettati ai suoi luogotenenti, Cesare ci fornisce un'attenta descrizione etnica e geografica non solo della Gallia, ma anche dei territori germanici prossimi al Reno e di quelli britannici. Si scopre così in lui un'attenzione e anche un rispetto per zone non propriamente romane e per le popolazioni che le abitano, circostanza che mi induce a pensare che l'uomo, e quindi non il console e generale, nutrisse anche ammirazione per questi nemici, il che però non gli impedì di farne strage. Questa lunga parte si conclude con la descrizione della battaglia di Alesia, in cui emerse fulgido il suo genio militare, e grazie alla quale, sconfitto Vercingetorige, re degli Averni e grande stratega, la campagna poté definirsi conclusa.
L'ottavo libro, che risulterebbe scritto dal fido Aulo Irzio, invece parla di fatti successivi alla guerra, come le spedizioni inviate a spegnere gli ultimi focolai di resistenza.
Il De bello gallico, scritto in terza persona, ebbe una funzione non solo diaristica, cioè di memoria, ma fu anche lo strumento con cui, in un equilibrio sostanziale fra fatti e descrizione degli stessi da chi vi fu coinvolto, Cesare difese la sua politica militare dall'avversione di larga parte del Senato che, non a torto, paventava un concreto pericolo per la sua autorità di fronte a questo generale di comprovate elevate capacità, riottoso ad obbedire alle direttive e animato da una grande ambizione.
La guerra gallica, in questa edizione dell'Editore Barbera comprensiva del testo latino a fronte, si avvale della eccellente traduzione di Lorenzo Montanari, che ha curato anche le indispensabili numerose note riportate alla fine dell'intera opera.
Se la prefazione di Anna Giordano Rampioni è breve, quasi essenziale, l'introduzione di Giovanni Cipriani e di Grazia Maria Masselli è assai più lunga, ma indispensabile per la comprensione dell'intero testo.
Sono in tutto tante pagine (oltre 600), ma si leggono quasi d'un fiato, a testimonianza delle qualità letterarie di Gaio Giulio Cesare, rivelatosi così, oltre che uomo di spada, uomo di penna.

Gaio Giulio Cesare ( 100 - 44 a.C.), grande condottiero romano, nonché uomo politico illustre.
I suoi libri (La guerra gallica e La guerra civile) sono scritti storiografici, considerati unanimemente dalla critica fra i più originali dell'antichità.
Attraverso gli stessi realizzò un'apologia di se stesso e delle proprie scelte politiche e militari, fornendo ai posteri l'immagine di un condottiero coraggioso, fine stratega e fondamentalmente fedele ai valori repubblicani.
Renzo Montagnoli


L'abitudine al sangue di Giorgia Lepore Fazi Editore www.fazieditore.it
Narrativa romanzo

Giuliano, in un monastero della Grecia, ripensa al suo passato, alla vita intensa e sofferta che ha avuto. L'essere figlio del defunto imperatore di Bisanzio non è stata una fortuna, ma ha costituito la base del percorso insondabile attraverso il quale, dopo gioie e soprattutto sofferenze, è finalmente approdato alla pace interiore.
Condotto con un ritmo lento, quale si addice a una storia di riflessioni, L'abitudine al sangue non è tuttavia solo la vicenda di Giuliano, dalla gloria quale condottiero e certamente non voluta perché gli ripugna uccidere altri uomini, alla quiete della vita monastica dopo anni in cui ha conosciuto l'amore, ma anche l'orrore della guerra, ha subito torture, si è macchiato di un delitto commesso su sangue del suo sangue.
Infatti questo libro presenta molteplici chiavi di lettura che ne fanno un'opera per certi versi ardita, ma che nel complesso costituisce il positivo esordio letterario dell'autrice.
Premessa indispensabile è che non si tratta di un romanzo storico in senso stretto, perché se è vero che la localizzazione è Bisanzio, capitale del Romano Impero d'Oriente, l'epoca non è esattamente determinata, pur presentando caratteristiche tipiche dell'alto medioevo; anche per i personaggi non vi sono diretti riscontri, pur se in un'attenta analisi alcuni possono essere ricondotti a figure che hanno caratterizzato alcuni secoli di quel periodo.
C'è indubbiamente il tentativo della scrittrice, appassionata di storia bizantina, di fornire l'immagine di quel che era quel lontano impero, caratterizzato da faide nella famiglia regnante con frequenti delitti particolarmente riprovevoli, quali il parricidio e il fratricidio, e in questo senso l'impostazione dell'opera assume i toni di una tragedia che richiamano opere di Shakespeare, in primis l'Amleto. E. come dice Giorgia Lepore nell'intervista, questo è un romanzo di relazioni, fra padre e figlio, fra fratelli, fra figlio e madre, fra uomo e donna, ma soprattutto fra uomo e Dio. Nessuna esclude le altre, ma costituisce una serie di tappe, di anelli di una vicenda che porta al rapporto più importante, a quello che è uno dei maggiori temi dell'opera, cioè alla ricerca in se stessi dell'originario spirito divino per potersi accostare a Dio.
In questo contesto c'è un fatto determinante e che può ricondurre anche all'individuazione dell'epoca; c'erano molte sette eretiche, ovviamente combattute, non solo dialetticamente, dalla Chiesa ufficiale e fra queste ce n'era una che aveva una precisa localizzazione ai confini orientali dell'impero. Questa setta era portatrice di un'eresia da noi conosciuta come paulicianesimo, caratterizzata dal dualismo, che portava a considerare l'esistenza di due Dei, il Dio crudele dell'Antico Testamento, creatore del mondo, e il Dio buono del Nuovo Testamento, artefice dello spirito e dell'anima, e quindi l'unico degno di essere seguito. Ora, il periodo più disgraziato di Giuliano inizia con il rifiuto di fare strage di questi eretici, che sarà poi effettuata poco dopo da un altro generale. Storicamente questo avviene nel X secolo d.C. e quindi il periodo in cui si snoda la vicenda è quello.
Ma il paulicianesimo richiama anche ad altre chiavi di lettura nel rapporto tra padre e figlio, in cui il primo assume le caratteristiche del Dio malvagio dell'Antico Testamento, mentre il rifiuto della violenza e il desiderio di amore di Giuliano finiscono per introdurre alla sua relazione con Dio, laddove, pur credente, e a differenza del priore del convento Johannes, che è stato chiamato dal Supremo, in lui predomina la necessità di non essere scelto, ma di scegliere. La differenza è sostanziale (nel caso di Johannes la chiamata è venuta dal cielo, mentre per Giuliano è frutto di una sua libera scelta) e serve a portare ad ancora un'altra visione dell'opera. La storia è frutto di decisioni assunte secondo il principio del libero arbitrio, oppure è qualche cosa che è già scritto nel libro del destino, senza che noi possiamo interferire con esso? Domanda a cui possono essere date risposte diversamente articolate, ma senza che una possa prevalere decisamente sull'altra.
Giuliano è indubbiamente un personaggio complesso, tanto che Giorgia Lepore lo ha definito una sintesi di "colonne portanti" della storia bizantina, che vanno da Giuliano l'apostata a Basilio II.
Insomma, a un protagonista, che non è mai esistito, è stato affidato il difficilissimo incarico di rappresentare un mondo in più epoche, di nobilitare nell'uomo il senso della vita con una scelta individuale per l'amore verso Dio, di essere così antico e al tempo stesso moderno, anzi addirittura senza tempo.
L'abitudine al sangue, come è possibile comprendere, è un libro che induce a continue riflessioni, e quindi da leggere con calma e attenzione, ma anche da rileggere più volte per scoprire qualche cosa di nuovo, aprendolo al nostro cuore.

Giorgia Lepore, 39 anni, è nata e vive a Martina Franca ma lavora all'Università di Bari, in qualità di assegnista di ricerca presso la cattedra di Archeologia e Storia dell'Arte Paleocristiana e Altomedievale. È inoltre archeologa, specializzata negli scavi presso le chiese rupestri pugliesi, e docente di Storia dell'Arte nelle scuole superiori. Negli anni scorsi ha partecipato a vari convegni nazionali e internazionali e pubblicato numerosi articoli e saggi in riviste specializzate, tra cui alcuni contributi nel volume Puglia Paleocristiana (a cura di G. Bertelli, 2004) e la monografia Oria e il suo territorio nell'altomedioevo (2004). E proprio dai suoi interessi di archeologa e di studiosa di Storia bizantina prende le mosse il suo romanzo d'esordio, ambientato appunto nell'Impero romano d'Oriente nell'Altomedioevo, ma mancano, per precisa scelta dell'autrice, riferimenti topografici e l'indicazione di un arco temporale nel quale si svolge la vicenda.
Renzo Montagnoli


Confrontarsi con Karolina di Valentino Rocchi Edizioni Agemina www.edizioniagemina.it
In copertina: Giacomo Balla - Velocità n.1
Narrativa romanzo
Collana Gialli Agemina

Leggo sulla copertina "Valentino Rocchi", il nome dell'autore, appena più sotto "Confrontarsi con Karolina", il titolo, e in piccolo, più in basso e sulla sinistra "Gialli Agemina", nome della collana evidenziata con lo stesso colore.
Ora classificare questo romanzo di ben 406 pagine come giallo mi sembra un po' riduttivo. In effetti ci sono autori, come Simenon, come Maurizio de Giovanni che ricorrono all'intreccio del thriller semplicemente per l'ossatura di un'opera intorno alla quale costruire molto di più, nobilitando i loro lavori con contenuti che vanno ben oltre la consueta ricerca investigativa.
Ed è questo il caso anche di "Confrontarsi con Karolina", un vero e proprio romanzo, pur venato di giallo, e ambientato, in parte, in un mondo diverso da quello che è oggetto consueto di narrazione dell'autore pesarese; qui non c'è più la civiltà contadina in primo piano e, a onor del vero, nemmeno sullo sfondo, bensì un ambiente più recente ed attuale, quale quello delle corse in motocicletta.
Non ci sono gare, non c'è la dinamica del tifoso e dello sportivo che quasi fa una radiocronaca, no, non sarebbe stato funzionale allo scopo e, oltretutto, probabilmente si sarebbe ridotto a un aspetto più tecnicistico che letterario.
Il mondo delle corse in moto è lo sfondo, davanti al quale o dentro il quale si agitano diversi personaggi, nascono storie all'apparenza messe per lì caso, ma che invece alla fine si riveleranno parte integrante di un corpo unico, giustificando così la lunghezza del lavoro che in un normale giallo sarebbe francamente eccessiva.
Rocchi ha sempre amato i suoi personaggi al punto di tratteggiarli con una descrizione non solo somatica, ma anche psicologica che rasenta quasi l'ossessione maniacale, giungendo così a confezionare opere che sempre possono essere definite di pregevole fattura. Confrontarsi con Karolina va oltre questa classificazione di merito, perché le storie che si intrecciano, pur se relative a epoche diverse fra loro e anche a luoghi dissimili, possono vantare una freschezza di esposizione che le rende particolarmente gradevoli.
Non sarebbe stato difficile scivolare nel "già letto", perché in fondo le vicende umane si presentano quasi sempre assai simili, ma la capacità dell'autore di indagare l'animo di ogni protagonista, riservando l'entusiasmo per quelli positivi, ma non infierendo, grazie a un'innata pietà, per quelli negativi, porta a un equilibrio di narrazione che gradualmente rende partecipe il lettore. Non ci sono colpi di scena assolutamente impensabili, anzi tutto scorre liscio e logico, secondo una razionalità matematica, ma il libro sarebbe probabilmente monotono se non fosse accompagnato da emozioni naturali, genuine, quali possono essere il senso di colpa o un amplesso dipinto con precisione, ma senza malizia.
Prima ho scritto che sono diverse le vicende che fioriscono, ma ben concatenate, e una in particolare, quella dell'ebreo polacco in Italia all'epoca delle leggi razziali, è molto di più che funzionale alla vicenda, perché offre l'opportunità di una riflessione su questa maledizione che si portano dietro gli israeliti da 2000 anni e che li rende vittime per lo più rassegnate. Non dico altro al riguardo, perché sono poche pagine che meritano la massima attenzione.
E poi la figura di questo ebreo, di quest'uomo prossimo alla morte è descritta con una realtà quasi incredibile. Sembra di essere davanti a lui, infermo grave in questo letto d'ospedale, ad ascoltare la sua storia, a stupirsi di quel che va dicendo, a commuoversi per una bellissima storia d'amore che lo vede protagonista e vittima.
Con Rocchi i personaggi sono tali indipendentemente dal fatto che ci sia una trama, sono esseri umani con i loro pregi e difetti che sembrano muoversi liberi dalla volontà dell'autore. La vicenda è gialla? Bene, ma anche se non lo fosse Salomon, Serena, Karolina, Marco, Federico, il giudice Gaudino, Inge, Sabine, Rachele, Antonìn, perfino Rendina girano attorno a noi, con le loro passioni, i loro assilli, le loro qualità e i loro difetti, nessuno troppo bravo o troppo cattivo, personaggi di carta perfettamente simili a quelli in carne ed ossa, ognuno portatore di verità che sta solo a noi riconoscere. I francesi dicono: "C'est la vie.". Io mi permetto di aggiungere: "vista con amore.".
La lettura è sicuramente raccomandabile.

VALENTINO ROCCHI, nato a Savignano sul Rubicone, risiede sin dall'infanzia a Pesaro. È socio corrispondente della Rubiconia Accademia dei Filopatridi di Savignano sul Rubicone.Si è avvicinato alla narrativa, con libri di ampio respiro e di trame avvincenti, dopo una vita di intenso lavoro. Ha pubblicato: "Una Storia a Castelvecchio" (Società editrice Il Ponte Vecchio - Cesena); "L'Eredità di Venanzio" (Guaraldi - Rimini) Vincitore del Premio letterario "Il Pungitopo" 2001."Notte all'Hotel La Guercia" (Argalìa Editore);"Gli uomini di Bluma" (Giraldi Editore) II Classificato al Premio "Palazzo al Bosco", 2002;"La saggezza di Toni" (Giraldi Editore);Esce nell'anno del V centenario della morte di Pandolfo Collenuccio, uomo di corte e di legge, dalla vita straordinariamente avventurosa: "Notte all'Hostaria La Guercia", Pandolfo Collenuccio, uomo di corte del XV secolo, (Giraldi Editore) ambientato nel XV secolo, di cui è l'autore è profondo studioso e conoscitore; nel 2008 "La Magia del fuoco" (Agemina) e "1504 - Notte all'Hostaria La Guercia" (Agemina); nel 2009 "Il pianoforte a coda" (Giraldi Editore) e "La padrona di Santa Maria" (Giraldi Editore).
Renzo Montagnoli


Sulla riva del fiume, di Giovanna Giordani  - Aletti editore -

Sulla riva del fiume: prima silloge di Giovanna Giordani, giunta quasi a sorpresa per lei stessa, che forse non s’era posta prima d’ora il problema di condividere con interessati lettori il suo piacere per la scrittura in versi delle sue emozioni, dei suoi pensieri e sentimenti, attraverso una pubblicazione. Bella sorpresa, invece, per lettori che amano la poesia, come la sottoscritta.
Generalmente inizio la lettura di una raccolta di poesie cercando di decifrare il senso del titolo. In questo caso, mi è venuto in mente per associazione immediata il titolo di un libro di riflessioni sul senso della vita, Sono come il fiume che scorre, di Paulo Coelho. Ma, mentre in quel testo l’autore si identifica con il fiume e ripercorre, anche in senso autobiografico, il divenire e il mutamento continuo, per dar valore alle cose più semplici  e belle, ho immaginato che Giovanna stesse invece “osservando” quello stesso divenire e mutamento continuo del mondo e della vita, standosene tranquillamente “sulla riva del fiume”. Il suo osservare, che in realtà si ritrova poi assorbito nei versi poetici, non è però passivo guardare, lasciar scorrere e lasciar accadere gli eventi del mondo, bensì compartecipazione talmente profonda e intima da lasciare di sé impronta e segno visibile in ogni poesia.
L’autrice definisce il suo poetare non ricercato, ma semplice, vero, naif, quasi sottintendendo in questa definizione una sua naturale ritrosia, un suo non sentirsi vera poeta bensì solo una persona che voglia esprimere in versi la sua sensibilità.
E chi ha detto che bisogna scrivere poesie servendosi di lessico ricercato, che spesso potrebbe essere sinonimo di indecifrabile, difficile, non fruibile se non da pochissimi?
Ho piacevolmente assimilato la scrittura poetica naif (per tenere la sua originale definizione) di Giovanna Giordani alla semplicità con cui si leggono, si interpretano e si interiorizzano le sue poesie, poiché questa semplicità si accompagna ad una profondità di pensiero che dà modo al lettore di riflettere e di guardare con occhi nuovi il mondo e tutto quel che vi accade.
Già dalla prima poesia Ah, se potessi, l’autrice mette in primo piano la sua poetica dell’amore, che è il suo modo peculiare di osservare gli eventi del mondo, cercando delle strategie quasi magiche per realizzare il suo intento di vivere in armonia con l’universo, trasformando il suo essere “sillabe d’assenso” nel vero senso della vita che appunto nell’amore può risiedere e in nient’altro. In questo “la poeta” conferma il pensiero di Neruda che sosteneva che “la poesia è un atto di pace”. E non è un caso che la silloge si concluda anche con una poesia nella quale si vorrebbe capire il perché dell’esistenza del male e la sua origine, con la sottile ma non velata intenzione di capovolgerlo in bene.
I primi sonetti, ispirati da racconti, film, eventi reali, o semplici osservazioni della natura, confermano questa attenzione privilegiata della Giordani ai rapporti umani, al senso vero dell’esistenza e alla profondità di un sentimento la cui durata potrà attraversare il Tempo e oltrepassarlo, anche soltanto grazie all’incisione di un nome.
Delicatissimi, poi, sono anche gli haiku, che in brevità e concisione distillano pensieri.
La terza parte della silloge, la più corposa per numero di poesie, è di una bellezza che non si può descrivere, bisogna sentirla e viverla. Ci si rende conto di ciò, a partire dalla poesia che ci presenta “Il volto del silenzio”: solo un poeta può “vedere” questo volto e scoprire perché… “mai saprà spiegare / tutta la luce / che gli brucia dentro”! … perché è un silenzio pregno di parole, di pensieri, di voce, ma non ha voce.
Un’altra bellissima poesia da segnalare è una meta-poesia, che però si contraddice alla fine. Si tratta della messa in scena dell’umiltà della poeta-autrice, ne’ La mia poesia è una regina scalza, che poi è anche una regina nuda e bianca e che, quando diventa nera e “cammina leggera / sulle dune, / (è) incurante se il vento / traccia non lascerà / delle sue impronte”: sta proprio qui la contraddizione della poeta, nel credere che la sua poesia non lascerà impronte, mentre invece le ha già lasciate proprio in questo suo essere movimento discreto che scruta negli anfratti dei cuori.
E si potrebbe continuare svelando l’implicita “semplicità profonda” o “semplice profondità” delle altre poesie.
Ma un recensore deve fermarsi un attimo prima di togliere al lettore il piacere, la sorpresa e la voglia di scoprire da sé il senso e la bellezza di ogni creazione poetica, potendo dare a sua volta libertà alla propria mente di ri-creare significati.
E dunque concludo, riassumendo l’invito a leggere questa silloge, con l’Haiku che mi pare la caratterizzi: “Bellezza”: Alto vertice / di rara perfezione / dono d’incanto.
Carmen Lama


Una terribile eredità di Gordiano Lupi Gruppo Perdisa Editore
Narrativa romanzo

Un incubo che si materializza in un uomo apparentemente normale, ma segnato da un'esperienza che ha fatto emergere quegli istinti bestiali presenti in ogni individuo, confinati sul fondo della coscienza, ma pronti a esplodere quando si verifichi un fatto, un evento che funge da catalizzatore. Una terribile eredità, l'ultimo romanzo di Gordiano Lupi, è un noir profondamente distopico, in cui la realtà umana viene vista con un senso di profonda disillusione, una presa di coscienza sull'imperscrutabile e ignoto che è dentro di noi, su quel male che ci portiamo appresso senza saperlo.
La vicenda ha inizio in un'Angola insanguinata dalla guerra, a cui il protagonista cubano partecipa non per vocazione, ma perché praticamente obbligato. E' una parte, questa, del romanzo in cui l'autore piombinese ha dovuto far leva molto sulla fantasia, poiché non conosce quei posti, così che ne risulta uno stato abbastanza "sui generis", ma proprio per questo emblematico di qualsiasi conflitto. I bombardamenti, le imboscate, le uccisioni, il cameratismo, lo sfogo con le puttane, la paura, la nostalgia sono proprie di ogni ostilità e il solo fatto che questo avvenga in Africa, anziché in Europa, nulla toglie alle sensazioni dei protagonisti, all'orrore dilagante, all'angoscia, perché questo è caratteristica di ogni guerra.
Quando la morte è sempre al tuo fianco i freni inibitori si allentano, si diventa capaci di tutto, anche, per necessità, di divorare i propri simili.
Questo fatto, che ha segnato indelebilmente la mente del personaggio principale, è stato dapprima dallo stesso oscurato, ma il non poterne parlare, il non trovare sfogo a un tormento che scava in profondità fa vacillare la personalità, fa prorompere quel che di male è sempre presente in noi.
E così, nella seconda parte, che si svolge a Cuba e la cui conoscenza all'autore giova in modo rimarchevole, ha inizio il vero e proprio noir, una ripetizione del rito macabro del cannibalismo in Angola per un uomo che, ritornato alla vita consueta, non ha più il supporto psicologico della moglie, morta di parto nel dargli alla luce un figlio che conosce già cresciuto.
Avvilito per le esperienze della guerra, senza un preciso riferimento affettivo, disgustato per la decadenza del regime - al riguardo è molto riuscito il contrasto fra la bellezza della natura e lo squallore di un'umanità senza speranza - , diventa facile preda di un mal sottile a cui cerca invano di resistere e così inizia il suo percorso di mostro, attirato da vittime innocenti quali i bambini.
Il suo racconto, iniziato con la guerra in Angola, si svolge nell'intrico di una ragnatela sempre più fitta, di cui finisce con l'essere carnefice e vittima.
E' un uomo solo con il suo male, con la sua disperazione, con il suo dolore, immerso in un orrore a cui cerca invano di sfuggire.
Il percorso torbido della mente riesce a dare al protagonista una visione umana, grazie al senso di pietà che emerge dalle righe.
E Cuba vive la sua grigia esistenza, descritta in modo ammirevole, nell'impassibilità di un governo incapace di comprendere l'animo umano.
La lettura è, ovviamente, più che consigliata.

Gordiano Lupi (Piombino, 1960) ha tradotto i romanzi del cubano Alejandro Torreguitart Ruiz. I suoi lavori più recenti sono: Cuba Magica - consersazioni con un santèro (Mursia, 2003), Un'isola a passo di son - viagio nel mondo della musica cubana (Bastogi, 2004), Orrori tropicali - storie di vudu, santeria e palo mayombe (Il Foglio, 2006), Almeno il pane Fidel - Cuba quotidiana (Stampa Alternativa, 2006), Avana Killing (Sered, 2008), Mi Cuba (Mediane, 2008). Cura la versione italiana del blog "Generaciòn Y" della scrittrice cubana Yoani Sànchez e ha curato il suo primo libro Cuba libre (Rizzoli, 2009).
Renzo Montagnoli


Il cavaliere inesistente di Italo Calvino Arnoldo Mondadori Editore
Presentazione dell'autore
Narrativa romanzo

Questo romanzo, unitamente al Barone rampante e al Visconte dimezzato, fa parte della cosiddetta Trilogia degli antenati, una specie di albero genealogico dei nostri progenitori.
Se per gli altri due l'autore ritornava poco indietro nel tempo, per questo invece va a ritroso di molti secoli per approdare all'epoca di Carlo Magno e dei suoi famosi paladini.
E' forse superfluo che evidenzi che il Medioevo raccontato è ben lungi da qualsiasi verosimiglianza storica, un periodo quasi sospeso nell'arco della fantasia, tipico dei poemi cavallereschi, più simili a saghe che a realtà romanzate.
In questo contesto la creatività di Italo Calvino raggiunge livelli straordinari, dando luogo a un'opera che mescola sapientemente la fantasia con la satira, proiettando il lettore ad effettuare, quasi inconsapevolmente, dei paragoni fra le vicende narrate e certi fenomeni di costume attuali.
Credo che sia impossibile non pensare di fare un accostamento fra un cavaliere inesistente, rappresentato solo da un'armatura che si muove, che combatte e che parla, con la crescente spersonalizzazione dell'uomo odierno, con quell'ansia continua di omologazione che di fatto lo rende schiavo di un'immagine non sua. Anche ora ci sono armature, automobili che rinserrano le persone e che finiscono per rappresentare solo l'emblema di una società votata all'annullamento dell'identità.
Ci sono poi altri elementi ed episodi che mi inducono a ritenere che Calvino, parlando in quel modo di un'epoca passata, volesse in effetti far comprendere che anche oggi nulla è cambiato.
Per esempio, il raduno mistico dei Cavalieri del Graal, che camminano come sonnambuli, mi ricorda tanto certe cerimonie delle numerose sette religiose tipiche del nostro tempo.
Se Agilulfo è il cavaliere inesistente, che non c'è infatti, ma sa di esserci, straordinaria è la figura del suo scudiero Gurdulù, che pur essendo non lo sa, vero e proprio esempio di un ominide agli albori dell'umanità, non ancora in grado di prendere coscienza del suo ruolo, come del resto non pochi nostri simili che attualmente, rinnegano se stessi, per essere quello che non sono.
Che dire poi di Bradamante, la bellissima guerriera, stretta nella sua armatura? Non possono non venir in mente le donne della società contemporanea, consapevoli della loro parità con l'uomo, disposte a combattere per realizzarsi, ma che mantengono quell'innata tenerezza e femminilità che l'amore fa riemergere prepotentemente.
Di fronte a queste osservazioni si potrebbe pensare che il romanzo di Calvino risulti di difficile lettura e invece è tutto il contrario, con una serie incredibile di trovate, di personaggi, di vicende che avvincono, spesso dando anche luogo a risate, pur se il suo fine più concreto si raggiunge quando ci accorgiamo di sorridere, perché finiamo con il ritrovarci negli impietosi paragoni, e allora è d'obbligo mostrare verso di noi un velo di pietà per una recuperata misura della nostra esatta dimensione.
Il cavaliere inesistente è un'opera di grande valore, un libro che non dovrebbe mai mancare fra quelli che teniamo nella nostra biblioteca, e quindi mi sembra più che logico raccomandarne la lettura.

Italo Calvino (Santiago de Las Vegas, 15 ottobre 1923 - Siena, 19 settembre 1985).
Ha scritto numerosi testi di narrativa, fra i quali:
Il sentiero dei nidi di ragno (1947), Ultimo viene il corvo (1949), Il visconte dimezzato (1952), Fiabe italiane (1956), Il barone rampante (1957), Il cavaliere inesistente (1959), Marcovaldo ovvero Le stagioni in città (1963), La giornata di uno scrutatore (1963), Il castello dei destini incrociati (1969), Le città invisibili (1972).
Renzo Montagnoli


L'ultimo longobardo di Marco Salvador Edizioni Piemme

Narrativa romanzo

Con L'ultimo longobardo si conclude la trilogia con cui Salvador ci ha narrato di questo popolo che ha regnato sull'Italia fra il VI e l' VIII secolo d.C..
Fra i meriti dell'autore friulano c'è anche quello storico-didattico, cioè di aver dato luce a figure che spesso sono appena accennate negli studi scolastici, che, fra l'altro, preferiscono occuparsi prevalentemente, per l'alto medioevo, della figura di Carlo Magno, il re dei Franchi, che di fatto pose fine all'egemonia longobarda.
Dire quale dei tre romanzi (Il longobardo, La vendetta del longobardo e L'ultimo longobardo) sia il più riuscito è impresa ardua, perché pur essendo ciascuno consecutivo in linea di tempo, riesce a mantenere un'autonomia narrativa tendente a privilegiare eventi e personaggi di natura diversa. In tutti, però, regna sovrana la capacità dell'autore di avvincere il lettore. E anche in quest'ultimo, se si avverte chiara la trepidazione nell'aprire il libro e forte è il desiderio di continuare la lettura senza soste, altrettanto incombente è il timore di arrivare troppo presto alla fine.
La vicenda del principe Arechi, che da giovane ha una naturale inclinazione per la contemplazione e la vita religiosa, chiamato poi a ricoprire un ruolo essenziale di supporto alla politica imperiale, è una di quelle che non possono lasciare indifferenti per ricchezza di sviluppo, per descrizioni di personaggi, per un'ambientazione in una Roma sede della Cristianità, ma anche luogo di intrighi, di lussurie, di lotte di potere.
Salvador ha colto l'occasione per donarci la figura di un uomo che riassume in sé le caratteristiche di molti nostri simili, esseri puri all'origine e che in forza del libero arbitrio si lasciano coinvolgere e addirittura travolgere dalla sete di potere. E' ben delineata quella vita che si riduce a una continua difesa di posizioni acquisite con il contemporaneo sviluppo di trame volte non solo a rafforzarle, ma ad estenderle.
La vicenda si svolge in un'atmosfera in cui la politica del governo, intesa come predominio personale, corrompe e corrode tutti, chierici, nobili, re e perfino papi.
Questo accade senza distinzione di sesso dei protagonisti , in una lotta in cui ognuno usa le armi che gli sono proprie, con una progressiva deriva della morale che porta all'abiezione.
Non è difficile riscontrare, pur in un'epoca così lontana, in un periodo definito "pornocratico", tante, troppe similitudini con i giorni nostri, come se non ci fosse stata un'evoluzione nel genere umano.
Fra tradimenti, morti violente, alleanze e rotture delle stesse, ribaltamento di convinzioni, Arechi si muove come un regista in uno spettacolo teatrale, suggerisce, modifica, cambia perfino il copione, soprattutto quando riuscirà a diventare Il Custode, di fatto il dominus della Chiesa. E questo incarico gli verrà conferito dal suo predecessore Canzio quando si presenterà a lui con lo stato d'animo che anni prima lo stesso Canzio gli aveva definito condizione sine qua non: amore e odio, che, in ugual misura, lo possiedono, lo condizionano e lo stimolano.
Ma non c'è vita in un essere così ridotto, non c'è speranza, non c'è salvezza, se non in un unico modo, vale a dire lasciando tutto, confessando ogni peccato, anche quello che l'orgoglio non vuole considerare tale, e acquisendo così la consapevolezza che la gloria e il potere non sono nulla di fronte alla serenità.
Arechi, riavvicinandosi a Dio, ritrova la sua anima, riscopre quanto ha soffocato della sua naturale spiritualità, risorge a nuova vita.
Sono pagine intense, anche sofferte, sono le pagine di un romanzo stupendo, sicuramente da leggere e rileggere, perché non poche sono le occasioni in cui si avverte la necessità di meditare.

Marco Salvador nasce il 10 novembre 1948 a San Lorenzo di Arzene (PN), dove tuttora vive. Ha pubblicato numerosi saggi sulle comunità rurali nel medioevo e sulle giurisdizioni feudali minori. Inoltre ha scritto cinque romanzi: Il longobardo (Piemme, 1^ Edizione 2004, 2^ Edizione 2008), La vendetta del longobardo (Piemme, 2005), L'ultimo longobardo (Piemme, 2006), La casa del quarto comandamento (Fernandel, 2004), Il maestro di giustizia (Fernandel, 2007) e La palude degli eroi (Piemme, 2009).
Renzo Montagnoli


Colombe raggomitolate di Mohamed Ghonim Fara Editore www.faraeditore.it

Introduzione di Alessandro Ramberti

Poesie raccolta

Collana TerrEmerse

Leggere le poesie di questa raccolta, composta da tre piccole sillogi (Il canto dell’amore, La donna, Versi migranti) è scoprire un mondo tutto nuovo, fatto di luci, di colori, di immagini che non rientrano nell’abituale stesura dei versi dell’occidente.
In Ghonim vi è tutta una linea di confine indeterminata fra la realtà e il sogno, così che si ritrae l’impressione di una dimensione sospesa, al di fuori della portata dell’uomo moderno che, pur cercando di astrarsi, finisce sempre con l’essere condizionato dalla quotidianità.
Nell’autore di origini egiziane invece si ritrova quella grazia delicata, soffusa, propria della poesia araba, in una condizione tale che le emozioni, le sensazioni hanno una proiezione celestiale.

Da La notte oscura

….

E’ forse diverso il sangue dell’umanità sotto la pelle?

Sono diversi i sogni,

speri che i tuoi giorni diventino senza notte?

Guardami bene in faccia,

guarda questa faccia scura:

ti accorgerai che sono io la tua notte.

….

Ghonim, nel nostro paese da diversi anni, ne ha acquisito la cittadinanza, però ciò è avvenuto senza perdere la sua innata personalità,  modellata sulle scie di tradizioni e di visioni della vita che nel tempo sembrano immobili, ma che invece sono continue sfumature di una concezione dell’esistenza che si tramanda nei secoli.
Fuori dalla vacua corsa dell’occidente, non affastellata da falsi miraggi o da richiami di sirene corruttrici, la poetica di questo autore echeggia le melodiosità delle danze nei cortili dell’Alhambra, o la limpida freschezza delle acque che scendono al piano dalla Sierra Nevada.
Forza e grazia sono fuse in un equilibrio che, più che affascinare, circondano il lettore, avvolgendolo in un alone mistico che quasi inebria, una condizione di sospensione temporale che astrae dal mondo, proiettando verso cieli sconfinati, oltre i confini della realtà. 
Tutto sembra così naturale, così spontaneo che si riesce perfino a leggere oltre le parole, arrivando a scorgere l’anima da cui sono scaturite.

Da Solitudine

Sono solo

perché sento la mancanza del mio amore.

Isolato

come un cammello col petto

sopra la terra desertica.

La notte mi ha coperto

come un’onda tenebrosa.

Oppure

Le labbra

Spade indiane

si colorano

con i raggi del sole,

al chiarore della luna

bevono con bramosia

dai turchesi dell’amore

dissetandosi inebriano

le stelle del cielo

che discendono sulla terra

sfavillanti di pioggia.

Penso che, soprattutto con Le labbra, si possa comprendere quanto ho fino ad ora scritto, ci si possa immergere in queste visioni, frutto di umane emozioni, ma che riescono a sublimarsi, ascendendo verso il magico mistero dell’universo.
Ma c’è anche un altro Ghonim, che sa guardare la realtà con occhi non trasognati, che vede il dramma dei migranti, che comprende il loro desiderio di lasciare la loro terra, dove si muore di fame, per affrontare un viaggio di speranza verso l’ignoto.
E’ il suo un atteggiamento di composta partecipazione, in cui, pur nella forza dei versi, permane una vena malinconica, un sentimento di pietà verso destini dei quali noi non siamo  incolpevoli.

Lettera di un bambino africano

O mio amico là,

io nudo condotto allo scoperto

affamato abbandonato alla fame,

di mosche è cosparsa la mia bocca,

sento che il latte lo rigurgitate,

che il grano sotto la neve lo lasciate

e che le  vostre mamme vi cullano in lettini di seta.

Noi, qua, soffiamo polvere,

respiriamo il suo esalare,

chiediamo all’aria un senso,

formuliamo una preghiera senza risposta.

Quindi, non posso che concludere con un’osservazione: sensibilità e delicatezza, passione e meditazione si fondono in Ghonim, nei suoi versi che poco a poco ammaliano il lettore, stregato dalla docile forza con cui canta della vita.

Mohamed Ghonim è nato ad El Menoufia (Egitto) nel 1958. Si diploma come perito agrario. Nel 1990 è italiano a tutti gli effetti. Autore di poesie e pièces teatrali, nelle sue opere si amalgama la cultura araba a quella occidentale.
Il suo primo libro è  Il segreto di Barhume pubblicato dall’associazione Les Cultures nel 1994, rieditato da Fara nel 1997. Nel 1995 esce Quando cade la maschera (Les Cultures). Nel 1997, “anno contro il razzismo e la xenofobia”, pubblica con Les Cultures la raccolta di poesie Il canto dell’amore.
Nel 1998 Fara stampa La foglia di fico e altri racconti. L’anno seguente pubblica con Periplo un libro di fiabe dal titolo L’aquila magica e l’opera Cento memorie per il futuro millennio.
Nel 2003 viene stampata la silloge Colombe raggomitolate (Fara) e la poesia “Il mio silenzio”,
ivi contenuta, viene selezionata per l’antologia della X Edizione del Premio Internazionale di Poesia “Poseidonia-Paestum”. È stato giurato di vari concorsi a premi per le
scuole elementari. Ha curato Siamo venuti a cantarvi le nostre canzoni, opera che fa dialogare con la poesia ragazzi stranieri della scuola media Tito Livio di Milano
(Terre poetiche, 1999). È direttore del giornale egiziano «News of world».
Renzo Montagnoli


Lettere al Presidente di Franco Ferrarotti Edizioni Solfanelli www.edizionisolfanelli.it
Saggistica

Che Franco Ferrarotti, nella sua prefazione, parli di una fase di stagnazione culturale e di onnipervasiva politica mediatica, in cui l'identità personale tende a scambiarsi con la notorietà televisiva, mi è di grande conforto, perché è quanto osservo da anni e anche ne scrivo. Se un sociologo del suo calibro è pervenuto a una simile conclusione, vuol dire che non è un problema avvertito solo da me, o magari supposto, ma è realtà, è concretezza di una situazione che peggiora di giorno in giorno.
Il prof. Ferrarotti fornisce una spiegazione di questo libro alla luce dell'interesse, ormai pluriennale, in ordine a una revisione della Carta Costituzionale, con particolare riguardo alla seconda parte, cioè a quella successiva ai Principi Fondamentali su cui si regge, o dovrebbe reggersi, il nostro Stato.
Il titolo, peraltro, prende spunto da una Lettera aperta al Presidente (all'epoca Cossiga) pubblicata sull'Unità del 24 luglio 1990.
Considero questa indicazione di finalità un forte richiamo, poiché si ricomprendono nel libro numerosi editoriali, pubblicati soprattutto sull'Unità, nel periodo 1975 - 2004, sui quali dovrebbero non poco riflettere i tre ex Presidenti della Repubblica, onde poter esprimere la loro saggezza in un'epoca, quale l'attuale, in cui la politica ha raggiunto il suo apice congiunturale.
Oltre la succitata lettera, ci sono numerosi articoli, anche con critiche all'allora Partito Comunista, con escursioni in campo letterario o proprie della materia di Ferrarotti, insomma un insieme di pezzi di tematiche diverse che, secondo me, non sono stati inseriti a caso, tanto per riempire le pagine, ma che sono un po' la storia del nostro paese, per dimostrare che situazioni e problemi non nascono mai di colpo, ma hanno gestazioni di non breve durata.
Significativo in questo senso è l'editoriale dell'Unità del 18 dicembre 1990 intitolato La Sicilia sola. C'è da vergognarsi ad ogni terremoto. L'abbandono, o meglio la mancata partecipazione di membri dell'esecutivo alle esequie delle vittime e la generale indifferenza per la sorte dei superstiti offre la misura del progressivo scollamento della classe politica italiana dalla realtà del paese.
Già però l'articolo comparso su L'Unità il 30 ottobre dello stesso anno, con il quale Ferrarotti ammette di aver sbagliato polemizzando con Pier Paolo Pasolini in ordine all'appassionata denuncia del poeta di "questo paese orrendamente sporco", è sintomatico di una presa di coscienza in chi si accorge dell'intollerabilità del marciume che regna sovrano in Italia. Soprattutto, c'è la dolorosa conclusione di un'impossibilità di salvezza alla luce di una dilagante corruzione a tutti i livelli e riguardante ogni partito politico. Si parla dello scandalo della ricostruzione in Irpinia dopo il terremoto e sul fatto che probabili accordi - come poi è accaduto - fra governanti e le altri parti politiche, possa mettere tutto a tacere. Già allora l'opposizione non era tale, già allora si poteva individuare un'oligarchia che soffoca ogni regime democratico, già allora, in buona sostanza, era prevedibile l'oggi.
Lettere al Presidente diventa quindi un'analisi spietata della struttura del nostro paese, della sua classe politica, ma anche dell'accondiscendenza di tutti gli italiani, e i mali non si guariscono se non c'è la volontà almeno di tentare di curarli.
Un saggio sicuramente da leggere.

Franco Ferrarotti è professore emerito di sociologia nell'università di Roma "La Sapienza"; vincitore del primo concorso bandito in Italia per questa materia; già responsabile della divisione "Facteurs sociaux" all'OECE, ora OCSE, a Parigi; fondatore, con Nicola Abbagnano, dei Quaderni di sociologia nel 1951; dal 1967 dirige La Critica sociologica; nel 1978 nominato "directeur d'études" alla Maison des Sciences de l'Homme a Parigi; insignito del premio per la carriera dall'Accademia nazionale dei Lincei il 20 giugno 2001. Numerose sue pubblicazioni sono state tradotte all'estero. Ha insegnato e condotto ricerche presso molte università straniere.
Renzo Montagnoli


Candido ovvero Un sogno fatto in Sicilia di Leonardo Sciascia Adelphi Edizioni

Collana Gli Adelphi
Narrativa romanzo
 

Nel Candido di Voltaire il suo educatore Pangloss gli rammenta  che “questo mondo è l’ottimo dei mondi possibili”, nonostante tutto aggiungo io.
E secondo Montesquieu, “un’opera originale ne fa nascere quasi sempre cinque o seicento altre, queste servendosi della prima all’incirca come i geometri si servono delle loro formule” .
In questo modo Leonardo Sciascia trae spunto dal romanzo filosofico di Voltaire per scriverne uno lui stesso, a cui dà come nome Candido ovvero Un sogno fatto in Sicilia.
In ogni caso, da un autore dotato di forte personalità come Sciascia è lecito attendersi qualche cosa di ampiamente diverso dall’opera letteraria che l’ha ispirato e infatti questa è solo il punto di partenza, la scintilla creativa che dà origine a un incendio culturale di grande portata.
La vicenda di Candido Munafò, nato nel 1943 in una grotta siciliana mentre gli americani stanno sbarcando, è la storia di un vero e proprio eretico, di un individuo la cui rettitudine è talmente connaturata da respingere ogni compromesso, da rifiutare qualsiasi forma di ipocrisia, al punto di risultare dirompente non solo per l’assetto familiare, ma anche per quello sociale.
E’ talmente diverso, talmente cristallino e alieno dal più piccolo gioco d’interesse da costituire una vera e propria mina vagante che dove passa lascia il segno, una sorta di morbo di cui una società imbastardita da connivenze, interessi particolari e  lotte di potere ha più che un vero e proprio timore, ha il terrore, tanto da considerarlo un mostro.
Ma Candido non esisterebbe se non ci fosse la presenza di un uomo tormentato da tale situazione, che è cosciente dei difetti macroscopici della società, ma che è costretto ad accettarli, quasi che questo mondo fosse il migliore di quelli possibili. E’ il suo istitutore, Don Antonio Lepanto, prete che verrà espulso, verrà insomma spretato, e che per forza di cose deve approdare a un’altra chiesa, cioè il Partito Comunista, dove, pur accorgendosi di tutte le contraddizioni nefaste, rimarrà, perché al di fuori di questa struttura per lui non c’è salvezza.
Candido è talmente immune da secoli di irreggimentazione dell’umanità che non è comunista ideologicamente, bensì naturalmente, tanto che non concepisce che possa esistere la proprietà e lui stesso, che per eredità di terreni ne ha tanti, cerca in tutti i modi di liberarsene per darli ai contadini, proposito che, avanzato nella sede del partito comunista, viene prontamente  ostacolato.
Il ragazzo, ormai maggiorenne, finirà per abbandonare le ideologie strutturate e burocratizzate dall’uomo per tornare all’aspirazione naturale, all’anarchia.
Questa sarà una strada non breve, con una meta irraggiungibile, ma lui, lasciata prima la Sicilia e poi il Piemonte, oltrepassa le Alpi e va nella città della rivoluzione, dove tutto è possibile, anche coltivare la speranza.
Sarà così che a Parigi incontrerà la madre che in pratica non vedeva da quando era infante e che vorrebbe portarlo con sé in America, dove vive da tanto tempo.
Candido Munafò, però, declina e le risponde: “ Qui si sente che qualcosa sta per finire e qualcosa sta per cominciare: mi piace vedere quel che deve finire “ e Don Antonio Lepanto, che è presente, conferma “Hai ragione, è vero: qui si sente che qualcosa sta per finire, ed è bello …Da noi non finisce niente, non finisce mai niente….”.
Di tutti i romanzi di Sciascia questo è senz’altro quello che preferisco, sincero, a tratti anche commovente, per nulla greve, ha la magia di un sogno, appunto di un sogno fatto in Sicilia.

Leonardo Sciascia (Racalmuto, 8 gennaio 1921 – Palermo, 20 novembre 1989). E’ stato autore di saggi e romanzi, fra cui: Il giorno della civetta (Einaudi, 1961), A ciascuno il suo (Einaudi, 1966), Il contesto (Einaudi, 1971),  Todo modo (Einaudi, 1974), La scomparsa di Majorana (Einaudi, 1975), I pugnalatori (Einaudi, 1976), Candido, ovvero Un sogno fatto in Sicilia (Einaudi, 1977), Il cavaliere e la morte (Adelphi, 1988), Una storia semplice (Adelphi, 1989).
Renzo Montagnoli


Dal codice al libro stampato di Gaspare Armato e Alessio Miglietta Lulu.com  www.lulu.com
Prefazione degli autori
Copertina di Catalina Alvarez
Saggistica storica

Il libro della storia del libro, così potrebbe essere definito questo volume di ben 296 pagine, frutto del lavoro di due ricercatori come Gaspare Armato e Alessio Miglietta.
Siamo talmente abituati a usare questi oggetti di carta stampata che non ci chiediamo quale sia stata la loro origine; nasciamo, andiamo a scuola e sono lì a portata di mano, entriamo in una libreria o in una biblioteca e in migliaia sembrano osservarci dalle loro copertine colorate.
Per noi, in forza dell'abitudine, è come se i libri fossero sempre esistiti nelle caratteristiche attuali, ma non è così e la storia di questo indispensabile strumento di cultura è lunga tanti anni, anzi moltissimi secoli ed è ancora lungi dall'essere conclusa.
Non nascondo che, preso in mano questo volume, ho avuto il timore di trovarmi alle prese con una prosa scarna, fatta di date, di annotazioni tecniche, da una miriade di glosse, insomma la mia preoccupazione era di imbattermi in qualche cosa di buon interesse storico, ma tediosa da leggere, per non dire soporifera.
E invece non è stato così, perché l'intento divulgativo dei due autori è stato supportato da mani leggere; infatti, pur non tralasciando gli elementi essenziali, Armato e Miglietta hanno saputo esporre in modo accattivante, in una sorta quasi di romanzo storico.
E' un libro che non solo si lascia leggere, ma che invoglia a essere letto per le notizie che rivela, per le curiosità che suscita e per le risposte che riesce a dare a queste curiosità.
Se pensiamo che per centinaia di anni lo scibile umano è stato trascritto su scomodi rotoli di papiro, già il passaggio al codice, cioè a fogli di pergamena scritti ovviamente a mano sul recto e sul verso, e racchiusi da due copertine, nell'antichità rappresentò una conquista quasi mirabolante e diede luogo, nell'ambito della cristianità, a quell'attività di copiatura dei monaci benedettini, di cui in qualche museo abbiamo prova. Pensate a un uomo chino tutto il giorno sul suo tavolo intento a ricopiare un altro scritto, un lavoro monotono, che non di rado dava luogo a errori o induceva l'amanuense, soprattutto se non comprendeva bene il concetto, a interpretazioni del tutto personali, sì da farlo diventare quasi un coautore.
Erano soprattutto i testi sacri oggetto di questo lavoro, ma non mancavano, per fortuna, anche le opere dei grandi autori latini. La produzione di questi libri era necessariamente limitata per il tempo occorrente a predisporli, per il loro prezzo esorbitante, che lievitava a somme astronomiche se le pagine erano abbellite da miniature, e per il fatto che nel primo medioevo l'analfabetismo era la caratteristica dominante di una popolazione che vedeva interessati alla lettura solo il clero, i nobili di più alto livello e pochi altri notabili.
Ma la svolta decisiva, la scoperta che rivoluzionerà il libro sarà nel XV Secolo frutto di Gutenberg, inventore della stampa a caratteri mobili. Grazie a lui si poterono realizzare in breve tempo moltissime copie di ogni libro, facendone anche scendere così i costi e rendendo le opere accessibili a una popolazione che gradualmente, soprattutto grazie alla presenza di un ceto medio, come la borghesia, era volta a una progressiva alfabetizzazione.
L'analisi storica dei due autori non trascura anche le problematiche introdotte dal libro, usato come strumento di propaganda, vessato dai potenti qualora di spirito libertario o rivoluzionario, oggetto di censura, bruciato nei roghi come una strega.
Ma quale sarà il futuro di questo nostro compagno fedele di notti insonni o di giornate di riposo in spiaggia?
A questa previsione è dedicato l'ultimo capitolo intitolato "Verso un prodotto immateriale". E del resto, nemmeno a farlo apposta, di questo libro esiste una versione cartacea e un'altra elettronica.
Personalmente preferisco sfogliare le pagine, aspirare il profumo della carta, mettere le orecchiette come segnalibro, magari scrivere a lato delle note in matita. Sono forse vecchio e antiquato, sono forse un retrogrado o un irriducibile?
No, semplicemente sono un uomo del secolo trascorso, che, pur usufruendo delle notevoli innovazioni tecnologiche, ha memoria del suo passato, a quegli anni giovanili cresciuti fra carta e penna a cui ancor oggi guarda con immutata commozione.
Dal codice al libro stampato è in effetti una memoria storica, un viaggio a ritroso per comprendere il presente e pensare al futuro.
Vi si può ritrovare un po' di noi stessi, perché questo libro della storia del libro ripercorre con noi tutte le tappe di questo indispensabile strumento di diffusione della cultura.
Assolutamente imperdibile.

Gaspare Armato abita a Pistoia. Si dedica a divulgare la Storia moderna tramite il suo blog: www.babilonia61.com
Fra le sue pubblicazioni ricordiamo: 41 mesi di guerra (1984), Passeggiando per la Storia (2007), Appunti della Storia (2008), La Storia nell'Arte (2009).

Alessio Miglietta è medievista, storico della scienza e autore di testi narrativi. Scrive su vari blog a carattere divulgativo.
Fra le sue pubblicazioni ricordiamo: Vautrin, il libro (2007), Inganni (2008), Il quarto moschettiere (2009).
Renzo Montagnoli


Nelle terre estreme  di  Jon Krakauer  Edizioni Corbaccio
Titolo originale: Into the Wild

Traduzione dall’originale americano di Laura Ferrari e  Sabrina Zung

Reportage letterario

Nell’aprile del 1992 un ragazzo di buona famiglia della costa orientale degli Stati Uniti raggiunse l’Alaska in autostop e si addentrò nel territorio selvaggio a nord del monte McKinley. Quattro mesi più tardi un gruppo di cacciatori d’alci rinvenne il suo corpo ormai in decomposizione. Così inizia la storia di Into the wild; Christopher McCandless un giovane di 22 anni, conseguita la laurea e dati in beneficenza tutti i risparmi, sparì dalla circolazione. Per due anni peregrinò attraverso l’America del Nord in cerca di un’esperienza trascendentale, ma  in Alaska, male equipaggiato, senza alcuna preparazione alle condizioni estreme che avrebbe incontrato, morì di stenti all’interno di un autobus abbandonato: il 142 di Fairbanks. Accanto al cadavere fu rinvenuto il diario che ha permesso di ricostruire le sue ultime settimane di vita. Krakauer  scrisse sulla rivista “Outside”un articolo sulle misteriose circostanze della morte del giovane e dopo, il suo interesse non si spense, anzi si appassionò alla storia riscontrando dei vaghi ed inquietanti paralleli tra gli eventi di McCandless e la sua vita. Così prese corpo il libro che non è solo una biografia, ma una riflessione su temi quali, il fascino che i territori selvaggi suscitano nell’immaginario americano, l’attrattiva che le attività ad alto rischio esercitano su certi giovani, il complicato e delicato legame che unisce padri e figli. Dalle note dell’autore emerge un ragazzo molto profondo, il cui forte idealismo era difficilmente compatibile con la vita moderna. Affascinato dall’opera di Tolstoj, Mc Candless ammirava il modo in cui il grande scrittore aveva saputo abbandonare una vita di benessere e privilegi per frequentare gli indigenti. Infatti affrontò questo viaggio più che per spirito di avventura come forma di ascetismo, caratterizzato da un assolutismo morale e grande amore per i paesaggi impenetrabili, privi di segni di vita, come in Zanna bianca di Jack London, era nel selvaggio Wild delle spietatamente gelide terre del Nord.
L’autore descrive con grande cura dei dettagli quei luoghi teatro del peregrinare di Cris, le strade, le foreste, le montagne, i fiumi  e torrenti fluttuanti nelle loro indescrivibili combinazioni di curve verticali e orizzontali, riporta ad ogni inizio di capitolo stralci di pagine in cui la natura è vissuta come qualcosa di selvaggio e terribile benché bellissimo.
Il protagonista di questa tragica vicenda sente il bisogno di mettersi alla prova di continuo e di portare il rischio al suo estremo logico. A differenza di tanti audaci scalatori, viaggiatori, Mc Candless si avventurò nella foresta non tanto per riflettere sulla natura  e sul mondo in generale, quanto per esplorare il paesaggio interiore della propria anima. Sul diario sono poche le divagazioni sulla natura, scarsa la menzione del paesaggio, non che non  riuscisse ad apprezzare le bellezza circostante e che non fosse toccato dal potere del paesaggio, ma non era  tormentato dalla disperazione esistenziale,  diffidava del valore dei traguardi facili e pretendeva molto da sé  di più di quanto fosse in grado di dare. Rimane comunque elusiva, sfuggente e vaga l’essenza della vita e della morte di giovane.
Nell’ultima pagina del diario è inserita, strappata, la pagina conclusiva della biografia di L’Amour Education of a wandering man. Da una parte l’autore riportava una citazione estrapolata dal poema di Robinson Jeffers Wise men in their bad hours:

La morte è una stornella feroce: ma morire avendo rappresentato
qualcosa più all’altezza dei secoli
che muscoli e ossa soltanto, è soprattutto liberarsi della debolezza.
Le montagne sono pietra morta, la gente
ne ammira od odia l’altezza, l’insolente tranquillità,
le montagne non s’addolciscono né si preoccupano
e i pensieri di alcuni uomini morti hanno la stessa tempra.

Sull’altra immacolata, Mc Candless compose un breve messaggio d’addio: “Ho avuto una vita felice e ringrazio il Signore. Addio e che Dio vi benedica!”.

L’autore: Jon Krakauer è nato a Brokline, nel 1954 ed è cresciuto nell’Oregon, dove fin da bambino ha sviluppato la sua passione per la montagna. L’amore per l’estremo lo ha portato a diventare un alpinista professionista di alto livello, con diverse imprese al suo attivo, come la parete ovest del Cerro Torre, in Patagonia. Dal 1983 si dedica a tempo pieno alla scrittura come giornalista per riviste specializzate e autore di libri di grande successo, tra cui Aria sottile, Il silenzio del vento e In nome del cielo.
Il bestseller Nelle terre estreme è stato pubblicato nel 1996. Nel libro Krakauer traccia parallelismi tra la sua esperienza e le sue motivazioni e quelle di McCandless. Da Nelle terre estreme è stato tratto il film Into the Wild - Nelle terre selvagge, diretto da Sean Penn, uscito nelle sale americane nel 2007 e in quelle italiane nel 2008.
Dal 2004 è curatore della serie "Esplorazioni"e  "Modern Library" (della Random House).
Arcangela Cammalleri


Attraversamenti verticali di Cristina Bove Edizioni Il Foglio Letterario www.ilfoglioletterario.it  ilfoglio@infol.it
Prefazione di Renzo Montagnoli
Collana Autori Contemporanei Poesia
Poesia Silloge

C'è un famoso detto che recita che non c'è il due senza il tre. Sono modi di dire che si trascinano nella tradizione popolare, per giustificare una certa catena di eventi, di cui poi magari si verificano solo i primi due, mentre il terzo viene rinviato sine die.
Non è il caso delle pubblicazioni di Cristina Bove, poiché dopo Fiori e fulmini del 2007 e Il respiro della luna del 2008, è fresca di stampa una terza silloge e, senza voler fare previsioni azzardate, sono dell'idea che, data la prolificità dell'autrice, ne seguiranno senza dubbio altre.
Questa messe produttiva trova il suo motivo nel fatto che in lei ormai è talmente connaturato il linguaggio poetico al punto che, per esprimersi sui più svariati temi e comunque sempre cercando di fare un discorso approfondito, finisce con il ricorrere ai versi, una forma di esposizione che le risulta particolarmente congeniale, in particolar modo già nell'aspetto propedeutico dell'elaborazione del pensiero.
Che questo modo sia efficace è dimostrato poi dalla qualità della sua produzione, costante, senza cadute, ma eventualmente in una continua evoluzione dello stile, dapprima più semplice e ora appena un po' più complesso, con versi anche secchi, troncature e concentrazione del messaggio, il che finisce per avvicinarla ancor di più alla corrente ermetica.
Già nel titolo, Attraversamenti verticali, c'è infatti la volontà di pervenire a una scrittura meno corrente e comunque emblematica di un pensiero che va a cogliere ogni aspetto della società e dell'animo umano. Del resto l'intera silloge prende il nome da una delle poesie presenti che nella sua dinamica mi sembra supporti adeguatamente quanto ho fino ad ora scritto.

ATTRAVERSAMENTI VERTICALI

Modello a cera persa
in fonderia dove tracima e scorre
si lamenta
nello sbuffo di scarico l'impronta
cavità mi contiene, io sono il segno
dell'avido contrarsi, il luogo e il tempo
il mantice d'intorno
e sboccio come fiamma dalla brace
un'immersione
poi, raggio corrusco
mi spengo nella sabbia del fondale.
Lune dipinte erettili
mi navigano il dorso e fluttuo lenta
nell'ondeggiare delle posidonie.

C'è indubbiamente il tentativo di andare oltre una normale forma espositiva per addentrarsi in un'altra dimensione, in parte ancora non del tutto conosciuta.
Peraltro è presente pure la tendenza a un ritorno alla forma stilistica precedente che ben conosciamo, forse anche perché non è mai possibile troncare totalmente con il nostro passato e allora appare palpitante il cuore messo a nudo di Cristina Bove (Allora anch'io mi chiedo se è così / che si fa poesia / se basta avere l'aria nella testa / un pulviscolo in petto / o una notte di lucciole in cantina /…) oppure (La luna apre le braccia e chiama il mare / nei capelli d'argento /…).
La creatività così si armonizza bene con il concetto e il sentimento, la sensazione ha l'innegabile vantaggio della traslazione immediata all'animo del lettore.
Comunque questo insieme di stile consueto e di esperimento innovativo appare bene amalgamato e tale da accontentare sia chi già conosce l'autrice per il suo verseggiare sciolto e armonico, sia per chi cerca nuovi percorsi espressivi, che sono un segno di vitalità e di perpetuo rinnovamento in un autore che ha ancora da dire molto.
Se mi è consentito un paragone, dico solo che Cristina Bove è come un roseto, che ogni anno si concede una fioritura di diversa scenografia, fermo restando l'originario colore.

Cristina Bove
E' nata a Napoli il 16 settembre 1942, vive nelle vicinanze di Roma dal '63, anno in cui si è sposata. Da quando si ricorda ha sempre dipinto, scolpito, letto molto e qualche volta scritto, famiglia permettendo, poiché la sua stata alquanto numerosa e la sua vita intensa, ricca di eventi meravigliosi come la nascita dei suoi quattro figli, la creatività, gli amici, il miracolo di esserci ancora, sopravvissuta non sa quante volte. Presente in diversi siti Internet con le sue poesie, ha pubblicato le sillogi Fiori e fulmini (Edizioni Il Foglio Letterario, 2007) e Il respiro della luna (Edizioni Il Foglio Letterario, 2008).
Blog: Cristina Bove; Giardino dei poeti; Cristella.
Renzo Montagnoli


Il menù di Sergio Sozi Castelvecchi Editore www.castelvecchieditore.com

Narrativa romanzo

Sergio Sozi ha innati il senso e il sentimento dell'italianità, probabilmente ancor più vivo in quanto residente all'estero, in una terra dove, peraltro, esistono nostri numerosi connazionali che mai hanno perso la loro identità, e ciò nonostante guerre, spostamenti di confini e finanche diaspore.
Non poteva pertanto rimanere indifferente alla situazione di un'Italia i cui abitanti hanno abiurato inconsciamente le loro origini, gettandosi, nel servilismo più totale e masochista, fra le braccia di altre civiltà, in primis quella americana.
Siamo diventati così una colonia in cui scimmiottare gli usi di altri, i padroni, che invece assorbono da noi, adattando alle loro esigenze, le nostre ormai scomparse tradizioni culturali.
Sozi, che è un cultore dell'italianità, della nostra lingua, della nostra letteratura non poteva restare indifferente a questa abdicazione di coscienza collettiva e ha voluto parlarne a suo modo, con la sottile ironia che gli è propria.
Ha ideato, così, e scritto un romanzo fantastico, in una versione distopica, immaginando il nostro paese nel non così lontano futuro 2050.
La visione catastrofica, di una nazione che non è più nazione, viene abilmente stemperata da un atteggiamento satirico, che muove anche al riso per le nostre disgrazie, e proprio per questo resta l'amaro in bocca.
La scoperta di un diario del vecchio poeta Cesare Menicucci, ormai scomparso, offre all'io narrante, tale Lukin Philipucci,
i resti archeologici di quella che fu una grande civiltà, estintasi nel 2003 quando venne chiusa l'ultima biblioteca italiana.
Dopo quella data si entra in una nebbia letteraria, in cui predominano strani linguaggi, tutto fuorché l'italiano, e cessa la memoria, non tramandata alle nuove generazioni, con una perdita così dell'identità nazionale, ma anche della personalità individuale. Il nostro paese è ormai decaduto, spopolato, e nemmeno l'ombra di ciò che era.
E' forse superfluo che dica che la visione dell'Italia, effettuata a ritroso, sulla scorta di questo diario, in cui i versi di Menicucci scandiscono gli eventi, come fossero le portate di un vero e proprio menu, è quella, pari pari, che abbiamo sotto i nostri occhi, con una popolazione avulsa dalla realtà e che vive di apparenza, in cui ritmi e comportamenti sono scanditi da mode sì imposte, ma a cui ben volentieri ci si adegua, insomma una società di quasi decerebrati, in preda alla perenne convinzione che l'uso della mente sia solo compito di chi tiene le redini del paese.
La struttura nazionale così si disgrega, con edifici fatti di cartapesta che crollano al primo sboffo d'aria, con un ricorso a una lingua diventata del tutto incomprensibile, anzi atta a generare ancor più confusione in gente non adusa a leggere testi di qualità, ma solo soporiferi romanzetti atti alla conservazione di uno stato di perniciosa indifferenza.
E con l'incapacità di comunicare arriva l'impossibilità di tramandare ad altri, così che le origini e le tradizioni, tutto ciò che è cultura, viene ad essere dimenticato.
Ma come è potuto accadere uno scempio del genere?
Leggete questo "divertente" romanzo e lo saprete, con un'avvertenza, però: è vero che si tratta di fantasia, ma è purtroppo ben ancorata alla realtà. Quindi Il menù non è stato scritto solo per rallegrare, per far trascorrere bene qualche ora di lettura, ma è un monito preciso, affinché ci attiviamo per non ridurci come i futuri Lukin Philipucci.
Ah, un'ultima annotazione: state attenti alla lingua in uso nel 2050, perché è una vera chicca.

Sergio Sozi è vissuto in Umbria e in Slovenia. Giornalista culturale per testate italiane e slovene, poeta e narratore, già Premio Scritture di Frontiera di Trieste e Primorska Srecanja, ha pubblicato colloqui con Dacia Maraini, Sebastiano Vassalli, Diego Marani e Claudio Magris.
Il suo primo libro fu la raccolta poetica ''Oggetti volanti'' (Perugia 2000, segnalato dal Premio Sandro Penna 1999), seguito da ''Il maniaco e altri racconti'' (Roma 2007, racconto eponimo segnalato dal Concorso Scritture di Frontiera).
Il racconto ''Ginnastica d'epoca fredda'', prima di essere pubblicato nel 2009 in Italia da Historica Edizioni, è stato segnalato e antologizzato in Croazia nel 2008 a cura del Premio Fulvio Tomizza - Lapis Histriae.
Renzo Montagnoli


Estasi Culinarie di Muriel Barbery Ed. E/O

Romanzo-narrativa

Monsieur Arthens, il più grande critico gastronomico del mondo, a sessantotto anni, sta per morire. Per ironia della sorte, per un’insufficienza cardiaca, lui che aveva sempre rimproverato agli altri di non mettere abbastanza cuore nella loro cucina e nella loro arte, alla fine manca proprio a lui. Ma morire non ha importanza, solo una cosa gli interessa: cercare e trovare un sapore che gli frulla nel cuore. Un sapore dell’infanzia o dell’adolescenza, una pietanza primordiale e sublime, annidato nel più profondo di se stesso e che, alle soglie della morte, si manifesta come l’unica verità che in vita sua sia stata detta. Nel palazzo lussuoso di rue de Grenelle ( lo stesso de L’eleganza del riccio), si consuma, si fa per dire, questa spasmodica ricerca del “Sapore per eccellenza”. Attraverso la memoria, va a ritroso, nel suo passato Monsieur Arthens, ripercorrendo le tappe più importanti della propria vita: dai piatti poveri dell’infanzia alle prelibatezze di haute cuisine. Le testimonianze a più voci ( i famigliari, l’amante, l’allievo, il gatto, la portinaia Renèe…), ciascuna delle quali prende la parola ed esprime il suo punto di vista sulla grandezza di uomo pubblico e sulla miseria di uomo privato. Lui, in prima persona, celebra se stesso, di aver elevato un’arte minore, quella culinaria, ad una disciplina tra le più prestigiose e di aver assaporato il profumo inebriante del potere creando e demolendo reputazioni; con la sua penna ha dispensato sale e miele ai quattro venti attraverso giornali, trasmissioni e dibattiti… Uomo dispotico e pieno di sé, ama tra tutti i famigliari solo un nipote, Paul, a lui solo e alla moglie ha confidato la sua angoscia. Il romanzo è l’esaltazione del gusto per il cibo, le ricette sfavillano nei loro colori davanti ai nostri occhi e i profumi quasi pare di sentirli, per non parlare del gusto, dolce e salato; frammenti voluttuosi, poesia precisa, la cucina: un’opera d’arte tra le più sontuose e magnifiche in quanto comprende tutti i sensi…( il pasto si rivela decisamente sinestetico). Un uragano di emozioni, come bolle d’aria che risalgono rapide verso la superficie dell’acqua e, liberate, scoppiano in uno scroscio di applausi. In un finale imprevedibile, Arthens trova quel gusto indefinibile, un sapore ritrovato in un’apoteosi di desiderio autentico e piacere incontrastato!
Le pagine di questo romanzo zampillano di immagini, sensazioni e percezioni quasi erotiche del cibo, tanto sono intrise di emotività ed estasi…(calpestavo l’erba secca e folta del giardino, e in questo sogno di fiori e ortaggi mi inebriavo di profumi). Alcune similitudini di pag. 46 “L’orto” ricordano delle poesie di Pablo Neruda…Il libro presenta, a mio avviso, due pregi: il primo la tecnica narrativa di far parlare i personaggi ciascuno dal proprio punto di vista; il secondo lo stile ricco e sontuoso, ogni parola è cesellata come metallo prezioso e plasmata in un trionfo di modulazioni musicali e poetiche.

L’autrice Muriel Barbery, nata a Casablanca nel 1969 da genitori francesi, ha insegnato Filosofia in un istituto universitario di formazione per insegnanti. Questo è il suo primo romanzo scritto nel 2000 (Una golosità, edito da Garzanti nel 2000 e ora ripubblicato da e/o con il nuovo titolo Estasi culinarie). Ma il suo romanzo successivo L’eleganza del riccio, è stato un vero caso letterario in Francia e un grande best-seller anche in Italia, è stato tradotto in 31 lingue ed insignito di numerosi premi. Ora, l’autrice vive in Giappone, a Kyoto, e sta preparando il suo prossimo libro, probabilmente ambientato in Giappone.
Arcangela Cammalleri


Un'altra Julia di Cinzia Pierangelini Edizioni Historica www.historicaweb.com  info@historicaweb.com

Narrativa romanzo
Collana Celeris
rezzo: € 7,90

La fenomenologia del diverso ha sempre costituito un motivo d'interesse morboso e così donne cannone, nani, uomini a tre gambe hanno raggiunto una popolarità attraverso l'esibizione delle loro deformità. E' stato così anche per Julia Pastrana, donna barbuta che ebbe un grande successo nel XIX secolo e che si esibì in diversi teatri inglesi. Minuta, aggraziata, dalla voce delicata e intonata, mandò in visibilio migliaia di spettatori, attirati da un "mostro" che sapeva perfino cantare.
Cinzia Pierangelini ha pensato a lei quando ha scritto questo bel romanzo, ambientato nella sua Sicilia, trovando la sua quasi sosia in una fantomatica Leda.
Il tema dei diversi è particolarmente caro a questa autrice e al riguardo mi sovviene il suo penultimo romanzo, 'A jatta, laddove il "mostro" è un ex maschio diventato femmina; tuttavia in Un' altra Julia troviamo una differenza sostanziale, una vena di pietà che aleggia su tutto il testo e che lo nobilita.
Ambientato in una Sicilia di epoca non recente, pur se indeterminata (potrebbe essere la fine dell'800), la territorialità della storia ha un peso determinante, con la figura di Nitto, padre-nonno padrone che richiama la brutalità del maschio dominatore, senz'anima e pure lui coperto di peli, ma solo sul cuore. Vive solo per esprimere la sua potenza di ricco proprietario terriero e che alla nipote Leda, così bella da fanciulla, cresca la barba sul viso sì da farla somigliare a una volpe, importa poco e niente, tanto in ogni caso è oggetto di scambio, un mezzo per aggiungere altra terra a quella che già possiede.
Se di primo acchito l'impressione è quella di un romanzo di appendice, pagina dopo pagina, pervasi da quel senso di pietà che così bene l'autrice è riuscita a infondere, ci si accorgerà che invece è una drammatica denuncia della condizione dei diversi, a cui tutto è negato in una vita di cui si attende solo la fine.
In quelle righe ho ritrovato la migliore Pierangelini, quella che mi aveva impressionato con Settecani, un racconto parte del suo primo libro Dall'ultimo leggio.
L'italiano sempre corretto, ricercato, ma mai greve, è funzionale allo sviluppo della vicenda e senza divagazioni riesce a creare un'ambientazione, suggerendo immagini, linee guida utili affinché il lettore possa vedere a suo modo la terra assolata, i personaggi che la popolano, la vita di un mondo contadino che ora non esiste più.
Se magistrali sono le caratterizzazioni di Nitto e di Leda, devo dire che quella di Sostene è semplicemente stupenda e il richiamo alla figura di uno che si esprime in versi, curioso per tutto ciò che è di questo mondo in quanto poeta e anche per l'infanzia trascorsa fra le mura di un convento di suore, è l'antitesi della morbosità generale di chi vorrebbe vedere la donna barbuta per il solo piacere di provare stupore e sgomento. Anche lui ha questo desiderio, ma non è il suo viso volpino che l'attira, bensì il desiderio di conoscere un essere umano così provato dalla disgrazia, una curiosità che non è repulsione, ma accettazione. Non è certo amore, ma consapevolezza che entrambi sono diversi e come tali possono vivere solo in un mondo tutto loro, dove l'apparenza non ha importanza e in cui quel che conta è solo la loro essenza intima, l'anima.
Anche i personaggi apparentemente minori sono tratteggiati con rara abilità, e così trovano una collocazione nella trama non come comparse, ma come parti integranti e necessarie la remissiva Tania e il pavido Carmine, la nonna Rachele, una figura che costituisce l'ossatura dell'intera narrazione, nella sua trasformazione da donna remissiva e succube a essere razionale e pragmatico, Tindaro, il marito di Leda, un inetto ed incapace che si illude di essere nobile e uomo rispettato.
La storia finisce logicamente, nell'unico modo possibile, e quella chiusura cala il sipario su una rappresentazione di elevato pregio, il miglior romanzo, secondo me, di Cinzia Pierangelini.

