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25/12/2011



19/12/2011

Per mano mia

Il Natale del commissario Ricciardi

di Maurizio de Giovanni

Edizioni Einaudi
Narrativa romanzo
Collana Stile Libero Big

Un bellissimo Natale

“- Ma certo, commissario. Il presepe è una delle più antiche e consolidate tradizioni del nostro popolo. Attraverso esso, nei momenti vari della storia di questa città, sono state rappresentate situazioni e personaggi entrati a far parte della fantasia popolare. Vedete, ogni presepe, anche il più povero, è su tre livelli: in alto il castello di Erode, là, che rappresenta il potere e la prevaricazione; in mezzo la campagna, col gregge, i pastori e il resto; in basso, e davanti, la grotta con la Natività.”

Se le stagioni del commissario Ricciardi sono terminate (l’ultima, l’autunno, è del 2010) possono forse bastare a perpetuarne l’esistenza le festività, a cominciare appunto dal Natale, considerato che questo è ormai assai prossimo. Probabilmente de Giovanni non si attendeva il successo dei suoi libri, altrimenti non ne avrebbe limitato la serie a soli quattro, ma questo nuovo escamotage dovrebbe consentire ai lettori di deliziarsi con altre successive vicende.
Ora si può dare per scontato che l’interesse di una serie vada scemando nel tempo, ma nel caso dei romanzi con protagonista Ricciardi non è accaduto e anche questo Per mano mia, sebbene un po’ debole, come i precedenti del resto, sotto l’aspetto della trama puramente gialla, si può dire perfettamente riuscito, proprio perché l’aspetto investigativo finisce solo con l’essere il pretesto per fornire un ritratto, assai veritiero e puntuale, di un’epoca e soprattutto perché ciò che importa sono le vicende private dei protagonisti.
E’ un vero piacere ritrovare questo commissario tutto dedito al lavoro, ma immensamente solo e triste per quel segreto che si porta in cuore, il fatto, cioè vedere le vittime e udirne le parole o leggerne i pensieri nel loro ultimo istante di vita; poi ci sono i comprimari, da cui emerge prepotentemente il brigadiere Maione, che, con la sua bontà e il dolore che si porta dentro per la perdita di un figlio, è dotato di un’invidiabile carica umana che lo rende sempre più protagonista e infine le presenze puntuali della tata Rosa, del dottor Modo, di una Enrica che ritrova il suo essere donna, di una femmina fatale come Livia, perfino di Bambinella, un travestito dotato di una grande carica di simpatia.
I rapporti fra questi personaggi, che esulano dalla trama gialla vera e propria, sono i pilastri portanti di tutte le opere di de Giovanni, presenze che danno corpo e consistenza al romanzo con le loro debolezze e le loro virtù. Non sono eroi, almeno nel concetto comune del termine, ma esseri umani non dissimili da noi e proprio per questo ci attraggono, ci legano indissolubilmente all’autore, che credo che, fra tutti, si ritrovi maggiormente, se non altro per la prestanza fisica, in Maione.
Ho detto prima dell’epoca e in effetti il mondo del ventennio fascista è ben rappresentato, con la sua atmosfera cupa in cui le opportunità di delazione sono sempre in agguato, ma l’ambientazione è uno dei maggiori punti di forza di de Giovanni.
La città di Napoli sotto il Natale, con le vie centrali brulicanti di venditori e di luci, e appena più in là con i quartieri miseri che vivono nel buio, è il soggetto di un quadro di grande efficacia, di un impressionismo che ci fa rivivere un periodo storico, al pari delle ballerine di can can di Toulouse Lautrec.
I ricchi restano per lo più anonimi, mentre è fra i poveri che de Giovanni va a cogliere fiori di rara bellezza, personaggi per cui ci sono storie da raccontare, soffocati dall’indigenza, ma non privi di una scintilla di umanità che li rende avvincenti.
Del resto è inutile cercare sensibilità in chi ha già tutto e l’ostenta, una classe di anonimi che le luci del Natale non riescono a illuminare, mentre è in chi vive nel buio che de Giovanni porta la sua luce, aprendo squarci su autentici umili eroi, perché è eroismo anche tirare avanti nonostante tutto, mangiare poco e male e costruire un piccolo povero presepe, affinchè anche la stella del Natale possa brillare in una baracca, rinnovando una speranza di riscatto oltre ogni situazione contingente.
Ed è la notte, con il buio che scende sulla città, che fornisce di Napoli un quadro quasi fantastico, con le luci che risagono dal porto fin sulla montagna, un incantevole presepe naturale che palpita di vita, che dolcemente ci induce a sognare.
Per mano mia è un romanzo stupendo, da leggere sempre, ma soprattutto ora che il Natale si avvicina, per ritrovarne il suo autentico messaggio.      

Maurizio de Giovanni (Napoli 1958) ha pubblicato con crescente fortuna da Fandango Libri il primo ciclo del commissario Ricciardi, ambientato nella Napoli del fascismo e composto da Il senso del dolore. L'inverno del commissario Ricciardi (2007), La condanna del sangue. La primavera del commissario Ricciardi (2008), Il posto di ognuno. L'estate del commissario Ricciardi (2009), Il giorno dei morti. L'autunno del commissario Ricciardi (2010).
Renzo Montagnoli

 

16/12/11

Operazione Blueprint di Antonio Di Carlo
Copertina di Vincenzo Bosica

Edizioni Solfanelli
www.edizionisolfanelli.it

Narrativa romanzo
Collana Pandora
 

Alta tensione

La spy story, o letteratura di spionaggio, è un genere che si è imposto rapidamente, perché sovente riesce a combinare più elementi di contatto con il giallo, con il noir, con la fantapolitica e, soprattutto, con l’azione, quest’ultima intesa come una serie di avvenimenti ad alta tensione che riescono a velocizzare la trama, avvincendo ulteriormente il lettore.
Gli autori più apprezzati in questo campo sono per lo più di lingua inglese, come John Le Carré, Tom Clancy, Ian Fleming, Ken Follett, Robert Harris, solo per citare i più noti. Mi sono meravigliato, quindi, nel leggere sulla copertina di Operazione Blueprint un nome tipicamente italico, come Antonio Di Carlo,  e, se devo essere sincero, mi sono accinto a esaminare l’opera con una certa perplessità, con il timore comunque di potermi trovare di fronte a una vicenda un po’ abbozzata, con i limiti tipici di alcuni dei meno riusciti western all’italiana, giusto per fare un paragone e per meglio esprimere così i miei dubbi.
Il libro si apre con un incontro fra due uomini nell’ancora staliniana Mosca, uno dei quali è addidittura il potentissimo  Laurentij Beria, incontro che serve a definire un mostruoso piano chiamato operazione Omega volto a destabilizzare una volta per tutte l’Occidente a tutto vantaggio dell’Unione Sovietica. In buona sostanza si tratta di inserire nelle fondamenta di edifici nella fase di costruzione del potentissimo esplosivo da far deflagrare poi, a tempo debito, con un impulso radio. Non si tratta di fabbricati qualunque, ma di sedi d’ambasciate, di grossi organismi internazionali, di strutture petrolifere e di impianti di produzione di energia nucleare.
Poi il piano temporale si sposta molto in là negli anni e arriviamo alla perestroika, con il comunismo caduto come un frutto marcio, sostituito da un’ancora incerta e debole democrazia, facilmente preda di eventuali e non improbabili colpi di stato, sia provocati dai nazionalisti più accesi, sia dai nostalgici del passato regime.
E’ in questo delicato periodo che si attiva il piano concepito molti anni prima e che inizia una vera e propria caccia all’uomo responsabile dell’esecuzione del progetto, da parte sia dei servizi segreti americani che di quelli russi, peraltro d’intesa fra loro e che attribuiranno alla loro missione il nome di Operazione Blueprint.
Sebbene alcuni aspetti dell’idea mi ricordino Telefon, il bel film di Don Spiegel con un eccellente Charles Bronson,  Operazione Blueprint può vantare una propria autonomia di svolgimento che presenta non poche originalità, come, per esempio, l’incidentale scoperta del diabolico piano e spunti di fatti accaduti veramente, i quali, per fantasia,  si piegano all’esigenze del romanzo, dandone un’interpretazione in linea con la trama.
E a proposito di quest’ultima si rileva un susseguirsi continuo di colpi di scena, beninteso legati fra loro, secondo un filo logico su cui corre senza intoppi la narrazione, con una tensione costante e che a volte arriva anche al parossismo.
Una cosa è certa: se si comincia a leggerlo, non si riesce a smettere, si vorrebbe divorare le pagine per arrivare all’auspicata soluzione finale, con l’immancabile trionfo dei buoni.
Pertanto, se la giornata è piovosa e costringe a restare in casa, se in televisione non c’è la partita, se insomma non volete stare a sonnecchiare, quello è il momento buono per aprire il libro e di colpo il tempo volerà e voi con lui.
Inoltre, il romanzo presenta un’altra interessante caratteristica, vale a dire che, pur lasciando spazio alla fantasia del lettore, questi viene immesso in precise linee guida tali da consentirgli di scorrere le righe e contemporaneamente vedere le immagini di quel che accade, tanto è notevole l’immediatezza.
Peraltro, in presenza di tanti pregi è presente un neo, anche se non rilevante, e mi riferisco allo scarso spessore dei protagonisti, di cui conosciamo più le azioni che la loro intima struttura. Ecco, sono dell’avviso che Di Carlo, se riuscirà a ovviare a questo inconveniente, potrà raggiungere la fama di quegli autori che ho citato prima.
Comunque, la lettura resta godibilissima e quindi è più che consigliata.

Antonio Di Carlo è nato a Parigi nel 1965. Cresciuto in giro per il mondo, risiede da anni in Nord Africa (Libya, Tunisia e Algeria) dove si occupa di infrastrutture nel settore petrolifero.
     Grande viaggiatore (anche se odia gli aerei per inconfessabili motivi), scrive per gioco e per passione, adora gli sport meccanici, i Talking Heads, David Bowie e la buona tavola.
     Lettore compulsivo, legge di tutto in quattro lingue.
Renzo Montagnoli

 

14/12/2011

Il pretore di Cuvio  di Piero Chiara

Introduzione di Enrico Ghidetti
In copertina Antonio Donghi,
Canzonettista (1925)

Edizioni Mondadori

Narrativa romanzo
Collana Oscar scrittori moderni

 

Lui, lei e l’altro

“La signora lo aspettava sulla porta e lo tirava dentro come un sorso d’acqua. <<Mia polpa, mia massima polpa>> sclamava il Vanghetta abbracciandola appena dentro la porta e guidandola verso un divano senza sponde, che era l’unico supporto sul quale gli fosse possibile goderla, se non tutta, almeno in gran parte.”

Di Boccaccio e del Decameron c’è ampio spirito in questo romanzo breve di Piero Chiara, tanto  che l’inizio è un’epigrafe della quinta novella della giornata ottava (io vi voglio mostrare il più nuovo squasimodeo che voi vedeste mai). E come lo squasimodeo del grande autore medievale esercita l’attività giudiziaria, anche in questo romanzo il più attuale squasimodeo, tale dottor Augusto Vanghetta, professa l’attività di pretore in Cuvio durante il ventennio e in particolare negli anni Trenta.
Uomo non certo di bell’aspetto (alto poco più d’un metro e mezzo, curvo e quasi gobbo, già grasso e occhialuto a vent’anni e simile a un coleottero o a uno scarabeo stercorario per la sua tendenza a cacciarsi nel sudicio…) è di mediocri capacità professionali, di scarsa intelligenza, ma dotato di un’astuzia da faina e amante anche del protagonismo, alla ricerca di una posizione di prestigio che faccia da contraltare alla sua pochezza. Bugiardo, amante della vacuità, è in preda a un continuo e forsennato desiderio sessuale, un’insaziabile satiriasi che lo porta ad accompagnarsi con qualsiasi tipo e genere di donna, dalla nana alla femmina fatale, dalla prostituta delle case chiuse alle clienti che ha occasione di conoscere nel corso della sua attività.
Non è difficile riscontrare più di un’analogia con un personaggio politico attuale, che Chiara, quando scrisse questo testo, non poteva però aver conosciuto, e quindi è sorprendente sapere che, con la sua fantasia, ha dato corpo a qualcuno che si sarebbe manifestato molti anni dopo.
Augusto Vanghetta è coniugato con un’orfana, moglie ideale, in quanto integerrima e in possesso di notevoli disponibilità, il che gli ha consentito di cogliere due piccioni con una fava: il matrimonio indispensabile per una parvenza di normalità e il denaro, sempre più occorrente per dare sfogo ai suoi capricci.
La moglie, poveretta, soffre della sua condizione di oggetto di rappresentanza e già di debole costituzione si ammala, dimagrendo a vista d’occhio. Del resto, che vita può essere la sua, consapevole, grazie anche al giro di conoscenze della piccola entità locale, dei continui e ripetuti tradimenti del marito? Da essere umano diventa poco a poco un vegetale, rinchiusa in se stessa di fronte non solo all’ostentata indifferenza del marito, ma anche nell’impossibilità di condurre una vita familiare almeno in apparenza normale.
Non brutta, anzi graziosa, nonostante la sua magrezza, sente la vita sfuggirle e ormai dispera, fino a quando non incontra un aiutante del marito, un giovane avvocato, solerte, bravo, ma che nella mentalità di Vanghetta non è un uomo, perché non va a caccia di donne.
Senza sospetti il pretore lo introduce in casa sua, dando vita piano piano a una coabitazione che finirà con l’emarginarlo.
Non vado oltre, perché le sorprese non mancheranno e con un epilogo che è da manuale.
La scrittura di Chiara è fluente, ammaliatrice, continuamente piena di sorprese e di invenzioni, come nel caso della rappresentazione teatrale travolta, e non in senso figurato, dall’improvvisa piena di un fiume; e si ride, volentieri, anche se è sempre presente una nota malinconica sul destino degli uomini, grandi, normali o mediocri che siano: come formiche lottano sul palcoscenico della vita per arrivare tutti a quell’ultimo traguardo, un’esistenza di passioni, di delusioni, di vittorie, ma più ancora di sconfitte, di cui l’ultima è l’inevitabile conclusione di quella battaglia subito avviata non appena venuti alla luce.
Il pretore di Cuvio è un romanzo indubbiamente assai bello, da leggere non solo per sorridere, ma anche per meditare.          

Piero Chiara nacque a Luino nel 1913 e morì a Varese nel 1986. Scrittore tra i più amati e popolari del dopoguerra, esordì in narrativa piuttosto tardi, quasi cinquantenne, su suggerimento di Vittorio Sereni, suo coetaneo, conterraneo e grande amico, che lo invitò a scrivere una delle tante storie che Chiara amava raccontare a voce. Da Il piatto piange (Mondadori, 1962), che segna il suo esordio vero e proprio, fino alla morte, Chiara scrisse con eccezionale prolificità, inanellando un successo dopo l'altro.

E’ stato autore particolarmente fecondo e fra le sue numerose pubblicazioni figurano Il piatto piange (1962), La spartizione (1964), Il balordo (1967), L’uovo al cianuro e altre storie (1969), I giovedì della signora Giulia (1970), Il pretore di Cuvio (1973), La stanza del Vescovo (1976), Il vero Casanova (1977), Il cappotto di Astrakan (1978), Una spina nel cuore (1979), Vedò Singapore? (1981), Il capostazione di Casalino e altri 15 racconti (1986).
Renzo Montagnoli

 

12/12/2011

d’Amore 3 di Romantica Vany e King Lear
Lulu.com

Poesia e narrativa

Non c’è il due senza il tre…

E’ più che presumibile che gli autori abbiamo assaporato e inglobato il gusto della continuità, in una tematica piuttosto frequente in poesia, meno facile a trovarsi quando sia il frutto di un lavoro di coppia.
Ma più che d’amore, d’amore agognato, sognato, bramato, qui si comincia a vederne i risultati quando questo, ormai raggiunto senza che diventi necessariamente un’abitudine, si è ormai consolidato, dando forma a quella vita di coppia che è frutto di un’unione, formale o informale, comunque stabile e non occasionale.
Peraltro, e questo mi fa piacere, si comprende dai versi e dalla loro tonalità come questo altissimo sentimento sembri ogni giorno rinnovarsi, con lo stesso entusiasmo e la medesima passione del primo incontro (
Ricche le tue parole / dolci - come i frutti della terra -, / festose - come suoni nell’aria -, / hanno il sapore del sole / - del vero amore; / disegnano certezze / senz’ombre / in questa serena Domenica).
Si ripetono così, in delicate sfumature, soprattutto ove è  solo presente la mano di lei, emozioni spesso trasognate, con quella mitizzazione dell’amore propria di chi è ancora nettamente pervaso da quel senso di gioisa inquietudine che coglie, e sempre d’improvviso, chi viene trafitto dalla freccia di Cupido (E non vedo l'ora che sia questa notte / per guardare dalle piccole fessure della mia camera / la chiara luce che la notte mi regala, / semplice e magica: / finalmente potrò così pensarti, / l'unico modo che ho di star con te, / una volta al giorno; e pensare / che mi ami e che starai a me accanto / fino a quando io, chiudendo gl’occhi, / non diventerò figlia delle tenebre.). Questa poesia, scritta da Vanessa Corallo, bene esprime la forza e la potenza di un sentimento a cui anche ci si affida per avere una presenza immateriale, ma rassicurante.
Di tutte le liriche presenti quelle più concrete, se pur immerse in un idillio trasfigurato, sono proprio frutto dell’autrice, mentre più mascherate – s’intende nel sentimento – sono quelle scritte da Giuseppe Iannozzi; insomma una si apre maggiormente, l’altro sta un po’ sulle sue, finge di non dare importanza alle emozioni, un comportamento tipico del resto del maschio. Nel caso specifico si tratta di un gallo cedrone, impettito, ma che ronza intorno, parolando con promesse anche divertenti (Amoruccio, per te tutto / Divento uno spostato e un capellone / o anche uno che si fila la destra / Amoruccio, per te tutto / Cado in ginocchio davanti a te / e così resterò fino alla fine / dell'infinita eternità / E non dovesse bastare / mi faccio templare per il Sacro Graal).
Ma dove sono quelle poesie effettivamente scritte in coppia, quali sono i risultati?  Cosa risulta da questa combinazione di tremiti d’amore e di impettiti corteggiamenti? Si ottiene un amalgama di strano effetto, senz’altro riuscito, e che lascia pensare che all’occorrenza abbia prevalso l’uno sull’altro, senza compromessi che banalizzerebbero la poesia (…Oh l’amore! Amore amore amore / quante volte t’invochiamo / per troppo ardimento / con l’anima soffocata in petto / Stupido stupidissimo bisogno / d’assaggiare labbra di ciliegie; / ma quale creatura potrebbe mai / vivere una vita intera in solitudine? …).
Peraltro, anche se il tema dominante è l’amore, è lasciato qualche spazio ad altri argomenti, e addirittura, dopo le poesie, figurano nel libro alcune azzeccate favole, un’opportunità di sognare ad occhi aperti, che non potrà che essere  apprezzata dai lettori.
Del resto la lettura non è mai affaticante, né è necessario soffermarsi eccessivamente per comprendere un senso del tutto naturale e in questo sta anche il pregio della raccolta, volta a esternare in modo mai enfatico quel sentimento che è il motore della vita. Gli autori si lasciano sì andare, ma sono consapevoli che l’amore non ha bisogno di interpretazioni, perché è una forza che scaturisce naturalmente e che è propria di tutti.
Leggetelo e non ve ne pentirete.

Gli autori
Romantica Vany
è l’alias di Vanessa Viola Corallo, mentre King Lear è quello di Giuseppe Iannozzi. Piuttosto restii a fornire informazioni sulla loro vita, sono comunque conosciuti su Internet per i loro blog e siti; Giuseppe Iannozzi è noto in qualità di giornalista e critico letterario indipendente e fuori dai canoni.   

Pubblicazioni:

1)       Iannozzi GiuseppeMorte all’alba – narrativa, tramite Lulu.com; Racconti di nani e giganti  - narrativa, tramite Lulu.com; Premio Strega – narrativa, tramite Lulu.com; Nere gli anni delle innocenze – poesia – tramite Lulu.com; Cesare Battisti. Il fascista rosso – tramite Lulu.com; Il caso Marrazzo. Molte ombre e poca luce – tramite Lulu.com; d’Amore 3 – poesia e narrativa – tramite Lulu.com..

2)       Giuseppe Iannozzi e Vanessa Viola Corallod’Amore – poesie – tramite Lulu.com; d’Amore 2 – poesie – tramite Lulu.com; d’Amore 3 – poesia e narrativa – tramite Lulu.com.

Siti e blog:
http://iannozzigiuseppe.blogspot.com/
http://iannozzigiuseppe.wordpress.com/
http://jujoliannozzigiuseppe.wordpress.com/

Renzo Montagnoli

 

10/12/2011
 

SILENZIOSE EVANESCENZE: 49 POESIE DI SIMONE FAPPANNI
 
S'intitola "Silenziose evanescenze" (Grafo ed.)  l'ultimo libro di poesie di Simone Fappanni. In copertina appare un'opera di Rosida Mandruzzato Vettori. Il volume conta 64 pagine in cui sono inserite 49 poesie. Tema centrale della raccolta è l’uomo e il suo destino, fra speranze, amori e seduzioni; l’incontro, Patrocinato dal Comune di Soresina, è ad ingresso è libero. Scrive Vincenzo Montuori nella Prefazione al volume: «Qual è il momento in cui un testo può essere considerato “definitivo”? Il lavoro del poeta ha una sua forma “ne varietur”, oppure va considerato, fin quando l’autore è vivo e operante, un work in progress? In genere, si crede che una raccolta poetica possa aggrumarsi in una forma stabile dopo un certo numero di revisioni; ma la storia di questa pubblicazione di Simone Fappanni, Silenziose evanescenze (e non ci sfugga l’inconsistenza voluta del titolo che trasmette, con il cortocircuito della sinestesia tra aggettivo e sostantivo, un effetto di sfumatura), ci fa capire che non è così…».
Il volume sarà presentato sabato 17 dicembre, alle ore 16.15, presso le Sale del Podestà di Soresina (Via Matteotti).L’introduzione sarà curata dal Professor Vincenzo Montuori, critico letterario, e la recitazione di alcuni componimenti verrà fatta dall’attrice Lorenza Grassi. Per informazioni e contatti: fasimo71@libero.it ; Sito internet: http://www.webalice.it/fasimo/

 

9/12/2011

Mio Diletto Holmes di Rohase Piercy

Traduzione di Chiara Rolandelli

Tre Editori
www.treditori.com
Narrativa romanzo 

La strana coppia

Come è notorio Arthur Conan Doyle (Edimburgo, 22 maggio 1859 – Crowborough, 7 luglio 1930) è stato il creatore del personaggio di Sherlock Holmes e con lui del genere del giallo deduttivo.
Di professione medico, si incarnò nell’assistente investigativo John Watson, medico pure lui, dando vita a una coppia di protagonisti tanto diversi quanto interdipendenti e tali da conferire alla narrazione motivi di ulteriore interesse per i loro contrasti caratteriali. E peraltro, se al freddo e razionale Holmes fa da contrasto il più umano e meno perspicace Watson, a quest’ultimo è affidato il compito di raccontare le varie vicende, insomma un vero e proprio io narrante.
Doyle di Holmes scrisse in tutto quattro romanzi e una cinquantina di racconti, forse troppo pochi per esaurire il ciclo di un personaggio che incontrò subito un grande successo.
La tentazione, quindi, di far rivivere il genio investigativo inglese è i più che legittima e in tal senso ha provveduto la scrittrice inglese Rohase Piercy inventando il ritrovamento di alcuni taccuini confidenziali di John Watson e facendo rivivere la coppia di detectives in due nuovi casi, ovviamente risolti brillantemente.
Non è però l’aspetto giallo che interessa tanto all’autrice, quanto invece lo strano rapporto intercorrente fra Holmes e Watson, ipotizzando una passione segreta del medico per l’investigatore, che, pur non contraccambiando, sembra tuttavia interessato al compagno di avventure ben oltre l’aspetto tecnico della loro relazione. Siamo in epoca vittoriana, di costumi castigatissimi, di leggi che vietano l’omosessualita, stranamente però solo fra maschi, e non fra le femmine, tanto che la trama è intessuta e infiorata da relazioni saffiche, nemmeno tanto velate.
Peraltro in Holmes, freddo e impenetrabile, ci sono atteggiamenti tali da indurre in Watson la convinzione che non sia insensibile alle attenzioni dell’amico, senza che però ciò si traduca in un trasporto affettivo certo e inequivocabile. Il libro della Piercy gioca molto su questo aspetto e il lavoro dell’innamorato finisce con il diventare un giallo nel giallo, mantenendo vivo l’interesse del lettore che agogna di sapere se tutte le arti e le azioni messe in campo dal medico inglese andranno poi a buon fine.
Non dico altro, al riguardo, per lasciare il piacere della scoperta a chi leggerà queste pagine, scoprendo di volta in volta un gioco vecchio quanto il mondo.
Piuttosto mi preme evidenziare la riuscitissima ambientazione, l’atmosfera di un’epoca puritana, ma comunque solo di facciata, visto che lo scandalo è l’ombra di benpensanti, austeri e rigidi nell’apparenza, deboli e infelici nella sostanza.
Si ricrea così assai bene il periodo vittoriano anche con il modo di parlare dei personaggi, con quel dire e non dire, con una certa tendenza a un accentuato formalismo, a tratti perfino stucchevole, e qui devo dire che se larga parte del merito va all’abilità narrativa della Piercy la traduzione di Chiara Rolandelli è puntuale e corretta perché non ne spegne e non ne smussa lo spirito.
Mio Diletto Holmes finisce così con il diventare un pamphlet contro una società intimamente corrotta che vive una realtà apparente non in linea con la sua essenza, un mondo dove tutto deve essere “puro” (almeno nel concetto dell’epoca) e che poi, in questa discrasia fra l’essere e l’apparire, ingenera infelicità e crea mostri quali Jack lo squartatore.
Il libro è per questi motivi indubbiamente interessante e, aspetto non di certo trascurabile, risulta di gradevole lettura.      

Rohase Piercy è nata a Londra nel 1958 e vive ora a Brighton, sulla costa meridionale dell’Inghilterra, con il marito Leslie, le due figlie e alcuni animali.
È autrice di due altri romanzi, The coward does it with a kiss, un diario romanzato della moglie di Oscar Wilde, Constance; e What brave bulls do, una storia sullo sfondo controverso delle corride.
Renzo Montagnoli

 

6/12/2011

Marco e Mattio di Sebastiano Vassalli

Edizioni Einaudi

Narrativa romanzo
Collana ET Scrittori
 
 

Il male e il bene

L’unica cosa che il tempo non è riuscito a far sparire del tutto, nel caso di Mattio come in quello di Gesù di Nazateh, è una traccia che gli uomini – non tutti, fortunatamente, ma nemmeno pochi! – si lasciano dietro come le lumache si lasciano la bava, e che è il loro segno più tenace e incancellabile. Una traccia di parole, cioè di niente. Gli edifici crollano e vengono ricostruiti, le città muoiono, le montagne sprofondano: solamente la parola, di tanto in tanto, riesce a darci un’illusione d’immortalità che contrasta con tutto ciò che vediamo e conosciamo, e con la nostra stessa ragione. Come scrivere sull’acqua, o scolpire il vento…”    

La storia siamo noi, con l’esistenza che conduciamo ogni giorno, con i nostri piccoli fatti, le nostre convinzioni, i nostri sentimenti.
Nei libri di Sebastiano Vassalli non si racconta mai dei grandi personaggi, che magare pure sono presenti come sfondo del palcoscenico della rappresentazione. Sono i piccoli uomini, gli umili, gli ignoti che vengono alla ribalta, ombre spesso confuse ma che riescono a delineare perfettamente il percorso dell’umanità. E’ così in Cuore di pietra, in Le due chiese, perfino in quel romanzo così angosciante che è La chimera.
La stessa cosa avviene in Marco e Mattio, una vicenda per certi aspetti surreale, ma che fa emergere dall’oblio le miserie di un’epoca, fatta di fame per la povera gente e di lusso, ostentato, per i ricchi borghesi e per i nobili.
Vassalli narra di Mattio Lovat da Casal di Zoldo, un povero ciabattino sofferente di pellagra e che nelle sue farneticazioni, provocate dalla malattia, si illude che, immolandosi come Gesù Cristo, salverà il mondo. Non riuscirà a perire sulla croce, ma se ne andrà in silenzio, rifiutando il cibo, nel manicomio di Venezia, diventando uno dei primi casi clinici della psichiatria moderna.
Ci si domanda, e il quesito se lo pone anche l’autore, se Mattio Lovat abbia raggiunto il suo scopo. Si potrebbe rispondere che fose sì e forse no, e cioè che la caduta di Napoleone, visto dai cattolici intransigenti come l’Anticristo, avvenne pochi anni dopo la scomparsa dell’aspirante salvatore dell’umanità. Forse è una coincidenza, o forse esistono forze a noi sconosciute con le quali anche un uomo, che di certo non avrebbe potuto, per la sua posizione, cambiare lo stato delle cose, può la dove sembrerebbe impossibile.
Comunque, questa verifica di riscontri fra finalità e accadimenti non costituisce l’argomento di questo stupendo romanzo, ma, e lo ripeto, come in tutte le opere di Vassalli, è il far emergere dal buio dell’oblio chi, inconsapevole, ha lasciato un segno nel percorso storico.
Queste valli zoldane, povere, vessate prima dalla Serenissima, poi dalle truppe napoleoniche, e infine dagli imperiali austriaci, erano popolate da una torma di affamati, spesso pellagrosi, visto che l’unico alimento era la polenta. Si ribellarono, marciarono su Belluno, covo degli inetti nobili opressori, strapparono promesse di abolizione di tasse, ritornarono alle loro miserevoli dimore, scornati e delusi. Eppure, almeno con la rivoluzione francese e il Napoleone invasore erano sorte speranze, che si rivelarono illusioni, e in una serie di sconvolgimenti finì per ritornare tutto come prima, in una società classista che esigeva la poresenza dei poveri per consentire ai ricchi di perpetuare la loro esistenza di ladrocini.
Come sempre la ricerca storica di Vassalli è esemplare e non si basa solo sul fatto, ma spesso sui particolari, come usanze, modi di vestire, perfino proverbi in voga all’epoca, che abbraccia un arco di tempo che da dalla seconda metà del XVIII secolo al primo decennio del successivo (del resto Mattio Lovat nacque il 12 settembre 1761 e morì l’8 aprile 1806).
Con una scrittura apparentemente semplice Vassalli ci conduce per mano nella vita di quegli anni, che scorre davanti a noi come la proiezione di una pellicola cinematografica; la resa dell’ambiente è perfetta e l’atmosfera addirittura palpabile, in una trama talmente avvicente che tiene incollato il lettore al libro, desideroso di sapere come andrà a finire, una partecipazione che non viene mai meno anche quando il narratore si lascia andare a qualche riflessione, come una voce fuori campo che si pone e pone delle domande; altre volte invece c’una pausa di constatazione, per esprimere un punto di vista, quasi un tentativo di dialogo con il lettore e con l’effetto di far riposare un po’ dalla tensione della trama, un prender fiato che prelude poi a grosse novità.
Fino ad adesso ho parlato di Mattio, ma il titolo è Marco e Mattio.
Chi è Marco? E’ il Don Marco tedesco che sta in convalescenza nella parrocchia di Mattio e che gli insegna a conoscere le bellezze della volta celeste, oppure è l’avvocato Marco Sturz tenutario di una casa da gioco in Venezia e anche legale, patrocinatore, in apparenza, delle giuste richieste degli zoldani?
Marco è una leggenda, è l’immortale, già conosciuto nei tempi con i nomi di Assuero, Cartafilo, e altri ancora, insomma il Diavolo. Compare poco nel romanzo, ma ha una funzione determinante, perché si contrappone al pazzo Mattio, come il male si contrappone al bene; però è anche colui che insegna che la realtà umana è troppo ristretta e con una vita che può nauseare il miglior rimedio è conoscere una realtà al di fuori degli uomini, che può essere un cielo stellato, una natura maestosa e brulicante, in cui perdersi con il pensiero, in cui elevarsi dalla mediocrità, tuttavia attoniti per la grandezza smisurata dell’universo.
E’ il sogno del razionale che cerca risposte sapendo di non poterle trovare, mentre in Mattio la risposta, unica, inossidabile, è solo la fede.
Marco e Mattio è un romanzo di una bellezza straordinaria, un altro capolavoro di Sebastiano Vassalli.        

Sebastiano Vassalli è nato a Genova e vive in provincia di Novara. Presso Einaudi, dopo le prime prove sperimentali, ha pubblicato La notte della cometa, Sangue e suolo, L'alcova elettrica, L'oro del mondo, La chimera, Marco e Mattio, Il Cigno, 3012, Cuore di pietra, Un infinito numero, Archeologia del presente, Dux, Stella avvelenata, Amore lontano, La morte di Marx e altri racconti, L'Italiano, Dio il Diavolo e la Mosca nel grande caldo dei prossimi mille anni e Le due chiese.
Renzo Montagnoli

 

4/12/2011

JOUMANA HADDAD – HO UCCISO SHAHRAZAD – ED. P.B.O.MONDADORI

RECENSIONE DI M. CARMEN LAMA

 

Ci sono libri che si leggono tutti d’un fiato e non lasciano alcun segno, ci sono libri che si vorrebbero leggere tutti d’un fiato e invece bisogna fermarsi un attimo ogni tanto per riprendere fiato.
Questo libro folgorante di Joumana Haddad l’ho letto così, con l’urgenza di arrivare fino in fondo ma con l’impossibilità di farlo perché, pressoché ad ogni capitolo, e a volte anche dopo poche pagine, avevo bisogno di una sosta per riflettere, per mandare nel profondo di me le affermazioni potenti e vere che avevo letto e per sentirmele aderire completamente in ogni zona del corpo e della mente.
Ho acquistato il libro perché il titolo mi ha incuriosito.
Avevo letto Le mille e una notte, e avevo recepito che Shéhérazade (questa la grafia che ricordavo, ripresa anche da
Nikolaj Andreevič Rimskij-Korsakov per il suo bellissimo, commovente e rabbrividente brano musicale), che Shéhérazade fosse una principessa molto intelligente che con le sue mille e una storia avesse la consapevole e preminente -e in qualche modo anche onnipotente- convinzione di tenere a bada il suo potenziale aguzzino, dichiaratosi amante, ma che avrebbe potuto uccidere la stessa preziosa Shéhérazade, così come aveva fatto con tutte le precedenti donne che avevano subito il suo fascino, ignare della sorte che le attendeva.
E allora, aver ucciso Shahrazad, come dichiarava il titolo, mi dava la sensazione che qualcosa mi fosse sfuggito nella mia precedente interpretazione del ruolo della protagonista delle mille e una notte. E ho infatti scoperto che nel mondo arabo si percepisce Shahrazad come una donna che ha la necessità di sfuggire a una trappola maschile e per questo si sottomette alla fatica di “persuadere” l’uomo con le sue storie infinite, ponendosi così in una posizione inferiore, di compromesso e facendo automaticamente assurgere l’uomo a un ruolo di onnipotenza.
Joumana Haddad respinge il messaggio che subdolamente viene trasmesso attraverso l’analisi del personaggio Shahrazad: è un messaggio che non insegna alle donne a resistere, a ribellarsi ai soprusi di qualsiasi genere, ma piuttosto  le convince ad imparare a cedere e a negoziare i propri DIRITTI. Ma è ben vero che “i diritti” NON sono negoziabili. Anzi, di fronte ai diritti l’unico atteggiamento corretto è quello di esigere che siano rispettati. Così per la donna esattamente come lo è per l’uomo.
Con questo libro, che è un vero e proprio saggio sulla condizione delle donne arabe, (non della donna araba!) Joumana Haddad ha inteso scardinare molti luoghi comuni che sono presenti sia nella percezione che ne hanno gli occidentali, sia nella percezione dello stesso mondo arabo nel suo insieme di uomini e donne. Ha voluto precisare, con un’autocritica spietata e sincera del suo mondo e più ancora del suo paese, il Libano, quali siano ancora oggi gli errori della cultura araba al solo fine di analizzarli dall’interno per poterli correggere, migliorando così tutto ciò che non va, ma nello stesso tempo ha cercato di farci dismettere quell’habitus omologante della generalizzazione della condizione femminile, per rendere chiara ed esplicita la singolarità e l’individualità dell’essere donna nel mondo arabo, dell’essere donna-scrittrice nel mondo arabo, con tutte le difficoltà che ciò comporta e con tutte le innumerevoli situazioni problematiche che ciascuna donna e ciascuna donna-scrittrice in particolare, cerca ogni giorno di risolvere con le sue sole forze o anche con l’aiuto di uomini illuminati e intelligenti che pure esistono nella gran massa degli ipocriti, sottoposti a loro volta a cliché pensati e secolarmente riproposti dall’unico universo politico-religioso che detta le leggi del comportamento sociale e individuale, pubblico e privato, persino nei dettagli di ciò che è ammesso pensare e di ciò che non lo è perché da considerarsi tabù.
Sono molti gli esempi che la Haddad porta, a prova delle sue affermazioni, e non si può non restare di sasso di fronte ad alcune ovvietà che farebbero trasalire perfino un infante, e che invece vengono date per scontate in quella cultura del nascondere, da una parte, per appropriarsi poi, dall’altra, in modo quasi scandaloso, in privato, di quanto nascosto. Ciò, in particolare, nel comportamento sessuale, mortificato nella sua bellezza ed importanza da stereotipi assurdi, soprattutto per controllare e sottomettere le donne.
Le analisi condotte con fine intelligenza e con la maggiore obiettività possibile dalla scrittrice araba “arrabbiata”, spaziano su molti temi, compreso quello strettamente religioso, campo nel quale mette a confronto il fondamentalismo musulmano con il fondamentalismo cristiano, per trovare che non ci sono delle differenze sostanziali se non un’apparenza di maggiore indulgenza in quello cristiano, che però nasconde una trappola ancora più gigantesca, se possibile, dell’ovvietà con cui l’islam impone i suoi precetti.
Occorre leggere il libro per comprendere, perché non si può entrare, con una recensione come questa, nei dettagli di tutto il complesso mosaico costituito dalla cultura araba, la cui gloriosa antichità sta per essere completamente cancellata dai nuovi modelli culturali sempre più retrivi e ipocritamente attaccati a dogmi inaccettabili. E questi sono tanto più inaccettabili quanto più discriminanti nei confronti della donna, considerata come semplice accessorio maschile, anziché essere riconosciuta nella ricchezza della sua essenza e come potente alleata dell’uomo, (se non fosse misconosciuta a volte addirittura quale essere umano).
Non si può non dare atto e non rendere giustizia alla scrittrice Joumana Haddad della sua assoluta imparzialità nel considerare tutti gli aspetti del problema delle donne nel mondo arabo, e della sua capacità di indagarli con lucidità, al fine di sostenere con forza la necessità che si giunga, dall’interno, a scardinare i sistemi stupidi e contorti che non fanno altro che collassare su se stessi e solo da questa ancestrale paura del fallimento riprendere l’arroganza del perseverare negli errori acuendone i disastrosi risultati a cui necessariamente portano.
Joumana Haddad è anche una poetessa e, al termine del libro, dà un intenso saggio della sua capacità di mostrare nuda la sua anima, con una poesia di fortissimo impatto emotivo che fa trattenere il respiro ad ogni verso e che, come tutto il libro di cui è quasi una sorta di compendio, non si riesce a leggere tutta d’un fiato, proprio per questa sua caratteristica pervasiva e folgorante.
Un libro da leggere assolutamente, non ci si può permettere di ignorarlo, pena l’incompletezza, la parzialità e l’erroneità delle nostre conoscenze.
M. Carmen Lama

Robbiate, 2 dicembre 2011

 

3/12/2011

L’uovo al cianuro e altre storie di Piero Chiara
Introduzione di Luigi Baldacci

Arnoldo Mondadori Editore

Narrativa raccolta di racconti
Collana Oscar Scrittori moderni

La felicità di scrivere

“Augusto Turati l’aveva vista. Allontanò il federale che voleva farli scudo col suo petto, e con le mani puntate sul piano dov’era steso il drappo nero, aspettò. Preso l’alzo sull’ultima balza del prato, l’anguria entrò come un tiro di rigore nel palco e andò a colpire nel mezzo la traversa superiore, proprio sopra la testa del Segretario del Partito.
Crollò un trofeo di bandiere, tremò tutta l’impalcatura e una doccia di sugo scese sopra il gruppo delle autorità schierate in prima fila. Turati, che stava per riprendere la parola, ne ebbe la maggior parte; e subito si videro i fazzoletti bianchi del federale e del prefetto che lo asciugavano.

Fu la prima scossa al regime, il primo colpo andato a segno, benché la stampa non lo registrasse e la storia solo oggi possa metterlo, se non tra i fatti decisivi, almeno tra i presagi sicuri.”