Cinzia Pierangelini, violinista e docente, è nata a Messina dove vive. Scrive dal 2004 ed esordisce l'anno successivo con la raccolta di racconti Dall'ultimo leggio, cui seguono i romanzi Eraclito e il muro (2006), Draghia - romanzo fantasy per ragazzi - (2008), 'A jatta (2008), Il professor Scelestus - romanzo per ragazzi - Ed. La penna blu (2009).
Suoi lavori vincitori di premi e selezioni sono stati pubblicati su antologie e riviste letterarie.
Renzo Montagnoli


Il fabbricante di sogni  di Andrew Crofts Ed. Piemme

“Nel momento in cui uno schiavo decide
di non esserlo più, i ceppi si sciolgono.
Egli libera se stesso e mostra agli altri il cammino.
Libertà e schiavitù sono stati  mentali.”
Gandhi, Non violenza in pace e in guerra, 1919

“Nel concedere la libertà allo schiavo,
garantiamo la libertà al libero.”
Abramo Lincoln, Messaggio annuale al Congresso, 1862

A Muridke, in un villaggio sperduto del Pakistan, ai giorni nostri, vive Iqbal, un bambino come tanti altri strappato crudelmente all’infanzia per lavorare in una fabbrica di tappeti. Sembrerebbe una delle tante sorti che toccano tristemente a quei bambini dall’infanzia negata che, schiavi inconsapevoli, sopravvivono tra crudeltà inaudite e patimenti di fame e di violenza fisica. Iqbal bambino dalla mente sveglia e precocemente invecchiato non si rassegna alla perdita della libertà e in uno dei suoi tentativi di fuga incontrerà fortunosamente  Ehsan, il fondatore del “Bonded Labour Liberation Front. Verrà a sapere che il lavoro schiavizzato in Pakistan è illegale, nessuno può obbligare i bambini a lavorare nelle fabbriche, né nelle fornaci di mattoni…Parole come schiavitù e libertà entrano nel cuore di Iqbal, il quale, con l’aiuto dell’organizzazione, libererà tanti innocenti (ogni bimbo salvato è un passo in avanti), resi schiavi da padroni senza scrupoli con la scusa di saldare debiti contratti dalle famiglie, debiti che mai sarebbero stati saldati…Una febbre divorante porterà Iqbal  a correre rischi e pericoli, a lottare con tutte le sue piccole forze focalizzando l’attenzione internazionale sul tema del lavoro schiavizzato, in quanto l’opinione pubblica non è abbastanza informata, come l’industria degli articoli sportivi nel Terzo mondo, uno dei maggiori datori di lavoro per gli schiavi. Diventerà un eroe e come tutti gli eroi avrà vita breve, ma l’epilogo lo lascio al lettore. E’ una storia commossa e commovente, il tema trattato sembra a noi occidentali sì conosciuto, ma lontano nello spazio e nel tempo, quando altre forme di schiavitù ci sfiorano, ma non le consideriamo tali. In uno  stile  semplice e lineare, l’autore usa un’espressione linguistica umile ed immediata aderente ai personaggi di cui narra le vicissitudini. La lettura di questo libro è adatta a tutti, compresi i ragazzi.

L’autore. Andrew Crofts è co-autore di libri di grande successo, tra i quali ricordiamo Vendute!, con Zana Muhsen.
Arcangela Cammalleri


L’avversario  di Emmanuel Carrère Ed. Einaudi

Quarta di copertina. “Una famiglia, una casa, un cane, un’amante, degli amici. E diciotto anni di vita intensa. Fino alla tragedia finale. Carrère guarda in faccia Satana, l’avversario, e racconta l’orrore di cui è capace in un libro vero e terribile”.

Il 9 gennaio 1993, nella regione di Gex che si estende per una trentina di km lungo una pianura del Jura fino alle rive del lago Léman ( territorio francese, ma di fatto appartiene alla periferia residenziale di Ginevra),  Jean-Claude Romand ha ucciso moglie, figli e genitori. Poi ha tentato, invano, di suicidarsi. L’indagine ha rivelato che non era un medico, ricercatore all’organizzazione mondiale della sanità a Ginevra, come aveva sempre sostenuto, ma mentiva da diciotto anni; quando stava per essere scoperto, ha preferito sopprimere tutte le persone di cui non avrebbe potuto reggere lo sguardo. E’ stato condannato all’ergastolo.  
L’autore è stato in contatto con Jean-Claude Romand seguendo il processo prima, avviando una corrispondenza con il detenuto poi, è andato a trovarlo solo una volta e, dopo tre anni dalla condanna all’ergastolo, ha iniziato a scrivere la storia. Ha studiato il fascicolo del dibattimento ( il sinistro fardello), gli elementi processuali li ha ricavati dai resoconti dettagliati  di Jean-Claude stesso, dopo essere uscito dal coma e avere tentato prima di negare tutto. Gli psichiatri incaricati di esaminarlo sono rimasti meravigliati dalla precisione con cui si esprimeva e dalla preoccupazione di dare di sé un’immagine positiva. Un autocontrollo che denunciava uno stato confusionale, non rendendosi conto di lasciare gli psichiatri esterrefatti fornendo loro un racconto articolato dei suoi inganni, ed evocando moglie e figli senza particolare emozione. I medici avevano l’impressione di trovarsi davanti ad un robot, incapace di provare sentimenti, ma programmato per analizzare gli stimoli esterni adeguando  ad essi le proprie reazioni. Nel tempo ha mostrato segni di pentimento e si è avvicinato a Dio e alla preghiera. Carrère nel mettersi al lavoro non vedeva più ombra di mistero nella sua lunga impostura, ma solo una misera commistione di cecità, disperazione e vigliaccheria. Ormai sapeva cosa accadeva nelle sua testa durante le lunghe ore vuote trascorse nelle aree di servizio o nei parcheggi dei bar, era una cosa che in qualche modo aveva vissuto anche lui e che si era lasciato alle spalle. Adesso, si chiedeva Carrère, che cosa accadeva nel suo cuore durante le ore notturne di veglia e di preghiera? Il bugiardo che c’era in lui non lo starà ingannando? Non sarà caduto ancora una volta nella rete dell’avversario? L’autore ha pensato che scrivere questa storia non poteva essere altro che un crimine o una preghiera.
E’ una storia ha dir poco raccapricciante, la lettura di questo romanzo è estremamente  sconcertante, atroce, luciferina. Un mondo di bugie, menzogne costruito con lucida follia. Come il libro anche l’omonimo film con la regia di Nicole Garcia riprende le atmosfere cupe e strazianti del romanzo e un che di agghiacciante paralizza lo spettatore.

L’autore. Emmanuel Carrère è nato a Parigi nel 1957. E’ autore di sei romanzi, di cui La settimana bianca, pubblicato da Einaudi.
Arcangela Cammalleri


Dall’Adige all’Isonzo. Poeti a Nord-Est di AA.VV. a cura di Alessandro Ramberti Fara Editore www.faraeditore.it
Prefazione di Chiara De Luca e Massimo Sannelli

Poesia antologia 

Credo che un poeta possa essere considerato un testimone del suo tempo e che pertanto ciò che scrive sia un riflesso mediato del mondo che lo circonda. Se in un’epoca come la nostra, dominata dalla globalizzazione, che in effetti si estrinseca in un’omologazione, verifichiamo in narrativa sovente una tematica comune e anche uno stile espressivo analogo, la stessa cosa non si può dire per la poesia, perché l’autore è un artefice di se stesso, è un essere umano la cui sensibilità, sempre individuale, non ama ricondursi a un denominatore identico, a una visione dell’esterno generalmente classificata, ma la sua naturale introversione si esplicita in forme che esulano da una linea precostituita. Eppure, in questo contesto, è possibile rilevare elementi propri di una territorialità, di un comune sentire che, ancorché geografico, è frutto di tradizioni, di culture che resistono in una loro indiscutibile autonomia.
Non è un caso quindi se Alessando Ramberti, curatore di questa antologia, ha pensato di riunire le voci poetiche di autori del Nord-Est, di quella linea ideale che nasce con il fiume Adige, passa il Piave e il Tagliamento, e si chiude sullo storico Isonzo.
Non si tratta di padri della poesia, anche se più d’uno potrebbe forse diventarlo, ma ciò non impedisce a questi autori di essere poeti, cioè cantori, espressione di una trasposizione metafisica della realtà e dei fatti del mondo, tutti accomunati appunto da medesime radici che il traboccante progresso non riesce a spezzare. Questo legame indissolubile con la propria terra, con culture che si tramandano ben oltre quella che è la possibilità di acquisizione cognitiva, ma che rientrano nel patrimonio genetico, in cui l’antico riesce a convivere con il nuovo, mi ricordano un po’ un mondo lontano, quel Giappone di Samurai e di alta tecnologia.
I prescelti sono in tutto dieci:

Paolo Campoccia (Memento – Ricorda io sono qualcuno che resta; / chi dal tuo nome è tolto, nel tuo pianto / resta. Uno che vede chi vede il vento / uno che viene e paga di tutti il tempo.), romano di nascita e veneto d’adozione.

Roberto Cogo (da Risata rincorre l’alba – si continua a pensare sempre / di arrivare in qualunque luogo / da qualche parte seppellendo i ricordi / per non essere troppo o niente / …), vicentino di Schio.

Alessandra Conte ( da Abbraccio – allacciati i corpi con le bocche, le mani e i sessi / schiantati i corpi a cucchiaio senza deriva /…), pure lei vicentina.

Erika Crosara (da La signorina Vincenza – che cosa facesse, di mattina i rimasugli, il recupero / degli ordigni, rinnovamenti che disponeva sul candido / letto prima dei pranzi, quando veniva l’ora giusta per /….), un’altra vicentina.

Giovanni Fierro (da Sottofiume – Il silenzio del fiume è sott’acqua / la sua corrente è calligrafia / costruisce parole / le si possono leggere / nel segno continuo / che il suo scorrere lascia / nella terra scavata…), goriziano.

Fabio Franzin, che scrive in dialetto, ma di cui riporto la versione in italiano (da Stradine, sentieri – Questa striscia scura d’asfalto /( che so essere stata di sassi, /  un tempo, e  più stretta),  strada /, che taglia oltre i caseggiati, il paese, che va, diritta, verso la lontana / sagoma lilla dei monti…), milanese di nascita, ma trevigiano d’adozione. Mi permetto di spendere due parole su questo autore che fa uso del dialetto, generalmente relegato a testi poetici didascalici oppure satirici, ma che nel caso specifico è l’espressione autentica di quella territorialità, geografica e di costume, di cui prima accennavo.

Stefano Guglielmin (da Sponsor River – qui giace crodino la collina dei crodini / e quella trottola di sua musa / che scavallò sulla fibra l’onda e il meglio / dei sapori /…), vicentino di Schio.

Simone Lago (da Dopolavoro – Ci accoglie il paradosso come un lampo / non appena attraversiamo la penombra / che avvolge le quinte di questa città. /…), padovano.

Francesco Tomada (da Altrove – Siedo sul muro basso di fianco alla via / sarà che questa bottiglia di vino è quasi finita / ma la salita mi sembra più salita / le pietre più dure / e proprio adesso vorrei dire che mi manchi /…), goriziano.

Giovanni Turra Zan (da Consolation – Giusto al fondo del gioco / stava quel lembo di camicia / che si odiava dover stirare per tema / di svellerne le pieghe, di farne / al calore sanguinare le crepe. /…), vicentino.

 Di ognuno di questi autori è riportata una silloge e comunque un congruo numero di poesie che rendono possibile comprenderne le peculiarità, nonché in calce alla stessa un commento critico, talvolta di poeti presenti nello stesso volume.
Mi corre altresì l’obbligo di evidenziare le interessanti prefazioni di Chiara De Luca e Massimo Sannelli che riescono a fornire un quadro generale dell’opera facilitandone non poco in questo modo la lettura, che potrà risultare, in dipendenza dell’autore, più o meno gradevole, restando però sempre in ogni caso senz’altro consigliabile.

Renzo Montagnoli


Poesie per ricordare di Anna Amadori Lizzeri La Riflessione Davide Zedda Editore http://www.lariflessione.com/

Poesia silloge

Che necessità può avere una donna di 36 anni di ricordare e cosa poi far emergere dalla memoria?
Non ce ne accorgiamo, perché è un processo inconscio il ricordo, che spesso sovviene senza che noi andiamo a cercarlo; eppure ha una funzione importantissima, perché è un processo cognitivo, oltre a costituire la testimonianza del vissuto. Noi siamo quello che siamo per quanto abbiamo fatto, per le emozioni e le sensazioni che abbiamo provato, ma non è sufficiente a spiegare la funzione del ricordo, che costituisce l’occasione per una riflessione, che può essere limitata all’evento di cui ci si sovviene, ma che anche può diventare molto più ampia, investendo tutti i grandi temi e misteri dell’esistenza.
E’ quello che ha fatto Anna Amadori con questa silloge che parla dell’amore, della vita e della morte, cioè dei tre grandi momenti che costituiscono il nostro procedere terreno.
L’amore è passione, ma anche tormento, è quasi inconsapevole attrazione che comporta gioie e dolori, patimenti ed estasi, non un accessorio, ma un elemento indispensabile, che si accetta più che cercare, che si manifesta senza che ce ne rendiamo conto, ed ecco che allora le emozioni scaturiscono, anzi esplodono (da Gli occhi tuoi – Come fiori / Scintillanti / di ghiaccio / adorni, / gli occhi tuoi / mi assalirono / alla porta dell’anima, / per scardinarne i giunti. /…). Ma l’amore non è solo quello fra un uomo e una donna, è anche qualcosa di più elevato e volto all’Assoluto (da Gli occhi dell’amore - …/ Solo guardando con gli occhi / Di Dio vedrai / Il figlio in ogni croce. / Beato chi vedrà con gli occhi /  Di Dio perché vedrà / Con gli occhi dell’amore.).
La vita è occasione di meditazioni più intime, sul perché e sul per come siamo, campo in cui non pochi si sono cimentati, traendo, per fortuna, conclusioni non assolute. Qui, per quanto la stesura del verso possa sembrare impersonale, c’è una partecipazione di grande intensità del poeta, che finisce con il divenire giudice di se stesso (da UomoVanesio il tuo cammino, / stridente il tuo eco, / affannosa la tua esistenza. / …). E’ un ritratto impietoso, frutto di quella consapevolezza, che la riflessione sulla natura umana, il ricordo, spesso vago, indeterminato, ha stimolato.
Non c’è vita, però, senza la morte e a questa l’autrice dedica una delle poesie migliori di questa silloge che ritengo doveroso riportare integralmente. Non è la morte delle danze macabre, ma il custode di noi tutti che ad uno ad uno chiama a raccolta, con un sorriso ironico, da padrona nei confronti di servi che hanno creduto di essere superiori a tutto, anche a lei.

 

La fine
Orsù dunque,
lisciati le pieghe dell’anima,
che la fine palpitante t’aspetta,
ed ignara e di fretta ti conduce
alla sua dimora.
Non bussare ,
giacchè ,
Sulla porta t’attende
Con ironico sorriso.

Silloge di gradevole lettura, in quanto non difficilmente comprensibile, si fa notare per la poliedricità dei temi con cui la poetessa ha saputo tradurre in versi, con eccellenti risultati, concetti non consueti ed esposti con originalità.
La lettura è senz’altro consigliata.

Anna Amadori nasce a Sassari il 16 gennaio 1972, città in cui vive e lavora come libera professionista.  Laureata in giurisprudenza è sposata e madre di tre figli; alla passione per la scrittura accompagna quella per la musica, per la lettura e per la storia antica. Oltre ad una pubblicazione scientifica su una rivista medica nel 2004, ha pubblicato come coautrice, sempre nello stesso anno, una monografia sul tema della violenza sessuale sui minori in Sardegna, edita da “Scuola Sarda Editrice”.
Poesie per ricordare è il suo primo libro di poesie.
Renzo Montagnoli


La tripla vita di Michele Sparacino  di Andrea Camilleri Ed. Rizzoli 
Racconto “Improbabile”

Questo racconto,  preso da una serie di storie che Camilleri scrive per “divertimento personale” e che nelle sue intenzioni non hanno una destinazione editoriale, è un autentico, piccolo capolavoro, che il Maestro cesella con fine arguzia e sapiente costruzione tecnica. L’antefatto della creazione del libro è nelle parole dello stesso Camilleri  nell’appendice “Un destino ritardato”, conversazione con Andrea Camilleri di Francesco Piccolo. “Si  arriva a scrivere un racconto per suggestioni lontanissime. La prima suggestione per creare il personaggio di Michele Sparacino è nata dalla frase conclusiva de “I vecchi e i giovani” di Luigi Pirandello, perché dovendo rispondere ad una domanda: “ Cos’è un italiano?”, la va a cercare nel testo pirandelliano. Un ex garibaldino  equivocando i fatti, si veste con le medaglie, l’esercito gli spara e quando lo rivoltano è pieno di medaglie risorgimentali e allora si chiedono: “Chi avevano ucciso?”Questa è l’ultima frase del libro. E dunque nasce l’idea di scrivere, di uno che è esistito ma era come se non fosse esistito; o è sempre esistito equivocato ogni volta per essere un altro e che, quando muore, nella terza vita riesce ad essere quello che è, cioè un ignoto”. Michele Sparacino vive un’altra vita, ma è una vita antecedente, cioè vive una vita da adulto quando è ancora neonato e vive una vita da uomo ormai leggenda quando è appena adulto. Quando è ormai già morto diventa un eroe ignoto, emblema di tutti gli eroi di guerra: il milite ignoto. Camilleri, in questo gioco pirandelliano, lascia sulla corda il lettore che si chiede quando gli investigatori capiranno la verità… Una  spiegazione esplicita dello sfasamento temporale dell’equivoco non ci sarà, Camilleri dice che non si può dare sempre la caramella al lettore, ogni volta che piange. In questo racconto della serie fantastici c’è l’Italia di ieri, ma anche quella di oggi, un riferimento al cattivo giornalismo (A che cosa porta il cattivo giornalismo), alla bieca informazione che manipola l’opinione dei lettori; alla ricerca di un capro espiatorio, nella finta intervista Michele Sparacino diventa il colpevole di ogni misfatto. L’ambientazione di questa improbabile storia è Vigata e non poteva essere altrimenti, il tessuto linguistico è sempre quello così arricchito e variato nelle sue ampie reti stilistiche, nato, oltre per le già note spiegazioni dell’autore, per spiegarsi  e piegarsi ad una realtà poliforma e complessa. Egli trova infinite risorse espressive in questo  scomporre e ricreare linguistico, questa originale e collaudata commistione linguistica ha superato la fase sperimentale a tal punto da diventare a tutto diritto una lingua classica e storica. Una volta si diceva lunga vita al re, o come gli Inglesi “ Dio salvi la regina”, noi cultori del mondo letterario di Camilleri diciamo: “Possa la sua longeva e  artistica vena scorrere come fiume perenne ….”   

L’autore. Andrea Camilleri è nato a Porto Empedocle nel 1925. Ha esordito come romanziere nel 1978 con “Il corso delle cose”. Della sua ricchissima produzione letteraria tutti i romanzi con protagonista il commissario Montalbano sono pubblicati dalla casa editrice Sellerio e altri, tra questi ricordiamo: “La forma dell’acqua”, “Il cane di terracotta”, “Il ladro di merendine”, “La voce del violino”, “La stagione della caccia”, “Il birraio di Preston”, “La concessione del telefono”, “La gita a Tindari”, “Maruzza Musumeci”, “Il casellante”, “Il campo del vasaio”, “L’età del dubbio”, “Un sabato, con gli amici” “Il sonaglio” “Il cielo rubato”.
Arcangela Cammalleri


Tu non dici parole di Simona Lo Iacono Giulio Perrone Editore www.giulioperroneditore.it
Narrativa romanzo

Francisca "ha capito che esistono parole per i ricchi e parole per i poveri. Le une lette, scolpite, recitate e - soprattutto - belle, bellissime come cose che non sono di questa terra. Le altre lorde, bastarde e fetenti dell'alito di chi ha lo stomaco vuoto"

La lettura di questo romanzo è stata particolarmente travagliata, perché pagina dopo pagina, pur interessato alla vicenda, non riuscivo a comprendere il motivo per cui il testo mi avvincesse, anzi diventasse via via parte di me.
Di conseguenza, mi sono spesso interrotto, ricominciando ogni volta da capo, con una sensazione di attrazione inconscia che si rinnovava e che trovava puntualmente un'assenza di risposta alla domanda continuamente reiterata: perché?
Poi, quasi per caso, nel corso di una ennesima rilettura, ho compreso che l'opera presenta più significati, ma che quell'andamento lento, quasi dolente, con le parole che sembrano le componenti di una processione non cristiana, ma eventualmente pagana - qualora si consideri la preminenza dell'elemento spirituale naturale -, era la rappresentazione del potere delle parole. Non si tratta solo di mezzo di comunicazione, ma di un uso dei vocaboli e dei verbi in una sorta di quadro mistico che recupera il valore fondante e immenso del linguaggio.
La parola non diventa quindi solo mezzo, non è un oggetto, ma è un soggetto, la protagonista di un intero libro, con un personaggio, l'esposta Francisca, che avverte la suggestione della potenza delle parole, profonde, misteriose, evocatrici di un mondo sconosciuto quelle belle, quelle dei ricchi, e dozzinali, quasi dei grugniti quelle della povera gente. E allora impadronirsi di quelle belle, anche se non ne conosce il significato, per Francisca vuol dire evadere dalla dura realtà giornaliera e ascendere a un olimpo di cui tuttavia non ha coscienza. Le parole dei ricchi fanno sognare i poveri ed ignoranti che pensano che il motivo della loro agiatezza risieda in quella lingua così colta, così sovrannaturale, che ben si sintetizza nella litania di quel miserere ossessivamente ripetuto durante il sacco del convento.
Per Francisca quei termini inusuali sono talmente importanti che finisce con il rubarli, con il sottrarre pagine del breviario, quasi che in tal modo potesse impadronirsi della ricchezza delle parole.
E così diventa un'ossessione ripetere quelle già udite pronunciare dalle suore, con quella musicalità del latino che permette alla ragazza di sentirsi sopra ogni cosa, ma soprattutto estranea alla durezza di un mondo che a lei non ha riservato una sorte benigna, perché un'ignorante che biascica, che si permette di pronunciare verbi non suoi non può essere che una creatura del demonio, insomma una strega, da bruciare, da purificare con il fuoco.
Diventa così, senza saperlo, nemica della Chiesa, tutta tesa a conservare per sé il potere delle parole o al più a lasciarne un po' ai nobili; le classi devono restare al loro posto, un misero, un meschino non può elevarsi, perché ne andrebbe dell'equilibrio del mondo.
E così, quelle stesse parole che hanno dato a Francisca la forza di vivere, la condannano, l'uccidono, perché la loro ricchezza e il loro potere devono restare a chi da sempre comanda, a chi delle parole ha fatto un uso a difesa dei propri esclusivi interessi.
Inevitabilmente si arriva al processo della Santa Inquisizione, in un giorno del carnevale, in cui i giudici diventano maschere di altre maschere, se stessi, con una sentenza che è già pronunciata prima di iniziare, perché loro sono i primi colpevoli, complici di un diavolo che esiste solo in essi, solo parolai, di parole che non escono dall'anima, in un rito che più pagano di così non potrebbe essere.
Ma allora perché il titolo Tu non dici parole? E chi è quel Tu?.
Al misero non resta che la liberazione della morte, che arriva sempre silenziosa, per tutti e quel Tu non dici parole è rivolto a lei, alla signora in nero con la falce, che non ha preferenze, ricco o povero, colto o ignorante, tutti li ghermisce in un unico abbraccio.
Questo romanzo, fatto di parole in italiano corrente, in italiano dell'epoca (XVII secolo), anche in dialetto ha la straordinaria proprietà di ammaliare, di far entrare in un'altra dimensione, in uno spazio-tempo sospeso. Per restare in tema verrebbe da pensare che l'autrice riesca a stregare, ma è solo la forza delle parole che perfino travolge.
E' inutile che aggiunga che questo libro è imperdibile.

Simona Lo Iacono è nata a Siracusa nel 1970. Magistrato da 11 anni, attualmente dirige la Sezione distaccata di Avola, tribunale di Siracusa.
Ha pubblicato racconti e vinto concorsi letterari di poesia e narrativa. Collabora a riviste e magazine. Riunisce in casa propria un salotto letterario ospitando scrittori e artisti.
Cura, sul blog "Letteratitudine" di Massimo Maugeri (gruppo Kataweb-l'Espresso), una rubrica fissa a metà tra diritto e letteratura.
Fa parte dell'EUGIUS, l'associazione europea dei "giudici-scrittori.
Tu non dici parole è il suo primo romanzo e ha vinto la XIV Edizione del premio letterario Vittorini "opera prima".
Renzo Montagnoli


Todo modo di Leonardo Sciascia Adelphi Edizioni
Narrativa romanzo
Collana Gli Adelphi

"Todo modo... para buscar y ballar la voluntad divina", così scrive, fra l'altro, nei suoi Esercizi Spirituali Sant'Ignazio di Loyola e quel "todo modo" non a caso è stato scelto da Leonardo Sciascia per dare il titolo a uno dei suoi romanzi più ambigui e che si presta a diverse interpretazioni, ma che, soprattutto, ha delle stranezze che lo rendono unico.
Si presenta come un testo di narrativa gialla, ma pagina dopo pagina perde le sue caratteristiche tipiche, cioè il percorso deduttivo per arrivare alla soluzione, per trasformarsi in un'opera di denuncia politica. Se anche la vicenda appare sempre più inspiegabile e non arriveremo poi a scoprire chi è l'omicida, resta il fatto che i delitti sono accaduti a causa di un dilagante e nefasto clima di corruzione derivante da un torbido miscuglio dei poteri economici, politici e religiosi. Non sono importanti di per sé i crimini quanto invece l'ambiente in cui sono compiuti, le presenze di diversi possibili colpevoli, in apparenza estranei, ma tutti egualmente sospettabili.
E poi troviamo uno Sciascia in bilico fra il razionale e illuministico del personaggio del pittore e l'enfasi mistica di don Gaetano, personaggi entrambi per cui si avverte chiaramente una partecipazione dell'autore che va oltre il puro interesse letterario, quasi che abbia voluto cogliere nell'uno e nell'altro la sua personalità, proponendocela per via mediata.
Ma ciò che stupisce maggiormente è la rappresentazione di questo potere o superpotere, che deriva da connessioni, interessenze, corruzioni, affari in comune dei tre canonici poteri, cioè quello economico, quello politico e quello religioso.
Finisce con il diventare quasi una divinità che raccoglie e impone dentro di sé dei sacrifici umani, un mostro dai mille tentacoli che stringono come in una morsa l'umanità.
E come idolo ha i suoi riti, fra i quali l'emblematico rosario, in parata, una delle pagine più riuscite e di sicuro effetto dell'intero romanzo.
Ci troviamo di fronte indubbiamente a un'opera di elevato impegno, a cui forse nuoce quell'ambiguità di cui ho accennato, ma che, per un certo verso, è del tutto funzionale al romanzo che forse manca di quella chiarezza riscontrabile invece in altri lavori dell'autore siciliano.
Come sempre Sciascia riesce a essere profetico, anche se questa volta il messaggio della Pizia è un po' oscuro, ma forse ciò è voluto, perché quanto di più buio ci può essere esiste solo in un potere che tutto distrugge e che corrode anche se stesso.
Da leggere, perché Sciascia è imperdibile.

Leonardo Sciascia (Racalmuto, 8 gennaio 1921 - Palermo, 20 novembre 1989). E' stato autore di saggi e romanzi, fra cui: Il giorno della civetta (Einaudi, 1961), A ciascuno il suo (Einaudi, 1966), Il contesto (Einaudi, 1971), Todo modo (Einaudi, 1974), La scomparsa di Majorana (Einaudi, 1975), I pugnalatori (Einaudi, 1976), Candido, ovvero un sogno fatto in Sicilia (Einaudi, 1977), Il cavaliere e la morte (Adelphi, 1988), Una storia semplice (Adelphi, 1989).
Renzo Montagnoli


Sergio Bambarén
Stella
Se ci credi davvero, tutti i desideri possono avverarsi

"hai mai visto una stella cadente?"
"no."
"devi sapere che esse durano un istante, ma mentre brillano, il loro sfavillio non è uguale a nessun'altra stella nel cielo, e tutte le altre cessano di diffondere la loro luce, appena si confrontano con lei. E tu hai qualche altra notizia sulle stelle cadenti?"
"no, capita così di rado, ma perché me lo chiedi?"
"perché io sento che sei molto speciale, e che la tua presenza sulla Terra sarà effimera come la luce di una stella cadente, ma lascerà una scia che ti farà ricordare per sempre."

Il cielo stellato fa alzare tutti gli sguardi. Non c'è niente di più magnetico dell'infinito tempestato di iridescenze. Lo splendore dell'universo ci rimpicciolisce. Siamo niente. Il respiro di un'esistenza nell'immortalità della vita. I nostri problemi regrediscono sino a diventare insignificanti. Poca roba, che le stelle certo non vedono. Loro brillano e chi le osserva può decidere di brillare con loro. Quasi per magia, allargano il nostro cuore. Siamo difronte a chi può darci quelle risposte che non troveremmo altrove. Solo rivolgendosi al Cielo si può auspicare che una lucina, all'inizio piccola come una stella, possa illuminare il buio dell'anima.

"piccola Stella, il buio più terribile non è quello che ti circonda, ma quello abita nel tuo cuore, e la luce più brillante non è quella che risplende fuori, ma quella che brilla nei tuoi occhi, l'unica che sale dal cuore. Lascia che questa luce ti conduca a compiere il tuo destino, e fidati del tuo istinto, non importa cosa dicono gli altri".
Il vento prese a sussurrarle dolci parole: "mia diletta figlia, non perdere mai di vista ciò che intendi raggiungere. Non perdere mai di vista chi tu sei in realtà."

Il personaggio di Sergio Bambarén si chiama Stella, e la sua figura lascia tutti interdetti. Le riconoscono all'unisono che è un essere al quale è stata affidata una missione speciale. A guardarla, piccola buffa insicura, le pronosticano la vita di una stella cadente. Quando sfrecciano le stelle cadenti, abbiamo il tempo del suo velocissimo passaggio per accodarle i nostri desideri. Il più vero è di arrivare alla più brillante e immediata nostra realizzazione. Rapidamente, verso la felicità che solo il Cielo sa regalare. La vera felicità è il conseguimento della nostra missione. Non è immediatamente riconoscibile. Ognuno di noi, però, sa per cosa è nato.

"in cuor loro avevano la consapevolezza di essere nati per volare, e capivano che un giorno avrebbero spiccato il volo, non solo per via delle ali, ma anche perché sapevano di poterlo fare."
"zampettarono fino alla fine del ramo, che divenne il loro trampolino di lancio. Papà Raffaele fu il primo a saltare subito seguito dai suoi quattro figli principianti. Volarono in ordine sparso assaporando tutta la libertà di essere i padroni del cielo, perché erano nati per volare, e per la prima volta nella loro vita avvertirono la loro essenza, intuendo il loro scopo nel mondo: volare."

Far parte dell'universo è solo questo: riconoscersi nelle proprie capacità e applicarle. Solo a pochi sono richieste prove fantasmagoriche, a tutti di brillare come piccole stelle perchè nel buio pesto della notte qualcosa di radioso continui a sfavillare. Solo così si potrebbe ascoltare la voce di Dio che dica, per esempio:
"piccola Stella, tu sei una delle creature a cui tengo di più e che considero i miei tesori. Con il tuo cuore semplice tu sarai la prova vivente che al mondo non c'è creatura troppo piccola o insignificante che non possa dare qualcosa."
Oppure: "grazie per aver reso questo mondo migliore."
Possiamo e dobbiamo luccicare nel cosmo come piccole stelle perchè per esclamare "missione compiuta" basta riconoscere la propria strada.
Angela Plati


L'incredibile storia di un cranio di Giuseppe Bonaviri Sellerio editore Palermo
Prefazione di Salvatore Silvano Nigro
Narrativa romanzo

L'ultimo romanzo scritto dal grande autore siciliano, scomparso nel marzo di quest'anno, ha il sapore di un testamento, un messaggio forte, vibrante, a futura memoria, con cui lui, che era medico, mette sull'avviso l'umanità sui limiti etici del progresso scientifico.
Se con La divina foresta aveva immaginato, in una versione del tutto fantastica, ma non elusiva della realtà, la creazione della vita, con L'incredibile storia di un cranio ci parla della sua fine, e lo fa in prima persona, perché la voce narrante è la sua, quasi a voler rafforzare il concetto che l'elemento fantasioso, esposto da un uomo di scienza, ha una concreta radice di realtà.
Per certi aspetti Bonaviri potrebbe essere accostato a Orwell, con la stessa visione di un futuro distopico, ma al punto tale da portare alla distruzione dell'umanità. Al di là di questa caratteristica, le differenze esistono e sono più marcate, perché la narrazione dell'autore siciliano è impreziosita da una vena poetica che riesce ad andare oltre le consuete strutture dei romanzi, con ritmi, armonie e immagini che conferiscono alle opere una grazia del tutto particolare che a tratti presenta tempi quasi musicali.
Tanto per dare un'idea, il libro inizia in un'atmosfera lucreziana, in un'idilliaca natura, in cui la flora e la fauna, in quest'ultima compreso l'uomo, sembrano vivere in un'armonia perfetta, in un equilibrio tale da ristorare l'animo, perché il creato, frutto di un caos che ai nostri superficiali occhi può apparire imperfetto, è invece quanto di più attentamente realizzato ci sia dato di conoscere. Purtroppo l'essere umano è l'elemento disgregatore, colui che, grazie a un'imparziale conoscenza, crede di sapere tutto o quasi e di poter fare tutto o quasi.
Così nella società descritta da Bonaviri, caratterizzata dall'invecchiamento della popolazione, che aumenta oltre ogni limite il ricorso alle risorse, si provvede temporaneamente a un'eutanasia attiva, sopprimendo gli anziani, in quanto non più utili al sistema, ma al tempo stesso si ricerca, si sperimenta, si elabora per arrivare, tramite clonazioni, a una nuova specie di esseri umani, in parte vegetali, con la funzione specifica di addormentare le passioni eccessive degli altri uomini, intorpidire i sentimenti, anche quelli negativi, provocando un generale appiattimento della qualità della vita. Senza più emozioni, senza più ispirazioni creative l'umanità rallenterebbe anche la sua crescita, avrebbe minori appetiti, finirebbe con il vivere in una condizione di inconscia felicità, in pratica si ridurrebbe a uno stato vegetativo.
Pur nella vicenda fantastica, il messaggio di Bonaviri è chiaro: può l'uomo, con la sua scienza, andare oltre la natura? E se lo fa, quali saranno le conseguenze?
Le risposte sono nel finale del romanzo, apocalittico, con le acque dell'Egeo che penetrano all'interno del pianeta. In quel mare, citato non a caso, che aveva visto il volo avventuroso di Icaro e a Creta il mito del Minotauro, essere metà uomo e metà bestia, dove era iniziato il desiderio dell'umanità di conoscere i propri limiti e di superarli, tutto finisce, perché l'homo sapiens non può e non deve spezzare il perfetto equilibrio della natura, che altrimenti si vendica.
E da quella specie di rivolta del globo terracqueo, con gli oceani che penetrano all'interno della crosta per arrivare fino al nucleo, determinando una reazione disgregatrice per le diverse temperature, seguirà l'esplosione del nostro pianeta che ne cancellerà la presenza nell'universo.
L'incredibile storia di un cranio finisce con il diventare così la credibile storia di un'umanità che volle elevarsi su tutto e che si illuse che per essa nulla fosse impossibile.
La lettura è certamente più che raccomandabile.

Giuseppe Bonaviri (Mineo, 11 luglio 1924 - Frosinone, 21 marzo 2009)
Opere:
Il sarto della strada lunga (1954), La contrada degli ulivi (1958), Il fiume di pietra (1964), La divina foresta (1969), Notti sull'altura (1971), L'isola morosa (1973), Le armi d'oro (1973), La beffaria (1975), L'enorme tempo (1976), Il dire celeste (1976), Martedina e il dire celeste (1976), Follia (1976), Dolcissimo (1978), Il dire celeste e altre poesie (1979), Novelle saracene (1980), O corpo sospiroso (1982), Quark (1982), L'incominciamento (1983), E' un rosseggiar di peschi e d'albicocchi (1986), L'asprura (1986), Il dormiveglia (1988), Li pto lip (1988), Ghigò (1990), Il re bambino (1990), Apologhetti (1991), Il dottor Bilob (1994), Silvinia (1997), L'infinito lunare (1998), Bonaviri inedito (1998), una biografia realizzata da Enzo Zappulla e Sarah Zappulla Muscarà, con una ampia appendice di inediti bonaviriani fra i quali il romanzo giovanile La ragazza di Casale Monferrato, E il verde ramo oscillò. Fiabe di folli (1999), Poemillas españoles ed altri luoghi (2000), Giufà e Gesù (2001), Acqua d'argento e altre storie (2003), Il vicolo blu (2003), I cavalli lunari (2004), Autobiografia in do minore (2006), L'incredibile storia di un cranio (2006).
Renzo Montagnoli


La bambina pericolosa di Silvana La Spina Ed. Mondadori
Romanzo

Questa romanzo, ambientato in Sicilia, tra Catania e le pendici dell’Etna, ha per protagonista il commissario di polizia Maria Laura Gangemi, una femmina sbirro coinvolta da un passato sepolto nella memoria  e un presente tutto da ricostruire. L’indagine in corso è intricata, un misto di mistero, leggende contadine, arcaiche e superstizioni ataviche, Maria Laura deve fare i conti con una parte di sé oscura nell’impossibilità di ricordare, un matrimonio infelice, un figlio e una sofferenza esternata con depressione e alcolismo. E’ un ritratto di donna fragile nell’apparente dominio del suo agire  di poliziotta e intrisa di contraddizioni e conflitti interiori. In uno stile terso e inframmezzato da termini dialettali, l’autrice ci restituisce personaggi costruiti con sottigliezze e sfaccettature psicologiche, dove negli animi s’annidano tensioni, paure ancestrali nello sfondo paesaggistico montano in cui la forza lavica del vulcano ne modella  i caratteri. La bellezza dei paesaggi esplode in tutto il suo fulgore, il mutare dei colori accesi ed esplosivi come rocce laviche, gli odori pregnanti della terra, degli alberi, la vastità delle vallate e del sole che splende, anzi, brucia! C’è amore dichiarato per la propria terra, ma anche tanta amara consapevolezza di credere nella giustizia in una terra in cui la giustizia è un non senso.
Estrapolo due periodi ugualmente degni di nota: il primo per la bellezza incantata, poetica, il secondo per il gusto del mito e del fiabesco.
“L’autunno vero quello che chiude i cuori e fa attendere la luce, mentre l’ombra si diffonde dappertutto. Sulle case, sulle fronde degli alberi, nell’altura del vulcano, lassù, oltre i castagni”.
“Il vulcano scatena paure primordiali, nell’arretratezza della gente. Discendenti degli antichi Sicani hanno ereditato i vecchi culti: magie e magherie. Il dio Adrano, terribile che chiedeva sacrifici rituali, che faceva inseguire le vittime dai terribili cani cirnechi, cani arraggiati come diavoli”.
E’ un libro di godibile lettura, scritto con mano sapiente e felice. Un racconto che mostra una parte nera e misteriosa della Sicilia e quella che abita negli animi umani.

L’autrice: Silvana La Spina è nata a Padova da madre veneta e padre siciliano. Ha pubblicato il volume di racconti Scirocco (1992, Premio Chiara) e i romanzi: Morte a Palermo (1987, Premio Mondello), L’ultimo treno da Catania (1992), La creata Antonia (2001), Uno sbirro femmina (2007). 
Arcangela Cammalleri


Il castello d'Otranto di Horace Walpole RCS Libri S.p.A.
Introduzione di Mario Praz
Traduzione di Oreste Del Buono
Narrativa romanzo

Strano tipo Horace Walpole, che nella prefazione alla prima edizione del 1765 del Castello d'Otranto, dice che l'opera altri non è se un libro stampato a Napoli nel 1529, trovato nella biblioteca di un'antica famiglia inglese e da lui tradotto. In ciò si comporta né più ne meno come James Macpherson che pubblica nel 1760 i Canti di Ossian, attribuendoli a un leggendario bardo di nome appunto Ossian.
Un altro elemento di curiosità è dato dal fatto che Walpole tesse smisurate lodi dell'autore dell'opera, sconosciuto, ma che, ipotesi nell'ipotesi, potrebbe essere un astuto sacerdote cattolico.
Il castello d'Otranto, opera preromantica, ha un notevole successo e allora Walpole nella prefazione alla seconda edizione si rivela, peraltro ricevendo più di un biasimo.
Al di là della vicenda della paternità questo romanzo, che non potrà mai essere ricordato come un capolavoro della letteratura, presenta tuttavia caratteristiche peculiari tali che ne decretano la doverosa memoria, trattandosi del primo libro di genere gotico.
Si rilevano infatti quelle caratteristiche di mistero, di passioni occulte, di incombenza della morte, del realizzarsi di antiche profezie, di personaggi del tutto straordinari e immaginari, che uniti a un'atmosfera cupa, di tensione psicologica, costituiscono gli elementi basilari per opere successive, senz'altro di maggior pregio, quali, una per tutte, Frankenstein di Mary Shelley.
Non è che allora il romanzo di Walpole meriti di essere letto solo in considerazione delle sue caratteristiche innovative?
Purtroppo devo rispondere che l'opera non presenta altri particolari elementi di valore, perché i personaggi appaiono degli stereotipi, tutti buoni o tutti cattivi, per non parlare della trama in cui i dialoghi sono avulsi dalla tensione che è invece presente, anche se assai contenuta.
C'è da considerare peraltro l'epoca, il modo elaborato di scrivere e di parlare, che toglie quell'indispensabile senso di immediatezza e di logicità di comportamento in protagonisti sottoposti a prove naturali e sovrannaturali tali da impedire loro qualsiasi forma di reazione calma e ponderata.
Di questo se n'era accorto anche Walter Scott, che nell'introduzione al Castello d'Otranto del 1826 prende un po' le difese di Walpole, attribuendogli finalità che, probabilmente l'autore, già deceduto, non si era mai posto.
Scrive, fra l'altro, Scott " Il suo scopo era quello di raffigurare la vita e i costumi dell'epoca feudale com'erano veramente e di dipingerli nel tumulto e nelle fortunose vicende messe in atto dalla macchina del sovrannaturale, un sovrannaturale che la superstizione del tempo accoglieva con passiva credulità.".
Il discorso non fa una grinza, ma il medioevo di Walpole risente troppo dei canoni della letteratura inglese del settecento, con i personaggi che, ancorché passionali, si esprimono in modo lezioso in qualsiasi circostanza, con una ricchezza di vocaboli che non era tipica nel Medioevo anche nelle classi più abbienti e pertanto maggiormente istruite; di conseguenza non mi sento di avallare questa ipotesi.
Secondo me, invece, più aderente alla realtà è il giudizio espresso nel 1919 da Virginia Woolf, che, sulla scorta della passione di Horace per gingilli, anticaglie, per quel piccolo castello in stile gotico che si era fatto costruire, parla di un libero sfogo dell'immaginazione, in cui le visioni e le passioni lo affascinavano, tributando così di fatto alla sua opera quell'importanza dovuta più alla fantasia, del tutto fuori dalla norma dell'epoca, e che giustamente farà ricordare lo scrittore inglese come il capostipite del genere gotico.
Eppure, nonostante gli evidenti difetti che ho evidenziato, sono proprio gli stessi a costituire motivo di interesse, perché comunicano l'aroma di un mondo passato, in cui il formalismo si anteponeva a tutto, e il fatto che questo comportamento si riflettesse anche in campo letterario rappresenta per l'uomo più pragmatico del XXI secolo una preziose fonte di archeoletteratura per aiutare a comprendere un'epoca, in cui, non dimentichiamolo, nacque anche il romanzo d'avventura, con quel Robinson Crusoè, di Daniel Defoe, che tanto ha alimentato i nostri sogni giovanili.
Sono in ogni caso dell'idea, che, pur con i suoi limiti stilistici, ancor oggi possa costituire una gradevole lettura per gli appassionati degli amori impossibili e delle storie a lieto fine, dove a trionfare è sempre il bene, anche e soprattutto grazie all'elemento soprannaturale.

Horace Walpole (Londra, 24 settembre 1717 - Londra, 2 marzo 1797).
Conosciuto anche per un corposo epistolario deve la sua notorietà soprattutto a Il castello d'Otranto, di fatto primo romanzo gotico.
Renzo Montagnoli


Equinozio di girasoli di Giulio Maffii Edizioni Il Foglio Letterario www.ilfoglioletterario.it  ilfoglio@infol.it
Prefazione di Vanessa Vallascas
Poesia
Collana Plaquette Poesia

Come nei poemi antichi in cui il cantore iniziava la sua opera con un'invocazione alle divinità, un rito propiziatorio, scaramantico o anche la riconoscenza per la possibilità offertagli di creare, di lasciare una traccia, un solco nella polvere, questa raccolta si apre con una dedica/omaggio alla parola, l'unica in grado di traslare l'idea in sostanza, verificabile, riscontrabile, accessibile ai lettori.
In effetti, benché stilisticamente siamo nel XXI secolo, l'impressione che si ricava è che quest'opera abbia gli albori in epoche antichissime, ma anche per nulla remote, con quella solennità che non è retorica, ma pura dinamica della composizione che dona una sostanziale assenza di tempo.
E la parola ritorna incalzante, sempre presente, a tratti anche soggetto, pur restando sostanzialmente oggetto, mezzo, sistema di colloquio per andar oltre l'afonia delle sensazioni, che nascono, si sviluppano all'interno in un silenzio che poi, grazie appunta alla parola, diventa timbro vocale, sussurro, anche urlo.
Ma di che tratta questa raccolta?
Il tema non è nuovo, perché il rispetto per la memoria, tale da andarla a ripescare nei meandri della mente, è un'elaborazione metafisica dei poeti, un punto fermo per cercare risposte a domande sempre posteriori ai fatti ricordati, ma non solo, perché è l'unica possibilità che rende consapevoli di vivere, in quanto esiste un vissuto.
Sono così stagioni che si avvicendano, equinozi che hanno un significato che va oltre l'etimologia, perché quella durata del giorno uguale a quella della notte sembra conferire una visione strutturale di una vita, sia come periodo di tempo (e per l'autore sarebbe quello di primavera, anche se dichiara poi che quello più vicino a lui è quello d'autunno) sia come concetto dell'avvicendarsi degli eventi, delle fortune e delle sfortune, di cose belle e di cose brutte, di fatti piacevoli e spiacevoli, ma che in ogni caso hanno tutti un grande pregio: sono solo nostri, un patrimonio inalienabile che riemerge a tratti dalla nebbia di un apparente oblio, una misura indiretta del nostro stato attuale.
E in questo percorso itinerante dentro di sé il ricordo di un amore cerca consapevolezze, soluzioni a dubbi che il tempo coglie, quasi che il ripensare a quanto prima ci ha enormemente coinvolto finisca con il diventare un'assoluzione del nostro operato, un riscontro positivo di una vita non sprecata, anche se resta un desolato senso di solitudine, uno spazio tutto nostro a cui manca tuttavia qualche cosa, quell'immagine, quell'emozione, quel sentimento che si propone come memoria, spina nel fianco che fa dolere e gioire al tempo stesso, un pezzo di noi che se n'è andato.
Nulla è perfetto ed assoluto, alle ombre si contrappongono le luci nell'equinozio della nostra esistenza.
Scritta in modo garbato, non enfatico, con un equilibrio formale che permette una ritmicità costante, questa raccolta si assapora un po' per volta e invita alla meditazione, una riflessione che coinvolge, senza stravolgere, che accompagna non a certezze, ma a consapevolezze.
La lettura, quindi, è da me sicuramente consigliata.

Giulio Maffii
È autore, critico letterario, dirige le collane di poesia della Casa editrice Edizioni Il Foglio , tiene un laboratorio di poesia per ragazzi. Fiorentino di origine, dalla complessa personalità, cura uno dei migliori blog sulla poesia nel web http://blog.libero.it/Pensieridivento
Ha all'attivo svariate pubblicazioni tra cui: "La caduta del tempo" (ed Il Fogliopromo) scritto con l'eteronimo di Penelope Alma nel 2008, mentre nel 2009 è uscito con il libro ortonimo di poesie "Fino a che non muore il tempo".(Ed.La Riflessione) Ha collaborato con varie riviste letterarie.
Renzo Montagnoli


Risalire il vento di Gianfranco Contini Edizioni Tabula Fati www.edizionitabulafati.it

Presentazione di Giacomo D’Angelo

Poesia raccolta

In questa raccolta, non tematica, ma che trae spunto dalla realtà oggettiva per poetizzare fatti che hanno suscitato l’attenzione dell’autore si nota un procedere discorsivo, un’affabulazione oserei dire, che in diversi tratti mi ricorda il Cesare Pavese poeta.
Ne guadagna indubbiamente la comprensione del lettore che riesce a entrare subito in sintonia con l’autore, dato che non sono presenti elementi oscuri di dubbia o complessa interpretazione.
Gli argomenti affrontati sono quanto mai vari e così si passa dalla dedica alla scomparsa Oriana Fallaci  con un ritratto riuscito e che consente di offrire, anche a chi non la conosceva, una visione del personaggio nelle sue caratteristiche salienti (donna libera / incedere deciso / passaggi di fuoco / macerie e sangue / severa col potere / sensibile verso chi soffre /…) a un’impressione naturalistica, una fotografia di un’immagine ben definita carpita dagli occhi e impressa nella mente, con Scirocco ( l’acqua appena increspata / segna di blu l’orizzonte / la barca veleggia sull’onda / il vento tiepido scompiglia / i capelli s’insinua nel naso /…).
Contini dimostra così un’apprezzabile ecletticità che peraltro ricomprende anche l’introspezione, come in Solitudine ( il soffitto grigio grava sulla mia testa / ho appeso fogli di carta sul muro / pagine di riviste / memorie di un vecchio diario e donne svestite /…), senza dimenticare l’amore, inteso in Il sorriso come una sensazione di completezza che può dare a chi la prova un motivo in più per fruire della vita ( …/ quella ragazza respirava / il sorriso della luce /…). Questi due versi sono veramente splendidi riuscendo a cristallizzare in un’immagine eterea il senso di serenità di questa fanciulla, colpiscono, attraggono, infondono nel lettore la stessa serenità.
Ma le poesie presenti sono molte, troppe per parlare di ciascuna, pur se questo sforzo lo meriterebbero, e con dispiacere devo per forza limitarmi, senza esimermi tuttavia di citarne ancora una, una lirica stranamente venata di romanticismo, pur nella realtà delle sue affermazioni, una constatazione dell’autore che ha il sapore della consapevolezza e che perciò si estrinseca in un’accettazione di un sentimento, in cui luci e ombre, gioie e dolori si confondono, appagando egualmente ( Libertà di amarel’amore non è mai libero / per sua natura / costringe alla ricchezza / di una strana povertà / quella di essere insieme / a chi ti strazierà).
La lettura è sicuramente raccomandabile.

  Gianfranco Contini, psichiatra, si è formato alla psicoterapia ad indirizzo psicoanalitico a Bologna presso il Gruppo “Psicoterapia e Scienze Umane”.
     Ha lavorato nei servizi per la salute mentale in Lombardia, Molise ed Emilia Romagna. Ha diretto il progetto di chiusura dell’Ospedale Psichiatrico “San Lazzaro” di Reggio Emilia.
     Ha svolto attività di docente per le scuole di specializzazione in psichiatria delle università di Bologna e Chieti. È membro del Comitato Scientifico della collana di “psicoterapia e psichiatria” della Casa Editrice Clueb di Bologna ed è direttore scientifico della rivista “Prospettive in psicologia”.
     È autore di articoli e testi scientifici. Ha pubblicato sei libri: Lavorare con gli psicotici (Bagatto, Roma 1985); Elementi di psichiatria pubblica (Age, Reggio Emilia 1989); Vita quotidiana nelle famiglie degli schizofrenici (NIS, Roma 1991); Introduzione alla psichiatria (EdiSES, Napoli 1992); Psichiatria pratica (UTET, Torino 1994); Il miglioramento della qualità in riabilitazione psichiatrica (Centro Scientifico, Torino 1999).
     Ha curato nove volumi di interesse psichiatrico: Le nuove istituzioni della psichiatria (1981); I primi pazienti della psicoanalisi (1985); Il manicomio dimenticato (1988); I confini della psicoanalisi (1989); La rivista scientifica come mezzo di informazione e cultura (1989); Pornografia e salute mentale (1989); Psichiatria e Medicina di base (1991); La sindrome maligna da neurolettici (1994); Il tramonto del manicomio (1998).
     Ha ideato e realizzato sette video didattici e scientifici: “Il lavoro psichiatrico in un Servizio Territoriale” (1992), presentato al convegno “Immagini della mente”; “180 Addio?” (1992); “La Relazione terapeutica con il paziente grave: Magda” (1993); “Euripilo e Patroclo: rapporto del Medico con il paziente” (1993); “La Cura” (1994), che ha vinto la medaglia di bronzo al Prix Leonardo per il filmati scientifici; “Esercizi sul Delirio” (1997); “Riabilitare in ambiente naturale” (2004).
     È autore di tre romanzi: Alla fine del dolore (Tracce, Pescara 2004), Centottanta (Clueb, Bologna 2006), Tutto esaurito. Chi ama è pericoloso (Robin, Roma 2008) e delle sillogi poetiche Impulso di verso (Tabula fati, Chieti 2007) e Risalire il vento (Tabula fati, Chieti 2009).
Renzo Montagnoli


Una storia semplice di Leonardo Sciascia L'Angolo Manzoni Editrice
Narrativa racconto
Collana Corpo 16

Il titolo inganna e del resto Sciascia, se non fosse quel grande scrittore che è per la capacità di analizzare fatti e fenomeni nelle loro mille sfaccettature, addentrandosi nell'apparenza alla ricerca di una possibile verità, non avrebbe potuto e voluto scrivere una vicenda gialla, ambientata in una Sicilia di epoca indeterminata, di assoluta linearità, in cui la vittima è proprio la persona che è e l'assassino, o meglio i colpevoli, sono quelli che il lettore attento dei romanzi dell'autore siciliano si attende.
Il racconto, perché trattasi di racconto lungo e non di romanzo, è invece estremamente complesso. Tutto ciò che a prima vista sembrerebbe di un'estrema semplicità è invece un gomitolo ingarbugliato, dove personaggi della giustizia e religiosi sono uniti da un unico filo conduttore che è quello della criminalità organizzata, insomma di quell'organismo distruttore, frutto di connivenze e di indifferenze, che è la mafia.
Del resto chi non vede, o meglio chi vede e non parla, riesce ad avere vita lunga, e così un testimone avrà dei vuoti di memoria del tutto provvidenziali che non gli impediranno tuttavia di collaborare con la polizia per pervenire alla soluzione di un pluriomicidio, anche per potersi così scagionare, in quanto lui stesso sospettato, ma che riconosciuto il capobanda, personaggio dalla doppia vita ed estremamente influente, eviterà di svelarne il nome, eclissandosi alla svelta, fuggendo da quel mondo di costante tensione in cui l'onesto finisce con l'essere sempre la vittima.
Veramente indovinati i personaggi, fra i quali emerge per atavico intuito il brigadiere, in eterno dissidio di classe con il commissario, e il professor Franzò, che in realtà interpreta il punto di vista Sciascia in un dialogo di alto livello proprio con il sottufficiale.
Una storia semplice fu pubblicato postumo, dopo la morte dell'autore, come lasciò scritto anche nelle volontà testamentarie. Ma esso stesso, cioè questo racconto, è un lascito, quasi un'ammonizione per i posteri sul lento disgregarsi delle istituzioni corrose dal cancro mafioso, al punto da diventarne strumento di conservazione fino a esserne esse inglobate.
Come al solito la lettura, più che consigliabile, è vivamente raccomandabile.

Leonardo Sciascia (Racalmuto, 8 gennaio 1921 - Palermo, 20 novembre 1989). E' stato autore di saggi e romanzi, fra cui: Il giorno della civetta (Einaudi, 1961), A ciascuno il suo (Einaudi, 1966), Todo modo (Einaudi, 1974), La scomparsa di Majorana (Einaudi, 1975), I pugnalatori (Einaudi, 1976), Candido, ovvero un sogno fatto in Sicilia (Einaudi, 1977), Il cavaliere e la morte (Adelphi, 1988), Una storia semplice (Adelphi, 1989).
Renzo Montagnoli


Invincibili di Jolanda Catalano Edizioni Città del Sole www.cittadelsoledizioni.it
Nota introduttiva di Francesco Idotta
Poesia

Quando vidi "2001 Odissea nello spazio", il celebre film di Stanley Kubrik, rimasi fortemente impressionato dalla capacità del regista inglese di narrarci la genesi dell'umanità fino al suo compimento finale.
Analogo stupore ho ritratto dalla lettura di Invincibili, di Jolanda Catalano, un vero e proprio poemetto sull'evoluzione della specie, attuata con continue dilatazioni temporali che colgono gli aspetti essenziali dello sviluppo dell'essere umano, con stacchi sul passato e proiezioni sul futuro, in una continua e costante tensione armonica che riesce ad avvincere e a coinvolgere il lettore.
Dalla nascita della vita alla conoscenza prima animalesca dell'amore, poi alla sua sublimazione, è un percorrere poeticamente e con estrema capacità di sintesi la storia dell'uomo, di questo essere dapprima inconsapevole di esistere e che poi prende possesso della sua realtà oggettiva in una visione soggettiva che gli fa credere di essere l'unico, imponente, importante, sovrano assoluto del mondo.
La scoperta, o meglio le scoperte, in un essere che crede di essere invincibile della sua estrema vulnerabilità, non solo ai fattori esterni, ma alla sua dimensione intima, a quella sfera psichica che tende a esaltarlo, ma anche a deprimerlo, sono versi di accorata impotenza, la constatazione della nullità del suo smisurato orgoglio ( Non ti dirò di tutte le vergogne / che videro i miei occhi nel passare, / sappi soltanto che l'animale è buono / e l'uomo invece è perfido e crudele. /…).
Questa immagine riduttiva della propria capacità conduce l'uomo alla ricerca di chimere, a sprofondare nei sogni che esulano la realtà, in un viaggio, novello Ulisse, che non porta da nessuna parte se non a un malinconico ritorno a se stessi, con il rimpianto di quanto si è perso del poco che si aveva e che pur invece è tanto ( E piansi, finalmente piansi, / a lungo prostrato su me stesso / e mai un pentimento fu così grave / mai più ci fu una nave per il ritorno. /…).
Ciò che si è perso nel tempo non ci verrà restituito dal tempo, ciò che credevamo superbamente di essere sarà il motivo della nostra rassegnata sconfitta. Invincibili non eravamo, né mai lo saremo, e anche se il volo poetico è pura illusione, un separarsi dalla realtà per trascorrere inconsapevolmente dei giorni forse perduti, è l'unico che può dare un senso compiuto alla vita.
Non aggiungo altro, se non l'invito a leggere questi versi stupendi, accostati in un'armonia di grande effetto, e che alla fine, nella consapevolezza della nostra imperfezione, ci pervaderanno di un profondo senso di serenità.

Jolanda Catalano è nata a Villa San Giuseppe e vive da parecchi anni a Gallico (Reggio Calabria).
Sin da giovanissima ha sviluppato il suo amore per la poesia.
E' autrice di raccolte poetiche, di racconti e di testi teatrali ( in lingua e in vernacolo), che hanno ottenuto premi e riconoscimenti.
Con successo è stata messa in scena una sua commedia in Vernacolo Uvi, uvi, a pizziau, dal Gruppo teatrale "I Rusticani", regia di Giulia Catanese.
Ha collaborato per diversi anni alla Rivista "La Procellaria" con poesie, recensioni e articoli.
La sua prima silloge poetica Alternanze è stata pubblicata nel 1886, da Calabria Letteraria Editrice e presentata al pubblico a cura del Rhegium Julii, Circolo Culturale all'interno del quale l'Autrice continua a vivere la sua esperienza umana e poetica.
Nel 2000, con La tela di Penelope ha vinto il premio Gilda Trisolini, silloge pubblicata a cura del Circolo Rhegium Julii.
Del 2004 e del 2005 sono rispettivamente le sillogi Lettera a due madri e Invincibili, entrambe pubblicate da Edizioni Città del Sole.
Renzo Montagnoli


Sulla riva del fiume di Giovanna Giordani Aletti Editore www.alettieditore.it
Poesia silloge
Collana "Gli emersi - Poesia"

Giovanna Giordani, nell'ultima di copertina scrive, fra l'altro:
"Il mio poetare non è ricercato, lo definirei naif, semplice, vero che ubbidisce ad una voce arcana che mi detta le parole per dar forma scritta alle emozioni, ai sentimenti."
E' una testimonianza sincera, benché l'autrice trentina non si sia accorta di aver enunciato con estrema semplicità e quindi con la massima chiarezza il segreto meccanismo con cui nasce una poesia.
E allora io aggiungo che, a fronte di tanti artificiosi formalismi e di contorti pensieri che esposti in modo inutilmente complesso si rivelano poi poca cosa, è meglio la schiettezza, quell'andare al sodo che sa di lontana matrice contadina, che chiama le cose con il loro giusto nome e che è di immediata comunicatività.
In questo suo libro raccoglie le migliori poesie della sua produzione, con temi diversi, che vanno dall'amore alla natura, dal fantastico all'introspezione, temi in ogni caso svolti in modo lineare, proprio con quella semplicità che l'autrice, giustamente, si attribuisce.
Sarà una poesia naif la sua, ma di certo non appare improvvisata, cioè solo estro e niente costruzione, poiché la linearità prevede che, più o meno consapevolmente, il poeta sappia tradurre in lettere l'idea scaturita dal sentimento o dall'emozione secondo una struttura logica atta a raggiungere un equilibrio formale, cioè il ricorso a uno stile.
Per esempio, prendiamo Il senso della vita (Conosce la sua meta / la rondine / dal cielo rapita / / e vola verso il nido/ / l'unico senso / della sua vita).
Poesia assai breve, ma armonica e che esprime metaforicamente assai più di quello che un lettore disattento percepisce.
Oppure
Il silenzio è sovrano / sulla montagna / s'ode soltanto / il canto / lontano / di una campana.
Anche questa è assai breve, eppure riesce a ricreare l'atmosfera ieratica della maestosità delle cime, quel senso di profondo coinvolgimento interiore che dapprima sgomenta, ma che poi trascina a uno stato di intensa serenità.
Quindi ben venga la semplicità di Giovanna Giordani, purché si tratti di questa apparente semplicità, che non viene mai meno anche quando si entra nel fantastico, permeato da una struggente malinconia, come in Ofelia (…./ Crudele destino ti ha carpita/ annegando amore ed i suoi sogni / e non sai che lui mai t'avea tradita.)
Per questo, per i suoi contenuti, per la varietà dei temi Sulla riva del fiume è una silloge che accompagna dolcemente la lettura, infonde serenità, aiuta anche a volare, insomma è un libro da prendere e tenere a portata di mano per quando l'affanno giornaliero ci fa dimenticare che non siamo solo carne, ma anche spirito.

Giovanna Giordani è nativa di Rovereto, ma risiede a Vigolo Vattaro, sempre in provincia di Trento. Ex dipendente di un'azienda di credito è ora in pensione; sposata, con due figlie, il suo più grande desiderio è di completare gli studi, già a buon punto, con la Laurea in Lingue e Letterature Moderne. Sulla riva del fiume è la sua prima pubblicazione.
Renzo Montagnoli


Pro/Testo Versi di AA.VV. Fara Editore www.faraeditore.it
a cura di Luca Ariano e Luca Paci
Introduzione di Mimmo Cangiano
Copertina di Elvira Pagliuca
Poesia

Si ripete fino alla noia che oggi, assai più di ieri, la poesia non ha mercato, ed è pur strano, considerando l'entità numerica, veramente rilevante, degli autori italiani.
Come per qualsiasi prodotto questi non trova compratori se non rappresenta ciò che essi chiedono e in effetti, dopo l'aureo periodo dell'ermetismo, si assiste a un'involuzione della poesia, frutto di un soggettivismo esasperato, di un pernicioso solipsismo che porta a creazioni di versi che non sono più versi, di idee che non lo sono e di nessuna comunicatività, se non per lo sfrenato egotismo degli autori.
Quanto sopra ha tuttavia rare eccezioni, ma proprio perché mosche bianche nello squallido grigiore della pretesa arte poetica non riescono a emergere, apparendo come voci del tutto fuori dal coro.
Si è dimenticata anche una funzione essenziale della poesia, comune peraltro a tutti quelli che si professano letterati, vale a dire ricorrere alla propria arte per comunicare al mondo, all'umanità stati di disagio di cui molti sono vittime inconsapevoli, abbrutimenti derivanti da un servaggio strisciante che si traduce in un eterno scontento, in un'insoddisfazione i cui motivi la maggior parte non sa riconoscere o comprendere.
Ben vengano perciò opere poetiche di vera e propria protesta, come queste raccolta intitolala Pro/Testo, di chiara matrice anarchica e quindi non artefatta o piegata a esigenze di carattere commerciale, ma frutto di una fede di natura filosofica, laddove il concetto di libertà è quanto di massimo possa essere espresso, perché della libertà naturale innata di ogni individuo è qui che si tratta e non di quei concetti retorici così strombazzati nell'attuale decadente società occidentale.

Vito ex partigiano - già allora lo chiamavano
il terun - ha combattuto
nei GAP ma ora vive col respiratore dieci ore al giorno:
non ci sta più con la testa e ti racconta
che lui lì era di casa…quelli sì sono bravi ragazzi
- - non sa di baci e strette di mano cose loro -.
Suo figlio s'è bruciato i polmoni d'Eternit

………
(da Calendario oltre il tempo, di Luca Ariano)

Oppure

Cos'altro ancora la mia parola
se non arma
coltello e lama
penna iniettata di veleno,
di sudore?
Contro lo sciacallaggio dell'ottimismo
nella cecità mediale
compito e dovere
portare letizia e rivolta
carezza e scompiglio
nel torpore.

………
(da Rosso Levante, di Natàlia Castaldi)

O anche

Il Mondo è Morto, non senti l'odore?
Si sente odore d'incenso e idrocarburi,
di eroina e trasmissioni elettorali.

……
(da Il mondo è morto, di Simone Molinaroli)

E potrei continuare, ma le opere sono molte e tutte meritevoli di citazione, tant'è che mi scuso con gli autori che non ho nominato esclusivamente per il fatto che l'articolo diventerebbe eccessivamente lungo e finirebbe anche con il perdersi il filo del discorso.
Già immagino che qualcuno, anzi molti diranno che queste non sono poesie, perché di poesie vedono solo quelle da loro concepite, in un discorso astratto che raramente lambisce la verità, finendo per divenire una sorta di autonomo compiacimento nel tessere la trama di un lavoro che ha solo come finalità se stesso.
Della funzione sociale della poesia, come da me definita, i pochi versi che ho riportato, scritti da Natàlia Castaldi, riflettono bene questa concetto del "protestare", non del "contestare", perché il sistema imperante è un moloch che divora anche se stesso e quindi è giusto il richiamo a un ritorno a una naturale originaria libertà che l'interesse di pochi ha nel tempo soffocato fino al punto che i sudditi ignorano questo dono innato.
Quindi, ben venga la protesta, affinché i versi non siano costruzioni astruse, incomprensibili e asfittiche, ma rappresentino con la loro forza un segnale, una voce chiara nel deserto dell'indifferenza.
E' per questo e per la qualità e i contenuti che la lettura di questo libro è certamente raccomandabile.

Gli autori
Luca Ariano, Marco Bini, Dome Bulfaro, Natàlia Castaldi, Enrico Cerquiglini, Carmine De Falco, Salvatore Della Capa, Chiara De Luca, Fabio Donalisio, Matteo Fantuzzi, Fabio Franzin, Marco Giovenale, Lorenzo Mari, Faraòn Meteosès, Simone Molinaroli, Fabio Orecchini, Luca Paci, Massimo Palme, Rossella Renzi, Eleonora Pinzuti, Alessandro Seri, Tito Truglia, Dale Zaccaria.
Renzo Montagnoli


La giovinezza non muore di Francesco Baldassi Edizioni Tabula Fati www.edizionitabulafati.it
Presentazione di Matteo Pugliares
Nota dell'autore
Poesia raccolta


Non muore mai, non muore
la giovinezza nascosta / dentro il cuore
quando piena s'accende l'espansione
dello spirituale soffio dell'eterno!

Perché tu hai inondato con l'ardore
il fondo, l'anima
che si stringe alla speranza.

Hai rimosso
ogni consuetudine del cuore
avversa alla novità del cielo.


(da La giovinezza nascosta)


Ha ragione Matteo Pugliares quando nella sua incisiva presentazione parla di un viaggio, un movimento inteso come inevitabile cambiamento, dalla tensione interiore causata dallo scorrere dei tempi dell'anima.
In effetti Baldassi rivela un progressivo approccio alla fede con un percorso tutto interiore che lo porta a riscoprire l'innata spiritualità di ogni essere umano e che nel caso specifico si manifesta in un sentire e percepire convergente con la religione cristiana.
Non ci è dato di conoscere il motivo di questo avvicinamento, ma ritengo che non sia improbabile possa derivare da una visione della vita meno pragmatica e positivista in forza di un approfondimento che, nella ricerca dell'IO, ha trovato spiragli per tentare di approdare all'Assoluto.
Quindi, più che una conversione, potrei dire che il tutto riviene da un percorso filosofico che, attraverso l'introspezione, ha svelato nature sopite, finendo con il consentire la percezione di una verità sul perché della vita.
La poetica di Baldassi, che già avevo apprezzato in L'involucro del nulla, raccolta influenzata in modo marcato dall'ermetismo e che posso considerare propedeutica dell'attuale, come del resto anche evidenziato dall'autore nella sua nota, qui stranamente si fa più limpida, meno incline a svariate interpretazioni, come l'artista avesse acquisito certezze in quel lungo cammino ora arrivato alla meta.

Solo parole per aprire il sogno
e la distanza che sovrasta
questa sperduta landa del destino.

Il mondo nel silenzio
sulla croce apre ancora
le sue braccia.

….
(da Malinconia)

Si apprezza, in particolar modo, la linearità dei versi, il fluido scorrere delle parole, in immagini di grande effetto, che nulla hanno a che vedere con il misticismo, ma sono il frutto di una riflessione sulla condizione umana e sul Supremo che ne ha delineato i contorni affinché l'uomo, che vuole sapere con il cuore, in questa consapevolezza trovi la via della verità.
La giovinezza non muore è un'opera di sicuro interesse e presenta il non trascurabile vantaggio di essere accessibile anche a chi, pur non credente, ricerchi in sé il mistero della vita.