Si conclude così Il povero Turati, uno dei ventitre racconti che compongono questa raccolta, scritti da Chiara fra il 1963 e il 1969, già apparsi singolarmente in giornali o riviste, ma rielaborati al fine di dare una continuità agli stessi, tale da renderli capitoli di un unico inusuale romanzo. I periodi storici a cui si riferiscono sono in buona parte ben determinabili e abbracciano un arco di tempo che va dagli anni ’20 fino a oltre, se pur di poco, la metà dello scorso secolo. Sono prose che prendono per lo più spunto da esperienze vissute, magari ampliate grazie all’indubbia vena creativa; si ritrova pertanto quel piccolo mondo di provincia di cui Chiara è stato l’indiscutibile cantore, ma si va anche oltre i confini nazionali, per esempio in Svizzera, in cui effettivamente l’autore luinese soggiornò, lungamente e suo malgrado, in alcuni degli anni della seconda guerra mondiale.
Sottofondo di tutte questi racconti è l’ironia con cui vengono esaminati e svolti i fatti, un’ironia spesso sottile, ma che smorza i toni, per dare vita a una narrazione appassionante e divertente, tanto che si scorrono le pagine con il sorriso sulle labbra.
Non c’è dubbio che in Chiara c’è la felicità di scrivere, il puro divertimento che si ritrova in chi sa osservare e riesce a costruire da pochi indizi una storia completa, che, per lo svolgimento delle vicende e per l’impostazione narrativa, non può che mettere di buon umore. Inoltre, il genio creativo è tale che non si corre il rischio di una ripetitività, se pur parziale; non c’è proprio questo pericolo, a tutto vantaggio del piacere della lettura che a ogni racconto si misura con una trama totalmente nuova, del tutto originale e sempre avvincente.
La raccolta prende il titolo di uno dei racconti, L’uovo al cianuro, un classico per certi versi degli autori siciliani (e Chiara era figlio di siciliani) con il concetto delle verità, e non tanto della verità assoluta. E così il fotografo Pareille avrà ucciso il cognato con l’uovo al cianuro o è invece la povera vittima di un complotto? Non c’è risposta e la storia si conclude con questo dubbio, ma poco importa, perché tutti passiamo e ognuno di noi per gli altri rappresenta un enigma con tante individuali soluzioni, che il tempo cancella, come un vento della vita che ci sballotta qua e là, e poi ci porta via.
I racconti non sono pochi e presentano un’estrema varietà, passando dall’esperienza dello scrittore quale studente sfaccendato in un collegio di religiosi (Sulle onde del Lago Maggiore), al periodo di internamento in Svizzera di I preti in esilio, con la divertentissima figura di un sacerdote che, convertito un ebreo, decide di applicarsi anche con un socialista, con il risultato, però, che pure lui diventa socialista.   
Ogni lettore troverà senz’altro in queste prose, tutte di eccellenza, quella che lo colpirà di più, così come è stato per me, che proprio alla fine ho trovato nell’ultimo motivi di particolare interesse e riflessione, che non avevo provato con altri, per quanto mi fossero piaciuti tutti.
Il volume si chiude con Il ponte di Queensboro, una vicenda che si svolge a New York e che punta alla contrapposizio fra l’agiatezza che rende schiavi e la completa libertà di chi non possedendo nulla è completamente padrone di se stesso.
E’ questo un racconto in cui l’ironia si fa più sottile e nella grande città ritorna il desiderio per una realtà scevra da limiti e confini e in questo senso avverrà la scelta del protagonista.
Ma ce ne sono altri, o meglio direi tutti gli altri, il cui interesse appare consistente e parlarne sarebbe opportuno, ma poi gli spazi di una recensione diventerebbero troppo ampi, senza dimenticare che è meglio lasciarli alla scoperta dei lettori.
Mi corre l’obbligo, tuttavia, di un breve cenno a La forza del destino, prosa inconsueta nella produzione di Chiara, di una drammaticità che prende il cuore e che ci induce a riflettere su chi sembra predestinato a condurre una vita di sofferenze, di sacrifici, di dedizione, e tutto per nulla, se non per quell’indefinibile piacere di esistere in funzione di altri. I personaggi della signorina Diomira e di don Biancamano resteranno sicuramente impressi nella memoria, anche loro due figure che non sono quel che appaiono.
L’uovo al cianuro e altre storie è un libro di grande bellezza che invito a leggere, perché sicuramente meritevole.          

Piero Chiara nacque a Luino nel 1913 e morì a Varese nel 1986. Scrittore tra i più amati e popolari del dopoguerra, esordì in narrativa piuttosto tardi, quasi cinquantenne, su suggerimento di Vittorio Sereni, suo coetaneo, conterraneo e grande amico, che lo invitò a scrivere una delle tante storie che Chiara amava raccontare a voce. Da Il piatto piange (Mondadori, 1962), che segna il suo esordio vero e proprio, fino alla morte, Chiara scrisse con eccezionale prolificità, inanellando un successo dopo l'altro.

E’ stato autore particolarmente fecondo e fra le sue numerose pubblicazioni figurano Il piatto piange (1962), La spartizione (1964), Il balordo (1967), L’uovo al cianuro e altre storie (1969), I giovedì della signora Giulia (1970), Il pretore di Cuvio (1973), La stanza del Vescovo (1976), Il vero Casanova (1977), Il cappotto di Astrakan (1978), Una spina nel cuore (1979), Vedò Singapore? (1981), Il capostazione di Casalino e altri 15 racconti (1986).
Renzo Montagnoli

 

30/11/2011

I Pascoli del cielo di John Steinbeck

Bompiani Editore
Narrativa raccolta di racconti
 
 

La valle dei nostri sogni

Correva l’anno di grazia 1776 quando un militare spagnolo, alla ricerca di alcuni indiani convertiti e fuggiti da una missione della California, s’imbatté, sulla strada del ritorno, in una valle rigogliosa, verdissima, popolata di cervi, che lo portò alla commozione, tanto era bella da essere mistica. Disse, allora: “Questi sono i verdi pascoli del cielo ai quali il Signore ci conduce!”. E’ da quell’epoca che quella valle viene chiamata Las pasturas del cielo, cioè I pascoli del cielo.
Terra assai fertile, di facile coltivazione, lontana dalla civiltà rampante, rimase libera, selvaggia, primordiale.
Questa valle è il tema dominante di una raccolta di racconti scritta da John Steinbeck e pubblicata con il titolo I Pascoli del cielo nel 1932.
Tradotta l’opera da Elio Vittorini si cercò forzatamente, per la matrice comune dei testi, di considerarla un romanzo e ciò per fini commerciali, perché stranamente da noi la prosa breve non gode di particolari favori.
Eppure, qui ci troviamo di fronte a un autentico capolavoro, una summa di quel che sono le indiscutibili qualità di Steinbeck, capace di dare risalto agli umili per la loro limpidezza, con una serie di storie di natura completamente differente. Si va così dal piccino stregato Tularecito, un diverso (e qui l’autore americano è uno dei primi a porre l’accento su chi per nascita è meno fortunato di altri) alle sorelle ereditiere di una terra ingrata che sopravvivono cucinando tortillas per i contadini dei Pascoli, dalla bella donna Helen, al cui piacevole aspetto fisico si contrappone la tragedia familiare di un sangue corrotto, al giovane Jiunius, fuggito dal posto di impiegato in città per trovare la serenità in questa valle magica, quasi da Giardino dell’Eden, in cui pur tuttavia, eterna condanna, il male nasce e si sviluppa.
Sono piccole storie, di gente comune, ma di esseri pulsanti che reclamano una loro dignità e un posto ben preciso lungo la strada della vita, costituendo insieme lo specchio di un’umanità che brulica e s’affanna dall’alba al tramonto, dalla prima all’ultima stagione, dalla nascita fino alla morte.
Di questi protagonisti inconsapevoli John Steinbeck è il cantastorie, che osserva con pudore e tenerezza, e comunque senza mai giudicare, la società americana dei pionieri, teatro di poche grandi fortune, di illusorie speranze e di tante piccole, insospettabili e ignote miserie.
I Pascoli del cielo è qualche cosa di più di un bel libro da leggere, è uno specchio in cui immergersi per trovare un mondo perduto, un ritorno alle origini di cui l’uomo moderno non può più fare a meno.
La mano dello scrittore ci conduce a ricalcare i passi di chi ci ha preceduto, un viaggio dentro di noi da cui non si vorrebbe più tornare.
Leggetelo, immergetevi nelle sue atmosfere, e poi non potrete che convenire che si tratta di un capolavoro.

John Steinbeck, nato nel 1902 a New York e morto il 20 dicembre 1968, è considerato uno degli scrittori più importanti del XX secolo, insignito del Premio Nobel per la Letteratura nel 1962. Nei tascabili Bompiani sono disponibili: La Perla, Uomini e topi, Furore, La Corriera stravagante, Vicolo Cannery, La Battaglia e Pian della Tortilla. A partire dall’autunno 2011 anche le opere finora pubblicate da altri editori verranno ristampate nei tascabili e nei classici Bompiani.
Renzo Montagnoli

 

19/11/2011

Riflessi di rugiada
Cose sparse di me

di Maria Allo

Prefazione di Gabriele La Porta
In copertina disegno di Deborah Allo

Gruppo Albatros Il Filo
www.ilfiloonline.it

Poesia silloge

Flussi di coscienza

Questa raccolta di poesie è sottotitolata Cose sparse di me, che è poi il titolo della prima lirica del volume (Nubi imponenti / scavalcano rauche / le cime ondulate / e lontane. /…. / Gli errori denudano / e violentano l’anima / cose sparse di me…). Ecco, in questi versi in cui la natura è descritta così vivamente si rispecchia l’anima della poetessa, un travaglio continuo che non è urlo di dolore, bensì amara e sofferta constatazione.
La poesia di Maria Allo, a verso libero, è in effetti un tramite, uno sfogo in cui rivedersi dentro per superare quella dolenza latente che non viene mai meno (da A ridosso dell’Etna Lasciatemi così / ch’io mi disperda tra gli angeli e le cose…/). Faccio presente che il ricorso a quei tre puntini, riscontrabile anche nella prima lirica, è quasi una forma di autodifesa. Sembra che l’autrice non voglia tanto lasciare spazio al lettore per l’eventuale completamento del verso, bensì intenda mettere un freno inibitore per non andar oltre e quasi per dirci “ io sono fatta così”.
Che la poesia in genere sia l’immagine speculare dell’anima penso sia ormai assodato, ma allora perché specchiarsi e mostrare agli altri quest’immagine, sovente indistinta? Perché la poesia è confessione, liberazione, ricerca di un ignoto contatto che non pone problemi di contrasti dialettici, ma è anche un flusso di coscienza che emerge dagli anfratti più nascosti del nostro “io”, uno sfogo portato ad altri, senza che sia necessario che subentri una dialettica, è insomma un’espressione lanciata al vento affinchè possa attecchire là dove si trovano anime feconde con cui entrare metafisicamente in contatto.
Maria Allo è naturalmente riservata e ha il timore di rivelare la sua intimità, ma ciò nonostante l’esigenza di aprirsi poeticamente la induce a esporsi, pur con il freno di non superare quel limite che il suo inconscio sentire le pone. E dato che la poesia è ricerca, si avverte, lirica dopo lirica, come quel confine astratto e inconsapevole tenda ad allargarsi, proprio perché ogni volta è una nuova scoperta di se stessa in un approfondimento che è comune a tutti gli autori e che sì questo non ha praticamente limiti ( da Postilla ai margini la vitaQuante radici appese / all’albero della vita / ciuffi d’erba strappati / agli argini del fiume / fiori d’albe e tronchi /  coni d’ombra attimi di sosta / effimeri sollievi echi e folate / negli improvvisi abissi /…).
Ecco dalla genericità metaforica di questi versi, simbolo di pudore, si passa poi a quelli in cui più evidente è la diretta partecipazione emotiva di Il cielo non basta ( …/ Sono ubriaca di luce / di tanto in tanto / lungo una strada / d’incenso che nutre l’agnello / temo il ritorno e le spire / d’un mostruoso serpente /…).
Benchè il senso poetico di un autore sia sempre lo stesso, pur variando le tematiche, Maria Allo ha inteso suddividere la raccolta in quattro sezioni (ognuna preceduta da una succinta ma completa introduzione di Maria Fortunato, e  da un riuscito disegno di Deborah Allo).
Troviamo così la Sezione Intimistica, in cui più direttamente la poetessa racconta di sé (Canto me un po’ zingara / un po’ recluta / planata distante / quasi a metà su questa terra /…), poi quella naturalistica, in cui il paesaggio e l’ambiente sono predominanti, ma spesso metafore esistenziali ( Che l’Estate sia qui / lo sa il mare / il suono delle onde appassionate / s’inerpica negli anfratti / tra gli scogli ascolta il passo / di fermenti inermi /…), la sezione mitologica, che risente degli influssi del passato della sua terra, miscellanea di popolazioni, espansione degli antichi greci (da Come VestaleSolitaria mi trovo sotto il cielo / aspro di sassi e di silenzio / rugiade antiche rivoltano ferite /…) e per ultima una che è per certi aspetti affine all’intimistica, ma volge di più al metafisico, cioè la sezione anima (Io vivo nel silenzio il mare / nei respiri / sento il suo profumo / ma nell’azzurro / la tragedia / della luce / e del mistero).
E’ indubbio che quest’opera, per certi aspetti, rappresenti la “summa” della produzione dell’artista, versi nati in epoche diverse e in cui si avverte il flusso del tempo, un lento divenire che tangibilmente accompagna, in un unico filo portante, la poetica di Maria Allo, con liriche che si assestano su un livello di eccellenza, pervenendo addirittura con alcune poesie a vette ai più inaccessibili.
Mi è piaciuta, l’ho assaporata come chicchi d’uva rigogliosa colti dal grappolo, un nettare di poesia di cui ancor oggi avverto l’inconfondibile ed intenso sapore.

La lettura, quindi, è senza ombra di dubbio del tutto consigliata.    

Maria Allo è nata a Santa Teresa di Riva (ME). Attualmente vive a Riposto (CT). Si è laureata in Lettere Classiche presso l'Università di Messina, è docente di Italiano e Latino in un liceo della provincia di Catania. Ha al suo attivo diverse pubblicazioni antologiche e la silloge I sentieri della speranza (Gabrieli, Roma). Nel 1983 e 1984 ha ricevuto il Premio "Casentino" di poesia indetto dal Comune di Firenze e il Premio "Giuseppe Sciva" di Messina; nel 1984 il Premio "Città di Sant'Agata di Militello" indetto dall'Ancol (Messina); nel 1984 il Premio "Città del Peloro ed. il Galeone; nel 1984 il premio "Etna d'oro - Oscar Sicilia" indetto dal Centro "Giuseppe Macherione" di Giarre; nel 1985 il "Grand Prix Mediterranée" indetto dall'Accademia d'Europa di Napoli; nel 1986 il secondo premio "Città di Boretto" in collaborazione con l'Asociación Cultural Italo-Hispánica "Cristobal Colon", Madrid-Spagna; nel 1987 il primo premio exaequo per la silloge di poesia dal Centro di Cultura "Pensiero ed Arte" di Bari; nel 1987 il gran trofeo mondiale "New York" USA per la poesia indetto dall'Accademia del Fiorino di Firenze. Ha curato diverse edizioni della manifestazione "Artemare" di Riposto. Modera come autrice due blog di poesia, diversi blog didattici ed è redattrice di "Aetnascuola”. Alcune  sue poesie sono state lette e commentate su Rai Notte nella trasmissione Inconscio, magia e psiche curata da Gabriele La Porta.
Renzo Montagnoli

 

14/11/2011

Il Cigno di Sebastiano Vassalli

Edizioni Einaudi
Narrativa romanzo
Collana ET Scrittori
 

Ieri come oggi

“A volte sua eccellenza sentiva delle voci che lo chiamavano, mentre se nestava con gli occhi chiusi nella poltrona davanti alla finestra: apriva gli occhi, e vicino a lui c’era qualcuno di quei matti che erano stati i suoi compagni d’un tempo e che ormai erano tutti morti.

……..  

Non credeva di dover morire, sua eccellenza; non ci aveva mai creduto. S’illudeva che avrebbe fatto scappare anche la morte, quando fosse stato il momento, come aveva fatto scappare quell’anarchico che una mattina a Roma, in via Gregoriana, gli aveva sparato due colpi di pistola e non era nemmeno riuscito a colpirlo, nonostante la sua carrozza fosse ferma a pochi metri di distanza.”

Il 1° febbraio 1893, in una carrozza del treno diretto a Palermo, viene ucciso a coltellate l’ex direttore del Banco di Sicilia Emanuele Notarbartolo, allontanato dal suo incarico da Francesco Crispi, ma richiamato in servizio dal nuovo presidente del consiglio di Rudinì, che vuol vedere chiaro nei conti della banca, stante le voci ricorrenti di ammanchi anche di notevole entità. C’è infatti chi, con i denari dei risparmiatori, gioca in borsa  per finanziare la sua campagna elettorale e questo chi è il deputato Raffaele Palizzolo, legato indissolubilmente a quella intricata ragnatela predatoria e feroce che risponde al nome di mafia.
Questi anni, sul finire del secolo, sono quelli di un’Italia in formazione, che vuole presentarsi sulla scena internazionale come uno stato che ambisce a non essere inferiore alle grandi potenze dell’epoca e che accampa diritti per una sua espansione, sia pure coloniale; principale artefice di questa politica fu proprio Crispi, un uomo che riassume in sé tutti i difetti e i ben rari e modesti pregi del trasformista, di colui che procede senza ideali se non quello del raggiungimento e della conservazione del potere. Spregiudicato, sostanzialmente amorale, è a suo modo un personaggio di primo piano nella storia del nostro paese, che, anche in seguito, ha avuto modo di sperimentare analoghi protagonisti della vita pubblica.
In questo bel romanzo Vassalli narra dell’omicidio Notarbartolo e delle successive indagini, argomento complesso, data l’intricata vicenda, ma che non è il fine dell’opera, in quanto l’autore ci vuole condurre per mano a conoscere uno dei nostri difetti, e cioè la nostra straordinaria capacità di dimenticare, un oblio volontario, forse per rendere meno impietoso il vivere o più probabilmente per l’autoconvincimento che nulla può cambiare e che così va il mondo.
In effetti, la figura del Cigno (Raffaele Palizzolo), chiamato così per le caratteristiche della sua voce e di certe sue movenze, è il ritratto impietoso di un’Italia in cui non solo la giustizia viene disapplicata, ma anche brulicante di personaggi che, di colpo saliti alla ribalta, vengono poi con il tempo ignorati, così che la loro celebrità e la loro gloria sono effimere.     
E Palizzolo, prima incarcerato, poi liberato e accolto trionfalmente a Palermo come un eroe, finirà i suoi giorni quasi nell’anonimato, così come Crispi si spegnerà nel silenzio.
Entrambi non sono uomini che hanno fatto l’Italia, ma che se ne sono serviti per i loro scopi, per sete di potere, per interessi di parte; le parole della politica risuonano vuote, come vuota è la giustizia, sensibile ai polveroni che ogni tanto s’innalzano, per poi diradarsi, in un gioco in cui tutto pare cambiare per ritornare infine sempre uguale.
Vassalli ha scritto un romanzo forse ispirandosi a Sciascia, perché la vicenda, con tutti gli interrogativi che pone, sarebbe stata certamente d’interesse per l’autore di Racalmuto, e, pur senza averne la grande capacità di analisi ferrea, è riuscito tuttavia a confezionare un’opera di ottimo livello, che in talune pagine (quelle relative agli ultimi giorni di Crispi) raggiunge vertici di alta letteratura.
Sarà forse un romanzo minore, ma sinceramente, se anche non risulta di eccellenza  come La chimera, Le due chiese e Cuore di pietra, tuttavia Il Cigno è di ineccepibile qualità, piacevole da leggere e, soprattutto, valido strumento di riflessione.

Sebastiano Vassalli è nato a Genova e vive in provincia di Novara. Presso Einaudi, dopo le prime prove sperimentali, ha pubblicato La notte della cometa, Sangue e suolo, L'alcova elettrica, L'oro del mondo, La chimera, Marco e Mattio, Il Cigno, 3012, Cuore di pietra, Un infinito numero, Archeologia del presente, Dux, Stella avvelenata, Amore lontano, La morte di Marx e altri racconti, L'Italiano, Dio il Diavolo e la Mosca nel grande caldo dei prossimi mille anni e Le due chiese.
Renzo Montagnoli

 

8/11/2011

La poltrona del re di Fabrizio Rinaldini

Edizioni Agemina
www.edizioniagemina.it

Narrativa romanzo
Collana I Gialli Agemina
 

Un giallo fra ieri e oggi

In epoca giovanile il genere giallo mi ha appassionato molto e mi ha portato a conoscere autori famosi come Agatha Christie, Georges Simenon, Arthur Conan Doyle e Ed McBain, tanto per citarne alcuni che mi vengono in mente. Poi, nell’età intermedia, ho privilegiato altre letture e più recentemente, ma in misura sporadica, mi sono deliziato con i commissari Montalbano, di Andrea Camilleri, e Ricciardi, di Maurizio de Giovanni. Quello che mi piace in questo genere è la struttura, con l’immancabile omicidio, le indagini e infine la scoperta del colpevole per merito o di un investigatore privato o di un poliziotto.
La poltrona del re, pur nel paradigma classico del giallo, ha la caratteristica di non presentare un professionista dell’indagine e in questo senso, come apre, chiude anche la storia, perché è pressochè impossibile ipotizzare un seguito, ovviamente con una vicenda diversa, appunto perché il protagonista non è un detective, bensì un normale cittadino come noi che, tuttavia, seguendo un filo logico e alla portata di individui privi di esperienza perviene ugualmente alla soluzione.
L’autore è toscano e pure l’ambientazione è propria di questa bella regione italiana, in una piccola realtà dove tutti, più o meno, si conoscono tanto da sapere pregi e difetti, non solo del presente, ma anche del passato.
E’ gente normalissima, eppure lì si celano un usuraio, uno stupratore e anche gli assassini.
E’ inutile raccontare la trama, perché si toglierebbe il piacere della lettura, ma mi preme dire che Rinaldini ha creato una serie di personaggi, del tutto credibili, che girano nella vicenda con una precisione rimarchevole, in una sorta di indissolubile catena che scorre bene oliata.
Così troviamo un impiegato dai trascorsi giovanili nei movimenti eversivi di destra, amico di un ex partigiano comunista, la nipote di quest’ultimo, un parroco che cerca solo di badare ai fatti suoi, un brigadiere dei carabinieri un po’ prevenuto e tracotante, una vicina di casa spiona e maldicente, un politico che aspira a diventare parlamentare, un giornalista che fantastica, ma nemmeno troppo, insomma un campionario di varie umanità che interagiscono e le cui vite scorrono spesso parallele, ma poi finiscono inevitabilmente con l’incrociarsi.
E poi ci sono due strane morti, cioè due suicidi che lasciano perplessi nella loro modalità di esecuzione, la scomparsa di un ragazzo avvenuta negli anni ’50, l’assassinio di una donna a colpi di arma da fuoco, le voci di un tesoro sottratto ai tedeschi dai partigiani.
I personaggi sono ben definiti, così come l’ambientazione, e ciò nonostante una scrittura scarna, essenziale, che non indulge a descrizioni particolareggiate, preferendo lasciare spazio all’evolversi della vicenda che poco a poco avvince il lettore, obbligandolo di fatto a proseguire, pagina dopo pagina, per poter infine essere edotto di ciò che è accaduto, dei moventi dei delitti e soprattutto dei nomi dei loro autori, circostanza questa che, come in ogni giallo che si rispetti, avviene alla fine, sulla base di una logica stringente che porta a dire che effettivamente i colpevoli non potevano essere che quelli.
La poltrona del re è un buon romanzo, di facile e gradevole lettura, e pertanto lo consiglio caldamente.

Fabrizio Rinaldini è nato 55 anni or sono nel comune di Scandicci e lì attualmente risiede dopo vari trasferimenti.
Una militanza politica decennale e una lunga disavventura giudiziaria gli hanno permesso di assaporare l’equanimità dell’italica legge. Dopo un matrimonio durato poco e finito male, qualche anno trascorso in Africa e in America del Sud per lavoro, molte amicizie sbagliate e poche “fratellanze” vere e proprie, più di un legame sentimentale finito peggio del matrimonio, ha deciso che la cosa più divertente di tutte è scrivere.
Così scrive per gioco e legge per passione. Ama la letteratura e la storia.

Frequenta archivi e biblioteche per ricerche improbabili, traduce articoli dall’inglese, fra lunghe camminate a passo veloce (quelle che i salutisti maniaci chiamano fitwalking), molti libri letti e tantissimi da leggere, qualche concerto, un po’ di teatro e il lavoro di sistemista informatico.
Non cambierebbe il luogo in cui vive neppure con un attico a Manhattan con vista sull’Hudson, mantiene vivi i legami con la propria comunità ideale, ama i gatti, la birra Weisse, i Pink Floyd, Shakespeare, l’irraggiungibile Céline e ‘Non, je ne regrette rien’ di Edith Piaf che (potenza dei numeri) è stata scritta nello stesso anno in cui è nato.
Ha pubblicato il suo primo giallo di successo: “In morte di un collega” con Sassoscritto Editore.
Renzo Montagnoli

 

6/11/2011

Andrea Camilleri
La setta degli angeli

Sellerio Editore Palermo

Il percorso artistico di  Camilleri si arricchisce di una nuovo “prodotto”narrativo  in cui l’apparato scenico e i personaggi  sono da commedia dell’arte e tocca in profondità gli strati dell’animo umano. In questo romanzo Camilleri (sono sue le dichiarazioni), stravolge, sconfinando nel campo della pura fantasia, i fatti che realmente accaddero in un paese siciliano, Alia, all’inizio del secolo scorso. Matteo Teresi, un avvocato giornalista, socialista e difensore dei poveri, dalle pagine del suo giornale "La Battaglia”denunciò una setta di preti rea di abusi sessuali su giovani ed ingenue fanciulle. L’eco dello scandalo raggiunse livelli nazionali e suscitò lo sdegno di molti esponenti politici e religiosi tra i quali Turati e Sturzo. Camilleri tiene a precisare che la storia non ha intenti anticlericali, ma vuole puntare l’indice su un fenomeno, assai diffuso nel nostro paese, il rifiuto della conoscenza della verità. Da questo assunto la trama s’incardina in  sottili e capziose segretezze, la versione alterata dei fatti è quella che la gente vuole in un ostinato rifiuto di guardare oltre l’ipocrisia collettiva.

Un’ epidemia di colera pare abbattersi su Palizzolo,  paìsi di settemila bitanti proprio al centro di granni latifondi, nel milli e novecento e uno. Il vanto di questo paese? Avere otto chiese, sette delle quali se l’erano divise la nobiltà e i proprietari terrieri, l’ottava era la chiesa dei viddràni, della povera genti, di chi campava a pani e aria.  Ebbene, dalla frequentazione e la devozione delle chiese e dal circolo “Onore & Famiglia”la storia si dilata frammentandosi in tanti rivoli che porteranno alla sorgente della vera epidemia: una strana malattia endemica che colpisce giovani donne, vergini e non, gravide per opera, beata inconsapevolezza, dello spirito santo. Una setta di preti fa credere loro che il rapporto sessuale o le stesse pratiche sessuali preparatorie del rapporto, sono uno strumento per acquisire indulgenze divine ed aprire le porte del Paradiso. L’avvocato Teresi, indagherà, denuncerà  e  perverrà al vero della misteriosa faccenda. Egli, il difensore dei morti di fame e quindi di quelli che non hanno voglia di lavorare, è considerato un sovversivo, un sobillatore e peggio ancora ispirato dal diavolo e per questo odiato e, come si direbbe oggi, perseguito da una campagna diffamatoria e persecutoria. Al giornalista-avvocato non rimarrà che imbarcarsi per gli Stati Uniti dove continuerà la sua missione di solidarietà e umanitarismo.

Situazioni, dialoghi, descrizioni e  nefandezze  sono da Camilleri trattati con la sua solita irriverente ironia passando con disinvoltura dal grottesco al surreale al giallo senza soluzione di continuità. Galleggia, su un fondo melmoso, un’umanità orrendamente vera e deformante che ricorda scene pittoriche dalla selvaggia violenza espressiva e dai colori stesi in tonalità nette; rimanda a tutta una tradizione letteraria che affonda le sue radici nella novellistica e attraversa il socialismo umanitario fino alla denunzia sociale di inchieste giornalistiche rigorose ed attendibili.

Un sottile filo di fatalismo scorre su tutto il tessuto narrativo e mentre lo sguardo del narratore traduce miseria e bieca ottusità,  si piega all’incomprensibile logica divina.   

Su tutto campeggia l’arte tutta italiana del rovesciamento delle posizioni, il perseguitato diventa il persecutore, l’innocente  il colpevole, la giustizia è strapotere e violenza della sfera privata.

Camilleri nel suo longevo percorso artistico ci dà un ulteriore esercizio d’intelligenza il cui approdo finale  è sempre una scrittura arguta e allusiva, ricca di sfumature e  suggestioni.       

Andrea Camilleri (1925), è autore di oltre 60 romanzi tra storici, civili e polizieschi, e di diverse raccolte di racconti, tradotti in più di 30 lingue. Vincitore di numerosi premi in Italia e all’estero, è noto al grande pubblico anche per i romanzi dedicati alle inchieste del commissario Montalbano, della casa editrice Sellerio, da cui è stata tratta la fortunata serie televisiva. Tra i tanti titoli ricordiamo: “La forma dell’acqua”, “Il cane di terracotta”, “Il ladro di merendine”, “La voce del violino”, “La stagione della caccia”, “Il birraio di Preston”, “La concessione del telefono”, “La gita a Tindari”, “Maruzza Musumeci”, “Il casellante”, “Il campo del vasaio”, “L’età del dubbio”, “Un sabato, con gli amici” “Il sonaglio”  “ La caccia al tesoro”  “Il sorriso di Angelica”, “ Gran Circo Taddei” “Il gioco degli specchi”.
Arcangela Cammalleri

 

30/10/2011

Il seme sotto la neve di Ignazio Silone

Introduzione di Claudio Marabini
In copertina: Mario Sironi, Il pastore

Arnoldo Mondadori Editore

Narrativa romanzo
Collana Oscar scrittori moderni
 

Uno strumento di battaglia civile

“Non avevo mai pensato che una zolla di terra, osservata da presso, potesse essere una realtà così viva…La stranezza è giusta: sono nato qui, in campagna, e poi ho viaggiato mezza Europa, sono stato una volta, per un congresso, fino a Mosca; quanti campi, quanti prati ho dunque visto…; eppure non avevo mai visto, in quel modo la terra…Quale avvenimento emozionante fu per me un mattino la scoperta, in quella zolla di terra, d’un chicco di grano in germoglio.”

Il seme sotto la neve esce nel 1941 a Zurigo in lingua tedesca e il medesimo anno a Lugano in italiano, quando Ignazio Silone ha già raggiunto fama internazionale prima con Fontamara e poi con Pane e vino. Come in quest’ultimo romanzo il protagonista principale è l’esule antifascista Pietro Spina, che può essere considerato, a buona ragione, l’erede di Berardo Viola, il personaggio principale di Fontamara. Silone realizza così una trilogia, affascinante, di alto valore letterario e storico, su un tema, per niente facile, e che è rappresentato dalla condizione sociale in epoca fascista, anche se in questo si innestano altri filoni, che vanno dall’analisi attenta dell’arretratezza economica alla ricerca di un senso della vita, al di sopra di qualsiasi ideologia politica.
Le esperienze che l’autore aveva avuto, i contrasti insanabili, dapprima con i membri del Partito Comunista e poi con la sua stessa coscienza, avevano fatto maturare una visione realistica della situazione con uno sbocco di altissimo valore cristiano, una soluzione proposta non per un determinato periodo, ma per il futuro dell’esistenza umana, con il ricorso alla gratuità in contrapposizione alle leggi fameliche e distruttrici di un’economia di mercato.
Se Vino e pane è un romanzo dalla struttura armoniosa che trasmette, senza impedimenti, un flusso continuo di emozioni, lo stesso non si può dire per Il seme sotto la neve, a tratti eccessivamente elaborato, a volte grevemente statico, altre ancora invece arioso, quasi etereo e in questi casi entusiasmante.
C’è da dire, però, che la condizione dell’autore, nei suoi contrasti con la realtà dell’ideologia in cui così tanto aveva creduto, unita all’assenza, forzata, dal proprio paese, alimentano un desiderio maniacale di rappresentare un mondo soffocato da una coperta di silenzi, di omertà, di timori, di sostanziale amoralità; si tratta di un compito di per sé estremamente difficile e che lascia tracce nell’ambito strutturale, che si presenta altalenante, con una parte intermedia lunga e sovente pesante, quasi da scrittore russo dell’ottocento, ma con le pagine iniziali e finali che riscattano ampiamente il disagio, peraltro modesto, che si incontra appunto nella lettura  della parte centrale.
Tuttavia, è necessario evidenziare come le lunghe pagine in cui si parla dei salotti dei gerarchi, dei loro discorsi di eloquenza senza costrutto, ma dove anche si intrallazza, sono, oltre che indispensabili, anche altamente illuminanti di un' epoca di abulia e di sciocco servilismo che ricorda, non poco, i nostri giorni.
Lì ci sono assenze di anime, pavoneggiamenti da infanti viziati, crudeltà, quella crudeltà propria del mediocre che ricopre un ruolo superiore senza averne il merito, né l’umiltà. La vacuità è la norma, come gli sgambetti, come la conduzione di una vita ben lontana da qualsiasi convincimento di solidarietà, di unione, di partecipazione per uno scopo comune, se non, e solo a volte, per un affare dai contorni ben poco puliti. Questa nuova società assume così le caratteristiche di una vera e propria cricca, servile, forte con i deboli, sottomessa con i forti.
Ne deriva un clima pesante, di sospetti, di delazioni, di paure, di astrazione da una realtà troppo opprimente, in cui, chi non è parte degli ingranaggi, finisce con il vegetare.
Ma come sotto la neve germoglia il seme del grano, sotto questa coltre soffocante c’è ancora chi anella alla libertà e alla giustizia, come Pietro Spina,  e vi sono anche altri germogli dormienti, ma che, se stimolati, possono crescere, come Simone la faina e il sordo Infante, e altri ancora. Basta camminare per queste terre di miseria, per queste montagne brulle e quasi inospitali - ma accorato e tenero è l’amore per la propria terra così lontana – per trovare altri che hanno una dignità, per dare loro una speranza, e in questo Pietro Spina, sceso fra loro, resosi umile fra gli umili, è un maestro, anzi verrebbe voglia di dire che è il Messia.
Apprenderà e insegnerà il significato autentico della parola libertà, si donerà agli altri per ricevere quel poco, ma che è invero tanto, che gli daranno, e infine, in un convinto altruismo, rinuncerà alla libertà del proprio corpo, per essere definitivamente libero, un gesto non fine a se stesso, ma che tanto ricorda il sacrificio di Gesù Cristo per la salvezza degli uomini. 
Il seme sotto la neve, pur con i limiti che ho sopra evidenziato, è talmente bello e profondo da poterlo considerare un altro capolavoro di questo grande scrittore abruzzese.

Ignazio Silone nasce a Pescina (Aq) il 1° Maggio 1900 e muore a in Svizzera a Ginevra il 22 agosto del 1978.
Ha scritto i romanzi Fontamara (1930), Pane e vino (1936), Il seme sotto la neve (1941),  Una manciata di more (1952), Il segreto di Luca (1956), La volpe e le camelie (1960),  L’avventura di un povero cristiano (1968); Severina (1981); nella sua produzione non mancano inoltre i saggi, come Il Fascismo. Origini e sviluppo (1934), La scuola dei dittatori (1938), Uscita di sicurezza (1965).
Renzo Montagnoli

 

22/10/2011

Harvey di Mary Chase

Traduzione di Sergio Jacquier
Illustrazioni di Simone Pieralli

Tre Editori
www.treditori.com

Narrativa commedia 

L’amico invisibile

Vi ricordate quel film del 1950 interpretato da un James Stewart strepitoso nella parte di uno zio affabile, ma alquanto strampalato, tanto da ripetere di avere come amico un grosso coniglio bianco, purtroppo visibile solo a lui?
All’epoca la pellicola, di programmazione natalizia, ebbe un grande successo, lo stesso che si riscontrò quando fu trasmessa in televisione, perché la bravura degli interpreti, in particolare quella del lungo attore americano, e la trama accattivante, divertente e leggera quanto basta, assicuravano un ampio gradimento sia fra i bambini, che fra gli spettatori adulti.
Questo film è tratto da una commedia di May Chase, scrittrice americana, talentuosa al punto di vincere  nel 1945 il premio Pulitzer. Ora questo testo, che mantiene inalterate le qualità della pellicola, è stato pubblicato da Tre Editori ed è adatto a quei lettori che amano trascorrere qualche ora di serenità in un mondo sì di favola, ma che poi rispecchia la condizione di molti, costretti da una realtà spesso monotona, oppure anche asfissiante, a ricercare una temporanea alternativa, estraendo dal proprio “io” non tanto un grosso coniglio bianco, ma quel fanciullino, così ben descritto dal Pascoli, che in un sogno incantato allenta la tensione e in fin dei conti aiuta ad affrontare la vita con uno spirito meno rinunciatario e più positivo.
Poiché si tratta di una commedia e non di un romanzo, i dialoghi predominano, ma non dovete temere che facciano risultare greve e affaticante la lettura, perché c’è una levità nella mano di Mary Chase che riesce a conquistare, a rendere partecipi delle scene, come se non esistesse un palcoscenico che tiene separati gli attori dagli spettatori, spettatori che finiscono con l’essere invisibilmente presenti come il coniglio, prendendo ovviamente le parti del protagonista, in una sorta di identificazione di cui non si potrà che essere soddisfatti.
Soprattutto se lo si legge ad alta voce, con i bimbi a fianco, non potrete che convenire che il divertimento aumenta, perché a quel pubblico infante finirete con il sembrare Harvey e diventare per qualche ora un grosso coniglio bianco, e ciò è l’antidoto migliore a quella malinconia di fondo che tutti ci portiamo dentro,  a quella consapevolezza di esistere a tempo e che solo la fantasia può lenire.
Per quanto ovvio, la lettura è sicuramente consigliabile.

Mary Chase nacque a Denver, Colorado, nel 1907 e fu giornalista, commediografa e autrice di libri per bambini. Il suo maggior successo è Harvey, per il quale vinse il Premio Pulitzer. Morì nel 1981 all’età di 74 anni.
Renzo Montagnoli

 

20/10/2011

Storia di una capinera di Giovanni Verga
a cura di Sergio Campailla

Newton Compton Editori
www.newtoncompton.com

Narrativa romanzo
Collana Grandi Tascabili Economici 

Il romanticismo di Verga

Questo breve romanzo in forma epistolare fu scritto da Giovanni Verga nell’estate del 1869, durante un suo soggiorno a Firenze, e fu pubblicato nel 1871 sulla rivista “La ricamatrice” e quasi contemporaneamente in volume, incontrando subito un notevole successo di pubblico. Al riguardo, si consideri che in circa venti anni ne furono vendute 20.000 copie, entità modesta se raffrontata agli esiti dei moderni best seller, ma notevole ove si tenga presente che la popolazione italiana, assai inferiore numericamente all’attuale, era inoltre largamente analfabetizzata, limitando così di fatto la dimensione dei potenziali lettori.
Il romanzo è in parte autobiografico e prende spunto da una vicenda realmente accaduta al Verga in età giovanile, il che comprova la partecipazione emotiva presente nell’opera, non solo spiegabile con l’intenso romanticismo di cui è pervasa. Non ci è dato di sapere se, oltre all’epidemia di colera che costrinse la famiglia e lo scrittore a rifugiarsi a Tebidi e all’infatuazione di lui quindicenne per Rosalia, educanda del monastero di San Sebastiano di Vizzini, altri elementi della trama siano realmente accaduti, circostanza di cui tuttavia dubito, mentre invece non è improbabile che la delusione amorosa possa aver non poco contribuito alla creazione di quest’opera, uno sfogo insomma, in cui le intense passioni traboccano e cozzano contro consuetudini alle quali, soprattutto la protagonista, non è in grado o non vuole ribellarsi.
Siamo ancora assai lontani dal Verga più maturo, da quello di maestro nel verismo, eppure già si notano caratteristiche che resteranno inalterate, come la compassione per gli sventurati, con l’acquiescenza tuttavia a un ordine costituito immutabile, sicché le condizioni di vita, e le vite stesse, restano rinchiuse irreparabilmente nei confini e nei limiti della propria classe.  
Pur tuttavia, la narrazione, benchè in forma epistolare, è snella e accattivante, e poi non c’è cuore che possa resistere alla vicenda di Maria, novizia non per vocazione, ma per imposizione, e se poi a ciò aggiungiamo l’amore che essa reclama e che provocherà ancor di più la volontà di recluderla in convento, è evidente che si toccano corde intime, più che tocchi stilettate, che finiscono per coinvolgerci oltre misura. E quanto più ardente è la passione, quanto più assoluta è la disperazione per l’impossibilità di coronare un legittimo desiderio, tanto più finiamo con l’essere partecipi, avversando la perfida matrigna e impietosendoci per la povera fanciulla.
Sono esternazioni di sentimenti portate all’eccesso, quei grandi amori e quelle profonde delusioni tanto care al romanticismo, ma che fanno presa indubbiamente, visto che ancor oggi il romanzo è largamente apprezzato.
Fra l’altro, dallo stesso, è stato tratto un film per la regia di Zeffirelli che, anche per sua natura, ha accentuato impeti e struggimenti, con notevole consenso da parte degli spettatori.
Del resto, io stesso, se dovessi valutarlo per il pathos che mi crea, dovrei definirlo un capolavoro, ma se guardo con tono più distaccato concludo che sicuramente non lo è, pur restando un buon romanzo, la cui lettura è indubbiamente consigliabile.

Giovanni Verga nacque nel 1840 a Catania, dove trascorse la giovinezza. Nel 1865 fu a Firenze e successivamente a Milano, dove venne a contatto con gli ambienti letterari del tardo Romanticismo. Il ritorno in Sicilia e l’incontro con la dura realtà meridionale indirizzarono dal 1875 la sua produzione più matura all’analisi oggettiva e alla resa narrativa di tale realtà. Morì a Catania nel 1922. Di Verga la Newton Compton ha pubblicato I Malavoglia, Mastro-don Gesualdo, Storia di una capinera e Tutti i romanzi, le novelle e il teatro.
Renzo Montagnoli

 

13/10/2011

La Sicilia, il suo cuore – Favole della dittatura

di Leonardo Sciascia

Adelphi Edizioni
www.adelphi.it

Poesia, narrativa

I primi scritti di Sciascia

Leonardo Sciascia è un autore che apprezzo in modo particolare e ho già letto molte delle sue opere, ma non tutte, e così piano piano vado alla ricerca di quelle che mi mancano, e non nascondo che riesco a trovare delle gradite sorprese. Sì, perché se è vero che già conosco i suoi lavori più famosi, è altrettanto vero che in quelli minori mi imbatto, con regolarità, in autentici gioielli, un po’ trascurati oggi proprio perché si tende ad accostare il nome di Sciascia a romanzi di grande impatto, come Il giorno della civetta, Todo modo, Il contesto, per non parlare poi della saggistica di tutto rilievo rappresentata da La scomparsa di Majorana e da L’affaire Moro.
Proprio in questi giorni ho avuto per le mani due opere, riunite in un unico volume dalla casa editrice Adeplhi che pubblica la quasi totalità della produzione dell’autore agrigentino. Si tratta di due lavori giovanili Favole della dittatura e La Sicilia, il suo cuore, usciti rispettivamente nel 1950 e e nel 1952, opere che, benché assai lontane qualitativamente da Il giorno civetta, che è del 1961, tuttavia evidenziano, per stile, originalità e anche contenuto le grandi capacità espressive di Sciascia, che si sarebbero poi rivelate solo in seguito già con Le parrocchie di Regalpetra.
La Sicilia, il suo cuore è una breve raccolta poetica, che prende il nome da una delle liriche che la compongono. E’ opportuno dire che si tratta dell’unica esperienza in versi dell’autore siciliano, senz’altro più incline alla narrativa, e benchè non ci siano aspettative particolari al riguardo, si tratta comunque di un lavoro positivo, anche se non eccelso, una visione metafisica che è ancor più accentuata nelle Favole della dittatura, brevi brani di prosa, in cui prevale l’allegoria che denuncia le storture e gli orrori del regime fascista.
Anche per una questione temporale, parlerei prima di queste ultime, in sembianza di favole, e in cui gli animali, sempre contrapposti (il lupo con l’agnello, il gatto con il canarino, ma vi è anche l’uomo con il topo o con l’asino) evidenziano netta la divisione fra vittime e carnefici, fa dominati e dominatori.
Sovente sono di una brevità quasi disarmante, ma intrise d’ironia, quell’ironia che caratterizzerà sempre i lavori di Sciascia, come in questa “Pieno di guidaleschi e di acciacchi, il vecchio cavallo non si avvicinava alla mangiatoia se non quando il mulo se ne allontanava. E il mulo pensava: - Sì, la tua razza è pura; ma il fieno che mangi è quello che io ti lascio.”.  
Questi raccontini destarono peraltro l’interesse di Pier Paolo Pasolini, che al riguardo scrisse un saggio, dal titolo Dittatura in fiaba, apparso il 9 marzo 1951 su La Libertà d’Italia e che molto opportunamente l’editore Adelphi ha riportato in calce al volume. Sono poche pagine, ma che meritano di essere lette, perché sono illuminanti delle grandi capacità critiche dello scrittore e regista, che riconosce a Sciascia quelle qualità che poi emergeranno in modo più evidente nelle opere successive.
Un interesse particolare, almeno per me che mi diletto di poesia, è rappresentata dalla breve raccolta La Sicilia, il suo cuore.
Tengo subito a precisare che non ci troviamo davanti a un nume sacro, a un poeta di notevole rilievo, ma questi versi, tuttavia, hanno una loro grazia, una loro levità che sono indubbiamente apprezzabili, un caleidoscopio di immagini, un approccio con la metafisica, che stupisce in un autore razionale fino all’osso, coerente nel suo intransigente pragmatismo, un analista del concreto che anche nelle ipotesi non si svincola dalla tangibilità dei fatti, e che scava senza lasciarsi andare a voli pindarici, ma in prospettiva di una continua ricerca della verità, o meglio ancora delle verità.
Eppure, queste poesie, a verso libero, hanno slanci di fantasia, che partendo dall’immagine ne trascende l’esteriorità per tentare di andare oltre, in quello spazio senza confini e senza tempo in cui si può correre svincolati dal peso della realtà terrena.
Che si tratti della poesia che dà il titolo alla raccolta, cioè La Sicilia, il suo cuore, o che invece  ci si avventuri nella descrizione di uno stato d’animo stagionale (Un velo d’acque), non si può che convenire che forse Sciascia avrebbe potuto, solo che avesse voluto, dire la sua anche in poesia.
(Da La Sicilia, il suo cuore: Come Chagall, vorrei cogliere questa terra dentro l’immobile occhio del bue.). Un verso, semplice e illuminante, in cui c’è la contrapposizione fra il dinamismo di Chagall e la staticità dell’occhio bovino, assimilabile a quella dell’isola stessa.
Per contro, in Un velo d’acque ( Un velo d’acque trepido di sbocci /smemora ora la terra. /….) prorompe una visione quasi onirica nel passaggio dall’inverno alla primavera, ma il tutto non è fine a se stesso, cioè non è un mero esercizio di stile, ma preconfigura quello che poi alla fine sarà lo stato d’animo del poeta.
Concludo dicendo che la lettura di questo libro non solo è sempre gradevole, ma porta a soffermarsi, a riflettere, a pensare, ed è per questo che l’opera non è minore; c’è uno Sciascia in embrione, sprazzi di ciò che sarà, ma bastano questi per giustificare  l’acquisto di questo volumetto, dal costo modesto, ma dai grandi contenuti.

Leonardo Sciascia (Racalmuto, 8 gennaio 1921 – Palermo, 20 novembre 1989). E’ stato autore di saggi e romanzi, fra cui: Le parrocchie di Regalpietra (Laterza, 1956),  Il giorno della civetta (Einaudi, 1961), Il consiglio d’Egitto (Einaudi, 1963), A ciascuno il suo (Einaudi, 1966), Il contesto (Einaudi, 1971), Atti relativi alla morte di Raymond Roussel (Esse Editrice, 1971), Todo modo (Einaudi, 1974), La scomparsa di Majorana (Einaudi, 1975), I pugnalatori (Einaudi, 1976), Candido, ovvero Un sogno fatto in Sicilia (Einaudi, 1977), L’affaire Moro (Sellerio, 1978), Il teatro della memoria (Einaudi, 1981), La sentenza memorabile (Sellerio, 1982),  Il cavaliere e la morte (Adelphi, 1988), Una storia semplice (Adelphi, 1989).
Renzo Montagnoli

 

8/10/2011

Cuore di pietra di Sebastiano Vassalli

Edizioni Einaudi

Narrativa romanzo
Collana ET Scrittori

La vita di una casa dall’Unità d’Italia

“Gli uomini continuavano a nascere e morire, come dappertutto, e come dappertutto impiegavano la maggior parte del tempo che intercorre tra le due date fondamentali e forse uniche della loro esistenza, per trafficare tra di loro e per infastidirsi a vicenda; ma questa attività è assolutamente normale, in ogni epoca, e non ha mai fatto notizia”.

Di Sebastiano Vassalli ho già letto La chimera e Le due chiese, splendidi romanzi in cui l’autore a suo modo ripercorre la storia con l’occhio attento a un microcosmo, come a voler dire che i fatti eclatanti, gli avvenimenti, i personaggi di primo piano di determinati periodi sono il frutto esclusivo dei tempi e delle genti che vivono in quell’epoca. Ma su ogni cosa appare evidente che questi piccoli esseri fragili che si agitano, gli uomini, sono appena un soffio di vita che come si leva si spegne. Per gli uomini esiste il tempo, per gli dei no, che anzi si divertono a osservarci nei nostri inutili tentativi di dare scacco proprio a quel tempo che scorre inesorabilmente e che dimostra, una volta per tutte, che per noi non c’è speranza.  Anche in Cuore di pietra è presente, forse in modo più marcato, questo pessimismo esistenziale, ma non incide sulla piacevolezza della lettura di un’opera che alcuni considerano minore nella produzione di Vassalli, ma che, secondo la mia opinione, è invece una delle migliori.
Il ritratto storico del nostro paese dall’unità fino quasi ai giorni nostri, per quanto affastellato di personaggi e di vicende, è quanto di meglio abbia letto sull’argomento in questi ultimi anni e il tutto parte da un punto fisso, da una cosa inanimata, quale è una casa, un palazzo signorile, eretto in una città della pianura, che non è difficile identificare in Novara, località di residenza dell’autore.
In questa abitazione si succedono proprietari e inquilini, appunto dall’unità d’italia fino quasi ai giorni nostri; è un palazzo gentilizio e come certa nobiltà con il tempo va decadendo e piano piano giunge a un limite di estremo degrado, tanto che si ha la sensazione che da un momento all’altro possa crollare, e invece è ancora lì, gli intonaci disfatti, il tetto che lascia passare acqua, gli infissi pressoché distrutti. Anche la casa, così ben descritta, ha un legame ben preciso con lo scrittore, perché si tratta di Villa Bossi, in cui ha vissuto a lungo, ora purtroppo mal ridotta, decrepita, ma che muove a tenerezza in chi lì ha maturato un periodo di esistenza, in un gioco della memoria che si intreccia con la Storia. Ed è appunto la Storia la vera protagonista, la Storia che non sconfigge il tempo, ma attrae nel ricordo i fatti, riporta l’eterna disfatta degli uomini nella loro illusoria lotta con il tempo, in cui le idee, gli sforzi, le passioni sono la rappresentazione di un’opera allestita sul palcoscenico della vita, per vincere la morte, inutile battaglia perché la commedia, pur variando i personaggi e le scene, ha sempre quella inevitabile conclusione. Il pessimismo, quindi, regna sovrano e viene spontaneo associarlo, soprattutto come fonte dello stesso, a quello leopardiano. E’ giusto, però, tener presente che non ci troviamo di fronte a un romanzo deprimente, perché è presente in Vassalli un’autoironia che snellisce il racconto, lo rende più facilmente assimilabile, quasi nascondendo quella malinconia di fondo che invece lo sorregge e lo anima. Ci si accorge di ciò lentamente, pagina dopo pagina, con indotte riflessioni sui numerosi protagonisti, fuochi fatui che si perdono nel turbine del tempo e che solo la parola scritta di un grande autore riesce a far uscire dal buio in cui sono precipitati.
Ma il romanzo ha anche un altro valore, per nulla indifferente, perché Vassalli ha saputo raccontare il Novecento con una straordinaria levità e con saggezza, così che alla fine del libro ci si accorge che ha scritto di noi italiani, di come eravamo, di come abbiamo percorso gli anni di questa nazione ancora giovane e di come siamo diventati, un autentico gioiello per comprendere l’attuale situazione, perché nella storia nulla appare d’improvviso, tutto ha un’origine, ogni cosa ha un suo motivo.
Cuore di pietra è un romanzo di grande bellezza e pertanto la lettura è senz’altro raccomandabile. 

Sebastiano Vassalli è nato a Genova e vive in provincia di Novara. Presso Einaudi, dopo le prime prove sperimentali, ha pubblicato La notte della cometa, Sangue e suolo, L'alcova elettrica, L'oro del mondo, La chimera, Marco e Mattio, Il Cigno, 3012, Cuore di pietra, Un infinito numero, Archeologia del presente, Dux, Stella avvelenata, Amore lontano, La morte di Marx e altri racconti, L'Italiano, Dio il Diavolo e la Mosca nel grande caldo dei prossimi mille anni e Le due chiese.
Renzo Montagnoli

 

28/9/2011

Vino e pane di Ignazio Silone

Mondadori Editore
Narrativa romanzo
Collana Oscar classici moderni 

La ricerca della libertà

“Arriva sempre un’età in cui i giovani trovano insipido il pane e il vino della propria casa. Essi cercano altrove il loro nutrimento. Il pane e il vino delle osterie che si trovano nei crocicchi delle grandi strade possono solo calmare la loro fame e la loro sete. Ma l’uomo non può vivere tutta la sua vita nelle osterie.”

A volte è strano il destino riservato ad alcuni uomini, il cui intrinseco valore, pur ragguardevole, viene volutamente ignorato, e non perché opinabile, ma in quanto antitetico a una linea politica che contempla solo l’accettazione, senza se e senza ma, in un soffocamento dello spirito critico che inevitabilmente porta alla disgregazione delle ideologie.
E’ questo il caso di Ignazio Silone, acclamato all’estero e ignorato in patria, prima per la sua natura di antifascista e poi per quella di disilluso del comunismo come realizzato nell’allora Unione Sovietica. Ci vorranno anni, nel dopoguerra, perché gli intelletuali allineati, spesso per comodo, riconoscano allo scrittore abruzzese quelle indubbie qualità già ravvisate da altri, più indipendenti, meno parziali, come Thomas Mann, Heinrich Boll, Albert Camus, Indro Montanelli, e solo per citarne alcuni.
Quest’uomo, alla perenne ricerca della verità e della libertà, che aveva visto nel marxismo la possibilità di realizzazione del messaggio cristiano, fra i fondatori a suo tempo del partito comunista italiano, esule quale antifascista, ebbe il difetto di contestare il dogmatismo sovietico, che arrivava perfino all’eliminazione fisica dei non allineati. Per Silone il rapporto fra gli uomini deve essere paritario, deve estrinsecarsi in un confonto di idee senza preconcetti, con uno spirito critico costruttivo. E’ evidente come un simile pensiero non potesse che scontrarsi con una linea politica assolutistica, basata solo sull’unanimità imposta dei consensi. Ma anche il cristiano Silone non poteva trovarsi in una chiesa troppo lontana dallo spirito evangelico, burocratizzata e pur essa assolutista. E quindi non è un caso se di sé ebbe a dire sia “sono un socialista senza partito” che “un cristiano senza chiesa”.
Esule in Svizzera, già famoso per Fontamara, Silone volle fornire la sua versione dell’esperienza comunista, della sua espulsione dal partito con un romanzo sì di invenzione, ma in cui il personaggio principale, Pietro Spina, attraversa, alla vigilia della guerra d’Etiopia, le dolorose tappe dell’emarginazione, sia quella ufficiale in quanto antifascista, sia quella clandestina, come portatore di idee critiche a quelle predominanti del partito comunista.
Sebbene i protagonisti siano molteplici su tutti ne aleggia uno solo, invisibile, ma pregnante: la rassegnazione, quella stessa rassegnazione che si incontra in Fontamara e che porta i cafoni, per un attimo risvegliati dal topore, per precipitarvi nuovamente, a porsi una domanda, la cui risposta sembra lontanissima a venire: che fare?
In questo contesto Pietro Spina, per quanto espulso dal partito, braccato dalla polizia fascista, non demorde; in lui c’è qualche cosa più di un’idea politica, esiste invece e prende sempre più corpo la vocazione di dare, anche se stesso, per il bene degli altri, un bene comune senza essere comunista pur condividendo alcuni principi del marxismo, una società più egualitaria ove tutti possano avere, dando, nella piena libertà di critica che non esclude la solidarietà, anzi la rafforza. Un pensiero cristiano, si direbbe, e in effetti è così, ma lontano dal rigido rigore di una Chiesa che strada facendo sembra aver perso gli insegnamenti di un uomo che, nell’umiltà, ha lasciato una scia di speranza per un mondo migliore.
Non c’è pero un arroccamento su posizioni del passato, nessuno è tanto giovane da non essere abbastanza vecchio per avvertire in se stesso che ogni cambiamento è possibile nel rispetto del pensiero del Cristo. In tal senso  l’autore, dopo l’edizione del 1936 intitolata Pane e vino, negli anni del dopoguerra pose nuovamente mano alla sua opera smussandola, modificandola in quel tanto che gli sembrava indispensabile senza tuttavia tradire il tema e lo spirito originario, ed è così che nel 1955 esce Vino e pane.
In questo romanzo, oltre a un Pietro Spina, per necessità travestito da prete, troviamo tanti altri personaggi indimenticabili, come Don Benedetto, il sacerdote che porta avanti il discorso cristiano al di fuori dei rigidi canoni della chiesa, come Bianchina, una fanciulla del tutto spontanea che in cuor suo è innamorata di quell’uomo che, nelle vesti talari, la ridona alla vita, senza  dimenticare la figura sublime di Murica, traditore suo malgrado, e, soprattutto, un sogno in carne ed ossa, ma talmente lieve da svanire come sboccia, rappresentato da Cristina, profondamente religiosa, quasi mistica, l’unica del tutto in sintonia con Pietro che segretamente ama.
La scrittura è scorrevole, sebbene ricercata, e straordinaria è la capacità di descrivere con poche parole paesaggi e di ricreare atmosfere.
Scorrono così davanti agli occhi i poveri paesi della Marsica, i cafoni inebetiti dalla fatica, smarriti nell’assenza di speranza, una serie di immagini che stringono il cuore, a volte crude, quasi violente, altre lievi, altre ancora, come la veglia funebre in casa del padre di Murica, dai toni semplicemente sublimi.
E su questo triste episodio della perdita dell’unico figlio desidero soffermarmi, riportando di seguito uno stralcio, perché la scena richiama assai l’ultima cena di Gesù Cristo: “Il vecchio Murica in piedi, a capo del tavolo, dava da bere e da mangiare agli uomini attorniati. << E’ lui >> egli disse << che mi ha aiutato a seminare, a sarchiare, a mietere, a trebbiare, a macinare il grano di cui è fatto questo pane. Prendete e mangiate, questo è il suo pane.>> Altri arrivarono. Il padre versò da bere e disse: << E’ lui che mi ha aiutato a potare, insolfare, sarchiare, vendemmiare la vigna dalla quale viene questo vino. Bevete, quest’è il suo vino.>>”
Vino e pane è uno di quei romanzi che avvince poco a poco, ma che entra, scava, suscita emozioni e commozioni, fa sciogliere in lacrime una volta terminato.
E se vogliamo definirlo capolavoro, facciamolo pure, senza esitazioni, perché in effetti questo libro è di una bellezza straordinaria, per certi versi superiore addirittura a Fontamara.

Secondino Tranquilli (questo era il vero nome di Ignazio Silone) nasce a Pescina (Aq) il 1° Maggio 1900 e muore a in Svizzera a Ginevra il 22 agosto del 1978.
Ha scritto i romanzi Fontamara (1930,) Un viaggio a Parigi (1934), Pane e vino (1936), Una manciata di more (1952), Il segreto di Luca (1956), L’avventura di un povero cristiano (1968); nella sua produzione non mancano inoltre i saggi, come Il Fascismo. Origini e sviluppo (1934), La scuola dei dittatori (1938), Uscita di sicurezza (1965).
Renzo Montagnoli

 

23/9/2011

Il gioco degli specchi di Andrea Camilleri

Sellerio editore Palermo

Genere noir

"Il gioco degli specchi" è un gioco psicologico e logico che moltiplica e disorienta la percezione investigativa del commissario Montalbano.

Il commissario Montalbano alle prese con un’indagine poliziesca particolare, connotata da situazioni strane, non facilmente leggibili. Un gioco di rimandi, di apparenze che sfiorano il reale e del reale che sconfina nella finzione, appunto un gioco degli specchi come il titolo del libro che disorienta e moltiplica le risposte plausibili. La location della storia è un villino a Marinella, proprio vicino a quello del nostro Salvo, il centro gravitazionale da dove s’irradiano tutte le situazioni; inoltre due bombe inesplose, una storia d’amore misteriosa, in un certo senso ostacolata e irrealizzabile, due cadaveri orrendamente uccisi e altro sono gli ingredienti della trama. Ma la peculiarità dello script è in questi giochi illusori che fanno apparire ciò che vero non è e non vero ciò che veramente lo è, ma alla fine, Montalbano rimette a posto ad uno ad uno tutti i tasselli dell’intricata vicenda. Quest’ultimo romanzo di Camilleri sembra simile agli altri noir, almeno nell’intima essenza delle storie, nei personaggi che rappresentano i caratteri umani, nelle atmosfere spesso cupe nella loro apparente leggerezza, ma in realtà è l’acume investigativo del commissario che fa la differenza. Montalbano stenta a trovare la matassa che imbroglia l’ordito della storia, fa fatica a seguire ed inseguire il male che avviluppa e sconvolge le vite delle persone, una stanchezza di fondo esautora le sue risorse di segugio poliziesco, ha i suoi tempi di riflessione e…quando sembra tutto non quadrare, illuminanti intuizioni scardinano ogni ombra ed incertezza. Camilleri è un manipolatore narrativo, crea nel lettore un’attesa sospesa e una curiosità che non l’abbandona mai. L’arrovellarsi dei pensieri di Montalbano sono come tante scatole cinesi che si manifestano e poi chiariscono ogni dubbio, è un concerto di assiomi e relazioni in una sorta di aforisma hegeliano “Ciò che è razionale è reale, e ciò che è reale è razionale”. Un Montalbano smarrito, a tratti, ma anche sempre più riflessivo e ripiegato in sé alla ricerca di dare un senso alle cose che forse non sempre lo hanno? Lo scrittore ha ormai raggiunto l’eccellenza (per gli estimatori, che non sono pochi) e può anche concedersi di narrare storie dalle tematiche, apparentemente, usuali (il traffico di droga), ma in lui è vigile una creatività soggettiva, la sua forza propulsiva che riflette un dialogo a tu per tu con i grandi della letteratura. Le atmosfere estenuate, l’ironia sottesa, lo scavo interiore delle coscienze prefiguranti ambiguità proprie dell’animo umano, ambientazioni emblematiche di determinati accadimenti e sovrana tra tutti la forma del linguaggio che trasforma la materia narrativa, sono le coordinate strategiche e vincenti della narrativa di Camilleri. Perché quando si legge e si commenta un libro di Camilleri, si legge e si commenta non solo quel dato libro, ma il percorso letterario dell’autore. “Il gioco degli specchi” contrassegna e delinea felicemente il territorio inventivo dello scrittore.

Andrea Camilleri (1925), è autore di oltre 60 romanzi tra storici, civili e polizieschi, e di diverse raccolte di racconti, tradotti in più di 30 lingue. Vincitore di numerosi premi in Italia e all’estero, è noto al grande pubblico anche per i romanzi dedicati alle inchieste del commissario Montalbano, della casa editrice Sellerio, da cui è stata tratta la fortunata serie televisiva. Tra i tanti titoli ricordiamo: “La forma dell’acqua”, “Il cane di terracotta”, “Il ladro di merendine”, “La voce del violino”, “La stagione della caccia”, “Il birraio di Preston”, “La concessione del telefono”, “La gita a Tindari”, “Maruzza Musumeci”, “Il casellante”, “Il campo del vasaio”, “L’età del dubbio”, “Un sabato, con gli amici” “Il sonaglio”  “ La caccia al tesoro”  “Il gioco di Angelica”, “ Gran Circo Taddei”…
Ha pubblicato per Skira La Vucciria, con un saggio di Fabio Carapezza Guttuso(2008), e in questa collana, Il cielo rubato. Dossier Renoir (2009)
Arcangela Cammalleri

 

21/9/2011

Quattrocento di Susana Fortes

Traduzione di Manuela Vallone
e Rosa C. Stoppani

RL Libri
Narrativa romanzo
Collana SuperPoket

Un pessimo romanzo

Quando mi è stato donato questo libro, il fatto che in copertina portasse la dicitura Bestseller mi ha un po’ indisposto, ma mi sono detto “ non avere preconcetti, perché qualche volta può accadere che questi libri, di grande successo, possono anche avere valenza letteraria”.
Di conseguenza mi sono accinto alla lettura con la più ampia disponibilità, ma, pagina dopo pagina, questa è scemata, sostituita da un senso di noia e di stizza che ancor oggi non sono riuscito a cancellare.
Eppure, scrivere della famosa congiura dei Pazzi, togliendo dall’ombra chi effettivamente ne era l’artefice, sarebbe stata un’occasione unica, imperdibile, e invece l’autrice ha voluto spingersi ben oltre, arrivando a conclusioni del tutto improbabili.
In effetti, non riuscivo a capire dalle prima pagine l’alternanza di due epoche, appunto il ‘400 e i giorni nostri, la prima trattata in modo abbastanza credibile, ma con poca fantasia, perché l’invenzione del pittore Pierpaolo Masoni e del suo quadro La Madonna della Neive, non aggiungono nulla e anzi tolgono quel po’ di veritiero e realistico rappresentato dalla congiura.
Poi, dalla seconda metà, ho compreso il perché dell’epoca attuale, con la storia melensa, anche questa del tutto improbabile, fra la giovane laureanda spagnola e il maturo professore italiano, una vicenda questa totalmente campata in aria, di nessuna valenza, e che anzi indispone.
Lo stile è alquanto carente, così come il ritmo è lento dove dovrebbe essere veloce e impetuoso dove occorrerebbe la riflessione, in un quadro complessivo in cui si stenta a riconoscere l’atmosfera della Firenze del ‘400 e dell’attuale, con personaggi appena abbozzati, perché insomma Jacopo de’ Pazzi e Lorenzo de’ Medici, più che i protagonisti, appaiono come semplici comparse.
In una noia crescente, quindi, si cerca di arrivare alla fine e in poche pagine c’è la connessione fra la congiura e i giorni nostri, con sette segrete della Chiesa cattolica, perpetuatesi nel tempo, e con agganci al Banco Ambrosiano, allo IOR, a Calvi, a Marcinkus, in un’orgia di illazioni supportate dal niente.
Ecco, Susana Fortes è evidentemente anticlericale, ma accusare la Chiesa cattolica inventando nefandezze, quando invece, purtroppo, esistono fatti incontrovertibili a cui agganciarsi, sembra il risultato di un improvvisato giornalista piuttosto che di uno storico, come invece la Fortes pretende di essere.
Un consiglio: non leggetelo, non ve ne pentirete di certo.

Susana Fortes (Pontevedra, 1959).
Laureata in Geografia e Storia all’Università di Santiago di Compostela e in Storia americana all’Università di Barcellona, è una giornalista e scrittrice spagnola.
Ha pubblicato i seguenti romanzi: Querido Corto Maltés (1994), Las cenizas de la Bounty (1998), Tiemos y traidores (1999), Fronteras de arena (2001),  Adiós muñeca  (2002), Gli amanti (2003),  El azar de Laura Ulloa (2006), Quattrocento (2007), Istantanea di un amore (2009).
Renzo Montagnoli

 

12/9/2011

Ombre inverse di Carla Conti

Un solo titolo (abbastanza fantasioso!) per l'intera raccolta che però, per una particolare esigenza dell'autrice, viene divisa in tre parti. Forse perché in ogni parte, le liriche seguono un iter diverso per uno specifico e personale volere della poetessa. Infatti, pur mantenendo uguale ritmo e uguale capacità d'espressione, Carla Conti le Ombre le rende realmente inverse e questa sua formula, fa si che le tre parti si diversifichino nell'esposizione delle tematiche, ma non nel contenuto.

Dotata di una buona dose di fantasia, resa volutamente un po' fuori da canoni poetici spesso ampiamente già sfruttati, questa poetessa usa un linguaggio tutto suo, diversificandosi così dal fare una poesia piatta, monotona e forse anche stucchevole, concentrando proprio tutta se stessa nella difficile cifra che sostiene simboli tenuti insieme da un sottile filo che lega pensieri e parole formanti una specie di manifesto che viene poi esposto – simbolicamente – sotto la luce poetica, affinchè la poesia possa risaltare al meglio, mettendo in primo piano l'impeccabile costellazione di tante idee ed il prisma stregato che alimenta il gioco delle Ombre inverse mutandolo poi in un arabesco colorato e sonoro, facendolo così divenire uno strumento che dà senso ad una poesia anch'essa diversa, con la sua musica che vibra, una musica che poi si distende in acute riflessioni, con strane rime scandagliate nell'intera composizione poetica.

Carla Conti usa le frasi ricercate con molta cura, perché possano dire esattamente ciò che ella vuole dire, un canto che ella non effettua in sordina ma che si espande e che qua e là, si tramuta quasi in uno scudo di difesa (anche se, in verità, potrebbe pure diventare arma d'attacco). Solitamente, le ipotetiche distanze che pare si creino tra la mente e l'anima di chi fa poesia, spesso sono inesistenti, perché esiste sempre una forma di difesa tra ciò che "sommuove" la mente del poeta e le sue parole vestite e adornate in misura di qualcosa di più alto, di più importante. E basta leggere con la dovuta attenzione, almeno alcune poesie: "Arpa eolia", "Ero forse io" ed in Ombre inverse, nel cui carosello d'immagini c'è tutto l'insieme di quanto la poetessa rivela di se stessa. Un tono diverso e più duro lo usa in "Vernissage". Qui sono racchiuse un'infinità di sensazioni umane, che dovrebbero essere valutate con molta partecipazione e comprensione, perché proprio in questi versi scarni ed incisivi, si cela la realtà di una vita. Ed in venature sotterranee, corrono le intime rivoluzioni segrete di un essere che vive, che ama, che soffre, che lotta e si rode di rabbia impotente, che non vuole soccombere alle sofferenze del mondo. Tra le nebbie di un panorama tanto complesso, come quello descritto nella lirica "Cimitero d'elefanti", ci si dovrebbe un po' soffermare, perché qui schiumano in superficie domande mute, perché si sa che non avranno risposta, perché un uomo e una donna, pur nella loro uguaglianza, riescono ad essere così diversi da rendere difficile un'alleanza fatta di comprensione, di sincerità, di mutuo soccorso.

Tutte le Ombre inverse della vita restano tali, perché a nessuno pare interessi andare alla ricerca di altre soluzioni. Carla Conti ci si è provata e l'ha fatto senza inutili giri di parole, quasi con crudezza. Ma basterà la voce poetica di una donna ad invertire la posizione delle Ombre, perché alla fine si possano scorgere lumi capaci di proiettare luce in giusta direzione?

a  cura di flavia lepre

La silloge poetica Ombre inverse di Carla Conti include liriche ideate e scritte tra il 2002 e il 2006, qui distribuite in tre sezioni: “Ombre inverse”, “Col cuore in gora”, “A coda dritta”. Colpiscono subito i titoli, di cui viene riscoperta l’importanza di questi tempi spesso trascurata, non solo delle sezioni cui si è appena accennato, ma anche delle singole poesie, in quanto anticipazione di parola arguta e di vivace intelligenza.

Non sempre la raccolta brilla per raffinatezza, però proprio per tale ragione essa fa maggiormente riflettere e consente all’autrice di raggiungere lo scopo prefisso. Sin dalle prime pagine emerge una predisposizione particolare della poetessa alla metamorfosi, che investe anche la sfera del  linguaggio prodotto: «Dimora in me | un’arpa eolia | A cagione di ciò | sono mobile | pur avendo | grosse radici»… «io rimango quieta | a vibrare più forte | amplificando | il suono stesso | dell’universo» (in “Arpa eolia”); «La mia Patria | è la conchiglia mobile | e la bufera di polline» (ne “La patria”).

Parallelamente emerge il tema della ricerca dell’identità, che induce a riflettere sulla società contemporanea: «Chi sei | tu che mi osservi | dall’anta specchiata | del bianco armadio || a stento ti riconosco | a stento posso guardarti || capelli che dovrebbero | star su da soli | tinti e ritinti | su un corpo in bikini blu | ebbro di sole || non era per questo | che mi separai da mia madre || non per questa maschera | oscena e possente || non per questo aspetto | da robusta gitana» (in “Orror vacui”).

Vi è un confronto costante (e un’immedesimazione) con il mondo animale: «Nascosta agli uomini | crebbi | inconsapevole | fra animali | fantastici»…«Non ho | l’abnegazione del cane | o l’indipendenza del gatto | né l’utilità | della gallina | o del coniglio» (in “Sottovento”). In particolare, in “Formiche” la poetessa ricorda: «Chinata per terra | guardavo andare | file di formiche | cariche di pane»…«Obbedendo | all’ordine arcano | piccole perle nere | in file ordinate || È arrivata mia figlia | e ridendo | ne ha schiacciate | a decine». E mentre si medita, ritornano alla mente le parole di C. Dossi: «Dicono delitto uccidere un uomo e non dicono uccidere una formica. Eppure l’anima è una – Inalzatevi, guardate l’uomo dall’alto, e vi parrà una formica. Che è dunque l’ucciderlo?» (nelle Note azzurre).

Stupendoci, l’inventiva di Carla Conti risulta capace di produrre versi del tipo: «posati gli stivali | il gatto rimase | nell’inferno | dei disabili» (nei “Cordiali saluti”).

Nelle poesie “La mangiatrice d’uomini” e “A coda dritta” viene descritto il modo diretto di vivere degli animali; nella prima leggiamo: «due verdi bisce d’acqua | si accoppiano | senza tanti complimenti»; nella seconda: «e io mi domando | a cosa serve sapere | con tal precisione | quando si debba perire»…«so già che devo sparire | come lo sa il mio gatto | e non se ne cura».

In una “Gran brutta razza” vengono inclusi i poeti, protagonisti di alcuni tra i versi più belli di Ombre inverse: «e il medico | che dice? || Dissociazione | doppia personalità | psicolabilità | Schizofrenia»…«qualcosa ha | qualcosa gli manca || Ma è incredibile | come si possa | andare nel bosco | di notte | e non accorgersi dei lupi || andare all’inferno | e non bruciarsi | andare in manicomio | e non impazzire | andare in carcere | ed essere così liberi | da acuire il senso di | oppressione | delle guardie | fino a che il capo-guardia | di nascosto | stacca una rosa dalle sbarre | e te la porge con un inchino».

Molte poesie sono dedicate all’incontro-scontro tra l’universo maschile e quello femminile; tra i versi più significativi: «Il segreto | ti abita | come | un cuore | pulsante || Il sorriso amaro | e la luce spenta | nelle tue mani | i miei seni»…«tu | con pochi | baci scardini | difese»…«mi piace | guardarti | mentre | dolorosamente | fai l’amore»…«infine | esausto | giaci | sudato | sul petto tenero | del tuo calvario» (dalla lirica “Dellafilosofiadellamore”); «Ho cercato | sul mio corpo | confuso | tracce di te»…«Ho scritto | il tuo nome | su un vecchio mattone | e l’ho guardato | con stupore || Ho parlato di te | e di me | bambini ritrovati | in fondo al pozzo | interi | intatti | fatti uno per l’altro»…«ma così distante da noi | è questo rifugio | lontano dagli uomini | e dalla vicinanza con Dio» (ne “La recherche”); «Forse | è il maschile | che emerge | dal fondo | dell’anima mia || Forse | il femminile | ti scuote | in amplesso»…«Seppure nato maschio | tu sei ed io femmina | l’animus è in me | e in te l’anima» (in “Giochi di ruolo”). Con Ovidio si potrebbe dire «Militat omnis amans, et habet sua castra Cupido» («Ogni amante è un soldato: anche Cupido ha i suoi accampamenti»).

Una poesia, quella di Carla Conti, capace di catturare e fissare l’attenzione del lettore all’improvviso, come una calamita, per poi catapultarlo in un vortice di immagini e suoni vivificati e vivificanti.

recensione a cura di
Claudia Manuela Turco

 

Stasera Anna dorme presto di Simona Lo Iacono

Cavallo di Ferro Editore
www.cavallodiferro.it

Narrativa romanzo
 

La solitudine dell’incomunicabilità

“La parola scritta mi ha insegnato ad ascoltare la voce umana, pressappoco come gli atteggiamenti maestosi e immoti delle statue mi hanno insegnato ad apprezzare i gesti degli uomini. Viceversa, con l’andar del tempo, la vita mi ha chiarito i libri.”

MARGUERITE YOURCENAR, Memorie di Adriano

Non è un caso se l’ultimo romanzo di Simona Lo Iacono inizia con questa citazione; le parole scritte, la loro intrinseca essenza, la capacità che hanno di nascondere o di svelare, il silenzio cupamente assordante della loro assenza o anche la verità più implacabile che possono portare era stato il fil rouge della sua opera d’esordio, Tu non dici parole, lavoro complesso, ma pure di grande effetto, tale da richiamare imperativamente l’attenzione del lettore in una serie di riflessioni che si trasfigurano in parole silenziose, a costruire interrogativi nella ricerca di risposte non sempre di comodo, quando non addirittura implacabili.
In Stasera Anna dorme presto il ricorso alla parola avviene attraverso un monologo interiore, una fusione di coscienze di quattro protagonisti i cui legami portano a un’unica storia.
In un certo senso ognuno è alla ricerca di una verità e da questo lavorio sortiranno altrettante verità, nel pieno rispetto del pensiero pirandelliano e ricorrente nelle tematiche di non pochi autori siciliani, i cui rapporti con il mondo passano inderogabilmente per una serie di possibili visioni e interpretazioni dello stesso.
Per la trama il romanzo sembrerebbe uno dei tanti di carattere sentimentale, con amori delusi, con passioni sopite e riaccese, ma non è proprio così, perché i personaggi, prima ancora di essere attori della vicenda, sono esseri autonomi, ognuno con una propria coscienza i cui flussi connotano l’esistenza e che finiscono con l’identificare tipologie ben precise nell’umanità.
Così il famoso avvocato Carlo ritrae la consapevolezza della fragilità di ogni esistenza e la sua amante, Elisa, combatte, come Don Chisciotte, contro le proprie costruite sconfitte; Anna, invece, ancorata a sogni lontani, vive un’esistenza in cui il presente e un passato onrico si sovrappongono, alternando realtà a irrealtà; Giovanni è invece la memoria di un sogno, l’occasione perduta, a cui aggrapparsi per sopravvivere.
E’ un ritratto crudo quello eseguito con mano ferma e ricercata da Simona Lo Iacono, una situazione sempre più frequente in cui l’incomunicabilità rende ogni essere carnefice e vittima di se stesso.
Nel libro non ci sono però finalità edificanti, c’è invece una constatazione di un male che svilisce la vita, osservato, descritto, sezionato implacabilmente, ma con una vena di pietà, perché nessuno ne è immune.
Stasera Anna dorme presto non ha forse il pathos che la vicenda stessa implicava in  Tu non dici parole, ma è un’opera che, comunque, lascia il segno.
Da leggere, senza dubbio.

Simona Lo Iacono è nata e vive a Si­racusa. Magistrato da 14 anni, at­tual­men­­te dirige la Sezione distaccata di Avo­la. Cura, sul blog Let­te­ra­ti­tu­dine di Massi­mo Maugeri (Ka­ta­web-­l’Espres­so), una rubri­ca fissa a metà tra diritto e letteratura. Con il suo primo romanzo, «Tu non dici pa­role», ha vinto il Premio Vitto­rini 2009, sezione opera prima. Nel 2010 ha pubblicato il racconto «La coda di pesce che in­seguiva l’amore», scritto con Mas­simo Mau­­geri. Sempre nel 2010 le sono stati con­feriti: il Premio Inter­na­zio­nale Sici­lia «Il Paladino» per la nar­rativa e il Pre­mio Festival del ta­len­to cit­tà di Si­ra­cu­sa. Col­labora a riviste e magazine.
Renzo Montagnoli

 

Faglie e falesie di Carla Conti
 

Il titolo della raccolta di poesie di Carla Conti Faglie e falesie richiama alla mente complessi rocciosi che presentano fratture ben visibili o, come nel caso delle falesie, pareti a strapiombo sul mare. Questo particolare paesaggio ambientale, correlato al mondo poetico fa pensare non alle ferite della terra ma a quelle dell’animo umano provocate dal vivere giorno dopo giorno la vita.

E’ una raccolta di ampio respiro temporale in quanto abbraccia un’esperienza poetica ventennale, dagli anni ottanta ai nostri giorni. Le poesie, eccetto le prime tre che fungono da preludio, sono collocate in quattro sezioni.

La prima sezione, “Oniriche visioni” raccoglie testi degli anni giovanili (1980-1985). Anni di amori travolgenti, di passioni incontrollabili, che sono fonti di tormenti e beatitudine, con i loro alti e bassi come “maree/ che salgono e/ scendono” (p. 11).

Amori così impetuosi che portano ad una passione “vorace” “Mangiarti succhiarti | pezzo per pezzo” (p. 20), ad un volersi cibare dell’altro per trasformarlo in nutrimento non solo per il corpo ma anche per lo spirito.

La passione è spesso espressa con parole riferite all’elemento acquoso, al mare, ai flutti, agli spruzzi, alle gocce, ai cerchi sull’acqua, ecc…, acqua non stagnante ma quasi sempre in movimento, come del resto è la vita e il divenire.

Non mancano nelle ultime due sezioni – “Luce ed Ombra” (1988-95) e “Sabbie mobili” (1995-2000) – poesie che guardano al di fuori del mondo interiore dell’autrice e che ci fanno intuire una maggiore percezione del dolore e della vacuità delle cose.

Nei versi c’è un’alternarsi di luce e ombra, ma è una luce quasi crepuscolare, soffusa come per smorzare la forza espressiva di Carla Conti, che usa spesso parole crude, dirette. Singole parole o interi versi spesso si ripetono da una strofa all’altra assumendo un andamento continuo, quasi martellante, reso ancora più evidente dalla mancanza di punteggiatura. Sono versi brevi, a volte formati da una sola parola.