Francesco Baldassi vive a Roma dove è nato nel 1938. È stato insegnante di scuola elementare; ha studiato presso i Padri Cappuccini della Provincia di Roma sino all'età di ventiquattro anni.
È laureato in pedagogia, con una tesi su Karl Raimund Popper.
Dal 1969 ha partecipato a movimenti culturali giovanili della capitale ed ha frequentato i sabato letterari alla Libreria Ferro di Cavallo e, successivamente, il gruppo autogestito di "Pubblico e Privato" ed il collettivo "Valore d'Uso".
Dal 1968 ha condiviso posizioni ideologiche, culturali e pedagogiche della sinistra, fin verso la fine degli anni Novanta, conclusisi col ritorno apparentemente improvviso e quasi imprevedibile, alla fede.
Ha pubblicato le seguenti sillogi poetiche: Ceneri del cortile (Rebellato, Padova 1969), Identificazioni e Ossessioni (Gabrieli, Roma 1976), Questa luce indossata dalle nostre parole (Rebellato, Padova 1983), Prova generale (Gabrieli, Roma 1985), Stupore (Gabrieli, Roma 2003), Il volto e la parola (Pigreco, Roma 2004), L'uomo è la sua minaccia (Tabula Fati, 2005), La forza della vita (Patti 2006), Amore coniugale (Tabula Fati, 2006), Lieve il vento (Tabula Fati, 2007), L'involucro del nulla (Tabula Fati, 2008) e La giovinezza non muore (Tabula Fati, 2009). Ha esordito nella narrativa con il romanzo Il ritorno (Bonaccorso, Verona 2008).
Renzo Montagnoli


Il visconte dimezzato di Italo Calvino Arnoldo Mondadori Editore S.p.A.
Presentazione dell'autore
Narrativa romanzo

La prima edizione del Visconte dimezzato usci nel febbraio del 1952 per i tipi di Einaudi e già pochi mesi dopo Calvino diede conto di questa sua stranissima opera in una lettera inviata a Carlo Salinari.
Scrive, fra l'altro "Quando ho cominciato a scrivere Il visconte dimezzato, volevo soprattutto scrivere una storia divertente per divertire me stesso, e possibilmente per divertire gli altri; avevo questa immagine di un uomo tagliato in due ed ho pensato che questo tema dell'uomo tagliato in due fosse un tema significativo, avesse un significato contemporaneo: tutti ci sentiamo in qualche modo incompleti, tutti realizziamo una parte di noi stessi e non l'altra…".
Per quanto questo romanzo possa essere soggetto a diverse interpretazioni, stante il senso metaforico di non poche parti della trama, sembrerebbe, di primo acchito, che il puro divertimento sia stato il motivo principale per scriverlo e del resto, nel prosieguo della lettera di cui sopra, alcune righe dopo si può leggere "Non sono solo io a pensarla così, ad esempio anche uno scrittore molto attento ai contenuti come Bertolt Brecht diceva che la prima funzione di un'opera teatrale era il divertimento. Io penso che il divertimento sia una cosa seria.".
Mi ha colpito questo quasi ossimoro "penso che il divertimento sia una cosa seria", anche perché vi si potrebbe leggere un altro significato di questo romanzo, forse il vero intendimento dell'autore, che sembra dirci che siamo uomini imperfetti, che non riusciremo mai a trovare in noi il perfetto equilibrio, e quindi è inutile angustiarci, ma conviene riderci su, stemperare questa amara consapevolezza di insuccesso con una dose di provvidenziale autoironia.
La vicenda, in effetti, oltre a essere paradossale, ha in questa sua credibile incredibilità il pregio di assicurare un sorriso non fine a se stesso, ma che si smorza con una riflessione sul nostro stato. In ognuno di noi vivono due anime, o meglio due parti, una buona e una cattiva, che si mescolano, che a volte vedono prevalere l'una piuttosto che l'altra, in una sorta di eterno dissidio fra l'aspirazione al bene e la tentazione del male.
Questa storia del visconte Medardo di Torralba, diviso perfettamente in due parti (la destra e la sinistra) da una cannonata turca ha quasi un sapore goliardico, una vena di fresca e incosciente gioventù che permea le righe e che in sordina finisce con il coinvolgere e addirittura travolgere il lettore.
Eppure, se ci si sofferma ogni tanto a riflettere, non è difficile vedere nell'esasperazione non solo anatomica, ma anche psicologica dei due visconti, l'uomo moderno, ancor più schiavo che in passato della sua illusione di completezza, con una coesistenza in ognuno di bene e di male che sfumano fra di loro, in quell'eterno conflitto che spesso inconsapevolmente sosteniamo ogni giorno.
Ed è uno stupore continuo nel verificare come Calvino riesca a trattare concetti complessi con una scrittura fluida, che scivola quasi sul foglio, accompagnata da quell'ironia che riesce a stemperare la crudeltà di certi immagini, in un mondo dove si impicca senza colpe e dove pur esistono località dal nome altamente evocativo e sognante come Pratofungo.
Il visconte dimezzato è il primo dei tre romanzi della Trilogia degli antenati, quasi un'introduzione, uno stuzzicante antipasto di qualcosa di molto più corposo come Il barone rampante e Il cavaliere inesistente.
Ne raccomando, per quanto ovvio, la lettura.

Italo Calvino (Santiago de Las Vegas, 15 ottobre 1923 - Siena, 19 settembre 1985).
Ha scritto numerosi testi di narrativa, fra i quali:
Il sentiero dei nidi di ragno (1947), Ultimo viene il corvo (1949), Il visconte dimezzato (1952), Fiabe italiane (1956), Il barone rampante (1957), Il cavaliere inesistente (1959), Marcovaldo ovvero Le stagioni in città (1963), La giornata di uno scrutatore (1963), Il castello dei destini incrociati (1969), Le città invisibili (1972).
Renzo Montagnoli


Ofelia e la Luna di Paglia di Antonio Messina Edizioni Il Foglio Letterario www.ilfoglioletterario.it  ilfoglio@infol.it
Prefazione di David Frati
Postfazione di Marina Monego
Narrativa romanzo

In noi c'è sempre un modo fantastico in cui rifugiarci per trovare sollievo alle difficoltà della vita reale. E' ciò che vorremmo che fosse e che purtroppo non è mai. E questo è appunto il problema di Nina, una creatrice di videogiochi, prostrata moralmente per la scomparsa del padre. Nel suo lavoro è molto brava, è una delle migliori e quando le viene offerto di collaborare alla realizzazione di un nuovo avveniristico videogame accetta con entusiasmo e non solo per il cospicuo ingaggio. In questa realtà virtuale mette tutto quel mondo che avverte dentro di sé e in particolare allestisce un livello del gioco in cui c'è una figura che ricorda tanto quella paterna.
Non vado oltre nel parlare della trama per non togliere il piacere ai lettori di assaporare la bellezza di questo romanzo. Aggiungo solo che a un certo punto Nina entrerà in quella realtà virtuale, fatta da un arcipelago di incredibile bellezza, da una luna di paglia che sembra bagnarsi ogni notte nel mare e da personaggi, frutto della sua creatività, talmente perfetti da avere un'anima.
Credo che Messina con questo testo sia giunto alla sublimazione del fantastico, permeando visioni oniriche di pura poesia, avvincendo il lettore non solo con una trama incalzante e complessa, ma ponendogli, indirettamente, delle domande su quel che è la vita per ognuno di noi.
Il reale si confonde con il virtuale, l'impressione che si ricava è che gli uomini in fondo siano solo i protagonisti di una rappresentazione a cui ognuno partecipa secondo il ruolo assegnato dagli dei.
In un fantastico caleidoscopio di immagini, dove i sentimenti tuttavia non vengono mai a mancare, tutto scorre su piani paralleli, che a volte si sovvertono, si incrociano, determinando la nostra maggiore o minore razionalità.
E' un viaggio nel sogno, dove tutto è sempre possibile, anche che nulla sia accaduto realmente e nemmeno virtualmente, in un tripudio di sensazioni che finiscono con il portare ad accettare il proprio ruolo.
Sono 160 pagine, cioè nemmeno poche, ma una volta iniziato il libro non riesci a staccartene; e così riemerge poco a poco il mondo interiore di ciascuno di noi che va sempre più somigliando, nella prosecuzione della lettura, a quello del video game, un'oasi di serenità, di pace, con i pescatori che all'alba iniziano la loro giornata, con il Palazzo delle Sorgenti Prossime al Nulla, con la Spiaggia degli Spiriti Vagabondi, con quella Luna di Paglia dal sempre più enigmatico sorriso.
Ho sempre apprezzato la fantascienza filosofica di Antonio Messina, lamentando solo una certa sua complessità, ma in Ofelia e la Luna di Paglia tutto scorre dolcemente come un fiume, senza intoppi, tutto è facilmente comprensibile, ferma restando la straordinaria capacità dell'autore di condurci a profonde riflessioni sulla vita.
Come penso avrete capito ci troviamo di fronte a un autentico capolavoro.

Antonio Messina nasce nel 1958 a Partanna, in provincia di Trapani. Vive a Padova. E' poeta e narratore.
Pubblicazioni:
L'assurdo respiro delle cose tremule (L'Autore Libri Firenze, 2003), La memoria dell'acqua (Edizioni Il Foglio Letterario, 2006), Le vele di Astrabat (Edizioni Il Foglio Letterario, 2007), Dissolvenze (Edizioni Il Foglio Letterario, 2008), Ofelia e la luna di paglia (Il Foglio Letterario, 2009).
Renzo Montagnoli


La luna al traguardo del bosco di Franco Seculin Edizioni Sabinae www.edizionisabinae.com
Immagini di Otello Fabri
Poesia silloge

I versi possono essere detti, anche gridati, ma la forza non sta nel tono, perché in quest'opera di Franco Seculin sono sussurrati, quasi pudicamente volessero svelare le emozioni dell'autore che desidera mostrare la sua presenza senza imporla, che ama comunicare senza pretendere, un'intima confessione, quasi bisbigliata, il cui ascolto deve essere scevro da preconcetti e da giudizi, perché il poeta racconta se stesso.
Sono episodi di vita, ricordi che riaffiorano in un'esistenza assai movimentata che l'ha portato dalla lontana Eritrea a vagare per l'Italia, vedendo luoghi, conoscendo persone, una casa ogni volta, un riadattamento continuo in una serie di esperienze che inevitabilmente si riflettono nella sua poesia che affronta i temi sempre determinanti dell'amore e della morte. Eros e Thanatos sono il contrappeso che bilancia la vita, con quella certezza di un termine che solo l'amore, pur nella sua possibile aleatorietà, può rendere accettabile.

Come un bimbo meravigliato,
ti ho visto aprire una finestra,
per appendere un azzurro nel sole.
….

Notte che vieni silenziosa,
ascolta:
l'uomo che muore ti dice
il saluto.

….

E' un gioco di ombre e di luci, dove l'amore richiama l'azzurro del cielo e la morte rientra nel buio della notte, e quindi Eros e Thanatos sono sole e profondo nero, speranza e passione da un lato, rassegnata comprensione dall'altro.

E a convalidare questa discrasia pochi, chiari e mormorati versi:

Non c'è sole
Per chi non nasce
Libero.
Nella morte
Di ognuno,
Di noi resta il tempo
Delle cose passate.


E il tempo diventa la misura del vissuto, una serie ininterrotta di eventi che testimoniano che esistiamo, così che ciò che veramente conta è quanto si è fatto e non ciò che faremo.

L'amore per Seculin è passione, senza essere follia, è un sentimento che porta a emozioni contrastanti, a dubbi, a certezze, anche a speranze.


Lei.
E' la mantide,
vorace e preziosa,
nascosta in una stella.
Lei.
E' cometa e nemesi, a un tempo.
Per un passato e un futuro.
Incredibili.
Lei è tutto questo, e altro ancora,
ma…non lo sa!


Come in tutte le poesie che si raccontano, che pacatamente ci parlano delle realtà di una vita, si avverte un senso di serenità, di quiete dell'animo, che si propaga contagioso verso dopo verso e, giunti alla fine, non si potrà che apprezzare il silenzio del non detto e il lieve fremito di vento di quanto invece espresso. E' un intarsio di speranze e di timori, è un gioco di luci e di ombre come in una notte di luna in un bosco.
Da leggere, soprattutto la sera, affinché i sogni ci facciano scivolare dolcemente sulla strada della vita.

Franco Seculin
Nasce in Eritrea ai tempi dell'Impero. Dopo l'8 settembre 1943 la sua è stata una vita tutta un trasloco più o meno concordato, sino al termine degli studi superiori al liceo classico e al conseguimento della laurea in Giurisprudenza. Per lavoro ha continuato a girare in lungo e in largo il Bel Paese…da Torino a Bari, da Milano a Cagliari, da Genova a Napoli, Firenze, Roma e Terni, città quest'ultima dove ha vissuto momenti importanti della sua vita.
Il giorno più importante della sua vita è stato l'incontro con la moglie; quello più felice la nascita di sua figlia.
Attualmente risiede con la famiglia a Cuneo, piccola cittadina del Piemonte. Il suo hobby, ma è quasi una necessità, è scrivere: racconti, romanzi brevi, poesie.
Il suo primo "essai" letterario è stata la recensione dei "Racconti immaginari" di Andrè Maurois.
Renzo Montagnoli


Il sentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino  Arnoldo Mondadori Editore Spa  Collana Oscar
Presentazione dell'autore
Narrativa romanzo

Il sentiero dei nidi di ragno è il primo romanzo di Italo Calvino, scritto nel 1947, cioè quando l'autore aveva 24 anni e già collaborava con la casa editrice Einaudi occupandosi dell'ufficio stampa e della pubblicità.
Chi pensa di leggere una delle sue straordinarie storie fantastiche si sbaglia, anche se, a tratti, emergono risvolti fiabeschi che stemperano la cruda realtà della vicenda, una sorta di neorealismo improntato tuttavia, pur con una sua autonomia, al verismo di Verga de I malavoglia.
La guerra è finita da poco, con tutti i suoi lutti e la sola esperienza positiva della resistenza, ma siamo in un'Italia che risorge dalle ceneri alimentando speranze, già in parte deluse.
E' il periodo in cui finita la sbornia per la ritrovata libertà ci si interroga sul perché degli accadimenti passati, un percorso indispensabile per acquisire coscienza di ciò che è effettivamente accaduto e delle relative motivazioni.
In questo senso Il sentiero dei nidi di ragno è una splendida metafora dei reali motivi che stanno alla base della maggior parte di chi aderì alla resistenza, ma lo è anche per coloro che invece osteggiarono questo straordinario moto popolare.
Il personaggio principale è Pin, un bambino lasciato solo a se stesso, in condizioni di abbrutimento più morale che fisico e che cerca di essere prima del tempo adulto, non per una maturità raggiunta, ma per il desiderio di evadere dal suo squallido mondo.
Cattivo come può essere uno che non appartiene di fatto né all'infanzia, né alla pubertà, si atteggia a grande, rimanendo con l'esperienza di un bimbo.
In un'epoca di furore, di sangue e di rivolta giocherà alla resistenza, rimanendo sempre solo, senza veri amici, tranne uno, un adulto con la mentalità di un bambino, e con lui che assai probabilmente gli ha ucciso la sorella, meretrice collaborazionista dei tedeschi, si allontanerà nella notte, nel buio di una vita di cui nessuno dei due conosce ancora la strada.
E le motivazioni allora quali sono? Le spiega Kim, un giovane commissario politico: i partigiani combattono per un riscatto dal mondo di miseria e di abbrutimento, lo stesso in cui si trovano anche le camicie nere, ma mentre i primi lottano per spezzare le catene, i secondi si oppongono per mantenerle strette.
Sì, perché tutti i personaggi di questo bel romanzo, visti con affettuosa pietà dall'autore, sono dei vinti, tranne forse Kim che, a differenza degli altri, si pone tutti quei perché, le cui risposte daranno coscienza alla sua e alla loro partecipazione.
Scritto in modo scorrevole, dinamico, mai statico, ha già lo straordinario pregio di introdurre gradualmente alla riflessione, che diventa parte e scopo del testo, al punto che, se rimarranno indelebili nella memoria le figure di Pin, di Lupo Rosso, di Cugino e molti altri, finiremo con il porci anche noi le stesse domande e verremo condotti inconsapevolmente per mano a conoscere le risposte.
E' forse superfluo che aggiunga che ne raccomando vivamente la lettura.

Italo Calvino (Santiago de Las Vegas, 15 ottobre 1923 - Siena, 19 settembre 1985).
Ha scritto numerosi testi di narrativa, fra i quali:
Il sentiero dei nidi di ragno (1947), Ultimo viene il corvo (1949), Il visconte dimezzato (1952), Fiabe italiane (1956), Il barone rampante (1957), Il cavaliere inesistente (1959), Marcovaldo ovvero Le stagioni in città (1963), La giornata di uno scrutatore (1963), Il castello dei destini incrociati (1969), Le città invisibili (1972).
Renzo Montagnoli


Il contesto
Una parodia
di Leonardo Sciascia
Giangiacomo Feltrinelli Editore
Narrativa romanzo

"In pratica, si trattava di difendere lo Stato contro coloro che lo rappresentavano, lo detenevano. Lo Stato detenuto. E bisognava liberarlo. Ma era in detenzione anche lui: non poteva che tentare di aprire una crepa nel muro."

Se di Orwell non si può di certo dire che non riuscisse a vedere oltre l'attualità, ma che fosse in grado di preconizzare il futuro, la stessa cosa vale per Leonardo Sciascia, perché in fin dei conti la strategia della tensione, tutta arroccata in lotte di potere, che tanto ha insanguinato l'Italia e che ora in altra forma sembra avere messo radici assai profonde, in un certo senso era stata prevista dal grande scrittore siciliano.
Forse sperava solo che fosse un'intuizione fantastica, tanto da pensare di scrivere un libro al riguardo, quel Contesto che poi si rivelerà drammaticamente anticipatore di un problema da cui ancora non riusciamo a venire a capo.
Come precisa Sciascia nella nota finale, partendo da un fatto di cronaca gli venne l'idea di scrivergli attorno un romanzo, puramente di fantasia, ma si lasciò prendere la mano dalla vicenda di uno condannato ingiustamente che si mette ad ammazzare giudici e del poliziotto che gli dà la caccia e che a poco a poco diventa il suo alter ego; così, nonostante il paese dove accadono i fatti sia del tutto immaginario, un paese dove i principi, proclamati, vengono quotidianamente irrisi, dove le ideologie in politica servono solo a distinguere i contendenti che il potere si assegna, dove l'unica cosa che conta è il potere per il potere, questo paese piano piano assume una straordinaria rassomiglianza con l'italico stivale. E allora la mano comincia a correre per conto suo, trova una strada ben definita che nella vicenda di fantasia ha tutte le basi di una realtà oggettiva, così che, come dice Sciascia, questa storia che cominciò a scrivere per divertimento, la finì che non si divertiva più.
Romanzo scritto in uno stile particolarmente colto, dove citazioni e rimandi a filosofi sono piuttosto frequenti, tuttavia in mezzo ai morti ammazzati, dove una volta tanto la mafia non corrisponde solo alla Sicilia, ma all'associazione di politici e di istituzioni che, sulla pelle dei cittadini, conducono la loro lotta di potere, quello che conta e che offre una dimensione di grande pregio al libro è il significato del contesto.
E' infatti questo la connivenza che lega gli uomini del potere, potere che diventa il vero protagonista del romanzo e che per effetto di legami e di interessi che si intrecciano fra la politica e le istituzioni, dove tutto si afferma e tutto si nega, in cui è labile il confine fra governanti e opposizione, diventa la mafia.
Il romanzo è straordinario, di altissima qualità, e quindi è sicuramente meritevole di essere letto.

Leonardo Sciascia (Racalmuto, 8 gennaio 1921 - Palermo, 20 novembre 1989). E' stato autore di saggi e romanzi, fra cui: Il giorno della civetta (Einaudi, 1961), A ciascuno il suo (Einaudi, 1966), Todo modo (Einaudi, 1974), La scomparsa di Majorana (Einaudi, 1975), I pugnalatori (Einaudi, 1976), Candido, ovvero un sogno fatto in Sicilia (Einaudi, 1977), Il cavaliere e la morte (Adelphi, 1988), Una storia semplice (Adelphi, 1989).
Renzo Montagnoli


Ginnastica d'epoca fredda di Sergio Sozi Edizioni Historica www.historicaweb.com  info@historicaweb.com
Postfazione di Gianfranco Franchi
Nota storica a cura di Gianclaudio de Angelini
Collana saggi
Narrativa racconto
Saggio letterario

Strano libro, questo, quasi un ibrido, composto com'è da un racconto breve e da un saggio letterario, un insieme che normalmente potrebbe stonare , ma che nel caso specifico offre un risultato pregevole, risultando entrambi i pezzi due autentici gioiellini.
Comincio dal racconto, né breve, né lungo, oserei dire il giusto, proprio perché non c'è nulla di troppo, né si notano assenze nel discorso, condotto in un italiano ormai raro, forbito senza essere lezioso, scorrevole senza essere impetuoso.
La vicenda in sé è grottesca, perché il protagonista, Poliorcete Visentini, dove l'etimologia greca del nome significa assaltatore di città, è l'oggetto di una diabolica scommessa delle autorità italiane e jugoslave (siamo negli anni cinquanta), un gioco infame a cui il personaggio si sottrarrà in un finale esemplare, rivendicando la propria dignità di uomo.
In queste righe, oltre a essere presente tutta l'assurdità della politica, viene evidenziato il ruolo di suddito di qualsiasi cittadino, merce di scambio, individuo da dominare, oggetto in pratica di giochi di potere.
E' questa prospettiva che dona universalità a un racconto che sembrerebbe agli inizi limitato solo al fenomeno contingente delle persecuzioni subite nel dopoguerra dagli italiani nei territori dell'Istria e della Dalmazia.
Sozi sembra dirci che quello che accadde in un certo buio periodo potrebbe accadere nuovamente, anzi accade sempre, continuamente entro e oltre ogni confine. E riguardo ai confini pare evidente che siano solo frutto di un calcolo umano, perché Poliorcete, anche se sta di là, sempre italiano resta e la sua casa, la sua famiglia sono un'isola di italianità, perché non è possibile negare le origini, se non rinunciando alla propria dignità.
In questa doppia chiave di lettura il racconto finisce con l'assurgere a uno stupendo canto di libertà.
Per quanto concerne il saggio (La Letteratura degli Italiani di Istria, Quarnaro e Dalmazia - un breve sguardo) presenta la caratteristica di essere abbastanza breve, eppure esauriente.
Con un'osservazione che parte dal XXIII secolo per arrivare al XX, Sozi fornisce un quadro di quanti, residenti in quelle terre geograficamente italiane da sempre, ma politicamente fino alla fine XVIII secolo, nonché per il breve periodo successivo che va dal 1919 al 1945, hanno lasciato segno in campo letterario, ovviamente scrivendo nella nostra lingua.
Sono molti di più di quanto si possa pensare, segno di una vitalità culturale di tutto riguardo e presente ancor oggi in territori che ormai da tempo non sono Italia, ma Slovenia e Croazia.
La mano di Sozi sa essere leggera, tracciando dei vari autori non tanto una descrizione didascalica, ma evidenziando il significato della loro opera rapportato al tempo in cui vissero.
La lettura così si presenta agevole e consente di fare un progressivo punto della situazione, insomma di avere delle idee un po' più chiare su quello che è stata la produzione letteraria in quei territori.
Mi sembra superfluo aggiungere che Ginnastica d'epoca fredda è sicuramente raccomandabile.

Sergio Sozi è nato a Roma nel 1965 ed è vissuto nel perugino dal 1969 al 2000, anno in cui si è trasferito prima a Capodistria e poi a Lubiana (Slovenia), dove attualmente vive e lavora come insegnante d'italiano, giornalista culturale, scrittore e traduttore dall'inglese, il francese e lo sloveno. Pubblica di cultura dal 1989 su quotidiani (L'Unità, 10 DIECI diretto da Ivan Zazzaroni, Il Giornale dell'Umbria), blog, siti e riviste cartacei e telematici e nel 1995 ha fondato e diretto il trimestrale culturale nazionale ''I Polissènidi''. Il suo primo libro fu la raccolta poetica ''Oggetti volanti'' (Perugia 2000, segnalato dal Premio Sandro Penna 1999), seguito da ''Il maniaco e altri racconti'' (Roma 2007, racconto eponimo segnalato dal Concorso Scritture di Frontiera).
Il racconto ''Ginnastica d'epoca fredda'', prima di essere pubblicato in Italia da Historica Edizioni, è stato segnalato e antologizzato in Croazia nel 2008 a cura del Premio Fulvio Tomizza - Lapis Histriae. Il suo prossimo libro sarà il romanzo ''Il menú'', che uscirà dopo l'estate del 2009 per l'editore Castelvecchi.
Renzo Montagnoli


Cefalonia Sangue intorno alla Casetta Rossa
L'esecuzione degli Ufficiali del 24-25 settembre
1943 e i superstiti della Divisione Acqui

di Paolo Paoletti
Edizioni Agemina
www.agemina.it

Storia

Cefalonia non è solo un'isola greca delle Ionie, meta oggi turistica, ma è stata anche il teatro di una delle più atroci stragi compiute dall'esercito tedesco nel corso della seconda guerra mondiale. Lì nel 1943 era di stanza la Divisione Acqui e dopo l'armistizio dell'8 settembre resistette ai tedeschi, per giungere infine alla resa, dopo la quale fu letteralmente distrutta, parte con omicidi deliberati nel corso di azioni di rastrellamento, parte con fucilazioni e il tutto per espresso ordine di Adolf Hitler.
Quante furono le vittime? Non si saprà mai, ma, secondo vari computi e diverse fonti, si calcola siano state fra 1.700 e 9.400.
Paolo Paoletti, storico a cui si devono diverse opere sugli eccidi compiuti dai nazifascisti e che già aveva scritto dei testi sulla dolorosa vicenda, con questo nuovo libro preferisce relazionare ampiamente sulla sorte degli ufficiali italiani a Cefalonia, la maggior parte fucilati in una località caratterizzata da una casetta rossa, nel cui cortile attesero, e si può immaginare con quale strazio, il loro turno nel macabro rituale dell'esecuzione.
L'autore si muove a distanza di molti anni e cerca di arrivare, se non alla verità, comunque di avvicinarvisi.
Il suo è stato un lavoro metodico, professionale, di ricerca di documenti, al fine di trarre delle plausibili conclusioni.
Come ogni buon storico non ha la pretesa di essere sicuro nei risultati e proprio per questo accompagna il lettore con l'indicazione del metodo esperito, affinché possa comprendere come, per effetto della cronica disorganizzazione italiana e per il tempo trascorso, sia riuscito a giungere solo a maggiori chiarimenti del fatto, con la certezza però che esistono ancora tante zone d'ombra; insomma, il frutto di tanta certosina pazienza è solo un po' di verità, ma non la verità.
Laddove ha elementi di valutazione abbastanza attendibili e completi riesce a spiegare comportamenti e cause, come nel caso dell'atteggiamento, che personalmente ho sempre considerato poco chiaro, del comandante della divisione Acqui, il generale Antonio Gandin, medaglia d'oro al valor militare alla memoria, onorificenza forse conferita un po' troppo frettolosamente.
L'eccidio di Cefalonia fu un atto veramente criminale, voluto personalmente da Hitler, e tuttavia non ebbe conseguenze per chi lo attuò, un ulteriore elemento di straordinaria gravità, questa volta imputabile agli italiani, come la vicenda dell'armadio della vergogna, un chiaro esempio di ragion di stato o, meglio, di oscuri interessi.
Anche Gandin, che pure aveva espresso la devozione al Duce e che era molto stimato dai tedeschi, fu passato per le armi. Fra l'altro sembra che non del tutto estraneo alla sorte della divisione Acqui sia stato anche Mussolini, che da pochissimo liberato dalla prigionia sul Gran Sasso voleva dimostrare la determinazione necessaria per riacquistare il potere.
Ma perché fu dato l'ordine di passare per le armi i soldati italiani a Cefalonia?
Sembrerebbe che la causa dell'eccidio sia stata proprio il comportamento del generale Gandin, da cui i tedeschi attendevano la massima collaborazione, alla luce dei suoi precedenti bellici e della sua fede fascista. In effetti all'inizio delle trattative per la resa e anche nei giorni immediatamente precedenti il comportamento del comandante fu consono alle aspettative, ma poi intervenne qualche cosa (e con tutta probabilità fu l'atteggiamento di buona parte degli ufficiali e della truppa, che non intendevano cedere le armi, ma anzi desideravano ricorrervi) che mandò a monte i piani e precisamente fu il laconico comunicato di Gandin con cui annunciava che i suoi uomini non volevano arrendersi.
Da lì iniziarono gli scontri, particolarmente sanguinosi.
Fra l'altro, Gandin rimase con la sua divisione, pur continuando a manifestare un comportamento ben poco chiaro, visto che da un lato sparava addosso agli ex alleati e dall'altro metteva a loro disposizione un'ambulanza con tanto di uomini della sanità.
Insomma, questo generale non seppe decidersi del tutto se stare con l'ex alleato o combatterlo e inoltre dimostrò agli occhi dei tedeschi l'incapacità di dominare le proprie truppe, due fattori negativi contemporanei che portarono alla reazione spropositata.
Questa è la parte migliore e più interessante del libro, che prosegue poi con il tentativo di dare un numero esatto degli ufficiali fucilati alla casetta rossa, compito improbo, se non impossibile, e così le ultime pagine risultano costituite da lunghi elenchi di nominativi, diversi a seconda di chi provvide a stilarli.
E' la parte meno avvincente, ma d'altra parte ha la sua valenza storica, perché quelli che morirono là, a Cefalonia, sono stati, tutti, dei protagonisti della storia ed è quindi giusto, o comunque auspicabile, sapere quanti e chi furono.
Il libro è di indubbio interesse e quindi la lettura è sicuramente raccomandabile.

Paolo Paoletti
da 25 anni svolge ricerche negli archivi italiani ed esteri.
È stato il primo a portare in Italia gli atti delle commissioni d'inchiesta inglesi e americane sulle stragi naziste che poi hanno portato il procuratore Intelisano a cercare e a trovare l'"Armadio della Vergogna".
Pubblicazioni:
Firenze: giorni di guerra (Ponte alle Grazie, 1992), con Biscarini Claudio e Meoni Vittorio 1943-1944: vicende belliche e Resistenza in terra di Siena (Nie, 1994), Sant'Anna di Stazzema. 1944: la strage impunita (Mursia, 1998), 1944 San Miniato. Tutta la verità sulla strage (Mursia, 2000), I traditi di Cefalonia. La vicenda della divisione Acqui 1943 - 1944 (Frilli, 2003), I traditi di Corfù. Quel tragico settembre 1943 (Frilli, 2003), Firenze agosto 1944. Alleati, tedeschi, C.T.L.N., partigiani e franchi tiratori nel mese più sanguinoso della storia fiorentina (Agemina, 2004), La strage di Fossoli. 12 luglio 1944 (Mursia, 2004), Il delitto Gentile. Esecutori e mandanti. Novità, mistificazioni e luoghi comuni (Le Lettere, 2005), Il capitano Apollonio l'eroe di Cefalonia. La manipolazione della storia sulla divisione Acqui (Frilli, 2006), Cefalonia 1943: una verità inimmaginabile (Franco Angeli, 2007), Volontari armati italiani (Frilli, 2008), Vallucciole: una strage dimenticata. La vendetta nazista e il silenzio sugli errori garibaldini nel primo eccidio indiscriminato in Toscana (Le Lettere, 2009).
Renzo Montagnoli


Il futuro bruciato
come ci stanno incenerendo la salute insieme al pianeta
di Stefano Montanari
Illustrazioni di Vilfred Moneta
Edizioni Creativa
www.edizionicreativa.it
Collana dissensi
Saggistica

Il filosofo greco Anassagora scriveva all'incirca 2.500 anni fa "Nulla si crea, tutto si trasforma, nulla si distrugge." Ci vollero però ben 2.200 anni perché questa teoria potesse essere dimostrata dal grande chimico francese Antoine Laurent de Lavoisier.
In quelle poche parole, in quel nulla si crea, tutto si trasforma, nulla si distrugge c'è una verità assoluta che solo un essere stolto come l'uomo, per vanità e potere, non riconosce.
Ora Stefano Montanari, con questo saggio Il futuro bruciato, ha svolto un lavoro di grandissima utilità, rivolto soprattutto ai giovani e alle future generazioni affinché comprendano gli errori compiuti dagli esseri umani negli ultimi 200 anni della nostra storia, cioè da quando, nella seconda metà del XVIII secolo è iniziata la rivoluzione industriale e con essa un consumismo diventato sempre più sfrenato che ha depauperato le risorse del pianeta e creato una quantità di immondizia tale da superare abbondantemente tutta quella accumulata dagli albori dell'homo sapiens fino appunto alla metà del '700.
Ma Il futuro bruciato è utile anche per noi, per comprendere quanto siamo stati turlupinati - e continuiamo a esserlo - da individui solo apparentemente disinteressati, disposti a tutto per raggiungere i profitti, anche negando ogni evidenza.
Il percorso tracciato da Montanari parte dalla scoperta del fuoco, dalla sua lenta applicazione per migliaia di anni, e poi all'improvviso aumento della richiesta di energia con l'avvento dell'industrialismo. Fonti energetiche prescelte, sprechi, spazzatura hanno condizionato un pianeta al punto che ora lo stesso appare agonizzante e poiché nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma, l'uomo è riuscito in un compito quasi impossibile, cioè rendere invivibile la propria esistenza. L'analisi dell'autore è impietosa, non si limita a una semplice denuncia, ma indica anche soluzioni fattibilissime e non campate in aria, e che proprio per questo non verranno adottate dai governi perché minano l'interesse dei soliti pochi.
Il ricorso alle inesauribili energie alternative, quali il solare e l'eolico, porterebbe un duplice vantaggio: non depauperare ulteriormente il pianeta e non produrre scorie, sia sotto forma di ceneri che di gas, nell'ottenere energia.
I famosi inceneritori, pomposamente chiamati termovalorizzatori, producono un'energia ben inferiore a quella che è stata necessaria per ottenere il combustibile (l'immondizia), oltre a liberare nell'atmosfera gas tossici, particelle infinitamente piccole, ben inferiori ai PM10, di notevole pericolosità per la salute umana.
Al riguardo è giusto che si sappia che nelle vicinanze degli inceneritori, così come nel circondario di una centrale nucleare, il numero degli abitanti con neoplasie è di gran lunga superiore alla media nazionale. Le autorità lo negheranno, forniranno dati addomesticati, ma purtroppo è così.
Se vogliamo poi limitare la massa delle spazzature dobbiamo rivedere il nostro modello di vita, comprando solo ciò che è effettivamente necessario, perché con il superfluo facciamo l'interesse di pochi, danneggiando tutti. Quindi è solo un apparente arretramento del nostro status economico, dove al concetto di quantità sovrabbondante si sostituisce quello di qualità della vita. Basta poco per cominciare, come, per esempio, abolire gli usa e getta, ritornando a quei vuoti a rendere per il latte, per il vino, per la birra che erano la norma nemmeno una cinquantina di anni fa.
Il futuro bruciato, quindi, è più di un libro da leggere, è quasi la Bibbia dell'uomo consapevole e che desidera ritornare a una vita migliore. Sarebbe da diffondere in ogni scuola, dovrebbe essere studiato, ma intacca troppo lo status quo di chi ci comanda e allora non posso far altro che raccomandarvene la lettura, gratificata anche dalle riuscitissime vignette di Vilfred Moneta.

Stefano Montanari
Dal 1972 è impegnato nella ricerca medica e nel 1997 è stato protagonista insieme con la moglie Antonietta Gatti di una scoperta destinata a cambiare la Medicina: le polveri sottili e ultrasottili prodotte da tante attività umane sono in parte catturate e trattenute dall'organismo dove causano una serie di malattie chiamate nano patologie. Montanari non è solo uomo di scienza ma anche un appassionato divulgatore rivolto soprattutto ai giovani che erediteranno il mondo.

Vilfred Moneta
Più vignettista che illustratore, ha collaborato satiricamente per il blog Beppe Grillo, e per lui ha inoltre realizzato lo storico simbolo del primo V-DAY. Diverse collaborazioni con periodici e quotidiani nazionali, alcune mostre satiriche alle spalle, da anni è professionalmente legato al mondo del teatro ragazzi, e, con rinnovato entusiasmo alla compagnia Il Piede Volante Teatro di cui è co-fondatore. L'istruzione sportiva e i viaggi non lo hanno ancora abbandonato.
Renzo Montagnoli


Due racconti deliziosi

Juve-Napoli 1-3 La presa di Torino, di Maurizio de Giovanni
 - Edizioni Cento Autori

Ti racconto il 10 maggio, di Maurizio de Giovanni
 - Edizioni Cento Autori

Premetto che il mondo del calcio, quello sportivo, professionistico per intenderci, mi ha sempre interessato poco, anche se in gioventù, quando il Mantova era in serie A, seguivo tutte le partite in casa, attirato, più che dall'incontro, dalla varietà dei personaggi presenti sugli spalti, un campionario di individui di indubbio interesse.
Maurizio de Giovanni, scrittore di razza e di alta qualità (sua è la serie di bellissimi romanzi con protagonista il commissario Ricciardi), napoletano verace, ha ovviamente nel cuore la squadra di calcio della sua città e con questi due racconti la coglie nel momento del suo splendore, partendo dalla prima insperata vittoria a Torino sulla Juventus per finire al 10 maggio 1987 con la conquista del primo scudetto.
La passione per questo sport è presente nel narratore, ma è preponderante l'osservazione dell'ambiente, degli uomini che si agitano negli stadi, insomma diciamo che, un po' come me, ha un occhio più alle gradinate che al campo di gioco. Quello che lo differenzia da me è il saper tramutare in parole scritte le sensazioni e le emozioni di quei momenti, con una verve comica che non nasconde anche una certa ironia, più verso se stesso per quella trepidazione per la squadra del cuore di cui è orgoglioso, pur nella consapevolezza dell'incomprensibile irrazionalità che è propria del tifoso.
Dalla sua penna escono così pagine memorabili, con protagonisti che se non sapessi per esperienza che esistono sembrerebbero inventati, in un'atmosfera gioiosa che non può non trascinare all'entusiasmo il lettore anche se non sostenitore della squadra partenopea.
Più ilare il primo racconto (Juve - Napoli 1-3) e invece più riflessivo, quasi a voler far emergere dalla memoria i particolari di un giorno indimenticabile il secondo (Ti racconto il dieci maggio), restano comunque due splendidi esempi delle capacità di questo scrittore che, oltre a un'indubbia eccellenza stilistica, rivela un'indole non comune nel saper scrutare nell'animo dei protagonisti, andando ben oltre quelle che possono solo sembrare le apparenze dei gesti e dei comportamenti.
Leggere le pagine di questi due piccoli libri è stato veramente piacevole, addirittura coinvolgente, e quindi sono dell'idea che possano interessare non solo i napoletani, che pure ne hanno fatto incetta, ma tutti, in uno sport come il calcio fatto non solo da ventidue uomini in campo che corrono dietro a una palla, ma anche da un numero imprecisato di individui che, trepidanti sugli spalti, corrono con loro.

Maurizio de Giovanni è nato nel 1958 a Napoli, dove vive e lavora.
Ha pubblicato:
Il senso del dolore. L'inverno del commissario Ricciardi (Fandango Libri, 2007), Le beffe della cena ovvero piccolo manuale dell'intrattenimento in piedi (Kairòs, 2007), La condanna del sangue. La primavera del commissario Ricciardi (Fandango Libri, 2008), Juve-Napoli 1-3 La presa di Torino (Cento Autori, 2008), Il posto di ognuno. L'estate del commissario Ricciardi (Fandango Libri, 2009), Ti racconto il dieci maggio (Cento Autori, 2009).
Renzo Montagnoli


Le quattro stagioni di un viaggiatore solitario di Massimo Baldi Edizioni Creativa www.edizionicreativa.it
Nota iniziale dell'autore
Collana Versi Creativi
Poesia silloge

Il titolo è abbastanza eloquente e la nota introduttiva dell'autore fuga ogni eventuale dubbio: le quattro stagioni sono quelle dell'esistenza, sempre uguali, ma giustamente sempre diverse fra loro.
Largo spazio e prevalenza di poesie è per quelle d'amore, così che non è difficile arguire che le stagioni del cuore appaiono all'autore quelle determinanti e che rendono il percorso terreno unico, irripetibile e fantastico.
E' un tripudio così di omaggi alla compagna di una vita, osservata solo con gli occhi estasiati che può avere un poeta innamorato (Io, te e una terrazza sulla fine rena sabbiosa: / mille, e poi altre mille, onde spumose / in lontananza si increspano /…) oppure (Nei tuoi occhi smeraldo rinasco ogni mattino / e del tuo virgineo sorriso mi compiaccio. /…).
Appare così indubbia l'essenza emotiva che ispira e anima i versi e del resto che l'amore faccia andare il mondo non è solamente una frase fatta, ma è riscontrabile realtà, anche se purtroppo ai tempi attuali ci sono altri stimoli, ben diversi e spesso infimi, che sembrano presiedere alle vite degli individui.
Se nell'amore non c'è spazio per le metafore, nella tarda stagione, l'ultima, il ricorso a questo tropo trova il risultato migliore in La locomotiva in pensione (Sbuffa la vecchia locomotiva a vapore, / è un puntino lontano e avanza veloce in una / nuvola grigia: / e le ruote stridono, puzzo di ferro sulla strada / ferrata; / undici vagoni fedeli la seguono, in lenta processione. /…).
C'è anche spazio per lo sdegno causato dalla guerra, ma soprattutto per quello provocato dall'indifferenza, che senz'altro costituisce uno degli aspetti più negativi dell'attuale società.
E' una visione sconsolata della vita che ha questo viaggiatore solitario, inteso in tal senso in quanto sconosciuto agli altri compagni di percorso; nondimeno sembra dirci che tutto può ricominciare con l'amore, salvezza e anche inizio di un nuovo mondo.
Non manca anche la poesia religiosa, semplice, non tronfia o retorica, ma che sembra il frutto di un dialogo intimo fra il poeta e Dio.
Concludono questo libro alcuni aforismi, o perle di saggezza come preferisco chiamarli io, e uno in particolare mi ha colpito per la sua logica stringente e perché rientra giustamente nel concetto di vita come quattro stagioni.
L'uomo
L'uomo giovane sperimenta la vita, il dolore, la
gioia, l'ira, l'amore, il sesso, la colpa, l'espiazione,
l'uomo vecchio la contempla con distacco e
saggezza.

E non poteva mancare quello sull'amore, che tuttavia non riporto, per quanto riuscitissimo, invitandovi quindi a prendere per le mani questo libro e a leggerlo con calma, perché vi assicuro che ne vale la pena.

Massimo Baldi è nato il 30 aprile del 1966 a Torre del Greco, in provincia di Napoli.
Attualmente risiede a Marino, ridente località dei Castelli Romani ed è felicemente sposato dal 1999: usa affermare, senza ombra di dubbio, che la sua compagna di vita rappresenta la Musa ispiratrice, una persona indispensabile come aria e ricca di infinite virtù.
Laureato brillantemente in ingegneria elettrotecnica nel marzo del 1993, lavora come consulente aziendale nel settore dell'Information Technology, tuttavia non ha mai smesso di coltivare l'immensa passione per l'archeologia, in particolare per la civiltà dell'Antico Egitto e, soprattutto, per la poesia, che ama sin dall'adolescenza; sognatore, romantico, caparbio e genuino, adora il contatto con la natura e ama viaggiare, conoscere nuovi luoghi, nuove culture.
Ha pubblicato la sua prima silloge, in qualità di co-autore, all'interno della collana "Spazio a chi sa scrivere"- Spiragli 54 nel 2003 (Editrice Nuovi Autori); tra il 2006 e il 2008 alcune sue poesie sono state inserite nell'antologia L'Eco del vento e all'interno della rivista quadrimestrale "Poeti e Poesia" (Editrice Pagine).
Altre sue poesie sono presenti su Siti letterari on line e sul suo blog personale.
Ha pubblicato il mio primo libro di poesie "a solo" Le quattro stagioni di un viaggiatore solitario nel febbraio 2009 con la Casa Editrice Creativa e ha in cantiere numerosi altri progetti.
Blog: http://maxbaldi.splinder.com/ 
Renzo Montagnoli


Il posto di ognuno.
L'estate del commissario Ricciardi
di Maurizio de Giovanni
Fandango Libri
www.fandango.it
Narrativa romanzo

Come ho aperto il libro ho avuto chiara la sensazione di aver ritrovato dei vecchi amici, di quelli con cui ci si vede magari solo una volta all'anno. C'è il brigadiere Maione un po' ingrassato, tanto che si è messo a dieta e poi c'è l'Enrica, una presenza silenziosa, non appariscente, ma capace di dare luce a una notte e a un'intera vita. Il dottor Modo, nonostante il suo antifascismo, è ancora lì e sembra dirmi che la vita deve essere presa con ironia, sì con uno spirito leggero, e se detto da lui c'è da credergli, perché i suoi clienti non sono di certo ciarlieri, muti come possono solo esserlo i cadaveri.
E poi c'è lui, quegli occhi intensi, in cui sembra galleggiare il dolore del mondo, un uomo Ricciardi a cui tenderei subito la mano per prendere un po' della sua sofferenza e per vederlo un po' sereno, magari al braccio di Enrica, la cui madre s'è messa in testa di accasarla con un bellimbusto e nemmeno a farlo apposta la giovane deve anche confrontarsi con la bellissima Livia, che si è incapricciata del commissario, il tutto nel corso di una difficile indagine per la soluzione di un efferato delitto e in un'estate particolarmente torrida.
Cari amici, tutti, è sempre un piacere essere con voi, anno dopo anno, stagione dopo stagione, entrare in quelle pagine per presenziare, ospite invisibile, alle vostre storie, per essere partecipi della vostra esistenza che non ha nulla di titanico, di grandioso, ma che riflette i vostri caratteri fondamentalmente buoni, con quel senso di pietà che vi accompagna di fronte alle vittime dei delitti e davanti agli omicidi che assicurate alla giustizia.
Caro Maione, caro Ricciardi, cara Enrica, non sapete quanto mi siete mancati dal nostro ultimo incontro. Ora vi vedo nuovamente, fra le pagine del libro che sfoglio, fra le righe che divoro, coricato sul letto la sera in attesa di un sonno che, grazie a voi, non potrà che essere ristoratore, accompagnato dalla vostra presenza nei miei sogni.
Lo so che quanto ho scritto è un po' strano per una recensione, per quelle righe che un lettore attento compone per giustificare il suo giudizio su un'opera.
Ma voi siete quest'opera, voi e tutti i personaggi che la animano, in un'atmosfera falsa tipica di un regime, dove non si deve parlare né di miseria, né di crimini.
A volte pure mi commuovo, e voi non ve ne accorgete, perché non mi vedete e forse è anche meglio, perché così non perdete quella naturalezza di gesti e di comportamenti che vi contraddistingue.
Stare con voi è meglio di vedere un film della televisione, essere insieme a voi è un confrontarsi continuamente, riscoprendo quei vizi e quelle virtù che, in maggiore o minor misura, sono dentro di noi.
Voi siete un'umanità reale, tangibile, che ora non si trova più in un mondo in cui ognuno è diverso da quel che appare; voi invece siete limpidi, con i vostri sentimenti, le vostre emozioni, i vostri amori, le gelosie, il desiderio di un mondo più giusto. In proposito, cari Ricciardi e Maione mi piacete tanto perché non siete dei giustizieri, ma cercatori di verità, incrollabili, tutti tesi allo scopo, ma anche misericordiosi, comprensivi senza indulgere al troppo facile perdono.
Siamo arrivati all'estate e poi ci sarà l'autunno, l'ultima delle quattro stagioni, a quanto pare.
Ma io vi voglio vedere, vi voglio ritrovare ogni anno e anche se non sono napoletano prego San Gennaro perché sia così e che illumini Maurizio de Giovanni, pure lui presente e invisibile a voi, ma che, a differenza di me, vi suggerisce ogni passo.
Anche a nome vostro chiedo perciò a San Gennaro di farci la grazia che de Giovanni continui a permettere questi nostri indimenticabili incontri.
Quanto a voi, in preda alla commozione, dico arrivederci, cari, grandi, splendidi amici, come splendido è il libro che vi racchiude.

Maurizio de Giovanni è nato nel 1958 a Napoli, dove vive e lavora. Ha pubblicato i primi tre titoli della serie del Commissario Ricciardi Il senso del dolore (2007), La condanna del sangue (2008) e Il posto di ognuno (2009) con Fandango Libri.
Renzo Montagnoli


Come diventare scrittori oggi di Andrea Mucciolo Eremon Edizioni
In libreria da settembre 2009

Come scrivere un romanzo? A quale casa editrice inviare la propria opera? Come inviare un testo e come presentarsi a un editore? Come promuovere voi stessi e il vostro libro? Dove e come trovare l'ispirazione?
In questo libro, ricco di consigli e informazioni utili per tutti gli aspiranti scrittori, l'autore senza faziosità alcuna e con estrema obiettività, darà una risposta a questi interrogativi, comuni a tutti coloro che si apprestano ad inviare la propria opera presso una casa editrice o semplicemente a chi voglia intraprendere la strada della scrittura. Particolare attenzione viene rivolta a tutto ciò che riguarda la promozione del proprio libro e la diffusione della propria immagine di scrittore. Ogni argomento verrà trattato dall'autore da più libere angolazioni affinché l'autore esordiente, che vuol saperne di più sull'ambiente editoriale e letterario, possa sì imparare delle nozioni in più, ma al tempo stesso essere libero di ragionare con la propria testa e di formarsi delle idee autonome, prendendo come spunto il presente saggio.
Il libro è rivolto a tutti coloro che scrivono perché vogliono pubblicare; il testo quindi è principalmente incentrato sulla scrittura vista come un mezzo, non come un fine.
http://www.galassiaarte.it/come_diventare_scrittori_oggi.html

Andrea Mucciolo
Andrea Mucciolo, è uno scrittore e web designer, nato a Roma, l'11 luglio del 1978.
A partire dal 2005, inizia a collaborare con alcune case editrici svolgendo attività di promotore editoriale e in seguito correttore di bozze.
In seguito, comincia a dedicarsi molto alla scrittura di poesie e racconti brevi, alcuni dei quali sono stati pubblicati sulla Rivista Inchiostro:
"Sono io?" "Inchiostro" (nº 55) sezione "racconti bonsai";
"Leti 40234627" racconto di fantascienza, "Inchiostro" (nº 56);
"Non ci sono più le mezze stagioni" "Inchiostro" (nº 58);
"Il lavoratore" racconto bonsai, "Inchiostro" (nº 58);
"Etera" poesia, "Inchiostro" (nº 61).
Nel 2006, pubblica il suo primo romanzo, "Divieto d'uscita" edito dalla Eremon Edizioni.
Nel 2007, oramai nel pieno della sua produzione letteraria, fonda il portale d'arte e letteratura esordiente www.galassiaarte.it nel quale, tra le altre cose, ha dato visibilità a centinaia di scrittori e poeti emergenti, pubblicando gratuitamente on line le loro opere.
Attualmente Andrea vive ad Ardea, in provincia di Roma, svolgendo attività di webmaster e web designer come libero professionista, occupandosi anche di seo e web marketing. Nel tempo libero, scrive racconti e poesie, alcuni dei quali vengono pubblicati su riviste di narrativa.


Un ordinato groviglio di Piera Maria Chessa Edizioni Il Filo www.ilfiloonline.it
Prefazione di Maria Paola Sambusseti
Postfazione di Anna Maria Capraro
Poesia silloge

Il verso poetico può essere un mezzo per rappresentare la visione personale della vita in un approccio di carattere filosofico e allora la lettura, se pur appagante, diviene complessa.
Ma ci sono anche poesie di diversa natura, dove è la parola stessa che è "poesia", che serve a descrivere situazioni all'apparenza di normale quotidianità e che per l'autore rappresentano stati emotivi che danno luogo a riflessioni.
Sono, queste, composizioni più semplici, più accessibili, ma non per questo meno valide e che alla fine consentono una lettura egualmente appagante e coinvolgente.
E' il caso di Un ordinato groviglio, di Piera Maria Chessa, un librettino che procede per temi, ognuno dei quali corrisponde a situazioni ben precise e definite. Si passa così da quell'atmosfera intima, quasi ovattata di Nei silenzi della casa (Abbandonano i rami / le foglie secche del mio giardino. / Cadono leggere scricchiolando / sulla terra bagnata, / coprendo l'erba lucente di rugiada. /…) alle osservazioni attente, memorizzate di Per le strade ( Firenze la ricordo / dall'alto dei colli di Fiesole, / distesa sotto il mio sguardo ammirato. / Sentivo di possederla, / mi sentivo posseduta / in quel groviglio ordinato / di case e viali. /…).
C'è anche spazio per i Ritratti di comuni figure che accompagnano la nostra vita (Ti osservo, bambino, / chino sul foglio nel quale scrivi. / Mi colpisce il tuo incarnato chiaro, / levigato, i lineamenti puri, / la tua riservatezza. / …) e poiché la vita ci racchiude quasi sempre fra pareti invisibili ecco allora Il prigioniero (Il prigioniero cammina lento / nella cella / ascoltando la pioggia che batte / sul vetro opaco del lucernario. /…).
Tutto ciò che è esistenza, un viaggio in corso con le sue tappe, i suoi avvenimenti, i ricordi, le pene rientrano negli svolgimenti della poetessa e fra questi c'è anche La certezza del dolore (L'auto è in sosta, / una donna straniera tende / la sua mano. / Un intreccio di sguardi / e la muta richiesta / di aiuto. /…), né poteva mancare la memoria di chi non c'è più o di fatti irripetibili che ritroviamo ne Il quaderno delle assenze (…/ Non ci sei / ma il tuo ricordo mi accompagna, / anticipa i passi / preparando la via sulla quale cammino.).
La vita è un inevitabile intreccio di eventi, di persone, di sensazioni, di emozioni, un disordinato groviglio della mente che Piera Maria Chessa con questa silloge ha sistemato, mettendo ordine in quel caos che è il nostro passato, un indispensabile riassetto per poter proseguire.
La lettura di questo libro è senz'altro consigliabile.

Piera Maria Chessa è nata a Pattada (SS) il 13 giugno del 1949. Si è laureata in Pedagogia nel 1975 presso la Facoltà di Magistero dell'Università di Sassari. Vive e insegna a Oristano. E' socia dell'Associazione Culturale pARTIcORali della sua città ed è curatrice del blog www.imuliniavento.splinder.com.
Ha partecipato a numerosi concorsi letterari ottenendo premi e segnalazioni di merito, e alcuni suoi componimenti sono ricompresi in antologie.
Renzo Montagnoli


I pugnalatori di Leonardo Sciascia Adelphi Edizioni
Nota finale dell'autore
Collana Piccola Biblioteca Adelphi
Narrativa romanzo storico

Il 1° ottobre 1962 la città di Palermo è funestata da una terribile azione criminale; infatti, alla stessa ora, e in luoghi diversi tredici persone, in nessuna relazione fra loro, vengono pugnalate da sconosciuti. A investigare sul grave fatto di sangue, che appare subito come il frutto di una sordida macchinazione, è il procuratore Guido Giacosa, piemontese e da poco dimorante in Sicilia. Riuscirà, con non poche difficoltà, a scoprire i colpevoli e anche i mandanti, ma questi ultimi sono personaggi di elevato livello e il povero magistrato ne uscirà distrutto.
Da un fatto veramente accaduto, Leonardo Sciascia costruisce qualche cosa di più di un romanzo storico, ma un'indagine nell'indagine, una serrata e logica dissezione del potere che, nelle sue faide, richiama comportamenti che saranno motivo di lutti più di un secolo dopo.
E' veramente rilevante la lucidità con la quale lo scrittore siciliano descrive l'atmosfera dell'epoca, di una Sicilia da poco parte del Regno d'Italia, con i nobili locali che proseguono nel loro assurdo gioco di abbracciare la causa del nuovo governante, per poi immancabilmente chiedere il ritorno del precedente, tutti tesi a speculare vantaggi spesso risibili.
In un complotto di grande portata solo l'opera di Giacosa, onesto e ligio funzionario di giustizia, riesce a impedirne la prosecuzione, volta a creare destabilizzazione, sfiducia, paura nei cittadini per stragi inspiegabili che purtroppo ricorrono nella storia del nostro paese. Gli indizi, le prove sono tali da consentire la condanna degli esecutori e dei mandanti, ma nelle mani del boia finiranno solo quei pugnalatori che per una modesta somma hanno sparso il terrore in città. La testa del serpente, nobili ed ecclesiastici, non viene nemmeno scalfita, nella logica aberrante che i poteri e i contropoteri sono composti da individui della stessa pasta, una specie di confraternita che gioca a una guerra le cui vittime sono solo i cittadini.
I pugnalatori è indubbiamente un'opera minore, ma il pensiero di Sciascia la permea dalla prima all'ultima riga. E infatti il romanzo termina con una frase che abbiamo già sentito troppe volte: Ad un certo punto del suo intervento sull'interpellanza La Porta, Francesco Crispi aveva detto:- Penso che il mistero continuerà e che giammai conosceremo le cose come veramente sono avvenute.
Sciascia laconicamente aggiunge: Si preparava così a governare l'Italia.
La lettura è più che consigliata.

Leonardo Sciascia (Racalmuto, 8 gennaio 1921 - Palermo, 20 novembre 1989). E' stato autore di saggi e romanzi, fra cui: Il giorno della civetta (Einaudi, 1961), A ciascuno il suo (Einaudi, 1966), Todo modo (Einaudi, 1974), La scomparsa di Majorana (Einaudi, 1975), I pugnalatori (Einaudi, 1976), Candido, ovvero un sogno fatto in Sicilia (Einaudi, 1977), Il cavaliere e la morte (Adelphi, 1988), Una storia semplice (Adelphi, 1989).
Renzo Montagnoli


ÉMILE ZOLA
SCRITTORE SPERIMENTALE

Per la ricostruzione di una poetica della modernità
di Giuseppe Panella
Edizioni Solfanelli
www.edizionisolfanelli.it

Saggistica letteraria

Devo ammettere che risulta assai difficile, o addirittura quasi impossibile, scrivere la recensione di un saggio letterario capace di affrontare la figura di uno scrittore come Emile Zola, fondatore del Naturalismo, corrente letteraria che si ispira, come metodologia, a Claude Bernard, grande medico francese, autore dell’Introduzione alla medicina sperimentale.
Precursori di questa concezione, antitetica del romanticismo e che si basa sul fatto che la psicologia dell’uomo debba essere considerata alla stessa stregua di ogni fenomeno naturale e quindi con la stessa evoluzione di causa ed effetto, furono senza dubbio Balzac e Flaubert, ma Zola fu colui che la sviluppò ai massimi livelli.
Del resto nel Saggio su Il romanzo sperimentale che comprende tutti gli scritti teorici pubblicati da Zola nel 1880, lui stesso definisce il romanzo una conseguenza dell’evoluzione scientifica del secolo; esso è, in una parola, la letteratura della nostra età scientifica, come la letteratura classica e romantica corrispondeva a un’età scolastica e di teologia.
Da qui l’osservazione diretta di esseri umani, dei loro comportamenti, delle loro reazioni, dei loro ambienti, indispensabile per scrivere un romanzo.
E infatti le descrizioni sono improntate al più rigoroso realismo, il che se incontrò notevoli favori, però diede luogo anche a reazioni piuttosto accese negli ambienti più conservatori dell’epoca.
Benché da noi più conosciuto per Teresa Raquin, per Nanà, Germinal e La bestia umana, il grosso della sua produzione va ascritto al Ciclo de I Rougon-Macquart, di cui peraltro fanno parte gli ultimi tre dei succitati romanzi.
Si tratta di una serie di opere (una ventina) in cui l’intima connessione tra i protagonisti del gruppo familiare e sociale ivi descritto rende la loro storia esemplare, anzi la vera storia narrata del Secondo Impero Bonapartista.
E qui l’adesione al modello di scienza sperimentale teorizzato da Bernard trova la più completa delle applicazioni nelle azioni, nelle passioni, nei comportamenti dei componenti di questa stirpe, all’origine dei quali vi è un’accertata lesione organica, cioè secondo la moderna terminologia ci sono elementi del codice genetico che finiscono con il condizionare i discendenti, segnandone in pratica l’esistenza.
Con questi presupposti e con lo spietato realismo che induce lo scrittore a osservare con la massima attenzione il comportamento di soggetti reali analoghi ai personaggi della vicenda, è evidente che lo spazio per la creatività si riduce alquanto, finendo con il costituire solo l’ossatura del racconto, il fil rouge intorno al quale gira tutta la storia.
Questo saggio, peraltro facilmente accessibile come esposizione, presenta l’indubbio vantaggio di parlare, in modo coordinato e razionale, di questa continua sperimentazione di Zola, riportando anche brevi brani di alcuni romanzi, giusto per chiarire ulteriormente i concetti.
Quindi sono dell’idea che possa costituire uno strumento indispensabile per lo studioso dell’autore francese e anche una fonte di conoscenza per chi voglia comprendere un periodo storico e una corrente letteraria di rilievo quale fu il Naturalismo.

Giuseppe Panella si è laureato in filosofia presso la Scuola Normale Superiore di Pisa dove attualmente insegna. Si è occupato di storia dell’estetica, ha curato la Lettera sugli spettacoli di Jean Jacques Rousseau per Aesthetica (Edizioni di Palermo) e Il paradosso sull’attore di Denis Diderot (La Vita Felice di Milano) e in particolare del concetto di Sublime, Il Sublime e la prosa. Nove proposte di analisi letteraria (Clinamen, Firenze 2005). Più recentemente è passato ad occuparsi di teoria della letteratura e di filosofia del romanzo moderno, ha curato l’edizione del romanzo Jcosameron di Giacomo Casanova (La Vita Felice, Milano 2002) e i volumi monografici: Alberto Arbasino (Cadmo, Firenze 2004), Lo scrittore nel tempo. Friedrich Dürrenmatt e la poetica della responsabilità umana (Solfanelli, Chieti 2005 e Il lascito Foucault (Clinamen, Firenze 2006) in collaborazione con Giovanni Spena. Come poeta, ha pubblicato otto volumi di poesia, tra i quali Il terzo amante di Lucrezia
 Buti (Polistampa, Firenze 2000) ha vinto il Fiorino d’oro del Premio Firenze dell’anno successivo.

Renzo Montagnoli


Sostiene Pereira di Antonio Tabucchi Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano
Nota dell'autore
Universale Economica Feltrinelli
Narrativa romanzo

Sostiene Pereira di averlo conosciuto in un giorno d'estate.

Inizia così il romanzo di Antonio Tabucchi e quel "sostiene Pereira" viene ripetuto più volte, in modo quasi assillante, e conclude pure l'opera, come se l'autore l'avesse scritta con questo Pereira davanti a lui, tutto preso da una confessione, o meglio ancora da una deposizione.
Da una vicenda di fantasia nasce così una trama che ha tutta la parvenza della realtà e che descrive mirabilmente la dittatura in Portogallo di Salazar, ricreando un'atmosfera sempre più opprimente in un contesto di fatti comuni, di piccole cose che danno esattamente l'idea di quel che è la mancanza di libertà.
A suo modo Sostiene Pereira è un romanzo storico, ambientato nell'estate del 1938 a Lisbona, un periodo in cui è ancora in corso la guerra in Spagna e Italia e Germania volano, ormai senza possibilità di ritorno, verso il grande conflitto mondiale.
Pereira è un giornalista di una certa età, vedovo e solo, che ha abbandonato la cronaca nera di cui si è occupato per tanti anni per curare la pagina letteraria di un quotidiano, il Lisboa.
E' un uomo qualunque, quieto, senza idee politiche, tutto dedito alla sua passione per la letteratura, soprattutto quella francese. Non ignora di vivere in una dittatura, ma non se ne cura, proprio perché è riuscito a creare un mondo alternativo, rifugiandosi nelle lettere.
La sua vita verrà sconvolta da un evento imprevisto, dalla vicenda, triste, di un giovane che non ci sta a vivere sotto un regime.
Piano piano in Pereira avviene una metamorfosi, comincia a porsi delle domande, sorgono dei dubbi, scopre che in lui esiste un'altra personalità, teoria suffragata da un discorso sulla Confederazione delle anime che gli fa un medico di un centro talassoterapico, dove trascorre una settimana per lenire i suoi acciacchi.
E alla fine non resterà più insensibile al tormento della dittatura, con un gesto clamoroso di ribellione che lo costringerà a emigrare.
Sostiene Pereira, però, non è solo un romanzo storico, ma va assai oltre, perché implicitamente pone la domanda se sia giusto che un intellettuale viva in un mondo tutto suo, avulso dalla realtà che lo circonda. No, sembra dirci Tabucchi, un letterato, un uomo di cultura prima di tutto ha l'obbligo di non nascondersi fra i suoi libri, ma di evidenziare i pericoli, la gravità di un sistema che opprime i cittadini, senza che sia necessario avere idee politiche.
La cultura è libertà e quindi non può rendere insensibile chi la segue alla realtà di ogni giorno, non deve costituire un alibi per non vedere, ma è indispensabile che sia la base per denunciare quello di cui altri non si accorgono, o di cui, per timore, non vogliono accorgersi.
Questo è il grande messaggio del libro e in questo valore universale il romanzo va quindi ben oltre il genere storico e ne spiega il clamoroso successo di critica e di pubblico.
Ricordo fra l'altro che ne è stato tratto un bellissimo film interpretato da un Marcello Mastroianni al meglio delle sue notevoli qualità.
Sostiene Pereira è un romanzo senza tempo, di un'attualità e di una universalità assai rara e quindi sono dell'opinione che la sua lettura sia più che raccomandabile.

Antonio Tabucchi è nato a Pisa il 24 settembre 1943. Grande appassionato di letteratura portoghese, oltre che insegnarla all'università, è il maggior conoscitore, critico e traduttore delle opere di Fernando Pessoa.
Ha pubblicato, fra l'altro:
Piazza d'Italia (Bompiani, 1975), Il piccolo naviglio (Mondadori, 1978), Notturno indiano (Sellerio, 1984), Piccoli equivoci senza importanza (Feltrinelli, 1985), Un baule pieno di gente. Scritti su Fernando Pessoa (Feltrinelli, 1990), Sostiene Pereira (Feltrinelli, 1994), La testa perduta di Damasceno Monteiro (Feltrinelli, 1997), Gli Zingari e il Rinascimento (Feltrinelli, 1999), Tristano muore (Feltrinelli, 2004).
Ha ricevuto numerosi premi, fra i quali il Pen Club Italiano, il Campiello, il Viareggio Repaci, il Prix Européen de la Littérature, l'Europaischer Staatspreis.
Renzo Montagnoli


Il barone rampante di Italo Calvino Arnoldo Mondadori Editore
Presentazione dell'autore
Collana Oscar
Narrativa romanzo

Italo Calvino, per completezza Italo Giovanni Calvino Mameli, è stato senza ombra di dubbio un intellettuale di notevole impegno politico, civile e culturale. Autore eclettico, che sapeva spaziare dalla saggistica al racconto e infine al romanzo, è stato ed è ancora un preciso punto di riferimento per la sua attività di sperimentazione letteraria, oltre a essere considerato uno dei più importanti autori del genere fantastico. Lo spirito anarchico, di cui era permeato, si rifletterà anche nelle vicissitudini politiche, ma soprattutto in quell'andare controcorrente nella narrativa, con una sua particolare interpretazione del fantastico, che tende a evidenziare un aspetto onirico, la concretizzazione, sia a pure a livello di scrittura, di un sogno permanente di libertà assoluta e in ciò di ampio anticonformismo.
E' questa una produzione di grande valore che comprende, fra l'altro, Il barone rampante, opera ambientata in un immaginario paese della riviera ligure, Ombrosa e connotata dalla vicenda del primogenito del barone Arminio Piovasco di Rondò, Cosimo, che ancora fanciullo, a seguito di un litigio avvenuto il 15 giugno 1767, decide di punto in bianco di andare a vivere sugli alberi. La storia è narrata dal fratello minore Biagio che invece preferisce restarsene nella casa patrizia, pur invidiando la scelta di campo di Cosimo.
Detta così può sembrare la vicenda dello scemo di paese o di un fenomeno da baraccone, ma la figura di questo arboricolo si staglia netta in una serie di personaggi godibilissimi, vere e proprie caricature, e in un intreccio di fatti che gradualmente finiscono per il coinvolgere il lettore, al punto di desiderare di poter godere della stessa immensa libertà.
Cosimo è per alcuni un originale, per altri un pazzo, ma in effetti rappresenta la massima aspirazione per una vita slegata dalle consuetudini, da qualsiasi cerimoniale e scevra da leggi e laccioli, tranne quelli della natura.
Non è improbabile, anzi penso sia più che possibile che l'arboricolo sia l'alter ego di Calvino stesso. Del resto, il personaggio presenta comuni caratteristiche, quali quelle di essere un intellettuale e di battersi in favore della povera gente, che lo capisce infatti, al punto che, divenuto vecchio e malato, lo assiste amorevolmente, sempre senza che lui, da quando salì sugli alberi quella prima volta, debba mettere i piedi per terra.
Questo desiderio di elevarsi dal mondo, di essere solo e unicamente padrone di se stesso, trova poi una geniale conclusione nella sua dipartita, una toccante ascesa in cielo.
Il barone rampante è sicuramente un romanzo di grande valore e ne consiglio vivamente la lettura.

Italo Calvino (Santiago de Las Vegas, 15 ottobre 1923 - Siena, 19 settembre 1985).
Ha scritto numerosi testi di narrativa, fra i quali:
Il sentiero dei nidi di ragno (1947), Ultimo viene il corvo (1949), Il visconte dimezzato (1952), Fiabe italiane (1956), Il barone rampante (1957), Il cavaliere inesistente (1959), Marcovaldo ovvero Le stagioni in città (1963), La giornata di uno scrutatore (1963), Il castello dei destini incrociati (1969), Le città invisibili (1972).
Renzo Montagnoli


Balla Juary - Sferragliando verso Sud di Fabio Izzo Il Foglio editore

Un viaggio da nord a sud alla scoperta di se stessi. Ecco il perno sul quale ruota il nuovo romanzo di Fabio Izzo, Balla Juary - Sferragliando verso sud, edito da Il Foglio editore. Corredato dalla prefazione di Gianluca Morozzi, il romanzo rientra appieno in uno stile generazionale di alto livello, arrivando a giocare con il concetto di Bildungsroman: un inusuale romanzo di non formazione.
E’ la fotografia del mondo al cosiddetto ‘anno zero’ (per citare lo stesso Morozzi) in cui sembra che tutti i mali del mondo (disoccupazione, immigrazione, gioco d’azzardo e altro ancora) gravitino nella vita vorticosa del protagonista. Tutta colpa di una valigetta dimentica nell’ufficio del colloquio di lavoro, di 20 euro prestati e di un viaggio Milano - Avellino (via Napoli). Un amore, quasi amore, quasi delusione e una vincita, che non arriverà mai al grado assoluto di “rivincita”.
Perché il ballo di Juary? Ogni volta che il protagonista colleziona una piccolissima e inutile vittoria, ecco riecheggiare nella sua mente, l’arcadia felice di un tempo perduto:quegli anni ‘80. Belli i tempi delle imprese in serie A dell’Avellino di Jorge Juary, noto calciatore brasiliano famoso per la sua consueta danza intorno alla bandierina del calcio d’angolo dopo ogni gol. Ed è proprio Juary a chiudere nella postfazione questo romanzo: il calcio collante tra le generazioni, ricco di miti sempreverdi che ricordano e circondano adulti e ragazzi.
In un destino sempre presente e quasi scaramanticamente innominato che imperversa negli occhi dei protagonisti in un gioco delle parti dove tutti si sentono perdenti ma in realtà uno solo risulta vincitore, colui che guarda alla vita come un’opportunità di riscatto. Il tutto in una scrittura impregnata che di sicuro merita la rilettura, soffermandosi sul segmento generazionale e sui piccoli tarli che accomunano il nord e il sud di un’ Italia sempre diversa ma in fondo sempre uguale a se stessa.

L’autore Izzo è anche autore del libro “Eco a perdere” pubblicato con la stessa casa editrice Il Foglio. E’ autore teatrale e poeta. Inoltre è vincitore del Premio Grinzane Cavour nella sezione “Dialoghi con Pavese”.
articolo tratto da:
http://www.facebook.com/l/;http://www.agenziaradicale.com/index.php?option=com_content&task=view&id=8313&Itemid=58
Agenzia radicale


Il cielo rubato di Andrea Camilleri Dossier Renoir Ed. Skira

Le quattro tele di Renoir.
Tre sono addirittura firmate.
Non rappresentano niente.
Solo l’azzurro del cielo girgentano.
Solo quello, ossessivamente.
Variazioni d’azzurro e bianco.
Il colore è di un’intensità che fa mancare il fiato.
E’ come un tuffo nell’infinito.
Dopo Caravaggio, un altro grande pittore “viene preso di mira” dalla penna inesauribile di Camilleri, Pierre-Auguste Renoir.
Può il cielo, essere rubato? Sì (anche se solo un frammento rimasto)! Se il pennello d’artista è di un sublime impressionista e se la fantasia è del nostro esimio scrittore siciliano; laddove finisce la realtà e inizia, sconfinando, l’immaginazione, allora tutto è possibile. Definire un noir questo scritto non solo è riduttivo, ma anche incompleto. La struttura è quella di un romanzo in forma epistolare ( ricorda I dolori del giovane Werther): amore e arte s’intrecciano e poi il giallo, o il colore che si vuole attribuire, viene da sé. Lo scrivente, un notaio di Agrigento in preda all’amore, all’eros,  in senso socratico, si abbandona con eccessivo ardore al piacere promesso dalla bellezza di una misteriosa quanto conturbante donna e poi diventa passione e follia; perdizione del ben dell’intelletto. L’amore come la maggiore delle felicità si nutre nel notaio, che redige le  missive alla bella sconosciuta, della vista prima (la foto di un ritratto fattole da Guttuso, che ha magistralmente colto e restituito sulla tela la violenta, solare sensualità della sua carne giovane), s’infiamma poi del  desiderio di coglierne la voluttà fisica. La voce dell’arte e la voce dell’amore confluiscono attorno alla figura di Renoir e di un  viaggio a Girgenti di cui non c’è traccia temporale in nessuna opera d’arte sul maestro impressionista. Nella nota a piè del libro l’autore dichiara come l’idea dello scritto sia stata suggerita da Eileen Romano che gli ha raccontato un piccolo mistero riguardante appunto Renoir; dalla biografia del pittore, scritta dal figlio Jean ( il regista di La Grande illusione e di altri capolavori cinematografici), risulta che il padre compì un viaggio a Girgenti, oggi Agrigento, in data imprecisata, assieme alla moglie Aline. I biografi del pittore non registrano il viaggio. La vita di Renoir è stata ricostruita giorno dopo giorno, non esisterebbe un periodo di tempo in cui collocarlo. Allora, si chiede Camilleri, un’invenzione? Uno sfaglio della memoria di Jean? Questo ha spinto lo scrittore ad un’attenta indagine sui materiali scritti sul pittore e scoprire una maglia larga nella rete e fare delle supposizioni e darsi delle risposte, meno una: perché non è rimasta alcuna testimonianza pittorica del soggiorno girgentano di Renoir? Questo è diventato il tema conduttore del romanzo: come e perché le tele girgentane di Renoir fossero andate perdute. Ecco il lavoro di fantasia. Il testo è arricchito dalla riproduzione di alcuni quadri dell’artista, un vero e proprio inserto, su pagine plastificate, un piccolo e prezioso omaggio al lettore. A mio parere, un piccolo dipinto quest’opera camilleriana, con i colori intensi e dominanti della passione artistica, della passione erotica; l’amore senile è fiamma bruciante, stordimento, ferita dolorosa, disperazione, senza la presenza dell’amata, le giornate dell’amante sono incolori, i giorni trascorsi insieme un breve soggiorno nel giardino dell’Eden. Camilleri si lascia trascinare dalla corrente travolgente della passione amorosa come un adolescente ai primi sussulti del cuore, senza freni si sdilinquisce e palpita! Reminiscenze, ardori tardivi? Lo stile delle lettere è quello suadente, quasi, tardo – romantico…enfatico e, a tratti, eccessivo (se si eccettuano quelle burocratiche – tecniche intestate dalla Procura della Repubblica di Agrigento); la scrittura per Camilleri è, proprio, un puro divertimento, fortuna per lui, che lo è, anche, per i suoi innumerevoli lettori.  