In Faglie e Falesie si incontra una femminilità cosciente, piena e ribelle ma alla ricerca di un equilibrio interiore che renda “capace di vivere” (p. 70).

a CURA DI NICOLETTA CORSALINI -

Recensione a cura di
Nicoletta Corsalini
Pubblicata su:
Literary nr.9/2010

 

6/9/2011

La contesa dei vini di Maria Teresa Santalucia Scibona
Prefazione di Vinicio Serino

Pascal Editrice
www.pascaleditrice.it

Poesia silloge 

Una sfida divertente

C’è un passo della Genesi in cui si racconta che Noè, dopo il Diluvio Universale, piantò una vigna, con i cui frutti produsse un nettare (il vino) che bevve fino ad ubriacarsi. Questa bevanda, al di là di quello che dice la Bibbia, ha origini antichissime e sembrerebbe risalire addirittura al Neolitico; l’unica certezza, però, è che è sempre stata una fedele e ambita compagna dell’uomo, oggetto anche di simbolismi, come nel caso del vino dell’ultima cena di Gesù Cristo; peraltro questo nettare è sempre stato considerato come una bevanda d’evasione, come un prodotto alimentare che, per il suo tasso alcoolico, induce alla spensieratezza, disinibisce, insomma consente di aprirsi totalente, infrangendo quei vincoli di naturale ritrosia e riservatezza presenti, in maggior o minor misura, in tutti gli uomini.  Ed è talmento importante dall’aver costituito e dal costituire ancor oggi uno dei temi preferiti dai poeti, così che in questo contesto non stupisce questa silloge di Maria Teresa Santalucia Scibona, di certo più estimatrice che gran bevitrice di vini.
Fra l’altro il fatto di vivere in Toscana, regione di nobili vitigni, ha indubbiamente il suo peso e pertanto l’assunzione della bevanda assume il vero e proprio significato dell’adempimento di una tradizione in essere da millenni. Nel sorseggiare il nettare, fra un tempo e l’altro di accostamento alle labbra del calice, si consuma un rito di silenzio, di meditazione, che non solo apre se stessi gli altri, ma che spalanca quella porta che tenacemente teniamo chiusa e che cela il nostro intimo a noi stessi.
Non c’è mestizia, anzi è bandita, è invece piuttosto presente una gaiezza che l’autrice ha ben voluto rendere introducendo i primi versi con un passo tratto dalle Odi di Orazio: nunc est bibendum, nunc pede libero pulsanda tellus (Ora bisogna bere, ora bisogna far risuonare la terra con libero piede), un invito a darsi alla pazza gioia.
Per quanto ovvio il protagonista, o meglio i protagonisti della silloge sono i vini, in contesa fra di loro, una gara che farebbe la gioia di un sommellier (Impettiti come bravi soldatini / in trepida attesa di medaglia, / sul niveo desco imbandito / i favolosi vini  gareggiano / guardandosi in cagnesco, / si sfidano agguerriti / per l’ultima battaglia. /…).
Una pacifica sfida in cui i cavalieri, di nobile rango, si presentano di volta in volta e così verso dopo verso l’autrice ci svela nomi e qualità di questi soldatini, con una verve poetica leggiadra, non disgiunta da una conoscenza enologica che si presume raggiunta per esperienza diretta (A Bolgheri fra i noti cipressetti / di carducciana memoria, / domina nelle valli incontrastato / il “Sassicaia”, che ha respirato / le baruffe del salso maestrale, / si sente quindi maestoso regale. /….) (Il rosso “Nobile di Montepulciano” / dal profumo di mammole, / incorporato al “ Prugnolo gentile” / ascolta altezzoso, un po’ ostile / le francesi ascendenze del “ Barolo”. / che vanta il  gentilizio casato. /…) (…/ Niente male quel secco “ Bardolino”  /   veronese dalla spuma sottile, / è di grana fine e frizzante. /…).
Ci sono un po’ tutti i migliori vini italiani, descritti in modo accattivante, quasi trasformati da nettare oggetto di desiderio a personaggi umani, come accade con gli animali nei cartoni animati, e proprio per questo il piacere della lettura aumenta, verso dopo verso, contagiati da quella gaiezza a cui siamo invitati dalla fertile penna di Orazio. Si ride anche, come per la stravagante storia d’amore del Bianco Vergine di Arezzo, invaghitosi, non corrisposto, dell’altezzosa Vernaccia.
Da accademica disfida piano piano, in un cicaleccio che pare rimbombare nella sala di un antico palazzo, questi vini si animano, discutono, litigano, fanno di tutto per mettersi in mostra, soverchiandosi l’un l’altro e così da silloge lieve, che pareva finalizzata solo a erudire, divertendo, ci si accorge della metafora di un paese con tante individualità, spesso assai valide, ma in perenni inconcludenti bisticci   ( I fiorentini del Gallo Nero / boriosi e ridanciani / sognano solo di menar le mani. / I battaglieri cercano la rissa / e del Chianti difendono i confini / nel sangue rosso d’uva / a colpi d’alta gradazione. /…).
Fra un vino e l’altro, che non si assaggia, ma si legge, c’è tutto il tempo per riflettere ed ecco allora che parlare di vino da meditazione appare proprio pertinente, ma tutto è lieve, il cuore verso verso dopo verso si rasserena e giunti alla fine viene istintivo l’alzare un immaginario calice e sussurrare a fior di labbra un “prosit” di soddisfazione.

M. Teresa Santalucia Scibona, è nata e vive a Siena, già Presidente Provinciale della FENALC (Federazione Nazionale Liberi Circoli),è Presidente per Siena del MOPOEITA ( Movimento per la diffusione della Poesia in Italia).  La Biblioteca Universitaria senese della Facoltà di Lettere e Filosofia, ha istituito un Fondo Letterario a suo nome.(Seduta 27/4/2005).
    Il 15 Agosto 2000, dal Concistoro del Mangia, è stata insignita di medaglia d’oro di civica riconoscenza, per alti meriti culturali. Il 17 Ottobre  2009, è stata insignita del Premio “ Idilio Dell’Era, “alla Carriera dal Comitato Associativo “ Idilio Dell’Era”. E’ Socia effettiva del P.E.N. Club Italiano, del Sindacato Liberi Scrittori Italiani, della Fondazione Letteraria “ Luciano Bianciardi “di Grosseto, del Centro di Documentazione sulla Poesia contemporanea
Lorenzo Montano” di Verona. Fa parte del Consiglio “Cateriniani nel Mondo” per la Letteratura, con diritto al voto. Per oltre un decennio ha curato le serate letterarie del “Salotto  della Cultura e del Vino” della Enoteca Italiana di Siena. Come giornalista ha seguito per 17 anni, le sorti del  “Premio Letterario Viareggio – Rèpaci”              
        Ha pubblicato i seguenti libri di Poesia:-

 “ IL MIO TERRENO LIMITE” 1984  Ed. La Nuova Fortezza (Li),  a cura di Miriana Bogi

I GIORNI DEL DESIDERIO” 1988  Piovan Ed. Abano Terme, a cura di Gabriella Sobrino

IL TEMPO SOSPESO”     1993  Edizioni del Leone (Ve),  prefazione di Giorgio Luti.

MOSE’ ”   1996  Edizioni dell’Oleandro (Roma),  prefazione di Angelo Lippo.

VARIANTI D’AMORE” Suppl.to n. 35 (gennaio-marzo 1988) Rivista “Portofranco” (Ta)

IL VIAGGIO VERTICALE” 2001, I Quaderni della Valle N. 27 Edizioni di Emilio Coco.

LE TEMPS SUSPENDU ET LA VIE ASSISE” 2002  Prospettiva Editrice a cura di Giorgio  Luti, postfazione di Walter Nesti, traduzione di Ben Felix Pino.

L’AMORE  IMPERFETTO” 2003  Helicon Edizioni - Arezzo, a cura di Neuro Bonifazi

LA CONTESA DEI VINI”     2005   Pascal Editrice (Siena), a cura di Vinicio Serino.

IL SOGNO DEL CAVALLO “  2008   Pascal Editrice (Siena) a cura di Mario Comporti                                                                                                                  e Fausto Tanzarella

NUTRIMENTI PER L’ANIMA” 2009 Joker Editore a cura di Sandro Montalto

VERSI E CROMIE” Solodieci Poesie  2009 Lieto Colle Editore

   Audio CD POESIE SCELTE (2005), disco recitato dall’attrice Paola Lambardi

   CD “MISCELLANEA POETICA”(2007) recitano, gli attori Walter Maesosi, Daniela     Barra, al piano M°.Giovanni Monti. Edizioni Le Carrozze Records di Vanni Vincenzo- Siena

                             

         Il suo testo di Lauda “ Accanto a Te Signore”,  è stato musicato dal  M° Gian Paolo Luppi, tradotto in tedesco e pubblicato dalle  dalle Edizioni Musicali Peters di Francoforte.

      Alle sue opere si sono ispirati i pittori Giuseppe Amadio, Angelo Battista, Angela Carli, Ida Negrini, Paola Imposimato, Enzo Santini, Anna Sticco, gli scultori Michele Donadoni e Andrea Roggi.

           La recitazione del poemetto in versi “MOSE’ con gli attori Paola Lambardi, Guido Bocci, Erminio Jacona , è alla sua tredicesima replica           

         E’ inserita  in numerose Antologie di autori contemporanei come :- “ Greta Garbo e Sergio Vacchi nel Palazzo del Ridotto di Cesena” – Catalogo      del Novembre 2003 - Fondazione Vacchi - Castello di Grotti – Ville di Corsano- Siena                                                                                                                   

“ La Donna e gli Amori” a cura di Gabriella Sobrino e Antonietta Garzia  (giugno 2001) –                                     Introduzione di Paolo Crepet   - Loggia  de’ Lanzi Editori -Firenze

“ C come Cuore” saggio di Gabriele La Porta ( Ottobre2003) Pratiche Editrice Mondadori

 “P  come Passioni – Dizionario delle emozioni e dell’estasi” a cura di Gabriele La Porta (Ottobre 2005) Marco Tropea Editore – Mondadori  Printing S.p.A – Milano 

 EDIZIONI SCETTRO DEL RE - ROMA“ Appunti Critici” La poesia Italiana del tardo Novecento tra conformismi e nuove proposte “-  saggio a cura di  Giorgio Linguaglossa - (Dicembre 2002)- “ Poeti Italiani Verso il Nuovo Millennio”- saggio a cura di Dante Mafia ( Dicembre. 2000)

-  E’ inclusa nel Dizionario Autori e nella Letteratura Italiana del Secondo Novecento -Edizioni Bastogi (Foggia), Helicon (Ar), Guido Miano (Mi).

Sulla sua poetica Pina Frascino Panussis ha scritto :- “Saggi e interventi” (1995) -Edizioni. Pisangrafica - Pisa ; “ LE OCCASIONI DEL PENSIERO ” (1997) Masso delle Fate Edizioni - Signa, con interventi critici di Sandro Briosi, Guido. Cecchi, Gaetano Chiappini, Marcello Fabbri, Giorgio Luti, Carmelo Mezzasalma, Walter Nesti, Vinicio Serino, Gabriella Sobrino e testimonianze di Oreste Macrì, Giuliano. Manacorda, Giorgio Saviane, Ferruccio Ulivi,Vittorio Vettori ed altri noti scrittori. 
Renzo Montagnoli

 

30/8/2011

L’orologio di Carlo Levi

Edizioni Einaudi

Narrativa romanzo

Collana ET Scrittori

Per comprendere meglio il presente

Come in Cristo si è fermato a Eboli e Le parole sono pietre anche questo libro è a tutti gli effetti una commistione fra romanzo e saggio, per quanto, nel caso specifico, l’analisi storica prenda il sopravvento, fornendo un quadro altamente esauriente di come lo spirito originario della Resistenza fu ben presto soffocato dalla caratteristica tipica di noi italiani, vale a dire un radicato conformismo che fa di ogni occasione di rinnovamento un semplice paravento, dietro il quale si cela sempre un immobilismo, una difesa ottusa del privilegio che sarà ben delineata in seguito da Tomasi di Lampedusa con Il Gattopardo. E così tutto cambia per restare poi uguale, una verità sacrosanta che possiamo verificare quotidianamente. Del resto Levi aveva ben individuato i mali insanabili di questo paese, dominato da una burocrazia del tutto ottusa e da una classe politica avulsa dalle reali esigenze dei cittadini, una vera e propria casta che negli anni si è di fatto impadronita del potere, delegato da un popolo ancora lontano dalla consapevolezza dei suoi diritti e incapace di concretizzare un’autentica democrazia.
Nel libro risuonano così del tutto retoriche parole come libertà, potere al popolo, democrazia. Esse sono semplicemente degli specchi messi ad arte per non riflettere ciò che nascondono e così l’ideale di profondo rinnovamento della Resistenza si è perso assai velocemente per strada nell’Italia derelitta del dopoguerra; venuto meno l’impulso della guerra di liberazione, tutto si è afflosciato e così si è ancora una volta gettata al vento un’opportunità storica, ma forse perché le rivoluzioni abbiano successo non devono avere mai fine.
Curiosamente, l’epoca presenta analogie con l’attuale, con il desiderio di alcuni di tornare al particolare e di altri, invece,  di sperare in un’Europa veramente unita, la sola che forse avrebbe potuto liberarci dall’imperante parassitismo.
Sono frequenti le osservazioni, le riflessioni, comuni nelle opere di Levi, e che si innestano nel tessuto quotidiano, interagendo con fatti apparentemente insignificanti, ma rivelatori della situazione del periodo. Così ci sono l’esperienza di direttore di un giornale di sinistra, le difficoltà finanziarie dello stesso, l’abulia dei redattori, le cui descrizioni sono un’ulteriore prova delle eccelse qualità di questo scrittore, e poi c’è Roma, tanto amata quanto odiata, una città insolita, con il suo respiro notturno quasi di belva ferita, rilucente di sole nelle piazze, tetra nelle scale buie delle case.
La mano del pittore emerge allora prepotente e si materializzano quadri fatti di parole, appassionanti, capaci non solo di mostrare, ma anche di palpitare di atmosfere.
L’orologio è senz’altro un libro eccellente che, se non ha il pathos proprio di Cristo si è fermato a Eboli, è tuttavia una testimonianza storica unica e del tutto indipendente.
Da leggere, senz’altro, per meglio comprendere il presente.

Carlo Levi (Torino, 29 novembre1902 – Roma, 4 gennaio 1975). E’ stato un grande scrittore e un non meno grande pittore. Ha scritto, fra l’altro, Cristo si è fermato a Eboli, L’orologio, Le parole sono pietre.
Renzo Montagnoli

 

25/8/2011

In Nome del Padre di Carlo Bordoni

In copertina Il sepolto vivo,

di Antoine Joseph Wietz

Mauro Baroni Editore

Narrativa romanzo

Collana Mediterranea

Morte apparente

E’ indubbio che il tema della morte apparente abbia sempre rivestito un particolare interesse, e non solo letterario, perché l’ipotetico risveglio di un essere umano, costretto in una cassa posta sotto terra o in un loculo, deve essere un’esperienza fra le più atroci, proprie del sepolto vivo.
All’eventualità si ovvia secondo norme di legge che, tuttavia, non possono escludere, almeno in casi del tutto eccezionali, che il fatto possa accadere.
Carlo Bordoni, autore anche di opere di genere fantastico, ha affrontato questo tema con In Nome del Padre, un romanzo che tuttavia esula dal genere, proponendo una storia, fra passato e presente, che si alterna armoniosamente secondo un’impostazione per capitoli e che, passo dopo passo, fa confluire il tutto in un unico grande disegno di notevole effetto e che induce il lettore a proseguire speditamente onde giungere alla conclusione con l’inevitabile chiarimento del mistero.
L’Io narrante è uno scrittore che si ritira nella casa dei genitori, prossima al golfo di La Spezia, per scrivere un romanzo; siamo in estate, c’è caldo e lui, nonostante la presenza della moglie, è un essere solo, una condizione che si trascina dall’infanzia e che lo porta a vivere una dimensione interiore estranea alla realtà.
In questo contesto il ricovero in ospedale di un vecchio in pessime condizioni, con gli arti atrofizzati come se fosse stato costretto a giacere per molti anni, e in possesso di una patente intestata al padre del protagonista fa scattare una vicenda dai toni tenebrosi, di incroci fra fantasia e realtà che finiscono con il renderla perfettamente credibile.
Si entra così nel genere horror, anche se un po’ particolare, vista la natura e la dimensione psicologica dello stesso.
Non vado oltre, per non pregiudicare all’eventuale lettore il piacere di scendere con il personaggio principale in un turbine parossistico, a cui poi verrà data una spiegazione più che logica, alla fine come si conviene, ma un dubbio resta: sarà stato poi così?. Ed è questo dubbio, insinuato abilmente nelle ultime righe, che toglie nuovamente certezze, fa nascere ipotesi e ridona vigore a un’idea creata da una fantasia sì fertile, ma non avulsa dalla realtà.
Bordoni si dimostra una volta di più un autore capace di tenere in equilibrio una storia che di per sé potrebbe essere fragile, ma che in un ambito comprendente la misteriosa fine di una presunta strega, alcuni riti esoterici praticati da giovani in cerca di emozioni, simbolismi ricorrenti, quali quelli dei tarocchi, un pizzico di erotismo, acquista una forza autonoma che progressivamente avvince e stupisce.
Inoltre, le parentesi dei capitoli non di genere, peraltro funzionali al racconto, evidenziano una capacità di approfondimento, anche filosofico, non comune e forniscono un ritratto chiaro della solitudine di un uomo, una condizione sempre più presente nella nostra epoca.
In Nome del Padre è un bel romanzo, che avvince e fa riflettere, ed è un vero peccato che non sia più reperibile nelle librerie, né presso l’editore, prematuramente scomparso.

Carlo Bordoni (Carrara, 1946) è docente di “Editing e scrittura editoriale” all’Università di Pisa.
Si occupa di sociologia dei processi culturali e ha insegnato nelle Università di Firenze, Milano e Napoli.
     Per Solfanelli ha pubblicato La paura il mistero l’orrore dal romanzo gotico a Stephen King (1989), La fabula bella. Una lettura sociologica dei Promessi Sposi (1991), l’antologia di racconti Cuori di tenebra (1993), La dismisura immaginata (2009) e Le scarpe di Heidegger (2010). Tra le altre sue pubblicazioni: La pratica editoriale. Testo contesto paratesto (Felici, Pisa 2010), Dal sublime ai nuovi media (Felici, Pisa 2010), L’identità perduta. Moltitudini, consumismo e crisi del lavoro (Liguori, Napoli 2010); Libera multitudo (Franco Angeli, Milano 2008); Introduzione alla sociologia dell’arte (Liguori, Napoli 2008), Società digitali (Liguori, Napoli 2007), Il testo complesso (Clueb, Bologna 2005).
     Nella narrativa ha esordito col romanzo L’ultima frontiera (Ponzoni, Milano 1965) e, negli ultimi anni, si è riproposto con Il nome del padre (Baroni, Retignano 2001), Istanbul Bound (Tabula fati, Chieti 2006) e Il cuoco di Mussolini (Bietti, Brescia 2008).
     Collabora a “Prometeo” e dirige la rivista “IF”, trimestrale dell’Insolito e del Fantastico.
Renzo Montagnoli

 

12/8/2011

L’Autunno del Medioevo di Johan Huizinga

Introduzione di Ludovico Gatto

Traduzione di Franco Paris

Edizione integrale

In copertina: Hieronymus Bosch,

Trittico del Carro di fieno. Madrid, Prado

Newton Compton Editori
www.newtoncompton.com

Storia
Collana Grandi Tascabili Economici

I prodromi del Rinascimento

 «Qui abbiamo cercato di prendere in considerazione il XIV e XV secolo non come annuncio del Rinascimento, bensì come tramonto del Medioevo, la civiltà medioevale nel suo ultimo respiro, come un albero dai frutti troppo maturi, completamente cresciuto e sviluppato.»

La storia è un susseguisi di eventi che sono concatenati fra loro e nulla accade per caso, ma trova le sue origini nel passato, in una continuità che non deve stupire, perché lenta, e mai improvvisa, è l’evoluzione dell’uomo. Così non è possibile pensare che esista una cesura netta fra il Medioevo e il Rinascimento, fra il periodo oscuro, di apparente degrado del primo, e il tripudio di luce del secondo, non sbocciato come per incanto, ma pur esso frutto di ciò che è avvenuto in precedenza.
Johan Huizinga ha così considerato  il Trecento e il Quattrocento il tramonto della civiltà medievale, quell’Autunno del Medioevo caratterizzato dalla nostalgia per un mondo e un modo di vivere che andava scomparendo, in cui sempre era presente, con il suo memento mori, la morte, signora assoluta di un’epoca, in antitesi prevalente con la vita, quell’incombente senso di precarietà a cui gli uomini di quel periodo cercavano di sfuggire costruendo intorno a se stessi la dimora effimera, ma salvifica, del sogno.
Sono secoli caratterizzati da guerre di dominio e di religione, funestati dalla grande diffusione della peste nera che nell’arco di soli cinque anni (fra il 1347 e il 1352) provocò una vera e propria ecatombe, tanto che ne morì almento un terzo della popolazione europea. Eppure, di fronte ai pericoli sovrastanti, gli uomini dell’Autunno del Medioevo non trovarono nuova linfa nella religione, che presentò anzi un temporaneo declino con l’aumento degli agnostici e degli scettici, in un primo passo verso quella via che poi riconoscerà all’essere umano il diritto di vivere pienamente la sua esistenza e quindi un capovolgimento di quel memento mori, che altri non era se non un lungo periodo di preparazione al trapasso, come se l’esistenza avesse ragione di essere solo in funzione della morte.
E’ il Rinascimento che si avvicina, ci sono tutti i suoi prodromi, eppure esiste il retaggio del Medioevo più oscuro, in un contrasto assoluto  fra forme di spiritualità di intenso e alto livello e le bassezze di gente pronta a gioire, come in uno spettacolo, nell’esecuzione di una sentenza, per non parlare poi della crescente dissolutezza e di una violenza fine solo a se stessa.
La crudeltà e il terrore tardavano a essere bandite, retaggio di quel concetto di morte sempre presente, al punto da considerare la fine di una vita la suprema ambizione sorta con la nascita, e le efferatezze, le esecuzioni così terribili, in un’ondata di supertizione da cui non era indenne la Chiesa, erano l’inconsapevole tripudio delle paure di ogni ora, dimenticate appena nella lunga agonia dei condannati. Questo atteggiamento non era un mors tua, vita mea, ma quasi un sacrificio propiziatorio alla dea imperante, alla Morte.
Huizinga ci offre un quadro di straordinaria bellezza, il ritratto di un’epoca spesso dimenticata, perché l’uomo preferisce i periodi di luce, e non di buio, del suo passato, ma, a proposito di luminosità, sono anni quelli trattati in cui il passaggio dall’ombra alla penombra, e poi a un timido chiarore, segue un percorso logico, un continuum che tanto spiega dell’avvento poi del Rinascimento.
Certo l’opera è un po’ datata (fu pubblicata nel 1919) e ricerche successive hanno affrontato, anche con risultati innovativi, questo periodo, ma ciò nonostante è ancor oggi uno strumento indispensabile per accostarsi  alla storia e per approfondire gli studi sulle origini del Rinascimento, senza dimenticare, che pur nella completezza della trattazione, la lettura non risulta mai difficile e anzi è appagante per l’esperto e per il profano.

 Johan Huizinga, nacque nel 1872 a Groningen, in Olanda, dove dal 1905 al 1915 fu titolare di una cattedra all’Università. Nel 1915 fu chiamato a insegnare a Leida e qui trascorse quasi tutta la sua esistenza di studioso. Fiero oppositore del nazismo, morì nel 1945 a De Steeg, nei pressi di Arnhem.
Renzo Montagnoli

 

25/7/2011

L’uomo del cardinale di Valentino Rocchi
Prefazione di Renzo Montagnoli

Edizioni Agemina
www.edizioniagemina.it

Narrativa romanzo
Collana Paesi Fatti personaggi: La Storia

Alla ricerca del senso della vita

Era un bambino. Sedeva sull’orlo di un dirupo, proteso a valle, ad osservare la luna nelle notti di sereno e, molte volte, durante il giorno, da lì spiava ciò che accadeva in basso, attorno al suo paese maledetto.

Inizia così l’ultimo romanzo di Valentino Rocchi, compianto autore di quell’autentico capolavoro che è 1504 – Notte all’Hostaria La Guercia; quel paese maledetto è un agglomerato di casupole in cui non vivono, ma vegetano donne, abbandonate dai loro uomini o semplicemente diventate vecchie anzitempo,  compagne di soldati di ventura, mercenari come loro, un reclusorio in cui attendere la fine dei propri giorni. Quasi assenti i maschi, al più qualche marmocchio, frutto di amori fugaci o di una notte di meretricio, questa è una favela dell’umanità in un’epoca  di predatori voraci e  di prede rassegnate.
Da qui parte quel bambino, risultato di un rapporto forse con un nobile dei dintorni, che la madre in un certo qual senso ricatta, al punto da ottenere che il figlio lasci quel luogo senza speranza perché possa finalmente vivere. Affidato all’istruzione di un ex capitano di ventura, diventato abile di spada, ma anche ingordo di letture, Antonio, questo il suo nome, a cui assocerà il cognome Bagno del padre putativo, si fionderà nel mondo di lotte cruente, di sangue grondante, di tradimenti e di viltà, di passione per il bello, per le arti, di superstizioni dirompenti, di orgiastici intrallazzi che è proprio del Rinascimento.
Lui si pone ai servizi del miglior offerente ed esegue il suo lavoro con grande competenza e meticolosità, sia che si tratti di consegnare il riscatto per la liberazione di un nobile, sia che debba indagare su misteriori tentativi di omicidio; la certezza del risultato lo contraddistingue, al pari della riservatezza, della capacità di arrivare allo scopo nel modo migliore, anche uccidendo, se necessario.
Il suo primo e principale committente è il cardinale Ascanio Maria Sforza Visconti, famoso per aver fallito nel tentativo di ottenere l’investitura di pontefice, che invece andò, grazie anche ai suoi buoni uffici, a Rodrigo Borgia, salito al trono di San Pietro con il nome di Papa Alessandro VI; in cambio dei favori prestati, il cardinale ottenne la nomina a Vice-Cancelliere, in pratica il primo ministro dello Stato della Chiesa, un incarico di grandissima importanza che assolse soprattutto con un occhio di favore per la famiglia d’origine (era fratello minore di Galeazzo Maria Sforza e di Ludovico il Moro).
Per assolvere agli incarichi di volta in volta assunti, Antonio Bagno è sempre in movimento, in un lungo viaggio che lo porta dalle Marche al Regno di Napoli, dalla città di Roma, corrotta, fonte di ogni peccato, alla Firenze bacchettona del Savonarola, dall’allegra corte estense alla pacifica signoria di Urbino.
E ogni volta sono nuovi successi, ricompense cospicue che entrano nella scarsella, insomma quel bambino cencioso, ormai diventato uomo, si può considerare “arrivato”, ma non è contento, perché avverte la solitudine di quel peregrinare che scandisce impietoso i tempi della vita. Gli anni passano e in Antonio c’è l’insoddisfazione, perché si accorge, giorno dopo giorno, che la sua non è vita, che lui è sempre di più meno padrone di se stesso; alla fine riuscirà a imprimere una svolta decisiva, terminando il viaggio in un paese quieto, lontano dai clamori dei signori e delle battaglie, fra le braccia di una donna, a cui si è avvicinato non per consumare un rapporto, ma per amore.
Ed è questo il grande messaggio del romanzo: tutto ciò che si fa, tutto quanto si mette in atto per emergere è la gioia di un momento, è nello stringere fra le mani un sogno impalpabile. La vita non ha senso se non nell’amore, in quel reciproco affetto che permette di proseguire con serenità quel cammino che è di tutti, dall’alba al tramonto.
Se tanti personaggi che compaiono sono realmente esistiti, quello di Antonio Bagno è esclusivamente frutto di fantasia, ma è anche un emblema, quello di un uomo che vuole essere artefice della propria vita e che comprende strada facendo che nessuno è veramente libero, che la sorte toccata agli uomini, ai potenti e ai derelitti, è di essere schiavi del proprio ruolo; l’unico rimedio è allora di non darsi come sudditi, ma di donarsi per amore.
L’uomo del Cardinale è sì un libro d’avventure, ma queste non sono la sua finalità, bensì l’esclusivo mezzo per portare avanti quel discorso sul senso della vita di cui ho detto poco fa.
L’epoca, l’ambientazione, i personaggi veri e inventati sono descritti in modo ammirevole e considerato che ci sono notizie perfino sul modo di vestire o di spostarsi, sulle principali strade da percorrere, il libro è una fonte quasi inesauribile di conoscenza, ma ciò che balza subito evidente è l’effetto immediato che hanno le parole sul lettore; sia che si parli dei locali di una taverna, sia che si tratti delle mura possenti di un castello, in un attimo si ha la visione di ciò che è descritto, al punto di vedere noi stessi fra gli ospiti seduti a un tavolo, oppure fra le guardie che procedono lungo il cammino di ronda.
In fondo, se anche fa piacere che Antonio alla fine trovi la sua giusta strada, rimane una sensazione di mancanza, come di qualche cosa di cui si è sempre fruito e ora si è perso; ma se non ci saranno altre avventure, a cui così bene ci eravamo abituati, di una cosa saremo certi e orgogliosi: l’aver letto un libro di grande bellezza.

Valentino Rocchi (Savignano sul Rubicone, 1929 – Pesaro, 2010)
Ha pubblicato: “Una Storia a Castelvecchio” (Società editrice Il Ponte Vecchio – Cesena); “L’Eredità di Venanzio” (
Guaraldi - Rimini) Vincitore del Premio letterario “Il Pungitopo” 2001.“Notte all’Hostaria La Guercia” (Argalìa Editore);“Gli uomini di Bluma” (Giraldi Editore) II Classificato al Premio “Palazzo al Bosco”, 2002;“La saggezza di Toni” (Giraldi Editore);Esce nell’anno del V centenario della morte di Pandolfo Collenuccio, uomo di corte e di legge, dalla vita straordinariamente avventurosa: “Notte all’Hostaria La Guercia”, Pandolfo Collenuccio, uomo di corte del XV secolo, (Giraldi Editore) ambientato nel XV secolo, di cui è l’autore è profondo studioso e conoscitore; nel 2008 “La Magia del fuoco” (Agemina) e “1504 – Notte all’Hostaria La Guercia” (Agemina); nel 2009 “Il pianoforte a coda” (Giraldi Editore),   “La padrona di Santa Maria” (Giraldi Editore), “Confrontarsi con Karolina” (Agemina), nel 2010 “Giolina” (Agemina) e Menelicche (Agemina).
Renzo Montagnoli

 

22/7/2011

Le Montagne della Follia
(At the Mountains of Madness)

di Howard P. Lovecraft

Introduzione di Carlo Lucarelli
Traduzione di Gianni Pilo

Newton Compton Editori
www.newtoncompton.com

Narrativa romanzo
Collana Grandi Tascabili Economici Newton

L’orrore cosmico

L’emozione più vecchia e più forte del genere umano è la paura, e la paura più vecchia e più forte è la paura dell’ignoto.

In questa frase del tutto emblematica, che Lovecraft ebbe a scrivere in un suo saggio sull’orrore nella letteratura, si riassume quello che è il filo comune, la base logica di questo romanzo breve che a farlo rientrare nell’ambito del fantastico sarebbe troppo semplicistico e finirebbe con lo svilirne il contenuto, non esattamente classificabile in un genere, ma di più ampia, concreta e profonda portata.
Potrei dire che in Lovecraft la paura non è il fine, ma il mezzo, il modo con cui parlare dell’uomo e della componente più atavica del suo inconscio, l’uomo che brama di conoscere sempre di più, ma attratto e al tempo stesso atterrito dall’ignoto. Il viaggio avventuroso nell’Antartide finisce così con il diventare un percorso dentro il proprio “io”, alla scoperta di verità non tutte positive, scoperchiando quella patina di essere integro, tutto portato alla conoscenza, ma in realtà completamente fragile, eppure eternamente combattuto fra il desiderio e l’angoscia  di sapere.
Le montagne della follia è scritto in prima persona, quasi che l’autore volesse esporre a sé e agli altri il frutto della sua autoanalisi, a tratti esaltante, altri e più spesso impietosa, in un tripudio di fantasia in cui le lontane terre del Polo Sud custodiscono un segreto terribile, tale da mettere sull’avviso qualsiasi spedizione voglia là avventurarsi, soprattutto nel caso decida di esplorare questa immane catena montuosa, dalle altezze stratosferiche, a cui il protagonista ha dato un nome, che nella sua apparente semplicità, ricorda allucinazioni, angosce, terrori.
Là si troveranno i resti, giganteschi, di una civiltà aliena, di altri esseri che raggiunsero la terra milioni di anni fa e che poi, come sempre accade nell’evolversi del tempo, finirono con lo scomparire, forse per le glaciazioni, o forse anche e soprattutto per il sopravvento di altre entità spaventose e orrende, un autentico pericolo per l’attuale umanità.
La descrizione di questi resti, dei reperti archeologici, è estremamente minuziosa, come se l’autore li avesse effettivamente davanti agli occhi, ma se questo è un espediente di sicuro effetto sfocia però in una caratteristica non certo positiva di Lovecraft, e cioè la leziosità, una mancanza di senso del limite, che rende sovente greve la lettura, rischiando anche di far scemare la notevole e palpabile tensione creata con particolare e indubbia capacità.
L’opera, inoltre, è un continuo omaggio a Edgard Allan Poe e in particolare a Storia di Arthur Gordon Pym, dichiarata fonte di ispirazione, con frequenti richiami come nel caso dell’incomprensibile verso Tekeli-li! Tekeli-li!, una sorta di messaggio non di amicizia, ma di pericolo certo e devastante.
Le scoperte che verranno fatte nel corso di questa avventura, l’inimmaginabile e sconvolgente orrore finale che si insinua nel lettore come un ago che penetra nel cervello attraverso il cranio, l’atmosfera gelida e irreale della terra antartica sono il meglio di questo romanzo e fanno dimenticare la grevità di certe descrizioni, di cui prima ho accennato.
Ma al di là dell’aspetto fantastico dell’opera rimane la convinzione che con l’approfondimento della conoscenza scientifica l’umanità non potrà che pervenire all’autentico dramma  riveniente da un universo freddo, impietoso, del tutto impersonale e caotico, cioè finirà per approdare all’orrore cosmico. E questo è un messaggio su cui si può dissentire, come si può anche essere d’accordo, ma sul fatto che questo rischio potenziale possa essere poi sopportato da questo essere fragile che è l’uomo non dovrebbero esserci dubbi, perché sarebbe la fine di una specie, quale la nostra, sconvolta da quella follia propria delle montagne del titolo.
Da leggere, anche e soprattutto alla luce di questo lacerante monito. 

 Howard P. Lovecraft nacque il 20 agosto del 1890 a Providence nel Rhode Island. Vissuto in un ambiente familiare ben poco felice, dopo un’infanzia trascorsa in totale solitudine, fin da giovane dovette lottare con una serie di difficoltà economiche e si guadagnò da vivere con il mestiere ingrato e mal pagato di revisore dei testi narrativi di aspiranti scrittori. Grazie ai suoi romanzi e racconti, ispirati a una concezione del Cosmo particolare e singolarissima, è l’unico scrittore americano a poter rivaleggiare con Edgar Allan Poe. Divenuto, ancora vivente, una vera e propria “leggenda”, morì nella sua Providence, alla quale era legato in maniera viscerale, il 5 marzo del 1937. Moriva l’uomo, nasceva il mito.
Renzo Montagnoli

 

14/7/2011

Il pane di ieri di Enzo Bianchi

Premessa dell’autore
Edizioni Einaudi

Saggistica
Collana Super ET

Il mestiere di vivere

Oggi in cui tutto è a breve durata, tutto è <<in prova>>, tutto senza memoria; oggi in cui ogni scelta è rimandata e, non appena presa, è revocabile alla prima difficoltà; oggi in cui non si ha nemmeno la percezione che esista un << dover essere e fare>> per ciascuno.

La vita di ognuno di noi è un dono, venire al mondo è un omaggio, il più grande che ci viene fatto, ma siamo sicuri che proprio per questo la nostra esistenza  abbia un senso? Siamo veramente consapevoli che, perché regalata, la vita non si debba imparare?  Per quanto possa sembrare strano il fatto che noi procediamo in questo mondo è un dovere, un mestiere non certo agevole e quasi sempre faticoso, il mestiere di vivere, come con grande acutezza definì l’esistenza Cesare Pavese.
Se dopo aver letto Ogni cosa alla sua stagione non mi stupisco più per le straordinarie qualità di Enzo Bianchi, con Il pane di ieri mi ritrovo in ogni pagina, in ogni riga, frutto com’è di una continua pacata riflessione.
E’ certo il libro di chi arrivato a una certa età, diciamo metaforicamente alla stagione autunnale della vita, si volge all’indietro, e non tanto per fare un bilancio, bensì per riannodare il presente al passato, nella prospettiva di un futuro che sarà  gratificante quando si sarà verificato che la propria esistenza costituisce un unicum, un succedersi di fatti ed eventi di cui, per lo più, siamo stati artefici.
Emergono così i ricordi, l’unico patrimonio che ci può dare la certezza che abbiamo svolto e che stiamo praticando il nostro mestiere di vivere; fare uscire dalla nebbia del tempo la nostra infanzia e la nostra giovinezza implica però il rischio di un rimpianto, come se, nella nostra primavera, tutto sia stato idilliaco, perfetto, irripetibile. Enzo Bianchi non cade in questo errore, sfumando, ancora prima di scrivere, immagini e memorie che, se da un lato possono anche indurre a un garbato entusiasmo, dall’altro trovano onnipresenti le difficoltà inevitabili che si incontrano nell’esistenza, tanto più marcate in un periodo post bellico di grande miseria, in un ambiente, quale quello contadino del Monferrato, chiuso, a volte gretto, altre invece fecondo di umana solidarietà quale solo è possibile trovare tra la povera gente. Ed è così che ai comandamenti delle tavole consegnati a Mosè se ne aggiungono altri quattro, frutto di una coscienza sociale, tramandata di padre in figlio, ma che nella loro apparente semplicità sono i cardini dell’insegnamento del mestiere di vivere: “Fa il tuo dovere, crepa, ma va avanti!”, elogio quindi del dovere, obbligo a cui mai venir meno, temperato tuttavia da  un “Non esageriamo!”, che richiama all’indispensabile senso della misura; “Si tratta di non prendersela” , un invito, a fronte delle disavventure, a non lasciarsi abbattere, e infine “Non mescoliamo le cose!”, una versione più pratica e adatta a molti usi del celebre detto di Gesù “Date a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio”.
Principi saldi, quindi, frutto di generazioni che si sono succedute in quelle colline di viticultori, sperimentati, applicati e appunto insegnati ai successori perché basilari per esercitare il mestiere di vivere.
Nel leggere questo libro, che potrei definire un saggio sul come vivere la vita, fatto di tanti capitoletti per lo più abbastanza brevi, si scoprono virtù antiche, presenti per tanti secoli e poi di colpo scomparse, con la fine di quella civiltà contadina di cui un altro scrittore che amo tanto, Ferdinando Camon, ha scritto così bene.
Tuttavia, Enzo Bianchi, in questo suo ripercorrere la propria esistenza, in questo estrarre ciò che conta e metterlo per iscritto con disarmante semplicità, ma con altrettanto notevole efficacia, ci trasmette una lezione di vita, senza imporcela, anzi suggerendocela, che non potrà non lasciare indifferente il lettore, sia che si tratti di un credente che di un ateo. Il suo è un immaginario dialogo con chi leggerà, una serie di riflessioni coinvolgenti, a cui lasciarsi andare, certi che alla fine ci sentiremo pervasi da quella grande serenità che è propria dell’autore.
Spesso è una parola abusata,ma credetemi se vi dico che Il pane di ieri è un autentico capolavoro.

Enzo Bianchi (1943), fondatore e priore della Comunità monastica di Bose, è autore di numerosi testi sulla spiritualità cristiana e sulla tradizione di dialogo della Chiesa con il mondo contemporaneo. Scrive su «La Stampa», «la Repubblica» e «Avvenire». Per Einaudi ha curato Il libro delle preghiere (1997), Poesie di Dio (1999), Regole monastiche d'occidente (2001), e ha pubblicato La differenza cristiana (2006), Il pane di ieri (2008), Per un'etica condivisa (2009) e L'altro siamo noi (2010). Nel 2010 esce sempre per Einaudi Ogni cosa alla sua stagione e Insieme, che raccoglie La differenza cristiana , Per un'etica condivisa e L'altro siamo noi.
Renzo Montagnoli

 

7/7/2011

Anna Karenina di Lev Tolstoj

Edizioni Rizzoli
Narrativa romanzo
Collana Bur i grandi romanzi

Sola contro tutti

Correva l’anno 1877 quando Anna Karenina venne pubblicato per la prima volta.
Reduce dal successo di Guerra e pace, L’Iliade del XIX secolo, come aspirava a definire quel monumentale lavoro Lev Tolstoj, l’autore con quest’opera intendeva dare vita al suo primo autentico romanzo, una grande tragedia in cui passioni istintive e conformismo societario si fronteggiano in una battaglia da cui uscirà perdente l’unico soggetto debole per natura, la donna.
Osteggiato dalla maggior parte della critica russa, che non riusciva a comprendere un’opera al di fuori di canoni tradizionali, Anna Karenina è un autentico capolavoro di quella corrente letteraria propria dell’epoca e che risponde al nome di realismo, nella quale esponente di spicco italiano fu indubbiamente Giovanni Verga.
In questo romanzo, che è ambientato nell’elite della società russa,  Tolstoj  affronta, approfondisce e mette a nudo temi di per sé rivoluzionari, sia per quel periodo storico, sia per la notoria ristrettezza di vedute della nobiltà e dell’alta borghesia del suo paese. E’ tanta la carne al fuoco, ma il cuoco è uno chef impareggiabile e così riesce ad amalgamare in modo perfetto non pochi argomenti, quali l’ipocrisia, la gelosia, la fedeltà, la famiglia, la fede, il desiderio insano della carne e la passione sfrenata, inquadrando il tutto in un antitesi fra la vita e il mondo della campagna e della città.
Anna è molto bella e assai in vista nella società di San Pietroburgo e s’innamora follemente del conte Vronskij, più giovane di lei, ma non è un’avventura, normalmente tollerata da quella società, è invece proprio il desiderio di rinascere a nuova vita, troncando con il passato. E’ una cesura insostenibile, che cozza contro un mondo ipocrita, che a tutto acconsente salvo a che venga minata quella struttura di immutabilità su cui poggiano privilegi e prestigio, che poi verranno spazzati via dalla Rivoluzione di Ottobre.
Anna rivendica la sua personalità e la sua dignità di essere umano e anche quando l’amante la lascerà, continuerà lungo la via intrapresa  e non tornerà dal marito. Isolata, osteggiata da tutti, impossibilitata a rivedere l’amato figlio, farà l’unica scelta possibile, dolorosa, in un  ultimo definitivo atto di rivendicazione della propria libertà.
In parallelo con la sua storia c’è poi quella, assai diversa, dell’amore fra  Kostantin Levin e Kitty, un’unione solida, basata su sani principi, estranea al mondo ipocrita della nobiltà cittadina. E’ evidente l’inserimento di questa vicenda perché del tutto in contrasto con la situazione d’incertezza con cui invece procede quella di Anna. Il richiamo alla sostanza di un rapporto basato su sentimenti autentici e non su passioni travolgenti rientra non poco nella filosofia di vita dell’autore che, guarda caso, in Levin delinea, almeno in parte, un ritratto di se stesso.
Anna Karenina è un romanzo inusuale per l’epoca e non solo per la società russa, una storia che incide come una lama in un tessuto di stoffa opulenta che cela al suo interno un mondo del tutto irreale, in cui ciò che conta è solo l’apparenza, che per esistere non può e non deve essere scalfita.
Da leggere, perché è un altro capolavoro di Lev Tolstoj.