L’autore. Andrea Camilleri è nato a Porto Empedocle nel 1925. Ha esordito come romanziere nel 1978 con “Il corso delle cose”. Della sua ricchissima produzione letteraria tutti i romanzi con protagonista il commissario Montalbano sono pubblicati dalla casa editrice Sellerio e altri, tra questi ricordiamo: “La forma dell’acqua”, “Il cane di terracotta”, “Il ladro di merendine”, “La voce del violino”, “La stagione della caccia”, “Il birraio di Preston”, “La concessione del telefono”, “La gita a Tindari”, “Maruzza Musumeci”, “Il casellante”, “Il campo del vasaio”, “L’età del dubbio”, “Un sabato, con gli amici” “Il sonaglio”.
Arcangela Cammalleri


Un altare per la madre di Ferdinando Camon Edizioni Garzanti
Collana gli elefanti
Narrativa romanzo

La parola che si fa immagine è il primo elemento di rilievo di questo romanzo. Già all'inizio prende corpo la visione dell'umile funerale contadino, con quella bara ondeggiante, portata a spalle, lungo una stradina fra i campi, dalla chiesa al cimitero, con le mani dei figli, del marito che toccano quel legno come a voler provare l'illusione di avere un ultimo contatto con la persona defunta. Non c'è nessuna retorica, non ci sono frasi fatte, ma poche misurate parole che hanno il potere di tradurre la lettura in una sequenza di rara efficacia, una scena che potrebbe benissimo comparire in uno dei tanti film del neorealismo italiano del dopoguerra. Ovviamente, c'è molto di più, c'è quel distacco che si cerca di colmare con il ricordo della persona amata, una donna silenziosa, un'ombra nella casa di cui ora si riscoprono le qualità proprie dell'umile. E c'è anche il tentativo di andare oltre la morte, di farla diventare un episodio della vita così come la nascita, in una continuità che non viene meno neppure nel "dopo".
E' il romanzo di un figlio che nella figura materna compendia, in un abbraccio ideale, quel mondo contadino da tempo scomparso, in un'atmosfera mistica che riscatta la polvere delle strade, la miseria di ogni giorno, la fatica di andare avanti per vivere.
Toccanti, poi, sono le pagine del ricordo della scomparsa, con quell'incapacità del tutto naturale che si ha di avere ben presente il viso in tutti i suoi dettagli. La memoria è nei gesti, nel portamento, nell'atteggiamento quotidiano, ma il volto tende a sfumare e solo le fotografie ce lo possono restituire, anche se, ingrandendole, finiscono con il mostrarci un viso che quasi non riconosciamo .
L'altare in rame che il padre e marito costruirà fra mille difficoltà, in preda alla febbre, senza nemmeno consumare i pasti diventa così l'emblema del romanzo, un riscatto di una condizione con il contributo del figlio che, raccontandoci quest'opera quasi titanica, realizza a suo modo un altro altare, fatto di parole.
C'è tutta l'asprezza di un mondo di stenti, in cui religione e superstizione si accavallano, ma in cui anche sentimenti quali la solidarietà sono ai massimi livelli. Al riguardo, toccante è la raccolta del rame necessario, con quelli che portano i loro paioli per la polenta; c'è chi ne ha due e ne ha ceduto uno, ma c'è anche una famiglia, più povera, che aveva solo quello; il padre non può rifiutare questo estremo atto d'amore e allora ne ritaglia un pezzo da mettere nell'altare, poi utilizza parte di un altro paiolo per aggiustare la striscia che ha tolto, onde restituire, utilizzato per lo scopo, ma rabberciato, l'indispensabile strumento per la cottura del cibo.
Camon è capace di commuovere senza invitare alle lacrime, riuscendo a fare di una vicenda familiare un'opera corale, così che un altare per la madre finisce con il diventare l'ara in onore e in memoria di una civiltà scomparsa.
Dopo la Vita eterna Camon ha scritto quindi un altro grande romanzo, per certi aspetti ancor più bello, perché è presente un ritmo, quasi un lungo adagio, di natura poetica, un'armonia che non viene mai meno, in una continuità invidiabile che coinvolge, rendendo i lettori partecipi, spettatori ignoti di fronte alle scene create dalle parole che si fanno immagini.

Ferdinando Camon (Montagnana, 1935) è romanziere, poeta e saggista.
Ha pubblicato:
Il mestiere di poeta (Garzanti, 1982), Il mestiere di scrittore (Garzanti, 1973), Letteratura e classi subalterne (Marsilio, 1974), I miei lettori mi scrivono (Garzanti, 1987), Il Quinto Stato (Garzanti, 1970), La vita eterna (Garzanti, 1972), Liberare l'animale (Garzanti, 1973), Occidente (Garzanti, 1975), Storia di Sirio (Garzanti, 1984), Un altare per la madre (Garzanti, 1978), La malattia chiamata uomo (Garzanti, 1981), La donna dei fili (Garzanti, 1986), Il canto delle balene (Garzanti, 1989), Il Super-Baby (Rizzoli, 1991), Mai visti sole e luna (Garzanti, 1994), La terra è di tutti (Garzanti, 1996), Dal silenzio delle campagne (Garzanti, 1998), Conversazione con Primo Levi (Garzanti, 1991), La cavallina, la ragazza e il diavolo (Garzanti, 2004), Tenebre su tenebre (Garzanti, 2006).
Le sue opere hanno ricevuto numerosi premi, fra i quali uno Strega (Un altare per la madre), due Selezione Campiello (La donna dei fili e Il canto delle balene) e un Viareggio per la poesia (Liberare l'animale).
Sito internet: www.ferdinandocamon.it
Renzo Montagnoli


Cento per cento di Sacha Napini Edizioni Historica www.historicaweb.com  info@historicaweb.com

Collana Short Cuts
Narrativa racconto lungo

Dino Carrisi, un immigrato italiano, è stato in passato uno dei più grandi pugili americani, arrivando per ben due volte a conquistare il titolo mondiale, ma, soprattutto, è stato un cento per cento, cioè uno nato esclusivamente per combattere sul ring, una specie di genio della "nobile arte".
Ora, vecchio, quasi in povertà e ubriacone, coglie l'opportunità di un'intervista televisiva della rete Canale 2 per raggranellare un po' di soldi, ma prevalentemente per realizzare un disegno che ha costruito giorno per giorno.
Lo spettacolo così diventa il riassunto della sua vita, dai primi pugni negli incontri sotterranei fino alla gloria, e poi a venti anni di carcere scontati per il presunto omicidio della moglie.
Raccontato in presa diretta, come solo può esserla un'intervista televisiva, Cento per cento è un'opera di grande bellezza, originale quel che basta, senza cioè diventare alla lunga fine a se stessa, scritta con quella capacità che ho sempre riconosciuto a Naspini di delineare fatti, ambienti e personaggi con immediatezza, senza banalità o superficialità, con quell'attitudine naturale che ha l'autore di scavare dentro, di incidere, mettendo a nudo l'anima del protagonista in cui il lettore finirà prima o poi per trovare qualche tratto che lo accomuna.
Non è il solito ritratto del pugile suonato e piagnone, è uno scorcio di vita che riemerge dalla memoria, come se uno fosse lì, davanti a te, per parlarti di sé, di ciò che è stato, di ciò che avrebbe voluto fare e non ha fatto. Non c'è una riga di monotonia, non c'è nulla di già letto, c'è una vicenda umana che lentamente porta a uno stato emotivo che esplode nel sorprendente finale.
La vita come spettacolo, propria dei media, viene ribaltata, e così anche l'intervistatore entra nella vita vera, come protagonista, così che al termine emergerà solo la realtà, nuda, anche crudele, l'ultimo KO costruito da un pugile cento per cento.
Posso solo dire, da ultimo, che questo racconto lungo mi ha entusiasmato, dopo una lettura coinvolgente come poche.

Sacha Naspini è nato a Grosseto nel 1976.
Pubblicazioni (a solo):
L'ingrato (Effequ, 2006), I sassi (Il Foglio Letterario, 2007), Diario di un serial killer (Sered, 2008), Never alone (Voras, 2009), Cento per cento (Historica, 2009).
Pubblicazioni di racconti in antologie:
Serenity Garden e des Visage del Figues in Le sette vite di Dalila e Achille (Edizioni Il Foglio Letterario), La vita comincia a quarant'anni (Rivista Historica), I ragni in Corpi d'acqua (Voras).
E' rintracciabile ai seguenti contatti:
shangrya@libero.it
www.sachanaspini.eu
www.vaderrando.it
www.myspace.com/vaderrando
Renzo Montagnoli


La danza del gabbiano  di Andrea Camilleri Ed. Sellerio 

Narrativa

Siamo al 15°capitolo delle storie del commissario Salvo Montalbano! Il mese di maggio ha visto fiorire ben due scritti di Camilleri,  non c’è stato nemmeno il tempo di depositare la memoria del suo Renoir, per raccogliere il frutto maturo, ma sempre di stagione del nostro Commissario per antonomasia. Un ennesimo noir che  si tinge di sfumature sempre più sottese, baudelairiane, lo  spleen di Montalbano si carica, a 57 anni, di note dolenti come se il suo animo non potesse più sopportare i contraccolpi della vita. Camilleri in un pirandelliano gioco delle parti confonde noi lettori mettendo a colloquiare idealmente il Montalbano di carta con quello televisivo e l’autore. In questo  contraltare tra i due alter ego, l’autore gioca la sua finzione letteraria e spariglia le carte e ci meraviglia. L’apertura del romanzo ricalca l’incipit degli altri, le nottate sempre più spesso  agitate: “Con le vicchiaglie dormiri diventa faticoso e una volta arrisbigliatisi non c’era più verso d’arrinesciri a ripigliari sonno”. L’immagine del gabbiano morente precorre fatti connessi sì all’indagine in corso, ma diventa  metafora della morte che si diverte a inscenare una danza scenografica negli ultimi spasmi di vita. I personaggi, gli ambienti naturali e i fatti criminosi hanno le stesse connotazioni e anche certi riferimenti all’attualità, quello che è diverso è la predisposizione d’animo del commissario, da una parte più “cauteloso” quasi trattenuto a freno da una sensazione di assuefazione, di dejà vu, dall’altra non può sottrarsi a una sorta di meraviglia dinnanzi alla natura e annichilimento dinnanzi alle perdizioni umane. La miscellanea linguistica che contraddistingue Camilleri si alterna per diventare ora lingua italiana burocratica e tecnica ora dialetto stretto; segue percorsi sinuosi e trabocchetti vari, democratica quando è necessaria, abbassandosi a livello dell’eterogeneità degli interlocutori, umorale quando il “nirbuso” non la regola più e la stravolge   Questo romanzo è senz’altro uno dei più belli non tanto per l’originalità della storia, anzi sono presenti tutti gli ingredienti tipici del noir alla Camilleri,  ma è diverso lo spirito che anima la materia narrativa e che ci rende così vicini a Montalbano e al suo artefice. Il segno inequivocabile dello scrittore ha ancora una volta inciso la nostra anima di lettori e la godibilità della lettura raggiunge  vertici sempre alti.

L’autore. Andrea Camilleri è nato a Porto Empedocle nel 1925. Ha esordito come romanziere nel 1978 con “Il corso delle cose”. Della sua ricchissima produzione letteraria tutti i romanzi con protagonista il commissario Montalbano sono pubblicati dalla casa editrice Sellerio e altri, tra questi ricordiamo: “La forma dell’acqua”, “Il cane di terracotta”, “Il ladro di merendine”, “La voce del violino”, “La stagione della caccia”, “Il birraio di Preston”, “La concessione del telefono”, “La gita a Tindari”, “Maruzza Musumeci”, “Il casellante”, “Il campo del vasaio”, “L’età del dubbio”, “Un sabato, con gli amici” “Il sonaglio” “Il cielo rubato”.
Arcangela Cammalleri


La padrona di Santa Maria di Valentino Rocchi Giraldi Editore www.giraldieditore.it
In copertina La zingara bella
di Giuseppe Ballarini
Narrativa romanzo

E' indubbio che tematiche e ambienti legati alla vita contadina siano uno stimolo per Valentino Rocchi, poiché non pochi suoi romanzi parlano di questo mondo agreste, fatto di fatiche e di poche gratificazioni. Anche La padrona di Santa Maria è un'opera dove la terra è sempre presente, dove la realtà di gente che sgobba dalla mattina alla sera in cambio del minimo per sopravvivere è il canovaccio sul quale l'autore dipinge una vicenda di emancipazione, non solo dalla miseria, ma dalla condizione femminile del tutto subalterna come accadeva appunto nel XIX secolo, nel caso specifico con maggior valenza in quanto tutto accade sotto lo stato pontificio, notoriamente immobile e strenuamente conservatore di privilegi e di preconcetti, soprattutto nei confronti dell'altro sesso.
In questo contesto la figura di Maria Domenica, fanciulla data in sposa a un ricco agricoltore, assai avanti con gli anni, unicamente per farla uscire da una condizione di indigenza senza speranza e per non inimicarsi il parroco, di fatto la massima autorità nel paese, assume l'emblema della disperazione femminile, di donne relegate al semplice ruolo di fattrici di figli e di aiutanti dei mariti nel duro lavoro dei campi, oggetto di attenzioni solo per questi scopi.
Lei cercherà, nonostante il divario di età, di amare quel marito, ma dovrà rassegnarsi a essere divisa con un'altra, in un crescendo di progressiva e amara disaffezione che finirà con l'imporla come la padrona di Santa Maria, senza in effetti essere padrona di nulla, nemmeno di se stessa.
Eppure Maria Domenica è un personaggio importante, quasi il profeta di un mondo futuro in cui alla donna venga riconosciuta la dignità dell'uomo. Lei reagisce come può, cerca subdolamente di far pesare al marito la sua assenza, ma finisce, vista l'inutilità dei tentativi, per concedersi ad altri, e non solo per provare quel piacere sessuale che il consorte le nega, ma anche per ribadire almeno la libertà di scelta di un essere umano di andare con altri suoi simili.
Come al solito la scrittura di Valentino Rocchi è costellata di verismo, non di rado pietoso, senza tuttavia tralasciare la possibilità, quando se ne presenta l'occasione, per riversare nella protagonista il suo incondizionato favore.
Nella condizione disumana di Maria Domenica si avverte l'anelito dell'autore per un mondo di eguali e la malinconica certezza che ciò non avverrà mai.
La padrona di Santa Maria è un romanzo di forte impegno sociale, ma, soprattutto, è un'opera che avvince e resta dentro al cuore.

VALENTINO ROCCHI, nato a Savignano sul Rubicone, risiede sin dall'infanzia a Pesaro. È socio corrispondente della Rubiconia Accademia dei Filopatridi di Savignano sul Rubicone.Si è avvicinato alla narrativa, con libri di ampio respiro e di trame avvincenti, dopo una vita di intenso lavoro. Ha pubblicato: "Una Storia a Castelvecchio" (Società editrice Il Ponte Vecchio - Cesena); "L'Eredità di Venanzio" (Guaraldi - Rimini) Vincitore del Premio letterario "Il Pungitopo" 2001."Notte all'Hotel La Guercia" (Argalìa Editore);"Gli uomini di Bluma" (Giraldi Editore) II Classificato al Premio "Palazzo al Bosco", 2002;"La saggezza di Toni" (Giraldi Editore);Esce nell'anno del V centenario della morte di Pandolfo Collenuccio, uomo di corte e di legge, dalla vita straordinariamente avventurosa: "Notte all'Hostaria La Guercia", Pandolfo Collenuccio, uomo di corte del XV secolo, (Giraldi Editore) ambientato nel XV secolo, di cui è l'autore è profondo studioso e conoscitore; nel 2008 "La Magia del fuoco" (Agemina) e "1504 - Notte all'Hostaria La Guercia" (Agemina); nel 2009 "Il pianoforte a coda" (Giraldi Editore) e "La padrona di Santa Maria" (Giraldi Editore).
Renzo Montagnoli


La Signora dalla Maschera d'Oro di Giovanni Buzi Edizioni Il Foglio Letterario www.ilfoglioletterario.it  ilfoglio@infol.it
Introduzione di Vincenzo Spasaro
Collana Fantastico e Altri Orrori
Narrativa romanzo horror

La vicenda inizia con un mezzo di comunicazione modernissimo, quale Internet, e con una conversazione erotica in chat. Siamo nel XXI Secolo, epoca in cui l'acquisizione delle tecnologie è talmente rapida da non permettere di metabolizzarle e in cui si è sempre protesi al futuro, dimenticando rapidamente il passato.
In un periodo storico così tecnologico e avveniristico si perpetuano i riti della setta del Dio-toro dalle lontane origini etrusche, con cerimonie magiche, accoppiamenti fra gli adepti, omicidi rituali e perfino forme di cannibalismo.
E' evidente il contrasto quindi fra un trascorso bestiale e un presente che a ogni istante che passa diventa futuro.
Con una trama del genere Giovanni Buzi va in carrozza, dando libero spazio alla sua fantasia, fatta di policromie, di un mix di sadismo e masochismo e di scene truculente, insomma un vero e proprio horror, ma…
Ma c'è una novità, perché l'autore innesta anche alcuni elementi propri del giallo con un'ispettrice di polizia che indaga sulla misteriosa morte di un giovane, la cui testa mozzata viene fatta trovare appunto davanti al commissariato.
Se i personaggi di contorno sono resi in modo autentico, così come è anche per la protagonista principale, un'affascinante signora con il volto coperto da una maschera d'oro, la figura della poliziotta è invece un po' sotto tono, anche se occorre dire che Buzi ha tentato di creare qualche cosa di nuovo nella miriade di investigatori a cui la letteratura gialla ci ha abituato. Non è bella, è un po' mascolina, fredda, non riesce a destare simpatia, ma, soprattutto, non sembra una detective, anche se poi dimostra il suo talento.
Il romanzo è ben costruito e riesce ad avvincere, anche angosciando, fino a quando si resta nel campo esclusivo dell'horror, ma allorché si vuole investigando scoprire il velo e risolvere il mistero zoppica un po', tanto che il finale mi ha lasciato piuttosto perplesso, in quanto scontato.
Ed è un peccato, perché come trama horror è originale e coinvolgente, ma l'innesto del giallo non è perfettamente riuscito, tanto da far sembrare che nello stesso libro i romanzi siano due: uno, molto piacevole e tipicamente fantastico, e un altro, quasi banale, poliziesco.
Comunque, considerato lo stile dell'autore, la sua capacità di trascendere, di andar oltre nel campo dell'immaginario, la lettura resta senz'altro consigliabile.

Giovanni Buzi, nato a Vignanello (VT) nel 1961, insegna lingua e cultura italiana al Parlamento Europeo di Bruxelles e storia dell'arte contemporanea all'Accademia di Belle Arti di Bruxelles.
Amante della pittura espone suoi quadri in Italia e all'estero fin dal 1985. Ha al suo attivo diverse pubblicazioni di romanzi, racconti, poesie e saggi. Ha ottenuto significativi riconoscimenti in molti premi letterari, tra cui Lovecraft, Rill, Yorik, Profondo Giallo.
Oltre a partecipare a numerose antologie, ha pubblicato a solo:
Romanzi
Faemines (Libreria Croce, 1999), Il Giardino dei Principi (Massari, 2000), Agnese (Tabula Fati, 2005), Uragano (Delos Book, 2008), Agnese, ancora (Akkuaria, 2008), La Signora dalla Maschera d'Oro (Il Foglio Letterario, 2009).
Raccolta di novelle
Fluorescenze (Il Filo, 2004), Sesso, orrore e fantasia (Massari, 2005), Alchimie d'amore e di morte (Tabula Fati, 2006).
Saggistica di storia dell'arte
William Turner in Etruria (Massari, 2004) e un manuale di storia dell'arte per i licei (Multimedia, 1993).
Renzo Montagnoli


La dismisura immaginata di Carlo Bordoni Edizioni Solfanelli www.edizionisolfanelli.it
Presentazione di Romolo Runcini
Saggistica letteraria

Per molti è uno sconosciuto, ma è il destino di quasi tutti i precursori e a buon diritto Ernst Theodor Amadeus Hoffmann lo è stato.
Questo geniale ed eclettico tedesco (Konigsberg, 24 gennaio 1776 - Berlino, 25 giugno 1822), oltre a essere stato pittore, compositore, giurista, fu anche uno scrittore, anzi uno dei massimi esponenti di quel movimento artistico, culturale e letterario conosciuto come Sturm und Drang e più universalmente noto, dopo la sua diffusione in tutta l'Europa, come Romanticismo.
La sua visione della realtà finiva letterariamente per essere trasfigurata, in una sorta di esperienza onirica, che finiva con il dar vita, di volta, a prose surreali, fantastiche o grottesche, non di rado in una sovrapposizione di grande effetto.
Vissuto a cavallo di due secoli, in cui storicamente prima avveniva il grande evento della rivoluzione francese e poi la fase grottesca della restaurazione, un'epoca in cui i fondamenti dell'illuminismo finivano con lo sgretolarsi di fronte all'avanzata dell'industrialismo, in questi passaggi Hoffmann riuscì meglio a interpretare l'angoscia, i timori, le speranze di un uomo del suo tempo.
Specchio di se stesso, le sue opere, avveniristiche per l'epoca, finiscono con il tratteggiare una condizione umana dove mistero, realtà e irrealtà, timori latenti e fughe del pensiero si intrecciano, dando vita a spunti che poi saranno ripresi da autori successivi.
Carlo Bordoni, lui stesso autore di narrativa fantastica (il recente Il cuoco di Mussolini, una raffinata e verosimile ucronia), nonché studioso del genere, ha voluto rendere omaggio all'illustre progenitore tedesco con un saggio intitolato La dismisura immaginata - Hoffmann e la letteratura fantastica, un'attenta analisi storico-letteraria della produzione di Hoffmann, con un'interpretazione, condivisibile, di motivazioni, di cause, di effetti e di connessioni del pensiero e dello spirito creativo che giustamente fanno di questo scrittore, vissuto peraltro brevemente, un capostipite di quel genere, da cui poi tanti hanno attinto con risultati forse anche più esaltanti, un genere che ancor oggi sembra essere fra i preferiti e che in una fase di recessione economica ed etica finisce con l'assumere una rilevanza tutta particolare, raccogliendo pulsioni e timori di un presente nell'ottica del futuro.
Preceduto da un'esauriente presentazione di Romolo Runcini il saggio di Bordoni ha il pregio, per niente trascurabile, di offrire una visione completa, perfino sotto il punto di vista psicologico, in poche pagine e, quel che più conta, in modo accessibile anche a chi per la prima volta si accosta alle origini del fantastico.

Carlo Bordoni (Carrara, 1946) è docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi all'Università di Firenze.
Ha insegnato all'Istituto Universitario Orientale di Napoli e allo IULM di Milano. È stato direttore dell'Accademia di Belle Arti di Carrara dal 1990 al 2003.
Tra le sue pubblicazioni:
La paura il mistero l'orrore dal romanzo gotico a Stephen King (Solfanelli, 1989), Il romanzo di consumo (Liguori, 1993), Conversazioni sul vampiro (Neopoiesis, 1995), Stephen King (Liguori, 2002), Linee d'ombra (Pellegrini, 2004), Introduzione alla sociologia dell'arte (Liguori, 2005), Le scarpe di Heidegger (Solfanelli, 2005), Il testo complesso (Clueb, 2005), Società digitali (Liguori, 2007), Libera multitudo. La de massificazione in una società senza classi (Franco Angeli, 2008), La dismisura immaginata. Hoffmann e la letteratura fantastica (Solfanelli, 2009).

Dirige la collana di saggistica Micromegas per le Edizioni Solfanelli. Collabora alle riviste "Il Ponte, "L'Indice dei Libri", "Labirinti del Fantastico".
Ha scritto i romanzi In nome del padre (Baroni, 2001), Istanbul Bound (Tabula Fati, 2007), Il cuoco di Mussolini (Bietti, 2008).
Renzo Montagnoli


Versi e rime sulle cime di Gaetano Gulisano Edizioni Il Foglio Letterario www.ilfoglioletterario.it  ilfoglio@infol.it

Introduzione di Renzo Montagnoli
Poesia e narrativa

Sembra una favola, una di quelle storie in cui il caso ha un'importanza preponderante, ma invece è realtà, cioè non è un parto di fantasia.
Pensate, un ragazzo siciliano che si arruola nell'Arma dei Carabinieri e che in uno dei trasferimenti approda a Venezia. Lì, casualmente conosce una ragazza veneta, si innamorano e si sposano. Tutto qui? No, perché è evidente che sarebbe troppo poco. Infatti, la moglie gli fa conoscere le montagne dell'Agordino, Dolomiti tanto per intenderci, e lui si innamora un'altra volta, rimane folgorato dalla bellezza e dalla serenità dei luoghi, in poche parole scopre un mondo tutto nuovo che gli era sconosciuto.
Alla montagna, alle cime svettanti nel cielo, ai boschi ombrosi di larici, ai torrenti che scendono impetuosi e ai quieti prati alpestri Gaetano Gulisano dedica questo libro, Versi e rime sulle cime, in cui sono presenti racconti, nella prima parte propedeutica della seconda, e poesie, scritti tutti in una sorta di aria entusiasticamente trasognata e in cui si avvertono chiare le sensazioni e le emozioni provate di fronte alla straordinaria bellezza di questa natura.
E' tanto l'amore per questi paesaggi che Gaetano non si accontenta delle parole, ma vuole immortalarli, per sé e per gli altri, in splendide fotografie, che si alternano nelle pagine, fra un racconto e una poesia.
Non c'è nulla di questa natura che sfugga all'occhio attento dell'autore, che ne coglie l'essenza emotiva, trasferendola in righi che non perdono nulla dell'originaria scintilla che ha pervaso il suo animo, anzi spesso si ha l'impressione che il ripensare a visioni, a incanti, magari improvvisi dopo una curva del sentiero, finisca per fargli riavvertire quell'emozione, rendendolo consapevole di aver tesaurizzato la magia delle montagne.


L'odore acre delle
feconde vacche,
colme del bianco
e vitale nettare.


E' un mondo visto con occhi nuovi, dove prevale il positivo e in cui immergere cuore e anima è motivo di gioia senza limiti, così che anche nelle piccole cose, purché inserite in quel contesto, si provi il piacere immenso di essere lì.


Stanchi i pastori alle casere stanno,
mungendo dai loro greggi il bianco latte
fieri di aver l'essenza reso al monte.


Non solo natura, ma anche l'uomo con i suoi lavori dei campi, con la mungitura e con la fabbricazione dei formaggi rientrano in queste pagine di spontaneo lirismo, dove tutto sembra, e probabilmente è, in un ordine armonioso, con l'uomo parte integrante e rispettosa del creato.
Nulla è tralasciato, e così fra alpeggi, cascate, ghiacciai, boschi, mucche al pascolo Gaetano si racconta e ci racconta la "sua" montagna, che così diventa anche nostra, un motivo in più per leggere questo libro.

Gaetano Gulisano nasce a Catania il 21 aprile del 1964. Versi e rime sulle cime è la sua prima pubblicazione.
Blog: http://gae-cavallopazzo.blogspot.com
Renzo Montagnoli


Gli effetti secondari dei sogni  di   Delphine De Vigan Ed. Arnaldo Mondadori
Titolo originale No et moi
Romanzo

Singolare la figura della protagonista della storia, Lou Bertignac, studentessa liceale parigina, dall’intelligenza precoce e di No, ragazza senza fissa dimora e senza nessuno, l’una lo specchio rovesciato dell’altra, eppure simili nella loro intima sofferenza. L’altro siamo noi. L’autrice utilizza una  tecnica narrativa originale e tutta personale, in Lou, introietta tutto quello che vede e sente, il  dramma famigliare di Lou si congiunge con quello di Nolwenn, anima persa e sola. Un intreccio profondo lega le due protagoniste, Lou e No, l’esistenza spenta dell’una si relaziona con quella invisibile dell’altra, Lou dà riconoscimento alla vita di No e No ridesta l’alterità di Lou, chiusa nella sua autistica solitudine. Comunichiamo a distanza, interagiamo in tempo reale, connessi in una rete globale, ma non vediamo chi è vicino a noi, perché inquieta la nostra fragile sicurezza di persone normali. Siamo capaci di spedire aerei supersonici e missili nello spazio, identificare un criminale grazie a un capello o un minuscolo lembo di stoffa, creare un pomodoro che resti tre settimane in frigorifero senza raggrinzirsi, contenere miliardi d’informazioni in un microcip. Siamo capaci di lasciar morire la gente per strada”. Gli emarginati, i senza tetto, quelli che dormono sui marciapiedi, sotto i ponti, nelle stazioni, sui cartoni o sulle panchine che ricevono solo sguardi indifferenti dagli altri, un giorno forse qualcuno li nota e si fa delle domande, cerca di trovare delle risposte, delle spiegazioni. Come scrive l’autrice, s’inizia a contarli, sono migliaia, il sintomo del nostro mondo malato. Le cose sono come sono. Il libro senza essere un saggio di sociologia o una riflessione intorno a…attraverso il personaggio letterario ci accosta verso un territorio umano che sconosciamo, di come sia compromettente accostarsi a questi altri che vivono una loro vita diversa dalla nostra, per evitare contaminazioni e la paura di perdere la propria identità. In uno stile essenziale, efficace e preciso come le catalogazioni ossessive di Lou, l’autrice riesce ad interessare e coinvolgere il lettore.  

L’autrice Delphine De Vigan, parigina nata a Boulogne-Billancourt, ha lavorato come dimostratrice nei supermercati per diverse marche di formaggi e hamburger, segretaria in sedute di gruppo, stiratrice non professionale e hostess. Gli effetti secondari dei sogni è la sua prima opera pubblicata in Italia.
Arcangela Cammalleri


Il sarto della stradalunga di Giuseppe Bonaviri Sellerio Editore Palermo www.sellerio.it
In copertina La primavera
di Kuzma Petrov-Vodkin
Nota di Salvatore Silvano Nigro
Narrativa romanzo

Potrebbe sembrare a primo colpo solo una storia di famiglia, quella di Bonaviri, ambientata in una Sicilia feudale, dove il confine fra la miseria e la ricchezza dei nobili e dei notabili è netto e invalicabile. L'infanzia di Peppi (Giuseppe, lo scrittore) è certamente descritta anche per fissare i ricordi, per mantenere quel legame alla natia Mineo da cui da grande se ne andò. Però è, soprattutto, il ritratto di una civiltà, quella contadina, oggi ormai scomparsa, un quadro illuminato dal sole cocente delle estati e dal gelo dell'inverno, popolato da povera gente che lavora dalla mattina alla sera per ricavare quel poco che le consenta di non morire di fame, seguendo un percorso immutabile che sembra relegarla alla dannazione terrena, con l'unica prospettiva della morte come fine di ogni sofferenza.
In questo senso si potrebbe ravvisare una somiglianza con le opere di Giovanni Verga, che quasi un secolo prima descrisse così bene la situazione di estrema indigenza delle popolazioni della Sicilia. C'è però, secondo me, una differenza sostanziale, perché nel verismo che connota le novelle o i Malavoglia figura preponderante la convinzione nell'autore che il dolore della povera gente sia un qualche cosa di naturalmente immutabile, così che i personaggi diventano comparse di una rappresentazione ripetitiva, senza atteggiamenti di pietà.
In Bonaviri, invece, c'è un forte affetto per questa sua gente sfortunata, è presente nel giovane Peppi l'anelito per il riscatto, con la sublimazione dei sentimenti, dell'amicizia e così il suo romanzo tende a essere inquadrato, più che nel verismo, nella corrente italiana del dopoguerra, il neorealismo, che tanti successi tributò alla cinematografia italiana.
Nella narrazione c'è quella partecipazione derivante dal fatto di essere membro di questa comunità di diseredati che è invece assente in Verga, di un'altra classe sociale, di quella piccola nobiltà di provincia che sa vedere come stanno le cose, ma non riesce a capire, o meglio ancora non vuole capire, perché la sua unica forza è nella rassegnata disperazione di questa moltitudine.
Il sarto della stradalunga è un diario di famiglia, costruito intorno alle figure emblematiche di Pietro, il padre, di Pina, la zia, e di Peppi, Giuseppe, ognuna delle quali si fa parte narrante, a integrazione del racconto.
La figura di Mastro Pietro, il sarto, uomo che, per l'ambiente, è un letterato, sapendo leggere e scrivere, è il ritratto di una speranza delusa, di quel tentativo di uscire dal cerchio della miseria, lasciando la campagna per l'artigianato; intorno a lui ruota un piccolo mondo di diseredati, che gli si rivolgono per chiedere di scrivere lettere d'amore, con esiti anche ameni, ma è solo un momento di elevazione, perché poi la realtà di quello stomaco da saziare riprende il sopravvento e l'impossibilità di farlo in modo adeguato segna indelebilmente l'animo, rende l'uomo taciturno, spento, perché la speranza di un cambiamento è definitivamente tramontata.
Non meno importante è la figura della zia Pina, zitella non per vocazione, ma per necessità economica, una donna rassegnata che ritrova la sua femminilità e quasi un senso di maternità nell'amore per i nipoti.
Quanto a Peppi il tutto viene visto con gli occhi di un ragazzo, a cui troppo presto si chiede di essere uomo per contribuire al magro bilancio familiare.
Intorno a questi personaggi chiave gira una piccola umanità, in preda a superstizioni, a ignoranza e a un'atavica fame. Nessuno è più importante degli altri e nessuno è importante se non nella misura della sua presenza con cui fornisce il contributo a darci un'idea di un mondo crudele, con i più poveri, uniti non solo dalla loro condizione, ma anche dalla solidarietà, da quell'amore per il prossimo ormai così raro a trovarsi.
E le parole fluiscono incessanti, con un ritmo blando, una cronaca che si anima ogni tanto dai voli di fantasia di Pietro che per lui costituiscono l'unica evasione dalla realtà.
Il linguaggio utilizzato è veramente encomiabile, perché l'autore riesce sapientemente a innestare nel quadro di desolazione umana le splendide immagini della natura del suo luogo natio, con tramonti, albe, campi di grano che scorrono davanti agli occhi increduli, ma soprattutto con un estro poetico di rara efficacia e che mi porta a concludere che questo più che un romanzo, è un poema, è il canto di uno che c'era e che riuscì a venirne via, oltrepassando quel confine che, tuttavia, per certi aspetti, vorrebbe ora ripassare per ritrovare quell'umanità di cui serba solo il ricordo.
Il sarto della stradalunga è un romanzo bellissimo, uno di quelli da leggere e rileggere per scoprire ogni volta qualche cosa di nuovo.

Giuseppe Bonaviri, nato a Mineo (Catania) l'11 luglio 1924 e morto a Frosinone il 21 marzo 2009, è stato il primo dei cinque figli di don Nanè, sarto, e di Donna Giuseppina Casaccio, casalinga.
Frequentò le scuole a Mineo e la sua passione poetica, come afferma lo stesso Bonaviri, venne alimentata dall'atmosfera magica che aleggiava intorno ad una pietra, detta della poesia, che si trovava presso Camuti (altopiano famoso per il suo villaggio preistorico) dove si trovava la pietra attorno alla quale, fino alla fine del 1850, prima dell'Unità d'Italia, si riunivano numerosi poeti da ogni parte della Sicilia, per gareggiare scrivendo e recitando versi.
Si iscrisse in seguito presso l'Università di Catania dove conseguì la laurea in medicina nel 1949, svolse il servizio di leva come sottotenente medico a Casale Monferrato dove scrisse il suo primo romanzo, Il sarto della stradalunga, che è anche quello a cui Bonaviri era più legato. L'opera ottenne grande approvazione da parte di Elio Vittorini e fu pubblicata nel 1954 da Einaudi nella nuova collana "I gettoni".
Trasferitosi a Frosinone, lavorò come medico cardiologo, cercando di conciliare la sua attività professionale con la scrittura.
Scrisse numerosi romanzi nei quali rappresenta il piccolo mondo paesano della sua terra, sempre attento a cogliere la dimensione magica e arcaica della natura: Il fiume di pietra nel 1964, Notti sull'altura nel 1971, L'enorme tempo nel 1976, Novelle saracene nel 1980, L'incominciamento nel 1983, È un rosseggiar di peschi e d'albicocchi nel 1986, Ghigò nel 1990, Il vicolo blu nel 2003.
Ha anche pubblicato raccolte di poesie: Il dire celeste nel 1976, O corpo sospiroso nel 1982, L'asprura nel 1986, I cavalli lunari nel 2004.
Nel 2006 ha pubblicato Autobiografia in do minore. Nel 2007 si è raccontato nel documentario Bonaviri ritratto di Massimiliano Perrotta.
Renzo Montagnoli


Il papà di Giovanna  di Pupi Avati
Romanzo   pag. 134

“Per raggiungere la scuola Giovanna e suo padre costeggiavano ogni mattina un ampio tratto dei giardini Margherita, camminando fianco a fianco, sotto il fogliame dei grandi ippocastani, folto e gocciolante brina. Era quel percorso verso la scuola che lui riteneva indispensabile a dotare la sua amatissima figlia delle energie sufficienti a fronteggiare il mondo”.
La dedica: Alle persone che vogliono bene alle persone
La vicenda si dipana in un arco di tempo che va dal 1938 al 1953, 15 anni di fatti personali che travolgono una famiglia bolognese e sullo sfondo sfumati, 15 anni di fatti collettivi (il fascismo, la seconda guerra mondiale) che attraversano popoli interi. Al centro della storia, un padre, Michele Casali, un oscuro professore di storia dell’arte e la figlia Giovanna diciassettenne, labile psicologicamente, in secondo piano la madre Delia, donna di grande bellezza. Pupi Avati in uno stile immediato ed efficace scrive e descrive il dramma famigliare che già si avverte sin dalle prime battute del romanzo. I personaggi sono delineati con fulminanti tratti fisici e lampanti intuizioni psicologiche; da uomo del cinema, la tecnica narrativa è così visiva che sembra di vedere la fisionomia di ciascuno  e di seguirne con sguardo attento i  comportamenti. Trapela un’atmosfera drammatica e sofferente, l’amore esclusivo  del padre verso la figlia teso a preservarne ogni delusione; egli cerca di carpire il sorriso sul volto e nell’animo di Giovanna, volutamente non vedendo la  fragilità interiore e proteggendola fino allo spasimo del cuore. Pupi Avati riesce con poche e sparse annotazioni e particolari a restituirci il ritratto storico dell’epoca senza accenti forzati né  giudizi politici e moralistici. Risulta chiaro come l’autore non usi indulgenza verso la madre ora condannata dal suo egoistico agire ora compatita per il suo fallimento come moglie e madre, mentre aderisce sentimentalmente a Michele devoto e protettivo verso la figlia. Forse, a volte, il troppo amore, cieco e totalizzante distrugge le persone a cui è rivolto, come un amore sotteso, non conclamato perché cova delusione e insofferenza. Giovanna già non bella e debole si trova a competere con la grazia femminile della madre e con le ansie paterne di vedere realizzati i sogni e i desideri della figlia, così, ella si trova schiacciata e confusa,  persa in un mondo tutto suo. E’ un privilegio per l’autore riuscire da un suo scritto che ha partorito e di cui conosce tutti i risvolti realizzarne un film; lui solo sa aderire all’immagine e dare alla sua storia, ai suoi personaggi quelle finezze interiori, traducendone ogni minima sfumatura. Un breve romanzo intenso e dolente che il lettore ama sin dalle prime pagine e accompagna le parole scritte con gli stessi sentimenti che sgorgano dal libro.      

L’autore Pupi Avati (Bologna 1938) è uno dei registi più noti del cinema italiano. Ha diretto oltre trenta film tra i quali La cena per farli conoscere, Storia di ragazzi e di ragazze, Una gita scolastica. Da narratore ha scritto, tra gli altri, i romanzi, poi diventati film da lui stesso diretti: I cavalieri che fecero l’impresa (2000). La seconda notte di nozze ( 2005) e Il nascondiglio.
Arcangela Cammalleri


Educazione siberiana di Nicolai Lilin Ed. Einaudi

“ C’è chi si gode la vita, c’è chi la soffre, invece noi la combattiamo”. Antico detto degli Urca Siberiani

Nicolai Lilin, giovane di 29 anni, racconta la sua vita straordinaria, diversa per codici e stili da noi occidentali. La Transnistria, regione dell’ex URSS, ad est della Moldavia, autoproclamatasi indipendente nel 1990, ma non riconosciuta dal alcun Paese- al contrario di altre entità fuori ONU- ( l’unico Stato socialista a porre la falce e il martello nella bandiera nazionale), è il teatro di questa storia sconcertante e, per certi versi affascinante. Nicolai, Kolima vive a Bender, capitale della Transnistria, nel quartiere Fiume Basso, secondo la tradizione siberiana, dove il codice d’onore è regolato da un’educazione criminale. L’educazione siberiana, è, secondo il nostro punto di vista, un ossimoro: criminali onesti. “I criminali dignitosi si presentano, si salutano e si augurano ogni bene anche prima di ammazzarsi”. La criminalità retta da una giustizia violenta, s’innesta con i valori quali, l’amicizia, la solidarietà, la lealtà, la condivisione dei beni, come un seme necessario e naturale. Nicolai trascorre l’infanzia, l’adolescenza e la prima giovinezza imparando tutto un cerimoniale fatto di parole non dette o dette in un certo modo, il gergo criminale, le gerarchie con i propri ruoli, l’uso delle armi, il coltello prima, la pistola dopo come se si maneggiassero innocenti giochi di guerra, l’odio per gli sbirri, la cui uccisione è men che meno la morte in un conflitto a fuoco dentro un video – game. I figli dei criminali adulti frequentano la scuola della strada che li abitua alla violenza come reazione primaria ad infrazioni di precise regole della comunità. I criminali anziani nel ruolo di nonni adottivi insegnano ai giovani l’uso delle armi, della violenza, come necessità-virtù, sottesi all’amore per i disabili, al rispetto per gli anziani, alla cultura del tatuaggio, della pelle che racconta il destino dell’individuo. E’ un mondo chiuso la cui trasmissione dei valori assume una sacralità antica le cui leggi affondano nella notte dei tempi: “ Homo homini lupus”. Questo giovane, dall’esperienza di un anziano, è una commistione di antichi codici d’onore che cozzano con la civiltà odierna, perché una vita violenta avvicina alle bestie, ma anche una vita pacifica, in cui i valori sono solo materiali, è una vita disonesta. La vera realtà della vita si presenta amara per Nicolai, ai diciotto anni prende coscienza di crearsi un futuro diverso, fuori dalla comunità criminale, il consumismo post-sovietico è impressionante per uno educato alla sobrietà dei costumi siberiani e si sente stanco, disorientato, nella prospettiva di realizzarsi in qualche modo onesto ed utile. In uno stile semplice ed immediato, come quasi cronistoria, Lilin ci addentra in queste realtà sconosciute che solo da poco stanno perdendo la loro identità e si avviano verso l’occidentalizzazione forzata. E’ una lettura inconsueta, interessante, e al di là del tam tam mediatico, dà, se ce n’era la necessità, un’ennesima testimonianza dell’infinità gamma dei comportamenti umani e di quanto l’abisso del male sia estremamente profondo e senza fondo.

L’autore Nicolai Lilin è nato nel 1980 a Bender, in Transnistria. Nel 2003 si è trasferito in provincia di Cuneo, dove fa il tatuatore, avendo studiato per tanti anni i tatuaggi della tradizione criminale siberiana e imparato le tecniche e i codici complessi che li regolano. Questo è il suo primo romanzo, ed è stato scritto direttamente in italiano.
Arcangela Cammalleri


Canti celtici di Renzo Montagnoli Edizioni Il Foglio http://www.ilfoglioletterario.it/ ilfoglio@infol.it

Prefazione di Patrizia Garofalo
Immagine di copertina e fotografie
all’interno di Renzo Montagnoli
Elaborazione Grafica di Elena Migliorini
Collana Autori Contemporanei Poesia
Diretta da Fabrizio Manini

Poesia – poema

Cosa spinge un uomo, oggi, che solitario percorre  i propri luoghi ( lande di brughiere ed acque ) a far riemergere nel sogno le genti antiche che li popolarono, se non la ricerca del senso della vita, dell’anima del mondo, se non il suo sentirsi anello di un eterno andare umano?
Riemergono i Celti ( con i nostri diecimila anni di rivoluzione agricola )  nella brezza della sera, nello stormire della querce, nel fiume che scorre lento tra i canneti. Appaiono improvvisi lungo il fiume, tra le brume,  “ guerrieri che riprendono possesso di un mondo tutto loro”.
Ed è lirismo “ Candida pelle,/ baciata dalle stelle/ in una notte d’estate forse immaginata,/ fra contorni di canne lacustri,/ vicini e lontani canti di civette,/ folletti di contorno a un sogno..”
“ Già il grano imbiondiva,/ steli piegati pronti ad accogliere la falce./ La quiete dei meriggi assolati/ fra il frinire di cicale,/ un’aria ferma,/ le sere appena un po’ ventilate, con il canto dei cani alla luna..”
ed è elegia “ Sono voci smorzate,/ il tono sommesso,/ quasi una preghiera…di genti che qui vissero/ di vite di giorni passati,/ di gioie e dolori,/ di ardori di innamorati,/ di sogni spesso mai realizzati…”
“ Venivo la sera a gioire sulle sponde/ il flusso ininterrotto del tuo respiro…mi specchiavo e dietro la mia immagine/ c’eri tu, rassicurante, padre sereno…Scivolavi, allora,nel letto di argilla…”
ed è dolore per tutto un mondo che si va irrimediabilmente perdendo “ Erano uomini vissuti prima di noi,/ il seme di queste piante/ che troppo presto dimenticano le radici/ e vogliono correre verso il nulla…” “ Il tono si alza in un acuto,/ subito strozzato/ dalla certezza di una speranza/ irrimediabilmente fugata”

 L’autore dei Canti celtici si chiama Renzo ed è un semplice uomo  che ha spalancato le braccia per accogliervi l’anima del suo mondo, divenendo voce di un popolo solo apparentemente estinto; e così diventa il bambino a cui “ un giorno mancò il sole”, il sacerdote del fiume, il pescatore eterno, un uomo senza tempo, il vecchio “ Ancor domani sorgerà il sole,/ per altri riprenderà il cammino/ per dove il vecchio è alfine arrivato.”
Ecco, perché temere la nostra morte? Noi siamo stati, siamo e saremo, in un avvicendarsi di generazioni che continueranno a umanizzare le terre e a provare gli stessi sentimenti, che non mutano con il trascorrere del tempo.
Questo il messaggio che ho voluto prendere dal libro. Io, che ho vissuto il passaggio dalla vita agricola a quella industriale e tecnologica, che a volte ho l’impressione di avere migliaia di anni, che ho la fortuna di sentire lo spirito dei boschi e di immaginare i rumori delle genti del  passato, non posso che applaudire Renzo per questi suoi canti suggestivi e amorevoli.
Franca Canapini


Nella casa del sole di Maria Attolini Edizioni Tabula Fati www.edizionitabulafati.it
Presentazione di Rossano Onano
Poesia silloge

Dedicata alla madre scomparsa, questa silloge è un percorso esistenziale dell'autrice volto alla metabolizzazione di un evento quale la morte, che impedisce alle persone che restano un completamento del rapporto con l'estinto.
E' una fase consciamente o inconsciamente sempre presente e procede necessariamente per gradi, arrivando poi all'identificazione con il defunto e infine nel ritrovamento di se stessi.
Si tratta di una catarsi vera e propria, una presa di coscienza dell'ineluttabilità del fatto, da cui sempre si esce con un ricordo della persona amata accompagnato da malinconia, e non più dal dolore.
Non vuol dire solo che "la vita continua", ma che ora si procede da sé, pur insieme alla memoria. Chi non c'è più non verrà cancellato, non sarà dimenticato, ma si penserà a lui con un affetto soffuso.
Le poesie di Marisa Attolini sono stralci di memoria, piccole carezze dell'anima che non possono lasciare indifferente il lettore. La presenza, pressoché costante, della natura aiuta questa trasformazione dello stato emotivo, smussa gli eccessi, inquadra il tutto nel supremo ordine naturale delle cose e conferisce alle liriche una grazia del tutto particolare ( Il picchio scandiva le ore / del tempo sull'ippocastano / fiorito e il bosco stormiva / all'aria leggera e cantava / il profumo di giorni sereni /…).
Senza che possano essere definite in senso stretto bucoliche, tuttavia l'ambiente è quello della vita a contatto con la natura ( Correva la carraia / verso le zolle arate / dalla mano solerte / dei tuoi padri e / …..- oppure - Il pettirosso è ritornato / dondola sul tenero ramo / del gelsomino addormentato /…).
Così, con gradualità si compie il percorso e si arriva al termine ( La luce del buio / rischiara il cammino / sui sentieri dell'anima / guida il mio passo e / ti rivedo raccolta / nella grotta della vita / ricomporre il tuo presente / rammendare le parole / che l'amore intriso / perpetuo canti musica / e riposo al cuore / dei tuoi figli miei / e futuri Mamma / che tu sei e vivi / nell'eternità della vita).
La lettura è sicuramente consigliata.

Marisa Attolini (1942) è nata a Fabbrico (R.E.) dove vive.
Presente in diverse antologie, ha pubblicato tre sillogi poetiche: Rossi tulipani (AGE, Reggio Emilia 1988), Nell'attesa di nuovi voli (Forum/Quinta Generazione, Forlì 1992) e Lettere al padre (Edizioni Images Art & Life, Modena 1997).
Renzo Montagnoli


Lewis Carroll nel Paese delle Meraviglie di Isa Bowman Tre Editori www.treditori.com
Postfazione e note di Edward Wakeling
Narrativa

Prima di parlare di questo libro ritengo opportuno ricordare chi era Lewis Carroll.
Lewis Carroll, pseudonimo di Charles Lutwidge Dodgson, è stato uno scrittore e matematico inglese nato nel 1832 e morto nel 1898.
La sua fama va ascritta a due romanzi, assai noti, Alice nel paese delle meraviglie e Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò, opere che ebbero e hanno ancor oggi molti estimatori, dai ragazzi agli adulti, e che furono fonte di ispirazione per altri celebri scrittori, quali James Joyce e Jorge Luis Borges.
Forse la sua mente di adulto per certi versi era rimasta infantile, ma sta di fatto che Carroll si trovava meglio a vivere con i bambini che con gli adulti, e dalla sua passione per la fotografia, soprattutto per quella del nudo artistico di ragazze e bambine, sono sorti non pochi dubbi su una sua presunta pedofilia. Questa caratteristica serve anche a comprendere l'amicizia fra lo scrittore e l'autrice di questo libro, ragazzina interprete di Alice nel paese delle meraviglie nella versione teatrale.
D'altra parte, questa sua preferenza nella frequentazione di minori può anche servire a spiegare meglio il perché dei ricordi di Isa Bowman, proprio per quella presenza nel corpo adulto di Carroll di residui comportamenti fanciulleschi che non potevano che mettere a suo agio l'attrice, anziché intimorirla in presenza di un uomo ormai maturo e importante, che secondo la rigida educazione vittoriana avrebbe invece dovuto esigere il massimo ossequioso rispetto.
A dar credito a Isa il grande amore di Lewis non fu Alice Liddell, ma lei stessa, tanto che la volle proprio come protagonista di Alice nella versione teatrale. Mi permetto di far notare che il termine amore può essere meglio inteso come una fortissima simpatia, che potrebbe anche essere scambiata per un sentimento profondo, ma non mi sento personalmente di considerare lo scrittore inglese un pedofilo, bensì un adulto che nella vita reale trovava il meglio di se stesso entrando nel mondo dei bimbi come un personaggio della sua fantasia.
Isa, chiamata da lui la sua "fanciullina", era indubbiamente la sua prediletta, quella con cui il rapporto amichevole appariva più stretto e proprio per questo lei fu in grado di raccogliere meglio di altri le impressioni che poi, insieme a una certa frequentazione, costituiscono il testo di questo volume, che non può essere considerato una biografia, ma che mescola favola e realtà in modo tale che ne esce un'opera in grado di attrarre sia bambini che adulti.
E' un diario di un rapporto amichevole fra una bimba e un maturo professore di Oxford, corredato di note gustose, di quel senso che hanno proprio gli adolescenti nel mitizzare chi è più grande di loro quando dimostra piacere per la loro presenza. Così emergono tratti caratteristici di Lewis, piccole e grandi manie, insomma un ritratto eseguito in un'atmosfera "Old England" con gli occhi innocenti e incantati di una ragazzina, che spesso esagera, confonde o anche inventa.
Per fortuna, a ristabilire una certa aderenza alla realtà dei fatti, visti da Isa spesso con infatuazione, ci pensa la bella postfazione di Edwuard Wakeling, uno dei maggiori studiosi di Lewis Carroll.
E' un libro, comunque, che, pur con i limiti derivanti dalla memoria non imparziale e anche ingenua di una bambina, ha il sapore di una fiaba, quasi un sogno raccontato da Isa che aveva attraversato lo specchio, come Alice. Il personaggio le calzava talmente bene che il suo rapporto con Lewis finì con il diventare la prosecuzione della finzione teatrale.
Da leggere, perché ne vale la pena.

Isabella Bowman (1874-1958), familiarmente chiamata Isa, era la maggiore delle quattro sorelle del pianista e organista Charles Andrew Bowman.
Iniziò prestissimo la carriera teatrale e interpretò per la prima volta la parte di Alice nel paese delle meraviglie al Globe Theatre il 28 dicembre 1888 con grande successo di pubblico e infinita ammirazione da parte di Carroll. Frequentò a lungo lo scrittore, l'ultima volta nel 1895, anni prima della morte, quando si recò a Oxford per presentargli il fidanzato. Isa continuò la sua carriera teatrale e cinematografica sino alla metà del secolo scorso. Quando morì, all'età di 84 anni, era però stata dimenticata da tutti.
Renzo Montagnoli


Avorio di Matteo Gambaro Historica Edizioni www.historicaweb.com  info@historicaweb.com
Prefazione dello stesso autore

Narrativa racconti horror
Collana Celeris

Sono quattro racconti che finiscono con il legarsi l'uno all'altro come i capitoli di un romanzo, grazie al filo conduttore, rappresentato non solo dal genere, ma dalla presenza di un personaggio, l'agente speciale Carnielli, un uomo particolarmente valido nella caccia ai vampiri.
Infatti si tratta di un horror legato ai succhia sangue, ma non pensate al tradizionale Dracula, principe delle tenebre; qui invece sono degli assetati, per lo più metropolitani, la cui presenza è avvertita dal lettore, poiché non compaiono direttamente nella narrazione, ma ne viene ricreata la classica atmosfera.
Che si tratti di vampiri del resto un primo elemento probatorio è riportato nel primo racconto, Il Borgo, forse il migliore, visto che il protagonista ricorre quasi subito alla protezione della tradizionale croce portata al collo.
Si respira in tutto il libro un tanfo di chiuso, di remoto, fra morti orripilanti e aria opprimente, quasi da cripta, e proprio in questa atmosfera sta la maggior qualità dell'opera, che dona ampio risalto, più che ai fatti, alle fasi precedenti gli stessi, dense di aspettative che incutono lentamente uno stato di disagio che va in crescendo dal timore al terrore.
Penso che gli amanti del genere troveranno più di un motivo per gradire la lettura di quest'opera, indubbiamente originale nell'idea e scritta anche stilisticamente bene.
Per me, che non sono un appassionato, posso solo dire che mi ha fatto trascorrere piacevolmente un paio di ore.

Matteo Gambaro.
Nato a Venezia nel 1975, vive e lavora a Torino da qualche anno.
Diverse partecipazioni su siti web e riviste: Stampa Alternativa, Nautilius, Tam Tam, Orizzonti, Artemis Edizioni e molti altri. Ha partecipato a diverse antologie, fra cui: 13 frammenti di mistero e I pionieri dell'anno 3000 (G.Ho.S.T.), Mondi possibili e impossibili e l'Almanacco del Foglio Letterario 2003 (Edizioni Il Foglio), AIGAM - MAGIA (Autori Esclusi), Oltre il reale (Malatempora), Wakati Ujao - Futuro Africano (WebTrekItalia per AMREF Italia Onlus), Mangiami (Magnetica). nel maggio 2009 esce AVORIO per Historica Edizioni, lanciato in anteprima nazionale con un evento web su lagunaweb.splinder.com visto da 160 persone in 1 ora.
Sito ufficiale del libro: www.lagunaweb.gdr.net/avorio
Renzo Montagnoli


La scomparsa di Majorana di Leonardo Sciascia Adelphi Edizioni
con un saggio di Lea Ritter Santini
Collana Gli Adelphi
Narrativa Romanzo

Oggi probabilmente solo gli studenti di matematica e fisica sanno chi è stato Ettore Majorana, scomparso misteriosamente nel 1938, forse durante il viaggio in nave fra Palermo e Napoli, dove insegnava nella locale università. Di lui disse Enrico Fermi: "Al mondo ci sono varie categorie di scienziati; gente di secondo e terzo rango, che fanno del loro meglio ma non vanno lontano. C'è anche gente di primo rango, che arriva a scoperte di grande importanza, fondamentali per lo sviluppo della scienza. Ma poi ci sono i geni come Galileo e Newton. Ebbene Ettore era uno di quelli. Majorana aveva quel che nessun altro al mondo ha. Sfortunatamente gli mancava quel che è invece comune trovare negli altri uomini: il semplice buon senso".
Leonardo Sciascia, il grande scrittore, siciliano come Majorana, tralasciate per un momento le opere di denuncia della mafia, si interessa con questo splendido libro della scomparsa dell'insigne matematico, basandosi sul famoso episodio di cronaca della presunta morte, raccogliendo a distanza di anni notizie anche incomplete, frammentarie, e dichiarazioni di persone che lo conobbero e gli furono vicine. Il risultato è un ritratto talmente realistico che Majorana stesso ne sarebbe rimasto impressionato. Ma, sarebbe fare un torto a Sciascia se si limitasse la peculiarità del suo libro a una semplice connotazione, se pur di valore, del personaggio, perché ci sono anche altre finalità, che esulano dalla soggettività del caso specifico. Lo scrittore siciliano, così attento a scrutare l'uomo nella sua struttura dinamica mentale, affronta anche il problema della scienza e del suo interagire con chi la coltiva, e Majorana sembra proprio l'individuo adatto a personificare la sete del sapere e la paura delle conseguenze che potrebbero derivare da una scoperta.
Sotto questo aspetto il libro è un autentico capolavoro, con pagine di riflessioni dell'autore che lasciano trasparire la possibilità che le stesse fossero già state effettuate dal matematico siciliano.
In particolare, non posso esimermi dal riportare un passo illuminante "Chi conosce la storia dell'atomica, della bomba atomica, è in grado di fare questa semplice e penosa constatazione: che si comportarono liberamente, cioè da uomini liberi, gli scienziati che per condizioni oggettive non lo erano; e si comportarono da schiavi, e furono schiavi, coloro che invece godevano di una oggettiva condizione di libertà. Furono liberi coloro che non la fecero. Schiavi coloro che la fecero." Sciascia si riferisce nel primo caso al gruppo degli scienziati tedeschi che facevano capo al professor Heisenberg e che nulla misero in atto per arrivare a produrre la bomba atomica, mentre nell'altro caso il riferimento è a Enrico Fermi e a quanti collaborarono con lui nel progetto Manhattan.
L'applicazione dell'etica alla scienza sembrerebbe un'ossessione, peraltro condivisibile, dello scrittore siciliano, che però ravvisa anche il tormento del ricercatore di fronte alla scoperta e alle sue possibili nefaste applicazioni, contrasto interno non sempre presente, ma che quando si verifica impone delle scelte sempre difficili e con inevitabili strascichi.
E' in quest'aspetto che Sciascia individua il motivo della scomparsa di Majorana che, nonostante alcune lettere in cui accennava al suicidio, avrebbe architettato un piano perfetto per sparire lasciando un mito, sia che si sia lasciato travolgere dalle acque del Mediterraneo, sia che lo abbia voluto far credere, ipotesi questa che lo scrittore privilegia e non è un caso quindi se il libro termina con una visita in un monastero di certosini, dove un colloquio con uno di loro non fornisce certezze, ma nemmeno approda a smentite. Ettore Majorana semplicemente nel 1938 ha preferito l'etica alla scienza, ha abbandonato i numeri e le formule per abbracciare la pace dello spirito.
La scomparsa di Majorana è un libro stupendo, da leggere, da rileggere, per capire che l'uomo deve venire sempre prima della scienza.

Leonardo Sciascia (Racalmuto, 8 gennaio 1921 - Palermo, 20 novembre 1989). E' stato autore di saggi e romanzi, fra cui: Il giorno della civetta (Einaudi, 1961), A ciascuno il suo (Einaudi, 1966), Todo modo (Einaudi, 1974), La scomparsa di Majorana (Einaudi, 1975), I pugnalatori (Einaudi, 1976), Candido, ovvero un sogno fatto in Sicilia (Einaudi, 1977), Il cavaliere e la morte (Adelphi, 1988), Una storia semplice (Adelphi, 1989).
Renzo Montagnoli


Adversaria
Frammenti d’autore

di Paolo Maggiolo

Edizioni Solfanelli
www.edizionisolfanelli.it

Saggistica 

Devo dire che da un po’ di tempo le Edizioni Solfanelli danno alla luce alcuni libri insoliti, che non si possono classificare né di narrativa, né tantomeno di saggistica, almeno in senso stretto. Era già successo con Fregati dalla storia e ora capita con questo Adversaria che, aperto senza prima leggere l’introduzione dell’autore, può lasciare perplessi, se non addirittura confusi.
Ma cosa si è prefisso Paolo Maggiolo con questo volume? Lo spiega lui stesso così “ Perché mai Adversaria? Perché questa raccolta di brevi citazioni, che vede la luce nel quarantesimo anniversario della poco “formidabile” esperienza del Sessantotto, vuol esser prevalentemente di parte. Vuol prendere di mira, in poche parole, i luoghi comuni della sinistra, i suoi miti diffusi, le sue verità scomode, il suo finto progressismo, la sua grigia casacca conformista.”
Ora, considerato che la sinistra non è un corpo unico, come non lo è la destra, il prendere di mira il comunismo, ora che si è autoestinto, presta il fianco a critiche più o meno ampie, proprio per quel termine di sinistra che viene identificato con un unico credo politico ormai defunto. C’è questo limite, quindi, nell’opera che di per sé presenta motivi d’interesse, anche se l’autore sembra dimenticare che non esiste più una concezione di destra e di sinistra, come invece era presente nello scorso secolo. Secondo me, meglio avrebbe fatto smitizzando certe diffuse convinzioni, del tutto fallaci, che sono ormai dominanti nell’attuale società, indipendentemente da una loro connotazione politica, visto che interessano sia la destra che la sinistra.
Ciò premesso, al di là di quella che può essere l’ideologia politica del lettore, nel libro si trovano citazioni alle quali non si può negare un’effettiva valenza e di queste di seguito ne riporto alcune.

ASSEMBLEE

L’ignoranza, infarcita di noia, è il pane delle assemblee.
Léon Daudet (1867-1942), Melancholia, trad. Marina Russo. Novecento, Palermo 1989, p. 202

BASSA LEGA

Vogliono farci credere, i nostri politici, di essere i titani della seconda Repubblica. Sono le lavandaie di un Palazzo in decadenza, gli inquilini di una torre che non è di Babele solo perché la confusione delle lingue è stata sostituita dal groviglio degli insulti.
Mattias Mainiero (1955), Scritti  pirati, Sovera, Roma 1999, p. 22 

LETTERATURA / LETTERATI

Dove c’è una letteratura viva e superstite è perché vi sono grandi idee.
Paolo VI, papa (1897-1978), La ricerca dell’invisibile nel visibile , in Carità intellettuale, a cura di G.M. Vian, BSV, Milano 2005, p. 80

TELEVISIONE

La televisione è la fatalità, voglio dire la catastrofe del nostro tempo.
Emile M. Cioran (1911-1995), Lettera a Mario Andrea Rigoni, da Parigi, 21 aprile 1987, in E.M. Cioran, Mon cher ami. Lettere a Mario Andrea Rigoni (1977-1990), Il notes magico, Padova 2007, p. 95.

Non vado oltre, anche se sono presenti altre citazioni interessanti.
In pratica si tratta di opinioni, frutto di riflessioni, e quindi assumono le caratteristiche degli aforismi.
E’ un libro che val la pena di leggere perché appunto induce a pensare, ferma restando la pregiudiziale che l’autore è di parte e che il bersaglio ormai non esiste più.       

Nato a Padova nel 1957, Paolo Maggiolo esercita da alcuni anni la professione di bibliotecario.
     I suoi interessi, principalmente rivolti alla storia culturale della sua città, lo portano a collaborare a riviste, volumi e iniziative di carattere locale.
     Si è occupato, in questi ultimi anni, anche dell’opera e della biografia di un poeta e viaggiatore irlandese dell’Ottocento, James Henry (1798-1876) di Dublino, sul quale ha pubblicato una serie di contributi in periodici italiani.
Renzo Montagnoli


Parola e Passione di Pasquale Incoronato Edizioni Creativa www.edizionicreativa.it
Introduzione di Mons. Antonio Riboldi
Prefazione di Gianluca Ferrara

Narrativa raccolta di omelie

Ho sempre pensato che il messaggio del Cristo sia stato soprattutto filosofico, quasi politico, mentre l’aspetto religioso, se pur primario, abbia rappresentato una funzione di supporto all’idea rivoluzionaria portata duemila anni fa.
Mi sono anche chiesto spesso perché questo è accaduto solo venti secoli fa, perché non prima, o non dopo. L’unica risposta logica che ho potuto trovare è stata che in quell’epoca, di straordinaria potenza dell’impero romano, l’uomo aveva bisogno di comprendere come doveva essere la vera vita. I principi di uguaglianza, di solidarietà, di amore per il prossimo sono quanto più  di grande sia mai stato detto, un’indicazione per un percorso di un’umanità che potesse considerarsi tale. E’ inutile credere nella religione cristiana se poi non si applica ogni giorno, per intima e ferma convinzione, quel messaggio, e invece con il tempo è rimasta la struttura religiosa, una sorta di burocratizzazione del pensiero che ne ha svilito i contenuti.
E’ cosa di tutti i giorni notare come nel nostro paese (mi riferisco solo all’Italia per esperienza diretta) il cristiano lo sia quasi sempre di nome e non di fatto. In poco tempo si è perso quel concetto di vita che, se pur in buon parte inapplicato, poteva lasciar sperare in un futuro meno indegno di essere vissuto.
E’ quindi con piacere che leggo le omelie di Padre Pasquale Incoronato, raccolte in questo libro dal titolo altamente significativo (Parola e Passione).
In particolare, riporto un passo di quella di domenica 7 ottobre 2007, perché spiega in modo lampante ciò che ho inteso dire fino a ora.
“ Dobbiamo comprendere che con Dio non vale un rapporto matematico, del tipo << Sonc’ juto a messa tutte ‘e dumméneche, aggio fatto ‘e preghierine, aggio dat’ pure ‘e sordi a Padre Pasquale pe’ costruì ’a tenda ‘a proposito chest’ è importante…” aggio fatto ‘o volontariato, aggio recitato ‘o rosario tutt’  ‘e juorni; Mo Signò: facimmo ‘e cunti!>>.
Nella fede non è così; la vera fede è dire: << Signore, mi abbandono nelle tue mani perché il giusto vivrà per sempre e il cattivo soccomberà….>>”
O come quella del 24 febbraio del 2008 sulla sete e sulla privatizzazione dell’acqua, un bene che dovrebbe essere di tutti e perciò gratuito, un sopruso praticato nella generale indifferenza, che è il vero problema.
“ Oggi non c’è passione per una città mal governata, per un Paese mal governato, dove non c’è niente, né futuro, né speranza, solo la cocaina e basta!...”
Di grandissimo valore è poi l’omelia dell’ 8 giugno 2008:
“ Dopo 2000 anni anche il cristianesimo si è trasformato in religione: la gente viene in chiesa per il battesimo, per il matrimonio, per i funerali, per la cresima…”
Insomma, la religione piano piano ha perso la fede.
Padre Pasquale Incoronato deve essere un uomo di grande spiritualità, un umile che non strepita, non travolge, ma comunica, sia con le parole che con il comportamento. Vive in questo XXI Secolo, così traboccante di nulla e senza speranze, eppure lui sembra nato duemila anni fa, pare aver ascoltato il messaggio di un giovane nativo di Betlemme che rischiarò il buio dell’umanità come una meteora, una luce rimasta viva nel suo pensiero.

Pasquale Incoronato è parroco della Parrocchia Santa Maria del Pilar in Ercolano e si occupa anche del recupero sociale, familiare e personale di minori definiti “ a rischio “.
E’ docente Universitario presso la Pontificia Università Teologica Italia Meridionale, dottorato in Teologia e Pastorale.
Renzo Montagnoli


Tante Sicilie tante Americhe di Germana Peritore Ed. Ananke
Racconto - narrativa

L’autrice in Tante Sicilie tante Americhe riprende quel Sogno americano, baluginato, tramite i riferimenti a Mario Soldati, nel testo precedente su Giacosa, è filtrato e nostalgicamente rivissuto attraverso le memorie della sua famiglia, l’immaginazione e una sensibilità affinata dalle esperienze della vita.
Come l’orizzonte si allarga alla vista di chi lo guarda e l’animo si espande a dismisura così la storia della Peritore, intessuta in un tutt’uno con i ricordi generazionali diventa la Storia che accomuna gli uomini in un percorso che di casuale non ha nulla.
La sua Sicilia, mal digerita prima, quasi amica ritrovata dopo, l’America terra d’emigrazione prima, “Sogno” mai sopito dopo, istantanee di viaggi vissuti e/o immaginati, ma ad un certo punto non ha più importanza, tutto questo e altro (la musica, colonna portante della sua vita, il cinema, complice del suo immaginario) racconta e si racconta in questo scritto di uno nessuno centomila generi...Una nessuna centomila Sicilie, a ciascuno la sua, così intima e intimamente personale per come la si vive e la si lascia vivere. Una nessuna centomila Americhe ciascuno ne sfrutti le opportunità che si presentano. Un genere, dunque, contaminato, si fa per dire, da strumenti espressivi come il cinema, la musica, la fotografia, complementari alla letteratura, ma anche dotati di vita propria e di sinestesi che pervadono il lettore. Il testo si avvale della preziosa collaborazione della fotografa Elena Datrino, le cui foto corredano i capitoli del libro.
Nella premessa si tracciano i tanti temi emergenti, l’emigrazione di una famiglia licatese negli U.S.A. nel corso di un secolo, gli accadimenti personali si intrecciano con quelli collettivi, in mezzo le due guerre mondiali, lo sbarco degli alleati in Sicilia raccontato in presa diretta dal padre dell’autrice …e un diario di viaggio a New York. Il cinema americano con i suoi miti e le musiche dell’epoca fanno da contrappunto al racconto, intriso di quel particolare sentimento di chi vive in un’isola e quanto quell’isola è la Sicilia; “Quella sindrome pirandelliana del figlio scambiato, che ti fa sentire in un mondo che non ti appartiene, in assoluta estraneità, come un pesce fuori dell’acqua”.
“Dall’io al noi”. “Scrivere di sé parlando d’altro”. E’ arduo, se non improbo raccontare di sé senza scadere in un mero esibizionismo dell’ego, tanto più ipertrofico in uno scrittore, quanto difficile non sottrarsi alla retorica del sentimento quando si parla del proprio patrimonio generazionale scevro da sguardi partecipi e patetici, ma la scrittrice non cade in nessuna di queste “Amene” impervietà, come, per non perdere il vizio della citazione non, però, fine a se stessa, fa la Ginzburg, che in Lessico famigliare trattiene il distacco dell’osservatore, sia pure con affetto. La capacità elettiva della Peritore, nell’endiadi degli strumenti espressivi -formali /contenutistici- sta proprio e nel controllare le vite dei personaggi della sua famiglia mantenendone letterariamente vive le imperfezioni, l’autenticità, senza mitizzazioni di sorta e nel controllare una scrittura impeccabile e limata fino all’estremo, dosando in modo sempre funzionale l’uso del dialetto, ma non in quella libertà assoluta tanto all’uso camilleriano ( mi perdoni, ma abbiamo solo un unico esempio di lingua-dialetto o dialetto –lingua, altri sono solo”Imitazione”). Lo stile calibrato e accuratamente selezionato assume connotazioni da reportage giornalistico laddove nel fissare le emozioni, impressionare la pellicola, destinata al lettore, c’è tutta la naturale propensione al viaggio e a certi viaggi; come sequenze cinematografiche scorrono davanti strade, palazzi, negozi…visti ed intravisti, colori, odori, umori di quei paesaggi mentre note musicali accompagnano queste visioni e fanno da contrappunto alla materia narrativa. E’ una scrittura in viaggio, nella memoria di ieri e in fieri di oggi come l’immaginazione filmica ed onirica dell’autrice. Trovo geniale l’idea del prologo, un passo da “Il cavaliere e la morte” di Leonardo Sciascia…e squisitamente poetica l’immagine che chiude il libro di chi davanti alla grandiosità di certi paesaggi, l’imperversare degli elementi naturali trasforma l’essere in un simbolo immoto e perenne. Nel mezzo, in una similitudine ardita, il mare, l’Oceano ad ovest e il Mediterraneo al sud; ma il mare nostro diventa il mare mio, quello di Licata, la città natale della scrittrice, o viceversa. Quel mare, presenza dominante della sua vita di bambina, i ricordi del mare di Licata in tempesta sono quelli ad impressionarla particolarmente e a guardarlo da prospettive opposte. Non voglio raccontare la trama e analizzare le persone-personaggi delineati, interessa chi legge, invece, trovo interessante sottolineare di questa breve opera narrativa il flusso di riflessioni che può suscitare, i rapporti intercorrenti tra il punto di vista del soggetto narrante e quelli tanti quanti dei lettori, quel senso non tanto velato di certe atmosfere del passato ormai perdute che solo la memoria può riportare alla luce, quel tempo di come eravamo e di cui si stanno perdendo le tracce…Quando uno scritto non muore nel dimenticatoio dopo la lettura, ma riverbera un continuum mentale nel lettore, una vibrazione emotiva, è perché chi l’ha scritto idealmente e perché no, intenzionalmente, ha privilegiato l’oggetto del suo lavoro in un rapporto ideale tra l’io e gli altri. La scrittura, quando non si rinchiude in se stessa e non è autoreferenziale, non è un esercizio solipsistico, un concentrarsi su se stesso nel tortuoso districarsi di pensieri, sentimenti, ma paradossalmente diventa un veicolo relazionale ed altamente socializzante e comunicativo.

L’autrice: Germana Peritore, nata a Licata, si è laureata in Lettere moderne presso l’università di Palermo. Trasferitasi in Piemonte, ha insegnato Letteratura italiana e latina. Ha prodotto testi e sceneggiature con il Laboratorio Teatro Settimo per l’Assessorato alla Gioventù della città di Torino. Vive e lavora a Torre Canavese. Per i tipi di Ananke ha pubblicato Giuseppe Giocosa. Dai castelli canavesani al sogno americano (2006).

Mi fregio di essere amica dell’autrice e invito alla lettura chi ama la lettura e i viaggi e va alla ricerca del tempo perduto…per recuperarne la memoria.
Arcangela Cammalleri


La vita eterna di Ferdinando Camon Garzanti Editore
Postfazione di Morando Morandini
Narrativa romanzo
Collana Gli elefanti

Ritengo opportuna una premessa, facendo ricorso alla memoria che di tanto in tanto fa riaffiorare accadimenti della mia prima infanzia, per spiegare il mio particolare interesse per questo bellissimo libro.
Molti oggi, tranne forse i più anziani, non sanno com'era, fino a non tanti anni fa, la vita nelle campagne. Io avevo degli zii che lavoravano la terra, non di loro proprietà, anzi alle dipendenze di quello che noi oggi, nei rapporti sindacali, definiamo ancora padrone, un uomo che per discendenza era sempre stato un padrone.
Per i contadini era una vita misera, fatta di cibo scarso e non vario (ricordo che a mezzogiorno c'era l'immancabile minestra di verdure con il riso di Napoli e alla sera un uovo sodo con l'insalata; il pane si vedeva solo la domenica e durante gli altri giorni della settimana era sempre presente la polenta). Il progresso, intervenuto con la fase industriale, non aveva scalfito questo modo di vivere, proprio di una civiltà immobile nel tempo, con una vita avara di soddisfazioni, animata al di fuori del lavoro nei campi - quando il lavoro c'era, perché spesso mancava - solo da racconti tramandati da secoli, frutto di un paganesimo cristiano impregnato di superstizione e di ignoranza. Quest'ultima era un comune denominatore, perché quasi nessuno sapeva leggere o scrivere e quei pochi che vi riuscivano cercavano, a modo loro, di ribellarsi, di incidere, rivoltandolo, quel modo di vivere. Che fossero anarchici o socialisti, come allora venivano chiamati, in ogni caso erano malvisti, considerati teste calde, sovvertitori di un ordine immutabile nel tempo.
Poi, quasi all'improvviso, questo mondo è stato stravolto e giustamente Ferdinando Camon, nel corso dell'intervista che gli ho effettuato, ha citato al riguardo Charles Péguy, un poeta francese che ha scritto che "la fine della civiltà contadina è il più grande evento della storia, dopo la nascita di Cristo".
Così, che quando un caro amico mi ha parlato a grandi linee di questo libro, ho provato immediato il desiderio di leggerlo, perché attendevo da tempo un romanzo che parlasse di questa civiltà che non c'è più, sostituita dall'industria anche nell'attività dei campi.
Una pagina dopo l'altra, la prosa asciutta, non idilliaca, anzi lontana da certe visioni della vita agreste proprie dei grandi poeti latini e in particolare di Virgilio, mi ha avvinto e così, mentre leggevo, ho cominciato a vedere dei campi riarsi dal sole o raggelati dal freddo dell'inverno, della povera gente intenta a un lavoro duro e ben poco retribuito, ho sentito la puzza delle stalle, sono entrato in un'atmosfera immobile di miseria senza barlumi di speranza.
Ferdinando Camon ha dedicato questo libro a questa povera gente, inserendosi nel solco di altri che lo hanno preceduto, magari con intenti diversi, come Verga, Faulkner, oppure Saramago.
La sua, però, non è una narrazione asettica, ma nemmeno c'è l'abbandono alla retorica, semplicemente c'è il desiderio di portare la luce a una moltitudine di ombre, senza ricorrere all'enfasi, bensì permeando le parole di un grande senso di pietà.
E' la sua gente, anche lui è nato in campagna e ha vissuto la giovinezza in quell'ambiente che poi il boom economico degli anni sessanta ha sconvolto, ha trasformato così radicalmente al punto di poter affermare che oggi la civiltà contadina è solo un ricordo, anzi senza il suo libro non sarebbe nemmeno questo.
Provate a pensare a un modo di vivere rimasto sostanzialmente inalterato nei secoli e perciò figurativamente eterno, considerate che era il ceto più basso, in cui la solidarietà e la superstizione erano gli aspetti salienti, se pur contrastanti, di un'esistenza il cui ritmo era scandito dall'avvicendarsi del giorno con la notte e delle stagioni, e dove tutto iniziava con la nascita, proseguendo quasi per inerzia fino alla morte, sovente prematura; avrete così un'idea, ma solo approssimativa, perché per capire veramente e per comprendere è indispensabile la lettura di questo romanzo.
Pagina dopo pagina sembra di tornare indietro di secoli, benché questa realtà, immobile, sia stata presente fino a una cinquantina di anni fa. E' un mondo che si è estinto e che volutamente è stato cancellato dalla memoria come se fosse un qualche cosa di cui vergognarsi, come se quella miseria fosse un vizio capitale, da seppellire sotto coltri di reticenze.
La penna di Camon, che passa indifferentemente dall'epoca attuale al medioevo, da questo alla disfatta di Caporetto, e poi a quel guizzo di vitalità che è stata la resistenza, restituisce al lettore questa civiltà. Le pagine sulla ribellione alla dura repressione tedesca non sono celebrative, ma tendono solo a onorare la memoria di quanti, e non furono pochi, si scossero da un lungo torpore, anche a prezzo della vita, per poi ritornare, ombre nella notte, nel loro lungo silenzio, fino agli anni sessanta, quando la luce elettrica e la televisione svelò loro un altro mondo, meno di fatica, più di soddisfazione materiale, a cui finirono per abbandonarsi, perdendo la loro identità.
Questa comunità di poveri, dove il povero, secondo Camon, è l'uomo che non ha scampo ed è tale perché pure i suoi antenati non hanno avuto scampo, non ha personaggi che si staccano sugli altri, ma c'è un solo protagonista: essa stessa.
Se c'è un libro che ha reso giustizia a una civiltà, facendola conoscere alle generazioni attuali e a quelle future, è proprio questo e credo di poter dire che l'autore è stato un cantore di ciò che per tanto tempo fu e mai più sarà.
La vita eterna non è solo un romanzo molto bello, è molto di più, è un capolavoro.

Ferdinando Camon (Montagnana, 1935) è romanziere, poeta e saggista.
Ha pubblicato:
Il mestiere di poeta (Garzanti, 1982), Il mestiere di scrittore (Garzanti, 1973), Letteratura e classi subalterne (Marsilio, 1974), I miei lettori mi scrivono (Garzanti, 1987), Il Quinto Stato (Garzanti, 1970), La vita eterna (Garzanti, 1972), Liberare l'animale (Garzanti, 1973), Occidente (Garzanti, 1975), Storia di Sirio (Garzanti, 1984), Un altare per la madre (Garzanti, 1978), La malattia chiamata uomo (Garzanti, 1981), La donna dei fili (Garzanti, 1986), Il canto delle balene (Garzanti, 1989), Il Super-Baby (Rizzoli, 1991), Mai visti sole e luna (Garzanti, 1994), La terra è di tutti (Garzanti, 1996), Dal silenzio delle campagne (Garzanti, 1998), Conversazione con Primo Levi (Garzanti, 1991), La cavallina, la ragazza e il diavolo (Garzanti, 2004), Tenebre su tenebre (Garzanti, 2006).
Le sue opere hanno ricevuto numerosi premi, fra i quali uno Strega (Un altare per la madre), due Selezione Campiello (La donna dei fili e Il canto delle balene) e un Viareggio per la poesia (Liberare l'animale).
Sito internet: www.ferdinandocamon.it
Renzo Montagnoli


Titolo: Vorei ‘na stanza
co’ la vorta a botte

Autore: Gianfranco Stivaletti
Editore: Davide Ghaleb (collana Istantanee)
Prefazione: Gabriella Sica
Disegni: Gianfranco Stivaletti

Gianfranco Stivaletti presenta, in questa raccolta di poesie in romanesco Vorei’ na stanza co’ la vorte a botte, Davide Ghaleb Editore (2009), uno spaccato di vita, ricordi, pensieri, sentimenti ed una visione del mondo che ci circonda attenta, sensibile e ironica.
La speranza per chi ancora può sperare, rappresenta motivo per aprire il proprio cuore. L’amore che non può avere spiegazioni, poiché si racconta da sé ed infine i problemi di tutti i giorni e di tutti i tempi. L’anziano, il barbone, la gattara e la velina, rappresentano i personaggi attraverso cui l’autore osserva, con elevata sensibilità, cogliendo ciò che sfugge a chi è disattento, a chi non vede oltre i propri occhi.
Gli affetti, i ricordi, la propria città, sono riferimenti, radici che ognuno dovrebbe avere.
L’attenzione si sofferma su di un oggetto in disuso, che evoca una preziosa memoria.
La rassegnazione ha un colore grigio, c’è dignità nella sofferenza e la preghiera si distingue proprio perché viene dal cuore.
In alcune poesie, si evidenzia il desiderio di quiete, dopo aver tanto navigato e la visione degli anni che trascorrono, riflessi su di uno specchio di vita.
Il poeta incastona, come in un collage, frammenti di vita, a cui si associano tocchi grafici, decisi a rendere più efficace l’immagine poetica.
Tra i tanti affanni, che appaiono tra le righe, si apre una finestra su Roma che sembra illuminarsi di luce propria, una luce senza tempo.
Maristella Angeli


Sulle ali della fede di Viola Di Muzio Tabula Fati Edizioni www.edizionitabulafati.it
Presentazione di Matteo Pugliares
Poesia silloge

La poesia religiosa è un tipo di poesia tipica della religione cristiana ed è iniziata nel Medioevo; i suoi massimi esponenti sono Francesco d'Assisi e Iacopone da Todi. Per l'esattezza la nascita di questa forma espressiva in versi si fa risalire al 1260, grazie alla Confraternita dei Disciplinati che diffuse in tutta Italia le laudi, liriche drammatiche, religiose o pasquali in dipendenza dell'argomento trattato. Tuttavia è il Cantico di Frate Sole, o anche Cantico delle creature, di San Francesco d'Assisi ad essere ritenuto il più antico componimento in volgare italiano. Con Iacopone da Todi, poi, la lauda assunse quella dimensione artistica che è propria della poesia. Questa branchia ha come tipicità un discorso dell'autore rivolto a Dio tendente a tesserne le lodi, oppure a implorare la sua attenzione, cioè una prece o preghiera.
La silloge di Viola Di Muzio non si discosta da queste tipicità, presentandole entrambe con liriche a metrica libera di particolare solennità, pur nella semplicità della costruzione e dei termini utilizzati.

T'ascolto nel silenzio

O mio buon Dio sembra irreale
rispecchiarsi nella Luce
del volto del Tuo amato figlio Gesù,
ma io come un sogno afferro
fasci d'amore e di sole.
Non odo la Sua voce, l'ascolto nel silenzio
delle mie desolate stanze.
Non prego per le piaghe dell'anima mia
ma per le acque rosse e torbide
che inondano fiumi, mari e terra.
O mio Dio fa che la natura non gridi più.


Questa quindi si traduce in una preghiera, nell'invocazione per ottenere la pietà dell'Essere Supremo.

E' evidente che l'autrice, di cui ho già apprezzato altre liriche di diversa natura, completa in tal modo, secondo i sentimenti della religione cristiana, la sua tendenza al trascendente, cioè in lei nasce e si sviluppa una continua ricerca del dialogo con Dio, al fine di arrivare a un'estasi poetica, come in questa:

Eri Tu…mio Signore

Cammino sola in un viale
alberato d'autunno.
Lacrime di dolore
si confondono nella nebbia…
E mentre scendono le prime foglie
all'improvviso un fascio
di luce si posa sul mio cuore.
Non la vedo più…
E' scomparsa.
Eri Tu mio Signore.


Per quanto ovvio, queste poesie incontrano l'interesse dei credenti, mentre possono lasciare indifferenti gli agnostici e gli atei; tuttavia, la sincerità della devozione dell'autrice, la riflessiva proposizione, pacata e mai irruente, nonché l'atmosfera ieratica che permea tutti i versi non possono non destare l'attenzione di chi ama l'arte poetica. E non a caso non è necessario essere permeati di religiosità per apprezzare Il cantico delle creature, oppure le laudi di Iacopone.
L'arte, quando c'è, esula da preconcetti e la si ammira per la bellezza che è insita in essa.
Quindi, le liriche di questa silloge sono fruibili indistintamente da tutti e ne consiglio la lettura.

Viola Di Muzio è nata a Chieti, ma vive ed opera a Pescara da lungo tempo. Con le sue poesie è apparsa in diverse riviste culturali e in numerose antologie. Ha vinto molti premi letterari Nazionali ed Internazionali, fra i quali: Concorso Letterario "R. Pellicciotta" (Perano CH, 2001); Concorso Letterario Europeo (Piediluco TR, 2002); Premio Internazionale "Victor Hugo" (Luco dei Marsi AQ, 2002); Concorso Internazionale "La Torre d'Argento" (Castelnuovo di Farfa RI, 2002); Concorso Nazionale "Il Ceppo d'Oro" (Sulmona AQ, 2003) e il Concorso Internazionale Poetico Musicale (Basilea, Svizzera, 2003).
Ha pubblicato sette sillogi poetiche: Amare l'amore (Solfanelli, Chieti 1994), Nostalgie (Europa, Pescara 1996), Sinfonia di sogni (Tabula fati, Chieti 2000), Trionfi di luce (Tabula fati, Chieti 2004), Luci nella sera (Cannarsa, Vasto 2006), Arcobaleni di luci (Tabula fati, Chieti 2006) e Nella brezza del tramonto (Tabula fati, Chieti 2008).
Renzo Montagnoli


A voce alta  The reader  di Bernhard Sclink Ed. Garzanti

Titolo originale Der Vorleser

Romanzo

Da questo libro è stato tratto il film di Stephen Daldry con Ralph Fiennes e Kate Winslet

La città che fa da sfondo al romanzo - mai nominata ma segnalata da riferimenti toponomastici precisi - è Heidelberg, sede della più antica università tedesca; siamo negli anni ’50 e l’adolescente Michael Berg incontra Hanna, una donna affascinante e misteriosa, sulla trentina: è passione e amore travolgenti. I loro incontri s’infittiscono e vivono un’intensa relazione fatta di sensualità e pudori. Quando Hanna sparisce, Michael con strazio prima, con  la voglia di vivere dopo, prosegue gli studi, gli ultimi anni di liceo, la facoltà di legge,  ma il ricordo di Hanna non lo abbandona mai, fino a quando durante  un seminario sui procedimenti giudiziari, connessi al passato nazista, la rivede in tribunale. Lei e altre quattro donne accusate erano state sorveglianti in un piccolo campo di concentramento nei pressi di Cracovia, un lager esterno di Auschwitz. I capi d’accusa riguardano il modo in cui le imputate avevano agito ad Auschwitz, le selezioni nel lager e la notte del bombardamento che aveva posto fine alla colonna di prigionieri per l’Ovest; la responsabilità dei reparti di guardia e delle sorveglianti che avevano rinchiuso i prigionieri - centinaia di donne - nella chiesa di un  villaggio che era stato abbandonato dalla maggior parte degli abitanti. Caddero un paio di bombe, forse destinate a una linea ferroviaria vicina o a una fabbrica, una colpì la canonica, l’altra centrò il campanile, prese fuoco il tetto della chiesa, le pesanti porte  rimasero chiuse, le imputate avrebbero potuto aprirle, ma non lo fecero e così le donne rinchiuse là dentro bruciarono vive. Meno due, una madre e una figlia miracolosamente salvatesi, testimoni oculari, inchiodano le imputate alle loro responsabilità. Tutto il periodo del dibattimento, la condanna di Hanna e gli anni di carcere segnano il percorso di vita di Michael fino al suo tragico epilogo. E’ una straordinaria e struggente storia d’amore, Hanna si faceva leggere ad alta voce da Michael i romanzi perché era analfabeta - ma teneva segreta questa vergogna più del suo passato di aguzzina nazista - e una intensa riflessione sul nazismo: “cosa doveva e deve farsene, la generazione dei nati dopo, delle informazioni sulle atrocità dello sterminio degli ebrei.? “Noi non dobbiamo pensare di poter comprendere ciò che è incomprensibile, non possiamo comparare ciò che è incomparabile, non possiamo indagare, perché chi indaga sulle atrocità, anche se non le mette in discussione, ne fa comunque oggetto di comunicazione e non ottiene che qualcosa di fronte a cui può solo ammutolire per l’orrore, la colpa e la vergogna. Ma era giusto così? “Come poteva essere un conforto il fatto che il mio patire per amore di Hanna era in un certo senso il destino della mia generazione, il destino dei tedeschi, al quale riuscivo a sottrarmi solo malamente, col quale mi destreggiavo ancor peggio degli altri! Quanto meno mi avrebbe fatto bene, allora, se fossi riuscito a sentirmi parte della mia generazione. L’autore nell’ultima pagina dice che tutto ciò risale ormai a 10 anni fa: “Quel che ho fatto o non ho fatto e quel che lei mi ha fatto: è ormai la mia vita. All’inizio scrive la storia per liberarsi, ma i ricordi non si piegano a questo scopo. Poi si rende conto che la storia gli sfugge di mano, e vuole riprenderla per mezzo della scrittura, ma anche così non riesce a carpire la memoria. Da qualche anno la lascia stare perché ha finalmente fatto pace con lei.
Il romanzo, soprattutto nella seconda parte, quando la storia tra Michael e Hanna viene rivissuta attraverso la memoria, assume una dimensione lirica, pur nei periodi di lunghi silenzi e distanze, sedimenta strati su strati di malinconia, dolcezze e sensi di colpa contrastanti; è in questi pensieri che lo scrittore usa accorgimenti stilisti toccanti pur nell’apparente distacco emotivo. La terminologia e fraseologia giuridica che si riscontra nel testo quando si descrivono gli atti processuali non sono che le proprietà di linguaggio forense di Bernhad Sclink che è magistrato e docente di diritto in una università tedesca. Un gran bel romanzo e una storia singolare a cui il film rende onore, in quanto il regista riesce a mantenere quel registro emotivo distaccato, ma mai freddo e non scade nella retorica e nell’ovvietà.

L’autore Bernhard Sclink, nato nel 1944 presso Bielefeld, laureato in giurisprudenza, vive tra Berlino e New York. Il suo romanzo A voce alta (Garzanti, 1996), tradotto in 37 lingue e a lungo ai vertici delle classifiche di vendita nel mondo intero, ha vinto numerosi premi:Hans-Fallada-Preis e Welt-Literaturpreis in Germania, Premio Grinzane Cavour in Italia, Prix Laure Bataillon in Francia. Tra gli altri suoi libri, editi in Italia da Garzanti, la raccolta di racconti Fughe d’amore (2002) e la trilogia poliziesca, vincitrice di numerosi premi: I conti del passato con Walter Popp,(1999), L’inganno di Selb (2003), Deutscher Krimi Preis, L’omicidio di Selb (2004), premio Glauser. Il suo ultimo romanzo è La nostalgia del ritorno (2007).
Arcangela Cammalleri


Brucia Troia  di Sandro Veronesi  RCS Libri Mondadori
Romanzo

perché non dentro dalla città roggia
sono ei puniti, se Dio li ha in ira?
e se non li ha, perché sono a tal foggia?
Inferno, XI, 73-75

Come si esplicita nella nota dell’autore, il romanzo ha avuto una lunga gestazione,  la prima stesura risale a più di vent’anni fa, lasciare liberi i personaggi dopo averli a lungo tenuti con sé, ha permesso a Veronesi di apportare quegli stessi cambiamenti che la sua vita subiva perché la distanza tra essi e lui non diventasse eccessiva. Il titolo è stato estratto da una canzone del cugino di Veronesi Vinicio Capossela, dopo che anche i titoli provvisori si sono succeduti pari passo con le nuove stesure, spera che nel trapianto, dalla canzone al romanzo, sia colata dentro un po’ di quella forza. 
Tra  l’orfanotrofio dei Cherubini e il Cantiere, luogo infimo e degradato, si trama la storia di Brucia Troia, in una provincia dell’Italia a cavallo degli anni 50-60. Nel brefotrofio domina la figura maestosa ed ieratica di padre Spartaco, un integralista ex missionario in Africa con la fissazione di erigere un colossale monumento alla Vergine, “La Finzione Permanente”, opera dotata di un movimento continuo, un marchingegno di neon, luci psichedeliche, tubi e giochi d’artificio di luminante ed esplosivo impatto visivo. Egli persegue questo delirante progetto con inaudita pervicacia e ostinazione, tutti i suoi sforzi fisici e mentali sono volti alla realizzazione di questa follia per la più formidabile genuflessione collettiva davanti all’altare di Maria che si fosse mai vista in quella parte del mondo. Per dimostrare, sì, di quali fatti era ancora capace la fede. Nel Cantiere s’impatana la vita miseranda di Salvatore scappato dai Cherubini, che troverà i suoi maestri di vita nel vecchio Omero e in Miccina prima e il suo compagno-allievo, nel Pampa, dopo. In queste due realtà agli antipodi l’una quella dell’orfanotrofio, emblema di presunta innocenza e fede e l’altra  quella del Cantiere fatta di marginalità e bestiale delinquenza, corrono parallele vite primitive di perdenti e vinti perché già segnati dalla nascita. In questi estremi livelli di vita, i personaggi soccombono al loro infausto destino perchè nessuna  redenzione può sollevarli a dignità umana. Il fuoco elemento purificatore non sconfigge il fuoco, come la sacra croce non scaccia il Male. Brucia Troia, brucia l’orfanotrofio che pone fine a numerose vicende individuali e collettive che duravano da molto tempo, ma  non ne consegna nessuna alla storia. Un romanzo non indulgente verso una società apparentemente opulenta in cui, supinamente, convivono le superstizioni mistiche,  i baraccati, i diseredati, gli emarginati non sfiorati dal progresso e dalla “felicità.        
Ecco alcuni versi di Brucia Troia di Vinicio Capossela, dall'album Ovunque proteggi
Per gli anni tuoi abbracciati nell’assedio 
Per i giardini tuoi favi di miele 
I denti mordano la terra nera 
Noi gusteremo il giorno 
Un giorno ancora 
Brucia Troia Brucia Troia Troia brucia Troia brucia Brucia Troia Brucia Troia Troia brucia

L’autore Sandro Veronesi è nato a Firenze e vive a Prato. Ha pubblicato: Gli sfiorati, Venite venite B-52, La forza del passato ( Premio Campiello, premio Campiello-Repaci), Per dove parte questo treno allegro, Superalbo, No Man’s Land, Caos calmo (Premio Strega), Occhio per occhio, La pena di morte in 4 storie.
Arcangela Cammalleri


I lunghi fucili
Ricordi della guerra di Russia

di Cristoforo Moscioni Negri
Introduzione di Ugo Berti Arnoaldi
Appendice di Mario Rigoni Stern
Edizioni Il Mulino
www.mulino.it 

Nel 1953 usciva edito da Einaudi Il sergente nella neve di Mario Rigoni Stern, opera che ebbe un successo pressoché immediato e che ottenne anche il prestigioso riconoscimento del Premio Viareggio opera prima.
La ritirata di Russia, la strage dei nostri soldati in quella terra lontana, ha trovato nelle pagine dell’autore di Asiago momenti di intensa commozione che ancor oggi stupiscono e avvincono i lettori.
Fra i vari protagonisti di questo romanzo figura anche il tenente Cristoforo Moscioni Negri, energico, severo, competente, ma anche umano e vinto, oltre che dalla guerra, dal crollo della fiducia in chi l’aveva propugnata e poi diretta, senza la minima preparazione e nell’indifferenza per chi la combatteva direttamente.
Questo sentimento di delusione e poi di indignazione che sfocia in rabbia è descritto magistralmente da Rigoni Stern nell’occasione dello sganciamento dalle truppe russe, con quei colpi di mitra esplosi nel buio della notte senza che fossero diretti presso un preciso bersaglio.
Per quanto ovvio, Moscioni Negri, sopravvissuto a questa tragedia, lesse Il sergente nella neve e gli nacque lo stimolo di scrivere un lavoro analogo, ovviamente con la stessa trama e i medesimi personaggi, ma in un’ottica diversa, volta cioè, più che a realizzare un’opera letteraria, a denunciare impietosamente il tradimento del regime e degli alti gradi militari, creando così una sorta di ibrido fra l’indagine storica e la memorialistica.
Ne venne fuori un libro che, sottoposto all’Einaudi con i buoni uffici di Rigoni Stern, venne poi pubblicato nel 1956 nella collana “Saggi” Purtroppo il successo fu limitato e l’autore incolpò l’editore di aver effettuato una presentazione che aveva reso il suo lavoro “una minestra riscaldata”, mettendolo nella scia del Sergente nella neve.
Questo paragone, però, finiva con l’essere inevitabile: stessa ambientazione, stessa trama, stessi protagonisti. Di questa possibilità di considerarlo “una copia” si era reso conto Italo Calvino che stimava il libro e che giustamente nel risvolto aveva chiarito le differenze fra la voce del semplice e tenace alpino che si fa interprete dei sentimenti di piena umanità della moltitudine e la trasformazione di un giovane ufficiale borghese che diventa uomo, maturo e consapevole, libero da pregiudizi e più attento ai fatti concreti e reali, scendendo fra i suoi alpini.
Personalmente, dico che è veramente inevitabile fare un accostamento fra un’opera e l’altra, con la prima che inoltre presentava il vantaggio della novità, ma il raffronto ha un senso nella misura in cui si considerino due opere dello stesso genere. Ora, Il sergente nella neve è prevalentemente un lavoro letterario, mentre I lunghi fucili è marcatamente un’indagine storica, pur se presenta pagine, poche in verità, di notevole impatto e di ottima letteratura.
Se si tiene conto, pertanto, di questa pregiudiziale, è possibile apprezzare il libro di Cristoforo Moscioni Negri che, con le stesse caratteristiche, si ripeterà in Linea Gotica sulla sua esperienza partigiana e con un’amara conclusione sui valori traditi della Resistenza.
Paradossalmente, si potrebbe dire che Il sergente nella neve ebbe anche più successo perché Rigoni Stern riuscì a rappresentare l’abnegazione, il sacrificio e la solidarietà di tanti uomini emersa per effetto delle incredibili incapacità e manchevolezze, sia a livello politico che a livello militare, quegli elementi negativi che ne I lunghi fucili sono oggetto di una meticolosa, severa e anche rabbiosa critica e che determinarono in Moscioni Negri una trasformazione che lo condusse a sentirsi fratello dei suoi uomini.
E’ per questo motivo che ritengo che questo libro abbia una particolare rilevante valenza tale da raccomandarne la lettura, magari unitamente a quella de Il sergente nella neve.

Cristoforo Moscioni Negri (Pesaro, 1918 – San Marino, 2000). Laureato in Giurisprudenza nel 1940 e in Scienze politiche nel 1942, nonché in Medicina nel dopoguerra, prese parte alla campagna di Russia con il grado di sottotenente nel battaglione alpino “Vestone” e, dopo l’8 settembre 1943, si aggregò alle formazioni partigiane operanti nelle Marche, comandando un battaglione della brigata Garibaldi-Pesaro. Passato il fronte, si unì a un battaglione Gurkha dell’VIII armata britannica, partecipando alla famosa battaglia di Tavoleto (2 settembre 1944).
Sue pubblicazioni: I lunghi fucili (1956, nuova ed. Il Mulino, 2005) e Linea Gotica  (1980, nuova ed. Il Mulino, 2006).
Renzo Montagnoli


Il giorno prima della felicità di Erri De Luca I Narratori Ed. Feltrinelli
Romanzo-Narrativa

Quarta di copertina “Sono cose che capitano il giorno prima.
“Il giorno prima di che?”
“Il giorno prima della felicità.”

Scritto in prima persona, un ragazzino, a Napoli, nel secondo dopoguerra, vive da solo senza più la sua madre adottiva. Mentre gioca al pallone scopre un nascondiglio, dietro la nicchia di una statua, nel cortile del palazzo in cui abita. Dal portinaio, Don Gaetano che sentiva i pensieri della gente, scoprirà che durante l’occupazione dei nazifascisti a Napoli stava nascosto un Ebreo. Il portinaio sarà la voce narrante della Storia, delle quattro gloriose giornate di Napoli in cui il popolo napoletano insorse contro i nemici per poi ritornare ad essere una folla di persone. Sarà il suo mèntore, gli insegnerà a giocare a carte, la vita come lotta e conquista della felicità. “O Guagliò” ( così chiamato dal portinaio) sarà la voce narrante della storia individuale, della passione divorante per i libri e per la ragazzina, Anna, intravista dietro i vetri di una finestra, serberà nel suo cuore l’incanto di questa fascinazione. Gli abitanti del palazzo, lo scarparo arricchito, La Capa che non conosce l’italiano, la vedova del secondo piano che chiama Don Gaetano per dei piccoli “Lavoretti,” il conte che si gioca le proprietà al circolo, il libraio Don Raimondo che farà prendere il vizio della lettura al protagonista della storia, di cui non ci è dato sapere il nome, sono emblematici di caratteri tipici umani di una certa letteratura partenopea, dove l’ignoranza è supplita dalla furbizia e dove l’arte di arrangiarsi diventa una filosofia di vita. “ Il palazzo e gli abitanti sono il medioevo che si è infilato i pantaloni del presente,” “I pensieri, l’umanità da dentro fa spavento, carne da arrostire all’inferno.” Queste alcune delle citazioni sagaci di Don Gaetano che trasmette la sua esperienza di vita al ragazzino diventato poi diciottenne che tra calcio e scuola vive i suoi rapporti di rimessa. L’incontro con Anna, adulta, farà scoprire al nostro protagonista di quanto l’attesa sia preannuncio di una piena felicità sia pure effimera e fugace. Il titolo del romanzo “ Il giorno prima della felicità” è per l’Ebreo nascosto, la vigilia del capodanno, che cade a settembre, secondo il rito, una pietra viene gettata nel mare, per liberarsi dalle colpe. Il giorno prima della felicità è quello precedente alla rivolta dei Napoletani. Il giorno prima della felicità è quello che precede l’incontro con Anna di “O Guagliò,” il giorno d’amore con quella del terzo piano, il giorno della felicità, il più terribile della sua poca vita. Il giorno dopo la felicità si sente un alpinista che sbanda in discesa. In questo breve romanzo si fondono due storie: quella individuale del ragazzo e la sua fulminea educazione sentimentale con Anna, una ragazza passionale che gli regalerà attimi di lampante felicità e la Storia collettiva di Napoli in rivolta contro i nazifascisti. Erri De Luca ci trasporta in questa Napoli umana e in perenne lotta con se stessa dove la lingua colorita e ricca di sfumature delinea dei personaggi forse un po’di maniera e datati come immagini oleografici, ma ci regala momenti poetici che illuminano la scena narrativa come quando la natura solidarizza con il popolo e lo stesso sole scalda quelli senza cappotto, perché vuole bene e protegge l’umanità derelitta e semplice.

L’autore: Erri De Luca è nato a Napoli nel 1950. Ha pubblicato: “ Non ora, non qui.” “Una nuvola come tappeto, Alzaia, Montedio, Ecclesiaste, L’ospite di pietra…
Arcangela Cammalleri


PoetiBambini
Autori: Bambine e Bambini
Editore: Anicia
Collana: Sottosopra
Illustrazioni: Alida Massari
Dai sei anni

PoetiBambini, quando essere piccoli è un arte
Poesie allegre e scanzonate, o profonde e meditate, quando i bambini creano lo fanno nell'unico modo possibile: spegnendo la testa ed accendendo il cuore.

PoetiBambini è una raccolta di opere inviate negli anni ad un omonimo concorso di poesia da parte di alunni delle scuole elementari romane di primo e secondo grado. Il testo si compone di 44 piccole perle di sapienza bambina, merce rara, nel mondo folle e frettoloso degli adulti. Cos'è la poesia, per un bambino? E' semplicità, freschezza, grazia. I piccoli artisti sanno esprimersi in totale libertà, senza pregiudizi e soprattutto senza paura, anche quando il tema trattato è legato alla sfera privata, come può esserlo un brutto ricordo del passato o è un emozione ancora tutta da vivere, aspettando il futuro, o è la consapevolezza legata alla sfera del sociale, nel confronto con chi è diverso, fisicamente e culturalmente: "Ho sentito dire che il mio vicino è diverso. Sarà il colore della pelle? Sarà la lingua che parla? Sarà che prega un altro Dio? Ieri l'ho visto in giardino: ha due occhi, due orecchie, un naso, una bocca…" (da Tutti uguali…tutti diversi).
"Siamo bianchi, siamo gialli, siamo rossi, siamo neri, com'è bello il nostro mondo così pieno di colore, se la pelle è differente non ci importa proprio niente…" (da Siamo bianchi, siamo gialli).
Non esiste limite alla fantasia di un bambino, il mondo è un scrigno tutto da esplorare: le nuvole sono "immense mura che ci separano dall'universo", la Luna è "cristallina", la rugiada è "polvere di magia", e se il lettone di mamma e papà è "il mare", i cuscini sono "candidi delfini"…
Alcune delle poesie sono state scritte in gruppo, una addirittura da un'intera classe. Semplice, diremmo noi. Eppure, come ricorda lo scrittore Vinicio Ongini, il poeta adulto non compone mai a quattro o più mani.
I bambini ci riescono benissimo, riescono a sintonizzarsi così bene tra loro da creare una sorta di armoniosa "orchestra poetica". E' in nome di questa condivisione di emozioni che Big Bang, la poesia corale che chiude il libro, ha visto la luce.
La società della comunicazione e del consumo tende a mortificare la naturale fantasia dei ragazzi, troppo spesso il computer, la televisione e i videogiochi sostituiscono il libro, troppo spesso si dimentica che l'educazione alla lettura e lo sviluppo della creatività sono alla base di una corretta crescita culturale.
Le illustrazioni, ricche di calore e colore, in perfetta simbiosi con i testi, sono state affidate all'estro di Alida Massari.
Tatiana Battini


Linea Gotica di Cristoforo Moscioni Negri Edizioni Il Mulino www.mulino.it
Introduzione di Ugo Berti Arnoaldi
Narrativa romanzo
Collana Intersezioni

Ai più il nome Cristoforo Moscioni Negri dirà poco, ma quando un amico mi ha consigliato di leggere un libro originale e senza retorica sulla guerra partigiana, citandomi il titolo e l'autore, ho pensato subito che questo doppio cognome non mi era nuovo e che l'avevo già letto da qualche parte. Ho riflettuto un po' e poi è sbucato dalla memoria il capolavoro di Mario Rigoni Stern, Il sergente nella neve; infatti, il sottotenente Cristoforo Moscioni Negri era un compagno d'armi, durante la campagna di Russia, del grande scrittore di Asiago. Del resto, la pubblicazione del suo primo libro, I lunghi fucili, dove si parla appunto della tragica sorte dell'Armir, fu propiziata da Rigoni Stern, che presentò l'opera all'editore Einaudi, opera si cui conto di tornare in argomento non appena letta.
Fatta questa opportuna premessa, dico subito che Linea Gotica è un libro di estremo interesse, perché sono le memorie di Moscioni Negri del periodo intercorrente fra i giorni immediatamente successivi all'8 settembre 1943 e l'avvenuta liberazione delle Marche e di Pesaro, lasso di tempo durante il quale operò nelle formazioni partigiane.
Non starò a raccontare i numerosi episodi di questa guerra per bande, in cui la figura dell'autore è di primo piano, essendo stato comandante di una brigata Garibaldi, ma preferisco soffermarmi sulla valenza storico-politica del testo, peraltro caratterizzato da una scrittura asciutta, raramente incline a ceselli letterari - ma quando ci sono risultano opportuni e pregevoli -, e che mi ricorda un po' il Cesare Pavese de La luna e i falò.
L'importanza del libro sta in ben altro, cioè è costituita dall'analisi dell'autore dei motivi che l'hanno spinto ad aderire alla Resistenza, compendiati sinteticamente nella completa sfiducia nei confronti del regime fascista e dei nostri comandi militari per la disfatta subita in Russia, nonché nell'amara constatazione dell'incapacità del Re e dei suoi generali di organizzare almeno l'armistizio, con tutte le conseguenze che si ebbero.
C'è da dire anche che l'uomo Moscioni ha un alto senso dell'onore e non può quindi che criticare il disinteresse degli anglo-americani per le formazioni partigiane, mal viste, anche se le stesse dimostravano valore e ampia disponibilità di collaborazione.
Inoltre, e questo è tanto più importante nell'imminenza della ricorrenza del XXV aprile, l'autore marchigiano dimostra lungimiranza nel prendere atto che, a liberazione avvenuta, ritornarono in auge e al posto di comando i vecchi antifascisti che, con il loro comportamento passivo, molto avevano contribuito all'ascesa di Mussolini; a questi si unirono ben presto i soliti profittatori, che avevano fatto lauti affari durante il fascismo e sotto l'occupazione tedesca, nonché figure notoriamente di spicco nel ventennio, insomma si era combattuto e sofferto solo per sollevare un vero e proprio polverone senza che nulla cambiasse.
E così lo spirito della Resistenza, le sue speranze, i suoi ideali cominciarono subito a disperdersi, affondando nella palude putrida del dopoguerra grazie al vecchio ordine che riprendeva i posti di comando.
Ai giovani che avevano combattuto, che sognavano un'Italia nuova e diversa, non rimase altro che constatare con amarezza che l'avevano fatto invano.
E il senso dell'onore di Moscioni non è quello retorico che si richiama in tante cerimonie, ma è la dignità offesa di ogni essere umano che si sente considerato una semplice pedina di un gioco, per lo più sporco, realizzato da pochi altri.
Linea Gotica è un libro assolutamente da leggere.

Cristoforo Moscioni Negri (Pesaro, 1918 - San Marino, 2000). Laureato in Giurisprudenza nel 1940 e in Scienze politiche nel 1942, nonché in Medicina nel dopoguerra, prese parte alla campagna di Russia con il grado di sottotenente nel battaglione alpino "Vestone" e, dopo l'8 settembre 1943, si aggregò alle formazioni partigiane operanti nelle Marche, comandando un battaglione della brigata Garibaldi-Pesaro. Passato il fronte, si unì a un battaglione Gurkha dell'VIII armata britannica, partecipando alla famosa battaglia di Tavoleto (2 settembre 1944).
Sue pubblicazioni: I lunghi fucili (1956, nuova ed. Il Mulino, 2005) e Linea Gotica (1980, nuova ed. Il Mulino, 2006).
Renzo Montagnoli


Gocce di vita di Maristella Angeli - IL FILO - Roma , 2008

C'é una lirica , in questa raccolta di Maristella Angeli , in cui l' Autrice rivela la sua predilezione per il mondo delle fiabe ; ed é quella dal titolo " Con gli occhi di chi ama " . Nel rivedere il film della propria vita , ogni parola espressa per descrivere le emozioni diventa " occhio di chi ama " . Solo l' amore sa dare ad ogni parola l' importanza che merita e trasforma i ricordi in immagini , anche fiabesche . Chi non ricorda , chi non lascia fluire le parole fino a farle diventare immagini fiabesche , si trova " perso nel buio " e si vede precluso tutto un mondo di " boschi incantati " popolati da " ali di fatina " . L' Autrice sembra indicarci , nelle fiabe , la via per superare i momenti drammatici della vita e per riscoprire quello che i nostri occhi in quei momenti non erano riusciti a vedere .
Gianfranco Stivaletti


Rossovermiglio di Benedetta Cibrario I Narratori ed. Feltrinelli pag. 212
Romanzo-Narrativa
Quarta di copertina: “Senti. Andiamo via.”
“Dove?”
“Torniamo a casa. Vengo a vivere con te. Ti insegno a fare il vino.”

Un secolo di storia. Un matrimonio spento. Una passione mitteleuropea. Le colline del Chianti. La passione che spezza un incantesimo lungo una vita.
Torino 1928. La protagonista del romanzo, di cui non si sa il nome di battesimo, ha i contorni di un’eroina ottocentesca, bella, fragile, ancora imbavagliata dalle rigide etichette proprie, della sua classe sociale, l’aristocrazia piemontese, è spinta da una ribellione interiore in nuce non abbastanza forte da governare appieno la sua vita. Queste due antinomie solcheranno il suo percorso esistenziale che dalla adolescenza arriverà alla vecchiaia; circa un secolo di storia dal Fascismo alla Seconda Guerra Mondiale al Dopoguerra fino all’incirca ai giorni nostri, la Contessa vive questa età in bilico tra presente e passato. Un infelice matrimonio combinato prima e un amore con Trott, avventuriero e affascinante uomo dopo che alterna presenze estemporanee e assenze e silenzi prolungati.
Da Torino alla campagna senese, San Biagio, una fattoria abbandonata diverrà il suo buen retiro prima e la sua ragione di vita dopo. Con l’aiuto di Dino si trasformerà in una fiorente azienda vinicola che produrrà vini di grande qualità come il Lunediante e il Rossovermiglio, appunto il titolo del romanzo. Il finale a sorpresa sorprende il lettore e lascia un senso di sperdimento quando i sentimenti del cuore sono repressi esteriormente e la tempesta agita dall’interno abbattendo le certezze e le illusioni. Come la fiaba La bella addormentata nel bosco di Perrault che la scrittrice cita nella storia, la Contessa è addormentata da un incantesimo e il risveglio tardivo non può più modificare gli eventi. I personaggi sono emblematici di una certa classe sociale in cui arroccati nei loro privilegi di casta guardano la realtà dal loro “particolare” educati come sono senza passioni civili o politiche, serpeggia nei loro animi la paura che il mondo cambi e con esso il loro status. Interessante quello che dice un cugino della protagonista nell’attesa dell’esito del referendum del 1946: la paura che le cose cambino per i nobili i cui titoli diventeranno delle paroline in disuso, buone solo per raccontare le fiabe ai bambini, essi sanno conservare, non mutare. Un romanzo vivo, scritto con l’animo, denso di ricordi personali che diventano sociali e storici in un tutt’uno affascinante. Densa la scrittura come la terra vangata e strappata alla sterpaglia e ricondotta alla sua greve fertilità, incantevoli i paesaggi del Chianti, i colori della natura dipinti con amore e passione. Un bel romanzo che senza acclamare al capolavoro rispecchia le qualità artistico-espressive di una narratrice a tutto tondo.

L’autrice Benedetta Cibrario è nata a Firenze. E’ cresciuta a Torino ed è vissuta a lungo in Inghilterra, ma la sua vera residenza, per dedizione e amore della terra, è in Toscana. Questo è il suo primo romanzo.
Arcangela Cammalleri


La palude degli eroi di Marco Salvador Edizioni Piemme
Narrativa romanzo

Avete presente quegli affreschi che nelle chiese si trovano nell'abside, che partono a sinistra dell'altare e in una serie di quadri successivi gli girano dietro per concludersi alla sua destra? Ecco, La palude degli eroi è strutturato così, come se Salvador fosse il pittore chiamato a celebrare la vita di un santo. E' quindi tutta una serie di quadri, legati l'uno all'altro e che danno vita a un affresco di grande bellezza.
Se gli inglesi hanno avuto in Walter Scott con il suo Ivanohe il cantore del loro medioevo, mi sento tranquillamente di indicare l'autore pordenonese come il suo equivalente nel nostro paese.
In questo romanzo ci parla dei da Romano, quella famiglia che raggiunse l'apice della sua fama e fortuna con il condottiero Ezzelino, validamente coadiuvato dal fratello Alberico, ma la figura di questo personaggio, conosciuto, a torto o a ragione, come un sanguinario scompare quasi subito nella narrazione, poiché muore dopo la sconfitta subita a Cassano d'Adda per le gravi ferite riportate. Il fulcro invece di tutta la narrazione è costituito da uno straordinario personaggio, Guido da Romano, figlio adottivo di Alberico e figlio naturale di Ezzelino.
Non intendo raccontare la trama, che presenta in 501 pagine tanti fatti e accadimenti, una vera "summa" di questo protagonista, ultimo rimasto dei da Romano dopo la crudele esecuzione da parte dei papisti di Alberico e dell'intera sua famiglia. Non ci sarebbe infatti abbastanza spazio per una sintesi logica, né è mia intenzione privare il lettore di scoprire pagina dopo pagina il succedersi degli eventi.
Preferisco quindi scrivere di quello che ha suscitato in me questo romanzo, delle impressioni che ne ho ritratto, dell'emozione di cui è riuscito a pervadermi.
Ci troviamo davanti a una vera e propria opera d'arte, abbastanza fedele storicamente, e con tutta una serie di ceselli, che vanno dalla descrizione dei costumi per arrivare perfino alle abitudini alimentari, inseriti con abilità in modo non solo da soddisfare la curiosità, ma da consentire al lettore di immergersi progressivamente in un'epoca.
Fra l'altro, questo risultato è ottenuto in modo mai greve, tanto che il romanzo, se non fosse per la sua notevole lunghezza, si leggerebbe tutto d'un fiato.
Avevo già notato questa capacità di Salvador di avvincere in occasione della lettura del suo ciclo sui longobardi, ma in questo lavoro si è veramente superato, al punto che si ha l'impressione di essere presenti nella vicenda, come spettatori estasiati di un torneo o pavidi testimoni di una battaglia, di cui si ode lo scontro delle armi, si avverte il senso di paura e di follia che anima i contendenti e, perfino, sembra di fiutare l'odore dolciastro del sangue che inzuppa il terreno.
Ma questo, che pur è molto, non è nulla in confronto con la capacità di Salvador di rendere dinamiche le scene, così che si vedono i cavalli galoppare, giungere a contatto con quelli degli avversari, con campi lunghi e altri più ristretti, cogliendo particolari essenziali, proprio come in una pellicola cinematografica.
Adesso, quindi, potete capire il perché questo romanzo risulti particolarmente avvincente e il coinvolgimento è totale, nel senso che ci si dimentica di stare comodamente seduti su una poltrona, ma ci si vede accanto a Guido a duellare, oppure ad ascoltarlo quando si dichiara alla bella e umile Aurora. E questo alternarsi di scene cruente, di supplizi dolorosi, con immagini elegiache della campagna trevigiana, con stacchi incisivi su personaggi minori, che però sono funzionali al racconto, consente di trarre respiro, permette al lettore di abbassare il ritmo, pause indispensabili in una trama che galoppa come un cavallo selvaggio.
Non posso anche dimenticare l'abile caratterizzazione dei protagonisti, nessuno tutto buono o tutto cattivo, ma uomini con pregi e difetti, sia fra gli alleati di Guido che fra i suoi nemici. Se la figura di Ezzelino da Romano viene un po' rivalutata, nel senso che la sua ferocia non era dissimile da quella dei potenti della sua epoca, un trattamento particolare viene riservato alla Chiesa di Roma, intrigante, superba, prepotente e sempre pronta a incrementare i suoi possedimenti. Per fortuna, però, esistono anche umili preti, che con il loro esempio, la loro fede e umanità consentono che una religione non venga identificata con la sua struttura politico-amministrativa; nel romanzo ne troviamo, ancore di salvezza in un mondo di lupi che si sbranano e in cui i potenti, come oggi, decidono delle sorti degli altri uomini.
Non mancano quindi anche motivi di riflessione che finiranno con l'emergere una volta ultimata la lettura, toccando argomenti che credevamo antichi e che invece sono ancora del tutto in corso. Questo è un altro dei pregi di questo lavoro ed è giusto sottolinearlo, perché la narrazione non è fine a se stessa e così riesce a coniugare la spettacolarità con la sostanza, compito questo in cui mi sembra che Salvador sia riuscito assai bene.
La palude degli eroi è un'opera d'arte, un romanzo di rara grande bellezza che vi consiglio di leggere, sicuro che alla fine rimarrete stupiti e soddisfatti.

Marco Salvador nasce il 10 novembre 1948 a San Lorenzo di Arzene (PN), dove tuttora vive. Ha pubblicato numerosi saggi sulle comunità rurali nel medioevo e sulle giurisdizioni feudali minori. Inoltre ha scritto cinque romanzi: Il longobardo (Piemme, 1^ Edizione 2004, 2^ Edizione 2008), La vendetta del longobardo (Piemme, 2005), L'ultimo longobardo (Piemme, 2006), La casa del quarto comandamento (Fernandel, 2004), Il maestro di giustizia (Fernandel, 2007) e La palude degli eroi (Piemme, 2009).
Renzo Montagnoli


Vento scomposto di Simonetta Agnello Hornby
Titolo in inglese There is nothing wrong with Lucy
I Narrativi ed.Feltrinelli pag.401

Il titolo s’ispira all’Ecclesiaste, Capitolo 1, prologo, 6: “ Il vento soffia a mezzogiorno,
poi gira a tramontana;
gira e rigira
e sopra i suoi giri il vento ritorna”.

Quarta di copertina:” Siamo una famiglia felice e normale. Ha capito? Felice e normale”.

Nei ringraziamenti l’autrice dichiara di aver scritto il romanzo prima in inglese e dopo in italiano; la traduzione in italiano non è stata una mera traduzione, ha dovuto reinventare il tono, il passo, il ritmo della storia, dichiara il suo sforzo per rispettare in entrambe le lingue, l’anima intrinseca, l’armonia del linguaggio, la pertinenza del lessico. Un lavoro di cesello e di consulenza psichiatrica.
Nello scrivere questo romanzo ha attinto alla sua esperienza di avvocato, di docente universitario e di giudice.
Nella nota introduttiva, l’autrice ci informa che il Children’s Act del 1989 ha rivoluzionato il sistema legale inglese: il minore ha diritto a un suo tutore legale e a un avvocato a spese dello stato, come i suoi genitori, con lo scopo di sostenere le famiglie e tutelare i minori. Ma negli ultimi 20 anni molte inchieste pubbliche su tragedie causate dall’inefficienza dei servizi sociali, dovute al pesante intervento dello stato sugli organismi di controllo, all’assunzione da parte degli organici dei servizi sociali di personale di agenzie o proveniente dall’estero, inesperto e al ricorso di perizie di psichiatri infantili in situazione che nulla hanno a che fare con la malattia mentale di un minore, hanno sconvolto il pubblico inglese. “Troppi assistenti sociali sono incompetenti e arroganti, troppe famiglie di utenti sono considerati alla stregua di oggetti e non come persone, troppi periti godono di un senso di impunità, al riparo come sono del giudizio pubblico, in quanto i procedimenti sui minori avvengono a porte chiuse per proteggere il minore. E, tristemente, troppe volte la voce del minore rimane inascoltata” .
Con questa premessa inizia l’odissea legale della famiglia Pitt. Vivono a Londra, nel quartiere elegante di Kensington, Mike che lavora alla City come merchant banker, Jenny, consulente di una prestigiosa catena di negozi e le due figlie, in età scolare, Amy e Lucy. In questa, dorata, vita alto-borghese, la calma apparente di questa famiglia viene sovvertita dai sospetti della maestra d’asilo di Lucy che ravvisa nei disegni della bambina segnali di abusi sessuali da parte del padre.
Inizia un periodo nero per Mike e la moglie; vengono interrogati, controllati e passati al vaglio dai servizi sociali, i quali nella loro miope ostinazione innescano un meccanismo tortuoso che trascinano i due coniugi in un incubo che sembra non finire. Per uscire da questo labirinto di accuse ed infamie, Mike si affida all’assistenza legale di Steve Booth, avvocato specializzato in diritto di famiglia che lavora per una clientela disagiata e multietnica di Brixton.
Questo romanzo è completamente diverso dalle prime tre opere della scrittrice, dalla Sicilia con passione in affreschi di famiglia e storie di donne dal passato misterioso all’Inghilterra di oggi, in un contesto forense e di dibattimenti giuridici; storia di costume e inchiesta sociale si frappongono e rilevano le competenze precipue dell’Agnello Hornby, la quale si muove su un terreno usuale con stile e perizia specifica. Si alternano gli ambienti alto-borghesi e i quartieri di periferia, le aule di tribunale e i luoghi cittadini quali mercati, giardini. Il romanzo è costruito sulle esperienze di giurista dell’autrice, attinge ad un materiale sociale e umano che conosce nei loro intimi conflitti famigliari. E’ l’occhio dell’esperto quello che si compenetra in questa umanità in bilico tra innocenza e colpevolezza, è l’osservatorio privilegiato della giustizia che si basa su prove, ma anche su pregiudizi, sospetti o intuizioni fuorvianti, è lo stile specialistico scevro da architetture metaforiche e soluzioni linguistiche fantasiose e permeate da molteplici variazioni. Ne risulta una storia fredda non particolarmente ricca di patos e tensione, i frammenti di vite rappresentati sono ridotti a clienti con cui non solidarizzare, ma piuttosto risolverne tecnicamente le problematiche. Non traspare l’anima della scrittrice, ma la competenza disciplinare e il distacco professionale di chi opera in uno specifico settore. Simonetta nella trilogia precedente aveva abituato noi lettori a storie insaporite da un linguaggio duttile, ricco di sfumature, laddove la libertà espressiva coglie l’ineffabile, l’immanenza dell’esistenza senza la presunzione di decretarne il valore di verità; ma in questa opera prevale l’oggettività dei fatti, la necessità di regolare la molteplicità degli eventi, quando sono alterati dalla fallacità e dalla vulnerabilità umane.

L’autrice Simonetta Agnello Hornby è nata a Palermo. Ha concluso gli studi giuridici in Inghilterra. Avvocato dei minori, dal 1972 risiede a Londra dove divide il suo tempo fra lo studio legale che ha fondato a Brixton prevalentemente al servizio delle comunità immigrate, la formazione professionale e la presidenza del Tribunale di Special Educational Needs and Disability. Con Feltrinelli ha pubblicato La Mennulara (2002), La zia marchesa (2004), Boccamurata (2007): best-seller in Italia e venduti in tutto il mondo.
Arcangela Cammalleri


In viaggio con Dante all'inferno di Salvo Zappulla Fermento Editore www.fermento.net
In copertina Zappulla con Dante
elaborazione fotografica
di Ferdinando Scalamandrè
Narrativa romanzo
Collana Percorsi della Memoria

Un sogno è la trama di questo libro, ma è uno di quelli fatti a occhi aperti e anche se nasce da un intervento di Dante Alighieri che sveglia l'autore proponendogli di fare un viaggio con lui all'inferno si potrà constatare come il richiamo alla Divina Commedia sia un pretesto, il semplice supporto strutturale per dare vita a un'opera che è completamente diversa.
Pagina dopo pagina ci si accorgerà, così, che quell'inferno, del tutto differente da quello creato da Dante, è purtroppo una realtà e corrisponde all'Italia contemporanea, popolata da peccatori di diverso livello che si trovano a loro agio nei vari gironi, più da considerarsi associazioni di categoria di delinquenti che delle vere e proprie sezioni in cui vengono inflitte le giuste punizioni.
Quello che fa la differenza con altri libri che descrivono l'andazzo del nostro paese sta nell'ironia garbata dell'autore che riesce a fornirci un quadro d'insieme senza ricorrere a una satira sguaiata e spesso becera, senza far leva sulle caratteristiche fisiche o intellettuali dei personaggi, ma facendoci intuire chi siano con poche illuminanti parole.
Più che ridere si sorride e in questo modo si riflette, un fattore determinante questo per accorgerci che in fin dei conti anche noi siamo parte di questo inferno, per lo più vittime consapevoli e spesso rassegnate.
C'è tutto il nostro paese nell'ultimo mezzo secolo, dai giorni in cui è nata la democrazia all'epoca delle trame nere e rosse, fino ad adesso, con personaggi sotto gli occhi di tutti e ancora ben in auge.
Insomma, la Divina Commedia, fatta eccezione per qualche piccolo meccanismo di struttura, non c'entra proprio, e il sommo Dante, guida di questo viaggio, sembra uno che ha veramente smarrito la retta via, e per quanto la fantasia dell'autore nel descriverlo abbia il suo peso non indifferente, finisce con il rappresentare un pover'uomo alla mercé dei tempi, spesso confuso, e incapace di distinguere l'apparenza dalla realtà, dando vita così ogni tanto a situazioni amaramente umoristiche.
E' così che una vicenda surreale si trasforma piano piano nello specchio della realtà, insomma a un inferno, ma in terra.
Scritto in modo assai accattivante, In viaggio con Dante all'inferno è un romanzo che si legge con piacere e che invita a riflettere sulla nostra situazione attuale.
La lettura è quindi più che raccomandabile.

Salvo Zappulla è nato il primo marzo 1961 a Sortino (SR), dove tuttora vive.
Giornalista e scrittore, ha pubblicato varie opere di narrativa e fiabe per bambini: L'ombra (Prova d'autore, 1999), Io Lira (Terzo Millennio, 2002), Il mostro (Armando Siciliano editore, 2003), In viaggio con Dante all'inferno (Fermento, 2007), Lo sciopero dei pesci (Il pozzo di Giacobbe, 2008).
I suoi romanzi sono stati corredati da schede didattiche e adottati come testi di narrativa nelle scuole medie. E' il presidente dell'associazione culturale "Pentelite" che organizza la Mostra Mercato dell'editoria siciliana a Sortino; è il presidente del Concorso Letterario Nazionale "Città di Sortino". Cura annualmente la rivista "Pentelite". Collabora alla pagina culturale del quotidiano "La Sicilia", alla rivista "I siracusani", al quindicinale " La voce dell'Isola". Nel 2006 si è classificato secondo con un testo teatrale inedito al premio Massimo Troisi.
Indirizzo mail: salvozappulla1@virgilio.it
Renzo Montagnoli


Briciole d’eternità di Fabrizio Manini Edizioni Polistampa Firenze www.polistampa.com
Introduzione dell’autore
Prefazione di Franco Manescalchi

Poesia silloge

Quando ho ricevuto questo libro, unitamente all’ultimo “Tentazioni”, ho provato come un brivido, perché mi sono trovato fra le mani, contemporaneamente, la prima e la più recente raccolta di poesie di Manini.
E’ un po’ come se avessi avuto davanti un neonato e un adulto, e a proposito di nascite occorre precisare che questo Briciole d’eternità è uscito dalla tipografia nel lontano 1997, cioè dodici anni fa.
In tutto questo tempo sono seguiti altri volumi, da   Ballate di vita di morte e d’amore a Voglio che dio mi mostri il suo volto, da Grigie distese fino a Tentazioni, una produzione di tutto rispetto considerata anche l’età dell’autore.
Ma l’emozione, che poi era la causa del brivido, derivava da altro, quasi dal desiderio di scoprire archeopoeticamente gli inizi di un’artista di cui conoscevo tutte le opere, meno la prima; insomma l’autore di questa silloge non mi è sconosciuto, ma la curiosità di sapere come scriveva alle origini giustifica ampiamente l’interesse con cui mi sono accostato a questo libro.
Forse volevo cercare conferme, forse mi interessava vedere l’avvio di una evoluzione artistica ancora ben lontana dall’esser conclusa, o meglio ancora cercavo il tassello mancante, quella molla che ha dato origine a una complessa arte poetica; e come ci si emoziona per la nascita di un bimbo, la stessa cosa avviene per quella di un poeta di cui già si apprezzano le qualità.

SERA
La notte di un cielo blu
solcato da nere nuvole
di squarci di morte
per la vita di chiunque
beva il suo velenoso sangue,
e una pallida luna beffarda all’orizzonte.

Questa è la prima della silloge e ha fugato ogni timore, perché rientra pienamente, anzi dà l’avvio a quel percorso che Manini, volume dopo volume, ha approfondito e che nell’ultimo “Tentazioni” ha saputo ancor più esplicitare, in quella ricerca di sé, in quella introspezione, volta a cercare il perché dell’esistenza;  fra tanti elementi di quest’ultima già in questa poesia delinea come interlocutore inconscio quello che è certo in ogni essere umano: la morte.

E’ presente pure quella malinconia di fondo che caratterizza tutta la produzione di Manini e che in taluni casi sfocia in una consapevole tristezza, come in Indifferenza (Niente / è per l’uomo angosciato / il dolore dell’umanità / sofferente; / nulla / è per l’umanità angosciata / il dolore dell’uomo / che soffre.). A prima vista sembrerebbe emergere un cinico pragmatismo, ma invece in questo autore c’è una naturale attitudine a portare su di sé il dolore dell’uomo, in quanto tale, e quindi dell’intera umanità, una sofferenza di vivere frutto di un pensiero non nichilista, ma dalla rassegnata constatazione che a noi è imposto vivere come protagonisti di un piano che non ci è dato di modificare, nemmeno sapendo perché esistiamo, ferma l’unica certezza della fine.

Lo stile è un po’ diverso dall’attuale, circostanza del tutto naturale, ma già si nota l’impostazione nel verso libero di periodi brevi, di poche sillabe, quasi che ci fosse anche la sofferta pudica ritrosia di mettere nero su bianco le idee, come in Ferite ( Verdi altipiani / corrono / nell’azzurro del cielo, / ma una lama / non lascia fuggire / la loro speranza.).

Non so se questo volume sia facilmente reperibile, anche se figura ancora in catalogo (al riguardo andate sul sito dell’editore), ma se lo trovate prendetelo al volo e il perché lo capirete leggendolo, ma altrettanto importante, secondo me, è che facciate il confronto con l’ultimo, con quel “Tentazioni” che, a mio avviso, è un’opera di grande pregio.

Fabrizio Manini è collaboratore de Il Foglio Letterario dal 2001. All'interno delle Edizioni Il Foglio è direttore della collana Autori Contemporanei Poesia. Ha pubblicato Briciole d'eternità (Edizioni Polistampa, 1997), Ballate di vita di morte e d'amore (Edizioni Il Foglio, 2002), Voglio che dio mi mostri il suo volto (Edizioni Il Foglio, 2004), Grigie distese (Edizioni Il Foglio, 2005), Tentazioni (Edizioni Il Foglio, 2009). Suoi racconti e sue monografie si trovano sui siti www.arteinsieme.net e www.lankelot.eu 
Renzo Montagnoli


Il pianoforte a coda di Valentino Rocchi Giraldi Editore www.giraldieditore.it
Narrativa romanzo

Mi sono abituato ai temi e alle ambientazioni che Rocchi usa trattare nei suoi romanzi. Infatti, fatta eccezione per lo storico 1504 - Notte all'Hostaria La Guercia, che, secondo me, oltre a essere il migliore che ha scritto in assoluto è un capolavoro, è presente sempre quell'ambiente rurale della piccola proprietà contadina o della mezzadria, che gli è evidentemente così caro da renderlo sempre in modo notevolmente efficace, pur nelle differenze delle storie, ambientate o a cavallo fra le due guerre, o nell'epoca immediatamente successiva alla fine della seconda. I suoi personaggi sono loro stessi legati alla terra, a un modo di vita quasi patriarcale ed esprimono, pur negli inevitabili difetti propri di ogni essere umano, qualità positive, in particolar modo quella della continuità, che può tradursi anche nel cambiamenti di un'attività, ma con gli occhi e con il pensiero sempre rivolti al mondo dei campi, ai suoi ritmi, alle sue fatiche, ma anche alle gioie di essere in sintonia con la natura.
Costituisce quindi una vera sorpresa il suo recentissimo Il pianoforte a coda, perché è completamente diverso da tutti gli altri. Infatti è ambientato in questi anni ed è la storia di un impiegato di banca che desidera più libertà e lascia il posto per fare l'ambulante, anche perché si invaghisce di una misteriosa e bella, ricca ereditiera.
Non mancano frequenti colpi di scena, con un'alternanza di passaggi dal giallo al rosa e addirittura con un'intrusione, felicissima questa, nel mondo dell'alta finanza.
E poi sono presenti tanti personaggi, ben delineati, variegati nelle caratteristiche, forse troppo caratterizzati in quelle positive o in quelle negative, sì da rappresentare più che una realtà dei simboli.
Assai piacevole da leggere Il pianoforte a coda si rivela in realtà una bella storia d'amore, anzi di un amore che matura gradualmente, per arrivare poi all'apoteosi nel finale.
Il testo, nel suo insieme, risulterà particolarmente gradito al lettore, perché offre la possibilità di trascorrere piacevolmente alcune ore senza che si debbano provare particolari e accentuati patemi d'animo, pur in presenza di spunti di riflessione sui quali in seguito, a libro ormai chiuso, si potrà indubbiamente ritornare.
Il pianoforte a coda è un buon romanzo e ne consiglio la lettura.

VALENTINO ROCCHI, nato a Savignano sul Rubicone, risiede sin dall'infanzia a Pesaro. È socio corrispondente della Rubiconia Accademia dei Filopatridi di Savignano sul Rubicone.Si è avvicinato alla narrativa, con libri di ampio respiro e di trame avvincenti, dopo una vita di intenso lavoro. Ha pubblicato: "Una Storia a Castelvecchio" (Società editrice Il Ponte Vecchio - Cesena); "L'Eredità di Venanzio" (Guaraldi - Rimini) Vincitore del Premio letterario "Il Pungitopo" 2001."Notte all'Hotel La Guercia" (Argalìa Editore);"Gli uomini di Bluma" (Giraldi Editore) II Classificato al Premio "Palazzo al Bosco", 2002;"La saggezza di Toni" (Giraldi Editore);Esce nell'anno del V centenario della morte di Pandolfo Collenuccio, uomo di corte e di legge, dalla vita straordinariamente avventurosa: "Notte all'Hostaria La Guercia", Pandolfo Collenuccio, uomo di corte del XV secolo, (Giraldi Editore) ambientato nel XV secolo, di cui è l'autore è profondo studioso e conoscitore; nel 2008 "La Magia del fuoco" (Agemina) e "1504 - Notte all'Hostaria La Guercia" (Agemina); nel 2009 "Il pianoforte a coda" (Giraldi Editore) .
Renzo Montagnoli


Fregati dalla storia di Lodovico Ellena Edizioni Solfanelli www.edizionisolfanelli.it
Saggistica

Forse il titolo non è dei più appropriati, perché in effetti non mi sembra pertinente con l'argomento svolto, teso a chiarire o spiegare nomi o eventi che generalmente nella maggior parte di noi si hanno come acquisiti, in forza di una conoscenza che si potrebbe definire superficiale.
Ora, il libro di Ellena non ha pretese di approfondire temi, ma di chiarire ed eventualmente di correggere. In questo senso può essere considerato valido e particolarmente riuscito, una sorta di Bignami che, oltre ad essere ovviamente di facile consultazione, invoglia a cercare conferme o a riesumare concetti che spesso esprimiamo senza essere consapevoli.
Così, tanto per fare un esempio, c'è un intero capitolo dedicato ai simboli misteriosi, fra i quali troviamo la croce celtica e il pentacolo. Tutti sappiamo come sono fatti, forse abbiamo una vaga idea su quel che rappresentano e allora basta andare su questo libro e la nostra naturale e opportuna curiosità avrà l'occasione di essere esaudita.
Ci sono poi notizie su fenomeni di costume, come la notte di Halloween o sul mestiere più antico, insomma, non tutto, ma molto e quel molto spiegato con termini semplici, in modo sintetico, ma non per questo incompleto.
Non mancano anche i personaggi, come i teorici anarchici, o un Napoleone visto sotto una luce diversa, non tanto l'ardimentoso generale, ma il sistematico e freddo repressore dei rivoltosi delle Antille, talmente razzista da dire in una circostanza "Il male che fanno gli ebrei non deriva dal singolo individuo, ma dalla stessa costituzione di questo popolo.".
Poi ognuno trarrà dalla lettura di queste notizie gli elementi che più gli sembreranno utili, magari solo contento di aver avuto una conferma, oppure soddisfatto per aver capito finalmente il significato di certi fatti, come potrà anche dissentire in tutto o in parte, circostanza questa tuttavia meno probabile, perché il rigore scientifico dell'autore è comprovato.
Quindi sono dell'idea che questo libro presenti caratteristiche di utilità tali da consigliarne la lettura.