Lev Nikolaevič Tolstoj  (Jasnaja Poljana , 28 Agosto 1828 – Astapovo, 2° novembre 1910). Scrisse i romanzi I cosacchi (1863), Guerra e pace (1869), Anna Karenina (1877), Sonata a Kreutzer (1891), Resurrezione (1899), nonché numerose opere teatrali, filosofiche e pedagogiche.
Renzo Montagnoli

 

4/7/2011

Gli uomini ombra di Carmelo Musumeci
Gabrielli Editori

E' un libro sconvolgente, opera di chi in carcere è diventato un grande scrittore, che scrivendo riesce a sopportare quella morte al rallentatore che è il carcere a vita, l'ergastolo ostativo, il "fine pena mai".
Sono racconti in parte veri, in parte romanzati, che rispecchiano la violenza di chi ha potere su i carcerati e l'ansia di libertà, di giustizia, l'amicizia profonda che si stabilisce fra compagni di pena.
Quando si legge di casi reali di giovani rei di aver partecipato a qualche manifestazione, o di aver reagito alla forza pubblica, che entrati in carcere in piena salute ne escono avvolti in un lenzuolo e con sul corpo i segni di pestaggi selvaggi, si vuol credere che si tratti di casi eccezionali, poi si pensa a quello che è successo durante il G8 a Genova e si comincia a dubitare. Il carcere che dovrebbe essere scuola di riabilitazione si rivela un centro di abbrutimento per i carcerieri e di annullamento della personalità dei carcerati a cui questi si ribellano con la violenza, carcerieri e carcerati egualmente vittime di un sistema degradante.
Leggendo questo libro ci si sente in colpa per avere avuto un'infanzia felice, una famiglia che ci ha protetto e aiutato a crescere e ci si domanda come saremmo stati se fossimo stati lasciati abbandonati a noi stessi, orfani o con genitori in carcere, o assenti, forse ognuno di noi avrebbe cominciato con qualche furtarello e poi sempre qualcosa di più grosso, fino a che, contro la nostra volontà, ci sarebbe scappato il morto e la galera.
Il bambino criminale - l'autobiografa della sua infanzia- diventa criminale per colpa di chi dovrebbe guidarlo nella vita; prima la nonna che lo incita a rubacchiare del cibo al mercato, mentre lei, chiacchierando distrae il venditore. Scoperto, si becca uno schiaffo dalla nonna- quante volte ti devo dire di non rubare- e poi a casa se ne becca un altro per essersi fatto scoprire, poi la maestra che lo sospende per dieci giorni per aver portato a scuola un gattino, poi, in seguito alla separazione dei suoi, il collegio, dove religiosi di poca carità cristiana incrudeliscono con punizioni sproporzionate per un bambino ansioso di affetto e di libertà. Questo tipo di educazione potrebbe costituire un manuale su " Come ti costruisco un criminale".
Gli uomini ombra, invisibili e dimenticati da tutti , morti viventi, perché irreali come le ombre, eppure capaci di forte amicizia e altruismo come i quattro rinchiusi nella stessa cella, Tiziano figlio di un boss diventato assassino per l'obbligo di vendicare l'assassinio del padre, Pietro che aveva ammazzato la moglie e l'amante, Giosuè che aveva ammazzato una decina di persone che volevano ammazzare lui, e Nicola che viveva nel ricordo della moglie che lo aspettava da otto anni e non riusciva mai a vederlo. Era l'unico che aveva ancora una ragione per vivere. Per lui, perché lo trasferiscano al nord dove sarebbe stato più facile vedere ogni tanto la moglie gli altri tre dopo un tentativo di fuga fallito sono pronti a sacrificarsi. Finalmente Nicola può incontrare la moglie e gli altri tre sono finalmente liberi, le loro anime hanno lasciato i loro corpi martoriati di botte.
Le carceri italiane scoppiano. Molti detenuti non hanno nemmeno una branda o un materasso e dormono sdraiati per terra. Questo succede oggi nella civilissima Trieste. Molti dei detenuti non hanno compiuto altro reato che quello inventato da un governo razzista: il reato di clandestinità; molti altri sono poveracci che se fossero stati difesi da un bravo avvocato e non da un poco coscienzioso avvocato d'ufficio sarebbero fuori. Tutti avrebbero diritto a poter svolgere un lavoro, a studiare, a fare sport, a ricostruirsi un surrogato di vita, in particolare agli ergastolani, a coloro a cui la società dice: Lasciate ogni speranza o voi che entrate.
Spesso mi viene in mente un fatto di cronaca di qualche anno fa: Roma, una stazione della metropolitana. Due donne, un'italiana e una romena litigano, per quelli che vengono definiti futili motivi, una precedenza e una spinta forse involontaria, un insulto alla romena che reagisce con un'ombrellata al volto dell'altra. Disgrazia volle che la punta dell'ombrello le si conficcasse nell'occhio e raggiungesse un punto particolarmente delicato del cervello da provocare la morte. Chiaramente un omicidio preterintenzionale. Ma la romena è stata condannata per omicidio premeditato. Evidentemente in previsione del futuro litigio in metropolitana si era armata di un ombrello.
Quanto si dovrà aspettare perché il carcere possa assolvere davvero la funzione rieducatrice? Come si può pensare che una pena così barbara come l'ergastolo ostativo, che non lascia nessuna speranza di un futuro, possa rieducare?
Mi auguro che questo libro, oltre ad essere un eccellente esempio di letteratura vissuta, serva a sensibilizzare tutti coloro che sono "cittadini rispettabili", che spesso non per merito loro ma grazie a un po' di fortuna non hanno mai conosciuto il carcere, alla necessità di abolire l'ergastolo, a non dividere la popolazione fra onesti- quelli fuori- e delinquenti-quelli dentro- Leggendo questo libro si impara quanta umanità può esserci anche "dentro", forse più dentro che fuori.
Margherita Hack
 

28/6/2011

Aurelio Zucchi
“Appena finirà di piovere”
Editore Global Press Italia (06/2010)

Lo stile discorsivo e colloquiale è usato abilmente dall’autore per esprimere i ricordi, le meditazioni, le inquietudini e le amarezze che assediano la sua anima. Viaggia nel suo io, guarda al percorso tortuoso della vita, e con candore poetico, scrive, creando vibrazioni sottili e coinvolgenti, che si saldano al lettore. La sua alta capacità sta nel cogliere un mondo segreto attraverso simboli esterni, anche semplici e quotidiani, inondandoli di un nuovo valore. Il poeta richiama in vita particolari atmosfere, un universo vario di oggetti, luoghi e persone sono cantati con uno stile personale. Il contrasto tra passato e presente costituisce il nodo di tutta la poesia “Zucchiana”, e con i suoi cangianti stati d’animo armonizza l’impulso creativo. La raccolta eredita le suggestioni, le soavità e i tremori del suo animo.
ROSA MESSUTI

 

27/6/2011

Quando la morte ascolta di Mario Malgieri

Book Sprint Edizioni
www.booksprintedizioni.it

Narrativa racconti

L’altopiano insanguinato

“Una singola morte è una tragedia,
un milione di morti una statistica”
(Joseph Vissarionovich Stalin)

 Prima guerra mondiale, altopiano di Asiago, un ospedale da campo nelle immediate retrovie, feriti, morti, tanto dolore e sofferenza, e su tutto la presenza, invisibile, ma certa di una signora in nero, pronta a cogliere, nelle miserie di uomini ridotti all’abbrutimento, quegli esili aliti di vita che ancora sopravvivono, in uno scenario mosso dalle stagioni, ma con una trama che non cambia mai, fra piccoli e grandi episodi che, sull’esile confine fra l’esistenza e il dopo, fanno emergere caratteri in altro modo non facilmente evidenziabili: è di questo che parla Mario Malgieri con Quando la morte ti ascolta.
Sono racconti, tutti uniti pero da un tessuto connettivo che li fa apparire dei capitoli di un romanzo, non certo lungo, anzi breve, ma che finisce con l’essere una cruda accusa a tutte le guerre.
E non è un caso se nell’ultimo brano l’omelia del cappellano militare, unico superstite del gruppo di quell’ospedale, consista in accorati inviti a meditare affinchè l’uomo non ricada in simili dolorose tragedie, ma le sue parole vengono coperte dal frastuono del discorso del Duce che annuncia l’inizio della seconda guerra mondiale.
Di libri sul primo conflitto ne sono stati scritti diversi, ma pochi sono degni di essere ricordati, come Un anno sull’altipiano, di Lussu, Trincee di Salsa e Addio alle armi, di Hemingway che curiosamente compare in uno dei racconti. Ebbene, Quando la morte ti ascolta non sfigura di certo in un raffronto con queste opere ben più note, perché vi è ben rappresentata l’insensatezza della guerra, la tremenda solitudine che grava su uomini che lentamente muoiono dentro, in un’angoscia quasi palpabile.  Protagonista principale è il capitano medico Carbonari, un calabrese giunto fin lassù per portare un po’ di speranza a chi soffre, un uomo che sa cogliere nella morte il senso della vita, consapevole che la sua è una battaglia persa in partenza, perché salvare delle vite non vuol dire salvare l’umanità, bensì solo combattere una lotta impari contro un nemico oscuro, che a volte si materializza in una signora in nero, e che alla fine resta l’unico vincitore.
La scrittura di Malgieri è asciutta, senza essere scarna, non c’è mai il rischio di una caduta in una facile retorica antimilitarista, i personaggi sono ben tratteggiati e le vicende sono di quelle che ti invogliano a proseguire fino al termine senza pause.
Quando la morte ascolta è quindi un libro di eccellente qualità e di conseguenza ne raccomando vivamente la lettura.

Mario Malgieri nasce a Brescia nel 1945, ancora sotto le bombe alle quali sfugge per pura fortuna.
Lavora per più di quarant’anni come manager in grandi multinazionali, occupandosi di tante cose ma tutte molto distanti dalla letteratura, alla quale invece si dedica nel tempo libero come lettore accanito e onnivoro.
Risiede a Genova da moltissimi anni e attualmente è un pensionato che, avendo finalmente del tempo libero, si cimenta nella scrittura, principalmente narrativa breve, e pubblica in internet su numerosi siti di appassionati. Oltre che in rete, i suoi scritti sono presenti su carta in molte antologie, alcune delle quali legate a concorsi letterari cui ha partecipato con successo.
Renzo Montagnoli


 

V Concorso Internazionale Libri Editi ed Inediti “Il Saggio”

Al Concorso hanno partecipato 227 autori, italiani e stranieri, di cui 20 hanno avuto accesso alla fase finale.

 Sezione Poesia Edita

Vincitore assoluto:

Dato Magradze, (voti 174 su 180), candidato per la Georgia al Premio Nobel per la Letteratura. E’ stato Ministro della Cultura nel governo di Shevardnadze. Il suo libro "Salve" è tradotto in diverse lingue (in Italia da Nunu Geladze). É Ambasciatore della cultura in Georgia per l'Università della Pace.

***

Secondo posto (ex equo, voti 168 su 180) conferito all’opera:

Appena finirà di piovere

di Aurelio Zucchi – Editore Global Press Italia (06/2010)

Motivazione

Appena finirà di piovere

Aurelio Zucchi in questa sua prima opera poetica ci racconta con audace maestria il suo “poetare” che pur rimanendo fedele ad una poetica tradizionale se ne discosta col suo stile informale ed originale dove la parola ha un peso determinante per dar volto a versi che si dispiegano tra scenari compositi in bilico tra passato e presente. La parola è anima cangiante che si appropria di una dialettica in continua evoluzione dove la perfezione diventa il suo agognato approdo. La parola ha una diversa valenza e quindi la poesia esce dalla staticità verbale e diviene dinamica:

“fatemi uscire dalla cella/ delle parole consumate e finte/ che portano la sete ardente/ della verità e della conoscenza./ Ai sapienti del linguaggio/ implorerò un alfabeto in più/ e sceglierò perfetti i suoni/ per ogni cosa di cui io parli.” (da “Respirare me”).

Questa silloge, che si articola in sei sezioni (Io e gli altri - Lui - Io e me - Lei - Mare - Notte) l’autore l’ha dedicata alla madre scomparsa e nella poesia “A mia madre” riesce finalmente a buttar fuori e a rendere pubblici quei sentimenti ed affetti intimi che, per pudore come lui stesso dice, non riesce a trovare coraggio per esprimerli:

“Se il tempo la smettesse/ di ricordarmi la tua assenza,/ avrei più tempo diverti qui,/ in carne ed ossa,/… Mi frusta a sangue, oggi, la smania d’afferrarti tutta…”

Il tempo è uno dei temi dominanti della disquisizione poetica dell’autore, il tempo che scorre inarrestabile. Il tempo fisico degli elementi in contrapposizione al tempo dell’anima sono concatenati ad un filo ripercorribile attraverso la sua personale interpretazione come nella poesia “Anima e corpo in ginnica tenuta” dove si sente, qui più che in ogni altro componimento, l’attanagliante tempo che continua la sua marcia ed egli imbrigliato nella sua inadeguatezza

“Hai mai provato, figlio mio,/ ad inseguire il veloce tempo/ in modo da non perderlo di vista/ neanche quando improvvisamente/ imbocca la più stretta delle curve?/ a tallonarlo, senza alcuna tregua/ fino al preciso punto d’affiancarlo?/ Io si, nella continua corsa,/ anima e corpo in ginnica tenuta,…”.

Oppure, in “Aspetterò” che scandaglia tra i ricordi della giovinezza e si smarrisce in essi e afferrare vorrebbe il tempo per riportarlo ai vent’anni:

“…accarezzando i ricordi,/ annuserò il bel tempo/ del mio tempo andato/…aspetterò paziente/ soltanto il treno/ che mi riporterà ai vent’anni.”

Nella poesia “Caro me” si racconta tra delusioni e smarrimenti, inchiodato dai ricordi che fanno capolino dal passato, le cui orme sbiadite dal tempo tenta di afferrare e di eludere la corsa armandosi di sogni e fantasia:

“Beato te che trovi il tempo/ di ammazzarlo, questo tempo,/ con l’arma aguzza della fantasia…”.

Aurelio Zucchi si rivela cantore indomito della vita come dell’amore, con una forza interpretativa atta a rendere ogni componimento poetico una piccola alchimia di suoni, profumi, visioni che si dilatano e trovano la loro dimensione in un lirismo dal forte impatto evocativo. Struggenti e tenere trovo le liriche che cantano l’amore per la Donna nelle diverse fasi della vita come “Giochi di carne”, “Quella volta che m’innamorai”, “A te che piangi nella tua ora stramba”.

Un plauso particolare alle composizioni “La mia anima” e “Cerco poesia in questo tempo strano”. Nella prima troviamo l’autore smarritosi tra i meandri della propria anima ritrosa nel compiacere una più allargata visura, complice la notte che interiorizza i pensieri occulti e le paure. Nella seconda invece vuole riappropriarsi dei sapori autentici della vita, svilita dai luccichii fasulli di una realtà aliena:

“Qualcuno mi dica dov’è che son finiti/ gli allegri caroselli di tante umili genti,/… metalli, argenti, bronzi e ori finti/ si son sostituiti ai riflessi della vita/… ridatemi il prezzo che ho pagato/ per l’illusione di abitare in pace/…”.

Non posso non essere di parte nel venerare l’amore che accomuna entrambi, l’adorato Mare che oltre la sua bellezza che rapisce, simbolo della scoperta e dell’ignoto, per l’autore diventa il legame indissolubile alla sua Terra che è il Sud, è il passato che ritorna ancora una volta, cristallizzato nel blu di mare e cielo. Tra mirabili scenari e nostalgie latenti s’incastonano tra i versi e il cuore le vestigia dell’immortale Amico, decantate con rara sensibilità in “Mediterraneo e basta”, “Pietruzze colorate” e “Del mare”.

Raramente mi sono scoperta a rimirar tanta bellezza tra parole e versi e di questo devo ringraziare l’autore per il dono inconsapevole che ci ha fatto.

Cosma Alessandrini

Giuria costituita da Cosma Alessandrini (Poetessa, pittrice), Rosa Messuti, (Insegnante, poetessa, scrittrice), Assunta (Carmela) Camparano (Operatrice scolastica, cultrice di poesia)

Eboli, 25 Giugno 2011

 

21/6/2011

Cambio di stagione di Maurizio Cometto

Edizioni Il Foglio
www.ilfoglioletterario.it

Narrativa romanzo
Collana Fantastico e altri orrori

L’orrore del vivere quotidiano

“Tutti smettono di parlare. Una sottile tensione s’insinua nell’aria. Gli occhi scrutano il marciapiede deserto al di là della doppia fila di vetri.
Gli sguardi sono quasi timorosi. Forse qualcuno ha paura. Paura che le porte, questa volta, si aprano, e una forza misteriosa ci trascini tutti fuori per abbandonarci lì in quella stazione per sempre.”

E con questo è il secondo che leggo sul tema del profondo malessere che permea l’attuale società.
Immemori delle radici, la conduzione del presente si trascina in una apatica e corrosiva ripetitività, a cui l’individuo cerca invano di sfuggire, così che le uniche differenze fra l’oggi e il giorno precedente sono esterne al comportamento e derivano da un accentuarsi della crisi economica che mina, più che un ideale, una visione edonistica dell’esistenza; in tal modo l’unico imput a cui involontariamente ci si è assoggettati viene a cadere e non rimane nulla per un minimo di senso da dare alla vita. E’ un mondo che non sogna, ma che è percorso da incubi anche ad occhi aperti, in tutta una serie di comportamenti dirompenti frutto di un’innata e disperata solitudine, con tutte le inevitabili conseguenze che possono andare dall’apatia alla dissociazione, dalla depressione alla fobia.
Cambio di stagione di Maurizio Cometto ha l’impronta del romanzo horror, ma è meno fantastico di quanto possa sembrare con una lettura superficiale, perché in effetti è un disumano grido di dolore per una condizione determinata dal profondo vuoto che accompagna i giorni della vita, in cui tutto ha un’apparenza che non sembra lasciare trapelare la realtà. Ed è di questo che parla l’autore piemontese, in un romanzo, fatto di episodi concatenati,  in cui l’ultimo brano (L’angelo della morte), di suggestiva e profonda intensità, sancisce una continuità della narrazione tanto da poter considerare i singoli racconti dei veri e propri capitoli. 
Là dove Orwell con 1984 ci fa conoscere un mondo futuro attraverso una fantasia che poi troverà una incredibile coincidenza con la realtà, Cometto invece ci mostra in modo implacabile, ma disperato, una situazione già esistente, ricorrendo alle stesse tecniche di creatività del grande autore inglese.
La sensazione che si prova è che racconto dopo racconto ci si avvii a una progressiva disgregazione di quella che riteniamo una realtà acquisita, consolidata, e scoprire il sipario in questo caso non è motivo di gioia, bensì di angosciante orrore per l’avventurarsi in un mondo parallelo che se ai nostri occhi appare irreale, in realtà è ciò che esso veramente è e che fatichiamo a vedere.
Cometto, rispetto alle sue opere precedenti, effettua indubbiamente un notevole salto di qualità, con un lavoro maturo, frutto di riflessioni, di esperienze personali nel mondo del lavoro, andando ben oltre la consueta narrativa fantastica, di cui tuttavia si avvale per meglio rappresentare il suo pensiero.
Ne sortisce una visione desolante dell’umanità,  spogliata da ogni orpello, liberata da ogni trucco, un brulicare di vite che si agitano e si spengono in un girone infernale di cui tutti sono vittime e carnefici.
Detto così sembrerebbe trattarsi di un romanzo visionario, ma, purtroppo, è solo l’effettiva realtà.
Da leggere, anzi assolutamente da leggere.

Maurizio Cometto è nato a Cuneo il 29.09.1971. Nel marzo 2006 è uscito presso le edizioni Il Foglio il romanzo Il costruttore di biciclette. Nel settembre 2008 è uscita sempre per le edizioni Il Foglio la riedizione riveduta e corretta della sua raccolta di racconti L’incrinarsi di una persistenza. Laureato in Ingegneria Meccanica, vive a Collegno.
Renzo Montagnoli

 

8/6/2011

Andrea Camilleri
Gran Circo Taddei
e altre storie di Vigàta

 Sellerio editore Palermo

Otto microstorie vigàtesi nella cornice scenografica dell’italico ventennio fascista.

Come recensisce tutti i libri di Camilleri pubblicati dalla casa editrice Sellerio, Salvatore Silvano Nigro, sono otto i racconti che qui fanno libro e non semplice raccolta. Non considerare raccolta queste storie, schegge impazzite dalla tastiera del pc di Camilleri, vuol dire che si procede in un continuum crono-logico narrativo e stilistico: un rutilante susseguirsi di situazioni che suscita il riso immediato e, metaforicamente, amarezza profonda. Se la metafora domina e orchestra personaggi e fatti, l’immarcescibile lingua vigàtese sbeffeggia e satireggia come un buffone a corte. Questi racconti sono forse i più corrosivi ed invidiabilmente amabili scherzi letterari che il Maestro fa agli incauti lettori, ormai pronti a subire qualsiasi sua arditezza artistica. Cesellati insieme, incastrando con arguzia le trame, certo che il romanzo potrebbe prendere corpo e incorporare le microstorie vigàtesi in una macrostoria italica. La Storia, quella Storia, che mai così contemporanea non è stata, si presenta ai nostri occhi non come mera narrazione di ciò che fu, ma trasfigurata in ciò che ne conseguì; le ideologie rappresentate attraverso i comportamenti, le psicosi degli uomini, asserviti al potere dominante e svuotati di personalità propria. Un’umanità quasi fittizia si aggira tra le ombre dell’epoca fascista e tutto viene investito da retorica baluginante e triste presagio di velleità mortificate. É l’espressionismo della violenza che deforma volti in maschere e risate crasse in ghigni. Vigàta, teatro sublimato del fascismo, è una sorta di palcoscenico ideale ed idealizzante in cui si esaltano miti e fandonie non mai sopiti. La galleria umana intride ignobiltà e millantata virilità, tra fimmine ardimentose, devote alla causa, camerati e federali e gerarchi orwelliani e garanti della fede al Capo e paventati comunisti che da congiurati, con un colpo d’ala, sono trasformati in perseguitati: pantomima e derisione. Che dire di scene alla Quentin Tarantino o che fanno il verso a certe pillicule di covviboisi; gli anni della Liberazione amiricana rivissuti e reinterpretati tra scocci di revorbari, giochi d’azzardo in bische clandestine, denaro in discesa libera e una rapina a regola d’arte con lupara d’ordinanza che lascia scornati i soci di un circolo. Il rischio e il pericolo di portare a conoscenza intrallazzi e tresche amorose viene da un aceddro, Il merlo parlante, che ripete le frasi compromettenti che sente. Il culto dell’italianità, espresso nella mania di italianizzare i nomi stranieri e di trasformare quelli italiani con le consonanti finali, è uno dei puntelli del Gran Circo Taddei. Trame tutto sommato semplici si complicano per scarti della sorte e come riporta Camilleri, la voglia del complicare le cose è tutta siciliana: “ Cito una bellissima frase che Moravia un giorno disse a Sciascia: "La differenza tra i milanesi e i siciliani è che i milanesi tendono a semplificare un fatto complicato. I siciliani operano all’inverso: un fatto semplicissimo tendono a complicarlo". E le complicazioni portano a sotterfugi e tradimenti”. Ironia a tinchitè, erotismo sommerso che fa capolino da tutte le parti alla maniera di Brancati, tragicomicità e surrealismo alla Pirandello, sono alcuni degli ingredienti naturali che fanno da terreno di coltura per l’arte camilleriana. Un altro tassello fascista, con la sua politica demografica di incrementare le nascite, si trova ne La fine della missione; chi non può avere figli trova la soluzione a dir poco boccaccesca con pace santa della chiesa e dei mariti. Come dire il fine giustifica i mezzi. Un giro di giostra è forse il più solipsistico delle storie e una dolente riflessione esistenziale. La bruttezza fisica del protagonista è una condanna che relega alla solitudine più triste, quando una luce pare illuminare quella vita spesa vacuamente, la fine lapidaria lascia schiantati. La trovatura è veramente una trovata geniale, soprattutto nella conclusione, chi cercava non trova e viene trovato da chi non cercava. Tutto torna secondo un caso capriccioso o forse giusto? La rivelazione è una novella di beffa architettata, il comunista arraggiato, Prestìa, riceve la grazia della rivelazione nell’apparizione di Gesù, tutta racchiusa in quella frase” facitilosapiri a tutti…sgerzo fu”. Ogni racconto contiene uno spezzone di Storia, ogni finale è esemplare e dà a ciascuno quello che ha meritato. C’è come una sorta di giustizia a seconda delle colpe, Camilleri, al pari di un novello Caronte, assegna ai personaggi la loro etterna collocazione. Aveva perfettamente ragione l’editrice Elvira Sellerio alla quale il libro è dedicato, dopo la lettura, ebbe a dire all’autore di essere tornato il Camilleri dei vecchi tempi.

Andrea Camilleri (1925), è autore di oltre 60 romanzi tra storici, civili e polizieschi, e di diverse raccolte di racconti, tradotti in più di 30 lingue. Vincitore di numerosi premi in Italia e all’estero, è noto al grande pubblico anche per i romanzi dedicati alle inchieste del commissario Montalbano, della casa editrice Sellerio, da cui è stata tratta la fortunata serie televisiva. Tra i tanti titoli ricordiamo: “La forma dell’acqua”, “Il cane di terracotta”, “Il ladro di merendine”, “La voce del violino”, “La stagione della caccia”, “Il birraio di Preston”, “La concessione del telefono”, “La gita a Tindari”, “Maruzza Musumeci”, “Il casellante”, “Il campo del vasaio”, “L’età del dubbio”, “Un sabato, con gli amici” “Il sonaglio” “ La caccia al tesoro”, Il sorriso di Angelica…
Arcangela Cammalleri

 

30/5/2011

Mordecai Richler
La versione di Barney

Barney’s Version
Ed. Adelphi

La versione di Barney pubblicato in Italia nel 2001, è stato un caso letterario clamoroso; un libro irriverente e politically incorrectuna autobiografia non dichiarata (sempre  smentita da Richler) nella quale si riversano le esperienze vissute dal settantenne Barney Panofsky. È ritornato d’attualità  quando il film del regista canadese Richard J. Lewis, tratto dall’opera letteraria, è stato presentato al festival di Venezia. Barney Panofsky è interpretato da Paul Giamatti, nel cast figurano anche Dustin Hoffman (nella parte del padre), Rosamund Pike e in un cameo David Cronenberg. In Italia è uscito nelle sale il 14 gennaio 2011.

Il film non è all’altezza del libro, non basta fumare e bere in continuazione per farsene l’dea di un uomo perso nei suoi vizi e nelle sue dissolutezze, il Barney letterario è un uomo complesso, a volte, contraddittorio, squallido e anche volgare, ma capace di provare un grande amore per una donna e per i figli. Consacrato come figura strabordante nei suoi eccessi, nel mettere in luce e alla berlina il conformismo sociale e sbeffeggiare l’establishment culturale ( letterario, artistico, televisivo…), è un personaggio scomodo,  sempre pronto a sgomitare,  ma geniale e anche simpatico.

Incipit: “Tutta colpa di Terry ( McIver che insinua volgari calunnie sul suo conto). E’ lui il mio sassolino nella scarpa. E se devo essere sincero, è per togliermelo che ho deciso di cacciarmi in questo casino, cioè di raccontare la vera storia della mia vita dissipata.” Così inizia, con un  pretesto letterario, il racconto della vita di  Barney Panofsky, proveniente dal quartiere ebraico di Montréal, approda a Parigi con velleità letterarie per poi far ritorno in Canada dove  tramite  una sua società di produzione che non a caso si chiama Totally Unnecessary Productions, sforna serie televisive antesignani della tv trash,  abbastanza fesse che  gli rendono successo e denaro. Tre mogli e tante altre donne intercalano i suoi settanta e passa anni. Clara, l’artista sciroccata,  faceva parte del gruppo di sciamannati che frequentava a Parigi, sua moglie per poco tempo. La seconda signora Panofsky, una miliardaria, logorroica detestabile. La terza moglie è l’amata Miriam dalla quale avrà due figli; Miriam la donna di quasi tutta la sua vita, sempre rimpianta e mai dimenticata. Tra flash back, l’immancabile sigaro ( Davidoff o Montecristo) tra le labbra, il bicchiere di whisky ( il Macallan “single malt” e il Cardhu) in mano, si consuma in volute di fumo e afrori alcolici e di donne la sua esistenza, una miniera di battute corrosive e dissacranti corredano affermazioni e dialoghi, in un crescendo di fellonie che fanno, poi, solo sorridere. Barney è un personaggio che fin dalla prime pagine ami o detesti, non ci sono alternative, vizi e virtù del mondo da lui frequentato ci offrono spaccati di storia contemporanea imperdibili. Quanta arte sia sedicente, mistificazione è espresso negli  obbrobri dell’amico Leo “Che lavorava ai suoi immani trittici mischiando i colori in grandi secchi, e poi applicandoli sulla tela con uno strofinaccio da cucina. A volte lo faceva mulinare sopra la testa, poi arretrava di qualche passo e lo lanciava e lo faceva lanciare anche agli amici! Quarant’anni dopo le sue “opere” sarebbero state esposte alla Tate, al Guggenheim, al MOMA, alla National Gallery di Washington e contese all’asta da piazzisti di titoli ad alto rischio e speculatori vari.”  È un libro spassoso e anche amaro uscito dalla penna di uno degli scrittori più ironici e sferzanti, il suo linguaggio, venato di umorismo nero di stampo ebraico e  a tratti scurrile, è ricco di digressioni, divagazioni  e citazioni a gogo. Leggendo la storia di Barney è facile confonderla con quella reale dell’autore, quando  rivolgendosi a chi legge scrive: “ Ma questa è la mia storia, ed è  l’unica che ho,  quindi se non vi di spiace vorrei raccontarla a modo mio.

L’autore. Mordercai Richler nato a Montréal, nel Quebec, nel 1931  è morto il 3 luglio 2001 per un tumore ai polmoni, è sepolto al Mount Royal Cemetery. Considerato uno dei maggiori romanzieri di lingua inglese, ha scritto numerosi libri: Gli acrobati 1954, Figlio di un eroe minore 1955, Scegli il nemico1957, L’apprendistato di Danny Kravitz 1959, L’incomparabile Atuk 1963, Presuntuoso 1968, Solomon Gursky è stato qui 1989 e… tanti altri. Dopo la Versione di Barney del 1997, ha lasciato due inediti The Rotten People e Back to Ibiza.
Arcangela Cammalleri

 

27/5/2011

Le tre morti di Aloysius Sagredi di Renato Pestriniero
Copertina di Vincenzo Bosica

Edizioni Solfanelli
www.edizionisolfanelli.it
Narrativa romanzo

Una sinfonia fantastica

“Aveva quasi completato il giro delle sale alla Scuola Granda di San Rocco, a quell’ora praticamente deserte, quando si trovò di fronte a un trittico di ignoto dal titolo Le tre morti di Aloysius Sagredi. Il dipinto centrale raffigurava una morte per impiccagione, quello a sinistra per sbranamento da parte di abominevoli animali di fantasia, quello a destra per annegamento. Nella descrizione del trittico la guida parlava di una leggenda risalente al XVI secolo secondo la quale un uomo era stato condannato attraverso un maleficio a subire una triplice morte.”

Il fantastico è un genere in cui, più di ogni altro, è possibile dare sfogo alla propria fantasia e Renato Pestriniero di creatività ne ha in misura notevolissima, come lo dimostra in questo romanzo ambientato in una Venezia non da cartolina quale conosciamo, ma da corpo pulsante, quasi un’entità autonoma a sé, capace di incantare, ma anche di stordire, di far passare senza accorgersi il limite apparentemente invalicabile fra realtà e sogno, in un coacervo di sensazioni che lentamente avviluppano il lettore in una tela di ragno dalla quale si cerca di fuggire, ma nella quale si è contenti di restare.
La vicenda, avvincente e coinvolgente, è di quelle che di certo non ci si aspetta, ma se agli inizi è difficile, anche se non impossibile, esserne attratti, pagina dopo pagina diventa quasi un’ossessione, alla ricerca di una fine che poi ci si domanderà se è quella vera, o se anche noi, stregati da calli e canali, siamo condizionati da un’irrealtà alla quale piacevolmente ci siamo abbandonati.
In una eterna lotta fra il bene e il male si combattono entità sconosciute, l’una tesa a riportare al khaos e l’altra al kosmos universali, e come pedine di un’immensa scacchiera vengono mossi tre personaggi dai cognomi assai simili e che da lì a poco compiranno i medesimi anni lo stesso giorno. E’ un combattimento titanico, senza esclusione di colpi, e grondante di sangue, in una città con un fenomeno dell’acqua alta superiore al consueto, in cui tutto sa di astratto pur nella concretezza di una realtà vecchia di secoli.
Non tutto ciò che appare è quel che è, e quel che può sembrare bene è invece il male e viceversa, due facce dello stesso foglio, in cui quella in ombra, se girata, viene alla luce.
Pur se predominante l’aspetto gotico ci sono tuttavia ricorsi alla fantascienza e anche all’horror, quest’ultimo che si trasforma da psicologico a realistico con una moltitudine di ratti di fogna deliranti nel loro continuo appetito e che invadono la città, una scena descritta talmente bene da avere l’impressione di assistere a uno spettacolo cinematografico.
Su tutto, comunque, prevale l’aspetto onirico, con il continuo ricorrere alla metafisica per cercare risposte, per disancorarsi da una realtà troppo restrittiva per poter comprendere i fondamenti dell’esistenza, e questo è l’elemento che più di altri, che pur sono di ragguardevole fattura, impreziosisce e nobilita questo romanzo, che alla fine, a differenza di molti altri di genere, non vuole solo stupire, ma invita, quasi perentoriamente, a riflettere.
Devo ammettere che i primi capitoli non mi hanno attratto in modo irresistibile, complice una certa verbosità nel rapporto fra uno dei protagonisti e una ragazza, ma poi, quasi all’improvviso, ormai calato evidentemente in questo lungo sogno, ne sono diventato parte e allora tutto è cominciato a scorrere come un fiume in piena, rotto ogni indugio, superata ogni apparente difficoltà; mi sono lasciato andare, ho amato quest’atmosfera fra il torbido e l’irreale, e ho proseguito diritto, quasi con impeto, fino all’ultima pagina, un finale che non chiude l’opera, ma che lascia spazio ad altre interpretazioni, spiazzante quindi, ma che proprio per questo mi ritorna ogni tanto, con un invito alle più svariate riflessioni nella infinita ricerca di ciò che siamo.
E come tutti i sogni, il risveglio ce li fa rammentare in una misura non ben definita, un ricordo degli aspetti salienti che si riaffaccia e che invita a porsi domande, uno stimolo inconscio frutto di un’irrealtà che nello scontrarsi con la concretezza di ogni giorno dimostra che l’esistenza non è solo un continuo svolgersi di tempo da un’alba a un tramonto, ma che c’è ben altro che possiamo cercare di scoprire liberandoci dall’arida essenzialità del presente.
Le tre morti di Aloysius Sagredi è un libro stupendo, una perla preziosa che va ben oltre la sua impropria classificazione di romanzo di genere fantastico. 

Renato Pestriniero, nato a Venezia nel 1933, sposato, una figlia. Fino al 1988 capo reparto presso filiale veneziana di multinazionale  svizzera per ispezioni tecniche, merceologiche e certificazioni. Vive e lavora a Venezia.
Tra le sue opere pubblicate: Il villaggio incantato (Bologna, 1982); Il nido al di là dell’ombra ( Chieti, 1986); Di notte, lungo i canali… (Treviso, 1994); Una voce dal futuro (Milano, 1996); Accadimenti. Itinerari veneziani insoliti ( Rimini, 2000); L’osella misteriosa del doge Grimani ( Spinea, 2001); Settantacinque long tons (Bologna, 2002); C’era una volta la Luna (Bologna, 2005); Le Torri dell’Eden (Bologna, 2008).
 
Renzo Montagnoli

 

24/5/2011

Massimo d’Azeglio
Il sogno di una Italia diversa

di Paolo Pinto
Introduzione dell’autore

Edizioni Solfanelli
www.edizionisolfanelli.it

Storia biografia
Collana Saperi

Un messaggio quanto mai attuale

“Credo che non ci sia Paese al mondo dove abbondi nel popolo il buon senso, e dove insieme comandi tanto quella minorità che non ha cultura, né carattere, né giudizio…
…Onde l’Italia veramente risorga v’è qualche cosa che passa innanzi all’Indipendenza e alla libertà…V’è una base da porre a fondamento di tutto l’edifizio, senza la quale si sarà edificato sulla rena; la base della probità politica, del senso morale.
                                        Massimo d’Azeglio”

 Massimo Taparelli, marchese d’Azeglio, più conosciuto come Massimo d’Azeglio, in quanto lui stesso detestava quel cognome così poco aristocratico, è un personaggio famoso, almeno di nome, ma se ai più si chiede a che cosa sia dovuta questa sua notorietà, le risposte diventano vaghe, perché ben pochi riescono a inquadrare esattamente questa importantissima figura del nostro Risorgimento. Quasi con lo scopo di fare ampia chiarezza Paolo Pinto ne ha scritto al riguardo un’ampia, esauriente e interessante biografia.
Massimo d’Azeglio è uno dei non infrequenti geni italici che spuntano qua e là nel nostro paese, ma alla causa della nostra indipendenza poco interessano le sue qualità di pittore, un po’ di più invece quelle di letterato, visto che è l’autore di opere tese a riscoprire l’italianità come Ettore Fieramosca, o la disfida di Barletta, e, soprattutto, Degli ultimi casi di Romagna, ispirato ai moti di Rimini del 1845, e I miei ricordi, autobiografia di grande valenza politica.
Animo irrequieto, soprattutto in gioventù, girò in lungo e in largo per l’Italia, non solo a caccia di gonnelle – il suo sport preferito -, ma anche per verificare sul campo le enormi e profonde differenze esistenti fra gli italiani dei vari staterelli in cui allora era diviso il nostro paese.
Sinceramente liberale, ma non solo puramente idealista, bensì anche dotato di un invidiabile pragmatismo, si adoperò per unificare in unico stato tutti gli italiani, e non lo fece da comprimario, ma da regista, sia pure non così eccelso come il suo amico e avversario Camillo Benso conte di Cavour.
La consapevolezza delle tante differenze esistenti fra italiani del nord, del centro e del sud, lo portò a considerare l’ipotesi, non certo fantasiosa, di conservare gli stati preesistenti, unificandoli tuttavia in una grande confederazione sul modello dell’unità tedesca.
Come è noto, non riuscì nell’intento, e assume quindi ancor più significato la sua famosa frase “Abbiamo fatto l'Italia ora dobbiamo fare gli italiani”. Comunque, oggi, forse più che allora, si avverte l’esigenza di uno stato, libero e democratico, non accentratore, bensi strutturato come una confederazione.
Nonostante gli incarichi di rilievo ricoperti da d’Azeglio, fra i quali la Presidenza del Consiglio dei Ministri, la sua visione così avveniristica non poté concretizzarsi da un lato per l’immobilismo politico e istituzionale della monarchia sabauda,  e dall’altro per l’ostruzionismo pressante dei mazziniani e di quelle correnti innovative che nella seconda metà del XIX secolo sarebbero state poi chiamate socialiste.
Resta, comunque, un personaggio da onorare fra quelli che furono i padri fondatori dello stato Italiano, per la sua costante attenzione a pervenire all’unificazione delle popolazioni italiane; lui, che era piemontese, per primo si sentiva italiano, lui, che era aristocratico, per primo era liberale, per nulla conservatore, aperto al dialogo, abile diplomatico (sarà merito suo se le condizioni di pace imposte dall’Austria dopo l’infausto esito della prima Guerra di indipendenza furono alquanto ridimensionate nelle richieste avanzate dal vincitore e ovviamente a beneficio del Regno di Piemonte).
Inoltre, cristallino com’era, aveva ben capito che un nuovo Stato, come del resto ogni stato, per poter progredire necessita di probità politica e di senso morale, condizioni che evidentemente all’epoca latitatavano e che a distanza di 150 anni dall’Unità ancora reclamiamo a viva voce.
Scritto in modo snello, intercalando vita pubblica e privata, Massimo d’Azeglio è uno di quei libri che si leggono con grande piacere, con la consapevolezza di imparare qualche cosa di nuovo, o comunque di comprendere il perché di un’unità senza identità, di uno stato tanto lontano dai suoi cittadini quanto questi lo sono spesso fra di loro.