Lodovico Ellena è nato a Torino nel 1957, ha viaggiato molto e si è laureato in filosofia a Torino. Ha avuto discreta notorietà con il gruppo neopsichedelico Effervescent Elephants, con l'edizione di vari dischi. È stato vice-preside, poi direttore, in un liceo torinese. Svolge numerose attività politiche e collabora a vari giornali.
Ha pubblicato le seguenti opere: Smacacando un macaco (racconti di umorismo assurdo, Vercelli 1996), Non me ne frego più (Menhir, Sanremo 1997), Dove osano le coccinelle (Menhir, Sanremo 1998), Storia della musica psichedelica italiana (Menhir, Sanremo 1998), Neofascisti in bicicletta (Menhir, Sanremo 2000), Una strana storia intorno a un lago (Menhir, Vercelli 2001), Storie comuniste in bianco e nero (Menhir, Sanremo, 2001), Vicoli di storia. Quello che non si trova sui corsi (Menhir, Vercelli 2002), Camerati in cattedra. Mit pistolen (Menhir, Sanremo 2003), Gli elefanti che furono effervescenti (Menhir, Vercelli 2003), Archeologia in pillole (con Walter Camurati, Menhir, Vercelli 2004), La riconquista della posizione eretta (Menhir, Vercelli 2004), La patente europea del fascista (Tabula fati, Chieti 2004), Kulturkampf (Tabula fati, Chieti 2005), Riflessioni sulla storia (Tabula fati, Chieti 2005), Gaudeamus Igitur (Menhir, Vercelli 2005), Le pagine strappate della Resistenza (Tabula fati, Chieti 2006), Ruminando Messalina (Tabula fati, Chieti 2006), Le pagine ritrovate della Resistenza (Tabula fati, Chieti 2007), Educazione cinica (Tabula fati, Chieti 2007), Il Nazismo (Alpha Test, Milano 2007), Misteri (Menhir, Vercelli 2008), La violenza della democrazia (Tabula fati, Chieti 2008), Torino segreta (Menhir, Vercelli 2008), Strade e uomini di Alice Castello (Menhir, Vercelli 2008), Fregati dalla storia (Solfanelli, Chieti 2009) e Ogni alba eredita un tramonto (Menhir, Vercelli 2009).
Renzo Montagnoli


SEGNI di Tinti Baldini Altromondo Editore

È difficile per me recensire le poesie di Tinti Baldini,mi è difficile essere obiettiva,mi è difficile scindere il Poeta dall'amica,la donna dall'artista o forse non dovrei cercare di capire una personalità così poliedrica e viva.La sensazione che si ha leggendo le poesie di Tinti è quella di una donna che ha vissuto molto dolore affrontandolo sempre con coraggio e dignità,la vita non le ha risparmiato prove e lei coi suoi versi mette nero su bianco i segni della sua esistenza fatta di amore per il suo lavoro,per i suoi ragazzi,per i figli,per gli amici,l'amore per la vita sopra ogni cosa,perché Tinti sa che la vita è fatta di lacrime e risate,sangue e sudore.
Per vivere bisogna sporcarsi con la vita che raramente regala qualcosa e tutto si paga in un modo oppure in un altro,noi siamo anche in coloro che amiamo ,quando scegliamo di amare perché coloro che amiamo ci qualificano,ci mostrano per come siamo nella nostra fragilità di amanti.
Tinti nelle sue poesie sperimenta con le parole,tenta con successo di far divenire i suoi sentimenti parte di un linguaggio che si può sentire sulla pelle,che ti attraversa il cuore.
Sono poesie piene di una spiritualità quasi materialista,la parte divina di Tinti è integrata con il suo essere fatta di carne e sangue,nel suo essere femmina,amante,madre,amica e poi poeta.
C'è un dio che non si vede ma è presente nell'amore espresso per l'umanità intera,per lo straniero come per l'amico,per il figlio come per l'alunno,ed è il dio dell'amore per il prossimo,non così semplice da provare,che ci salva e ci fa umani e vivi.
Io ho sentito questo nelle poesie di Tinti Baldini,i suoi segni sono graffi sull'anima,strappi improvvisi nelle nuvole,increspature sulla spuma del mare,brividi sulla mia pelle.
Quello di Tinti è uno stile scarno,scevro di ogni orpello,è come una donna bellissima e fiera della sua bellezza,consapevole di non necessitare di trucchi vari.
E' uno stile che mi fa pensare ai suoi versi come freccette che arrivano al bersaglio,giusto al centro,freccette intrise d'amore.
Maria Attanasio


Tentazioni di Fabrizio Manini Edizioni Il Foglio Letterario www.ilfoglioletterario.it ilfoglio@infil.it

Introduzione di Taylor Grant Hawkes
Prefazione di Renzo Montagnoli
Elaborazione grafica di Elena Migliorini
Collana Autori Contemporanei Poesia
Poesia silloge

Penso che qualcuno potrebbe chiedersi il perché di questo mio commento critico, visto che di questa silloge sono stato già il prefatore, ma gli risponderei che, nulla rinnegando di quello che ho già scritto e che forse altri avrebbero meglio esposto, le inevitabili successive pause di riflessione mi hanno indotto a stilare questa recensione in modo del tutto particolare, al fine che sia meglio comprensibile il pensiero filosofico dell’autore e la sua ars poetica.
Ad ogni buon conto riporto di seguito la mia prefazione e continuerò, riallacciandomi ad essa, a svolgere quello che ho in mente e che auspico possa risultare comprensibile, a tutto beneficio di una serena valutazione dell’opera.

Un uomo e la vita, un essere brancolante nel buio nella ricerca  della comprensione di ciò che veramente caratterizza e dà un senso all’esistenza.
Il poeta, nell’osservare se se stesso e il mondo che lo circonda, adotta una lente che è una specula dell’anima, così che più che parlare della realtà oggettiva descrive le sensazioni che ne ritrae, non sempre condivisibili, ma sicuramente percettibili.
Fabrizio Manini in Tentazioni ci offre la sua interpretazione dei grandi temi della vita, osservati da un’ angolazione che, pur portando a una realtà soggettiva, offre al lettore spunti, riflessioni, indagini che finiscono per coinvolgerlo, perché l’esistenza ha eguali elementi salienti per tutti.
Ma se l’amore, così tanto cantato, sognato, idealizzato, sublimato da altri poeti, qui trova una sua malinconica espressione, come di un desiderio soffocato da un velo di pessimismo alla cui base c’è il rifiuto di qualsiasi forma di omologazione, la morte è il tema ricorrente, puntualizzato, ripetuto quasi ossessivamente anche per inconscia sdrammatizzazione.
Dunque, eros e thanatos, temi ricorrenti in poesia fin dai tempi antichi, ma anche metafore, laddove si consideri che l’amore, per quanto tribolato e sofferto, rappresenta la vita, mente la morte è appunto la sua antitesi e, nel pensiero di Manini, è l’unica certezza di tutto un percorso in cui le altre presenze sono solo riflesso di una volontà di celare  ai nostri occhi quale è il nostro comune destino.
In questo senso, anche il titolo dell’opera, Tentazioni, trova il suo significato più appropriato, in una chiave di religiosità naturale che vede nei desideri difformi dalla naturale essenza umana delle chimere che ci creiamo per distoglierci dal grigiore quotidiano.
Così, anche il dialogo con la morte finisce con il divenire l’illusorio obiettivo di una congiunzione a priori, una proiezione dei nostri timori, delle nostre angosce che ci rende consapevoli delle stesse, finendo quindi per accettare il nostro stato di pavidi mortali.
In queste poesie c’è tutto il frutto di una lunga maturazione, di una autoanalisi, spesso impietosa, che ha portato il poeta gradualmente a una corrosiva rassegnazione, in un pessimismo sottile che si dilata oltre i normali confini della nostra dolenza, ma che ha il pregio di fargli riscoprire una virtù quasi desueta, quella pietà che ancora può farci accettare la vita per quel che è.
E se l’esistenza è permeata da una magmatica rabbia interiore che porta anche all’odio, a quell’odio di vivere che nei versi traspare in un lacerante urlo silenzioso, resta comunque il malinconico flusso di un pensiero che si fa carne per poter dire:

 Qualcuno ha detto
che non si finisce mai
di morire.
Non ho fatto altro,
non so fare altro.

….

Questa è una silloge sofferta, ma anche una confessione liberatoria che a tratti travolge il lettore, pur senza sconvolgerlo, perché in ciò che è scritto non è difficile ritrovarsi, giorno dopo giorno, ora dopo ora, in un’esistenza in cui solo le tentazioni permettono di sopportare il male di vivere.

Sono trascorsi alcuni anni da Ballate di vita, di morte e d’amore, lavoro che già connotava le caratteristiche dell’autore, e una lenta, ma proficua evoluzione, ha portato al compimento di questa opera di indubbia maturità, non solo stilistica, ma anche di pensiero.
Il tempo passa per tutti, ma per un poeta è l’occasione per aggiungere riflessione a riflessione, per scendere sempre più in profondità dentro se stesso, cercando di dare risposte a domande primordiali che tuttavia assumono con l’esperienza e situazioni contingenti diverse vesti nuove, quasi camuffate, ma sotto l’abito sono sempre loro: perché esisto, chi sono, dove vado.
Sono quesiti, che esplicitamente o anche in modo larvato, appaiono già nelle citate ballate, così come nelle opere successive,  cioè Voglio che dio mi mostri il suo volto e Grigie distese.
E’ un percorso di conoscenza che, senza portare a comprensioni assolute, ogni volta consente di vedere un po’ più in là, di rischiarare, magari solo appena, il buio che, più che fuori, è dentro di noi.
Manini con Tentazioni non arriva a risposte certe, né mai vi arriverà e così anche gli altri poeti, ma acquista un barlume di verità tale da permettergli di proseguire in questo viaggio dentro se stesso con la convinzione che la via prescelta sia quella giusta.
Posto che la morte è l’unica certezza, si aprono così tanti sipari di fronte a quesiti che sempre, ma soprattutto ora in questa civiltà dell’apparenza, sono imprescindibili dalla logica raziocinante della mente e dall’impeto naturale dell’animo.
Se le tentazioni sono falsi scopi per farci accettare la monotonia della vita, è altrettanto vero che già l’aver evidenziato questa circostanza rappresenta una svolta, una pietra importante nella tormentata ricerca della risposta alla domanda “chi siamo”.
E, nella malinconia di chi procede a tentoni sapendo che altro non potrà fare, si snodano i versi di un tormentato colloquio intimo di cui il lettore a poco a poco diventerà partecipe.
Tentazioni è sicuramente un’opera caldamente raccomandabile.

Fabrizio Manini è collaboratore de Il Foglio Letterario dal 2001. All'interno delle Edizioni Il Foglio è direttore della collana Autori Contemporanei Poesia. Ha pubblicato Briciole d'eternità (Edizioni Polistampa, 1997), Ballate di vita di morte e d'amore (Edizioni Il Foglio, 2002), Voglio che dio mi mostri il suo volto (Edizioni Il Foglio, 2004), Grigie distese (Edizioni Il Foglio, 2005), Tentazioni (Edizioni Il Foglio, 2009). Suoi racconti e sue monografie si trovano sui siti www.arteinsieme.net e www.lankelot.eu
Renzo Montagnoli


Il giorno della civetta di Leonardo Sciascia Adelphi Edizioni
In copertina Tavola del gioco degli scacchi
di Fabrizio Clerici
Narrativa romanzo
Collana Gli Adelphi

Basterebbe già lo sfolgorante incipit con quella corriera che sta per partire nella piazza di un paese siciliano, che anzi si avvia fra sussulti vari e poi si ferma perché il bigliettaio si accorge che un ritardatario richiama l'attenzione correndo; ecco, si apre la porta del mezzo, l'uomo vestito di scuro si appresta a salire, ma due colpi squarciati lo fermano un istante a mezz'aria e infine lentamente, quasi al rallentatore, il corpo finisce per afflosciarsi.
Dico basterebbe, perché la scena è talmente viva che sembra di essere presenti, lì in un'alba livida con le sfilacce di nebbia, e questo non è che l'inizio di un romanzo che avvince, costringe il lettore a convivere con i personaggi, a respirare l'aria di paura, ad annusare il pericolo a ogni svolta, immerso nell'atmosfera quasi rarefatta della realtà di un'isola soffocata e dominata dalla mafia.
La scrittura di Sciascia volutamente tralascia il superfluo, è essenziale, precisa, ritaglia i protagonisti con la precisione di un bisturi nelle mani di un chirurgo estetico. Nulla è lasciato al caso e tanto meno al compiacimento, affinché l'atmosfera sia resa nel modo più esatto possibile.
Le pagine scorrono, le dita le girano impazienti e anche intimidite; il viaggio all'interno di un inferno di apparente normalità è quanto di più grande al riguardo sia mai stato scritto.
Fantasia, invenzione? Certamente, ma è un castello costruito su elementi oggettivi, su situazioni presenti, dove cambiano solo i nomi, magari anche gli eventi, ma la sostanza resta e con essa quel patema d'animo che prende chi si appresta a diventare vittima, chi riesce a mettere le mani sui colpevoli, con la certezza che, nonostante le prove, questi non espieranno mai le proprie colpe.
Tutto questo in un mondo che pare in preda al torpore, dove un capo mafioso si ritiene membro di un ordine cavalleresco, quasi un paladino al punto di tributare al suo avversario investigatore l'onore delle armi, considerandolo degno di essere chiamato uomo per la sua onestà, la sua correttezza, per essere in pratica un nemico che sta vincendo una battaglia, pur consapevole di perdere tutta una guerra.
Ci sono i legami con la politica, per non definirli addirittura, più che convivenze, identificazioni, c'è tanta amarezza nelle figure di chi è chiamato al dovere di servitore dello stato e che lo pratica fino in fondo, fra mille difficoltà, continui ostacoli da parte di esponenti di quello stesso stato per il quale lui si sacrifica.
Il romanzo di per sé è un capolavoro, ma ha anche un pregio di carattere storico, perché è uscito in un'epoca in cui il governo negava esplicitamente che esistesse la mafia, definiva certi omicidi come frutto sì della malavita, ma non di una struttura sorta come un'istituzione dentro allo stato e in antitesi allo stesso, e ciò nonostante l'evidenza dei fatti, a chiara dimostrazione che la cupola dell'organizzazione non stava a Palermo, ma a Roma.
Dal 1960, quando fu scritto questo romanzo, sono passati quasi dieci lustri, ma purtroppo è rimasto di drammatica attualità.
Da leggere, perché è stupendo e perché si sappia veramente che cos'è la mafia.

Leonardo Sciascia (Racalmuto, 8 gennaio 1921 - Palermo, 20 novembre 1989). E' stato autore di saggi e romanzi, fra cui: Il giorno della civetta (Einaudi, 1961), A ciascuno il suo (Einaudi, 1966), Todo modo (Einaudi, 1974), La scomparsa di Majorana (Einaudi, 1975), Candido, ovvero un sogno fatto in Sicilia (Einaudi, 1977), Il cavaliere e la morte (Adelphi, 1988), Una storia semplice (Adelphi, 1989).
Renzo Montagnoli


Il cerchio infinito di Renzo Montagnoli Edizioni Il Foglio Letterario www.ilfoglioletterario.it  ilfoglio@infol.it
Introduzione dell'autore
Prefazione di Fabrizio Manini
In copertina "Galassia M 104"
fotografata dal telescopio spaziale Spitzer della NASA
Elaborazione grafica di Elena Migliorini
Poesia silloge

Tutta la natura, il mondo, l'universo intero, e perfino gli spazi interstellari danno al poeta Renzo Montagnoli occasioni continue di riflessioni poetiche, tanto da poter affermare che è proprio insita nel mondo la sua poetica.
Non saprei dire se Renzo osserva i quadri naturali che gli si presentano agli occhi dell'anima e ne descriva poi le bellezze poeticamente oppure se non si lascia sfuggire semplici spunti dai quali poi dipinge dei delicati quadri poetici con lievi tocchi di pensiero.
Nella nuova silloge, Il cerchio infinito, già dalla lettura delle prime poesie, e poi sempre più fino alla fine, si ha l'impressione di essersi improvvisamente messi nello stesso luogo dell'anima del poeta e di osservare dal suo stesso angolo visuale il mondo, ed è come essere trasportati in una dimensione del tutto nuova, soffusa di mistero, ma con un'audacia che solo un poeta può permettersi. L'osservatore attento coglie minimi particolari di ciò che lo circonda, in un silenzio e in una solitudine in cui tutto appare trasfigurato. Il poeta infatti è alla ricerca di comprensione, solleva il velo delle apparenze per trovare il nucleo profondo, l'origine e il senso di quel disegno perfetto che intravede solo in parte e che gli fa intuire la pienezza e la perfezione del sistema di cui fa parte. È a questo punto che l'anima è presa da un senso di vertigine e cerca degli appigli per tenersi salda. Ed è a questo punto che il poeta lascia il passo a qualcosa o qualcuno che è al di sopra delle sue possibilità di comprensione logica, per poter accettare serenamente la sua posizione nel mondo. Si rende conto del valore delle più piccole cose come parti indispensabili dell'insieme, pensa all'essere umano come a un minuscolo granello, a una minima particella se paragonato all'immensità dell'universo. Ma la sua visione del mondo va oltre queste considerazioni quasi intimistiche, soggettive, per espandersi all'insieme dello spazio e del tempo e per ritrovare in essi quell'incommensurabilità che fa sentire spaesati, straniati, ma nello stesso tempo fa acquisire una certezza in un certo modo consolatoria: non ci può mai essere una fine, nell'eterno ritorno ogni punto finale rappresenta anche l'inizio di qualcosa di nuovo. E così il poeta ricollega la vita degli esseri viventi tra di loro, fa appartenere l'anima al regno dell'eternità, perché se è vero che al momento è insediata in un corpo materiale che avrà una sua fine, il suo destino è di prendere una nuova dimora in un corpo a cui insufflerà nuova vita.
Nelle sue liriche, il poeta non utilizza rime tradizionali per non imbrigliare il suo pensiero che invece lascia fluire in un narrare continuo, che acquista il suo senso poetico non tanto e non solo dalla sinteticità del contenuto, quanto dalla trasposizione del senso degli aspetti narrati. Questi appaiono in superficie piuttosto familiari ma, nel profondo, e nel complesso di ciascuna poesia e di tutte le poesie della silloge, acquistano un sapore poetico del tutto nuovo. E questo fluire incessante del pensiero del poeta assomiglia a una interminabile colata magmatica del suo vulcano interiore, da dove prorompono le più profonde emozioni, insieme a un senso di malinconia legato strettamente con quel senso di mistero che avvolge ogni cosa del mondo. Fino a sfociare, alla fine, nella certezza di ritrovare una luce al termine del percorso umano dell'esistenza, attraverso la quale quel mistero ora solo intravisto, ma del tutto incomprensibile, si svelerà.
Anche il sentimento del tempo che trascorre e si porta via pezzi di vita, salvo restituirli in tutta la loro vividezza attraverso i ricordi, è reso con un'efficacia fuori dal comune quando se ne rileva in qualche modo una sorta di atemporalità: sembrerebbe una contraddizione in termini, ma cos'altro può significare l'acuta osservazione che un tempo che appare lunghissimo persino ad un bimbo è un istante per un anziano, o ciò che rappresenta la vita intera per un insetto è un istante per un essere umano? Il tempo ci sovrasta e ci vive, non siamo noi che viviamo il tempo o che viviamo nel tempo, perché la sua durata è così asincronica! Talvolta all'interno del nostro stesso animo, e quante volte non l'abbiamo sperimentato…!? E tuttavia, anche il tempo non avrà fine, e quello che per la nostra esistenza rappresenterà una fine, sarà l'inizio per un'altra esistenza e così all'infinito. Qui s'inserisce con forza quel bisogno individuale autentico, non indotto, di riempire intelligentemente il nostro tempo per dare un senso soddisfacente all'esistere, per quel che ci è possibile, prima di varcare la soglia dell'ultimo approdo, lasciando in altre mani il filo della continuità…
Ora è certo una mirabile scelta la tematica filosofica di questa silloge, compendiata magistralmente nel titolo, Il cerchio infinito, perché ciò che non ha misura, ciò che non ha mai fine e non si può neppure facilmente rappresentare né con la mente né men che meno racchiudere in parole e in concetti che forzatamente ne limiterebbero gli inesistenti argini, non si può che far continuamente "girare" soltanto all'interno di un cerchio infinito. In questo modo pare che anche la nostra mente e la nostra anima acquistino una tal dimensione, aperta, illimitata, in continua espansione, (esattamente, per quel che se ne sa, come l'universo), che ci appaga.
Un altro aspetto importante che si coglie dalla lettura delle poesie di questa silloge, già rilevato ma che vorrei ancora sottolineare, è il completo assorbimento dell'anima del mondo nell'anima del poeta e viceversa. C'è un'introiezione profonda della natura, dello spazio, del tempo, dell'universo, che si combina in un tutt'uno con il respiro del poeta e che si trasferisce pari pari al lettore ed è come se si venisse proiettati in una dimensione metafisica: è proprio da questa prospettiva, in cui mi sono ritrovata senza quasi rendermene conto, che sono riuscita a cogliere tutto ciò che ho scritto.
E la presente recensione è scaturita spontaneamente insieme e man mano che procedevo nella lettura delle poesie. Per questo, per le sensazioni che mi ha fatto provare, mi sento in dovere di ringraziare Renzo attraverso queste mie riflessioni, fuoriuscite dall'anima esattamente come il magma interiore che egli stesso non è riuscito a contenere ed ha travasato in versi poetici.
Carmen Lama


Almeno il cappello di Andrea Vitali - ediz. Garzanti 2009

Scrivere una recensione ha nella maggior parte dei casi lo scopo di far conoscere un libro letto ad altri lettori ed indurli all'acquisto. È un modo di far pubblicità descrivendone soprattutto i pregi, che possono riguardare, se si tratta ad esempio di un romanzo, la storia narrata, gli intrecci, le caratteristiche dei personaggi, lo stile di scrittura, la piacevolezza ed altro.
Nel caso dei romanzi di Andrea Vitali questo scopo "pubblicitario" viene meno perché lo scrittore è ormai molto noto ai lettori, non solo italiani, e il successo di vendita dei suoi libri, oltre ad alcuni premi letterari vinti, fanno pensare che forse non servirebbe neppure una recensione, poiché basta sapere che è in libreria un suo nuovo testo e la curiosità spinge all'acquisto, con la speranza e/o la certezza che ancora una volta si troverà qualcosa di piacevole da leggere e non si resterà delusi.
Personalmente, tuttavia, penso sia gratificante in sé scrivere le impressioni di lettura su un romanzo, perché spesso i punti di vista dei lettori differiscono e una recensione potrebbe rivelare alcuni elementi che non tutti potrebbero aver colto.
Il nuovo romanzo di Andrea Vitali, Almeno il cappello, ambientato in Bellano e nei paesi vicini, mentre conferma la capacità di scrittura scorrevole e limpida dell'autore, aggiunge delle caratteristiche peculiari a tutta la trama narrativa che, pur presenti in alcuni dei suoi precedenti scritti, sono qui molto più evidenti.
Si tratta, dal mio punto di vista, della rivelazione di un certo modo rassegnato di vivere, negli anni del fascismo, che non è strettamente legato allo stato di soggezione in cui ci si sentiva, né dipendente dall'aria che si respirava allora, in fatto di libertà, quanto determinato da una semplicità intrinseca all'animo dei cittadini di un piccolo paese di provincia.
Questi avevano, infatti, scarse opportunità di fare esperienze al di fuori della ristretta cerchia di persone conosciute, tranne pochi casi di persone che per motivi di lavoro si spostavano nei paesi del circondario, fino alla sponda opposta del lago e, solo di rado, fino alla città di Como, in luoghi, peraltro, dove non si viveva tanto diversamente.
I personaggi che si muovono in questo romanzo sono dunque delle persone semplici che non si pongono troppi problemi, ma che hanno voglia di vivere una vita dignitosa e, possibilmente, resa più accettabile da qualche piccola soddisfazione.
Il loro animo è e rimane libero, in quanto la gestione politica della loro vita non viene del tutto subita, anzi, coltivando le amicizie giuste con le persone giuste, e pur senza entrare in contrasto con le leggi in vigore, si riesce talvolta ad ottenere dei favori, che non sono affatto da confondere con "favoritismi", ma che anzi hanno tutta l'aria di rispondere al consentire l'esercizio di un diritto da parte di chi detiene un certo potere.
La trama narrativa del romanzo è ben congegnata, e ruota attorno alle vicende familiari e personali non di uno solo, ma di ben due protagonisti: il suonatore del bombardino, (inizialmente nella fanfaretta del paese di Bellano e successivamente nella costituenda Banda o Corpo musicale vero e proprio) e il nuovo ragioniere, competente e molto responsabile, dell'ospedale, nonché nuovo direttore della Banda stessa.
La leggerezza del racconto è tale da far scivolare nella mente le pagine in un susseguirsi di azioni e reazioni che suscitano curiosità in molti modi: a volte perché le situazioni narrate hanno del paradossale, a volte perché sembrano addirittura ridicole, a volte perché vengono alla luce delle intrusioni inaspettate che sembrano deviare il corso naturale degli eventi, a volte ancora perché gli stessi personaggi si sorprendono della loro stessa ingenuità e cercano dei sotterfugi o delle modalità comunque bonarie di far tornare le cose per il verso giusto. Non mancano, ad alleggerire la pesantezza di certi vissuti familiari, degli eventi su cui l'autore, attraverso alcuni dei suoi personaggi, fa aleggiare l'ironia e un certo modo gioviale di prendere la vita. Così come non mancano le sottolineature riguardo alle gattopardesche posizioni degli amministratori comunali, che rimandano decisioni, quando non le capovolgono, responsabilizzando sempre "altri" riguardo all'incapacità di risolvere problemi, che generalmente sono sempre piuttosto banali, ma che vengono fatti passare quasi come insormontabili, al punto da dover coinvolgere "il partito" e/o chi ha voglia di assumersi qualche responsabilità.
In questo, nulla di diverso dai tempi attuali, par di capire!
Anche se coerentemente con quanto ci si potesse aspettare dalla natura dei personaggi in azione, la storia non termina bene, perché non è una fiaba dove alla fine "tutti vivono felici e contenti", ma è una realtà, o comunque una ripresa-ricostruzione di una realtà verosimile, in un contesto spazio-temporale e socio-culturale particolare, in cui le ripercussioni di ogni azione, reazione, decisione o indecisione, retroagiscono sulle persone, determinandone umori, stati d'animo, caratterialità, talvolta imprevedibili.
Un esempio ne è il direttore del Corpo musicale bellanese, che a seguito della sfortunata inaugurazione mancata della "sua" banda nel giorno della festa dei SS. patroni del paese, si ammala di una sorta di depressione che gli preclude ogni ulteriore possibilità non solo di far musica, ma addirittura di interessarsene o di ascoltare qualsiasi parvenza di suono che gliene ridesti il ricordo.
E ancora, coerentemente con la taccagneria dimostrata dal podestà del paese (per l'acquisto delle divise dei componenti del Corpo musicale, ad esempio, o per rispondere ad altre esigenze), il quale dopo la morte improvvisa del suonatore del bombardino voleva che si recuperasse "almeno il cappello", emerge, a mo' di specchio, l'avidità di un ragazzo che, durante una "fortunata" battuta di pesca ritrova nel lago proprio quel cappello e in esso scopre una sorpresa: nascosto dentro una cucitura interna c'è il valore quasi totale dell'intera divisa, (ottanta lire su cento), che il suonatore del bombardino era riuscito ad ottenere subdolamente dalla moglie, ma che non era riuscito a spendere per intero nelle osterie per soddisfare il suo bisogno di libertà. Per il ragazzo è il ritrovamento di un piccolo tesoro. E comunque sia, si tratta di piccoli quadri di realtà.
In tutte le situazioni narrate, i personaggi sono connotati proprio da quella caratteristica di cui si diceva all'inizio: è palpabile in ognuno, in maniera diversa e molto personale, l'arte di riuscire a recuperare dalla vita momenti di benessere, (pur con una certa dose di rassegnazione), nella maggior parte dei casi in modo leale ed innocente, qualche volta anche con piccoli sotterfugi che però non dipingono mai chi ne fa uso in modo negativo, perché sempre c'è una sottile linea di bonomia nei loro confronti da parte degli altri cittadini o conoscenti. A dimostrazione, quasi, di una certa solidarietà fra le persone che nei tempi in cui il romanzo è ambientato e in piccoli paesi come Bellano, costituiscono una vera e propria comunità.
Ecco, dunque, il pregio maggiore di questo romanzo di Andrea Vitali: raccontare alcuni aspetti della vita di una piccola comunità in un tempo, per altri versi, difficile, e mostrare la semplicità, l'ingenuità, ma anche l'attaccamento reciproco delle persone tra loro, e una solidarietà quasi scontata, un interesse per le vicende dei compaesani che non è pura curiosità o, come si direbbe oggi, gossip, bensì un modo per entrare in sintonia e poter essere anche d'aiuto quando ciò dovesse servire. Per ultimo, vorrei ri-sottolineare la scorrevolezza della narrazione, che si serve di frasi brevi e d'effetto e di un lessico familiare che rispecchia e caratterizza ancor meglio i personaggi la cui cultura è di tipo contadino; e infine una capacità dello scrittore di tenere desta dall'inizio alla fine la curiosità del lettore, il quale non si perde mai nella trama pur intricata delle varie situazioni narrate, anzi acquista una certa familiarità al punto che vorrebbe suggerire a volte, a qualche personaggio più sprovveduto, dei comportamenti diversi per un esito migliore e più soddisfacente per lui.
M. Carmen Lama


Come il canto di una preghiera di Gloria Venturini EdiGio' www.edigio.it
Prefazione di Paolo Santato
Poesia silloge

E' un libro piccolo questo, solo 52 pagine con 30 poesie, senza lo svolgimento di una tematica precisa, si potrebbe quasi definire una raccolta di pensieri sparsi, ma alla quantità si è voluto privilegiare, giustamente, la qualità.
Non credo che Gloria Venturini scriva solo con la finalità di pubblicare su carta avorio, ma certamente non le sarà spiaciuta questa sorpresa, frutto della partecipazione a uno dei tanti concorsi che costellano la sua vita di poetessa, con risultati quasi sempre assai lusinghieri.
Per l'autrice i versi sono la naturale conseguenza di uno sfogo che si anima dall'interno e che perennemente l'accompagna, in una visione quasi onirica dell'esterno, un mondo a sua dimensione in cui ritrovare se stessa, tenendo unito però il filo che la lega alla realtà.
Non è comunque una sognatrice, ma nell'esatta identificazione con la figura di poeta funge da specchio alla realtà che la circonda, rimandandola, mondata con il suo sentire, alle pagine su cui si imprime in versi del tutto liberi, ma non per questo privi di armonia, che anzi è ben presente con toni delicati e aggraziati, senza imposizioni, quasi sussurri pudicamente rivolti a occhi sconosciuti.

Ognuno viaggia
nel suo mondo
parallelo alla realtà,
coglie i brandelli
di quello che può,
per guardare alla luna
con coraggio,
riflette la propria
luce di stelle
per imitare
il sole che vede.

…………………..

(da Un giorno come tanti).

E anche quando il tema è tragicamente doloroso e l'enfasi, per quanto trattenuta, potrebbe prendere il sopravvento, la malinconia sfuma i toni, così che i versi risultano non come dardi piantati nel cuore, ma come punte di spillo che solleticano l'anima, inducono all'amara riflessione per poi smorzarsi in una rassegnata consapevolezza dei limiti dell'uomo.

………..
E tu, vagabondo,
straniero nella tua stessa terra,
scandisci ricordi
di pace lontana…
accarezzato dal vento,
che si solleva in questa oscura notte,
fra le rovine di Bagdad.


(da Sotto il cielo dell'Iraq).

La sua è una poesia che si offre con spontaneità, ma non priva di invenzioni letterarie, di riuscite metafore, di immagini che sanno parlare più di tanti versi e che si srotolano agli occhi del lettore in fantasmagorie che lo prendono e che lo rendono partecipe dell'emozione all'origine di questa creatività.

La vita sognò mattini di luce
e aprì gli occhi a soli infiniti.
Stelle spente approdavano
a porti silenziosi
e scie d'acqua nascondevano
mete e colori di futuro.
La notte si risvegliò,
dipinse di blu ogni tratto di cielo.
La morte s'affannava sulle rovine dell'uomo,
la luce si scontrava
con i confini imperfetti del buio.

………………

(da Mattini di luce)

Non credo di dover aggiungere altro, o meglio potrei parlare ancora a lungo di questa silloge e della sua autrice, ma non riuscirei probabilmente mai a trasmettervi l'emozione che si prova nel leggere i testi che la compongono, un'emozione rilassante che gradualmente si accompagna alla serenità.

GLORIA VENTURINI ha ideato e organizzato le sette edizioni del Premio Internazionale di Poesia e Prosa, " L'arcobaleno della vita" - Città di Lendinara, di cui è anche il Presidente del Premio e della giuria. La poetessa e scrittrice risulta vincitrice in Premi e Concorsi Letterari Nazionali ed Internazionali, con poesie e con testi narrativi editi e inediti.
Renzo Montagnoli


MOSCA , Paolo : " Il ciabattino del Papa e altre storie " - San Paolo Edizioni , 2009 :
Da sempre il mestiere più " romano de Roma " è quello del venditore di articoli religiosi , a motivo dello stretto legame tra Roma e la Chiesa , intesa almeno come Chiesa-istituzione , il Papato . Poeti come il Belli e gli anonimi autori delle " pasquinate " hanno reso famosa la figura del " santaro " , il venditore di immagini e immaginette sacre a Piazza San Pietro , immancabilmente presente ad ogni ... morte ed elezione di Papa . Il Rione Borgo , cresciuto " all' ombra der Cuppolone " dai tempi dell' invasione di Alarico , ha sempre suscitato l' interesse dei turisti per questa sua stretta vicinanza col Vaticano . Il giornalista Paolo Mosca è andato perciò a " scovare " i " santari " , i ristoratori , gli artigiani di Borgo per farsi raccontare i loro ricordi legati ai Papi e ai cardinali di cui sono stati spesso fornitori . Ecco allora le " storie " del tornitore che non riuscì a vendere un pregevole lume a Papa Ratzinger quando questi era cardinale , del sarto del Papa che riconosce in televisione le bianche vesti talari confezionate da lui , le suore che preparano le ostie per le celebrazioni liturgiche pontificie ... Un libro godibilissimo , che non può mancare nella biblioteca dei cultori di Roma !
Gianfranco Stivaletti


A ciascuno il suo di Leonardo Sciascia Adelphi Edizioni
Narrativa romanzo
Collana Gli Adelphi

Un giallo di raffinata costruzione che tuttavia non è un giallo o almeno, come tale, è del tutto atipico: questo è il bellissimo romanzo di Sciascia A ciascuno il suo.
Del resto Italo Calvino, in una lettera a Sciascia del novembre del 1965, scriveva: " Ho letto il tuo giallo che non è un giallo, con la passione con cui si leggono i gialli, e in più il divertimento di vedere come il giallo viene smontato, anzi come viene dimostrata l'impossibilità del romanzo giallo nell'ambiente siciliano".
La vicenda è di quelle che appassionano il lettore per arrivare alla soluzione, ma le descrizioni dei personaggi, delle atmosfere, degli ambienti è prioritaria, quasi che Sciascia volesse far sapere che in un simile contesto tutto ciò che avviene non è per caso e rientra in una normalità dettata dalla sempre presente associazione mafiosa.
La trama, con l'investigatore improvvisato, questo professor Laurana che ha un vizio mortale per il luogo dove vive, cioè la curiosità, è peraltro avvincente, ma ripeto che quel che conta è lo sfondo, con la vita di piccola provincia, il circolo dei notabili, la connivenza, magari obbligata, con le attività di malaffare.
Ne esce un quadro di una Sicilia racchiusa in uno schema di ordinaria struttura malavitosa tale da considerarla normale, in una rarefatta atmosfera di consapevole impossibilità di cambiare le cose.
L'abilità narrativa di Sciascia si conferma anche in questo romanzo, con una realtà che ci viene rappresentata nella sua autentica e ambigua consistenza, ricorrendo ad allusioni, a parole dette e non dette, a personaggi descritti magistralmente.
Lo sfondo è costituito appunto dalla precisa analisi dell'animo siciliano, dalla naturale presenza della vita e della morte, dal radicato concetto dell'indissolubilità della proprietà e dalle pulsioni erotiche, che prorompono diventando piacevoli sensi di colpa.
Il professor Laurana ha il torto di essere vittima di un sistema che non può perdonargli la difformità a uno schema precostituito e immutabile nel tempo, sebbene lui non abbia l'intenzione di scardinarlo.
Del resto l'affermazione che chiude il romanzo, per bocca del parroco di Sant'Anna, un prete con poca vocazione, dimostra inequivocabilmente che il pragmatismo può arrivare in un simile ambiente all'assurdo di considerare del tutto normale, perché ormai consolidato, il castello di connivenze, anche solo omertose, con il potere mafioso.
Infatti, alla confidenza che si appresta a fare con tutte le dovute cautele il commendator Zerillo e relativa alla figura del professor Laurana, il sacerdote risponde secco, a troncare la discussione: "Era un cretino."
A ciascuno il suo è un romanzo di tale qualità che ne ritengo indispensabile la lettura.

Leonardo Sciascia (Racalmuto, 8 gennaio 1921 - Palermo, 20 novembre 1989). E' stato autore di saggi e romanzi, fra cui: Il giorno della civetta (Einaudi, 1961), A ciascuno il suo (Einaudi, 1966), Todo modo (Einaudi, 1974), La scomparsa di Majorana (Einaudi, 1975), Candido, ovvero un sogno fatto in Sicilia (Einaudi, 1977), Il cavaliere e la morte (Adelphi, 1988), Una storia semplice (Adelphi, 1989).
Renzo Montagnoli


Giochi in specchi d’acqua di Maria Attanasio

Non è certo facile impresa per un profano come me commentare un libro, ancor più ardua se si tratta di poesie in quanto la poesis è arte molto affine alla musica e al teatro chè dentro contiene un elemento non verbale , emotivo forte che , come ben sottolinea Maria Attanasio in prefazione, ognuno vede, vive , sente a suo modo per stare bene, per provare piacere (perché piacere vero è quello che si prova ).
Giochi in specchi d’acqua” è libro di sangue, carne , ossa e anima, è stato partorito come un figlio, accudito ed amato, redarguito e sognato, giocato e vezzeggiato,spesso deliziosamente imprevedibile perché vero , autentico ,intriso di vibrazioni essenziali e illuminanti.
Maria “fabbrica” parole e metafore inusuali , affinate in un tumulto di scoperta trascinante come cascata , in stile mosso, libero ,scarno e ricco ad un tempo, incisivo, originale e folgorante per aperture e chiuse, avvincente e mai scontato.
Ci consegna così tracce di vita vissuta come sogno e perdizione, bisogno e anelito, rimpianto e costruzione , senza lasciarci quasi prender fiato . Sembrerebbe il suo poetare intimo , privato ma è invece ispirazione ricca e varia la sua che parte dalla esperienza per amplificarla ed arrivare a tocchi d’infinito, cristallini e puri come pietra di fonte e acqua sorgiva, che incantano (Eternità, Ancora voli , Stelle e altre ancora …). In tutta la raccolta passano tante anime che lei contiene tutte e offre al lettore, a piene mani e senza veli: quella del dolore che pervade comunque i suoi versi , quella lama che sta nel petto sempre, quel velo che non è da sposa ( 700 giorni, Alla morte, Belsan, Il fondo, Piccola fiamma e tutte le poesie alla madre e a Daniela), anima che spera sempre e sogna ( Da quando non ci sei, Le donne della mia famiglia, E poi…) anima di poeta (per quello che non si vede…) anima nostalgica in dolcezza (“Festa all’aperto che pare un quadro di Renoir..) anima in amore e d’amore (Cuori migranti , Letto sfatto, Noi due, Primavera….) madre attenta e amorosa(L’origine del mondo…) , donna con sguardo struggente sulla sua città (Il vento di qui) che poi si solleva sul mondo in rovina senza scampo (La preghiera, Rose rosso sangue, Giramondo…), anima che si avvoltola e si guarda dentro ,ispirata e meravigliosamente schietta (Necrologio,Un’altra me,La vita che mi resta..)
E qui mi fermo; potrei annotare alcuni versi , direi centinaia , potrei elencare ancora e ancora ma estrapolare dalle poesie di Maria è farle un torto, è togliere quella energia vitale che sprigiona l’insieme, quella musica rap che rapisce e scandisce, è privare il lettore della sorpresa ,dello straniamento. La raccolta va letta di getto , sotto il gelsomino la sera , senza tempo e poi riletta e poi ancora. Io vi ho condotto per mano in un mio percorso ma sono certa che molti , nel viaggio , hanno abbandonato la mia mano seguendo altre strade , fiumi e valli , viottoli e scie d’onda, discese e salite ….e poi tutti ci troveremo insieme in quel luogo immaginario ma divino della poesia dove si mettono “in giro parole di fuoco di pietra piume e cristalli… come fossero messaggi imbottigliati”
Tinti Baldini


Cattive storie di provincia di Gordiano Lupi Edizioni A.Car. srl www.edizioniacar.net | info@edizioniacar.net
Introduzione dell'autore
in forma di racconto
Studio di copertina di Sasha Naspini
Collana Brividi & Emozioni
Narrativa racconti

Tredici racconti per parlare di una vita di provincia, un tempo tanto tranquilla da risultare forse monotona, e ora invece pervasa da quel male oscuro tipicamente metropolitano che in modo sintetico e anche un po' semplicistico si definisce alienazione. La fretta del vivere, la corsa continua senza una meta ben definita e il grigiore, che finisce con l'accompagnare la quotidianità dei gesti e delle parole, a tratti possono esplodere, una specie di sordo rancore che fuoriesce come magma in modo eclatante. In questa raccolta ci sono racconti che partono da un fondo di verità, ovviamente poi interpretato creativamente dall'autore, come nel caso della vicenda di Simone Cantaridi, ancor oggi rinchiuso in carcere, e altri invece che sono frutto esclusivo della fantasia di Lupi, magari con una rielaborazione di leggende, ma che ben esprimono questa inquietudine latente che ormai ha radicato anche in provincia.
Del resto, gli atti di efferata violenza non sono più tipici solo della metropoli, ma spuntano un po' ovunque come funghi anche nei piccoli agglomerati, paesi che fino a non molti anni fa sembravano oasi di quiete e che ora invece non sono immuni da questo male oscuro che sembra contraddistinguere sempre di più l'attuale società.
Pertanto questo libro fa riflettere, e non poco, perché riscontra un'involuzione progressiva della coesistenza ben descritta anche laddove la narrazione è di pura fantasia. Prendiamo Il palazzo, un condominio apparentemente anonimo dove gli abitanti, nessuno dei quali ha motivo di essere contento, sembrano convivere solo in funzione dei loro contrasti, una storia caratterizzata da pregevoli descrizioni dei personaggi e che si conclude in modo del tutto inaspettato, ma anche con una felice intuizione dell'autore.
Altri racconti hanno caratteristiche vere e proprie del fantastico, quando addirittura non prendono l'impronta dell'horror, ma quasi tutti, ambientati in una piccola realtà quale Piombino e la zona circostante, mantengono il legame con la realtà, evidenziando uno stato di disagio latente, un tempo del tutto atipico nella provincia.
Gli uomini sembrano in preda ad ancestrali timori che lentamente si radicano, arrivando in taluni casi a un tale stato di paranoia da far esplodere il bubbone e allora ci scappano i morti, spesso senza un movente plausibile, o comunque logico.
Scritti con la ormai ben nota abilità di Gordiano Lupi, questi racconti sono tutti assai piacevoli da leggere, ma la mia preferenza va a un autentico gioiellino, Il palazzo, per il ritmo scandito con la precisione di un cronografo svizzero, accompagnato da una descrizione accurata e convincente dei protagonisti, e poi con un finale, che ovviamente non svelerò, di particolare effetto, un'invenzione creativa che conclude imprevedibilmente, ma non illogicamente, la vicenda.
Consiglio, pertanto, di leggere Cattive storie di provincia, anche per gli spunti di riflessione che offre; raccomando, altresì, di non perdere la riuscita introduzione in forma di racconto, un Amarcord di come era una piccola cittadina non molti anni fa.

Gordiano Lupi (Piombino, 1960). Direttore Editoriale delle Edizioni Il Foglio. Ha tradotto i romanzi del cubano Alejandro Torreguitart Ruiz: Machi di carta (Stampa Alternativa, 2003), La Marina del mio passato (Nonsoloparole, 2003), Vita da jinetera (Il Foglio, 2005), Cuba particular - Sesso all'Avana (Stampa Alternativa, 2007) e Adiós Fidel - all'Avana senza un cazzo da fare (A.Car, 2008). I suoi lavori più recenti sono: Nero Tropicale (Terzo Millennio, 2003), Cuba Magica - conversazioni con un santéro (Mursia, 2003), Cannibal - il cinema selvaggio di Ruggero Deodato (Profondo Rosso, 2003), Un'isola a passo di son - viaggio nel mondo della musica cubana (Bastogi, 2004), Quasi quasi faccio anch'io un corso di scrittura (Stampa Alternativa, 2004 - due edizioni in un anno), Orrore, erotismo e pornografia secondo Joe D'Amato (Profondo Rosso, 2004), Tomas Milian, il trucido e lo sbirro (Profondo Rosso, 2004), Serial Killer italiani (Editoriale Olimpia, 2005), Nemici miei (Stampa Alternativa, 2005), Le dive nude - Il cinema di Gloria Guida e di Edwige Fenech (Profondo Rosso, 2006), Il cittadino si ribella: il cinema di Enzo G. Castellari - in collaborazione con Fabio Zanello - (Profondo Rosso, 2006), Filmare la morte - Il cinema horror e thriller di Lucio Fulci (Il Foglio, 2006), Orrori tropicali - storie di vudu, santeria e palo mayombe (Il Foglio, 2006), Almeno il pane Fidel - Cuba quotidiana (Stampa Alternativa, 2006), Sexy made in Italy - le regine del cinema erotico degli anni Settanta (Profondo Rosso, 2007), Coppie diaboliche - dal delitto di Marostica al giallo di Omegna - 34 casi di "crimine a due" 1902-2006 (in collaborazione con Sabina Marchesi - Editoriale Olimpia, 2008), Dracula e i vampiri (in collaborazione con Maurizio Maggioni - Profondo Rosso, 2008), Avana killing (Sered, 2008 - in edicola), Mi Cuba (Mediane, 2008) e Delitti in cerca d'autore (I.D.I., 2008 - in edicola).
Ha preso parte ad alcune trasmissioni TV come Cominciamo bene le storie di Corrado Augias (libro Serial killer italiani), Uno Mattina di Luca Giurato (libro Serial killer italiani), Odeon TV (trasmissione sui Serial killer italiani) e La Commedia all'italiana su Rete Quattro (dove ha parlato di Gloria Guida e di commedia sexy). È stato ospite di alcune trasmissioni radiofoniche in Italia e Svizzera per i suoi libri e per commenti sulla cultura cubana. I suoi libri sono stati oggetto di numerose recensioni e segnalazioni che si possono leggere al sito www.infol.it/lupi.
Renzo Montagnoli


Segni di Tinti Baldini Altromondo Editore www.altromondoeditore.com
Prefazione di Roberta Bagnoli
Poesia silloge

Ogni volta che prendo in mano un libro di poesie, prima di sfogliarlo penso che sto per accedere all’universo segreto dell’autore, dove sentimenti, sensazioni ed emozioni, a lungo celati, si mostrano per la prima volta agli occhi di estranei.
E’ come entrare nella casa d’altri, una casa più segreta, più intima, tanto che mi prende un attimo di titubanza, come se il mio, più che un ingresso, fosse un’intrusione.
Segni è l’opera prima di Maria Cristina Baldini, più conosciuta su Internet come Tinti Baldini, un’autrice di cui ho già letto alcune poesie presenti in un paio di siti.
Poetessa delicata, quasi pudica nell’esprimere la luce del suo Io, affronta in questo libro diverse tematiche, una sorta di “summa” della sua coscienza poetica.
Sono versi a volte soffusi, come in Luna (Muta assapora / di nuvole il passaggio / e di stelle / la lontananza / in silenzioso tocco / d’infinito), oppure disperatamente concreti nell’esprimere un’amarezza per quello a cui l’uomo può ridursi, come in Auschwitz ( Dietro vetri appannati / da fiato dolente / montagna immensa / di carrozzine / scarpe e scarponi / e piccole pantofole / stivali e borse / alla rinfusa / e trecce bionde / a migliaia / in mucchio / e sguardi di spettro / in angoli remoti. /…).
Verrebbe da pensare a una poesia semplice, quasi essenziale, un fluire di ricordi che da immagine si trasformano direttamente in parole, ma è solo l’apparenza, perché dietro c’è un’elaborazione, magari inconscia, che fa amalgamare pensieri, concetti, le lettere, i significati, fondendoli, equilibrandoli fino ad addivenire a un risultato di personale armonia.
In queste liriche c’è tutta la vita di una persona, il suo passato, memorie belle e altre tristi; c’è chi si racconta in una biografia, ma c’è anche chi, come Tinti, preferisce farlo in poesia.
Possono essere quasi dei lampi di fotografo, come in Ragazza ( Scintillante / di chioma bruna / aroma di muschio / lasci / al tuo passare.), oppure emozioni che ancora al solo pensiero trascinano, come in La prima volta (Esile e gracilina / come fuscello a Maggio / mi sentii / palpitare tutto / corpo, testa e cuore / in fremito inarrestabile / scintille e tuoni / e mare a naufragare / e pioggia torrenziale /…), o sono rassegnate constatazioni, come in Indifferenza
( Veder passare / ombre / e non scoprirle.).
Tinti ha saputo far riemergere il suo passato alla luce della consapevolezza del suo presente e ce l’ha offerto, ci ha presentato l’immagine di un’esistenza filtrata dalla riflessione, impreziosita dalle parole e ancor vibrante, pur nel suo pudore.

Maria Cristina Baldini, conosciuta come Tinti, è nata ad Asti, ora vive a Grugliasco. Ha insegnato per quarant’anni in una scuola media della cintura torinese ed attualmente è in pensione. Ora molto del suo tempo è dedicato a scrivere versi. Segni è la sua prima pubblicazione.
Renzo Montagnoli


Il distributore di volantini di Maurizio Cometto Magnetica Edizioni (già Chimera Edizioni)
Copertina di Oscar Celestini
Narrativa racconto

Il talento di un autore si rileva non solo in un ciclo di racconti o in un romanzo, ma anche in un'opera assai più breve, come è appunto con le sue sole 34 pagine Il distributore di volantini.
Già in occasione della mia recensione de L'incrinarsi di una persistenza ho evidenziato che, benché il genere non mi sia particolarmente gradito, l'abilità di Cometto è tale da riuscire a farmi superare questa pregiudiziale, arrivando ad assaporare con concreto piacere la bella scrittura del narratore piemontese.
A questo giudizio concorrono sia lo stile fluente e l'italiano apprezzabile, sia anche la capacità di rendere credibile la vicenda senza arrivare a eccessi o a creazioni fantastiche esasperate, le quali, invece, estraniando l'argomento dal contesto realistico secondo me finiscono con lo stravolgere la normale logica.
Dunque, con Cometto, più che rendere possibile l'impossibile, se ne decreta la sua plausibilità alla semplice condizione di astrarsi per un momento dalla concretezza giornaliera.
La circostanza si riconferma anche in questo racconto che ha il sapore di una fiaba e che è talmente coinvolgente in questa trama di un amore disperato da portare a un'autentica commozione.
E' una storia piccola piccola, ma la mano dell'artista ha saputo conferirle quella dignità di grande opera che testimonia la sua ormai indubbia eccelsa abilità.
Se poi consideriamo l'equilibrio sempre presente in tutti i suoi lavori non possiamo che compiacerci per una lettura senza patemi d'animo, ma egualmente avvincente di un testo in cui la fantasia vola, ma in alto, là dove i nostri sogni giungono per liberarci dalla monotonia di un'esistenza troppo raziocinante.
Ed è un vero peccato che questo racconto non sia reperibile in commercio, in quanto l'editore ha cessato l'attività. Resta solo la speranza che qualcun altro ci faccia il dono di ristamparlo.

Maurizio Cometto è nato a Cuneo il 29 settembre 1971. Laureato in ingegneria meccanica, lavora a Rivoli in un industria che produce cerchi in acciaio per autovetture. Ha pubblicato L'incrinarsi di una persistenza e altri racconti fantastici (Il Foglio, 2004), Il distributore di volantini (Magnetica Edizioni, 2006), Lo scaricamento della bara (Magnetica Edizioni, 2007).
Renzo Montagnoli


Il sonaglio di Andrea Camilleri Sellerio editore Palermo
Romanzo-Narrativa pag. 191

Sulla bandella: “Il meglio di me risiede in questa trilogia fantastica”

“Questo romanzo conclude un ciclo iniziato con “Maruzza Musumeci” e proseguito con “Il casellante”. Sono tre storie che raccontano tre metamorfosi più o meno riuscite. Nei tempi antichi le metamorfosi venivano più facili a dirsi e a farsi”. Nota di Andrea Camilleri.

Dalla donna sirena alla donna albero alla donna capra; Camilleri, in quest’ultima opera letteraria perviene ad una trasmigrazione di anime femminine in una sorta di vera e propria metempsicosi in terra siciliana. Giurlà, l’adolescente di 14 anni, mandriano di capre, sarà il trait d’union di questa trasfigurazione tra la capra Beba e la marchesina Anita. Dalla mitologia classica alla letteratura greco-latina, le metamorfosi sono state uno degli impossibili sogni umani come il volo o l’immortalità. Scrivere per sognare, sognare per vivere, la fantasia, l’immaginazione giochi illusori dell’uomo per prefigurarsi realtà sognate e possibili da realizzare. In Camilleri il gioco diventa storia tra le più romantiche e al contempo struggenti, Giurlà, il ragazzino fattosi uomo, vive il suo amore oltre i confini con una tale ed intensa perdizione dell’animo e dei sensi da elevarlo socialmente ( lettura del Rerum natura di Lucrezio“Bisogna sapere che la morte non è da temere perché chi non esiste non può essere infelice…”), sfuggendo alla sorte di uno dei tanti vinti di memoria verghiana. L’autore, in anteprima all’uscita de “Il sonaglio”, ha raccontato le reminiscenze e i riferimenti di luoghi e sensazioni autobiografici presenti nel romanzo e come la costruzione della storia abbia seguito le ali della libertà espressiva. Camilleri scrive quel che vorrebbe leggere e offre al lettore quel che vorrebbe poter vivere, il magico del mito e il mistero della natura in uno stile apparentemente semplice, ma che sottende una complessità simbolica a cui difficilmente ci si può sottrarre. Siamo trasportati al pari di Giurlà in quei paesaggi marini in cui sembra di “sciaurare” il salmastro e sentire la brezza accarezzare il corpo, in quei luoghi montani in cui la natura ha il sopravvento sull’uomo e in cui la ragione si annulla all’istinto animalesco. Questo mondo arcaico riportato alla luce e intensificato dalla nostalgia di un tempo passato, commistione di leggende popolari e realismo sociale, fa rivivere incanti e sentimenti caduti nell’oblio. E’ritornata la fantasmagorica immaginazione camilleriana, siano benvenute le mirabolanti acrobazie linguistiche e le pregnanti descrizioni paesaggistiche fatte di odori e colori saporosi a cui eravamo e siamo avvezzi. La lettura, in 191 pagine, di questo libro, ci addentra in un’epoca in cui la marginalità dei miserabili, in una società fortemente iniqua, assurge a dignità letteraria e la primitività dei “perdenti” ricreata in questo scritto, ci induce ad una adesione fascinosa fuori da ogni logica.

L’autore. Andrea Camilleri è nato a Porto Empedocle nel 1925. Ha esordito come romanziere nel 1978 con “Il corso delle cose”. Della sua ricchissima produzione letteraria tutti i romanzi con protagonista il commissario Montalbano sono pubblicati dalla casa editrice Sellerio e altri, tra questi ricordiamo: “La forma dell’acqua”, “Il cane di terracotta”, “Il ladro di merendine”, “La voce del violino”, “La stagione della caccia”, “Il birraio di Preston”, “La concessione del telefono”, “La gita a Tindari”, “Maruzza Musumeci”, “Il casellante”, “Il campo del vasaio”, “L’età del dubbio”, “Un sabato, con gli amici”.
Arcangela Cammalleri


Ricostruzioni di Josephine Hart Universale Economica Feltrinelli
Titolo originale The reconstructionist
Romanzo-narrativa pag.229

Lo psicanalista Jack Harrington, quarantenne divorziato, vive a Londra. La sorella Kate, più giovane, fa la modella, ha un matrimonio alle spalle, tante storie sentimentali e sta per sposarsi. Un segreto famigliare accomuna e unisce i due fratelli e quando sta per essere venduta Malamore la casa d’infanzia, riaffiorano dolorosamente i ricordi e la morte della madre. La messinscena dei protagonisti diventa uno studio psicanalitico, Jack e Kate spezzati nell’animo dal dramma dell’infanzia che li ha tenuti legati morbosamente, stanno, faticosamente, ricostruendo la loro psiche. Affascinante ed inquietante lo stile narrativo della Hart, delinea le due figure letterarie attraverso dialoghi e frasi spezzate come le loro personalità interrotte e le loro vite desolate e private dall’affetto dei genitori. Da questo libro il regista Roberto Andò ne ha tratto un film dal titolo “Il viaggio segreto”, ambientato in Italia e precisamente in Sicilia. Un film introspettivo e dolente, la mano felice di Andò rende al meglio la scrittura del romanzo traducendo in immagini evocative il tormento interiore dei due protagonisti. Nel film il rapporto dei due fratelli sembra mutuare quello dei genitori, nel ballo senza musica, in una sorta di danza rituale. Il viaggio, simbolicamente, diventa la ricongiunzione con il passato rimosso e la pervenuta conoscenza di esso, la ricostruzione completa che li prospetta verso un futuro consapevole. Jack: “metterò su ancora una volta quella cassetta di ricordi prima di cancellarli definitivamente. Ancora una volta e poi più…
Poi nuotando torno a galla, e stavolta ci voglio rimanere”.
Stranamente, per chi ha visto prima il film e poi ha letto la storia, la trasposizione cinematografica, pur mantenendo una certa freddezza analitica e un distacco emozionale come quello dello psicanalista e dello scritto, traduce in forte tensione emotiva il carattere del protagonista e le figure enigmatiche dei genitori. Un processo inverso in cui un paesaggio assolato ed abbagliante, l’intensa e introspettiva recitazione degli attori danno senso all’ossessione che ha sconvolto le vite dei personaggi.

L’autrice: Josephine Hart nata e cresciuta in Irlanda, arriva a Londra negli anni sessanta. Lavora per un certo periodo nel campo editoriale, per poi dedicarsi alla produzione di spettacoli teatrali. Feltrinelli ha pubblicato anche Il danno 1991, da cui Louis Malle ha tratto l’omonimo film, Il peccato 1993 e L’oblio 1995.
Arcangela Cammalleri


Identità distorte di Massimo Maugeri Casa Editrice Prova d'Autore www.provadautore.it
In copertina autoritratto
frazionato in tre di Salvador Dalì
Narrativa romanzo

Ci si lamenta spesso del fatto che gli autori italiani siano incapaci di scrivere qualche cosa di realmente nuovo, qualità questa che viene riconosciuta invece a non pochi statunitensi.
Eppure, per trovare da noi qualcuno che sappia innovare non c'è bisogno di andare a bazzicare qualche scuola di scrittura creativa, ma basta fare un salto in provincia di Catania per imbattersi in Massimo Maugeri, che con il suo lavoro d'esordio ha saputo lanciare una sfida ai narratori di oltre Atlantico.
Identità distorte è, a definirlo riduttivamente, un thriller dalla trama particolarmente avvincente che non può lasciare indifferente il lettore anche per il messaggio in esso contenuto. Il potere, capace di assoggettare tutti gli uomini, compresi quelli che lo esercitano, è il motivo dominante che accompagna le righe di una storia costellata da continui colpi di scena, con precisi riferimenti a fatti e a situazioni recenti, tali da rendere palpitante la lettura, pur nella consapevolezza che i personaggi e la vicenda sono puro frutto della fantasia.
La narrazione ha un ritmo incalzante; i dialoghi sono sostenuti e talora anche convulsi, così da contribuire in modo quasi determinante non solo a delineare i protagonisti, ma a chiarire, oppure a far nascere dubbi, in un avvicendarsi di eventi concatenati di pregevole fattura.
Su tutto domina una latente angoscia, che a tratti diventa quasi ossessione, in un'atmosfera degna dei migliori film di Hitchcok.
Non bisogna però lasciarsi prendere la mano, farsi travolgere dalla trama, ma è anche opportuno ogni tanto staccare - e non è facile, perché è quasi uno spasmo la curiosità di sapere quel che accadrà - per riflettere, perché questa fantasia è più che mai ancorata alla realtà, tanto che sorgono non pochi dubbi sul fatto di essere pedine di giochi di potere, di credere che sia reale ciò che ci viene imposto o blandito, di pensare di essere liberi di decidere quando altri già hanno deciso per noi, di sapere chi veramente siamo e dove andiamo.
Nasce così l'amara consapevolezza di essere le semplici comparse di una commedia ideata e diretta da altri e allora si collegano tanti fatti, dalle guerre che continuano a insanguinare il mondo, alla speculazione selvaggia di borsa, per giungere fino al terrorismo.
Non ci si può che chiedere se dietro a tutto ci sia un'unica regia, senza tuttavia aver riscontri se non nel dubbio che l'ipotesi non sia poi così infondata.
Massimo Maugeri non fornisce risposte che non conosce, ma illustra con abilità lo scenario di un mondo finalizzato solo al potere con tutti i possibili mezzi, leciti oppure no, ivi compresi i sistemi di addomesticamento della realtà, in una società altamente tecnicistica così da apparire ingannevolmente imparziale.
Non è il trionfo della macchina sugli uomini, ma quello degli uomini che muovono la macchina, un mondo disumanizzato, privo dell'unico elemento che potrebbe redimerlo: l'amore.
E' un messaggio forte - per certi aspetti con elementi addirittura profetici, visto che l'autore aveva previsto già nel 2005 l'attuale crisi finanziaria - e anche crudele, ma che lascia spazio a una speranza, concentrata in un verso di una poesia: Tutto passa, solo l'amore resta.
Identità distorte è un libro da leggere e da meditare, e quindi è sicuramente raccomandabile.

Massimo Maugeri, scrittore siciliano nato nel 1968, collabora con le pagine culturali di importanti quotidiani e magazine. Suoi articoli sono apparsi su "Il Mattino", "Il Riformista", "La Sicilia", "Il Corriere Nazionale". Suoi racconti sono stati pubblicati su prestigiosi giornali e riviste letterarie. Il romanzo Identità distorte (Prova d'Autore, 2005) ha vinto il Premio Martoglio ed è stato finalista al Premio Brancati. Fa parte della redazione del blog letterario collettivo La poesia e lo spirito.
Ha ideato e gestisce il frequentatissimo Letteratitudine.
Ha curato Letteratitudine il libro, uscito nel dicembre del 2008 per i tipi della Azimut Libri.
Renzo Montagnoli


Canti celtici di Renzo Montagnoli Edizioni Il Foglio Letterario http://www.ilfoglioletterario.it/  ilfoglio@infol.it
Prefazione di Patrizia Garofalo
Immagine di copertina e fotografie
all'interno di Renzo Montagnoli
Elaborazione Grafica di Elena Migliorini
Collana Autori Contemporanei Poesia
Diretta da Fabrizio Manini
Poesia - poema

La prima silloge poetica di Renzo Montagnoli, Canti Celtici, è interessante già a partire dal titolo. Immagino il pensiero del poeta, impegnato in una sorta di scavo archeologico nella Storia, portare alla luce, evocandoli, pezzi di un'antica civiltà, gesta, oggetti, per mostrarli poi in una forma "rispolverata e luccicante" di poesie. L'intento di far rivivere qualcosa del passato porta il poeta ad essere molto attento nell'estrarre i vari "cocci" per lasciarli il più possibile intatti, pur nella loro frammentarietà e per cercare di ricostruire, mettendoli insieme come fossero delle tessere di un puzzle, non solo gli oggetti stessi, ma anche situazioni, fatti, comportamenti, consuetudini di vita, credenze e lo stesso contesto ambientale in cui i Celti sono un tempo vissuti. Immagino, allora, di trovare all'interno del testo, delle poesie che risveglino in me, da una parte, il senso storico generale e, dall'altra, la curiosità di riscoprire un aspetto di dettaglio e perciò molto particolare della Storia, costituito dalla vita di un popolo dei paesi nordici che, nella memoria, è vagamente depositata in una forma che definirei quasi mitica e magica. In effetti, leggendo poi le poesie, scopro di essere immersa, insieme al poeta, in un ambiente e in un'atmosfera inconsueta per me. Poiché il poeta vive nel mantovano, dove pare che villaggi celtici siano stati presenti molto anticamente, l'atmosfera che a me risulta inconsueta immagino faccia invece parte del DNA di Renzo. Affermo questo dato, quasi come una certezza, balenata nella mia mente scorrendo più e più volte le pagine di questa originale raccolta di poesie, in quanto ciò che più mi colpisce è quel senso di nostalgia per un passato che agli occhi del poeta non pare lontano, anzi sembra che egli lo riviva come qualcosa a cui ha appartenuto e che man man ha visto sfumare. Egli, mi dico, è indubbiamente impregnato della cultura del suo ambiente di vita, con giusto orgoglio, non fosse altro che per gli ascendenti ed anche per l'eco mai spenta di qualche antico illustre poeta della zona. Partendo da questa convinzione, mi riesce più facile far emergere da ciascuna poesia il senso profondo che il poeta ha voluto mostrare come in un museo archeologico, solo che in questo caso si tratta di un museo in versi. Ed ecco l'originalità di cui parlavo più sopra. Questa chiave di lettura dei testi poetici dei Canti Celtici mi aiuta a comprendere che nell'animo del poeta il passato è tenuto in grande considerazione, tanto da attingervi quando ne sente la necessità, a partire, talvolta, da una semplice visione, da un lampo che si accende sul fiume, sul canneto, nei boschi circostanti al suo territorio di vita. Da quel semplice spunto, ecco evocare una situazione particolare attribuita all'antica civiltà. Così si passa da usi familiari, a miti e credenze religiose, a cerimonie religiose quali un funerale per la morte di un bimbo, a battute di caccia, a costumi popolari quali le danze, le musiche di improvvisati citaredi e il suono della cetra, ed anche a difese del territorio da parte di guerrieri sfidati sui loro stessi villaggi. Su tutte queste situazioni evocate e fatte rivivere, aleggiano valori importanti che reggevano la vita e la cultura celtica: la solidarietà, l'amicizia, la famiglia attorno a cui riunirsi per sentirsi protetti, il divertimento per rendere più leggere le fatiche del vivere in tempi in cui qualsiasi tipo di agio era tutto da inventare, il culto dei morti e anche la difesa dei propri cari e del proprio ambiente di vita da aggressioni. Sotteso ad ogni lirica, in modi diversi a seconda dello specifico tema trattato, c'è il paragone con il presente, mancante di memoria del passato e quindi anche di ciò che del passato sarebbe stato importante tenere saldamente per continuare una vita umanissima come era un tempo. Il poeta, tuttavia, non indulge a sentimentalismi né a forzature che potrebbero far pensare a un suo rifiuto tout court del presente e del progresso, bensì rimpiange il fatto che si siano perse e del tutto oscurate le tracce di un passato che nelle sue caratteristiche specificamente umane potrebbe ancora insegnare qualcosa. In alcune liriche il rimpianto e la malinconia del poeta si trasferiscono al futuro, divenendo ciò che Pessoa chiamava, con un'espressione fortemente connotativa, "nostalgia del futuro". Il poeta infatti non riesce ad immaginare, a partire dal presente, (da questo presente convulso, disordinato, culturalmente e umanamente povero che stiamo vivendo, ricco solo di materialità e di bisogni indotti e perciò superflui e superficiali), un futuro che possa dirsi degno di un'umanità evoluta e sana. Quello che riesce ad immaginare è semplicemente l'attesa di un futuro temuto. La consapevolezza dello scorrere inesorabile del tempo è vissuta in un presente come sogno, come non-realtà: strategia psicologica di difesa di fronte a ciò che inquieta e si vorrebbe rimuovere. C'è una muta presa di coscienza del Nulla che ci attende, perché anche la memoria e il ricordo, che ci promettono l'Eternità, sono impalpabili illusioni che assopiscono la mente.
Unica speranza è un mondo che solo in cocci slabbrati coglie il senso del suo essere, e tutto fluisce, ma, sottolinea il poeta, solo "La memoria di chi fu, traccia la strada del futuro". E dunque, indirettamente, ma ripetutamente, il poeta sembra invitarci a non lasciarci sfuggire l'essenziale che è sedimentato insieme al passato, a distillarlo per trarne almeno quella linfa vitale che ci restituisca alla "vera umanità", cioè -almeno- la forza dell'amore.
Tra le poesie di questa silloge, voglio ricordare in particolare La ninfa del lago, Musica e polvere, Cocci, Il testamento, che a me sono sembrate le più toccanti, senza nulla togliere a tutte le altre, senza le quali non avrei colto il senso del messaggio poetico.
Tutte le poesie di questa raccolta, a mio modo di vedere, sono attraversate da uno struggente senso di nostalgia per un mondo che, pur nella sua arcaicità, era connotato da un vivere umanissimo, cosa abbastanza rara ai giorni nostri. Persino le relazioni "elementari" con il mito contribuivano a destare e rendere sempre più attiva l'emozionalità che, certo, era prevalente rispetto alla razionalità di noi uomini e donne moderni, a nostra volta invece troppo inclini a soffocare o reprimere i sentimenti e a non dare ascolto al profondo della nostra anima, soffrendo spesso di quell'ansia di completezza del vivere e di inquietudini che, non espresse, continuano ad agire dentro di noi, in qualche modo opprimendoci o, comunque, lasciandoci insoddisfatti. Per questo motivo, ritengo che sia molto apprezzabile l'intento del poeta di rinfrescarci un po' la memoria mostrandoci come abbia più valore la semplicità rispetto all'avidità del vivere rincorrendo sempre nuovi idoli, guidati solo da un chiodo fisso, il denaro e il surplus, sotto l'egida di una razionalità giustificante ma che, non sostenuta dall'intelligenza emotiva, uccide il meglio dell'Uomo, e in tal modo svalorizzando noi stessi ai nostri stessi occhi.
Basterebbe soltanto scuoterci da questo torpore che si è addensato sulle nostre anime come polvere, sembra dirci Renzo Montagnoli con queste poesie, per ritrovare la serenità del vivere e per saper apprezzare tutto ciò che potremmo osservare con gratuità, ma soprattutto con grande soddisfazione e saldi nelle fondamenta.
Carmen Lama


Il cuoco di Mussolini di Carlo Bordoni Edizioni Bietti Società Della Critica Srl www.edizionibietti.it
Narrativa romanzo

Che cosa fa Mussolini, in incognito, in una casa toscana nell'agosto del 1944?
Spera di realizzare un piano che gli assicuri un futuro e che magari acceleri l'occupazione anglo-americana dell'Italia. E' l'ultima illusione e resterà tale anche per un incontro fatale con un ragazzino ospite di quella casa e che per il duce e il suo seguito s'improvviserà cuoco.
E' evidente che questo fatto non si è mai verificato: Mussolini, benché presidente della Repubblica Sociale Italiana, viveva sul lago di Garda, in ostaggio dei tedeschi e di se stesso.
Ma la storia ucronica, costruita con notevole abilità da Carlo Bordoni, ha tutti gli aspetti della veridicità, partendo da presupposti inconfutabili, quali l'avanzata lungo lo stivale degli alleati, la progressiva sfiducia nella vittoria finale dei fascisti e perfino dei tedeschi che, come si sa, trattavano con gli anglo-americani tramite emissari del generale delle SS Wolf e questi per ordine di Himmler.
I personaggi sono reali, nel senso che sono esistiti, fatta eccezione per il cuoco ragazzino, che però rappresenta il simbolo di un italiano non legato al regime, pragmatico e disposto a ricominciare di nuovo, una speranza per un'Italia diversa e migliore.
La capacità di alternare l'invenzione alla realtà è giocata da Bordoni in perfetto equilibrio, senza mai una nota steccata, così che poco a poco si finisce con il credere che l'intera storia sia vera e questo appassiona, avvince, coinvolge.
Si arriva a un punto che sembra di essere lì con il dittatore, ridotto ormai a un'ombra di se stesso, angosciato, in preda a una gastrite devastante che gli fa emettere un fiato pestilenziale, ma, e qui l'abilità dell'autore è stata notevole, non si è mai tentati di considerare Mussolini un povero diavolo, cioè non si è presi dalla pietà e comunque nemmeno dall'odio.
Lì, in quella casa, infatti ognuno pensa solo a se stesso, l'uomo è ridotto a un essere che lotta, anche con l'illusione, per sopravvivere.
Quando la sorte avversa è ormai segnata, per quanti sforzi si facciano, si finisce con il comprendere di essere prossimi al capolinea ed è questo che si intuisce che pensi Mussolini tornandosene a Gargnano.
Non è così per il cuoco, il vero autentico personaggio principale, un ragazzo, desideroso di vivere e che sa che potrà farlo perché il sole che sta tramontando per il regime sta sorgendo per lui.
Non c'è politica, perché non avrebbe senso in un mondo morente e in un giovane che s'avvia verso il futuro senza la remora di un passato da scontare.
Il cuoco di Mussolini è un romanzo veramente bello, piacevole da leggere e che fa molto meditare, perché non c'è nulla di più reale di uomini soli con le loro paure o con le loro speranze.
La trama sarà ucronica, ma rispetta in pieno, anche nella conclusione, la verità su quel che accadde, così come è di sicuro apprezzabile il rispetto dell'autore per i personaggi, che descrive esattamente come furono, senza giudicare, senza parteggiare e in fondo restituendoli integri alla storia.
La lettura, più che consigliabile, è sicuramente raccomandabile.