Paolo Pinto, giornalista e scrittore, coltiva con uguale passione letteratura e storia, convinto che la “finzione” letteraria possa significativamente contribuire alla ricerca della verità storica ed esistenziale.
Fra le sue opere di carattere storico-biografico ricordiamo:
Carlo Alberto - Il Savoia amletico (Camunia 1986 e poi Rizzoli-BUR 1990);
L’amore segreto di Cavour (Camunia 1990), racconto documentato e analitico della storia intensa e dolente di Nina Giustiniani e del giovane Camillo Benso di Cavour;
Vittorio Emanuele II - Il re avventuriero, (Mondadori, Le Scie, 1995; Mondadori, Oscar-storia, 1997; “Biblioteca storica” de “Il Giornale”, 1993);
Umberto I - Il Savoia che non voleva essere re (Piemme 2003).
È del 1994 la pubblicazione, per i tipi Aquarium, del pamphlet politico, con prefazione di Indro Montanelli, Una repubblica in rovina.
Tra i lavori di carattere letterario è stato curatore e prefatore di opere di Diderot, Balzac, Flaubert, Dickens, Stevenson, Baudelaire, Poe, Bontempelli, e dello stesso Azeglio. Di particolare rilievo la pubblicazione, nel 1990, per i tipi della Newton Compton, dell’opera di Proust, Alla ricerca del tempo perduto, la prima condotta nel nostro paese sul testo stabilito da Tadié, pubblicato in Francia da Gallimard nella Biblioteca della Pléiade.
Renzo Montagnoli

 

21/5/2011

La mia stirpe di Ferdinando Camon

Garzanti Libri
www.garzantilibri.it
Collana Narratori moderni

Grazie alla stirpe c’è l’immortalità

Si arriva a un momento della vita in cui, ricollegandosi idealmente al passato, si cerca di dare una soluzione all’eterno problema di ogni essere umano, cioè si aspira a che ci sia una continuità, a che resti una traccia di noi per il tempo in cui non ci saremo più.
Camon, nella dolorosa circostanza della grave malattia che colpisce il padre, cerca questo filo ideale che si perpetua nei secoli, così che ognuno di noi esiste perché qualcun altro è venuto prima e di lui portiamo segni inequivocabili, una parte del dna che accomuna i bisnonni ai nonni, ai figli dei nonni, cioè i nostri genitori, noi e i nostri discendenti, un segno indelebile, incancellabile che insieme costituisce traccia e presenza anche quando la nostra vita sarà cessata.
Il suo è un racconto in prima persona, in cui la figura paterna assume una dimensione quasi mistica e se in Un altare per la madre proprio il padre aveva elevato, con commosso omaggio, un’ara a perenne e perpetuo ricordo dell’amata scomparsa, in questo libro lo scrittore padovano diventa l’officiante di una liturgia commemorativa della figura del genitore, più presente nelle prime pagine, assente nominalmente nelle ultime, anche se sempre aleggia la sua personalità, perché la vita è così, perché di chi ci lascia  portiamo in noi, oltre che la memoria, alcuni tratti distintivi, così che di ognuno possiamo dire che è parte di una determinata stirpe.
E Camon, che non induce a una facile commozione, è particolarmente toccante quando, memore di una caratteristica familiare (la cisti che prima o poi cresce in testa), ogni volta che incontra le nipotine e ne accarezza i capelli, tasta per percepire se anche nel loro caso si annunci la piccola protuberanza.
Nella narrativa di questo scrittore le nascite e le morti appaiono per quel che sono, cioè un ciclo naturale a cui è impossibile sfuggire, e quindi, per quanto ami il padre, è perfettamente consapevole dell’ineluttabilità del destino, riuscendo anche a gestire un passaggio, che se pur normalissimo è comunque doloroso per chi vi assiste, con una sottile vena di distaccata ironia che, mano mano che le pagine si susseguono, assume anche note piuttosto marcate, con divagazioni, ma non fuori tema, sull’epoca attuale.
Il padre proveniva da quella civiltà contadina, ora scomparsa, avara di ricchezze materiali, ma solida di sentimenti, mentre ora, che abbiamo tutto a portata di mano, avvertiamo un continuo vuoto dentro.
Il libro cresce soprattutto dalla seconda metà in poi, con i capitoli dedicati all’incontro con il Papa in Vaticano, un Benedetto XVI letteralmente fotografato dalla mano dello scrittore, e con il viaggio in treno a Venezia con le due nipotine. Nello scompartimento della carrozza ferroviaria la serena innocenza di una bimba di sette anni, disarmante nelle sue affermazioni, riporta a un candore che il ricevimento in Vaticano ha solo sfiorato, e, nel suo modo pur infantile di ragionare, segue una logica che, con le dovute considerazioni riguardo all’età, è un po’ quella adottata da Camon in questo libro: la sincerità, la completa e totale sincerità dell’autore che più che in ogni altra sua opera deve essere se stesso, per raccontarci quello che lui prova.
E in effetti appaiono del tutto naturali l’apprensione per la sorte del padre, la disperazione di non poter esaudire la richiesta del genitore di vedere il pontefice (ma all’incontro con il Papa ci sarà anche lui, sia pure in fotografia), l’emozione di trovarsi di fronte al rappresentante di Dio in terra, la certezza di essere un anello di una catena che lega indissolubilmente una stirpe.
E il finale è un tocco di grazia che illumina come un alone mistico tutta l’opera, con quel movimento della testa destra-sinistra della bimba che le accentua la somiglianza con la madre, già defunta, dell’autore.
Non vado oltre, perché le righe che seguono e chiudono il libro sono congiuntamente un commosso ricordo della genitrice e la raggiunta convinzione che anche post mortem qualcosa di lui resterà, magari con una rinascita dal ventre di quella bimba.
La mia stirpe è il racconto appassionato di un credente che aspira a un’immortalità terrena grazie alla stirpe di cui è parte; è forse un sogno a occhi aperti, ma credetemi se vi dico che è un bellissimo sogno.

Ferdinando Camon è nato in provincia di Padova. In una dozzina di romanzi (tutti pubblicati con Garzanti) ha raccontato la morte della civiltà contadina (Il quinto stato, La vita eterna, Un altare per la madre – Premio Strega 1978), il terrorismo (Occidente, Storia di Sirio), la psicoanalisi (La malattia chiamata uomo, La donna dei fili), e lo scontro di civiltà, con l'arrivo degli extracomunitari (La Terra è di tutti). È tradotto in 22 paesi. Il suo ultimo romanzo è La cavallina, la ragazza e il diavolo (2004). Il suo sito è www.ferdinandocamon.it
Renzo Montagnoli

 

18/5/2011

Connessioni interrotte
Ovvero l’ossessione della mosca

di Gian Paolo Ivaldi
Presentazione di Marco Lagazzi
Copertina di Ludovica Ivaldi

Edizioni Tabula Fati
www.edizionitabulafati.it

Narrativa raccolta di racconti
Collana Nuove scritture

Il sottile male di vivere

Nell’ambito della narrativa il racconto in Italia è un po’ negletto, nel senso che soprattutto nell’ultimo mezzo secolo, ha avuto ben poca fortuna, fatta eccezione per alcuni autori, di indubbio elevato spessore, quali Leonardo Sciascia e Mario Rigoni Stern. Al riguardo vi è da dire che non è facile scrivere in breve opere di senso compiuto, cioè che svolgano un concetto e una trama con un inizio e una fine, come un vero e proprio romanzo limitato a un numero notevolmente inferiore di pagine. Mi è capitato infatti, anche recentemente, di leggere raccolte di racconti di modesta qualità, fatta eccezione per alcuni di genere fantastico. Così, quando ho avuto per le mani questo libro, mi sono predisposto quasi naturalmente a una lettura insoddisfacente per qualità e gradevolezza, e invece, per fortuna, mi ero sbagliato. Non che Connessioni interrotte sia un capolavoro, ma è un’opera riuscita, piacevole e scritta come si deve, insomma, nella sua rappresentazione della realtà attuale, riesce benissimo a fornire un quadro interessante e coinvolgente.
Sono otto racconti, alcuni di genere noir, che vanno dalla seduta psicoanalitica alla fine di un rapporto coniugale, dalla proprietà in comune di un’auto sportiva a un omicidio per gelosia con una conclusione del tutto inaspettata, anche se logica.
Ivaldi ha buona mano, non scrive nulla di più di quanto è necessario, riesce a mantenere il ritmo e, soprattutto, fa sì che le sue storie abbiano un senso compiuto nel quadro generale di una rappresentazione dell’attuale società che testimonia di un profondo disagio di vivere, di un’esistenza trascinata senza un senso che sia autenticamente appagante.
Soprattutto, però, si avverte la capacità di dare autonomia a personaggi non stereotipati, senza che sia presente in modo marcato la figura dell’autore, come in un teatro dei pupi in cui gli attori si muovono senza che si riescano a scorgere i fili che li tengono avvinti al burattinaio. E questo è un altro dei pregi di quest’opera, che non vuol essere né didascalica, né moralizzatrice, limitandosi solo a raffigurare situazioni e fatti abbastanza frequenti nella nostra società e lasciando al lettore, così stimolato, il compito di riflettere, trarre conclusioni, guardarsi intorno e poi dentro.
Da leggere, perché merita.

Gian Paolo Ivaldi è nato a Genova nel 1957.
Dopo il liceo, ha lavorato per un periodo nella gioielleria di famiglia, ma a ventitrè anni, seguendo una passione coltivata dall’infanzia, si è iscritto alla facoltà di Medicina e Chirurgia, si è laureato e lavora in Ospedale dal 1987.
Ha prestato la sua opera come medico missionario in India, a Capo Verde e in Bosnia, in collaborazione con Smile Mission, una ONLUS con obiettivi umanitari nel campo medico e odontoiatrico.
A cinquanta anni si è cimentato nella pubblicazione di un romanzo di formazione, intitolato Lessico dell’Alba (Italian University Press, Pavia 2009), che ha dedicato alla figlia ventenne Ludovica, giunto in finale al Premio Osiride di Taranto 2010, per la letteratura storico-filosofica.
Renzo Montagnoli

 

15/5/2011

Viaggio all’alba del millennio di Massimo Maugeri

Gruppo Perdisa Editore
Perdisapop

Collana Corsari
Narrativa racconti 

Come siamo

 “ Massima allerta negli aeroporti.
Minacce d’attentati.
Particolare attenzione sui voli con destinazione Roma
. “

Di Massimo Maugeri ho già letto, e apprezzato, il romanzo Identità distorte, un thriller di genere fantastico che, per certi aspetti, può far venire in mente 1984 di George Orwell, nonché La coda di pesce che inseguiva l’amore, un racconto lungo di analogo genere, scritto con Simona Lo Iacono.
In entrambi casi ho rilevato la notevole capacità visionaria di costruire trame, personaggi e ambienti che, pur su basi reali, sono una proiezione della fantasia, ma mai mi era capitato di leggere qualche cosa di suo che, per quanto con le sfumature della creatività, fosse strettamente aderente all’attuale, al mondo in cui viviamo, al come siamo e al perché così siamo.
Viaggio all’alba del millennio colma questa innocente lacuna e fornisce, attraverso quadretti di situazioni, un’immagine purtroppo realistica della società contemporanea. Non è improbabile che, con altri aspetti, la natura umana fosse così anche anni fa, o addirittura secoli fa, perché il dramma dell’uomo è la sua innata solitudine, che deriva da quel tempo incerto che è la vita, la cui conclusione certa non può lasciarlo indifferente, con un’angoscia latente che a volte emerge in modo esplosivo con tutte le conseguenze del caso. Del resto assicurare la certezza di un dopo è proprio delle religioni, ma resta un atto di fede, poiché nessuno che ci ha lasciato è venuto poi a confermarci che in effetti la vita, magari in altra forma, è eterna.
Ecco allora che l’umanità insegue dei feticci terreni, obiettivi, scopi, frutto per lo più di un’illusione e come tale di profonda e insanabile insoddisfazione.
Assistiamo così alle depressioni, alle dissociazioni, alla disgregazione di antichi valori fondanti che sono sotto gli occhi tutti, ma che spesso non sappiamo cogliere. Ed è questo che ha fatto Maugeri con questa raccolta di racconti, di cui il primo, Viaggio all’alba del millennio, dà il titolo all’intera opera. In esso, il naturale timore per i viaggi in aereo si accompagna alla vera e propria ansia per un ipotetico dirottamento, tanto più possibile dopo il noto attentato dell’11 settembre alle torri gemelle di New York. Ed è tanta l’apprensione che il possibile finisce per diventare certezza, con una continua ricerca del terrorista, fino alla sua identificazione, quasi sempre un innocente altro passeggero.
La famiglia, istituzione sempre più alla deriva e nella quale tensioni sopite quando esplodono portano a violenze eclatanti, fa pure parte di questi quadretti, ma non mancano i drammi degli immigrati clandestini, il crescente razzismo, il rifiuto della realtà, quando questa ci sembra insopportabile,insomma Maugeri con questo suo libro ci pone davanti a uno specchio in cui ci riflettiamo con le nostre distorsioni, i nostri piccoli e grandi problemi, ma a differenza dello specchio di Alice non lo attraversiamo per andare in un mondo migliore; restiamo invece tenacemente aggrappati a questo caos infernale, perché, nonostante tutto, è meglio di niente, con un fatalismo che ci accompagna negli anni e che si rafforza fino a quando, arrivati all’ultima stagione, ci illudiamo ancora una volta che il mondo della nostra giovinezza fosse più soddisfacente, una pietosa autoassoluzione che ci aiuta a varcare l’ultima porta.
Viaggio all’alba del millennio potrà anche irritarci, perché mettere a nudo quel che siamo non fa mai piacere, ma di sicuro dovremo convenire che siamo proprio così, una presa di coscienza che forse ci indurrà a vivere un po’ diversamente da come abbiamo fatto fino ad ora.  

Massimo Maugeri, catanese, collabora con molti magazine e quotidiani. Ha scritto: Identità distorte (Prova d’Autore, 2005; premio Martoglio), Letteratitudine, il libro (Azimut, 2008) e, insieme a Simona Lo Iacono, La coda di pesce che inseguiva l’amore (Sampognaro & Pupi, 2010).
Ha curato Roma per le strade (Azimut, 2009).
Ha ideato e gestisce il sito
Letteratitudine.
Renzo Montagnoli

 

12/5/2011

A bocca chiusa di Ornella Fiorentini
Presentazione di Paolo Cutrì
Illustrazioni di Pellegrino Capobianco

Edizioni Solfanelli
www.edizionisolfanelli.it

Narrativa romanzo
Collana Pandora

Noir con retrogusto horror

Credo che sia un caso piuttosto raro che una donna scriva un “noir”, genere per lo più appannaggio di uomini, anche perché la forza innata di questi tende a creare situazioni di non infrequente e notevole violenza.
Ed è ancor più difficile il caso che i due personaggi principali siano femminili, perché in fondo dal gentil sesso tutto è lecito aspettarsi tranne una furia cieca che è propria dei maschi.
Tuttavia, Ornella Fiorentini, con questo suo A bocca chiusa, è riuscita ad allestire un buon noir, basato più sulla tensione psicologica che sull’azione vera e propria, che comunque non manca.
Due donne completamente diverse, di estrazione sociale agli antipodi, dominano la scena, con gli uomini che fanno da comprimari, senza che con ciò l’autrice voglia rilanciare il predominio di un sesso, comunemente definito debole, sull’altro, ma su tutto emerge una visione distopica dell’attuale società, una tendenza al nichilismo da cui poi possono scaturire situazioni aberranti.
E’ una guerra sottile fra le due, di cui la più umile si porta dietro tare ereditarie che giustificano la sua ossessionante follia che è sempre manifesta, a differenza dell’altra che è affetta da sdoppiamento della personalità, insegnante integerrima di francese nel liceo locale, ma anche tenutaria di un bordello in cui pure si offre per prestazioni particolari. Anche quest’ultima ha avuto un’infanzia in cui le è stata da maestra la figlia di una donna di facili costumi, diventata poi pure lei proprietaria di una casa chiusa. E’ lo spirito di questa che aleggia in tutto il romanzo, quasi che, da morta, volesse reincarnarsi nella bella e rigida insegnante, la quale, infatuata dagli insegnamenti dell’infanzia, ha finito con elevarla a mito, un idolo a cui tende con tutte le sue forze.
Il romanzo, ambientato in una piccola cittadina piemontese, prende avvio con lentezza, come è anche giusto, e poi, pagina dopo pagina, cresce di velocità, fino ad arrivare, in un moto vorticoso, alla sua conclusione, con due superstiti, un bambino e uno studente, quasi un auspicio che il mondo possa cambiare solo grazie a chi si avvia alla vita. Tuttavia, il pessimismo di fondo non viene meno, così che nel ragazzo riappare l’ombra della professoressa di francese, un mito decaduto grazie alla scoperta della realtà, ma che comunque tende a riaffiorare, pronto a carpire anima e corpo, un destino in cui il male è sempre a portata di mano, mentre il bene deve essere cercato fra le mille insidie dell’esistenza.
Condotto con mano abile e ferma, con ambientazioni, atmosfere e descrizioni quasi magistrali, A bocca chiusa è un romanzo assai piacevole, la cui lettura è quindi più che consigliabile.

Ornella Fiorentini è una pluripremiata poetessa e scrittrice. Vive a Ravenna dove fa parte del comitato di redazione della rivista bimestrale "It's different Magazine" per cui scrive articoli e racconti. Prima di A bocca chiusa ha pubblicato i romanzi noir Il cuore a fette (2004), Cuore d'artista (2006), La bambola di Solange (2009), la raccolta di racconti noir Teodora Degli Innocenti (2007), la raccolta di haiku e poesie in versi liberi "Diamanti (2009), il romanzo fantasy Obiettivo Veronika (2010), e il romanzo per l'infanzia Le stelle di San Lorenzo (2010).
Renzo Montagnoli

 

7/5/2011

Le parole sono pietre di Carlo Levi
Prefazione di Vincenzo Consolo
Introduzione dell’autore
In copertina I due amici, di Carlo Levi (1936)

Edizioni Einaudi
Narrativa
Collana Einaudi tascabili. Scrittori

Un grande, immenso amore

“Così questa donna si è fatta, in un giorno: le lacrime non sono più lacrime ma parole, e le parole sono pietre.”

Così Carlo Levi parla di Francesca Serio, madre di Salvatore Carnevale, sindacalista ucciso dalla mafia, in una delle più belle pagine di questo libro, frutto di tre viaggi in Sicilia avvenuti nei primi anni cinquanta.
Se in Cristo si è fermato a Eboli l’autore ha descritto in modo mirabile la dolorosa condizione dei contadini lucani, qui valica lo stretto e riesce a darci un quadro di grande forza e bellezza dei problemi siciliani, solo in parte diversi da quelli dell’altro sud, e in ogni caso inseriti in quella questione meridionale che ancor oggi appare insoluta.
La grande capacità di questo autore è di appassionarsi ai problemi della gente debole, se non inerme, con la forza che gli nasce dall’amore, un sentimento viscerale che lo porta naturalmente a prendere le difese di chi, complice l’inerzia, quando non addirittura la partecipazione attiva dello Stato, è vittima di secolari ingiustizie, è ridotto alla condizione di sottouomo, vero e proprio servo della gleba in una società feudale in piena epoca moderna.
In libro in pratica è il diario di un viaggiatore attento, capace di descrivere in modo artistico, poetico e pittorico panorami mozzafiato, ma anche di saper cogliere gli aspetti stridenti, le atmosfere che da gioiose diventano tristi, fatte di una malinconia propria di chi è senza speranza, in una sola parola l’anima di una regione.
L’arrivo in visita a Isnello, suo paese d’origine, del signor Impillitteri, sindaco di New York, rappresenta a prima a vista un capitolo a sé, ma, con lo scorrere delle pagine, si comprende come anche il successo di uno non riesca a costituire la speranza di un riscatto per gli altri, non invidiosi, ma partecipi di una festa che offre in tutta la sua crudezza la realtà della loro condizione, e se anche nasce un entusiasmo è poca cosa che rapidamente svanisce.
Levi ha viaggiato in lungo e in largo per l’isola, ha toccato mete ridenti e città dall’apparenza moderna, ma che nascondono nelle periferie o al loro interno la vergogna di un mondo arretrato, misero, della miseria più nera, di gente affamata, di bimbi scheletriti e in preda alla malaria, contrasti che sono tipici di quest’isola in cui si può passare da ville patrizie, con giardini paradisiaci, a casupole di paglia, senza l’ombra di un albero, ingrigite dalla polvere che, quasi pietosa,  pare tentare di celare una situazione di degrado che invece dovrebbe essere urlata, affinchè qualcuno, quello Stato così lontano, inerte, vi ponga finalmente rimedio.
Non c’è nessuna retorica nelle parole di Levi, c’è soltanto un cuore sdegnato che vibra d’amore; è questa la grandezza di questo autore, capace di vedere con gli occhi e con il cuore, così che lui, che meridionale non è, non si presta alle facili accuse, alle tante volgarizzazioni del problema, ma cerca, trova, incide, apre allo sguardo del lettore una realtà che può anche riuscirgli insopportabile fino a giungere al sorgere di un sentimento di autentica pietà non fine a se stesso, ma congiunto alla rabbia per come tanti esseri umani sono trattati.
In questo libro c’è tanto del pensiero di Gesù Cristo, c’è quel desiderio di liberare gli oppressi dal loro giogo per costruire un mondo migliore, e questo con l’unica forza che è anche la chiave di ogni autentico rapporto umano: l’amore.
Nell’alternarsi di splendori e miserie l’autore dipinge quadri di stupefacente bellezza (Dietro di noi, i neri scogli dei Ciclopi, e il mare che si faceva liscio e grigio e pareva appiattirsi all’approssimarsi dello scroscio, come un gatto che aspetti la carezza.) ( La luna, piena e rotonda, si era ormai levata in cielo, illuminando di fredda luce le colate di lava e i boschi. Già il mare brillava lontano di là da Fiumefreddo, e appariva meravigliosa nella distanza, sul mare lucente, la montagna di Taormina. Le barche dipinte partivano per la pesca, i lumi delle lampare splendevano nell’acqua verde come scintillanti costellazioni.), una mano di straordinaria abilità che sa tuttavia anche affondare il bisturi nelle numerose e incancrenite piaghe di questa terra, dove tutto sembra possibile, tranne un radicale cambiamento.
Questo è un libro da leggere e rileggere, le sue pagine sono da centellinare, un invito continuo alla riflessione, una sconvolgente realtà su cui è d’obbligo interrogarsi. Ritornano di continuo immagini, situazioni, perché queste parole sono pietre, che non rotolano via, ma scavano e restano nel profondo di noi.

Carlo Levi (Torino, 29 novembre1902 – Roma, 4 gennaio 1975). E’ stato un grande scrittore e un non meno grande pittore. Ha scritto, fra l’altro, Cristo si è fermato a Eboli, L’orologio, Le parole sono pietre.
Renzo Montagnoli

 

6/6/2011

Un incontro d'AmorE di Antonio Capolongo
Narrativa (Contemporanea)
www.arduinosacco.it

Ti cattura fin dall'introduzione, diretto e sobrio. Il registro aulico conduce il lettore in un'atmosfera dai tratti antichi. Quando la storia diventa vivida è impossibile non sentire le emozioni che vivono Sofia e Marcello palesarsi sul proprio corpo, attraverso brividi e, in certi punti, sobbalzi del cuore. È triste, è romantico, è inverosimile e… commovente. Fino alla fine tiene il lettore ancorato alle pagine del libro e lo rende ansioso di partecipare alla sorte dei due protagonisti.

Antonio Capolongo è nato a San Paolo Bel Sito, in provincia di Napoli, nel 1968. E' laureato in Economia e Commercio e lavora presso una società per azioni ma il percorso "logico" non ha occupato tutta la sua vita... La passione per la scrittura affiora in lui nell'anno 2007, quando incomincia a dedicarsi sia alla prosa che alla poesia. Un incontro d'AmorE è il suo primo romanzo.
Arduino Sacco Editore
 

3/5/2011

La vita dell’essenza sfiorata dall’ombra di Mela Mondì Sanò

Prefazione di Ilaria Porro
Note conclusive
di Maria Ferlito e di Maria Elena Mignosi Picone
In copertina Hammamet con la moschea, Paul Klee, 1914

Gruppo Albatros Il Filo
www.gruppoalbatrosilfilo.it

Poesia
Collana Le Cose Nuove Voci

La ricerca dell’Essenza

Il poeta osserva la quotidianità e riesce a cogliere quel tanto, che agli occhi altrui sarebbe insignificante, per effettuare un inconscio raffronto con quanto di più intimo esiste in lui; percepisce, o meglio intuisce, l’essenza dei fatti, delle immagini, del trascorrere del tempo nella parabola che è tutta la sua esistenza.
Mela Mondì, con questo suo libro, che è una raccolta di tre sillogi (Mezzombre, Ombre, Superfici azzurre) , svela se stessa e quindi anche a noi quel che è l’essenza, pur nello svolgimento delle tematiche più varie, proprio perché ogni cosa, nell’apparenza, cela sempre una sua perfetta identità, la cui scoperta consente poi di dare un senso alla propria vita, di usarla come nutrimento per l’anima.
La sua può essere una poesia immaginifica, un riflesso onirico che trascende quella che può apparire realtà, ma che è invece la sembianza di fatti che i più accettano come cosa finita di cui non riescono a cogliere l’intrinseca sostanza.
Attendimi: / quando arriverò ti parlerò / della luce e dell’ombra, / della nave di sole / con cui navigai / su piste schiumose / verso un centro vuoto, / delle rocce frapposte / tra pensiero e cuore, / della luna menzognera / del circolo mitico / che inghiotte l’oceano, /  delle rovine che giacciono al fondo / mentre ai piedi dirupati dell’Acropoli, / vedo lo spostamento disarmonico / del mondo.
Attendimi
è l’emblema di questa poesia metafisica, con cui il ricorso anche a metafore tende a ricercare l’essenza, come se il volo fantastico divenisse la realtà e l’apparente concretezza di ogni giorno fosse un velo di trucco attraverso il quale si fornisce un quadro recepibile da tutti, senza che possano sorgere i legittimi dubbi sulla veridicità della rappresentazione.
Questo modo di procedere e di esporre mi ricorda, per quanto là in prosa, la narrativa di Giuseppe Bonaviri, illustre autore, pure lui siciliano, scomparso da poco.
E’ che forse in quest’isola dagli insanabili contrasti che sorge spontanea la ricerca di una verità sotto gli abiti barocchi dell’apparenza?
Forse, la dove si mescolarono nazionalità diverse, dai greci agli arabi, più forte è la ricerca di se stessi, è lo spogliarsi delle proprie vesti per scoprire ciò che realmente siamo, una ricerca dell’essenza gravida di difficoltà, ma determinante nel poter cogliere il significato di un’esistenza.
Il vuoto che scorre dentro me / come acqua monotona / tra pietre / mi sussurra che ormai / è finita / la storia intessuta / tra i fili del tempo / e tra le spine. / Eppure sempre uguale a se stesso / è questo cuore! / Sente ancora la forza della vita e dell’amore. /…
Non è solo parte di una bella poesia che superficialmente potremmo etichettare d’amore, ma è un’analisi introspettiva di un arco esistenziale, in cui sfrondando il più appariscente, e come tale superfluo, si rinsalda un sentimento, si cerca una logica di un affetto nato all’improvviso in gioventù nel modo sempre più irrazionale, ma è proprio quell’illogicità l’essenza, quel turbinio di cuore, ora affievolito, che sbocciò così all’improvviso.
Sono molteplici, come ho scritto sopra, le tematiche, ma sempre intrise dei ricordi, cioè delle esperienze maturate, che ora si riaffacciano alla mente e per quali la ricerca è la loro spiegazione, eventi, fatti accolti d’acchito e adesso che il tempo per l’età appare meno in corsa è logico soffermarsi per sapere di più, per vedere l’oltre di come sono apparsi.
Non è scevra la raccolta da ispirazioni religiose, che io definirei meglio spirituali, perché in fondo l’uomo cerca sempre di dare un po’ di luce al buio del dopo, un’illusione o anche una speranza, fra dubbi e incertezze sanate dalla fede.
E in questo rincorrersi di ricordi e di raffronti non poteva mancare una lirica dedicata all’isola, intitolata Canto alla mia terra, una lunga sequenza di versi con cui si cerca di cogliere l’essenza di ricordi, perché anche lì il tempo ha trasformato, un solco netto, una cesura spesso sconvolgente e sradicante.
La sicilia che mi piace / è ancora la patriarcale / delle processioni / della calia e semenza / quella di coloro / che scrivono zoppicando / e non conoscono il posto / del quale, del che e del cui. / Non è la Sicilia dimora di sovrani / che di normanno / non hanno niente. / Allontano da me / l’isola che affonda nella tempesta / dei mammasantissima / come la Provvidenza di Padron Ntoni! /…
La vita dell’essenza sfiorata dall’ombra è una raccolta che invita a leggere con calma, in modo da scoprirsi in ogni verso, un’assaporare che a volte sa di sale, ma che come pura acqua di fonte scende giù nel nostro intimo a schiarire ombre, a sciogliere dubbi, a rinfrescare come un refolo di vento in un bosco alpino, sopresi e lieti di sentirsi poi pervasi da un’onda lieve di serenità.

Mela Mondi Sanò è nata a Torrenova (ME).
Laureata in Pedagogia, abilitata in Scienze umane e Storia, ha lavorato nella scuola: prima come insegnante e poi come capo d’Istituto.
I suoi interessi culturali sono molteplici. Infatti ha scritto e pubblicato di pedagogia, di matematica, di storia.
La stampa e la televisione si sono occupate di lei per le iniziative socialmente significative che ha espresso fin da giovane, quando nel 1957, unica donna siciliana, si presentò a “Lascia o Raddoppia” e vinse il massimo premio.
Nel 1984 ha pubblicato Da Pietra di Roma a Torrenova(ed. Pubblisicula ), un libro che aiuta a scoprire l’identità di un paese istituito a Comune autonomo.
Ha ricevuto riconoscimenti nel campo della poesia. Nel 1994 ha ottenuto il premio internazionale di poesia “L’Acàlypha con il libro Razza della mia terra” (ed. Agemina).
Nel 2008 ha pubblicato il suo primo romanzo :Alla corte del nonno masticando liquirizia” (ed. Agemina).
Renzo Montagnoli

 

28/4/2011

Il segreto di Luca di Ignazio Silone
Introduzione di Giulio Cattaneo

Newton Compton Editori
www.newtoncompton.com

Narrativa romanzo
Collana Gradi Tascabili Economici Newton

La società opprimente

Dopo aver letto il bellissimo Fontamara ho voluto accostarmi a questo romanzo, scritto e pubblicato ventitre anni dopo, e che incontrò un consenso non unanime da parte della critica; del resto le opere di Silone fecero una certa fatica in Italia a trovare i favori non solo dei recensori, ma anche dei lettori, e si potrebbe dire che il successo sì venne, ma senza fretta, dopo un periodo di limbo in cui non si valutarono forse esattamente le doti di questo scrittore.
Se Fontamara si svolge in periodo fascista, Il segreto di Luca si può considerare ambientato nei primi anni ’50; protagonista è sempre la gente della Marsica, poveri contadini appena usciti dalla dolorosa esperienza della guerra, e quindi l’aspetto sociale è sempre presente, anzi per certi aspetti è ancor più predominante. La trama è quasi quella propria di un giallo, con un giovane politico di quei luoghi che ritorna al paese, forse a caccia di voti, ma che prende a cuore la vicenda di Luca Sabatini, un ergastolano graziato anche perché il vero colpevole del delitto di cui fu imputato in punto di morte confessa la propria colpa, portando a supporto i riscontri indispensabili. L’ex detenuto ritorna così al paese dopo otto lustri di reclusione, ormai vecchio, isolato, ma non dimenticato, anzi quasi osteggiato dalla popolazione. Perché Luca, benchè innocente, non si difese al processo? Perché non portò testimoni a suo favore? Il giovane politico, Andrea Cipriani, il cui padre era grande amico di Luca Sabatini, vuole conoscere la verità e soprattutto vuole sapere che cosa ci fosse dietro quel silenzio, che cosa nascondono i testimoni ancora viventi e che lui interroga. E’ un’indagine vera e propria, incalzante, con la tensione che si tende sempre di più come un elastico fino a che si arriverà al punto di rottura e ogni ombra sarà rischiarata, la nebbia sarà dissolta e finalmente si svelerà il segreto di Luca.
Il romanzo è condotto con mano ferma, senza incertezze e con una soluzione del mistero plausibile, anche se un po’ particolare, che porta a conoscere di un amore impossibile per la mentalità dell’epoca e dei protagonisti, che intuirono, Luca per primo, l’opportunità del processo per impedire di continuare a vedersi, lui in galera, lei ritirata in convento, benchè non monaca, ma fatta passare per pazza.
Come è possibile comprendere ci sono tutte le caratteristiche di un romanzone a tinte fosche, una specie insomma di romanzo d’appendice, ma Il segreto di Luca si differenzia molto da questi prodotti di facile consumo, perché quel che emerge è che in effetti il vero e unico colpevole è la società, le sue chiusure, le sue rigide regole non scritte che sono una ragnatela in cui invano si dibatte chi cerca di infrangerle, colpevole, anche se innocente, trattato con sospetto e ostilità anche quando Luca risulta non aver commesso il delitto di cui fu incolpato.
E’ una civiltà chiusa quella contadina, immobile da secoli, che vive, fra le mille difficoltà di far quadrare i conti, con le superstizioni, con una religiosità pagana che nulla accoglie del vero significato della parola del Cristo, e così può anche accadere che un amore sbocciato all’improvviso diventi una condanna senza appello, i cui protagonisti, membri di quella comunità, cresciuti a quelle regole, sono contemporaneamente carnefici e vittime di se stessi.
Il segreto di Luca non ha la portata dirompente di Fontamara, ma graffia egualmente e lascia un solco profondo, combattuto fra lo sdegno per una società opprimente e la pietà per due che osarono innamorarsi.    

Secondino Tranquilli (questo era il vero nome di Ignazio Silone) nasce a Pescina (Aq) il 1° Maggio 1900 e muore a in Svizzera a Ginevra il 22 agosto del 1978.
Ha scritto, oltre a Fontamara (1930,) anche i romanzi Un viaggio a Parigi (1934), Pane e vino (1936), Una manciata di more (1952), Il segreto di Luca (1956), L’avventura di un povero cristiano (1968); nella sua produzione non mancano inoltre i saggi, come Il Fascismo. Origini e sviluppo (1934), La scuola dei dittatori (1938), Uscita di sicurezza (1965).
Renzo Montagnoli

 

21/4/2011

Ogni cosa alla sua stagione di Enzo Bianchi

Edizioni Einaudi
www.einaudi.it

Narrativa romanzo
Collana Frontiere

La vita

“Ma l’inverno è anche stagione prodiga di insegnamenti, se solo lo si vuole ascoltare: è sufficiente pensare che tutto ciò che appare come una morte è in realtà un riposo, un modo diverso di operare, carico di attesa. E capace di sorprese: gli alberi, per esempio, così spogli da apparire secchi, o i prati ingialliti dal gelo, non appena sono baciati dalla galaverna si rivestono di brillanti e scintillano tra le nebbie mattutine.” 

Già dalle prime pagine, con il prologo in cui Enzo Bianchi, priore del monastero di Bose, ci parla della sua cella, dell’importanza di quelle quattro mura che, senza imprigionare, racchiudono l’esistenza di un essere umano, si viene avvinti da un profondo senso di serenità, si avverte chiaramente che le parole non sono solo strumento per comunicare, ma sono anche note di una sinfonia profonda, un lungo splendido adagio sulla vita.
Ogni cosa alla sua stagione e non Ogni cosa ha la sua stagione è quasi un impercettibile, ma importante spostamento del senso, perché in tal modo prende corpo la nostra realtà, fatta di sentimenti, di umori, di passioni, di cose che ci accompagnano, tangibili, immote, ma che riempiono il nostro quotidiano, insomma noi siamo fatti come siamo, così, umili soggetti nel percorso che dall’alba ci conduce al tramonto e che ci fa appartenere al tempo, quel tempo che cerchiamo invano di aggirare, di velocizzare, nell’illusione di essere protagonisti e insieme creatori del disegno divino.
E quella cella è fatta di cose, che finiscono con il ricordarne altre, analoghe, ma non uguali, come tavole antiche, robuste, realizzate per ospitare numerosi commensali, perché il mangiare insieme è l’occasione per una reciproca conoscenza, per capire gli altri e quindi noi stessi.
E’ evidente che il tema del ricordo è il filo conduttore di questo libro, ma non si esaurisce in semplici riproposizioni di eventi e persone del passato, anzi da questi trae spunto per riflessioni che non sono un mero esercizio stlistico e filosofico, ma l’opportunità per una maggiore conoscenza interiore, per comprendere la nostra evoluzione, per seguire o interrompere un percorso intrapreso, per dare un senso non banale alla nostra vita.
Sono pagine che faranno la gioia dei credenti, ma che di certo daranno risposte più che plausibili anche agli atei, perché è sempre presente il rapporto con un’entità superiore come ciascun animo la può creare, un Dio per ogni uomo anche se infine queste immagini del Supremo poco a poco si fondono per rientrare in un’unica grande visione di chi presiede a tutto il perfetto caos dell’universo e anche, quindi, alla nostra vita.
Guardare dentro di noi, seguendo la traccia di questo bellissimo libro, è scoprirci poco alla volta, è quasi un’autoconfessione da cui usciremo, sempreché siamo stati sinceri nel giudicarci, uomini nuovi, consapevoli del proprio destino, e allora riusciremo a dare valore a tante piccole cose che ci accompagnano, ritrarremo da loro piaceri e sensazioni prima mai provate, come quando, sorseggiando insieme ad amici un bicchiere di vino buono, troveremo che ne beneficiano il nostro palato e la nostra anima, grazie a quelle poche parole scambiate fra i silenzi dell’assaggio, magari davanti a un focolare scoppiettante, tra le cui fiamme potremo cogliere la visione del nostro passato.
Amo questo libro, così profondo e pur così lieve nell’esposizione – la mano dell’autore è felice e indulge alla poesia - , perché, fermando quella corsa per il fatuo in cui tutti più o meno siamo coinvolti, consente di addentrarmi nel mio intimo, per sapere chi sono e dove vado, domande che prima o poi tutti gli uomini dovrebbero porsi, e questa possibilità che mi è offerta dalla grande serenità di Enzo Bianchi è un’esperienza rara e di straordinaria importanza.
Leggere queste pagine è come tornare a nuova vita, una resurrezione che porta alla speranza che un mondo migliore non sia solo un’utopia, ma che si possa realizzare, a cominciare con il senso che ognuno di noi deve dare alla vita, troppo bella a saper cogliere i suoi molteplici aspetti per essere sprecata nella continua rincorsa di nuovi obiettivi che risultano sempre essere illusori.

Enzo Bianchi (1943), fondatore e priore della Comunità monastica di Bose, è autore di numerosi testi sulla spiritualità cristiana e sulla tradizione di dialogo della Chiesa con il mondo contemporaneo. Scrive su «La Stampa», «la Repubblica» e «Avvenire». Per Einaudi ha curato Il libro delle preghiere (1997), Poesie di Dio (1999), Regole monastiche d'occidente (2001), e ha pubblicato La differenza cristiana (2006), Il pane di ieri (2008), Per un'etica condivisa (2009) e L'altro siamo noi (2010). Nel 2010 esce sempre per Einaudi Ogni cosa alla sua stagione e Insieme, che raccoglie La differenza cristiana , Per un'etica condivisa e L'altro siamo noi.
Renzo Montagnoli

 

19/4/2011

Il mare colore del vino di Leonardo Sciascia

Nota in calce dell’autore
In copertina Léon Spilliaert,
Grande marina blu (1924)

Adelphi Edizioni
www.adelphi.it

Narrativa racconti
Collana Gli Adelphi

Sciascia in vacanza

Scrive Sciascia in una nota in calce a questo libro “ Questi racconti sono stati scritti – con altri, pochi, che non mi è parso valesse la pena di raccogliere e riproporre – tra il 1959 e il 1972.”. Si tratta questo di un periodo fecondo in cui vedono la luce, giungendo felicemente a compimento, opere come Le parrocchie di Regalpetra, Il giorno della civetta, A ciascuno il suo. Questi racconti costituiscono così delle parentesi nell’ambito di una produzione di assoluto rilievo, quasi uno svago creativo, pur riprendendo in taluni casi tematiche care all’autore, come il problema della mafia e l’analisi storica di eventi del passato. In queste tredici prose, di piacevolissima lettura, Sciascia non viene meno alla sua capacità di esame critico, ma più ormai per un’inveterata abitudine che per lo scopo di far sorgere dubbi, porre quesiti, azzardare soluzioni alternative. Con ciò non devono essere intesi come una produzione minore, perché riflettono, per stile e capacità di affrontare svariate tematiche, tutta la linea letteraria dell’autore, ma è presente una freschezza, una levità di esposizione, un approfondimento meno marcato che fanno pensare a uno Sciascia in vacanza, con un occhio più attento alle esigenze del lettore, desideroso di  divertirsi, senza essere scioccato da rivelazioni più o meno eclatanti.
E in effetti il piacere è assicurato, pur nell’alternanza di racconti di tema disomogeneo, ma connotati tutti da una sottile ironia che a volte muove anche al riso, come in Filologia, un’animata discussione sull’origine del termine “mafia”, oppure come Il lungo viaggio, l’avventura tragicomica di nostri emigranti siciliani decisi ad arrivare negli Stati Uniti per vie non ufficiali, senza dimenticare il gustoso Un caso di coscienza, in cui le corna e i possibili cornuti sono oggetto di divertenti osservazioni.
Che poi questa ironia finisca con il riflettersi un una vera e propria autoironia, ciò è proprio di Sciascia, intellettuale in prima linea, e anche Don Chisciotte impegnato in una lotta per la verità che non gli renderà di certo la vita facile.
Il mare colore del vino prende il titolo dall’omonimo racconto che è un lungo viaggio in treno, in uno scompartimento riservato e affollato, con una caratterizzazione dei personaggi a dir poco ineccepibile e di grande efficacia.
Qui l’ironia si attenua e si lascia andare alla fine a una speranza, con lo sbocciare imprevisto di un amore, narrato con estrema delicatezza, quasi sussurrato.
Ma, racconto dopo racconto, per quanto le tematiche siano differenti, ci si accorge della straordinaria capacità dell’autore di narrare di uomini, dei loro pregi, dei molti difetti, avulsi anche dal contesto storico, così che l’impressione che si ricava è che l’evoluzione della specie sia in effetti molto più lenta di quanto si potrebbe pensare se ci si basasse solo sulle realizzazioni e sulle scoperte scientifiche. Non c’è infatti molta differenza fra il Verzeni, assassino seriale della seconda metà del XIX secolo, e i mostri che attualmente sfogano in modo bestiale i loro bassi istinti;  anche l’amore, che sboccia in uno scompartimento, un amore fatto di attenzioni e di frasi dette e non dette, non è dissimile da quello che nasce oggi, purchè si tratti di vero sentimento, e non solo di irrefrenabile attrazione carnale.
Ed è per questo che Il mare colore del vino e tutte le altre opere di Sciascia appaiono ancor oggi attuali, perché sono senza tempo.
Da leggere, senza alcun dubbio.

Leonardo Sciascia (Racalmuto, 8 gennaio 1921 – Palermo, 20 novembre 1989). E’ stato autore di saggi e romanzi, fra cui: Le parrocchie di Regalpietra (Laterza, 1956),  Il giorno della civetta (Einaudi, 1961), Il consiglio d’Egitto (Einaudi, 1963), A ciascuno il suo (Einaudi, 1966), Il contesto (Einaudi, 1971), Atti relativi alla morte di Raymond Roussel (Esse Editrice, 1971), Todo modo (Einaudi, 1974), La scomparsa di Majorana (Einaudi, 1975), I pugnalatori (Einaudi, 1976), Candido, ovvero Un sogno fatto in Sicilia (Einaudi, 1977), L’affaire Moro (Sellerio, 1978), Il teatro della memoria (Einaudi, 1981), La sentenza memorabile (Sellerio, 1982),  Il cavaliere e la morte (Adelphi, 1988), Una storia semplice (Adelphi, 1989).
Renzo Montagnoli

 

15/4/2011

M. Carmen  Lama - Prigioniere del silenzio -
Aletti ed. 2010

Se universale è il linguaggio del silenzio, come quello della sofferenza, ancor di più lo è quello della poesia che ne costituisce il talismano e, al tempo stesso, sintesi e complemento. La femminilità appellata nel titolo si coglie dall'autrice come pretesto occasionale, certo importante ma non determinante. M. Carmen Lama è, infatti, poeta vero al di là di ogni genere o distintivo. È attenta Carmen alla persona, al pensiero, alla parola, all'anima… È il suo un uso di un linguaggio parallelo, prigioniero del silenzio, come annunziato dalla scelta del titolo per la sua opera prima di poesia; e di questo voglio dire a margine del suo cammino, io che la conosco bene; dei suoi pensieri evolutivi fino alla poesia, quella vera, che circonda il silenzio e lo ingabbia al pensiero dell'anima.