Carlo Bordoni (Carrara, 1946) è docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi all’Università di Firenze.
Ha insegnato all’Istituto Universitario Orientale di Napoli e allo IULM di Milano. È stato direttore dell’Accademia di Belle Arti di Carrara dal 1990 al 2003.
Tra le sue pubblicazioni:
La paura il mistero l’orrore dal romanzo gotico a Stephen King (Solfanelli, 1989), Il romanzo di consumo (Liguori, 1993), Conversazioni sul vampiro (Neopoiesis, 1995), Stephen King (Liguori, 2002), Linee d’ombra (Pellegrini, 2004), Introduzione alla sociologia dell’arte (Liguori, 2005), Le scarpe di Heidegger (Solfanelli, 2005), Il testo complesso (Clueb, 2005), Società digitali (Liguori, 2007), Libera multitudo. La de massificazione in una società senza classi (Franco Angeli, 2008), La dismisura immaginata. Hoffmann e la letteratura fantastica (Solfanelli, 2009).
Dirige la collana di saggistica Micromegas per le Edizioni Solfanelli. Collabora alle riviste “Il Ponte, “L’Indice dei Libri”, “Labirinti del Fantastico”.
Ha scritto i romanzi In nome del padre (Baroni, 2001), Istanbul Bound (Tabula Fati, 2007), Il cuoco di Mussolini (Bietti, 2008).

Renzo Montagnoli


Venuto al mondo di Margaret Mazzantini ed. Mondadori
Romanzo – narrativa pag. 529

Quarta di copertina: La speranza appartiene ai figli. Noi adulti abbiamo già sperato, e quasi sempre abbiamo perso.

Il romanzo inizia…”Il viaggio della speranza parole residue, tra le tante in fondo alla giornata. Speranza, penso a questa parola nel buio prende forma. Ha la forma di una donna un po’ sgomenta, di quelle che trascinano la loro sconfitta eppure continuano ad arrabattarsi con dignità”.

Siamo ai nostri giorni e le ambientazioni della storia sono Roma, Genova e, in Bosnia, Sarajevo; la protagonista Gemma, vive a Roma, è sposata con Giuliano; con il figlio Pietro intraprende un viaggio nella Sarajevo, post bellica, in una sorta di percorso a ritroso del suo passato. In Bosnia ha vissuto i periodi più intensi del suo amore per Diego“Il fotografo di pozzanghere”, della sua amicizia con il poeta Gojko e della sua ricerca disperata per diventare madre. Altri personaggi dalle molte sfaccettature psicologiche riempiono la scena narrativa: i genitori di Gemma e poi Velida, Sebina, Aska…tutti ricchi di umanità e sofferenze diverse, attraversati da un destino non sempre benevolo nei loro confronti. I temi esistenziali sono minuziosamente sviscerati dall’autrice e vivisezionati quotidianamente, l’amore, la guerra e la morte al centro della vicenda, complessa nello sviluppo degli eventi. Una sorta di tragicità classica aleggia su tutto il romanzo e l’epicità della guerra si dissolve in violenze e distruzioni. Gli uomini assassini, le donne tranciate dalla guerra. “ Si sfidava la morte per seppellire la morte”. La descrizione della guerra del 1984 nell’ex Iugoslavia, si connota di: polvere di rumori lontani, della gola roca dei kalashnikov, dei cecchini, dei bombardamenti cetnici, delle truppe regolari della Difesa territoriale bosniaca, delle truppe di malviventi sarajeviti serbi e dei blindati bianchi della Nato. Ma si connota anche di ombre umane che sfilavano via silenziose come alghe nel mare, di gente lieve come farfalle notturne. Le epigrammatiche riflessioni, le poetiche e dettagliate descrizioni paesaggistiche: “Azzurro e sconfinato come ogni mare, cielo sommerso, acqua che allaga la vista”, “ Le isole in basso sembrano una collana di pietre che si sono disgiunte, ma senza mai separarsi dal collo della terra”. Le crude immagini belliche, i sentimenti raccontati e vissuti senza pudori e con dolente accoramento, il fantasioso e immaginifico stile sono le valenze aggiunte dell’essere scrittrice della Mazzantini. Probabilmente, questo libro, è venuto al mondo con le stesse spasmodiche contrazioni viscerali con le quali Pietro è: “ Venuto al mondo”.

L’autrice: Margaret Mazzantini è nata a Dublino, in Irlanda. Vive a Roma con la sua famiglia. Ha scritto “Il catino di zinco”, “Zorro”, “ Manola”, “Non ti muovere”( Premio Strega- Premio Grinzane Cavour).
Arcangela Cammalleri


Una nave impazzita di Piero Gaffuri Edizioni Il Foglio Letterario www.ilfoglioletterario.it  ilfoglio@infol.it
Prefazione dell'autore

Poesia
Collana Autori Contemporanei Poesia

Una nave impazzita è un omaggio al mare, all'acqua nella sua immensità, fonte di vita, ma anche di libertà, perché lì non vi sono confini, se non quelli naturali delle coste e allora perché non cercare di percorrere nuove rotte, senza piani di viaggio, ma così per caso, sotto l'effetto dell'ispirazione, alla ricerca di se stessi.
Piero Gaffuri è al tempo stesso nocchiero, viaggiatore, scafo, onda e perfino mare, è un odisseo che volontariamente rifugge il luogo di ogni giorno, la vita omologata per salpare per un lungo viaggio che gli faccia scoprire quanto di nascosto c'è in lui.
Sarà che amo tanto il mare, ma mi sono inebriato leggendo certi versi, ho aspirato aria salmastra, mi sono lasciato bagnare delle onde, ho cavalcato con i delfini, in poche parole sono entrato nella poetica dell'autore.

MARE

Quante volte
ho temuto di perdermi
nell'azzurro del cielo
ubriaco di sonno e sole.
Cosa avrei fatto
senza la forza nelle braccia,
i gomiti, i muscoli del corpo,
il collo, la spina dorsale?
Perché davanti a me
c'era sempre mare:
il vento sul viso
con la forza di un pugno,
il suo profumo,
di ragazza perfida e selvaggia,
il richiamo dell'acqua profonda
e i pesci, sfuggenti e misteriosi.
Lo so
e non voglio tentarvi.
So cosa significa,
ma lasciatemi andare,
libero, ancora.


Il mare, amico e nemico, il luogo ideale per un'evasione dal nostro guscio, conchiglie rinserrate nei simboli di una civiltà opprimente, mentre là, quell'immensa distesa, sempre mobile, ricca di vita, fa sognare la fuga verso un'isola inconscia che sappiamo esistere in noi, ma che la fretta del giorno ci nasconde.
E questo paradiso apparentemente perduto è la salvezza; basta che diamo una svolta a tutto, senza progetti, senza impegni, senza scadenze e, novelli olandesi volanti, prendiamo la via del mare, per tuffarci nella libertà, per ritornare a essere uomini.
Dotate di uno stile accattivante e particolarmente efficace, queste liriche si leggono con vero piacere e descrizioni, ambienti e paesaggi le ornano di uno sfondo quasi mistico.
Una nave impazzita è un canto di libertà.

Piero Gaffuri nasce a Padova nel 1956 e inizia l'attività di narratore nei primi anni ottanta. Insieme a un gruppo di amici, Pino Corrias, Claudio Piersanti, Marino Sinibaldi e altri, guidati da Goffredo Fofi, è tra i giovani autori della rivista letteraria "Linea d'Ombra".
Nel 1999 pubblica il primo romanzo "Apnea" per i tipi di Marsilio Editori. "Apnea" racconta isole, uomini e pesci. Il libro incontra il favore della critica e una buona attenzione di pubblico.
Nel 2002 esce "Il corsaro", una storia di sconfitte e rivincite professionali, ma anche di spiagge, di dune rubate e di baie inaccessibili. "Il corsaro" vince il Premio libro per l'estate.
Nel maggio del 2006 esce l'ultimo lavoro: "Il sorriso del vento". L'avventura è centrale, la fuga dal mondo di due amici alla ricerca di un tesoro e immersioni, mare, corallo nel contesto, un poco surreale, di un'isola apparentemente disabitata, al cospetto di uomini residuali che hanno ancora la forza e il coraggio di vivere d'arte e d'amore.
"Il sorriso del vento" ha vinto il Premio "La cultura del mare", ha ottenuto menzioni di merito al Premio Roma e al Premio Città di Gaeta, è stato finalista al premio Forte Village e al Premio "Il libro del mare" Casinò di Sanremo.
Nel marzo 2007, Gaffuri, coadiuvato dagli attori Anna Ferruzzo e Massimo Wertmuller e dalla musicista Ana Covaser, è autore e regista di uno spettacolo teatrale dal titolo "Il mare racconta" presentato in anteprima al salone del mare di Roma.
Renzo Montagnoli


I miei pensieri di Agnese Bonini Edizioni Agemina www.edizioniagemina.it
Prefazione di Mela Mondì Sanò

Poesia
Collana La Fenice

I ricordi riaffiorano quando si arriva a una certa età, in cui è d'obbligo fare un inconscio bilancio della propria esistenza, ed è quel che ha fatto negli ultimi venti anni Agnese Bonini, con una ricerca della memoria sostenuta da una vita improntata ai valori autentici, come l'amore per la propria famiglia, come il saper cogliere il perché dei fatti nel registro naturale che accompagna ognuno di noi. Una vita semplice è stata la sua, anche faticosa, con il lavoro della terra, ma sempre dedita a quella pace interiore che nel sessantesimo di matrimonio le fa scrivere:

Sessant'anni son passati,
come un sogno son volati,
ma ci siamo tanto amati!

È passato qualche temporale,
ma mai ci siam voluti male.

Di futuro non ne è rimasto tanto,
ma non pensiamoci
e restiamo sempre accanto!


E' una poesia semplice, affidata per il ritmo anche alle rime esterne, ma traspare evidente da questi versi l'appagamento, la soddisfazione di una persona che ha saputo cogliere il vero significato della vita.
La coscienza di essere parte di un ordine perfetto fa sì che la natura, nella sua semplice e imponente bellezza, sia ricorrente nelle liriche (Affacciandomi ai miei terrazzi, / vedo montagne verdi d'estate / e d'inverno ammantate di bianco. / Sono belle, maestose / sembra non siano mai / né vecchie, né stanche. /…).
E' una descrizione di rara efficacia, in cui si avverte ancora l'emozione che l'autrice prova per la bellezza del creato.
Ed è con mestizia, quasi con dolore che avverte il prezzo esoso della civiltà industriale rivedendo il fiume della Valdichiana, suo compagno di gioventù, offeso, sciupato come un vecchio abbandonato. C'è tanta tenerezza in questo accostamento fra un emblema della natura e un essere umano avanti con gli anni, due figure che tanto hanno dato e ora invece sono relegate al ruolo di cose vecchie e inutili.
E' una poesia non mediata, che esce fluttuante dall'animo, come se Agnese stesse raccontando la sua vita ai nipotini, una specie di lunga favola, costellata di tanti episodi, e ognuno con una sua morale, con la visione che questa donna ha del mondo che la circondava e che le sta intorno. Ecco allora un pensiero per gli umili, uno ai bimbi dei contadini, con una vita così diversa dai fanciulli del giorno d'oggi, fatta di fatiche, di lavoro, di cibo modesto e non in abbondanza. Ora invece i bimbi hanno tutto, anche troppo, non si spezzano la schiena e a differenza dei loro coetanei di tanto anni fa hanno perfino il tempo di annoiarsi, un pericolo questo che nonna Agnese evidenzia acutamente in modo poetico (…/Non seguite i fanatici che sanno solo predicare, / ma che in realtà vi vogliono solo schiavizzare / per farvi fare solo quello che a loro piace fare, / mentre voi affamati e miseri rischiate di restare! /…).
E si potrebbe andare avanti con altri episodi di questa bella favola che è la vita di questa signora, ma non voglio togliere ai lettori il piacere di una scoperta, di immergersi per un momento in un ruscello di acque cristalline che dolcemente mormora all'orecchio il senso della vita, una filosofia così complessa nella sua semplicità che solo facendola nostra possiamo apprezzarla, gioirne, coricarci la sera soddisfatti del giorno e alzarci all'indomani con la gioia di ricominciare.
La lettura di questo bel libro è sicuramente consigliabile.

Agnese Bonini, nata a Castiglion Fiorentino, località Porto a Cesa, il 3 Marzo del 1930, ha frequentato la terza elementare, conseguendo il diploma solo nell'età adulta. Si è sposata a 18 anni e l'anno successivo ha dato al mondo la sua prima ed unica figlia Gabriella.
Ha vissuto i suoi primi 20 anni in questa terra natia di cui la sua scrittura è piena. Successivamente, ha abbandonato le campagne aretine insieme alla famiglia, alla ricerca di un nuovo lavoro.
Ha svolto le più varie mansioni, anche le più umili, fino a quando, giunta a Prato alla metà degli anni '50, ha gestito un piccolo negozio di mercerie e poi ha collaborato alla gestione dell'azienda di commercio all'ingrosso del marito.
Da quando si è ritirata dal lavoro passa parte del suo tempo libero a scrivere pensieri e poesie in gran parte raccolti nell'ambito della presente pubblicazione.
Il 26 Febbraio di quest'anno ha festeggiato il suo 60° anniversario di Nozze.
Renzo Montagnoli


L'involucro del nulla di Francesco Baldassi Edizioni Tabula Fati www.edizionitabulafati.it
Presentazione di Marco Tabellione
Nota dell'autore
Poesia silloge

La materialità del nulla, intesa ossimoricamente come presenza, è alla base di questa silloge di Francesco Baldassi.
La ricerca interiore sui tanti perché dell'esistenza attuata attraverso un'analisi che lentamente scende in profondità per dare luce al buio assoluto della mancanza di conoscenza finisce per approdare al dubbio, mai risolvibile, che proprio ciò che noi chiamiamo nulla sia il fondamento del tutto.
Il lavoro di Baldassi, prima ancora che poetico, è di natura filosofica e i versi sono la manifestazione attraverso la quale si snoda il percorso cognitivo al cui approdo certo non è possibile arrivare, in una ricerca dell'Assoluto, una sublimazione dell'innata spiritualità spesso ignorata e che si svela, pur non completamente, in itinere (Dammi luce, mio Dio / perché è il suo raggio che tesse / intera la trasparenza del mio sogno / e il cuore e il senso delle cose / che di te altissima / cantano impalpabile bellezza / e l'insondabile sereno / della palpitazione del mistero. /…). E' un tragitto intrapreso da tanti in un labirintico procedere che finisce con il riportare alla partenza senza risposte certe, ma con una consapevolezza di serenità tale da desiderare continuamente di riprovare (Quiete di dolce intimità. Nel cielo / gli astri travolgono il pensiero / d'essere esposti al vento / siderale. / Il giorno consuma il desiderio / di durare al di là della limitazione / per cogliere perfetta l'espressione / del compimento. / Tra gli alberi raccolti nell'aperto / spazio che modula il sentiero / della sorte, m'abbandono all'alito / del cuore. / In questa transumanza dalla terra / al cielo, stridulo stropicciare di cicale / scorta la vita nel suo percorso estivo / incontro / alla soglia assoluta della serenità.).
Siamo indubbiamente, a livello poetico, nell'ambito della corrente ermetica, la più idonea per sviluppare un discorso filosofico di così elevata concettualità e Baldassi è consapevole che, per scelta e finalità, il mezzo appare il più appropriato per sviscerare, enunciare, proporre quest'opera la cui valenza, sotto ogni aspetto, è fuor di dubbio, raggiungendo livelli di eccellenza che ne raccomandano vivamente la lettura.

Francesco Baldassi vive a Roma dove è nato nel 1938. È stato insegnante di scuola elementare; ha studiato presso i Padri Cappuccini della Provincia di Roma sino all'età di ventiquattro anni. È laureato in pedagogia, con una tesi su Karl Raimund Popper.
Dal 1969 ha partecipato a movimenti culturali giovanili della capitale ed ha frequentato i sabato letterari alla Libreria Ferro di Cavallo e, successivamente, il gruppo autogestito di "Pubblico e Privato" ed il collettivo "Valore d'Uso".
Dal 1968 ha condiviso posizioni ideologiche, culturali e pedagogiche della sinistra, fin verso la fine degli anni Novanta, conclusisi col ritorno apparentemente improvviso e quasi imprevedibile, alla fede.
Ha pubblicato le seguenti sillogi poetiche: Ceneri del cortile (Rebellato, Padova 1969), Identificazioni e Ossessioni (Gabrieli, Roma 1976), Questa luce indossata dalle nostre parole (Rebellato, Padova 1983), Prova generale (Gabrieli, Roma 1985), Stupore (Gabrieli, Roma 2003), Il volto e la parola (Pigreco, Roma 2004), L’uomo è la sua minaccia (Tabula fati, Chieti 2005), La forza della vita (Patti 2006), Amore coniugale (Tabula fati, Chieti 2006) e Lieve il vento (Tabula fati, Chieti 2007). Ha esordito nella narrativa con il romanzo Il ritorno (Bonaccorso, Verona 2008).
Renzo Montagnoli


Nel silenzio dei rumori Poesie e pensieri di Gavino Puggioni Magnum Edizioni
Prefazione di Enrico Porqueddu
In copertina “Abbraccio” di Antonio Lino Pinna
Disegni di Antonio Lino Pinna
Introduzione dell’autore
Postfazione di Federica Cubeddu

Poesia raccolta

Il poeta osserva il mondo che lo circonda, riflette, interpola le sensazioni con i suoi sentimenti, con la parte più intima di se stesso e poi, sommessamente, trascrive in versi il frutto dell’elaborazione del suo processo di confronto fra realtà esteriore ed essenza del proprio Io.
Gavino Puggioni non si sottrae a questo procedimento del tutto naturale e anzi propone una visione catartica di ciò che è e di quello che dovrebbe essere.
Nel silenzio dei rumori è un’opera composta da tante minisillogi che affrontano, verificano, espandono e accentuano temi diversi.
Certo in un animo semplice come il suo, dove il semplice non è un aspetto riduttivo, ma invece è la naturale essenza dello spirito dell’uomo autenticamente sapiens e ancor più solidale, non potevano sfuggire le nefandezze di un mondo in cui la prepotenza di pochi è dolore dei tanti, in cui ogni nascita è segnata da destini innaturalmente precostituiti da violenze e da sofferenze.
Tuttavia, la sua non è una visione pessimistica assoluta, priva di ogni speranza, perché è proprio in quelle nascite che si può scorgere il seme di un essere diverso, di un Abele anziché di un Caino, di un futuro uomo che potrebbe capovolgere le sorti di un’umanità da sempre meno simile a quel Dio che l’ha creata.
Non è un caso quindi se questo silenzio, nel frastuono dei rumori inutili, delle grida, delle urla di dolore impone al lettore una generale riflessione sul perché dell’esistenza, sui suoi problemi, sui suoi controsensi, un richiamo insomma a una vita di valori più concreti e meno effimeri, in cui la spiritualità  riprenda il sopravvento su un materialismo diffuso che permea gli uomini e che nei casi migliori genera indifferenza.
Così, se accorata può sembrare Iraq e dintorni (Sono lacrime di pietra / nera grigia rossa / quelle che ogni giorno / scorrono e non vediamo./…), più pregnante e anche maggiormente accusatoria è Indifferenza (…/ Indifferenza / è l’ignoranza che ci sovrasta, / questa nuova civiltà del benessere, / è questo falso apparire ad ogni costo, / sempre, dovunque./…).
Non si pensi, però, che Puggioni abbia uniformato tutte le poesie presenti nella raccolta a questo tema principale, perché in effetti è tutto un susseguirsi del suo modo di vedere e di intendere la vita.
Del resto il titolo stesso dell’opera prende spunto da due pezzi, di cui uno in prosa che, intitolato Il senso della vita, nel confermare quanto ho più sopra precisato, è altamente esplicativo di questo modo semplice (ma la semplicità è una virtù) di intendere l’esistenza.
C’è spazio anche per una poesia naturalistica, non incline a virtuosismi, ma con descrizioni filtrate e tradotte in termini tenui dell’ambiente in cui vive l’autore, come in Il pescatore (…/ Spera nel domani / al rientro./ Per una vita grama / spesa per l’oggi.),  oppure come in Riverberi (…../ Il vento di maestrale / crea inutili sibili e pare / che le foglie dei pioppi / lo accompagnino / in una melodia / di suoni leggeri /…).
Del tutto poi particolari sono i non infrequenti inserti in prosa, delle vere e proprie riflessioni chiarificatrici del modo di vedere dell’autore, quasi timoroso dell’eventuale incomprensibilità dei suoi versi, quando invece nulla di ermetico vi è in una poesia che avvince e coinvolge il lettore.
Nel silenzio dei rumori è un’opera quindi che mi sento di consigliare vivamente.
Da ultimo una piccola informazione, importante però e che denota lo spirito di questo autore: il ricavato delle vendite di questa raccolta sarà devoluto all’UNICEF.

Gavino Puggioni
Alcune sue poesie sono state pubblicate già in alcune antologie del 1958-59 dirette da Ernesto De Leo, poeta e animatore della Editrice Musicale Letteraria “Il Sole D'oro” di Genova.  Altre poesie, negli stessi anni, pubblicate da riviste e giornali di cultura poetica de” L'Approdo del Sud” di Napoli. E in quel periodo giovanile, dai 17 ai 21 anni, scrive 96 poesie dedicate al suo essere, alla sua terra, a chi vi lavora , nel bene e nel male.
Scrive anche  undici racconti “tristi” e nostalgici e tutto questo rimane custodito per otto lustri, prima su quaderni scolastici e poi da questi trasferiti su fogli di A4, aiutato dalla sua vecchia lettera ventidue.
Dopo una lunga parentesi di lavoro, nel 2001, riprende a scrivere con lena e amore per il tempo passato  pur vivendo il presente e guardando al futuro.
Nel 2003 pubblica FINAGLIOSU raccolta delle prime prove di scrittura, arricchita da due nuovi racconti dedicati, uno, alla memoria e l'altro alla storia.
Nel 2004, sempre per i tipi della Magnum Edizioni, dà alle stampe  L'ARCOBALENO IN GIARDINO, poesia e piccola prosa che rivelano l'animo del poeta, tra ricordi, realtà e speranze di una vita vissuta ed intensa.
Nel 2007, sempre per lo stesso Editore, pubblica NEL SILENZIO DEI RUMORI, biografia dei battiti del suo cuore, della sua anima, dell'uomo che ama, che esalta e difende l'amore per tutti, in particolare per i bambini, per i bambini del mondo, ai quali dedica delicatissime poesie.
Ha partecipato ad alcuni concorsi letterari nazionali ed internazionali di Poesia ottenendo lusinghieri risultati.
Nel 2005 una “segnalazione di merito” alla 17° Edizione Nazionale del PREMIO LETTERARIO ARBORENSE            con pubblicazione della silloge.
Nel 2007 2° classificato al PREMIO NAZIONALE DI POESIA CIFA.ONG- Torino (aiutare i bambini ci fa bene) con pubblicazione della poesia “Aspettando” nell'Antologia del Premio.
Nel 2007 segnalazione al PREMIO INTERNAZIONALE DI POESIA NOSSIDE di Reggio Calabria.
Nel 2008 ancora una segnalazione al PREMIO INTERNAZIONALE DI POESIA NOSSIDE  di Reggio Calabria.
Ancora nel  2008  è risultato tra i dieci finalisti al Premio Nazionale di Poesia VALLE DELL'ANIENE, in collaborazione con l'Editrice Pagine di Roma.
Nel 2009 è presente  nell'AGENDA DEL POETA 2009 edita da Pagine di Roma dedicata ad Amelia Rosselli.
Renzo Montagnoli


L'incrinarsi di una persistenza
e altri racconti fantastici

di Maurizio Cometto
Prefazione di Valerio Evangelisti
Introduzione di Vincenzo Spasaro
Nota dell'autore alla seconda edizione
Elaborazione grafica di copertina
di Sacha Naspini
Edizioni Il Foglio Letterario

Narrativa raccolta di racconti
Collana Fantastico e altri orrori

Valerio Evangelisti scrive nella prefazione "Se mi chiedessero, a bruciapelo, qual è l'autore italiano di narrativa fantastica che preferisco, risponderei: Maurizio Cometto".
Ora, io non sono Valerio Evangelisti e nemmeno sono un appassionato del fantastico, anzi ne leggo raramente, però mi sento di affermare che questa seconda edizione, riveduta e ampliata, de L'incrinarsi di una persistenza è un libro di notevole valore, che va oltre la tipicità del genere.
Già mi aveva interessato Il costruttore di biciclette, ma questa volta sono stato letteralmente avvinto dai racconti piemontesi di Cometto.
Ho riscontrato infatti una straordinaria abilità nel rendere verosimili fatti che non hanno nulla di reale, nel proporre al lettore vicende e situazioni dotati di un'originalità più unica che rara, il tutto accompagnato da una sottile vena ironica che sdrammatizza le situazioni senza nulla togliere al pathos delle stesse.
Sono tredici racconti che, se si ha il tempo, si leggono d'un fiato, scritti in modo impeccabile e che confermano quindi il giudizio di Evangelisti.
Già il primo, Maglia a pois, ha il tono epico delle imprese ciclistiche di altri tempi, ma, quel che più conta, ricrea l'atmosfera magica di una difficile corsa, inserendo elementi propri del fantastico che si potrebbero definire perfino possibili. Il finale, poi, credetemi, è del tutto imperdibile.
Commovente, straziante perfino, è poi L'incrinarsi di una persistenza, che dona il titolo all'intera raccolta.
Non è mia intenzione, tuttavia, scrivere di tutti i racconti, ma di limitarmi a quelli che, a mio giudizio, sono veramente delle chicche e così ai due precedenti ne aggiungo uno piuttosto lungo che da solo, opportunamente ampliato, e c'è di certo la possibilità, potrebbe anche diventare un romanzo.
Mi riferisco a "Lo scaricamento della bara" che, al di là della stupenda trama, presenta caratteristiche del tutto particolari, con una precisa e incisiva definizione del carattere dei protagonisti, circostanza questa che, unita a un'ambientazione particolarmente riuscita, fa emergere le qualità stilistiche di Cometto, un autore che potrebbe cimentarsi anche nel classico romanzo con risultati che sarebbero altrettanto soddisfacenti.
Certo, lui è portato per il genere fantastico e lì brilla di luce propria, imponendo caratteristiche di assoluta eccellenza.
Se è così tanto piaciuto a me, che non sono un amante del genere, raccomandarne la lettura diventa, quindi, la naturale conseguenza di chi, con sorpresa - lo ammetto - arrivato all'ultima pagina si è lasciato sfuggire una semplice esclamazione: fantastico!

Maurizio Cometto è nato a Cuneo il 29 settembre 1971. Laureato in ingegneria meccanica, lavora a Rivoli in un' industria che produce cerchi in acciaio per autovetture. Ha pubblicato L'incrinarsi di una persistenza e altri racconti fantastici (Il Foglio, 2004), Il distributore di volantini (Magnetica Edizioni, 2006), Lo scaricamento della bara (Magnetica Edizioni, 2007).
Renzo Montagnoli


Il cerchio infinito di Renzo Montagnoli Edizioni Il Foglio
Introduzione dell’autore
Prefazione di Fabrizio Manini
In copertina “Galassia M 104”
fotografata dal telescopio spaziale Spitzer della NASA
Elaborazione grafica di Elena Migliorini

Poesia silloge 

“...Invano freno il calendario/ dimentico i mesi/ ignoro gli anni.../ Così si esprime in una delle più belle poesie de “Il cerchio Infinito” Renzo Montagnoli, autore di questa silloge, tutta ispirata al senso del tempo. Il Tempo, che nella sua corsa costante, ininterrotta, incessante, condiziona la vita di ogni essere umano e di tutte le realtà possibili “... istanti di nulla nell’eternità di un tempo/ che immutabile scorre fra astri e pianeti.../
È il Tempo la misura di tutte le cose. E l’uomo rincorre il proprio Tempo, dilapidando immemore una successione infinita di istanti, ore, giorni, mesi, anni, mentre si affanna a realizzare pensieri, idee, progetti, e cerca di modificare gli eventi, pianificandoli in relazione alle proprie esigenze, alle quotidiane vicende umane, al naturale e insolito evolversi delle contingenze.
La complessità di questo tema e l’impossibilità di tradurre razionalmente il mistero che circonda la nostra vita ha visto appassionarsi filosofi come Aristotele, Kant, Heidegger; fisici come Einstein, Darwin e Newton; psicologi come Bonaventura, Piaget, Fraisse; e poeti come Ardengo Soffici, il quale nella poesia “Arcobaleno” ci dà in un solo verso la sua rappresentazione del Tempo: “L’eternità splende in un volo di mosca”.
Secondo Newton “Il tempo assoluto, vero e matematico, senza relazione con nulla di esterno, scorre uniformemente, e si chiama durata; il tempo relativo... è la misura... desunta dal movimento di una parte qualunque di durata; tale è la misura delle ore, dei giorni, ecc., di cui ci si suole servire in luogo del tempo vero”.
Dunque il nostro Tempo non può essere valutato in modo autonomo e indipendente, isolato cioè dalle nostre azioni, dai comportamenti, dallo spazio in cui operiamo. Il concetto di Tempo è infatti legato indissolubilmente alle nostre percezioni, ai nostri dubbi, alle nostre sensazioni ed è in stretto rapporto con le azioni da noi compiute.
La silloge di Renzo Montagnoli, monotematica, è un diario intimo incentrato soprattutto sulla segreta ansietà del Poeta nei confronti del trascorrere lento eppure tenace del Tempo. Il cammino dell’uomo, e del poeta in particolare, è violato, in un certo senso, dalle vibrazioni febbrili e pessimistiche inflitte dalla voracità di questo Tempo, che tutto logora, tutto trascina e tutto assorbe. È un mistero cosmico inquietante. L’esistenza è interamente spesa tra squarci di speranze “...sfida il vento d’inverno/ sperando in un’altra primavera.” e la fuga travolgente verso la fine.
“Gocce di vita/ microbici segni/ di un tempo senza ore/ di uno spazio senza limiti/ in un giorno/ che come nasce/ muore.../ ... Un battito di ciglia/ ed è già domani./
Montagnoli delinea così il suo concetto di Tempo.
La prima lirica, “Il cerchio infinito” che ha dato il titolo al libro, a una prima lettura potrebbe far pensare all’“eterno ritorno” di Nietzche. In effetti è l’affermazione risoluta della caducità di tutte le cose umane e terrene di fronte al costante, infinito ritorno di albe e tramonti, di giorni e di notti, del sole e del fiume che scorre: “...è già buio e poi sarà la luce/ fra atomi erranti/ in un tempo senza fine,/ in una catena di indissolubili destini,/ dove resta la polvere di anime spoglie,/ soffi di vita ritornati nell’eternità.”
È il Tempo l’unica eternità possibile. Ed è l’unico “eterno ritorno”.
Pina Vicario


Diario di Anne Frank ed. integrale Einaudi

L’alloggio segreto, Titolo originale Het Achterhuit (il retrocasa), 12 giugno 1942 – 1° agosto 1944 - A cura di Otto Frank e Mirjam Pressler con la prefazione all’edizione del 1964 di Natalia Ginzburg.

Il diario ha inizio nel giugno 1942, quando Anne al compimento dei 13 anni, riceve in dono un quaderno cartonato su cui trascriverà due anni di segregazione misti a sofferenze e speranze adolescenziali. Le sue prime parole saranno: “ Spero di poterti confidare tutto, come non ho mai potuto fare con nessuno, e spero che mi sarai di grande sostegno”. I Frank, ebrei tedeschi scappati dalla Germania nel 1933, per sfuggire alle persecuzioni antisemite, si rifugiano ad Amsterdam, lontana dall’odio nazista, ma l’occupazione tedesca costringerà Anne e la sua famiglia a trascorrere più di due anni in clandestinità, in un piccolo spazio a due piani posto sopra i locali della compagnia di Otto, la porta dell'Achterhuis era nascosta dietro una libreria, senza mai uscire, visitati solo da fedeli amici che porteranno provviste e notizie dall’esterno. Vissero lì dal 9 luglio 1942 al 4 agosto 1944. Nel nascondiglio trovarono rifugio 8 persone: Otto e Edith Frank, i genitori di Anna, la sorella maggiore Margot, il signor Dussel, un dentista ebreo il cui vero nome era Fritz Pfeffer e i coniugi van Daan con loro figlio Peter. Il 4 agosto, una soffiata di un informatore olandese portò la Gestapo al loro nascondiglio. Vennero arrestati e trasferiti al campo di smistamento di Westerbork, nell'Olanda nord-orientale. Il 2 settembre 1944 Anna Frank e gli altri clandestini vennero caricati sull'ultimo treno merci in partenza per Auschwitz, dove giunsero tre giorni dopo. Nel frattempo Miep Gies ed Elly Vossen, due delle persone che si erano prese cura del gruppo durante il periodo passato nel nascondiglio, trovarono il diario e lo misero al sicuro. Anna, Margot ed Edith Frank, i van Pels e Fritz Pfeffer non sopravvissero ai campi di concentramento tedeschi. Margot e Anna passarono un mese ad Auschwitz-Birkenau e vennero poi spedite a Bergen-Belsen, dove morirono di tifo esantematico nel marzo 1945, un mese prima della liberazione del campo. Solo il padre di Anna sopravvisse ai campi di concentramento: tornò ad Amsterdam nel giugno del 1945 dopo tre mesi di viaggio. Miep gli diede il diario ed egli lo aggiustò per la pubblicazione con il titolo di Het Achterhuis. Il diario finisce il 1° agosto 1944, nell’ultima pagina, Anne trascrive le emozioni e gli stati d’animo contrastanti tipici della sua età che la situazione difficile e particolare acuisce; appare la dualità di una personalità in fieri un po’ triste dentro e allegra fuori (si autodefinisce una contraddizione ambulante): “ Cerco un modo per diventare come vorrei tanto essere e come potrei essere se… nel mondo non ci fosse nessun altro”. Pur nella catastrofe imminente che travolge gli ebrei, la speranza anima Anne, questa ragazzina intrepida, più matura della sua età, che lotta contro la solitudine, il desiderio malinconico di amicizia, il suo amore per Peter, il suo conflitto generazionale con la figura materna ed esprime la sua determinazione di vivere oltre la morte e diventare scrittrice. Infatti la scrittura denota, già, particolare capacità riflessiva ed acutezza introspettiva. La lettura del diario è la lettura dell’intimo di un’anima, dei sentimenti più segreti del cuore dove privato e Storia si confondono. Anne non abbandona i suoi sogni perché, nonostante tutto, crede nella bontà degli uomini: “Mi è proprio impossibile costruire tutto sulla base della morte, della miseria e della confusione. Sento il rombo che ucciderà anche noi, sono partecipe del dolore di milioni di persone, eppure, quando guardo il cielo, penso che tutto tornerà a volgersi al bene, che anche questa durezza spietata finirà, e che nel mondo torneranno tranquillità e pace. Nel frattempo devo conservare alti i miei ideali, che forse nei tempi a venire si potranno ancora realizzare!”

Di questa storia sono state scritte migliaia di pagine, ma la rilettura rinnova, sempre, lo strazio di questa vita umana appena sbocciata e troncata tragicamente da eventi incomprensibili. Come ripeteva, Anne, un antico detto: “Un cristiano risponde di quello che fa, mentre quello che fa un ebreo ricade su tutti gli ebrei”.

Autrice: Anne (Annelies Marie) Frank, nata il 12 giugno 1929 a Francoforte sul Meno, è morta di stenti e di tifo nel campo di concentramento di Bergen-Belsen tra il febbraio e il marzo del 1945. Seconda figlia di Otto Heinrich Frank e di sua moglie Edith Hollander, apparteneva a una famiglia di patrioti tedeschi che prestarono servizio durante la prima guerra mondiale. Aveva una sorella maggiore, Margot Betti Frank, anche lei morta nel marzo 1945. Tradotto in 60 lingue e venduto in 30 milioni di copie, questo è uno dei libri più letti al mondo, è stato pubblicato nel 1947 dal padre di Anna, Otto, sopravvissuto ai campi di concentramento, con il titolo di Het Achterhuis. Da allora è stato pubblicato in 55 lingue. Otto Frank morì a Basilea nel 1980.
Dal libro è stato trasposto il film del 1959 “The diary of Anne Frank” che ha riscosso tanti premi oscar. E’ stata realizzata una riduzione teatrale, un altro film inedito è stato prodotto dalla BBC e trasmesso di recente in televisione.
Arcangela Cammalleri


Una donna tra due mondi
(La mia vita all'ombra di Saddam Hussein)
di Zainab Salbi con LaurieBecklund - ed. TEA

Zainab Salbi ha avuto lo sfortunatissimo privilegio di essere la figlia del pilota personale del dittatore iracheno e, insieme con la sua famiglia, di essere accolta nella cerchia degli amici più vicini alla vita di palazzo. Con la strana caratteristica, tuttavia, di essere considerata dai più intimi del Presidente qualcosa di meno di loro e dai suoi stessi amici come qualcosa di più di loro, così da appartenere contemporaneamente a due mondi che in qualche modo le risultavano estranei o che tale la facevano sentire.
Questo libro è una testimonianza terribile delle atrocità commesse dal dittatore Saddam, non soltanto a danno del suo stesso popolo, assoggettato fin nella possibilità di pensare, ma anche della stessa Zainab e dei suoi familiari (genitori e due fratelli minori di lei), in questo caso con ferite gravissime nell'anima mai più rimarginabili, nonostante il "disgraziato" privilegio di vivere a stretto contatto con lui e con tutto il suo entourage ed evidentemente ancora di più proprio per questo. L'autrice racconta particolari agghiaccianti del comportamento di Saddam, il cui tenore di vita è sempre stato improntato ad un lusso sfrenato consentito da circostanze astutamente e malvagiamente create a danno di tutti gli iracheni.
Noi probabilmente conosciamo alcune situazioni la cui eco è risaltata attraverso i media nelle nostre case al tempo della Guerra del Golfo, ma le informazioni a suo tempo trasmesse in TV e riportate sui giornali sono una minima parte di quanto avveniva nella realtà quotidiana in Iraq. L'autrice è stata talmente segnata in profondità che non riusciva neppure a pronunciare il nome del dittatore, fin quando egli era in vita, anche dopo il suo allontanamento dal potere (e dall'Iraq) ad opera di Bush. Scrivere questo libro l'ha aiutata a recuperare tratti del proprio passato che aveva cercato non di rimuovere ma addirittura di cancellare, relegandoli nel punto più profondo e distante della mente, rispetto alla consapevolezza, per poterli rielaborare.
La sua esistenza è stata devastata dalla paura a tal punto che aveva paura della sua stessa paura.
È stata derubata dei suoi princìpi, sostituiti con le sole idee che tutti gli iracheni indistintamente dovevano avere, e che erano le idee di Saddam. Le torture fisiche subite da moltissimi suoi connazionali anche per futili motivi probabilmente potrebbero essere prese come un paragone con le torture psicologiche subite da Zainab e da tutta la sua famiglia, ma queste ultime hanno avuto esiti molto più tragici, perché l'anima ferita in profondità è inguaribile.
Zainab è riuscita a sfuggire alle grinfie del dittatore che su lei appena giovanetta aveva messo gli occhi, come aveva fatto con moltissime altre donne giovani e meno giovani, sottomesse con violenza in molti modi, solo grazie alle sofferenze a cui ha dovuto andare incontro la madre di lei nel tentativo di sottrarre la figlia ad esperienze ancora più terribili di quante ne avesse già subite.
La storia che l'autrice racconta è la sua personale e quella della sua famiglia e delle persone a loro più vicine, ma inevitabilmente è anche la storia di Saddam. Non vengono trascurati dettagli importanti, pur se ignobili, per dare il senso pieno e profondo di un trentennio di tirannia che forse non ha uguali nella storia.
Con il definitivo trasferimento di Zainab negli Stati Uniti, e solo dopo la morte del dittatore iracheno, ha potuto prendere forma questo libro-testimonianza, anche grazie al lavoro svolto dall'autrice che ha fondato l'Associazione "Donna per la donna" con lo scopo di aiutare tutte le donne vittime di tirannie nei propri stessi paesi. In quanto Presidentessa di questa Associazione no profit, la Salbi è venuta a conoscenza di storie terribili in diverse altre parti del mondo oltre che in Iraq e ha aiutato le vittime a raccontarle, finché si è resa conto che aveva paura di raccontare la sua storia altrettanto terribile.
A sua volta con l'aiuto di una giornalista che l'aveva conosciuta molti anni prima e del suo "dolcissimo" marito che l'ha sempre affiancata nel condurre l'Associazione, è riuscita a raccontare moltissime cose di sé, della sua sfortunata e travagliatissima vita "all'ombra di Saddam Hussein", ma le è costato un enorme sforzo psicologico.
Leggere questo libro mi ha reso ancora più consapevole (se ce ne fosse bisogno) non solo di realtà che spesso i media non ci sottopongono o, se lo fanno, lo fanno in modo tanto superficiale da risultare inutile e vano, ma mi ha anche dato il senso della forza e determinazione di molte donne, da un lato, e dell'infimo degradarsi di certi uomini, dall'altro.
In questi giorni in Italia si continua a parlare di stupri, e non ci si indigna mai abbastanza.
Ma l'autrice ci racconta che sono stati istituzionalizzati appositi campi di stupri in zone martoriate da guerre assurde e nessun governo forte (Stati Uniti in testa) non solo non ha prevenuto azioni tanto turpi e disumane, ma neppure le ha condannate né eliminate, se non al termine delle guerre (Bosnia, Kossovo, ecc..).
Non ci si indigna mai abbastanza finché questi orrori non verranno ritenuti dei crimini peggiori delle stesse torture, per i quali dovrebbero essere previste le pene più severe.
L'avere scritto questo libro fa onore all'autrice, perché esalta la sua dignità di donna e quella di tutte le donne la cui umanità esula dal "genere" per essere una caratteristica strettamente individuale. E va dato merito e onore anche a quegli uomini che insieme a lei si occupano attivamente di debellare questo endemico crimine che degrada coloro che se ne macchiano al di sotto del livello delle bestie.
Le testimonianze della Salbi sono tanto nette e dettagliate che il libro può essere considerato un vero documento storico, da cui si evince purtroppo molto chiaramente quanto ho fin qui scritto.
Non ho voluto di proposito, in questa recensione, soffermarmi su particolari di maggior rilievo, perché il libro intero ne è pieno e pertanto merita solo di essere letto integralmente.
Carmen Lama, 16 febbraio 2009


Il bambino con il pigiama a righe
Una favola di John Boyne ed. Fabbri
Titolo originale The boy in the striped pyjamas
Quarta di copertina. Non è facile descrivere questa storia in poche parole. Meglio non farlo, allora. Meglio se cominciate a leggere senza sapere nulla di più.

La storia si svolge a Berlino e ad Auschwitz nei primi anni ‘40, protagonisti Bruno, un bambino tedesco di nove e Shmuel, della stessa età, ebreo. Il tema dominante è l’amicizia, quella tra due esseri puri che li unisce al di là della Storia e delle sue aberrazioni. E’ un libro non solo per ragazzi, ma per tutti e la storia si sviluppa attraverso gli occhi innocenti di un bambino che non riesce a interpretare la realtà che gli sta di fronte e il male che incombe sugli uomini. Auscit (Auschwitz) così Bruno pronuncia il nome dove si trovano e il Furio (il Fürher), l’Entità che, come Deus ex machina, governa i destini di un popolo. La storia ha le caratteristiche come dice l’autore, della favola in cui l’atmosfera opprimente e innaturale si stempera in avventura e gioco. Eppure le prime sensazioni di Bruno, quando lui e la sua famiglia, il padre, comandante delle SS, la madre, la sorella Gretel di 12 anni, arrivano nella nuova residenza, dopo aver lasciato la casa a cinque piani di Berlino, sono di angoscia. Avverte, senza capire che la distesa recintata che vedeva dalla finestra era nel bel mezzo di niente, non c’era niente da ridere, niente di cui essere felici. C’era qualcosa là fuori che gli dà un gran senso di gelo ed incertezza. Oltre la casa, oltre la foresta… Le baracche che, da lontano, intravede, gli uomini, le donne, i bambini, questa moltitudine di umanità recintata e vestita con dei pigiama a righe, i soldati che li controllano, gridano, danno ordini, tutto questo non ha alcun senso. L’amicizia che stringerà con Shmuel sarà così autentica e sincera da unirli per sempre in uno stesso tragico destino. La scrittura è semplice ed immediata, rapportata a livello e dimensione di ragazzi, la trama avvincente e commovente. Per chi ha visto il film sa la fine a cui andrà incontro, inconsapevole, Bruno, la cui figura così innocente ricorda l’altro bambino, Giosuè di “La vita è bella” di Benigni. Anche il film è molto bello, senza scadere nella retorica restituisce intatto quel candore e quell’incanto propri dell’infanzia, al centro di una inspiegabile e insensata tragedia.

Autore. John Boyne è nato in Irlanda nel 1971. Ha studiato al Trinity College di Dublino e all’Università dell’East Anglia a Norwich. Ha scritto tre romanzi per adulti. Vive a Dublino. Questo è il suo primo romanzo per ragazzi ed è stato venduto in 15 Paesi.
Sul grande schermo per Miramax con la sceneggiatura e la regia di Mark Herman.
Arcangela Cammalleri


Un sabato, con gli amici  di Andrea Camilleri   Ed. Mondadori
Romanzo -  Narrativa    pag.142

Senza Montalbano, senza Sicilia, senza Dialetto, Camilleri “Esordisce” ottantenne con un romanzo sperimentale, come lui stesso afferma; intraprende strade diverse, con esiti un po’ disorientanti. Non sembra di leggere Camilleri, non lo stesso stile narrativo al quale siamo abituati, non lo stesso sguardo compartecipe verso i suoi personaggi. Il suo estro creativo ci estrania e ci devia verso percorsi insoliti, anche se, in pectore, forse, covava una storia borghese di tal fatta con magmi sotterranei di insoluti traumi e drammi a causa dei quali la vita dei protagonisti del romanzo si veste di menzogne e ambiguità. Il titolo sembra echeggiare una pièce teatrale tipo “Metti una sera a cena” di Giuseppe patroni Griffi o i drammi pirandelliani o certi film di riunioni amicali dove succede di tutto. La struttura del plot è costruita secondo tecniche teatrali, dalle scene iniziali in cui sette bambini vivono inconsapevoli situazioni scabrose alle scene successive, in un intreccio capriccioso del destino, in cui li ritroviamo adulti e tutti insieme, per relazioni di varia natura intercorrenti tra loro. Alcuni, compagni di liceo o università, legati da un passato sotterrato che adesso riemerge e rischia di sprofondarli in abissi senza fine. E’ questa storia un dramma borghese intrisa di ogni tipo di nefandezze e obbrobri che si celano e che circostanze particolari fanno riemergere; come certi incubi notturni o sogni allucinatori che ottenebrano il ben dell’intelletto e scattano meccanismi perversi spacciati per normalità. La trama,  in breve, racconta, per istantanee, trances di vita di Matteo, Gianni, Giulia, Anna, Fabio, Andrea, e Renata, detta Rena, da bambini, vittime di adulti insani e poi nell’età adulta dove una tranquillizzante elaborazione del loro passato ripugnante, non è catarsi, ma dannazione. Non si sciolgono i nodi dell’intricato vissuto infantile, ma si disvelano solo nella mente dei protagonisti con tutto il loro peso morboso e ineluttabile. Camilleri  plasma una materia narrativa  profusa a piene mani di miserie e una scrittura non indulgente, ma secca, essenziale, dialogata, scarnificata da qualsiasi pietismo personale restituendoci degli esseri umani che d’umano hanno ben poco. Che dire, spiazzante lo scrittore, non finisce di stupirci e, forse controverso  ne risulta il grado di piacevolezza che questo libro ci offre. Certo è che Camilleri impavidamente si mette sempre in gioco come un giocatore d’azzardo che osa ad oltranza o come chi pratica sport estremi per misurare se stesso in una sfida continua.

L’autore. Andrea Camilleri è nato a Porto Empedocle nel 1925. Ha esordito come romanziere nel 1978 con “Il corso delle cose”. Della sua ricchissima produzione letteraria tutti i romanzi con protagonista il commissario Montalbano sono pubblicati dalla casa editrice Sellerio e altri, tra questi ricordiamo: “La forma dell’acqua”, “Il cane di terracotta”, “Il ladro di merendine”, “La voce del violino”, “La stagione della caccia”, “Il birraio di Preston”, “La concessione del telefono”, “La gita a Tindari”, “Maruzza Musumeci”, “Il casellante”, “Il campo del vasaio”, “L’età del dubbio”.
Arcangela Cammalleri


La divina foresta di Giuseppe Bonaviri Sellerio editore Palermo
a cura di Salvatore Nigro
Narrativa romanzo

Non è facile scrivere di un libro come La divina foresta, perché tutto in esso è fuori dai canoni correnti. Lo si potrebbe anche interpretare in diversi modi, come un testo poetico e di poesia lì ce n'è tanta, ma non si tratta di versi sapientemente accostati per creare una composizione armonica, bensì di una prosa caratterizzata da soluzioni e da ritmi che sono propri della poesia, un insieme di elementi che fanno di questo testo un'opera unica e di indubbio elevato valore.
Non è solo la capacità creativa che stupisce e affascina, ma anche quella sottile vena di mistero che permea tutto il romanzo, con un susseguirsi di divenire, di modificare, di proporre nuovi quesiti dopo che già sembra di aver avuto adeguate risposte alle domande che inevitabilmente il lettore finisce con il porsi.
E' una scrittura immaginativa e non a caso il libro entusiasmò Italo Calvino, con quel sorgere della vita in un mondo primordiale descritta con una fantasia dall'efficacia sorprendente, e con una serie di successive metamorfosi che richiama alla memoria, pur nelle loro differenze, la famosa opera di Ovidio.
Se l'aspetto interpretativo non può essere univoco, di rilevante e uniforme giudizio è invece quello stilistico, in cui la ricerca del linguaggio ha caratteristiche svariate, che vanno dall'uso di descrizioni che si potrebbero definire addirittura tridimensionali all'aspetto fonetico delle parole, il tutto finalizzato a creare un irripetibile equilibrio ritmico di prosa poetica (del resto non è un caso se aveva suscitato in Giorgio Caproni tanto entusiasmo in un suo parere di lettura).
La vicenda di un magma inconsistente che si apre alla vita, prima indefinibile, poi vegetale, trasformandosi infine in un avvoltoio trova un'esatta definizione in quel poema biologico che proprio Calvino ebbe a riscontrare leggendo il libro.
Sarebbe tuttavia limitativo pensare solo che Bonaviri abbia inteso darci una sua personale visione della creazione e dell'evoluzione della vita, perché secondo me l'opera presenta altre interpretazioni, non in contrasto fra loro, che non possono che nobilitare ulteriormente il lavoro dello scrittore di Mineo.
Fra queste non di certo trascurabili sono le riflessioni filosofiche che ogni tanto emergono nel linguaggio di vegetali e di animali, un porsi il perché dell'esistenza in specie minori che presenta il vantaggio di semplificare i loro ragionamenti a tutto beneficio del lettore.
Del resto la vicenda dell'avvoltoio che ricerca l'amore fuggito, spingendosi oltre ogni confine, cercando di arrivare alla luna (le descrizioni al riguardo sono semplicemente eccezionali) sembra la metafora dell'uomo che tenta dalle origini di scoprire se stesso, senza mai riuscirci completamente.
Ma l'opera è aperta anche ad altre interpretazioni che le successive riletture sono in grado di far emergere, proprio come in un lavoro poetico di indubbio grande valore.
Ho riscontrato, fra l'altro, un rispetto profondo per la natura, quel senso del far parte di qualche cosa che dall'infinitesimo al più grande non ci appartiene, ma che ci ospita in un disegno apparentemente caotico, la cui perfezione tuttavia esclude la capacità dell'umano comprendere, a cui è consentito solo di scoprire leggi fisiche senza capirne i motivi se non cercando, con un percorso intimo trascendente, di arrivarvi, senza tuttavia riuscirci.
Mi pare superfluo aggiungere che questo libro è senz'altro raccomandabile, ma lo faccio perché Giuseppe Bonaviri è un autore poco conosciuto al grande pubblico, benché le sue opere possano incontrarne i favori anche per la considerevole gradevolezza della lettura.

Biobibliografia (fonte Wikipedia)
Giuseppe Bonaviri, nato a Mineo (Catania) l'11 luglio 1924, è il primo dei cinque figli di don Nanè, sarto, e di Donna Giuseppina Casaccio, casalinga.
Frequenta le scuole a Mineo e la sua passione poetica, come afferma lo stesso Bonaviri, viene alimentata dall'atmosfera magica che aleggiava intorno ad una pietra, detta della poesia, che si trovava presso Camuti (altopiano famoso per il suo villaggio preistorico) dove si trovava la pietra attorno alla quale, fino alla fine del 1850, prima dell'Unità d'Italia, si riunivano numerosi poeti da ogni parte della Sicilia, per gareggiare scrivendo e recitando versi.
Si iscrive in seguito presso l'Università di Catania dove consegue la laurea in medicina nel 1949, svolge il servizio di leva come sottotenente medico a Casale Monferrato dove scrive il suo primo romanzo, Il sarto della stradalunga, che è anche quello a cui Bonaviri è più legato. L'opera ottiene grande approvazione da parte di Elio Vittorini e sarà pubblicata nel 1954 da Einaudi nella nuova collana "I gettoni".
Trasferitosi a Frosinone, lavora come medico cardiologo, cercando di conciliare la sua attività professionale con la scrittura.
Scrive numerosi romanzi nei quali rappresenta il piccolo mondo paesano della sua terra, sempre attento a cogliere la dimensione magica e arcaica della natura: Il fiume di pietra nel 1964, Notti sull'altura nel 1971, L'enorme tempo nel 1976, Novelle saracene nel 1980, L'incominciamento nel 1983, È un rosseggiar di peschi e d'albicocchi nel 1986, Ghigò nel 1990, Il vicolo blu nel 2003.
Ha anche pubblicato raccolte di poesie: Il dire celeste nel 1976, O corpo sospiroso nel 1982, L'asprura nel 1986, I cavalli lunari nel 2004.
Nel 2006 ha pubblicato Autobiografia in do minore. Nel 2007 si è raccontato nel documentario Bonaviri ritratto di Massimiliano Perrotta.
Renzo Montagnoli


Il cerchio infinito di Renzo Montagnoli Edizioni Il Foglio
Introduzione dell'autore
Prefazione di Fabrizio Manini
In copertina "Galassia M 104"
fotografata dal telescopio spaziale Spitzer della NASA
Elaborazione grafica di Elena Migliorini

Renzo Montagnoli ne "Il cerchio infinito" ci porta a percorrere quello che è il cammino compiuto da ognuno nel "viale" tra vita-morte annullando tempo e spazio.
La meditazione sull'anima e sulla possibilità dell'immortalità personale domina lo scenario filosofico da sempre; le domande fondamentali sulla vita e sulla morte si presentano nell'essere umano in maniera forte e radicale. L'essere umano, oggi, si trova nel dentro di un contesto storico-culturale nel quale l'esemplare di vita, altalena tra materialismo e il bisogno diffuso e confuso di spiritualismo dell'altro.
"... Camminiamo insieme/nel breve arco di una vita/un ricordo che non muore/per chi ormai è alla fine di quel viale."
Perché quello che per noi è un tempo breve per un altro essere è tutta una vita.
La capacità di scoprire in sé potenzialità illimitate, una forza che permette di elevarsi alle più alte vette dell'esistenza e di ambire all'aldilà infinito, di una vita oltre la vita, quella che rimane eterna nel tempo non tempo per l'anima.
"...Nessun progetto/a distrarmi dalla soddisfazione di gustare/il sapore della vita,/il profumo di un tempo tutto mio."
Avere la consapevolezza che questa vita è solo un passaggio e avere la libertà di viverla intensamente in tutte le sue emozioni, che siano esse dolori o gioie, citando Monetti, "Libertà che permette di essere signore e sovrano della Terra come Dio lo è dei Cieli".
Ogni realtà oggettiva è permeata dal palpitare di questa vita che s'infila in ogni vuoto, pulsa, vibra con l'input incessante del suo dinamismo nel moto degli universi: "…Circondata da lucenti ancelle/fa sospirare innamorati/preghiere desideri/fantasie ideali/raccoglie in sé/turbamenti inconsci/di un mistero non ancora svelato/invano riflesso nell'acqua del mare./", alla poetica dell'eternità si avvicenda una dissimile percezione del tempo, che è inteso come una richiesta di risposte alle domande eterne dell'essere umano, per rendere concreto il ritrovamento di una dimensione più complessa e problematica dell'esistenza.
"…Il mio sguardo correva lontano/immaginava oltre orizzonte/s'inerpicava su rapidi pendii/s'aggrappava alle nubi del cielo/correva con l'acqua dei fiumi/indugiava in pozzi nascosti/si spegneva nel dubbio del nulla/.", lodevole manifestazione di un arcano che ha radici ben più profonde della ragione d'esistere.
L'uomo appartiene al tempo. Sbocciamo al mondo, passiamo in esso un tempo impercettibile, scompariamo. Vivere e divenire sono strettamente legati l'uno all'altro. Il tempo ci appartiene, e noi, ne possiamo disporre per come meglio crediamo; esso è inafferrabile e spesso per comprenderlo ricorriamo a metafore come quella del cerchio. Tutto è eternamente destinato a ritornare e non c'è "mai nulla di veramente nuovo sotto il sole". Anche se siamo portati a vedere il tempo come un movimento lineare, dalla nascita alla morte sempre avanti mai all'indietro, "…Il tempo per lei è già passato./Senza più forza senza più voglia/si lascia cadere nell'ultimo volo/di una vita ormai finita./
Montagnoli con "Il cerchio infinito", induce il lettore ad ampie riflessioni, riflessioni invase da onde ritornanti, verso dove? Verso il nulla o verso un possibile senso ultimo?
In fondo è questo che l'autore si chiede.
Una silloge che consiglio vivamente.
Katia Ciarrocchi


La rateta presumida,
ovvero come scegliersi l'assassino
"Prendi una donna, trattala male, lascia che ti aspetti per ore. Non farti vivo quando la chiami, fallo come fosse un favore."
Sono stata fortunata nel mio primo anno di università: avevo un'amica motorizzata. Una volta rintracciata la macchina, che chissà dove diavolo l'abbiamo parcheggiata se fossimo andate a piedi ci saremmo sbrigate prima, partivamo tutte contente. Appena dopo il motore, la canzone di Marco Ferradini. Solo quella cassetta, solo quella canzone fino alla fine del nastro. A risentirla, mi ritrovo su un'utilitaria bianca accanto a Giuditta, coi brividi lungo la schiena.
"Fa sentire che è poco importante, dosa bene amore e crudeltà. Cerca di essere un tenero amante, ma fuori dal letto nessuna pietà".
Amore e crudeltà. Le adrenaliniche scariche alternate. Seducente la crudeltà. Dolce come la morte, tenera come la paura. La paura di amare è di morirne. La voglia di amare è di morirne. Chi non darebbe gli occhi al proprio amato? Chi non pretende l'intesa perfetta e la totale fusione? Aspirazioni legittime che spingono a rinunciare a parte di sé. Travalicare ogni confine, compreso il rispetto per se stesse e la propria vita. Ha senso vivere se lo si fa in due. Talmenti forti da credere siano le stesse del proprio compagno. Lo si presume. Si sceglie il gatto che alimenta il sogno. L'attrazione inghiotte in un vortice di promesse spesso disattese, ma invitanti troppo invitanti. Costringe a dimenarsi contro chi si esige con tutte le forze, con blanda resistenza, perdenti in partenza. A discapito della vocina, quella da ascoltare sempre. Teorema, per Giuditta, era l'unica canzone. Come un monito. Perché il gatto non lo incontrano solo le altre. D'avanti a notizie tragiche si giudica la vittima. Avventata, incauta, credulona. Da donne sveglie, siamo sempre sicure che, nello stesso frangente, noi ci saremmo salvate. Suvvia bastava fare così e così, come mai quella non ci ha pensato? È una presunzione comune: quella di non dover mai essere vittima. O una maschera. Dati alla mano, anche quelle che si sono salvate da pesanti drammi, sono incorse in qualche situazione di violenza ritenuta minore. Il tipo di violenza alla quale non si fa nemmeno caso. È, tutto sommato, sopportabile. Il ceffone è capitato, la scostumatezza giustificata. Giustifica, dopo giustifica, dopo vigliaccata, si arriva alla vergogna. Vergogna di quello che doveva capitare solo alle altre. La vergogna che impone finzione. Vergogna, di cosa?
"Io non avrò mai più una vita normale, avrò un'altra vita che mi costringerà a fare i conti ogni giorno con quello che è accaduto", Amorosi assassini, trecento storie vere di violenza concentrate in un solo anno, il 2006.
""E stai sicuro che ti lascerà, chi è troppo amato amore non dà".
La morte è sempre preannunciata. Dagli amici, per le più amate, da una sottile ed istintiva inquietudine per le altre. I rapporti umani sono chimici, empatici, e tutti abbiamo almeno una minima percezione delle intenzioni di chi ci circonda. Per non accorgersi proprio mai di niente bisogna non voler vedere, sentire, capire, percepire il nostro proverbiale sesto senso. In altre parole, autoconvincersi dell'assenza dei segnali. Si costruisce un'illusione a disprezzo della realtà. Quest'illusione soddisfa l'autostima, la presunzione di avere la forza di volgere la situazione secondo i propri desideri, di essere, almeno nell'intimo, una pantera. Gli artigli al momento giusto usciranno. Un'illusione che diventa presunzione, e la presunzione morte. Concita De Gregorio in "Malamore" da come soluzione la fuga e l'imparare a camminare da sole. La solitudine è decisamente preferibile alla morte o ad una vita raffazzolata. Le topoline devono temere i gatti. Perché i gatti non mangiano carciofi. Per me, la vita ci sfida. Ci mette in situazioni dalle quali dovremmo fuggire, ma sono così seducenti che l'unica voglia è di affrontarle. Altre volte, andiamo deliberatamente in cerca di guai, per leggerezza, per noia, per sembrare disinibite che va tanto di moda. Un pizzico di sale nella minestra non guasta mai. Le emozioni servono. Non si sfida la morte con sport estremi? La felicità è abbattere ogni barriera per raggiungere l'uomo dei sogni, possiamo negarlo? La vocina può instancabilmente ripeterci che è solo fumo negli occhi, che siamo colte da strabismo, non l'ascolteremmo mai. La voglia di mettersi in gioco è troppo più forte. E la voglia di misurarsi con la vita è voglia di vivere pura. L'errore è solo nel non conoscere a fondo le proprie risorse. Ingaggiare una lotta prive di armi. L'essere presuntuose rispetto a capacità inesistenti, a iniziare da quella di saper valutare esattamente il rischio.
Eva Kant è la topolina che diventa pantera nera. Nere le sue aderentissime calzamaglie che sottolineano il fisico agile e disinvolto. È sempre lei a salvare il suo uomo, Diabolik, scattando felinamente in imprese impossibili. Lo supera in audacia sin dal primo episodio. Ma anche lei era una piccola rateta boccoli e tacchi alti. Lo era quando Lord Anthony Kant la rinchiude in una gabbia con una pantera vera. "Sei solo una stupida donna", le dice. Indossava lingerie trine e merletti quando Diabolik le circonda il collo colle mani. Doveva pagare una disobbedienza. Grida "no, amore ti prego". Lui riacquista lucidità, lei supera il punto di non ritorno, la paura della morte. Diventa intrepida. Un attimo, solo un attimo e cambia la sua vita. Da donna fragile e insicura a fierissima ed intrepida felina. Eva è pur sempre un fumetto. È irreale, tanto irreale rispetto alle situazioni pericolosamente serie. È presa in considerazione da Concita solo per la sua forza di reazione. Reagisce alla morte, si salva. Si salva da sola, non aspetta che i fratelli arrivino sul cavallo bianco, come in una delle versioni della favola di Barbablù. Anche lì, la prova da superare è dimostrare obbedienza, quindi sottomissione. Il fumetto Eva Kant raggiunge la parità. Roba da cartoni.
La presunzione la giustifico come atteggiamento positivo nei propri confronti. È doveroso pensare di meritare solo il meglio. Anche nei rapporti fisici. Sarebbe impensabile non gradire le fuse del gatto. A noi piace essere circuite. Corteggiate con calore e sensualità. Con l'allegria del vecchio gioco del gatto che rincorre il topo, e lo strazia lentamente prima della fine. Fa tutto parte del nostro essere donne. Istintivamente, nessuna sceglie come spasimante il porco. L'astuzia è nel saper calibrare la voglia di vivere con quella di giocare. Con l'assoluta consapevolezza di quanto si piangono le perdite nei giochi d'azzardo.
Inseguiamo gli uomini come l'unica fonte della nostra felicità, e più sono mascalzoni più li amiamo. È la nostra stranezza. Amiamo, in realtà, il dolore? Solo le pazze si ribellano a questa regola e dicono no, disobbediscono. La disobbedienza nasce quando si aprono gli occhi, come fa la protagonista di una delle ultimissime versioni della favola di Barbablù, quella di Chiara Carrer. Riporto cosa scrive Concita della ragazza che scopre cosa sia in realtà il marito Barbablu, un bieco assassino: "Vince lei. Vince perché ha saputo guardare nel fondo del pozzo dell'orrore e rimanere ferma. Vince chi sa aprire la porta e guardare con occhi più grandi. Non chi rifiuta di vedere, non chi per paura o soggezione non apre neppure, non vuol sapere né sentire. Vince chi apre, chi guarda, chi resta ferma e guarda meglio, poi richiude, torna su per le scale. Vince chi va all'inferno e ritorna. Vince chi vuol sapere e poi sa cosa farsene, anche, del suo nuovo sapere. Chi soffre e trova rimedio".
La violenza nasce dalla disobbedienza delle donne e dalla maleducazione degli uomini.
"E allora si vedrai che t'amerà, chi è meno amato più amore ti dà".
Gli uomini difendono lo loro virilità negandosi l'espressività dei sentimenti. O travisandola. Fatale conseguenza della cattiva educazione. L'educazione, radicalmente basata sulla suddivisione dei compiti, è ancora oggi inculcata, in gran parte, dalle donne. Le stesse che basano il loro grado di rispettabilità sociale sull'onore illusorio di aver concepito un figlio maschio. Un onore ottenuto senza alcuna meritocrazia, solo dal caso, ma al quale si dà profonda gratitudine. I maschietti, attraverso l'esonero dalle più elementari regole di convivenza, rifarsi i letti tirare lo scarico in bagno e via di seguito, comprendono il diritto all'irresponsabilità nelle relazioni umane. Quindi il "è stata lei a farmi arrabbiare". La scusa adoperata da Bertrand Cantant leader dei Noir Desir per giustificare le percosse e l'abbandono in stato comatoso della moglie, l'attrice Marie Trintignant. Durante il funerale, il padre di uno dei suoi figli, rivolto al bambino: "è una terribile storia di un uomo che ha voluto avere l'ultima parola. Tua madre ha difeso la sua. Lui ha voluto l'ultima, però." In un match fisicamente irregolare. Tuttavia, Le vent nous portera.
"E allora si vedrai che t'amerà, chi è meno amato è più forte si sa".
Sono solo alcune storie e riflessioni che emergono dal libro di Concita. Ognuna ne meriterebbe uno tutto per se. L'errore è, come dice Lilli Gruber in Shador, pensare che occultando i problemi prima o poi si risolveranno da soli.
La felicità che cerchiamo da un uomo non ha mai sapore di morte. È il non dover dire: "Io non avrò mai più una vita normale, avrò un'altra vita che mi costringerà a fare i conti ogni giorno con quello che è accaduto". E loro sono sempre i nostri uomini. Quelli che noi amiamo e che vogliono essere amati, nonostante dimostrino il contrario. Quelli danneggiati a loro volta dalla violenza, per il marchio che si autoinfliggono. Che li costringe a dover proseguire in solitudine, come piccole ratete alle quali è stato strappato il fiocco ma anche una buona parte visibile del pelo.
"Senza l'amore l'uomo che cos'è, su questo sarai d'accordo con me. Senza l'amore l'uomo che cos'è, è questa l'unica legge che c'è".
Angela Plati


Il bambino senza nome di Mark Kurzem Ed.Piemme
Titolo originale The Mascot 2007
Romanzo storico-sociale pag. 443

Quarta di copertina: Avevo 5 anni. C’era la neve. I lupi. Esangue. Poi ero solo. Ho perso tutto quella notte, anche il mio nome.
L’autore del libro Mark Kurzem ricercatore ad Oxford, racconta e ricostruisce la straordinaria vita del padre Alex (emigrato in Australia) attraverso gli allucinati e frammentari ricordi di lui, quando bambino ebreo, vede consumare lo sterminio dei suoi famigliari e degli Ebrei del suo villaggio e, dopo 9 mesi di vita errabonda nel bosco, catturato da un’unità lettone filonazista e fortunosamente scampato al plotone di esecuzione, usato come strumento di propaganda, diverrà, suo malgrado, la piccola mascotte del Reich e delle sue ignobili ambizioni: piccolo caporale Uldis Kurzemnieks, in divisa da SS.
Un ragazzino di non più 7 o 8 anni, in uniforme, con pantaloni alla zuava e lucidi stivali di cuoio che arrivavano al ginocchio, diventa la parodia del soldato modello, una sorta di portafortuna da esibire e manovrare dalle SS a loro uso e consumo. Una preziosa e misteriosa valigetta nera da cui, Alex, come un prestigiatore, faceva emergere, ogni volta, davanti alla famiglia una piccola parte del suo contenuto e un pezzo della sua memoria, contiene tra documenti e fotografie quello che resta della sua infanzia negata. In questo libro, riemerge dal passato, dopo 60 anni, una vicenda strabiliante, un altro tassello, un altro anello mancante nella sterminata e aberrante storia del nazismo; un’altra personale testimonianza di chi fu vittima dell’Olocausto, distrutto nell’animo e privato di tutto, perfino del nome. Quella del padre dell’autore è una storia vera, bambino ebreo cresciuto dai nazisti. Il figlio attraverso questo libro, dopo ricerche presso comunità accademiche mondiali che si occupano di Olocausto e grazie ai ricordi che affluiscono dalla memoria del padre, ha voluto ridargli la sua identità rubata, non certo cancellare il passato o ricorrere a facili soluzioni di psicologia spicciola, non resta che scendere a patti e, in qualche modo, suo padre lo aveva sempre saputo. Con quel passato dovrà conviverci non solo il padre, ma anche il figlio che per forza di cose è il suo retaggio.
Ancora un libro sulle vittime del nazismo e sulle bieche mostruosità di esso; è interessante leggere questa storia non solo per la vicenda umana in sé, altresì dal punto di vista storico, si viene a conoscenza del ruolo politico giocato dai paesi baltici durante le persecuzioni ebree e di dettagli sui massacri “Aktionem”perpetrate dalla squadre di sterminio” Einsatzgruppen” e dai volontari baltici e le brigate di polizia. Discordanti le opinioni degli storici riguardo ai motivi della complicità lettone coi nazisti. La Lettonia non fu occupata dalle truppe tedesche, i Lettoni consideravano i nazisti non degli invasori, ma dei liberatori dall’oppressione sovietica, per cui furono accolti con favore. Altri sostengono che dietro questo atteggiamento c’era qualcosa di più della convenienza politica: avrebbero i Lettoni adottato volentieri l’etica nazista anche, se non soprattutto, a causa del loro innato e spesso virulento antisemitismo.
Per chi vive la vita” normale” è difficile comprendere chi ha conosciuto “ l’Orrore” ed è stato costretto a condividerlo; significative le parole di Alex, riportate nell’ultima pagina del libro:” Non so che cosa ho perso. Come si può conoscere la vita che non si è vissuta? Ho voluto sopravvivere….innumerevoli volte ho rischiato di essere scoperto, ma io della sopravvivenza ne ho fatto una compagna che è rimasta al mio fianco per tutta la vita”.