Si veda: - I suoi silenzi - dove tangibile ed allo stesso tempo impalpabile è un silenzio intessuto dalle parole bambine che si fa contenitore di angosce ancestrali e di baratri profondi - anche immaginari - Si veda le parole mute, che non ci sono, nascoste da un silenzio che le nega e non le contiene nella stupenda lirica: - L'ombra del silenzio - Già! Non ci sono le parole, appunto, ma permane a lungo, densa e sublime, nuda e priva di orpelli, la poesia, in assoluta forma.

Nella poetica di Carmen è manifesta una buona dose di mistica individuale attraverso la quale si attua un tentativo, anche a livello inconscio, forse, di stendere un ponte con il divino e con le cose ultime. Nel suo racconto itinerante, l'artista adotta un climax ascendente di pathos mentre anche la tecnica s'affina, a mano a mano… in un trionfo di esplosioni di metafore ed allegorie, di ironie di gioie di angosce riflessive. Contorni ora nitidi e tersi, ora ombrosi chiaroscuri volutamente sfumati ed onirici. Lei è, a tratti, immersa nella melma pesante dell'esistenza e ne condivide il senso, ora a mille miglia di distanza che ci guarda ( si guarda ) dall'alto, da un'altra dimensione, piuma aponderale sospinta da un vento mancino. … Spira forte / un vento mancino - Spieghettare la vita - o in Si vive in bilico/ sull'orlo della speranza/ che non assume mai/ sembianze umane. - Cos'è - oppure nel silenzioso frastuono di : Forse…sovente /… astrarmi dal chiacchiericcio inutile… Forse… sovente.

La sua poesia è, dicevo, un divenire lento e progressivo. Ha un movimento ed un sommovimento intrinseco, un'armonia recondita di platonica memoria. I suoi fonemi ed i suoi diorami - interiori e non - sono sempre più informali ed astratti pur trattando del vissuto reale, del toccato con mano (o forse con sogno?). Una musica arcana accompagna la sua poesia, altamente melanconica, nel disincanto surreale di un proscenio voluto scarno, e l'aiuta a scoprire nuovi sensi, nuove motivazioni.

Un libro, questo di Carmen, che nelle prime pagine non si svela e si rivela solo nel suo itinerare pensieroso per la via dove le problematiche intersecano il sogno e si intrecciano, fino a capovolgersi. La percezione immediata che rimane al lettore è quella di un affresco, un'anima semplice con gli interni adorni di luce mediterranea, con figure e cose che si manifestano e scompaiono repentine come sulla scena di una commedia. Di supporto, sempre in primo piano, un pensiero filosofico lucido, erudito, profondo, ma percezione, tra le righe, di una latente malattia interiore - inquietudine più che angoscia, sottile come filo di lama - che spinge Carmen a privilegiare la solitudine meditativa, la sua migliore amica: … non mi delude mai / - Solitudine -

Ma via via l'inconscio si manifesta, acquista di spessore e contenuti, fino a rivendicare il suo primato. E allora, toni su toni si rincorrono, giocano, talvolta, il gioco delle parti. Ridono, irridono persino, e piangono… toni su toni, parole su parole, silenzi su silenzi, si rincorrono senza mai trovarsi, senza mai piacersi. Rimarrà impresso al lettore attento, accentuato nella parte finale del testo, un silenzio, appunto, che lo farà prigioniero e lo catturerà, ma gli renderà, liberato nell'inconscio, un anelito di condivisione e di meditata solitudine che nel sogno prenderà dimora. Sarà allora necessario tornare indietro e ripartire daccapo come in un diallelo. Già! La poesia è come il silenzio, un ponte verso l'assoluto, ma non è solo silenzio. È anche un percolato del linguaggio filtrato dall'anima. È il dove dell'altrove, ci dice
Carmen: il non tempo ritrovato.
Silvano Conti

 

8/4/2011

Recensione al Saggio - Verso la poesia alla ricerca di senso -

di Maria Carmen Lama

 

Non mi è facile recensire un saggio, per quanto tratti di poesia.
Il tentativo di sintetizzare proprio laddove  è stato invece analizzato a fondo, come ha fatto Maria Carmen Lama in questo suo bellissimo trattato “Verso la poesia alla ricerca di senso” diventa arduo.
Nel percorrerne le tappe, l’evoluzione del linguaggio poetico scorre parallelo a quello filosofico.
L’Autrice presenta una serie di riferimenti temporali che vanno dalle antiche considerazioni platoniche a quelle attuali flosofiche di Maria Zambrano. Il tutto con una scorrevolezza che sorprende in un testo essenzialmente analitico.
Ma forse consiste proprio in questo la particolarità di questo libro di e per la poesia.
Alcune definizioni sono di una immediatezza avvincente:
Il poeta non sa e non può autodefinirsi, perché egli trova ciò che non ha cercato, ed è come perso nella luce, nella bellezza, nelle cose che vivono dentro di sé”.
E ancora: “ il poeta vive innamorato delle cose e del mondo, vive degli istanti fuggevoli, vive delle ombre e di tutto ciò che le cose portano con sé come possibilità”…

Il fine, la ricerca del senso, lo distingue dal filosofo che invece vuole con la ragione spiegare l’ineffabile. Lo spiega molto bene M.C.Lama, nel secondo capitolo della Prima parte: “Poesia e filosofia, alla ricerca di unità” dove dice: “…
il poeta vuole trovare qualcosa che oltrepassi la sua capacità, un essere o qualcosa che lo superi e  che lo vinca… facendolo “essere” proprio grazie all’esserci di questo qualcosa sopra di lui...
…Il filosofo, invece, mentre ricerca la conoscenza si allontana  da tale sogno originario, lascia dietro di sé la fisicità per approdare in un mondo metafisico, perché più si immergerà nell’abisso della libertà, più riuscirà a restare sé stesso e a ritrovarsi come essere”

A questo punto il mio compito si fa ancora più difficile, come posso comunicare le emozioni che pure essendo questo un saggio, è riuscito a trasmettermi?
Mi rendo conto che mi riesce molto più agevole dirne tutto il bene possibile, riferendomi ad ogni sezione di questa opera che, si evince leggendo, ha impegnato l’Autrice in approfondimenti e ricerche, al fine di ottenere un complesso ma chiaro ed esaustivo testo esemplare nel suo genere.
Mi risulta altresì ostico riferirmi alla scelta dei poeti contemporanei nell’ultima sezione del libro, in cui sono citata con altri che l’Autrice porta a completamento dell’opera.
Avrei potuto eludere il mio desiderio di scriverne, certo, ma non mi sarebbe parso giusto nei confronti di Maria Carmen Lama, che stimo come saggista e poeta, e che sono convinta che meriti tutta l’attenzione sì, ma anche la gratitudine di chi, leggendo, se ne avvantaggerà vedendo ampliare la propria conoscenza poetica e filosofica.
Cristina Bove 

Maria Carmen Lama è nata in provincia di Messina il 20.11.’49. Vissuta a Capo d’Orlando fino all’età di vent’anni, nel 1970 si è trasferita per lavoro a Milano, dove si è laureata in Filosofia, e dal ’77 vive in provincia di Lecco. 
Ha svolto attività di insegnamento e poi di Dirigente scolastica in Istituti comprensivi e al Liceo Artistico lecchese.
Ha tenuto corsi di formazione per docenti e genitori e ha pubblicato articoli di carattere pedagogico e culturale su riviste professionali per docenti e dirigenti, con gli editori Maggioli, Fabbri, Edizioni Didattiche Gulliver.
Ha prevalenti interessi letterari e in ambito filosofico e psicologico. Scrive recensioni, che pubblica su diversi siti web, relative a testi di vario genere, a romanzi coinvolgenti a livello emotivo e a libri di poesie. Scrive anche poesie e ama approfondire la conoscenza delle produzioni poetiche dei grandi del passato. Ha iniziato da pochi anni a entrare nel mondo poetico attuale, anche attraverso la consultazione di siti web dove le scelte risultano essere traboccanti, ma non sempre adeguate all’idea di poesia come vera e propria arte destinata a pochi  ed eletti adepti. Con l’Editore Aletti ha pubblicato nel 2010 la silloge Prigioniere del silenzio.

e-mail: carmen@giandgi.eu

Aletti Editore
www.alettieditore.it
Saggio letterario
Collana Saggistica

Cristina Bove 

 

8/4/2011

Il mito della Nazione
Personaggi e storie del Risorgimento
di Alessandra Esperide e Nicola Quondamatteo
Introduzione degli autori
Edizioni Tabula Fati
www.edizionitabulafati.it

Storia
Collana Identità e Tradizione
 

Due bravi ragazzi

Quest’anno ricorrono i 150 anni dall’unità d’Italia e per quanto le manifestazioni e i festeggiamenti non siano stati prioritari in un paese che sfortunatamente cerca di trovare più i motivi di disunione che quelli di un reale forte afflato, l’editoria ha dedicato a questo evento numerose pubblicazioni, sia come ristampe di testi risalenti al periodo del nostro risorgimento, sia come pubblicazioni di opere nuove.
In tale contesto c’è un libro che, a mio avviso, merita un po’ più di attenzione di altri ed è Il mito della Nazione, sottotitolo Personaggi e storie del Risorgimento, uscito a metà marzo per i tipi delle Edizioni Tabula Fati.
Che cosa ha di particolare quest’opera?
Prima di tutto c’è da considerare l’età degli autori, due diciottenni, il che potrebbe indurre a pensare che la lettura finisca con l’essere infastidita dalle classiche nozioni scolastiche in materia, e in effetti era ciò che temevo. Mi figuravo una lunga serie di date, corrispondenti a fatti risorgimentali, magari utile, ma in ogni caso più per un ripasso che per un autentico interesse a sapere un po’ di più di quel periodo che ha visto la nascita del nostro Stato.
Per fortuna, i due ragazzi (spero che mi scuseranno per questo termine, espresso con intenti unicamente affettuosi, da uno come me che potrebbe essere il loro nonno) hanno preferito, saggiamente, individuare dei punti cardine del periodo risorgimentale, sia che si tratti di fatti, di episodi, sia di personaggi di particolare e rilevante importanza.
In questo modo non solo la lettura non è faticosa, ma c’è spazio per aprendere qualche cosa di più.
Mi corre l’obbligo, tuttavia, di far presente che quanto esposto rientra nella classica iconografia, quella costruita ad uso e consumo di Casa Savoia, con molte omissioni e parecchie invenzioni, storia che studi approfonditi effettuati fra la fine del secolo scorso e i primi anni dell’attuale tendono a contestare.
Il Risorgimento fu un moto di popolo desideroso di unirsi o fu soprattutto un periodo di espansione territoriale del Regno di Piemonte? Si sarebbe portati a propendere per la seconda ipotesi, anche perché, al di là di taluni elementi di supporto, non si spiegherebbe altrimenti questa profonda divisione di noi italiani, che sembriamo palesare ogni giorno di più la mancanza di una forte identità nazionale.
Alessandra Esperide e Nicola Quondamatteo hanno evitato quest’ultimo discorso, per quanto ne facciano cenno nell’introduzione, ma senza cercare di formulare ipotesi sull’origine del problema.
A loro discarico c’è certamente la giovane età, l’apprendimento scolastico e non sul campo, la mancanza di esperienza, ma, comunque, sono riusciti a infondere al loro lavoro un palpabile entusiasmo che coinvolge e costituisce un segno di speranza per quell’unità di popolo che ci manca, ma che è del tutto auspicabile.
Nei capitoli dell’opera, dedicati ai Savoia, a Mazzini, a Garibaldi, a Cavour, a Cattaneo, all’Italia Meridionale, perfino al risorgimento esoterico, mi hanno colpito, soprattutto, quello iniziale e quello finale.
Con la Primavera di Roma, la Repubblica romana è stata giustamente considerata il fatto più saliente dell’epoca, quello insomma che ha dato avvio a quel percorso, non sempre limpido e fortunato, che porterà alla proclamazione del Regno d’Italia.
E’ curioso notare che intorno a questa giovane e breve repubblica si affollano tanti personaggi, con scopi diversi, come il monarchico Manara, l’anarchico Pisacane, il repubblicano e liberale Mazzini.
Ognuno vede in questo esperimento la possibilità di realizzazione di un sogno, il nascere di una democrazia, il sorgere di uno stato sociale, e questi ideali finiranno per confluire nel desiderio di affrancare gli staterelli dello stivale dai loro padroni, riunendoli in un’unica grande entità.
In La nuova Italia, capitolo conclusivo, i due giovani autori accennano all’ipotesi, in parte comprovata, di un Risorgimento tradito, ma preferiscono poi prendere le distanze, quasi timorosi che ulteriori approfondimenti in merito possano svelare verità innominabili, di cui forse hanno solo una certa idea. Ribadiscono invece un concetto, senz’altro condivisibile, quando si chiedono che cosa risorga con il Risorgimento e rispondono dicendo che è una nuova primavera sbocciata, dopo secoli di torpore, da quando cioè era caduto quell’impero romano che aveva unificato, sotto di sé, l’intera penisola. Un’unione di spiriti, di cultura fa tuttavia da filo conduttore fra le rovine di Roma e il nostro risorgimento, un filo non visibile apertamente, ma percepibile con quella comune cultura che oggi sembra sempre più negletta: Dante, Petrarca, Leopardi, Foscolo non possono essere considerati solo dei geni della letteratura intesa in senso generico, bensì sono gli artefici della letteratura italiana in un’allocazione geografica che non è ancora lo stato italiano.
Se pensiamo a questo, è possibile trovare più motivi di unione che ragioni di separazione, e se è vero che la cultura non ha confini, quella espressa in quel così lungo periodo di tempo è sicuramente quella italiana.
Sono presenti in questo libro  alcuni acuti retorici, piuttosto blandi in verità, ma ci sono anche una freschezza e un entusiasmo contagiosi, che, arrivati all’ultima pagina, portano all’orgoglio di essere italiani.
Grazie, ragazzi. 

Alessandra Esperide nasce a Fermo nel 1993, città dove studia prima presso la scuola elementare “Tirassegno” e poi alla media “G. Fracassetti”, coltivando nel frattempo le sue passioni sportive: il tennis e, soprattutto, la pallacanestro, di cui era considerata una giovane promessa quando militava nella selezione regionale. Studia al Liceo Classico “Annibal Caro” di Fermo. Appassionata di sport e soprattutto di calcio, nel tempo libero è solita seguire le sue squadre del cuore.

Nicola Quondamatteo nasce a Fermo nel 1993. Studia a Porto San Giorgio, città dove vive, frequentando la scuola elementare “Canossiane” e la Media “Nardi”. Gioca a calcio a buoni livelli nella Sangiorgese, squadra cittadina, prima di lasciare l’attività e dedicarsi al nuoto durante il tempo libero. Attualmente frequenta il Liceo Classico “Annibal Caro”. Appassionato di calcio e sport in generale, nel tempo libero gioca a calcetto nella squadra della sua città, la Mando Futsal.
Renzo Montagnoli

 

4/4/2011

Cristo si è fermato a Eboli
di Carlo Levi

Newton Compton Editori
www.newtoncompton.com

Narrativa romanzo
Collana Grandi tascabili economici
 

Lo Stato è lontano

Nel corso della lettura delle prime pagine viene istintivo un accostamento a Fontamara, il bellissimo romanzo di Ignazio Silone. Stessa è la miserabile condizione di indigenza trattata, anche se i luoghi sono diversi (là la Marsica, qua la Lucania), identica è l’attività di sostentamento dei protagonisti (là contadini, come qua), uguale è il profondo senso di scoramento, quel sentirsi lontani dallo Stato visto come un’entità oscura e quasi sempre vessatoria. Eppue le differenze ci sono e appaiono notevoli, a iniziare dalla narrazione, poiché se Fontamara è un romanzo con una trama simbolica, Cristo si è fermato a Eboli è un’autobiografia, limitata a un determinato periodo, tale da essere considerato dall’autore un’autentica rivelazione.  E poi non occorre dimenticare la diversa estrazione sociale degli scrittori, con Ignazio Silone (all’anagrafe Secondino Tranquilli) rimasto quasi senza famiglia a seguito del terremoto che colpì Avezzano nel 1915, quindi parte della stessa gente che così mirabilmente descrive nel suo romanzo, un grido di dolore di un oppresso fra gli oppressi.
Carlo Levi, invece, borghese torinese, costretto a dimorare nel luogo della sua opera come confinato dal regime fascista, coglie lo stupore che gli ingenera lo scoprire una situazione di arretratezza economica e di emarginazione sociale che gli erano sconosciute, e lo fa dapprima quasi con riluttanza, poi con sempre più viva partecipazione al punto di riconoscere in quei reietti dei sentimenti di umanità, delle capacità di accoglienza, nonostante vi imperi l’ignoranza e la superstizione.
In entrambi i casi Ignazio Silone e Carlo Levi portano alla luce, nella sua drammaticità, la questione meridionale, una vasta parte dell’Italia così dissimile dall’altra, così abbandonata da apparire staccata, una propaggine importante, ma lasciata allo sbando, arretrata economicamente e socialmente, un luogo sulla carta geografica e nulla più.
Il contrasto fra il settentrionale, agiato, medico torinese e una realtà del tutto imprevedibile palpita nelle pagine, dotate di una dinamicità in contrasto con la staticità di quel mondo, abbandonato da tutti e perfino da Cristo, che oltre Eboli non è andato.
La fatica del vivere quotidiano, la tediosità di una situazione senza speranza, l’ignoranza sempre presente, unita alle superstizioni che accomuna quei diseredati alle pochè autorità (podestà, medici, farmacisti), ma soprattutto quel sentirsi lontani anni luce dallo stato, da questa istituzione sconosciuta e anzi vista con timore, come un Moloch che pretende sempre di più senza dare, sono descritte in modo mirabile da Carlo Levi.
Certamente per lui è una sorpresa scoprire questo mondo, di cui all’inizio anche diffida, ma poi, nei quotidiani contatti con la gente - fra cui indubbiamente critici quelli con il ceto borghese, non poco responsabile della situazione –, riesce a cogliere le virtù difficilmente percepibili a prima vista di questi vinti, si entusiasma, diventa partecipe dei piccoli e grandi fatti della comunità, finisce con il ritenere la sua condizione di confinato non tanto una condanna, ma un incidente di percorso, di fronte all’eterna condanna di un popolo senza patria.
Ci sono pagine che, pur nello stile elegante e non certo enfatico, muovono alla commozione, altre che fanno gridare di rabbia, come la descrizione di Matera che gli fa la sorella che è venuta a trovarlo. Abitazioni primitive in un mondo primordiale, una necropoli in cui si consumano esistenze che portano la fatica di esserci, i “Sassi” sono la realtà e l’emblema di una condizione, di un tempo che sembra fermo agli albori dell’umanità, senza cambiamenti, in un’infinta disperazione che si trascina di padre in figlio.
Levi sa cogliere anche nelle sfumature la tragedia di un mondo immobile e arretrato, dove tuttavia palpitano sentimenti, riescono anche a nascere gioie fra tanto dolore, e così quei cafoni, osservati dapprima con preconcetti borghesi, poco a poco diventano gli eroi di un’umanità derisa, calpestata, ma pronta a tendere la mano, a dividere il poco cibo e ad accogliere quel medico con la passione per la pittura, giunto da lontano, da un mondo che non conoscono e neppure immaginano.
Terminato il confino l’autore ripartirà per la sua città d’origine, con la promessa di ritornare fra quella gente che ora sente vicina a sé con il calore dell’affetto. Non sarà però così, ma Levi non verrà comunque meno all’impegno. Infatti, giace fra tanti illustri sconosciuti, nel cimitero di Aliano, quel paese la cui gente lo ha così toccato nel cuore.
Il romanzo, uscito nel 1945, incontrò subito un enorme successo, con diffusione in tutto il mondo e ha avuto anche una trasposizione cinematografica con la regia di Francesco Rosi e l’interpretazione di Gian Maria Volonté, Alain Cuny, Lea Massari e Irene Papas.
Cristo si è fermato a Eboli è una di quelle opere che lasciano un segno profondo nel lettore, che toccano nell’animo e invitano a riflettere, un romanzo che è impossibile dimenticare e che ogni tanto, ancor oggi, mi torna alla mente in certe sue pagine di struggente bellezza, emozioni e sensazioni che solo un capolavoro può dare.        

Carlo Levi (Torino, 29 novembre1902 – Roma, 4 gennaio 1975). E’ stato un grande scrittore e un non meno grande pittore. Ha scritto, fra l’altro, Cristo si è fermato a Eboli, L’orologio, Le parole sono pietre.
Renzo Montagnoli

 

30/03/2011

Un uomo ridicolo
di Silvano Notari
Introduzione di Cinzia Demi
In copertina: Richard Gerstl, Self Portrait Laughing, 1908

Edizioni Pendragon
www.pendragon.it

Poesia
Collana Poesia

Psico poesia

E’ proprio vero che poeti si può nascere, ma che scrittori di poesie si diventa con uno studio continuo e approfondito, perchè non c’è talento che possa rivelarsi tale se non adeguatamente coltivato.
E’ questo il caso di Silvano Notari, di cui in passato ho avuto occasione di leggere una silloge (Il sorriso del pensiero), nella quale si poteva riscontrare una certa attitudine poetica, tuttavia non accompagnata da una tecnica adeguata che potesse dar luogo a un lavoro di particolare interesse.
L’autore bolognese, a quanto mi risulta, si è poi dedicato con passione alla poesia, leggendo e applicandosi a dovere, e così quel talento che prima era indovinabile con quest’ultima raccolta è finalmente emerso.
Si possono infatti scorgere elementi di equilibrio e di armonia non occasionali, ma continui, accompagnati anche da invenzioni poetiche che impreziosiscono il verso e danno forza al concetto espresso ora in modo più chiaro e convinto.
Insomma, a dirla con parole un po’ più semplici, Notari è riuscito a passare dal ruolo di aspirante a quello di artista e pertanto onore al merito, perché so, per esperienza diretta, quanta fatica si debba fare per migliorarsi in modo significativo.
Ora, ai testi di Un uomo ridicolo si vorrebbe attribuire un significato psicologico, come anche scrive Cinzia Demi nella introduzione; tuttavia, al di là della psicanalisi di Freud o di Jung, mi permetto di puntualizzare che questa raccolta è di poesia introspettiva, di analisi interiore, rapportata con il mondo esterno, e quindi solo in questo senso è una poesia psicologica, ma senza astruserie che spesso rendono grevi la lettura e quindi con una comprensibilità e gradevolezza che accompagnano tutta l’opera.
E’ piacevole infatti recepire la comunicazione in presenza di equilibri e armonia che contribuiscono alla identificazione di uno stile personale, sempre suscettibile di miglioramenti, ma già ora ben preciso e appagante (All’alba sono tenebre in fuga / raggi apicali le inseguono / in nicchie si ritrae il sogno / di luminosi spazi mentali. / Il pensiero apre il sipario / sul proscenio già danzi / fringuelli intonano liriche / sulle punte volteggi gioiosa. /…); oppure ( Luce che abbaglia/ il tuo sguardo / bagliore ammaliante / che trafigge la mente. /  Sospiro di vento / il tuo respiro / plano volando come gracile foglia. /…), o ancora ( La sera umida e pallida / mostra tutta la mestizia / del giorno che sfuma. / Il buio ha la meglio / col suo grigionero copre / gli orrori del mondo. /….).
C’è ariosità in questi versi, un flusso continuo in un ritmo del tutto equilibrato, che si recepisce con facilità, immediatamente, lasciando al dopo l’opportuna riflessione.  E’ una poesia, perché si tratta di poesia in tutti i sensi, di carattere onirico, in cui i sogni sono più concreti della realtà e in cui si accompagnano visioni metaforiche che fanno andare il nostro sguardo oltre l’apparente per cogliere ciò che è verità.  Il tema non è certo facile da trattare, ma Notari è riuscito a domare l’irruenza delle sensazioni intime riproponendocele in altra veste, frutto dei risultati della sua analisi posta a disposizione di altri, che un po’ ci si ritrovano, perché in fondo l’uomo ha una natura comune, pur con le inevitabili sfaccettature, ma ciò che domina in tutti, e spesso inconsapevolmente, è il significato da dare all’esistenza ( …Sarai immensa anche nel silenzio / di palcoscenici desrtu e luci spente. / Il poeta? Una libellula impaurita / un soffio di nulla e scompare.).
E qui concludo, con la raccomandazione di leggere questo libro, perché sicuramente non ve ne pentirete.

Silvano Notari è nato il 15 luglio 1950, in provincia di Bologna. Di famiglia contadina, conserva ancora oggi i valori delle proprie origini. Raggiunta l'età della pensione, si dedica totalmente alle sue due grandi passioni: la poesia e il teatro brillante. È socio del gruppo poetico Il Laboratorio di Parole del Circolo La Fattoria di Bologna. Ha pubblicato due raccolte in versi: Poesie. Una vita di poesie... le poesie di una vita (Edizioni SPP, Aosta 2004); Il sorriso del pensiero (Libreria Editrice Urso, Avola 2007). Fa parte della compagnia teatrale amatoriale I Roncati di Zola Predosa, in cui recita e collabora con la regista, Mariuccia Squintani, all'adattamento dei testi. Nel 2009 ha scritto la commedia brillante in due atti L'Osteria del biacco andata in scena nel 2010 in diversi teatri del Bolognese.
Renzo Montagnoli

 

26/03/2011

Dulcamara
di Mara Faggioli
Nota critica introduttiva di Mario Meozzi

Edizioni Ibiskos Ulivieri

www.ibiskosulivieri.it

Poesia
Collana Il quadrifoglio

Soave levità

Ho già avuto occasione di scrivere più volte delle opere di Mara Faggioli, siano esse letterarie che figurative, e comunque ho sempre riscontrato un comune denominatore, una matrice che le contraddistingue e che è possibile definire come una  soave levità. Ora, dato che questo mio scritto è afferente solo alla poesia, o meglio alle poesie di  questa raccolta, intitolata Dulcamara, vincitrice peraltro del Premio Speciale Mario Conti al XXVIII Premio Firenze – Europa, lascio da parte le pur belle e interessanti sculture dell’autrice, per un necessario approfondimento critico  del testo in questione.
Di raccolta si tratta e non tematica, fatta eccezione per una silloge di dodici liriche a cui si è voluto dare, con illuminato intuito, il titolo di Un anno di poesie abbracciate.
Sono versi, tutti, che più che rincorrersi, si affacciano timidi sulla carta delle pagine, con un pudore naturale proprio di una lontana infanzia, in un candore di sentimenti e di emozioni espressi non con roboanti artifici, ma che sembrano sgorgare sotto gli occhi come una fresca e invitante polla d’acqua.
Quindi una caratteristica essenziale è la semplicità, quel travaso di idee creative che non passa per ferree logiche sintattiche, per laboriosi e astrusi calcoli di metrica, ma fluisce come un suono della natura, in un equilibrio armonico che incanta e stupisce  (Stasera, / nell’ora in cui il giorno / depone la sua veste stanca / e, pigra, la luna / nel cielo si adagia, / violenta, la nostalgia di te / mi assale. /…).
Peraltro, se il dolce e l’amaro di Dulcamara sono i due aspetti della vita di ognuno di noi, è altrettanto vero che anche laddove prevale una nota malinconica emerge sempre un raggio di speranza, come se l’autrice volesse dirci che il nostro percorso terreno, anche se costellato a volte da dolori, merita sempre di essere vissuto, con la massima intensità, come se ogni giorno potesse essere l’ultimo ( …/ Come potrò dimenticare la tua amicizia / che a piene mani mi hai donato / senza che io avessi seminato niente. / …).
E nella minisilloge Un anno di poesie abbracciate, che da sola è un autentico gioiello, aggiungendo preziosità ad altre pregevolissime poesie, Mara Faggioli si permette addirittura un’invenzione che giustifica il titolo, con il verso finale di ognuna che rappresenta anche quello iniziale della successiva. Un vezzo, un capriccio estetico di una poetessa che vuole mettersi a costruire versi e non a modularli come prorompono dall’intimo? No, assolutamente no, perché questo piccolo escamotage, più che una funzione estetica, ha un ruolo di concatenamento logico fra i mesi appunto dell’anno, in un percorso ideale che è poi quello della vita, in cui accadimenti e fatti, che a volte ci sembrano del tutto casuali, sono strettamente connessi, una trama perfetta ordita dal destino (Da Giugno:…/ Si scioglie la memoria / abbandonando il tempo / e ci conduce, così,  / verso una nuova estate.) (Da Luglio: Verso una nuova estate, / nell’abbagliante luce / che dal cielo trabocca, / ci accoglie, / ebbro di sole, / luglio, / con occhi di cristallo / e cuore selvaggio. /…).
Minisilloge  che si srotola, verso dopo verso, in un lungo adagio, fra visioni di natura, accostamenti metaforici, perfino allegorie, Un anno di poesie abbracciate si legge con uno sguardo all’indietro e un altro in avanti, partecipi di questa esistenza che la mano, magica, di Mara Faggioli proietta al nostro interno in un film, di cui, pur conoscendo l’inizio e la fine, riusciamo ancora a stupirci.
Dulcamara è probabilmente il miglior libro fino a ora realizzato dall’autrice e secondo il mio parere è un’opera imperdibile.

Mara  Faggioli è nata a Firenze e vive a Scandicci (FI).

Ha pubblicato “Dedicato a Lorenzo” (ovvero storia di un bambino dolce e tenero, molto amato, chiamato “Kom Ombo”) – Ed. Helicon (2001) con prefazione di Neuro Bonifazi.

Nel 2004 ha pubblicato la raccolta poetica “Piuma Leggera” - Ed. Masso delle Fate con saggio introduttivo di Vittorio Vettori, vincitrice del 1° premio  “FIORINO d’ORO”  al Premio Firenze-Europa ed il Premio “Città di Vienna”.

Dopo pochi mesi dalla pubblicazione è uscita la 1^ ristampa.  Parte dei proventi della vendita del libro sono stati devoluti ai Padri Missionari Comboniani per l’Ospedale St. Mary's Maternity di Khartoum (Sudan).

Nel 2010 ha pubblicato la raccolta poetica “Dulcamara” – Ed. Ibiskos Ulivieri..

Ha curato la prefazione alla commedia in vernacolo “Amleto i’ vinaio” di M.Recchia.

Dal 2002 collabora con la rivista d’arte”Pegaso”.

Dal 2001 ha  iniziato a partecipare ai  premi    letterari classificandosi al 1° posto in numerosi concorsi sia per la  poesia che per la narrativa e gli haiku.

Nel 2003 è stata premiata presso la sede del Parlamento Europeo di Bruxelles per il “Grand Prix de Poésie”.

Il Comitato del Premio Titano della Repubblica di S.Marino con il patrocinio dell’Interreligious and  International Federation for World Peace le ha conferito il titolo di “Promotore di una cultura di pace”.

L’8 marzo 2011 le è stato conferito il “Premio Donna Città di Scandicci”.

Ha partecipato al progetto, coordinato dal Prof.L.Locanto di “Educazione alla lettura ed alla poesia” per gli studenti della Scuola Media Garibaldi-Matteucci di Campi Bisenzio.

Membro permanente dell’Accademia Culturale Le Tre Castella della Repubblica di S.Marino.

La Commissione Nazionale Italiana dell’UNESCO  ha inserito le sue poesie nel sito web della “Babele poetica” in occasione delle giornate mondiali della poesia 2003 e 2004.

Una sua poesia è stata scelta  da Maurizio Costanzo e letta a Rai Uno nel programma "L'uomo della notte" .

Alcune sue poesie sono state tradotte in francese, inglese, polacco, russo, greco e romeno.
La poetessa Mihaela Cernitu ha curato la traduzione in romeno e la pubblicazione in Romania nella rivista d’arte Lamura e nel  sito  on-line http://cetatea-lui-bucur.com/

E’ inserita nel “Dizionario degli Autori Italiani del Secondo Novecento”, “Donne in arte”, “Letteratura Italiana dal Secondo Novecento ad oggi”, “Arte e pensiero”, “Pegaso”, “Canzoniere d’amore”, “Atlante Letterario Italiano”, “Le donne:  la storia, le storie” realizzato da Auser-Coop, “Poesia e Musica”, “Poeti e Poesie della Toscana”, “Scrivere” , "... questo calice amaro" ed in varie antologie e riviste letterarie e d’arte.

E’ impegnata in attività “no-profit” in ambito culturale e sociale.

Come scultrice e pittrice ha partecipato a varie mostre personali e collettive in  Italia ed all’estero.

Ha ricevuto il “FIORINO d’ARGENTO”  per la   SCULTURA alla XXV Ed. del Premio Firenze-Europa
il 1° PREMIO  alla  1^ Ed.Concorso Naz.le di Pittura, Scultura e Poesia “Città di Montecatini”; 
il 2° PREMIO  alla  2° Ed. del suddetto Concorso;
il 2° premio alla 18° Edizione del Concorso di Pittura, Grafica e Scultura "G. Gronchi" di Pontedera; il Premio "Il Magnifico" I Edizione; segnalazione di merito alla 12^ Ed. Concorso Nazionale di Pittura, Grafica e Scultura “G.Gronchi
” di Pontedera; segnalazione di merito al Concorso di Pittura e Scultura "Piccolo Formato" La Tavolozza di Pontedera.

Nel 2009 ha conseguito un importante riconoscimento: la sua scultura "Solidarietà" è stata scelta quale simbolo per rappresentare lo Scudo di San Martino per la XXVI Edizione - Anno 2009 - ed andrà a far parte della raccolta dell'Istituto Scudi di San Martino che ogni anno premia persone distintesi in atti di generosità, altruismo e solidarietà umana.

Di particolare rilievo internazionale la Mostra itinerante del Comitato Promotore della Pietra Lavorata del Comune di Castel S.Niccolò “Omaggio a Francesco” allestita nella Chiesa delle Stimmate a Roma, nella Cripta della Basilica di  S.Croce a Firenze, nella  Basilica di S.Francesco ad Arezzo, al Santuario della Verna, nel  Palazzo Chigi di S.Quirico d’Orcia, nella Basilica di S.Francesco a Pisa, nella Chiesa di S.Andrea a Montevarchi, nella Basilica Superiore di S.Francesco ad Assisi, nella Basilica di S.Francesco a Cracovia (Polonia).E’ stato pubblicato un catalogo con la presentazione del Prof. Antonio Paolucci.

Su invito del “Comité de Jumelage” di Pantin (Parigi) ha fatto parte della Delegazione del Centro d’Arte Modigliani di Scandicci partecipando all’VIII Mostra di Arte Contemporanea italo-franco-russa a Pantin (Parigi) sia come poetessa che come scultrice.

La mostra personale "Donne di cuori, donne di fiori, muse ispiratrici" presso il Palazzo del Podestà del Galluzzo e presso il Palazzo Comunale di Scandicci ha ricevuto notevoli consensi di pubblico e di critica. La Dr.ssa Silvia Ranzi, in un'accurata e significativa presentazione ha definito la mostra "un autentico inno alle arti ed alla donna. L'universo femminile è infatti il fil rouge tematico su cui ruotano le competenze creative di un'artista sensibile e versatile, impegnata su una pluralità di registri espressivi: poesia, scultura, pittura, discipline interagenti che costituiscono le sezioni su cui si articola l'esposizione delle opere".

Alcune opere di scultura sono  state scelte per la copertina del libro di poesie “Adiacenze e lontananze” di Ninnj Di Stefano Busà, Presidente per la Lombardia dell’Unione Italiana Scrittori e per l'Antologia del Concorso Letterario Internazionale Titano 2008 della Repubblica di San Marino.

Sue opere  si trovano in collezioni private in  Italia, Germania e Canada, in permanenza presso i Comuni di Firenze, Montelupo F.no, Greve in Chianti, Castel S.Niccolò, Colonna (Roma) e presso la Basilica Superiore di S.Francesco ad Assisi.
Renzo Montagnoli

 

23/03/2011

1984
di George Orwell

Edizioni Mondadori
Narrativa romanzo

Un romanzo profetico

Più distopico di così questo romanzo non potrebbe essere, con una visione di una società assolutamente indesiderabile, ma non poco profetica.
Se la suddivisione nel 1984 della terra in tre grandi potenze totalitarie perennemente in guerra fra loro non ha riscontro nella realtà, la figura del Grande Fratello, il capo onnipotente che nessuno ha mai visto, richiama quei poteri occulti ai quali si attribuiscono oggi tutti gli eventi di portata mondiale, come le crisi economiche, le speculazioni finanziarie e l’insorgere di nuovi conflitti.
Inoltre il controllo capillare dei cittadini, unito al bombardamento mediatico propagandistico attuato 24 ore  su 24, pur nella trasposizione fantastica che ne fa l’autore ha un indiretto riscontro nell’asservimento mentale a cui siamo sottoposti da decenni di programi televisivi sempre più deculturizzanti, che se non si traducono in una spia della vita privata, tendono però a a depauperarla, con un appiattimento volto all’eliminazione della libertà di pensiero.
Perfino il linguaggio dei nostri politici e dei nostri commentatori televisivi va sempre più assomigliando con la Neolingua dei protagonisti del romanzo, con le parole che riducono il significato ai concetti più semplici, quasi elementari, impedendo così di fatto il sorgere di un pensiero critico individuale. Inoltre, la storia non si conosce più e in tal modo i capi possono permettersi di sbagliare, perché tanto nessuno ci farà caso o se ne ricorderà, senza dimenticare che l’assenza cognitiva delle origini induce gli individui all’incapacità di prendere decisioni, che saranno così imposte da chi regge il timone.
Certamente nel romanzo tutto ciò è portato all’estremo, viene insomma enfatizzato, ma se ci fermiamo per un attimo e guardiamo all’intorno noteremo che il 1984 è già tra noi.
Un Orwell quindi capace di andare molto avanti nel tempo e del resto non è improbabile che l’idea per il romanzo sia maturata nel 1940 quando alla BBC conduceva una trasmissione radio di propaganda rivolta all’India, paese dove era nato. Non era ancora a conoscenza dei nefasti effetti della televisione, che con l’immagine impone la verità di parte, ma la conoscenza dei metodi sovietici, da lui verificati nel corso della guerra di Spagna, oltre a ispirargli il celbre romanzo La fattoria degli animali, di certo non poco contribuirono a costituire il substrato su cui poi imbastì il geniale “1984”.
Questo libro, quindi, è senz’altro da leggere, per comprendere il presente, senza tuttavia dimenticare che qualsiasi fantasia affonda le radici nella realtà e la situazione contemporanea è il risultato di un lungo continuum storico iniziato molto prima della stesura del romanzo. Il grande merito di Orwell è di aver saputo cogliere certi fatti, i prodromi della società del futuro, la nostra, e di essere riuscito a elaborare una proiezione nel tempo dimostratasi veritiera.

George Orwell, pseudonimo di Eric Arthur Blair, nacque a Motihari (India) il 25 giugno 1903 e morì a Londra il 21 gennaio 1950. Giornalista e scrittore è giustamente ricordata per due suoi romanzi di notevole spessore: La fattoria degli animali e 1984.
Renzo Montagnoli

 

18/03/2011

Luoghi
di Vito Moretti

Note critiche di Daniele Maria Pegorari
e Giacomo D’Angelo

Edizioni Tabula Fati
www.edizionitabulafati.it

Poesia
Collana A lume spento
 

Impressioni di viaggio in poesia

 Credo che sia indubitabile che un viaggiatore attento, soprattutto se poeta, sappia vedere i luoghi che incontra lungo il suo cammino con un occhio del tutto particolare, così da percepirne l’intima essenza, quel profumo di vita e di storia che un insieme o anche dei particolari emanano a chi sa coglierlo, con il dovuto rispetto, nel silenzio, calato nell’atmosfera particolare che è sempre presente.
Vito Moretti ha così intrapreso un viaggio che è una scoperta di vita, un’analisi interiore, alla ricerca, nel presente, di un passato a cui lasciarsi andare per capire, per dipanare fili di esistenza aggrovigliati, per percepire con il cuore ciò che sta oltre la razionalità matematica, e spesso arida, del lavorio della mente.
Nel suo itinerario in Terrasanta è chiaramente avvertibile quell’atmosfera mistica che fa di quei luoghi fonti di improvvise e accecanti rivelazioni, che può far nascere una fede, oppure rafforzarla, che ispira rispetto e ammirazione anche all’ateo convinto (da Nella casa di Maria: La strada non era quella di Nazareth / e l’ombra non saliva fino al pozzo / e ai cardi, ma il cielo era azzurro / come nelle parole del tuo nuovo figlio ed Efeso / era già dimora di battezzati che ti persuasero / al rifugio e che per te intrecciarono un capanno / di foglie dove ora sosti quando il caldo / ti costringe al fresco del castagno selvatico /…).
La visione della natura in quella terra segnata dal destino è una trasparenza di immagini fluttuanti, quasi eteree ( Da Le acque del Giordano: Era tersa in quell’angolo e ostinata / l’aria di Galilea, paziente il fiume / nel riflesso delle canne e dei sambuchi. / Il giorno rallegrava la cima di Hermon / e tagliava le ombre sui dossi consumati / dal vento e sulle scese dei donativi e delle rinascite. /…).
Ma il viaggiatore attento ovunque può cogliere il respiro di ogni luogo, sia che si tratti di un’antica cittadina, arroccata su un colle (da Volterra: A quali amori e a che abbracci / Volterrà prestò l’ombra / delle sue tamerici e a che fantasmi / lasciò sopire i sensi nella trama discreta / dei suoi vicoli? /…), sia che la meta sia costituita da una metropoli, pur adornata da antiche vestigia (da A Montmarte: La cicala raccoglie sull’ulivo / di Stendhal il lungo singhiozzo / dell’insegna che cigola / e canta tutto il suo nulla / sulla voce che sale allegra / al pianolo. Nella coda dei gitanti / ritrovo la memoria dei volti sudati, / il carosello di voci della Place / du tertre, due mani / nella stretta di un bacio. /…).
Sono tanti i posti visitati, piccoli, grandi, fiumi, mari, monti, un microcosmo che si unisce in un coro di cui il poeta è al tempo stesso cantante e direttore, un lungo magico adagio a cui lasciarsi andare, per scoprire realtà ignote, per vedere, con gli occhi di Moretti, oltre le immagini, per assaporare atmosfere inusuali che lentamente ci conducono per mano in lungo viaggio all’interno di noi.
Luoghi è una raccolta poetica straordinaria, assolutamente da non perdere.