L’autore: Mark Kurzem ha studiato a Melbourne e ha lavorato a Osaka. Oggi insegna a Oxford. Il suo primo libro, Il bambino senza nome, è un bestseller in corso di pubblicazione in dodici paesi.
Arcangela Cammalleri


Franziska di Fulvio Tomizza Mondadori Editore
Narrativa romanzo

E' fuor di dubbio che da Fulvio Tomizza il tema dei confini, siano essi solo territoriali, oppure etnologici, è particolarmente avvertito, anche per un'esperienza diretta.
Ma ci sono anche altri confini, più nascosti, quasi subdoli che possono devastare la vita degli uomini e ne è un tipico esempio Franziska, un romanzo di grande bellezza, in cui la capacità dell'autore di penetrare nell'animo femminile raggiunge vertici inimmaginabili. Già qualche cosa avevo intuito leggendo Gli sposi di via Rossetti, ma l'abilità nell'immedesimarsi, nel comprendere la sfera intima di una donna qui arriva a risultati che non potevo di certo nemmeno ipotizzare, per di più in un uomo.
L'avvio della storia risale a una data fatidica, all'inizio di quel secolo pieno di trasformazioni e di sconvolgimenti che avrebbe visto ben due guerre mondiali.
Il primo gennaio del 1900 nasce a San Daniele del Carso una bambina a cui viene imposto il nome di Franziska. Ai nati in quel giorno, entro le prime sei ore, l'imperatore Francesco Giuseppe ha promesso il suo speciale padrinato e, quel che più conta, una donazione di mille corone.
E' nell'ottica del guadagno, della partecipazione al premio che la levatrice, in presenza di un parto difficile, nulla fa per aiutare la puerpera, con il fine che la nascita ufficialmente avvenga nelle prime sei ore del primo gennaio del 1900.
Così nasce Franziska, ma muore Marija, sua madre.
La bimba crescerà, diventando donna, in un mondo sconvolto da una rapida trasformazione e questo libro parla con tenerezza, ma senza enfasi, dei suoi sentimenti, delle sue emozioni, di un amore forte che poco a poco si diraderà per colpa anche dell'invalicabile confine di classe.
La sua storia con il tenente del genio Nino Ferrari ha tutto il sapore di un'occasione mancata e irripetibile, di un unione incerta fra due mondi che non arrivano a comprendere che i confini sono frutto solo degli interessi umani.
L'amore diventa solo una parentesi, soffocata piano piano dalle difficoltà di un rapporto tra etnie diverse e da classi sociali troppo differenti.
Con lei a Trieste e lui ritornato a Cremona, sua città natale, la relazione prosegue, come negli sposi di Via Rossetti, in forma epistolare. Non c'è più la forza dell'amore, ma è un affetto tormentato che a poco poco si spegne. Resta in lei solo il ricordo di un giorno felice quando si conobbero e fra guerre, eccidi, e finalmente la pace, lo porterà con sé fino alla morte.
La vicenda, descritta così, sembra il tipico melo drammone strappalacrime, ma la grande abilità di Tomizza, che non si lascia mai prendere dalla compassione, fa sì che sia una storia fra le tante, di un rapporto semplicemente difficile fra due sconfitti.
Da leggere, perché lo merita.

Fulvio Tomizza (Giurizzani di Materada, Umago, 26 gennaio 1935 - Trieste, 21 maggio 1999). Figlio di piccoli proprietari agricoli, dediti anche a varie attività commerciali, ottenuta la maturità classica, si trasferì temporaneamente a Belgrado e a Lubiana, dove iniziò a lavorare occupandosi di teatro e di cinema.
Ma nel 1955, quando l'Istria passò sotto l'amministrazione jugoslava, Tomizza, benché legato visceralmente alla sua terra, si trasferì a Trieste, dove rimase fino alla morte, tranne che negli ultimi anni trascorsi nella natia Materada.
Scrittore di frontiera, riscosse ampi consensi di pubblico e di critica (al riguardo basti pensare ai numerosi premi vinti: nel 1965 Selezione Campiello per La quinta stagione, nel 1969 il Viareggio per L'albero dei sogni, nel 1974, nel 1986 e nel 1992 ancora Selezione Campiello rispettivamente per Dove tornare, per Gli sposi di via Rossetti e per I rapporti colpevoli, nel 1977 e nel 1979 lo Strega e quello del Governo Austriaco per la letteratura Europea per La miglior vita).
Ha pubblicato: Materada (1960), La ragazza di Petrovia (1963), La quinta stagione (1965), Il bosco di acacie (1966), L'albero dei sogni (1969), La torre capovolta (1971), La città di Miriam (1972), Dove tornare (1974), Trick, storia di un cane (1975), La miglior vita (1977), L'amicizia (1980), La finzione di Maria (1981), Il male viene dal Nord (1984), Ieri, un secolo fa (1985), Gli sposi di via Rossetti (1986), Quando Dio uscì di chiesa (1987), Poi venne Cernobyl (1989), L'ereditiera veneziana (1989), Fughe incrociate (1990), I rapporti colpevoli (1993), L'abate Roys e il fatto innominabile (1994), Alle spalle di Trieste (1995), Dal luogo del sequestro (1996), Franziska (1997), Nel chiaro della notte (1999).
Per ulteriori approfondimenti consiglio Fulvio Tomizza, un saggio molo bello e interessante scritto da Grazia Giordani.
Renzo Montagnoli


Nella brezza del tramonto di Viola Di Muzio Edizioni Tabula Fati
Presentazione di Marco Tabellione
Copertina di Giuseppe Torchi
Poesia silloge

Se la poesia è anche la rappresentazione di sensazioni rivenienti da un afflato con la natura, Viola Di Muzio ha saputo cogliere questo aspetto con il ricorso prevalente a immagini elegiache, per lo più in funzione di metafora, ma che donano ai suoi versi un'eleganza sobria e spontanea che lascia in chi legge una traccia di sereno appagamento.
Sono visioni aggraziate che richiamano alla memoria tempi andati, in cui l'uomo ancora riusciva a stupirsi di fronte alle bellezze del creato, accompagnando la sua emozione a una dolce malinconia, premessa indispensabile per pervenire a quella beatitudine dell'anima che è propria della serenità ( Nascerà un altro giorno / e dalle ceneri risorgeranno / nuovi sogni. / Sboccerà un'altra primavera / e nell'aria si respirerà / profumo di mimose / e di mandorli in fiore. /…).
Divisa in tre sezioni, l'opera affronta, come tematiche, l'assenza (E' il calar della sera…/ Seduta sul pontile cerco te, / padre negato…/…), l'amore (Amo te / come il cielo ama la terra, / il bimbo il seno materno. /…) e l'assoluto ( Con la pelle baciata / dall'azzurro del cielo / come farfalla vola il mio pensiero / sui rigogliosi monti, / ove fra le rocce splendenti di ginestre / nacque una Stella. /…).
Vibranti, ma senza enfasi, sgorgano naturali i versi diffondendosi in punta di piedi, quasi timidi, ma gioiosamente liberi di mostrare un animo incline alla meraviglia per la natura, al ricordo commosso di cari scomparsi, a un amore che è sentimento allo stato puro, trasporto affettivo, desiderio di cuori.
Poesia che in apparenza può sembrare anche semplice con significati immediatamente comprensibili, ma che cela intenzioni più profonde da cogliersi con successive riletture, perché sotto il naturale velo di pudore battono concetti dell'esistenza che impreziosiscono ulteriormente l'opera.
Ne consiglio senz'altro la lettura.

Viola Di Muzio è nata a Chieti, ma vive ed opera a Pescara da lungo tempo. Con le sue poesie è apparsa in diverse riviste culturali e in numerose antologie. Ha vinto molti premi letterari Nazionali ed Internazionali, fra i quali: Concorso Letterario "R. Pellicciotta" (Perano CH, 2001); Concorso Letterario Europeo (Piediluco TR, 2002); Premio Internazionale "Victor Hugo" (Luco dei Marsi AQ, 2002); Concorso Internazionale "La Torre d'Argento" (Castelnuovo di Farfa RI, 2002); Concorso Nazionale "Il Ceppo d'Oro" (Sulmona AQ, 2003) e il Concorso Internazionale Poetico Musicale (Basilea, Svizzera, 2003).
Ha pubblicato cinque sillogi poetiche: Amare l'amore (Solfanelli, Chieti 1994), Nostalgie (Europa, Pescara 1996), Sinfonia di sogni (Tabula fati, Chieti 2000), Trionfi di luce (Tabula fati, Chieti 2004) e Arcobaleni di luci (Tabula fati, Chieti 2006).
Renzo Montagnoli


Il longobardo di Marco Salvador Edizioni Piemme
Narrativa romanzo storico

Infine spirò. Era l'ora seconda della notte, a cavallo fra il terzo e il quarto giorno di giugno dell'anno 652, indizione decima, quarantasettesimo dalla nascita di Rotari a Brescia, diciassettesimo del suo regno, seconda domenica dopo Pentecoste.
Così è descritta la morte del grande Rotari dal fedele amico Stiliano nel bellissimo romanzo storico di Marco Salvador.
Se La vendetta del longobardo mi era piaciuto al punto di desiderare di leggere gli altri due volumi della trilogia, questo - il primo - è affascinante e avvincente dalla prima all'ultima pagina.
Attraverso il diario di Stiliano abbiamo una visione completa e quanto mai esauriente del mondo longobardo, nell'epoca in cui, grazie a Rotari, fu all'apice del suo splendore.
Le vicende si snodano incessanti come in una saga, fra colpi di scena ben congegnati, trame e congiure di palazzo, guerre sanguinose, diatribe religiose e amori anche platonici.
Non voglio fare un sunto della trama, che peraltro risulterebbe assai difficile, anche per non togliere al lettore il piacere di una continua scoperta. Personalmente ho apprezzato la tecnica usata dall'autore, capace di fornire indicazioni indispensabili affinché sia poi lasciata alla fantasia di ognuno l'immagine del fatto e a proposito di immagini questo romanzo ha il sapore di un affresco che corre lungo tutte le pareti di una cappella per confluire là dov'è iniziato, il tabernacolo dove è conservato il Santissimo Sacramento.
I personaggi sono delineati in modo assai pregevole, nei loro pregi e nei loro difetti e sembrano prendere vita emergendo dalle pagine. Così, accanto a Stiliano, siriano d'origine divenuto longobardo per meriti, e a Rotari, virile e possente, splende la figura di Gaila, la sposa di Rotari, emblema della dolcezza femminile, una donna per due uomini, ma solo uno ne ha l'amore, cioè il re, mentre l'altro vivrà nel suo affetto.
Se ci sono scene anche truci, scontri brutali in battaglia, terre lorde di sangue, non mancano descrizioni di paesaggi incantevoli, afflati amorosi e anche intensi approfondimenti di carattere religioso; in ogni caso gli inserimenti sono appropriati e mai fuori posto, in un equilibrio che riesce a mantenere un ritmo alto, solo intervallato ogni tanto da riflessioni che non rallentano, ma danno respiro a un lettore che si sentirebbe portato a correre, divorando le 411 pagine. E' un po' quello che ho fatto io, ma poi inevitabilmente ho avvertito la necessità di una seconda rilettura e se dico che è risultata altrettanto appagante della prima è possibile comprendere il perché ho prima definito Il longobardo un romanzo affascinante e avvincente.
Appena possibile reperirò l'ultimo della trilogia, L'ultimo longobardo, ma già anticipo che di Marco Salvador è in uscita a febbraio, sempre per i tipi della Piemme, La palude degli eroi, romanzo che riguarda un'epoca successiva di circa 5 secoli con protagonista il famoso Ezzelino da Romano.

Marco Salvador nasce il 10 novembre 1948 a San Lorenzo di Arzene (PN), dove tuttora vive. Ha pubblicato numerosi saggi sulle comunità rurali nel medioevo e sulle giurisdizioni feudali minori. Inoltre ha scritto cinque romanzi: Il longobardo (Piemme, 1^ Edizione 2004, 2^ Edizione 2008), La vendetta del longobardo (Piemme, 2005), L'ultimo longobardo (Piemme, 2006), La casa del quarto comandamento (Fernandel, 2004) e Il maestro di giustizia (Fernandel, 2007).
Renzo Montagnoli


La storia nell'arte di Gaspare Armato Il Papyrus Miniedizioni
Copertina di Maria Catalina Alvarez

Saggistica

E' notoria la passione per la storia di Gaspare Armato, tanto che ha un blog dedicato (Babilonia 61). Forse è un po' meno noto che il simpatico pistoiese ha pubblicato anche dei libri in tema, oltre ad altri di poesia.
Così, dopo Passeggiando per la storia (Lulu.com, 2007) e Appunti della storia (Autorinediti, 2008), ecco La storia nell'arte, un excursus che va dal rinascimento fino a XIX secolo.
Corre l'obbligo di precisare che Gaspare Armato, amando tutto ciò che è bello, ha una passione anche per le arti figurative, senza tuttavia, come precisa pure nell'introduzione, essere un esperto in materia per studi effettuati o esperienze acquisite. Quindi, questo nuovo volume è costituito da concezioni personali, da sensazioni immediate che derivano dall'osservazione di un'opera.
Ciò non toglie che questo saggio abbia una sua valenza, sia per lo scrupolo che l'autore ha avuto nel fare tesoro di libri di autentici esperti, di cui alla fine riporta i titoli, sia perché, nella sua sinteticità, presenta il vantaggio non trascurabile di fornire un approccio all'arte semplice e accattivante che non mancherà di essere gradito da chi ha limitate conoscenze in questo campo.
Si parla di pittori, di scultori, di orafi, evidenziando e descrivendo le loro opere più riuscite, secondo un discorso logico temporale che abbraccia circa cinque secoli e dove predominante è il talento degli autori italiani.
Non molte righe, anzi poche, meglio sarebbe dire l'essenziale e sappiamo chi fu Donatello, altre per parlarci invece del Caravaggio e così via.
Questo libro potrebbe essere quasi definito il Bignami delle arti figurative e in effetti la facilità di consultazione di un testo semplice, ma chiaro, ben strutturato senza essere noioso, richiama quei libriccini di cui molti anni fa ci servivamo per avere almeno un'idea di certi argomenti scolastici.
Ne sono convinto al punto di consigliarlo a chi abbia intenzione di dedicare un po' del suo tempo a visitare mostre e musei, rappresentando lo strumento indispensabile per avere delle linee guida onde non essere del tutto ignorante di ciò che ha in animo di vedere.
Infatti il sapere a priori chi furono tre artisti quasi contemporanei come Giulio Romano, Tiziano Vecellio e Raffaello Sanzio può dare già una misura dello stile di quell'epoca, può consentire di fare accostamenti fra l'uno e l'altro e, anche da profani, verificare le nostre preferenze, se pure determinate da sensazioni più che da analisi riservate ai competenti.
L'arte rappresenta il bello, la parte migliore dell'uomo e accostarsi a essa non può che giovare al nostro spirito.
Quindi, se siete disposti a immergervi nella magia della bellezza senza dovere passare per studi accademici, questo libro fa per voi.
Come e dove ordinarlo?
Scrivete a babilonia61@alice.it

Gaspare Armato
Pistoia, Italia
babilonia61@alice.it  www.babilonia61.com
Gaspare Armato vive e risiede a Pistoia.

HA PUBBLICATO
" Epistemi, poesie, Albatros Editrice, 1983
" 41 mesi di guerra, saggio storico, Mazzotta editore, 1983
" Ex novo epistemi, poesie, Lalli editore, 1983
" Piante mediterranee per giardini, saggio, Edagricole, 1986
" Giardini al mare, saggio, Edagricole, 1990
" Charlette, itinerario di un amore, poesie, Mazzotta editore, 1990, 1ª edizione
" Charlette, itinerario di un amore, poesie, Lulu.com, 2007, 2ª edizione
" Piante esotiche per climi miti , saggio, Zanfi editore, 1991
" Passeggiando per la storia, dal 1200 al 1800, Lulu.com, 2007
" Appunti della storia, Autorinediti, 2008

ALCUNI DEI PREMI LETTERARI VINTI:
" Premio Martin Luther King per la poesia, 1983
" Premio Giuseppe Ungaretti per la poesia, 1983
" Premio Cesare Pavese per la poesia, 1983
" Premio Rebecca-Francavilla M. per la saggistica, 1984
" Premio Jacopone da Todi per la poesia, 1984
" Premio International Award-Malta per la poesia, 1984
" Premio Città di Alanno per la saggistica, 1984
" Premio Città di Pomezia per la poesia, 1985
" Premio Histonium per la poesia, 1990
Renzo Montagnoli


Oleandri in fiore di Mirella Cellucci Edizioni Tabula Fati
Presentazione di Renato Sigismondi

Poesia silloge 

Amo la poesia che esprime malinconicamente i ricordi di un passato e che emergono sfumati, prendono corpo in immagini che, pur essendo reali, sembrano costruite in una dimensione magica, che dona loro il sapore di un bene perduto, riflettendo tuttavia ancora nell’animo le sensazioni che lo stesso sprigionava.
Ecco perché questa breve silloge di Mirella Cellucci riesce a colpirmi fin dai primi versi della poesia che dà il titolo all’intera opera:

Restano
solo ricordi
degli oleandri in fiore

quando il verde del mare
tra le foglie
prometteva smeraldi

……………

C’è un profumo di vita che, benché trascorsa, riesce ancora a materializzarsi nell’animo della poetessa, perché è un patrimonio acquisito, è quella certezza che ci dona la consapevolezza di quanto il nostro passato sia importante per continuare a percorrere la strada dell’esistenza.
Resta, tuttavia, la dolorosa constatazione di come i nostri occhi e il nostro spirito, assuefatti con gli anni e al tempo stesso condizionati dalla temperanza senile, vedano il mondo con minor entusiasmo, come in Tramonto (…./ E’ cambiato / il colore dei tramonti / che accendeva / col rosso delle vampe / l’ansioso andare / della fantasia /…).
Il concetto viene ulteriormente ribadito con Anima mia (Spesso ripenso a te, / anima mia, / a com’eri / a come ti ha cambiato / il tempo /…).
E’ tutto un caleidoscopio di ricordi che riaffiora, mai triste, ma sempre malinconico, come di qualche cosa che si è avuto, si è perso e non si ritroverà più.
E la lirica conclusiva della silloge porta il suono dell’ultima campanella che sembra chiamare a raccolta tutti i ricordi per rinchiuderli nello scrigno del cuore.

 Non chiedermi perché
ho chiuso
le cortine della finestra
e ho stretto forte
i pugni nel mio cuore

E’ suonata
l’ultima campanella
e le sue note
hanno l’eco
di una stagione
lunga e bella
che scompare

……………………

E’ una scrittura semplice e notevolmente efficace,
è una lettura veramente piacevole e rasserenante.
Oleandri in fiore è quindi senz’altro raccomandabile.

Mirella Cellucci, è nata a Chieti ed ivi risiede. Laureata presso l'Università D'Annunzio di Chieti, ha insegnato lettere classiche al Liceo Ginnasio “G.B. Vico”.
Nel 2000 ha pubblicato la sua prima silloge poetica,  Le voci del cuore (Tabula Fati, Chieti), e nel 2001 ha vinto il concorso di poesia Unitre con la poesia "Tramonto".
Sue poesie sono presenti in molte antologie, tra le altre: I poeti del cielo (Catanzaro 2002), Analisi critica della poesia italiana (Catanzaro 2003) e I fiori della poesia teatina (Pescara 2006).
Renzo Montagnoli


Messina 1908-2008
Un terremoto infinito
Storia di una città tornata alla vita
ma rimasta incompiuta

di Eleonora Iannelli
Prefazione di Bianca Stancanelli
Introduzione dell'autrice
Gruppo Editoriale Kalos
Saggistica storia

Il 28 dicembre 1908, alle ore 5:21, un terremoto che raggiunse i 7,2° gradi della scala Richter (11-12 della Mercalli), seguito da uno spaventoso maremoto, sconquassò le coste calabro-sicule. La scossa, della durata straordinaria di 37 secondi, e le ondate di più di 10 metri che travolsero le rive rasero quasi al suolo Messina, provocando anche gravissimi danni a Reggio Calabria e alle località circostanti le due città. Il numero delle vittime, mai esattamente quantificato, fu di oltre centomila.
Questo evento così catastrofico, i soccorsi alle popolazioni, le problematiche della ricostruzione sono i temi di questo interessante volume scritto da Eleonora Iannelli.
Il libro è diviso in tre parti: Dalle macerie le voci dei sopravvissuti, Il dopo terremoto. Un secolo di rinascita e ancora baracche nel 2008, Spigolando.
Lo stile giornalistico dell'autrice si riflette anche nella narrazione, con un'apprezzabile tendenza a raccontare l'accaduto senza inutili divagazioni od opinioni. Il fatto, insomma, e solo quello, perché la gente ricordi, soprattutto quelli che non ci furono. Sono state lunghe ricerche d'archivio, interviste a qualche sopravvissuto ancora in vita, articoli di giornali dell'epoca, un lavoro quasi archeologico che ha portato a un risultato di notevole interesse.
Non c'è spazio per sentimentalismi, se non nei racconti, fedeli, dei pochi superstiti che è riuscita a rintracciare: sono parole che feriscono, che portano a una naturale commozione, perché sono veritiere in esseri umani che, benché all'epoca infanti, hanno avuto la vita segnata dall'evento.
Meno frammentaria, direi più ricostruita è invece la seconda parte, in cui si parla delle carenze dei soccorsi, soprattutto da parte italiana, dello stato d'assedio che finì per intralciarli e di cui rimase vittima anche più di un sopravvissuto, della lenta sistemazione dei superstiti in baracche (gli ultimi trovarono finalmente ricovero in strutture in muratura nel 1940, grazie a un piano di edilizia popolare voluto e realizzato da Mussolini), dell'esistenza tuttora di una baraccopoli, edificata a seguito dei bombardamenti subiti dalla città di Messina durante la seconda guerra mondiale.
Non mancano critiche a un progetto di ricostruzione che, anziché recuperare il possibile, di fatto rase al suolo il poco ancora rimasto in piedi, per quanto lesionato.
Insomma, una vicenda tipicamente italiana, dove il provvisorio diventa spesso permanente e dove si intrecciano interessi vari, nella vicenda acuiti dalla presenza nell'isola della criminalità mafiosa.
La terza parte riporta stralci di articoli di giornali che parlarono del terremoto, notizie di vario genere, anche polemiche con la completa disorganizzazione nei soccorsi, nonché con la sparizione di parte degli aiuti in beni e denaro offerti da moltissime nazioni.
La Iannelli, poi, nella sua introduzione cerca di dare una spiegazione alla decadenza, seguita al terremoto, ma che era già in atto da tempo, della città di Messina, imputabile a una sorta di immobilismo che affliggerebbe i suoi abitanti.
Per questo si avvale di una teoria che ravviserebbe questo atteggiamento quiescente in una modifica del DNA provocata dalla ingente concentrazione di radon provocata dall'evento sismico. E' un'ipotesi di un certo fascino, ma che per essere suffragata da dati concreti prevede la comparazione fra il codice genetico degli attuali abitanti e quello di un certo numero di cadaveri di vittime del terremoto, per i quali sarà necessaria ovviamente l'esumazione.
Il libro, corredato da numerose fotografie dell'epoca, si presta a una facile lettura e per l'interesse storico che riveste mi sento di consigliarlo vivamente.

Eleonora Iannelli è nata a Messina nel 1967 e dal 2004 vive a Palermo. Laureata in Lettere moderne e giornalista professionista. Ha esordito in alcune emittenti televisive locali di cui è stata anche direttore. Dal 1995 lavora con "Il Giornale di Sicilia", curando inchieste, servizi e rubriche sulla città dello Stretto. Dal 1996 collabora anche con "Il Sole 24 Ore" e con diversi periodici specializzati.
Renzo Montagnoli


Un Gioco d’Azzardo di Corrado Guzzon Edizioni Il Foglio Letterario

Prefazione di Renzo Montagnoli
Poesia silloge
Collana Autori Contemporanei di Poesia
diretta da Fabrizio Manini
 

Anziché le classiche dediche all’inizio della silloge sono riportate tre riflessioni, o meglio tre aforismi.
Uno è del poeta che sull’autore ha esercitato il maggiore influsso, cioè Charles Bukowski, un altro è di Andrea Pinketts, mentre il terzo è di Guzzon stesso, tratto dalla sua silloge Un Deca sul Bancone.
Quest’ultimo è il più interessante per definire la filosofia del poeta e testualmente recita “Gli anni se ne vanno prendendoti in giro”. La frase sembra un po’ criptica, ma, se si esamina la produzione di Guzzon e in particolare quella della presente silloge, appare assai chiara, perché è il frutto di un’amara presa di coscienza sugli sforzi dell’uomo per dominare il trascorrere del tempo: gli anni volano, quasi sbeffeggiandolo, e allora l’importante è non prendere mai troppo sul serio le cose e, soprattutto, se stessi.
Così, verso dopo verso, troviamo a volte il percorso della memoria che riporta all’epoca spensierata della fanciullezza, quando c’era il sottile incosciente piacere di rubare l’uva, per mangiarla poi in riva al fiume in attesa del tramonto e far corte alle ragazze, per ottenere un difficile bacio (Un'altra scuola).
Ma c’è anche l’età della ragione, in cui i sogni sembrano svanire, salvo che un gesto del tutto inatteso risvegli Il fanciullino per farlo nuovamente volare (Con un salto). Questa riscoperta della parte più genuina e naturale che è in noi, spesso occultata, soffocata dalla quotidianità, se pur appena accennata, rientra in effetti nel mito platonico del Pascoli, quasi un’antitesi alla rassegnata consapevolezza che la vita è fatta solo di gesti ripetuti e meccanici che finiscono con l’isolare l’individuo in quella moltitudine di cui al tempo stesso desidera e teme di far parte.
Il riaffiorare di ciò che ancora è incondizionato lo ritroviamo anche in Un minuto è già un romanzo, con il rinnovarsi dello stupore per le stelle cadenti. 
Tuttavia resta l’eterno contrasto fra la nostra spinta intima a volare e la realtà degradante, asfissiante, che tende progressivamente a inaridire, splendidamente espressa in Autunni diversi.
Che il tempo e il destino si prendano gioco di noi, in pratica pedine di una commedia di cui non conosciamo il testo, è inevitabile anche nell’amore, dove tutto sembra o è frutto del caso, come nel gioco d’azzardo e Gioco d’azzardo è una poesia che dà il titolo all’intera silloge.
E all’amore sono dedicati molti versi, riproponendolo in occasioni diverse della giornata, sempre venato da una malinconica visione di un rapporto che sembra seguire il suo corso indipendentemente dalla volontà dei soggetti, semplici marionette che un burattinaio invisibile muove secondo un copione solo a lui noto.
In questa raccolta è marcata una visione disincantata della vita, da non prendere mai sul serio; infatti è indispensabile ironizzare su noi stessi, unica possibilità perché il tempo passi senza che il nostro coinvolgimento sia di attivi partecipi a un progetto a cui non crediamo, e in questo senso la raccolta comprende una poesia il cui ultimo verso è costituito solo da un nome e cognome: Charles Bukowski. 
E’ certamente un omaggio al maestro e finisce con il ribadire che, per quanto nulla sia da prendere sul serio, in noi resta sempre la traccia di quel Fanciullino che ci porta anche ad entusiasmarci, magari solo per i versi di un altro autore che più di noi ha saputo ascoltarlo e dargli voce.
E non è un caso se la copertina è del tutto particolare. Dovete sapere che Guzzon, che fin da giovane ha collezionato tutte le edizioni di volumi di Bukowski, anche quelle americane, di cui alcune numerate e firmate dall’autore, riuscì a ottenere, grazie a Fernanda Pivano, l’indirizzo di casa del poeta, a cui scrisse una lettera includendo una delle sue cartoline che lo ritraevano alla macchina da scrivere, con la preghiera di ritornargliela autografata, il che avvenne. Questo accadeva nel gennaio del 1994, due mesi prima (9 marzo) che Bukowski morisse. Dopo quasi quindici anni il retro è la base della copertina di questa bella silloge di cui consiglio vivamente la lettura.

Corrado Guzzon è nato a Monza nel 1966.

Ha pubblicato due libri di poesia: 

DOVREI VIVERE IN UNA VASCA (Edizioni Clandestine, 2006)

UN DECA SUL BANCONE (Cicorivolta Edizioni, 2007)

Scrive da molti anni. È socio del Gruppo Scrittori Ferraresi e molte delle sue poesie sono state pubblicate in diverse riviste, fra le quali UnPoDiVersi, e, più recentemente, L’Ippogrifo, entrambe gestite dal G.S.F.

È stato vincitore del primo premio nel Concorso Nazionale di Poesia anno 2008 “Premio Lasarat - Città di Broni (PV)” sezione Italiano.

“UN GIOCO D’AZZARDO” è la sua terza raccolta.
Renzo Montagnoli


Tutti i sognatori di Filippo Tuena Fazi Editore
Narrativa romanzo

Il sogno può essere un'alternativa a una vita reale, ma si può anche sognare a occhi aperti, pur nella quotidianità di gesti ripetuti e di situazioni che stridono con i nostri concetti di esistenza?
Filippo Tuena stupisce ancora una volta con questo romanzo ambientato a Roma in un periodo di tempo che va dal 25 luglio 1943 alla liberazione della città da parte degli angloamericani, avvenuta il 4 giugno del 1944.
Troviamo una comunità di svizzeri che possono vivere relativamente tranquilli, stante la neutralità del loro paese, un antiquario famoso che compra da un principe incallito giocatore opere d'arte per poi rivenderle al miglior offerente e questi è sovente Goering, personaggi tutti che possono vivere agiatamente il periodo bellico, senza porsi tanti problemi esistenziali, perché in fin dei conti, a parte il rischio dei bombardamenti, per loro la vita continua come prima, come in tempo di pace. Questo quieto vivere sarà però così solo fino all'8 settembre, perché poi l'occupazione nazista, il ritorno in auge dei fascisti più facinorosi, la guerriglia partigiana, la crudele repressione, le sofferenze degli altri provocheranno un mutamento radicale delle loro esistenze.
Emerge così un altro tema di fondo, cioè se continuare con indifferenza oppure mettersi in gioco, se lasciare che tutto proceda come se nulla fosse cambiato o reagire, rivendicare quel diritto alla partecipazione che, pur fra mille rischi, tacita la propria coscienza.
Così si può sognare a occhi aperti, come l'antiquario Fritz che vorrebbe entrare nella resistenza, ma che ne è frenato dal timore delle possibili conseguenze; sempre da sveglio sogna anche Luca, il brillante antiquario, che reagisce individualmente, al di fuori delle correnti politiche del CLN, alla violenza nazista e al ciarpame fascista che oscurano quel concetto di bellezza dell'arte che è alla base di tutta la sua vita.
Il primo vedrà l'arrivo degli angloamericani, il secondo sarà fra le vittime dell'eccidio delle Fosse Ardeatine.
Non era facile scrivere un romanzo simile senza cadere in luoghi comuni, senza dare una visione cinematografica dell'occupazione nazista di Roma e soprattutto era difficile spiegare il mutamento di carattere di alcuni personaggi, spinti come da un istinto primordiale a reagire, benché non coinvolti direttamente.
Filippo Tuena c'è riuscito splendidamente, fornendoci un romanzo in cui la fantasia è continuamente contrapposta alla tragica realtà dei bollettini di guerra, degli attentati, delle rappresaglie. A poco a poco si entra nell'atmosfera della necrosi di una città fantasma, una realtà che prende forma e che non si vorrebbe accettare. La psiche impone che la presa di coscienza del proprio stato, quando lo stesso è insopportabile, trovi una valvola di sfogo nel sogno ed è in quello che si rifugia Maria, la giovane figlia di Fritz innamorata di Luca, quando questi viene catturato dai tedeschi.
La fuga dalla realtà coinvolge anche il prigioniero e sarà nel mondo dei sogni che i due si incontreranno, anche quando lui sarà ormai morto, in pagine di struggente bellezza che portano inevitabilmente a un'intensa commozione.
Tutti i sognatori è un romanzo di grande fascino e di rilevante qualità letteraria.

Filippo Tuena è nato a Roma nel 1953 e vive a Milano. E' laureato in Storia dell'arte.
Ha pubblicato:
Il tesoro dei Medici (Giunti Art & Dossier, 1987); Lo sguardo della paura (Leonardo, 1991), Premio Bagutta Opera Prima; Il tesoro dei Medici (De Agostini, 1992), in collaborazione con Anna Maria Massinelli; Il volo dell’occasione (Longanesi, 1994); Il diavolo a Milano (Ikonos, 1996); Cacciatori di notte (Longanesi, 1997); Tutti i sognatori (Fazi, 1999), Premio Super Grinzane-Cavour; La grande ombra (Fazi, 2001); La passione dell’error mio. Il carteggio di Michelangelo (Fazi, 2002); Quattro notturni (Aletti, 2003); Il volo dell’occasione (Fazi, 2004), nuova edizione; Le variazioni Reinach (Rizzoli, 2005), Premio Bagutta; Il diavolo a Milano – nuova edizione e Fantasmi di Schumann a Manhattan (Carte Scoperte, 2005);  Michelangelo. Gli ultimi anni (Giunti Art & Dossier, 2006); Ultimo Parallelo (Rizzoli, 2007), Premio Viareggio; Michelangelo. La grande ombra (Fazi, 2008), nuova edizione.

Sito web:    http://digilander.libero.it/filippotuena/
Renzo Montagnoli


La fabbrica del falso
Strategie della menzogna nella politica contemporanea
di Vladimiro Giacché
DeriveApprodi

Saggistica politica

La ricerca della verità è sempre stata un percorso arduo e difficoltoso, anche perché di uno stesso fatto posso esserci tante verità soggettive, in quanto gli individui, per loro natura, tendono a cogliere un aspetto invece di un altro.
Il problema è ben più serio quando viene imposta una verità per il tornaconto di interessi economici e di potere, con tutti i mezzi possibili, anche i più subdoli.
Il bel saggio di Vladimiro Giacché si occupa delle strategie della menzogna nella politica contemporanea, che si attuano attraverso gli strumenti di diffusione a qualsiasi livello.
Goebels, il famoso ministro della propaganda nazista, diceva che una menzogna resta una menzogna, ma se ripetuta cento, mille volte diventa una verità.
Ed è quello che accade ormai da diversi anni a livello planetario, dalla famosa invenzione delle armi di distruzione di massa, motivo per l’aggressione all’Iraq, alla propaganda di giustificare perfino la guerra con la diffusione della democrazia.
Il lavoro di Giacché ha il pregio di seguire un preciso criterio logico diviso in tre grandi capitoli: La guerra alla verità, con una disamina attenta della menzogna, del mutato concetto di democrazia, dei mille volti del mercato, del significato diversamente attribuibile al terrorismo; a seguire La verità del falso, soprattutto con la struttura della fabbrica del falso, e Le strategie di resistenza che può adottare il comune cittadino per smascherare la menzogna.
Gli approfondimenti sono frequenti, così come le citazioni di fatti e di eventi non rispondenti a verità e che ovviamente vengono così smascherati.
Dalla lettura è possibile ritrarre la certezza di una strategia del falso ormai organicamente strutturata e condotta non solo per gli eventi più importanti, ma nella quotidianità.
Devo dire che già prima di leggere avevo un’idea ben precisa in ordine al fatto che siamo bersagliati da falsi, o nel caso migliore da mezze verità, ma una volta arrivato all’ultima pagina, trovando così conferma dei miei sospetti, ho rivisto in modo diverso e con conclusioni differenti eventi di portata mondiale accaduti anche da diversi anni, allora fatti sporadici di menzogne costruite quasi artigianalmente, ma di certo i prodromi sperimentali di quella che è la situazione attuale. Siamo arrivati al punto che ormai corre l’obbligo di chiederci se anche quello che ci viene mostrato nei telegiornali e che non ha a che fare direttamente con la politica estera o con quella interna sia la verità. In questo modo si finisce con il provocare nel normale cittadino un disorientamento che si traduce in uno stato di insicurezza, scopo dei fabbricanti di menzogne, perché chi non si sente protetto o non ha certezze non è in grado di pensare nel migliore dei modi e quindi è più facile da governare.
La fabbrica del falso è sicuramente un libro da leggere e da meditare.

Vladimiro Giacché è nato a La Spezia nel 1963. Si è laureato e perfezionato in Filosofia alla Scuola Normale di Pisa. Lavora nel settore finanziario. È autore di volumi e saggi di argomento filosofico ed economico, fra i quali Finalità e soggettività. Forme del finalismo nella Scienza della logica di Hegel (Pantograf 1990), La filosofia. Storia e testi (con G. Tognini, La Nuova Italia 1996) e Storia del Mediocredito Centrale (con P. Peluffo, Laterza 1997). Per le nostre edizioni ha pubblicato Escalation. Anatomia della guerra infinita (con A. Burgio e M. Dinucci, 2005). Suoi articoli sono stati pubblicati in volumi collettanei e ospitati su numerose riviste italiane e straniere.
Renzo Montagnoli


I pilastri della terra di Ken Follett Mondadori Edizioni
Narrativa romanzo
Collana Oscar Bestsellers

A Ken Follett bisogna riconoscere una straordinaria capacità di costruire storie, anche di genere diverso, che avvincono in modo quasi irresistibile il lettore.
Questo non vuol dire che ci troviamo di fronte a uno scrittore di notevolissimo livello, perché in campo letterario, almeno fino a ora, non è riuscito a dire nulla di concretamente nuovo; è invece capace di confezionare romanzi che, per sviluppo della trama, per ambientazione e per fluidità della narrazione, sono in grado di suscitare l'interesse dei lettori. In questo ambito, che potremmo definire anche commerciale, è forse ancor oggi insuperabile, anche se con il passare del tempo la fantasia inizia ad annacquarsi e si perde l'originale bellezza delle sue prime opere, fra le quali, secondo me, svettano La cruna dell'ago e I pilastri della terra. Si tratta di due romanzi ambientati in epoche assolutamente differenti e che mostrano indubbie qualità che li fanno emergere, dando loro una dignità di romanzi non solo di svago.
In particolare mi è molto caro I pilastri della terra, questa storia di costruttori di cattedrali gotiche inserita nelle lotte di successione al trono inglese, un vero e proprio affresco d'epoca che riesce a ricreare verosimilmente un periodo che va dal 1123 al 1174.
Più che un romanzo storico lo definirei un'opera di ambientazione storica, poiché l'edificazione della cattedrale di Kingsbridge è viziata dal fatto che questa località non è mai esistita.
Sullo sfondo di un'epoca particolarmente turbolenta per l'Inghilterra, iniziata con la morte per annegamento del legittimo erede al trono inglese e conclusasi con l'assassinio dell'Arcivescovo di Canterbury Thomas Becket, si snodano le diverse vicende che hanno per protagonisti personaggi sì di fantasia, ma notevolmente veritieri.
Sarebbe troppo lungo scriverne un breve sunto, ma comunque non lo farei, anche perché la lettura de I pilastri della terra è presupposto indispensabile per quella di Mondo senza fine, uscito nel 2007 e che di fatto ne costituisce il seguito.
Ambientazione attenta, fine disegno del profilo psicologico dei non pochi personaggi, una struttura narrativa ricca di intermezzi descrittivi di alta qualità di stampo quasi manzoniano, una scrittura asciutta e immediata che rende inevitabilmente partecipe il lettore sono le caratteristiche più salienti di quest'opera, ma aggiungo anche che è una fonte preziosa per comprendere lo scontro che in pieno medio evo si sviluppa fra una nobiltà tesa a difendere solo i propri privilegi e la nascente borghesia mercantile, sviluppata soprattutto nelle grandi città, che sogna un mondo nuovo e soprattutto privo degli anacronistici oneri del feudalesimo.
E' un romanzo, quindi, in grado di offrire anche un percorso storico per comprendere la stratificazione sociale di un'epoca spesso a torto ritenuta di oscurantismo.
Ne consiglio senz'altro la lettura.

Ken Follett è nato a Cardiff, nel Galles, il 5 giugno del 1949. Scrittore eclettico e prolifico è autore di numerosi bestsellers, dai quali sono state tratte pellicole cinematografiche di successo.
Fra le varie opere di particolare rilievo sono Lo scandalo Modigliani, La cruna dell'ago, Il codice Rebecca, Sulle ali delle aquile, Il terzo gemello, Codice a zero, Le gazze ladre, I pilastri della terra e Mondo senza fine.
Renzo Montagnoli


Il gioco dell’angelo di Carlos Ruiz Zafòn Ed. Mondadori
Romanzo-narrativa pag. 676

Il secondo poderoso romanzo di Zafòn non delude le aspettative dei lettori: l’autore è riuscito a bissare il successo, cosa non da poco. E’ inevitabile il paragone con “L’ombra del vento”, come inelusibile leggere questo secondo romanzo; l’ambientazione è la medesima, la Barcellona cupa e misteriosa, in cui si celano dissonanze e suggestioni ( questa volta targata anni ’20), come ci siamo abituati a vederla e sentirla attraverso lo scrittore, simili le atmosfere e la trama descrittiva dei personaggi e del protagonista, il giovane David Martìn, aspirante scrittore. Sono presenti i topos peculiari di Zafòn che contraddistinguono la sua immaginifica arte: straordinario amore per i libri, passione divorante e totalizzante, l’amore per la sua città e gli intrighi che ne sottintende… Eppure il dejà vu non dà fastidio né il risaputo delude, ma è come proseguire la storia ed esserne sempre avvinti perché lo stile di Zafòn trasporta e stordisce fino all’ultima pagina. Gli scenari inquietanti, i fatti incalzanti, i misteri che avviluppano sono un caleidoscopio di immagini e sensazioni che non demordono e il fascino del “Gioco dell’angelo” ci irretisce come malìa. A fronte di tanta editoria che si legge perché indotti in modo subliminale dal tam tam mediatico o da certa critica veicolata e ci si annoia o si arranca nella lettura di paccottiglia spacciata per opera d’arte, questa storia ha il merito di coinvolgere non solo per la trama intricata, ma anche per la tecnica narrativa suggestiva e poetica. La scrittura di Zafòn è di un’invidiabile scioltezza e ariosità, un linguaggio musicale come spartiti poetici ( l’eco della mia voce si perse nell’ombra); si intercalano in totale armonia immagini di fulgente/polverosa luce e di tenebre azzurrate e dal buio assoluto (un cielo lapidato di nubi nere). Metafore evocative e vivide (la pioggia lacrime di luce che precipitano come pugnali di cristallo), coloriture verbali fascinose e fluttuanti che cadenzano un ritmo fluido e scorrevole dove tutto palpita ed è soffuso ed ammantato di decadente bellezza.
Per chi ama le storie “Romanzate” e le trame spericolate come esercizi acrobatici, questo libro offre una godibile lettura e un sano modo di trascorrere il tempo.

L’autore Carlos Ruiz Zafòn, nato a Barcellona il 25-9-1964, è autore di assoluto talento e di successo mondiale, ha cominciato la sua carriera nel 1993, con una serie di libri per bambini. Nel 2001 ha pubblicato il suo primo romanzo per adulti, L‘ombra del vento (Mondadori 2004), divenuto immediatamente un caso letterario internazionale, con un milione e mezzo di copie vendute solo in Italia. Con Il Gioco dell’angelo, "El Juego del Ángel" torna all’universo del Cimitero dei Libri Dimenticati, che tutti i suoi lettori ricordano con grande passione. Le sue opere sono tradotte in più di quaranta lingue e hanno conquistato numerosi premi e milioni di lettori nei cinque continenti. Vive a Los Angeles dal 1993, dove è impegnato nell'attività di sceneggiatore. Collabora regolarmente con le pagine culturali di "El Pais" e "La Vanguardia".
Arcangela Cammalleri


M’improvviso esperto ( e non lo sono), ma dopo aver letto “Tra i neri fusti
(Omar Epis – Maremmi Editori Firenze 2008) e dopo aver accolto l’invito della
redazione, penso che scrivendo con il cuore e l’impulso delle emozioni,
qualcosa di buono possa scaturire.

“Tra i neri fusti” è un libro di poesie, di parole scritte una dopo l’altra.
È vero, così è all’apparenza. Leggendolo però, ci si accorge ben presto che le
pagine vergate di solo inchiostro nero si arricchiscono di immagini, miniature
colorate, sfondi blu notte o rosso sangue.
La semplicità evocativa delle parole accostate fra loro, mai con pretesa o
intenzioni cervellotiche, danno forma agli eventi della vita.
Ci si ritrova immersi nella fisicità dell’inchiostro e ci si lascia
trasportare come se un fiume nero ci sostenesse dalla prima all’ultima
pagina.
Penso che la Poesia non debba aver bisogno solo dei Grandi Lettori, dei
cosiddetti “intellettuali”, è quando arriva al cuore di tutti che si fa vera.
Epis concentra in poche righe tutte le parole che ci vengono a mancare quando
il cuore sussulta, quando il silenzio non basta e dal caos nasce un’
emozione.
Sono messaggi, commozioni che rompono la durezza del momento creativo e lo
imprimono per sempre.
Le parole non sono nulla di nuovo, si usano e abusano talvolta, ma quando ti
spiazzano, ti stupiscono e ti inteneriscono allora sono spese bene.
Questo è leggere “Tra i neri fusti”. Un libro da cui vale la pena lasciarsi
abbracciare.
Luca Livestron


Dylan Thomas
Essere un poeta e vivere di astuzia e birra
di Paul Ferris
A cura di Cecilia Mutti
Traduzione di Francesca Pratesi
Prefazione di Gian Paolo Serino
Mattioli 1885
Saggistica biografia

Ricordare un poeta per le sue opere, o ricordarlo per la sua vita? Il dilemma, nel caso di Dylan Thomas, sta proprio in questo, perché appare difficile nel mito separare l'attività letteraria da un'esistenza del tutto fuori dai canoni, caratterizzata da intemperanze, da eccessi, quasi da una rabbiosa volontà di autodistruzione.
Il corposo volume di Paul Ferris (450 pagine) forse non intende rispondere alla domanda di cui sopra, però cerca di mostrarci quel che Dylan Thomas veramente era, e lo realizza con una pazienza certosina di ricerche e di interviste, tanto che il risultato è una biografia attendibile e completa del poeta gallese.
Pagina dopo pagina, fatto dopo fatto, emerge una personalità straordinariamente complessa, con un ribaltamento dei ruoli, tanto che per Thomas l'unica vita reale, da vivere fino in fondo, sembrerebbe quella del proprio io interiore e che si esprime nei versi che l'hanno giustamente reso famoso. Al contrario, l'esistenza di tutti i giorni, i rapporti interpersonali finiscono con il rientrare in una sorta di gioco fantastico e quindi costituiscono per lui il campo dell'irrealtà.
Non sono né uno psichiatra, né uno psicologo, ma è evidente che Thomas aveva qualche problema congenito che l'abuso del bere ha poi cronicizzato portandolo di fatto a una prematura morte.
In questo gioco perverso, in cui di volta in volta era Mr. Hyde o il Dr. Jeckill, si delinea l'immagine di un essere insicuro, tanto da risultare anche da adulto fortemente "mammone", incapace di condurre una qualsiasi attività lavorativa, ma talmente furbo da riuscire a vivere, abbastanza bene, sulle spalle degli altri, principalmente quelle dei suoi ammiratori. In effetti, il sottotitolo di questa biografia, è "Essere un poeta e vivere di astuzia e di birra" e non è improbabile che, oltre all'indubbio talento letterario, non poco abbia contribuito alla creazione del mito questa vita dissennata.
Gian Paolo Serino, nella sua prefazione, scrive a un certo punto che Thomas era un uomo eternamente in fuga, al fine di essere libero dalle convenzioni borghesi, e indubbiamente è così, però stride alquanto il pensare che in questo mondo il poeta gallese si sia comportato da parassita, sfruttando la sua astuzia per avere denaro proprio da chi aveva un sacro rispetto delle sue opere. Devo ammettere, però, che è questa l'immagine che emerge dal lavoro di Ferris, che, senza nulla togliere al valore artistico del poeta gallese riesce a delinearne chiaramente la personalità notevolmente complessa.
In ogni caso è indispensabile distinguere il giudizio del Thomas uomo da quello del Thomas poeta, perché il primo sarebbe talmente negativo da sovrapporsi alla pur più che ampia positività dell'altro.
Preferisco pensare a lui solo come artista, avvertire il suo senso emozionale attraverso il fluire delle sue parole, immagini, sensazioni che già riusciva a trasmettere da piccolo, come in una delle due poesie inedite riportate alla fine di questo bel libro e di cui, per brevità, riporterò solo pochi versi, ma significativi, intensi e che restano sicuramente dentro.
"La Danseuese" (La Ballerina)

She moved like silence swathed in light,
Like mist in moonshine clear;
A music that enamoured sight
Yet did elude the ear.


…….
Lei si muoveva come il silenzio in un bagno di luce,
Come la nebbia nei limpidi raggi di luna;
Una musica che faceva innamorare la vista
Eppure eludeva l'orecchio.

…….

Fu un uomo felice? Lui fece solo quello di cui era immensamente capace e un poeta è sempre solo, tanto che nessuno potrà mai capire cosa si nasconda dietro il suo sguardo a volte allegro, altre malinconico; se ne va nel buio con questo mistero, ma lascia dietro a sé la luminosità dei suoi versi.
Ne consiglio vivamente la lettura, perché questa biografia ha il sapore e anche la struttura di un romanzo sicuramente avvincente.

Paul Ferris è nato a Swansea, nel Galles, città natale dello stesso Dylan Thomas. Biografo, giornalista e romanziere, Ferris ha scritto anche l'unica biografia di Caitlin Thomas mai pubblicata e ha curato l'epistolario di Dylan Thomas. È autore di un'apprezzata biografia di Sigmund Freud.
Renzo Montagnoli


Letteratitudine
il libro

a cura di Massimo Maugeri
Azimut Libri
Collana Ex-aggero

Può un blog diventare un libro? E' quello che si deve essere chiesto Massimo Maugeri, dominus di Letteratitudine, uno dei più noti blog letterari italiani.
Ha realizzato, così, attraverso un certosino e oculato lavoro di scelta un volume che presenta più di un motivo d'interesse come espliciterò nel corso di questa recensione. Fare il libro non è stato certo facile, ma trovare un editore disposto a pubblicarlo e a rischiare non penso sia stato così semplice. Invece ha incontrato l'entusiasmo di Guido Farneti, di Azimut Libri, che peraltro, d'intesa con il curatore, ha finalizzato la pubblicazione a una lodevole iniziativa. Infatti, sia i diritti d'autore che i proventi dell'editore saranno interamente devoluti alla Comunità delle Sorelle Missionarie della Famiglia Ferita e alla Casa Famiglia per bambini orfani "GIOVANNI PAOLO II", che presta la sua opera di assistenza in Bosnia Erzegovina, luogo tristemente famoso perché è stato teatro di una guerra sanguinosa.
Ma al di là di questa iniziativa meritoria il libro ha altri motivi di interesse che ne consigliano l'acquisto e, ovviamente, la lettura.
Già l'idea del curatore di far parlare il blog stesso, come se fosse un'entità autonoma, riesce infatti a fornire in modo accattivante la descrizione delle sue sezioni, insomma quella che è la sua struttura, un po' come se faceste visita agli Uffizi e fosse il palazzo stesso a intrattenervi.
Se Letteratitudine blog è veramente interessante per gli argomenti letterari trattati, per gli ospiti che li introducono e per gli interventi dei frequentatori, Letteratitudine il libro lo è egualmente, perché la scelta dei temi svolti in un biennio, nonché i commenti agli stessi sono stati effettuati con una particolare attenzione che rende veramente piacevole la lettura.
Non pochi si ritroveranno negli interventi, ma questo finirà con il rappresentare, grazie al filo logico seguito da Maugeri, un'occasione in più per rileggere, rileggersi, magari anche verificare se ancor oggi si sarebbe scritto così.
Diviso in quattro parti, precedute da un'introduzione, il libro si presta a un'agevole, oltre che piacevole, lettura e anzi i temi e gli interventi possono costituire un motivo di ulteriore approfondimento, foriero di benefici effetti anche per futuri dibattiti sul blog vero e proprio. In ogni caso, anche chi non è aduso a Internet troverà che le dissertazioni letterarie portano a un contributo di conoscenza spesso di consistente spessore, in uno scambio di opinioni di cui tutti i partecipanti hanno ritratto benefici in termini culturali, gli stessi benefici che ora sono a disposizione del lettore.
Delle scelte fatte da Maugeri quelle che mi sono piaciute di più (è questione di gusto personale, tanto per intenderci) sono state fra i dibattiti Il potere libresco e salvifico del web e fra gli autori e libri presentati l'incontro con Dacia Maraini per Il treno dell'ultima notte.
Quindi mi sento di caldeggiare vivamente la lettura di questo libro che può essere acquistato anche presso l'editore stesso inviando una mail a uno di questi due indirizzi:
guido.farneti@azimutlibri.com
guido@azimutlibri.com
Le modalità di pagamento sono molteplici e il volume viene recapitato senza aggiunta di spese postali.
Dimenticavo una cosa, non meno importante peraltro.
Se vi va di fare un salto su Letteratitudine l'indirizzo web è il seguente:
http://www.letteratitudine.blog.kataweb.it/
Basta cliccarci sopra e vi assicuro che dopo ci ritornerete spesso.

Massimo Maugeri, scrittore siciliano, collabora con le pagine culturali di importanti quotidiani e magazine. Suoi articoli sono apparsi su "Il Mattino", "Il Riformista", "La Sicilia", "Il Corriere Nazionale". Suoi racconti sono stati pubblicati su prestigiosi giornali e riviste letterarie. Il romanzo Identità distorte (Prova d'Autore, 2005) ha vinto il Premio Martoglio ed è stato finalista al Premio Brancati. Fa parte della redazione del blog letterario collettivo La poesia e lo spirito.
Ha ideato e gestisce il frequentatissimo Letteratitudine.
Renzo Montagnoli


Quello che ti meriti di Anne Holt Ed. Einaudi Stile Libero • Big
Titolo originale Det som er mitt
Romanzo-narrativa

Questo romanzo è un giallo tecnico, una prova intellettuale, scritto da una psicologa criminale, già ministro della giustizia e avvocato la cui scrittura riflette la conoscenza della procedure investigative affinate da una sottigliezza introspettiva non comune. La storia non originale, ma non per questo meno inquietante, smuove nel lettore sensazioni sgradevoli e forti; quando entrare nella mente criminale è come leggerne anfratti che dall’inconscio si tramutano in atti raccapriccianti. Stiamo parlando di un assassino di bambini, il più infame dei crimini, il più sporco dei soprusi, che a mente fredda e con un glaciale controllo come i paesaggi nordici che ne fanno da sfondo (siamo in Norvegia) programma la soppressione di innocenti a vendetta di presunte e pregresse ingiustizie subite. Abituati come siamo ad assistere e spesso in TV a scene del crimine, paradossalmente, a volte, la narrazione di esse supera l’orrore; è questa, a mio parere, la forza del registro verbale di Anne Holt, di trasformare il linguaggio scritto in linguaggio visivo e, la lettura di questo intreccio di personalità e fatti truci, lascia, anche dopo la lettura come delle vibrazioni, delle onde che si ripercuotono nel cervello e non lasciano fino a quando non si sono sedimentate. A mio modesto avviso, la scrittrice non ristagna in luoghi risaputi e sfugge allo stereotipo del giallo per antonomasia; il tratto che contraddistingue questa storia è la capacità di entrare nella natura umana, rivelare il buio della condizione di essa quando può essere socialmente ed emotivamente ferita e diventare malsana; ricercare non tanto l’essenza del crimine, quanto l’essenza del criminale. Un deserto dell’anima attraverso il quale si può uscire attraverso il sogno, l’immaginazione, il pragmatismo, la follia e ..l’atto criminoso. Divenire esploratore dell’inconscio, dell’ignoto è quello che si richiede ad uno scrittore in quanto tale, scavare in profondità e far emergere i lati più oscuri di noi esseri umani. C’è un parallelismo tra carnefici e vittime: i primi scartati e distrutti prima e i secondi merce avariata dopo. L’orrore è inseparabile dall’uomo, l’orrore costruito dal deserto della solitudine che alberga dentro di noi, l’orrore di memoria conradiana è dentro questo libro apparentemente freddo, distante negli accenti, nei toni, nelle parole, spesso sottomesse ai silenzi più grevi di qualsiasi rumore. Questo libro l’ho apprezzato a fronte di tante critiche e pareri discordanti. Mi piace riportare un capoverso tratto da Quello che ti meriti : “I bambini non sanno di dover morire. Non hanno il concetto della morte. Lottano per vivere istintivamente come le lucertole che se minacciate sono pronte a rinunciare alla coda. Tutte le creature sono geneticamente programmate per cercare di sopravvivere. Anche i bambini. Ai bambini fanno paura le cose concrete. Il buio. Gli sconosciuti, forse, essere separati dalla famiglia, il dolore, i rumori spaventosi, la perdita di un oggetto. La morte, invece, è incomprensibile per una mente non ancora matura. I bambini non sanno di dover morire”.

L’autrice: Anne Holt (1958) è nata a Larvik, in Norvegia, nel 1958, ed è cresciuta a Lillestrøm e Tromsø. Si è laureata in Legge all’Università di Oslo, finanziandosi gli studi con il mestiere di giornalista televisivo, attività che ha continuato anche dopo la laurea. Dopo aver collaborato per un periodo con la Polizia di stato norvegese, ha iniziato la professione di avvocato. Dal 1996 al 1997 è stata Ministro della Giustizia. Il suo esordio come autore è del 1993, con il romanzo Blind gudinne, molto amato da lettori e critici, cui ha fatto seguito nel 1994 il secondo romanzo della serie di Hanne Wilhelmsen: Salige er de som tørster,che ha fatto vincere il più prestigioso premio norvegese per il crime novel, The Riverton Prize. I due romanzi sono diventati, rispettivamente, una srrie TV e un film. Anne Holt ha pubblicato poi molti altri romanzi, tra cui una love story impossibile tra due donne (Mea culpa), del 1997, e l’acclamatissimo Det som er mitt, del 2001, qui tradotto con il titolo Quello che ti meriti, il romanzo che introduce la nuova coppia di investigatori Inger Hohanne Vik Yngvar Stubø, con cui Einaudi Stile libero ha scelto di cominciare a presentare al lettore italiano l’opera della Holt. La scrittrice vive attualmente a Oslo con la compagna e la figlia.
Arcangela Cammalleri


Il Giardino dei Poeti
Antologia di poeti italiani
di AA. VV.
Edizioni Historica - Il Foglio letterario
Poesia antologia

Nella vita di oggi, se pur convulsa e quasi sempre arida, può tuttavia accadere qualche evento del tutto speciale, che ha quasi il sapore di una favola.
Potrei dire subito di che si tratta, ma ritengo sia giusto partire dall'inizio, da un blog ideato da Cristina Bove e che lei ha chiamato Giardino dei poeti, ove ospita opere di altri autori. Si tratta di poeti dilettanti, ma il termine non vuole essere spregiativo, bensì semplicemente indicare persone che amano mettere in versi le loro emozioni senza che poi queste finiscano su volumi o che gli autori facciano parte di correnti letterarie più o meno ufficiali. Uno non è poeta perché ha vinto il premio Luzi o addirittura è stato proposto per il Nobel, no, uno scrive poesie perché esprime così quanto di meglio c'è nel suo animo, in un ipotetico dialogo prima con se stesso e poi con altri, con i lettori.
Ho divagato un po', ma per sottolineare che il termine dilettante non è equivalente a meno capace, ma eventualmente solo a meno conosciuto.
Poi, a Cristina Bove e ad altre signore che appaiono su questo blog, è venuta un'idea veramente magnifica: perché non mettere in un libro tre poesie per ogni autore presente nel Giardino, in modo che quello che prima era solo possibile leggere a video poi non diventi normalmente accessibile senza collegamenti?
E' nato così il libro Il Giardino dei Poeti, una vera e propria antologia che ha potuto essere realizzata anche con il prezioso contributo di Francesco Giubilei, tanto che il volume risulta edito da Historica-Il Foglio letterario.
Come ogni libro che si rispetti, a parte la dedica a Daniela Procida, poetessa purtroppo prematuramente scomparsa, ha la prefazione e addirittura un'eccellente postfazione di Domenica Luise sull'evoluzione della poesia italiana dal Medioevo a oggi.
Sono 188 pagine di lettura veramente assai gradevole, con poesie di diverse tipologie, che appagano senz'altro l'animo e che rappresentano un prodotto di ottimo livello, che non sfigurerebbe nemmeno nel catalogo di editori blasonati. E' un vero peccato che l'opera non sia in vendita (gli stessi autori-produttori hanno finanziato l'impresa con l'acquisto di copie della stessa), ma c'è la speranza che un'eventuale, e non improbabile, seconda antologia possa seguire i normali canali commerciali.
Da ultimo è doveroso un breve cenno all'indovinatissima foto di copertina, realizzata da Gloria di Simone, un giardino con diversi fiori che sfumano in un sogno.
Di seguito mi sembra giusto riportare i nomi degli autori, rigorosamente in ordine alfabetico:
Bruno Amore, Ariel, Maria Attanasio, Tinti Baldini, Emma Barberis, Elia Belculfinè, Armando Bettozzi, Nunzia Binetti, Paola Boriero-Pippi, Cristina Bove, Doris Emilia Bragagnini, Annarita Campagnolo, Franca Canapini, Ezia Caredda-(F'ez), Natàlia Castaldi, Davide Castiglione, Wilma Marian Certhan, Milvia Comastri, Umberto Crocetti, Gloria D'Alessandro, Antonella Diamanti-Mitla, Pasquale Esposito-Eventounico, Titti Ferrando-Alleluhia, Giulio Ghiani, Giovanna Giordani, Gaetano Gulisano, Orsola Hochkofler-Erandoro, Gianni Langmann, Domenica Luise-Mimma, Paola Marasca, Renzo Montagnoli, Virginia Murru, Gabriele Piretti, Daniela Procida, Margherita Pruneri, Guido Ranieri Da Re, Paola Sagrado, Angela Sias, Salvatore Scollo, Domenico Sergi, Enzo Sibilio, Giuseppina Vitale, Valentino Vitali, Anileda Xeka, Beatrice Zanini.
Sì, ci sono pure io e sono orgoglioso di fare parte di questo gruppo di poeti.

Giardino dei Poeti il blog:
http://giardinodeipoeti.splinder.com/ 
Renzo Montagnoli


Gli sposi di via Rossetti di Fulvio Tomizza Edizioni Mondadori
Narrativa romanzo

Strano romanzo, ispirato da un fatto realmente accaduto, Gli sposi di via Rossetti è lo strumento che consente a Tomizza di esprimere con la sua ben nota lievità i sentimenti di una coppia che la guerra ha forzatamente separato e che li farà ritrovare uniti nel momento della tragica morte.
Stanko Vuk è un poeta, di fede cattolica, di ideali liberali, che viene imprigionato per cospirazione antifascista; è sposato, da poco, con Dana, che lui adora quasi idolatrandola, una donna di carattere diverso dal suo e che lui intende plasmare per farne una moglie perfetta, secondo i suoi intendimenti.
La storia d'amore, interrotta bruscamente dal processo e dalla carcerazione, prosegue così attraverso uno scambio epistolare (del tutto vero), a cui Tomizza ha attinto copiosamente, ma con gusto raffinato, riportando per lo più il senso degli scritti, forse addolcendoli, oppure lasciandolo intendere nei casi in cui sconfina in un erotismo, se pure cerebrale.
La vicenda, di per sé, sarebbe già tale da incuriosire il lettore, ma in un autore di terra di confine non poteva mancare il dramma delle minoranze etniche, tollerate dapprima e poi decisamente perseguitate. E non a caso lo scenario della vicenda è Trieste, città cosmopolita quasi soffocata dalla morsa dell'occupazione tedesca e in cui confluiscono segreti e agenti segreti, filotedeschi e comunisti di Tito, seguaci del vecchio re jugoslavo e perseguitati.
E' una sorta di pentola in cui bollono permanentemente le aspirazioni di fazioni contrapposte, di volta in volta alleate e poi nemiche.
E' notevole la capacità di Fulvio Tomizza di ricreare quest'atmosfera di cupa incertezza, in cui i personaggi si muovono quasi inconsapevolmente come condizionati da un incontrastabile destino.
Si ricongiungeranno marito e moglie, ma per poco, perché cadranno vittime, nella loro casa, insieme a un terzo personaggio che probabilmente nemmeno conoscono e qui è interessante notare il tentativo dell'autore di cercare di appurare almeno a quale fazione attribuire il delitto.
Apre così un ventaglio di ipotesi, tutte egualmente valide e tutte egualmente improbabili. E' una vana ricerca della verità dopo tanti anni, quella verità così difficile da scoprire per tutti e impossibile per chi è un cittadino membro di una minoranza etnica.
Resta pertanto l'omicidio insoluto di due sposi che si amarono per lettera.
Gli sposi di via Rossetti è un romanzo strutturato in modo inusuale, ma che riesce ad avvincere dalla prima all'ultima pagina, grazie all'indubbia abilità dell'autore.
Ne consiglio senz'altro la lettura.

Fulvio Tomizza (Giurizzani di Materada, Umago, 26 gennaio 1935 - Trieste, 21 maggio 1999). Figlio di piccoli proprietari agricoli, dediti anche a varie attività commerciali, ottenuta la maturità classica, si trasferì temporaneamente a Belgrado e a Lubiana, dove iniziò a lavorare occupandosi di teatro e di cinema.
Ma nel 1955, quando l'Istria passò sotto l'amministrazione jugoslava, Tomizza, benché legato visceralmente alla sua terra, si trasferì a Trieste, dove rimase fino alla morte, tranne che negli ultimi anni trascorsi nella natia Materada.
Scrittore di frontiera, riscosse ampi consensi di pubblico e di critica (al riguardo basti pensare ai numerosi premi vinti: nel 1965 Selezione Campiello per La quinta stagione, nel 1969 il Viareggio per L'albero dei sogni, nel 1974, nel 1986 e nel 1992 ancora Selezione Campiello rispettivamente per Dove tornare, per Gli sposi di via Rossetti e per I rapporti colpevoli, nel 1977 e nel 1979 lo Strega e quello del Governo Austriaco per la letteratura Europea per La miglior vita).
Ha pubblicato: Materada (1960), La ragazza di Petrovia (1963), La quinta stagione (1965), Il bosco di acacie (1966), L'albero dei sogni (1969), La torre capovolta (1971), La città di Miriam (1972), Dove tornare (1974), Trick, storia di un cane (1975), La miglior vita (1977), L'amicizia (1980), La finzione di Maria (1981), Il male viene dal Nord (1984), Ieri, un secolo fa (1985), Gli sposi di via Rossetti (1986), Quando Dio uscì di chiesa (1987), Poi venne Cernobyl (1989), L'ereditiera veneziana (1989), Fughe incrociate (1990), I rapporti colpevoli (1993), L'abate Roys e il fatto innominabile (1994), Alle spalle di Trieste (1995), Dal luogo del sequestro (1996), Franziska (1997), Nel chiaro della notte (1999).
Per ulteriori approfondimenti consiglio Fulvio Tomizza, un saggio molo bello e interessante scritto da Grazia Giordani.
Renzo Montagnoli


Il mio nome è Che Guevara di Alejandro Torreguitart Ruiz Coedizione Il Foglio/A.Car. Distribuito da ALI
Traduzione e introduzione di Gordiano Lupi
Narrativa
Collana Letteratura Cubana Contemporanea

Quando Ernesto Guevara de la Serna (Rosario, 14 giugno 1928 - La Higuera, 9 ottobre 1967) nel gennaio del 1959 coronava la prima tappa del suo sogno di liberazione degli oppressi, contribuendo a Cuba alla caduta del regime di Fulgencio Batista, io ero poco più che un bambino e gli echi di questa vittoria e di questo personaggio mi giunsero alle orecchie lasciandomi indifferente.
Tuttavia, qualche anno dopo, ormai maturo per potermi costruire qualche ideale, la figura del Che (questo nomignolo deriva dalla lingua mapuche e significa "uomo", "persona", e venne ripresa nello spagnolo parlato in Argentina ed Uruguay, per richiamare l'attenzione di un interlocutore) cominciò a diventarmi familiare e le sue gesta finirono con il diventare l'esempio del classico eroe disposto a sacrificare tutto, anche se stesso, per concretizzare le sue aspirazioni. Non è che sapessi molto dell'uomo Guevara, ma per lui parlavano la sua fierezza, il suo carattere indomito, il desiderio di liberare i popoli del mondo da qualsiasi oppressione capitalistica, secondo un concetto comunista più vicino a Lenin che a Marx. Benché non fossi della stessa ideologia politica, e non lo sono anche oggi, quello che mi colpiva era la figura, intesa come puro spirito, separato dal corpo, che aveva il sopravvento su tutto e così per me, come per molti altri, divenne un mito.
Quando nel 1967 Guevara cadde in un'imboscata in Bolivia e fu ucciso a sangue freddo, lo stupore iniziale lasciò presto il posto alla convinzione che così era di fatto divenuto immortale, non lasciando questa vita vecchio, magari in un letto d'ospedale, ma combattendo per ciò in cui tanto credeva.
Poi, con il 1968 e le piccole rivoluzioni di quel periodo, il Che assurse al simbolo del liberatore e dell'innovatore, ma il tempo smorza, distrugge anche, e oggi, almeno da noi, Ernesto Guevara è poco conosciuto. I giovani hanno altri miti in cui immedesimarsi, personaggi di scarse qualità che sono arrivati, spesso immeritatamente, al successo personale, quello a cui il Che non aveva mai mirato, a differenza del suo compagno di rivoluzione Fidel Castro, comunista solo per convenienza e non per convinzione.
Alejandro Torreguitart Ruiz, giovane scrittore cubano, all'epoca della morte del Che non era ancora nato e tutto ciò che ha appreso dopo è frutto di una massiccia propaganda del governo castrista e che Guevara non avrebbe sicuramente approvato.
Ma Torreguitart ama ragionare con la sua testa, e non a caso è in dissidio con il regime cubano, e allora ha voluto documentarsi, con dati e testi raccolti fuori dalla sua isola, e quindi non indottrinati.
E' nato così questo libro che, secondo me, è una realistica e splendida biografia del Che.
C'è proprio tutta la sua vita, dalla nascita alla morte, ma, soprattutto, c'è una descrizione corretta dell'uomo Guevara, con i suoi limiti, ma anche con le sue qualità. Ne esce un personaggio complesso, ma di indubbio ascendente, tanto che anche Torreguitart ne onora la memoria.
Scritto in modo accattivante, è la storia avvincente di un uomo che antepose il suo ideale a tutto, anche a se stesso, e la figura di eroe, per certi versi romantico, non ne esce scalfita, anzi quella sua umanizzazione, avvicinandolo a noi, ci permette di comprendere meglio e anche di giustificare i suoi difetti, mentre assumono ancor più rilevo le indubbie qualità.
Il mito così si perpetua e se il corpo è ormai polvere ciò che ha rappresentato il suo spirito resta imperituro, un esempio, al di là di ogni ideologia politica, per tutte le generazioni, un sogno che non può che perpetuarsi perché, anche se non è più tempo di eroi, il Che rientra nell'olimpo degli uomini diventati dei.
E' sicuramente un libro da leggere, sia da chi già conosce la storia di Ernesto Guevara, sia da chi la ignora, perché è un ritratto degno di questo grande rivoluzionario.

Alejandro Torreguitart Ruiz (L'Avana, 1979) scrive poesie e racconti per la rivista El Barrio, è poeta repentista e cantautore. Suona in un gruppo rock chiamato Esperanza. Ha esordito in Italia con il romanzo breve Machi di carta - confessioni di un omosessuale (Stampa Alternativa, 2003) che ha avuto un buon successo di critica e di pubblico. A gennaio 2004 ha pubblicato il romanzo breve La Marina del mio passato (Edizioni Nonsoloparole - Napoli), a maggio 2005 il romanzo di ampio respiro Vita da jinetera (Il Foglio - Piombino) sul mondo della prostituzione, nel 2007 Cuba particular (Stampa Alternativa) e nel 2008 Adios Fidel (Il Foglio - Piombino). Alcuni suoi racconti di impronta politico-esistenziale sono stati pubblicati da quotidiani e riviste. Tra questi: Il Tirreno, Il Messaggero, La Comune, Container, Progetto Babele, Il Filo, L'Ostile, Happy Boys. Gordiano Lupi è il traduttore e il titolare per lo sfruttamento dei diritti sulle sue opere in Italia e per l'Europa.
Renzo Montagnoli


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