Vito Moretti, originario di San Vito Chietino, risiede a Chieti. È poeta in lingua e in dialetto e critico letterario. Ha esordito con alcuni poemetti sul finire degli anni Sessanta e, successivamente, ha dato alle stampe varie raccolte di versi, un libro di racconti e alcuni volumi di saggistica. È tradotto nelle principali lingue moderne.
Renzo Montagnoli

 

Prigioniere del silenzio
di Maria Carmen Lama

RECENSIONE di Giovanna Giordani

Il titolo mi riporta automaticamente a un bellissimo saggio sul “Silenzio” di Natalia Ginzburg facente parte della sua raccolta “Le piccole virtù”. E quindi la curiosità verso l’opera poetica di Maria Carmen Lama “Prigioniere del silenzio” va  soddisfatta quanto prima!
Non rimango delusa. Scorrere ad una ad una le sue poesie è come ascoltare la voce sincera di un’amica.
Lo stile è, infatti, colloquiale e diretto. Non sceglie molte metafore o perifrasi la nostra autrice, ma un linguaggio che vuole giungere al lettore senza equivoci pur mantenendo alta la connotazione poetica. Traspare dai versi un grande desiderio di liberare sentimenti, riflessioni, stati d’animo che fanno parte in maniera preponderante dell’universo femminile.
Perché il silenzio può essere gradito se racchiude in sé la certezza di sentimenti genuini supportati da atteggiamenti coerenti, ma può essere altresì doloroso se “obbligato”  per paura e incomprensione di chi ci sta accanto, che non sa e non vuole ascoltare.
È di questo silenzio che la poetessa sente l’esigenza di parlare. Il silenzio che deve essere infranto, il silenzio che deve aprire le porte alle parole, affinché possano esprimersi,  essere ascoltate,  essere capite in modo da poter vivere la vita e i rapporti umani nella libertà e nel rispetto. Perché, citando ancora la Ginzburg,  “il silenzio può diventare una malattia mortale”.
Cerco di immaginarmi la genesi di queste poesie di Carmen. Le riflessioni scaturite da confidenze sommesse, timorose o da notizie lette sui giornali o udite in tv; nomi di persone alle quali dedica i suoi versi.  Ma non mancano certo anche le liriche scaturite da particolari stati d’animo del vissuto personale della scrittrice.
Cosa c’è, dunque, di meglio che tradurre in poesia le parole “prigioniere”? Carmen l’ha saputo fare in maniera egregia con questa silloge  estremamente interessante.
Le poesie si alternano fra versi di denuncia e di veemente richiesta di dignità a versi che prendono a simbolo gli spettacoli della natura per esprimere le sensazioni dell’anima, a volte triste, a volte orgogliosa, il più delle volte sofferente. Queste poesie vorrebbero aprire i cuori e le menti di quella parte maschile (e qui credo sia giusto precisare che, per fortuna, è solo una parte, anche se abbastanza consistente, credo) ottusa e trincerata dietro usi e costumi ipocriti che non fanno altro che confermare o legittimare un egoismo di fondo.
Ci sono versi, poi, che ti sorprendono per l’originalità espressiva come ad esempio “frammenti di bontà decapitata  inLei non saoppure “pensiero quasi muore/vivo, debole, tenue velato/impallinato dal silenzio truce” in Quasi muore e, naturalmente, tantissimi altri che permeano la silloge.
Percepisco in queste poesie tutto l’amore, la solidarietà,  nei confronti di quelle donne (e sono ancora tante sul pianeta, ma non tutte, per fortuna) che non hanno la possibilità di esprimere al meglio la loro personalità, i loro sentimenti; quelle donne che non sono valorizzate perché ritenute inferiori e quindi relegate al “silenzio”.
La raccolta è corposa, le poesie sono poco più di cento e mentre le scorro ad una ad una capisco che non si possono leggere in fretta, ma bisogna soppesarne adeguatamente le parole che sotto un’apparente semplicità esprimono profondità di sentimento e  analisi introspettiva notevoli.
Così le parole della nostra poetessa ci giungeranno come un dono, il dono della sua sensibilità verso coloro che “non possono dire” e ai quali (o, meglio, alle quali) vuole riservare uno spazio importante nella sua arte poetica.

Leggere Carmen Lama è un arricchimento, è l’accendersi di una luce che illumina, riscalda, affratella.
Per chiudere queste mie riflessioni non scelgo la poesia che dà il titolo alla silloge (la lascio “scoprire” ai lettori!), ma un’altra, a parer mio, altrettanto emblematica e che trascrivo interamente:
Se muore la parola
Se muore la parola/tutto si ferma/sbiadiscono i colori delle rose/attonito sta il cielo/ad avvolgere il mondo/consapevole del suo/essere inutile./A me, tutto d’intorno/cresce il silenzio/come torre d’avorio/mi rinchiude/altro non so e non vedo/altro non sento/che il battito del cuore/sempre più lento/sempre più distratto/consapevole del suo/essere inutile/.Se muore la parola/io piango il lutto/mentre l’abbraccio/per tutto quel che è stata/per l’amore che ha cullato/in te, in me, in noi/ma insieme a lei /  anch’io/  io dentro muoio/. Se la parola muore non esiste più nulla.
Grazie Carmen, continua a parlarci, è bello ascoltarti.
Giovanna Giordani

 

17/03/2011

Energia del vuoto di Giulio Marchetti
Puntoacapo editrice, 2010

La poesia di Giulio Marchetti vive di una poetica molto difficile, per questo la lettura del suo nuovo libro " Energia del vuoto" ha bisogno di tempo per sedimentare. Le parole devono essere comprese del tutto e ogni frase deve essere riletta un po' di volte. Le poesie di Marchetti sembrano delle "poesie semplici" nel senso che non usano strani barocchismi o oscuramenti letterari. Sono parole crude. Fatte come sono fatte. Senza orpelli e chiusure ,anzi aperte ad una continua ricerca di significati.
Una poetica forte ha bisogno di parole forti. Bisogna conoscere il vuoto per descriverlo, bisogna viverlo in tutto: " Conoscere l'aria, la struttura del vuoto,/ la giusta adesione alle cose,/ la giusta distanza: così potremo cogliere/ il riflesso del male sui vetri opachi,/ la lieve sublimazione degli eventi/ che costringe i sorrisi/ dentro volti sconosciuti,/ la pazienza delle ossa cariche di fiato,/ le insidie del vento, la luce naturale." ( p. 5 " Luce Naturale"). Conoscere per poter essere liberi di spaziare nel vuoto continuo che ci accerchia e attira a sé. Questo è naturale, ogni momento ne è pieno: ansie, amori, noie, pensieri. Tentare di capire ogni cosa è naturale, naturale come la luce. Marchetti usa spesso l'io e riempie le sue poesie del soggetto poetante, riuscendoci, scavalcando la banalità; rendendo la realtà unica e determinante. " E' vero./ Potrei cucire le stelle di ogni cielo/ e sentire solo un palpito nel buio/ al posto del cuore./ Ho scelto l'amore cieco per amore/ dei tuoi occhi./ Ho deciso di vedere soltanto/ attraverso di loro."( p.7 "Occhi"). Le poesie si costruiscono anche sul frammento, sul verso breve, scarno e completo. " Ogni volta che tu dici amore/ io vibro, decollo,/ trascendo,/perché sai della mia vita,/ la chiami,/ la consideri degna/ di una tua parola." ( p.8 " Frammento"). L'umiltà del vivere sta pienamente nell'opera di questo poeta, che canalizza le sue forze, fa vibrare le sue corde per poter descrivere momenti, attese e brillanti destrezze stellari. Come non pensare a varie poesie della raccolta piene di stelle, cieli e azzurro. Un continuo tendere verso l'alto, una proiezione continua nei cieli, nell'oltre. " Ci sono angoli di luce perduti in volo./ Istanti di cui è protagonista l'immenso./ Urgenza tonale e vuoto silente./ Incauto limite di essere altrove/ senza cieli da erigere a guardia dell'infinito/ per un'assorta e stridula gioia celeste/ che anche lontanamente simuli l'ebbrezza del cuore/ al pensiero di un risveglio sublime come un'alba/ in cui potersi finalmente rincontrare negli occhi." ( p.12 " Fotografia"). E continuiamo con la breve " Fantasmi": " Muoio anch'io sotto il peso/ dell'aria./ Mi sfiora chiunque./ Non si vede l'azzurro oltre,/ la luce oltre./ Tutto c'è e nulla accade. ( p.14). Qui l'azzurro non si vede ma c'è come ogni cosa e niente cambia, si sfiora tutto se veramente si vive. Si porta in silenzio tutto, con pesi e misure differenti, ma si è sempre in pieno e profondamente nella vita per descriverla e per tradurla in verso. Lo straniamento del libro parte in modo ovvio da un titolo poco classico e pieno di suggestione, creando non solo l'energia di questo vuoto, vissuto in una continua scomparsa delle due figure principali di questo canzoniere. La voglia continua dello sparire come salvezza o cura, per non assistere allo sfacelo amoroso. Sempre e comunque ricercato e avvertito.
" Che sarebbe iniziato da una partenza,/ sapevamo, una fuga consapevole/ dei millimetri spesi/ all'insegna della scomparsa./ Tutte le nostre visioni/ possono addentare la terra/ e tenerla dove un graffio di cielo/ inazzurra i confini dell'attesa./ Per questo dovremmo imparare/ a morire spesso. Andiamo./ Sento la voce degli allarmi/ in riposo, la tensione dell'uragano/ sostituita al silenzio." ( p.16 " Millimetri"). Stupenda la frase " Per questo dovremmo imparare a morire spesso." Che da l'idea di come si possa tramutare dolore, renderlo gioia d'attesa, incontro e pace.
C'è frequentemente in Marchetti una continua ricerca del dolore. Voglia di farsi del male con le emozioni, le azioni e le stesse parole usate come arma a doppio taglio.
" Devo alle oscure stratificazioni dell'iride/ l'assenza morale, la striatura che schiva l'abisso/ e incrocia l'aurora in un lieve strappo/ di superficie, solo vetri e coltelli/ schizzati dalla carne voltano una lunga/ asfissia verso il muro, invisibili colpi letali./ Quando le ferite si lasciano leccare/ da lingue di fuoco, la quiete ci appartiene/ in questo inferno."
In questo caso i versi ripropongono la quiete, il silenzio. L' inferno, visto e mostrato, reso naturale e quotidiano dalla voglia continua di esporsi nel proprio ripetuto dolore.
Tentare di renderlo innocuo facendolo poesia. Portandolo in un dolce e paradisiaco luogo di quiete : la pagina di un libro. " Chi sogna concede solo attimi al buio./ Piove sull'asfalto che odora di cielo./ E' stato facile chinarsi per deporre l'azzurro./ Meglio essere vivi e camminare da soli./ Non possiamo volare con le stesse ali". ( p. 22 " Azzurro".) La ricerca continua di se stessi, come se si vivesse in un mare di ombre e a caso, ognuno cercasse la sua, la propria, quella donata all'inizio di ogni vita. " Ho seguito la mia ombra/ avida di stelle/ ben oltre la pazienza/ dell'alba./ Solo la polvere asciuga/ la polvere, / non l'eco./ Non la voce che soffia l'orizzonte/ ogni giorno più lontano/ e lascia noi due/ quasi estinti in superficie / a strofinare./ Oggi le parole sono indietro/ di un respiro./ Gli occhi scavati all'interno/ sono pieni di altri occhi./ Io guardo e penso./ Tento una meccanica lontana dall'urto/ ma molto vicina al cuore". ( p.29 " Penso".) Perfetta la frase " Oggi le parole sono indietro di un respiro", l'impossibilità di dire con le parole tutto quello che si sente, tutto quello che si vede. L'impossibilità di andare oltre. In chiusura la sicurezza di ciò che si è scritto e detto attraverso immagini forti e notevoli. " Essere come l'attimo prima/ del silenzio, la furia immobile/ degli sguardi, aria concreta./ Energia del vuoto./ Io sono l'addio sulle tue labbra/ e so che non tremi." La nota finale di Paolo Ruffilli parla giustamente di un teatro privato in cui l'innamorato finisce ogni volta imprigionato, preso da legami instabili che introducono il vuoto.
Il bello nella poesia di Marchetti è l'urgenza di farsi sentire, di non schiacciare il proprio grido fra fredde e rigide descrizioni di oggetti. In Marchetti vige la voglia di ascoltare questa voce, la sua, intensa e piena di umiltà, di segni di dolore.

Giulio Marchetti è nato a Roma nel 1982.
Dopo Il sogno della vita (Joker, 2008), selezionata tra i vincitori del Premio Carver 2008 e segnalata con menzione speciale della giuria al Premio Laurentum 2009, giunge alla seconda pubblicazione per i tipi di Puntoacapo editrice con la raccolta Energia del vuoto – postfazione a cura di Paolo Ruffilli.
Luca Minola

 

14/03/2011

Eneide
di Publio Virgilio Marone

Cura e versione di Mario Scaffidi Abbate
Edizione integrale con testo latino a fronte

Newton Compton Editori
www.newtoncompton.com

Poema
Collana Grandi tascabili Economici
Newton Classici

Un’opera immortale

Canto l’eroe che profugo da Troia / venne in Italia ai lidi di Lavinio, / che, sballottato per terra e per mare / dal volere divino e dalla rabbia / tenace di Giunone / in lotta ancora / molto soffrì, finché pose nel Lazio / la sua sede e i suoi dèi, donde la stirpe / latina, i padri Albani e l’alta Roma. /…

Virgilio è ormai un poeta famoso, grazie a Bucoliche e a Georgiche. Onorato, oggetto di doni e altamente retribuito si potrebbe considerare un artista arrivato, che ora gode dei frutti del suo talento. Non è tuttavia così, perché il poeta è consapevole che se i testi che gli hanno dato la gloria sono di altissimo livello, tuttavia non riescono a completare un ciclo artistico che faccia di lui un faro e un mito della letteratura. E’ grande, anzi grandissimo, ma ancora non è entrato nel sogno degli uomini, ancora non è stato in grado di evocare drammi e passioni come quell’Omero che ha scritto l’Iliade e l’Odissea, poemi epici, e pertanto in grado di lasciare una scia leggendaria che non si disperderà nel tempo, ma che anzi, con il trascorrere dei secoli, finirà per riverberare di una luce propria, di un alone mistico proprio delle opere immortali.
Tuttavia, Virgilio è un uomo schivo, per certi versi ombroso e solitario, e benché in lui alberghi il desiderio di entrare nella storia come una leggenda, gli manca il conforto esterno, o meglio lo stimolo per attizzare la sua arte e concretizzare il suo desiderio.
Nell’anno proprio di ultimazione di Georgiche, commissionatagli indirettamente da Ottaviano, da questi verrà l’idea di realizzare un lavoro che da un lato enunci l’origine divina di Roma e, soprattutto dei suoi capi e del futuro imperatore, e dall’altro giustifichi l’operato di Cesare e di conseguenza il predominio dei successici Cesari, realizzando anche quella concordia nazionale indispensabile per una rinascita post repubblicana, che veda i cittadini orgogliosi di essere romani e come tali ligi alle tradizioni, al senso etico e all’incondizionato rispetto per lo stato, qualunque sia la forma in cui è costituito.
E’ così che nasce l’Eneide, più di un capolavoro, un’opera sopra il tempo e senza tempo, in cui l’impronta epica s’accompagna a pagine struggenti, in cui si agitano e si amalgamano personaggi e sentimenti unici, frutto di una sensibilità  poetica che non ha mai avuto uguali, né mai ne avrà, almeno fino a oggi.
Opera forse incompleta (consta di dodici libri contro i 24 dell’Odissea e dell’Iliade alle quali si ispira) e non revisionata per l’improvvisa e prematura scomparsa dell’autore, resta tuttavia un canto di infinita bellezza che va ben oltre le intenzioni di Ottaviano e che ancora  ci portiamo appresso, stupiti, per non dire increduli, incapaci di comprendere come un uomo di più di duemila anni fa sia stato capace di creare il mito della nascita di Roma con un personaggio tutto sommato terreno come Enea.      
E se le passioni sono proprie degli uomini, ma anche degli dei, in fin dei conti creati dagli uomini stessi, questo poeta contadino, venuto dalle nebbiose lande di Mantova, riesce a elevarsi oltre la materialità dell’essere, scompare, ma non muore, oltrepassa l’Ade per vivere in eterno con la sua Eneide.

Publio Virgilio Marone (Andes, 15 ottobre 70 a.C – Brindisi, 21 settembre 19 a.C.).
Opere principali: Bucoliche, Georgiche, Eneide.
Renzo Montagnoli

 

12/03/2011

George Steiner
La lezione dei maestri

Charles Eliot Orton Lectures
2001-2002
Titolo originale Lessons of the Masters

Ed. Garzanti
Genere-Saggistic
a

Quarta di copertina. “Che cosa autorizza un uomo o una donna a istruire un altro essere umano? Dove risiede la fonte dell’autorità dell’insegnamento?”

Nelle note introduttive l’autore dà una semplificazione del contenuto di questa serie di lezioni tenute alla  Harvard University nell’anno accademico 2001-2002.
Steiner disamina la figura dell’insegnante e al mistero che si cela dentro la “professione”. Nelle molteplici infinite forme d’insegnamento – elementare, tecnico, scientifico, umanistico… si perde la distanza necessaria nel considerare il prodigio della trasmissione. Che cosa autorizza un uomo o una donna a istruire un altro essere umano? Dove risiede la fonte dell’autorità dell’insegnamento? La questione tormentava Sant’Agostino ed è diventata scottante, soprattutto, nella società contemporanea in cui la cultura è considerata meno ai fini utilitaristici del profitto. Steiner  individua tre tipi di relazione intercorrenti tra maestro e discepolo. I maestri che al pari di vampiri hanno distrutto psicologicamente ( paradossalmente anche fisicamente) i loro allievi. Ne hanno spento gli spiriti, le speranze, sfruttando la loro dipendenza. Come contrappunto allievi che hanno tradito i propri maestri. Appena eletto Rettore, Wagner allontanerà un Faust morente, già suo magister. Abbandonare il proprio maestro per diventare se stesso. La vicinanza elettiva tra Virgilio e Dante e il  venir meno della dipendenza tra maestro e allievo è manifesto dall’esilio irreparabile di Virgilio dalla salvezza: l’ intransigenza di Dante nel relegare Virgilio nell’etterno esilio, eppure il momento dell’addio porta la Commedia ad uno dei suoi punti più alti di pathos letterario (Purgatorio xxx). Il terzo tipo è quello dello scambio, idealmente una sorta di osmosi in cui il maestro apprende dal discepolo mentre gli insegna. L’intensità del rapporto genera amicizia nel più alto senso della parola. Si pensi a Socrate e Alcibiade, Abelardo e Eloisa, Heidegger e Arendt. Queste modalità di relazione assumono svariate sfumature ed ha ispirato testimonianze religiose, filosofiche, sociologiche e scientifiche. É stato inteso l’insegnamento autentico come imitatio di un atto  trascendente, divino, l’insegnante un messaggero la cui ricettività ispirata lo ha reso capace di apprendere un Logos rivelato; è questo il modello che conferisce validità all’insegnante della Torà, all’interprete del Corano, al commentatore del Nuovo Testamento. Per analogia tale paradigma si estende all’insegnamento secolare per cui l’autorità didattica si ottiene grazie alla dimostrazione esemplare, l’insegnante dimostra e mostra allo studente la propria capacità, nell’eseguire o l’esperimento chimico, o a risolvere un equazione …. L’insegnamento esemplare è una messa in atto, è valido in quanto si mostra, il dicere latino, che significa mostrare, e solo più tardi, mostrare dicendo. ( L’insegnante, in fin dei conti, non sarà forse uno showman?). Queste naturalmente sono idealizzazioni, la figura del maestro, investito di un potere psicologico, che può premiare, punire, escludere; la sua autorità istituzionale, carismatica o entrambe le cose cozzano  con le odierne culture in cui figure sociali di potere sono ben altre. In passato la dottrina, la doxa e il materiale da insegnare erano, spesso,  considerati pericolosi per essere trasmessi, solo una manciata di eletti, di iniziati poteva ricevere il vero intendimento del maestro. Delle figure esemplari dell’antichità classica  come Eraclito, Pitagora, Parmenide, Socrate… poco si conosce dei loro  metodi di insegnamento,  pervenuti, nella migliore delle ipotesi,  in frammenti o attraverso le citazioni, forse, imprecise o critiche come quelle di Platone, di Aristotele. Steiner, in particolare, appunta l’attenzione su Gesù e Socrate, due Maestri, che pur non avendo lasciato nessuna parola scritta, hanno fondato la tradizione occidentale, sono il cardine della nostra civiltà. I racconti della passione generano l’intimo alfabeto, il codice di gran parte del nostro idioma morale, filosofico e teologico. Hanno istillato nella coscienza occidentale sia una tristezza irrimediabile sia una febbre di speranza. Il rapporto tra Socrate e Gesù è individuato nell’insegnamento, nella relazione tra maestro e discepolo, ad Atene e in Galilea e a Gerusalemme. Il pedagogo itinerante e il dialettico virtuoso sono dotati della capacità del genio, l’uno di articolare l’insegnamento attraverso i miti, l’altro di ideare parabole. Queste due modalità di doxa condivise provocano molteplicità e potenzialità di interpretazioni infinite. Tengono lo spirito umano in uno stato di squilibrio. Eludono la nostra comprensione quando sembra che ne abbiamo afferrato il significato. É questo il modello dell’aletheia heideggeriana, di una verità che si nasconde nello stesso processo di svelamento. I miti narrati da Platone, le parabole offerte da Gesù incarnano ciò che vi è di decisivo e di inspiegabile nell’attività dei maestri, nell’arte dell’insegnamento, investita come da un’aura di sacralità.  
La lezione del maestro in origine è stata quella del sacerdote, nella filosofia presocratica e classica questa modulazione fu quasi impercettibile. Il magisterium medievale e rinascimentale fu quello del dottore in legge, con Tommaso d’Aquino o San Bonaventura. Il retaggio teologico s’indebolì, ma le sue convenzioni rimasero forti, sottoscritte da una deferenza indiscussa. Riverire  il proprio maestro, rispondeva al codice naturale del rapporto. Qualora reverenza e deferenza si affievoliscono restano il rispetto, l’ammirazione.
Quella attuale è l’età dell’irriverenza. Le cause di questa profonda trasformazione sono dovute a  rivoluzioni politiche, sommosse sociali e allo scetticismo che le scienze portano con sé. L’ammirazione è passata di moda, siamo abituati ad un livellamento verso il basso. La nota prevalente è quella dell’impertinenza provocatoria.
Secondo Steiner non esiste una professione di maggiore privilegio, risvegliare in un altro essere umano forze e sogni superiori alle proprie. Anche a un livello modesto, come quello di maestro di scuola, insegnare, e insegnare  bene ha possibilità trascendenti., Insegnare seriamente è toccare ciò che vi è di più vitale in un essere umano. Il magistero è fallibile,  una pedagogia di routine, scadente è rovinosa, distrugge le speranze alle radici, immiserisce lo studente, riduce a grigia inanità la materia insegnata, insinuando il più corrosivo degli acidi,  noia. 

Nessun mezzo meccanico, tuttavia, per quanto rapido,  può cancellare il nuovo giorno che viviamo quando abbiamo compreso un maestro. Una società, come quella basata sul profitto sfrenato, che non fa onore ai propri insegnanti, è difettosa.
Non c’è  tempo per un’altra lezione? 

L’assunto centrale di questo saggio è la relazione tra docente e studente come il centro della trasmissione del sapere. In uno stile appassionato e convincente, Steiner rende omaggio ad una professione in qualche misura di per sé opaca, ma contiene ogni sfumatura possibile tra gli estremi di una vita di routine, disincantata, e un esaltato senso di vocazione.                         

Autore. George Steiner (Parigi, 1929) è figura di primo piano nella cultura occidentale. É Fellow del Churchill College a Cambrige ed è stato docente in numerose università americane ed europee, tra cui Princeton, Stanford, Chicago, Oxford e Ginevra. Tra i suoi libri Garzanti ha catalogo Tolstoj o Dostoevskij 1959, Morte della tragedia 1961, Dopo Babele 1975 e 1992, Antigoni 1984, Vere presenze 1986, il romanzo breve Il correttore 1992, Nessuna passione spenta 1996, l’autobiografia Errata 1997, Linguaggio e silenzio, nuova edizione 2001, Heidegger 2002 e Grammatiche della creazione 2003.
Arcangela Cammalleri

 

11/03/2011

Verso la poesia alla ricerca di senso - Recensione di Franca Canapini

M. Carmen Lama
Verso la poesia alla ricerca di senso


Aletti Editore - Saggistica
Villalba di Guidonia (RM) Novembre 2010

Dalla realtà evanescente, liquida, ma anche risonante e appassionante di alcuni siti e blog quasi essenzialmente di poesia, quanto mai opportuna si alza una voce generosa che segna il passo, fa il punto.
Cosa stiamo facendo? Che senso c’è in questo indefesso lavorare e darsi?

Il pensiero dell’autrice di scrivere una esegesi della poesia, nato anche dal desiderio di offrire visibilità  ad alcuni autori contemporanei, dalle cui opere è stata profondamente com-mossa,  sceglie un percorso  che, dalle origini della riflessione sull’essenza della poesia, possa condurre il lettore, pietra miliare dopo pietra miliare, attraverso l’intricato bosco dell’ispirazione poetica e della riflessione sulla stessa, fino ai nostri giorni; lo scopo dichiarato è quello di fare almeno un po’ di luce su che cosa sia davvero la poesia e come la si possa raggiungere sia da fruitori che da creatori.
A questo proposito, sembra che l’autrice sparga per noi le briciole di Pollicino, ogni briciola una definizione dell’arte poetica, mai esaustiva ma illuminante qualche aspetto e, se le raccogli tutte, giungi a casa, cioè ad un pieno di pensieri che l’autrice ha scelto per te, suggerendoti di lavorarci su, per arricchirti e proseguire più sicuro nella faticosa ed esaltante attività di scrittura/lettura poetica, che hai scelto o dalla quale sei stato scelto.

Il testo, come annunciato dal titolo, si divide in due parti.
La prima (Verso la poesia) è di ricerca teoretica e riporta, discutendolo, il pensiero critico intorno alla poesia e sulla stessa in rapporto alla filosofia, alla metafisica, all’etica e alla mistica, di alcuni autori classici e non ( Orazio, Parini, Leopardi, Mallarmé, Valéry, Emerson, Pascoli, Pozzi, Queneau, Cvetaeva, Carducci, Saba, Montale, Luzi, Zambrano). Già ad una prima e superficiale lettura, il lettore, confrontandosi con le loro poetiche, può avere più chiaro  quale potrebbe essere la sua, oppure scegliere quella che gli è più congeniale. Ad esempio, per quanto mi riguarda, credo che ogni autore citato presenti una “sua” condivisibile verità, ma ho sentito più vicino ai miei intenti la poetica di Pascoli e le riflessioni della Zambrano ( Verso un sapere dell’anima, il saggio di Zambrano cui fa riferimento l’autrice, sarà di sicuro il prossimo libro che leggerò ) sull’interscambio tra filosofia e poesia e sulla “semplicità” comunicativa, conquistata con esercizio e studio, come fine ultimo da raggiungere (   … un componimento che appaia in tutta la sua semplicità e profondità, dove ogni piccola sfumatura funzioni come chiave per aprire un significato o un senso e come luce per illuminare un passaggio… pag.147 )

Nella seconda parte ci troviamo di fronte ad alcune opere poetiche di autori del Novecento e contemporanei, che l’autrice commenta con umile e appassionata maestria, penetrandole con uno scavo profondo che la conduce ad entrare nell’anima degli autori e a sentirli con intensità, come accade solo quando ci si incontra davvero.
Lascio ai lettori la piacevole sorpresa, che è stata anche la mia, sull’identità degli autori presenti; sicuramente ognuno troverà almeno una voce nota o meno nota, che risuona più delle altre nel suo immaginario poetico e sarà contento nel vederla citata e discussa.
Sono pagine piacevoli, illuminanti, in alcune parti pervase di poesia; del resto, per quanto il critico scavi con umiltà e sapienza, il suo lavoro resta comunque un tentativo ragionevole di avvicinamento alla piccola immensità che il poeta ha comunicato e ciò che ne scaturisce  è ancora una visione soggettiva, a sua volta poetica. 

Se dovessi definire il libro con una metafora, direi che è una miniera ricchissima, dove ogni pensiero distillato (dei vari autori citati ma anche dell’autrice, pure lei scrittrice di poesie, a questo proposito segnalo: Lei parlava - pag.144) è una pietra preziosa da osservare attentamente, tenere tra le mani, specchiarcisi e lasciare al suo posto, perché altri possano fare altrettanto. E’ un luogo che stimola alla ricerca personale, affinché ognuno affondi nella terra fertile del pensiero umano e si crei la propria personale miniera.
Aggiungo che “cercare” insieme all’autrice è stato come ripercorrere me stessa in viaggio poetico, trovare consolazione ai miei sperdimenti e alle mie paure di destabilizzazione; “ ah, era solo poesia” mi sono sussurrata più volte; forse lo sapevo già o lo avevo intuito e poi dimenticato e poi intuito di nuovo…ma vederlo scritto, in qualche modo oggettivizzato, come percorso che appartiene a tutti coloro che entrano nel magma di senso poetico, è di grande sollievo.
Questo, per me, il “senso” che l’autrice cercava ed ha trovato: regalarci la consapevolezza di ciò che ognuno di noi sta facendo, spesso in preda a frenesie, cadute, ascesi, illuminazioni, tormenti, ripensamenti, elevazioni, auto-crocifissioni.

 Infine, fuor di metafora, ritengo che sia un libro “utile” non solo per i poeti e gli apprendisti poeti, ma anche per gli insegnanti e gli alunni degli Istituti Superiori e delle Facoltà Umanistiche, e per tutti coloro che desiderino approfondire il discorso intorno alla poesia.Questo bel saggio, difficile da tenere in mente nella sua totalità per l’entità di materiale che contiene, chiaro e in nessun caso noioso, non resterà chiuso da qualche parte nella mia casa; so che lo aprirò spesso, ogni volta che avrò bisogno di rassicurarmi o  di approfondire un’idea o di riferirmi ad un autore. Nel concludere vorrei segnalare una “perla” che si trova all’interno del Dibattito sulla poesia, tenutosi nel sito www.poetare.it: le considerazioni sulla poesia di Giovanni Sciacovelli.  (pag.97 e segg.)Con un linguaggio cristallino per concisione e chiarezza, Sciacovelli si esprime, in base alla sua esperienza, su ciò che è per lui poesia e su quanta poesia possiamo trovare in una raccolta e su come ogni singolo testo sia una monade da trattare con cura e attenzione. Ma va letto, perché è davvero una bellezza.
Franca Canapini

 

9/03/2011

Appunti di poesia
Vademecum per chi la ama
di Rosa Elisa Giangoia

Fara Editore
www.faraeditore.it

Saggistica
Collana Ruach

Le risposte a tante domande

“I poeti ci aiutano ad amare e ad accettare la vita, anche negli aspetti negativi, fino all’ultimo: il suo dissolversi nella morte, l’imprevisto per eccellenza, benché assolutamente noto, l’ignoto sempre temuto, per cui non abbiamo parole se non quelle che proprio la poesia ci insegna a prendere dalla vita.”

Ha perfettamente ragione Alessandro Ramberti, quando nella sua postfazione all’opera, scrive < Se avete letto questo prezioso vademecum letterario, potete senza esitazioni rispondere a chi vi chiede “cos’è la poesia? Come nasce? Come riconoscerla e apprezzarla? Come riconoscere un poeta?...>.
In effetti, più che domande rivolte da noi ad altri, questi sono quesiti che spesso ci poniamo  e ai quali possiamo dare risposte variegate, più o meno plausibili, ma sicuramente non di valore assoluto.
Di ciò è consapevole l’autrice, tanto che le risposte sono molteplici, proprio perché in campo artistico nulla è delineato secondo regole precise o assiomi che siano assolutamente inconfutabili.
Però, definire questo libriccino, di piccolo ma pratico formato, un vademecum, il “Bignami” della poesia, se da un lato è in parte vero, dall’altro è troppo riduttivo.
Rosa Giangoia, infatti, nel porsi le domande, fornendo le risposte, non si esime dallo scrivere un vero e proprio canto della poesia, un invito nemmeno tanto velato ad affidarsi da essa, sia per chi ne scrive, sia per chi la legge.
L’essenza della poesia, la poesia ci aiuta a vivere, la poesia è il regno della fiducia, la poesia è impegno e fatica sono solo alcuni dei tanti temi trattati in modo comprensibile ed esauriente, capitoletti che scorrono, pagina dopo pagina, senza che ci si accorga del passare del tempo, o si avverta un affaticamento mentale.
Non si creda tuttavia che siano semplici domande e risposte, perché l’autrice affonda la sua analisi alla ricerca di flussi cognitivi che costituiscano valori e pensieri di riferimento , così che questo lavoro di acquisizione di elementi di coscienza ben oltre quello che può essere una sensazione individuale, anzi travalicandola per arrivare a concetti generali, può essere definito, senza che ciò costituisca un azzardo, una vera e propria filosofia della poesia.
Traspare fra le righe, inoltre, un entusiasmo giovanile, che desidera essere contagioso, e lo è, un  senso di serena ebbrezza che travalica i confini del rapporto visibile fra autore e lettore, consolidando così un legame tutto sotto l’egida della poesia.
C’è sinceramente da augurarsi che questo messaggio, senz’altro recepito da chi è uso poetare, lo sia anche da chi si tiene a distanza da questa nobile arte nel timore, spesso infondato, di una sua difficoltà di comprensione, di una inattualità che non esiste, perché in un’epoca in cui la fretta domina la poesia ben risponde all’esigenza di fissare in poche righe sentimenti, emozioni, e quant’altro ancora.
Alla poesia mancano solo i lettori dei grandi numeri, quelli stratosferici dei romanzi, e comunque, anche nella migliore delle ipotesi, questi sono sempre troppo pochi.
E’ a loro, quindi, soprattutto che rivolgo l’invito a comprare e leggere questo saggio; sono sicuro che non pochi finiranno con il ricredersi e potranno così accedere al mondo magico della poesia.   

Rosa Elisa Giangoia è insegnante, scrittrice e saggista. Ha pubblicato manuali scolastici, tre romanzi (In compagnia del pensiero, 1994; Fiori di seta, 1998; Il miraggio di Paganini, 2005), un prosimetron (Agiografie floreali, 2004), un saggio di gastronomia letteraria (A convito con Dante, 2006), un’edizione delle Bucoliche di Virgilio con annotazioni in latino (Accademia Vivarium Novum, 2008) e la raccolta poetica Sequenza di dolore (Fara, 2010) con la prefazione di Antonio Spadaro. Per l’Assessorato alla Cultura della Regione Liguria ha realizzato con Laura Guglielmi la collana (10 voll.) Liguria terra di poesia (1996-2001) e per la Provincia di Genova, con Margherita Faustini, i volumi Sguardi su Genova (2005) e Notte di Natale (2005). Fa parte della redazione della rivista “SATURA” e collabora a numerose riviste letterarie e di didattica, anche on-line. Ha ideato e cura dal 2001 la newsletter Lettera in Versi, nell’ambito di BombaCarta. Fa parte di diverse giurie di Premi letterari. Sue poesie sono presenti in numerose antologie. Ha vinto vari premi letterari. È impegnata nella diffusione del Latino con il “metodo-natura” del linguista danese H.H. Ørberg.
Renzo Montagnoli

 

8/03/2011

Christe eleison
di Fiorella Borin
Copertina di Stefania Scalone

Edizioni Tabula Fati
www.edizionitabulafati.it

Narrativa racconto
Collana Malacandra

Cristo, pietà

“Venezia, 9 e 10 novembre 1561.

Mi ero assopito. Ero sprofondato in quel sonno torbido, malato, che i prigionieri conoscono bene: somiglia a una tenda bucata, che lascia filtrare qualche lampo di luce e arruffati frammenti di discorsi.”

 Ambientato nell’Anno Domini 1561 in una Venezia ancor più crepuscolare, fra giorni di luce accecante e tempeste notturne, quasi a dimostrare l’ira di Dio per la totale assenza di pietà negli uomini, Christe eleison è un racconto di straordinaria bellezza che conferma ancora una volta lo straordinario talento della sua autrice Fiorella Borin.
E’ una narrazione che prende spunto da un fatto realmente accaduto e precisamente l’esecuzione, avvenuta il 10 novembre 1561 in piazza San Marco, di padre G. Pietro Leon da Valcamonica, giudicato colpevole di aver intrattenuto relazioni sessuali con una ventina di monache e di averne affogato i figli neonati. Fu un rito particolarmente atroce, poiché non bastarono trenate colpi di maglio infertigli dal boia sul collo e così fu necessario togliergli la vita sgozzandolo con un pugnale.
Su questo crudele fatto poi la Borin elabora una storia di fantasia che va oltre quella data e che è uno straordinario invito agli uomini a riflettere, affinché in loro ritorni quella straordinaria virtù che è la pietà.
La scrittura, come al solito, è particolarmente avvincente, coinvolge piano piano fino a rendere il lettore presente ai fatti, un’ombra impotente di fronte al quale scorrono le miserie umane, i fallimenti del pensiero e dell’insegnamento cristiano, ridotti ad accessori di una liturgia che trova, soprattutto, nella morte, la più dolorosa possibile, un senso di onnipotenza da un lato e di disperazione dall’altro.
Così, pur riconoscendo la colpevolezza dell’imputato, nulla giustifica la sua orrenda fine, voluta non dal caso, ma architettata con sottile perfidia dal procuratore di San Marco, che poi finirà con il pagare, e a caro prezzo, questa sua scelleratezza.
In un mondo in cui il popolo gioisce nell’assistere alle esecuzioni con cui il potere rivendica la sua onnipotenza, emergono tuttavia due figure, una monaca e un piccolo orfano, che riscattano l’umanità e lasciano un raggio di sole di speranza in un finale in crescendo e che tocca vertici sublimi.
Il racconto si è aggiudicato il premio Tabula Fati 2009 e penso proprio con ampio e sicuro merito.
Da leggere, senza ombra di dubbio.

Nata a Venezia nel 1955, laureata in psicologia, Fiorella Borin si è dedicata per qualche anno all’insegnamento di scienze umane e storia negli istituti superiori. Ha collaborato con l’Università di Padova come cultrice della materia; in seguito ha maturato qualche esperienza in seno a piccole case editrici e nelle redazioni di riviste letterarie. Attualmente collabora con un settimanale femminile del più importante gruppo editoriale italiano.
Oltre duecento suoi piccoli lavori di narrativa, poesia e saggistica sono presenti in antologie e riviste; il racconto La tela di Penelope è uscito sul mensile “Vera” (settembre 1995) commentato dallo scrittore Alberto Bevilacqua. Ha pubblicato il romanzo breve Le putine del Canal Gorzone (Montedit, Milano 2002), la raccolta di racconti La Signora del Tempio Nascosto (Alberto Perdisa Editore, Bologna 2003), il racconto storico-fantastico Il bosco dell’unicorno (Tabula fati, Chieti 2004), e i sette brevi romanzi storici: Mir i dobro (Montedit, Milano 2005), La sciarpa azzurra (Era Nuova, Perugia 2005), La congiura degli Olderichi (Edizioni Cofine, Roma 2007), Lo scrivano (Montedit, Milano 2007), Il pittore merdazzèr (Tabula fati, Chieti 2007), La strega e il robivecchi (Tabula fati, Chieti 2010) e  La firma del diavolo (Tabula fati, Chieti 2010).
     Ha vinto una novantina di primi premi in concorsi letterari nazionali e internazionali.
Renzo Montagnoli

 

4/03/2011

Fontamara
di Ignazio Silone
Introduzione di Aurelio Picca

Newton Compton Editori
www.newtoncompton.com

Narrativa romanzo
Collana Grandi Tascabili Economici

Che fare?

“In capo a tutti c'è Dio, padrone del cielo.
Questo ognuno lo sa.
Poi viene il principe di Torlonia, padrone della terra.
Poi vengono le guardie del principe.
Poi vengono i cani delle guardie del principe.
Poi, nulla.
Poi, ancora nulla.
Poi, ancora nulla.
Poi vengono i cafoni.
E si può dire ch'è finito.” 

Scritto nel 1930 durante l’esilio, Fontamara è probabilmente il più famoso romanzo di Ignazio Silone.
E’ indubbio che per il tema trattato e per il suo svolgimento possa costituire un testo indispensabile per l’effettiva conoscenza del nostro meridione, e in ciò costituisce un preciso atto d’accusa a un sistema che tende a cristallizzare i ceti sociali, impedendo di fatto una positiva evoluzione verso un miglioramento materiale e l’acquisizione di una coscienza nazionale forte ed egualitaria.
Fontamara, che già nel nome porta in sé un destino ingrato, fatto di miseria e sofferenza, è un paesino della Marsica, il più povero fra tutti, isolato, una semplice espressione geografica, parte di uno stato che non se ne cura, che preferisce lasciare le cose come stanno, perché questo torna utile a interessi di pochi e mai soddisfatti poteri ben delineati, quali la Chiesa, il Governo (nel caso specifico quello fascista), l’imprenditoria d’arrembaggio, il cui fine non è solo il profitto, ma anche il piacere perverso di imporsi sugli altri.
In questo contesto si sviluppa una storia di soprusi, di inganni, di raggiri, tutti a danno di questi miseri contadini, i cafoni tanto per intenderci.
A loro è lecito chiedere tutto, a loro è negata ogni possibilità di elevarsi su un mondo talmente statico in cui l’esistenza non ha mai sussulti, né gioie, ma solo dolori.
Giorni e giorni sono trascinati senza speranza in un buio anonimo in cui i sentimenti si smorzano e subentra un’eterna e atavica rassegnazione, che si estrinseca in una domanda senza risposte: Che fare?
Uno di loro cercherà la soluzione, immolandosi per il bene di tutti, per unire quello che l’egoismo della miseria divide,  e se il suo sacrificio sembra sortire l’effetto sperato, ben presto ci si accorgerà che nulla è cambiato e che l’alzar la testa per protestare, in ciò stimolati da un giovante antifascista, il Solito Sconosciuto, avrà come conseguenza solo una feroce repressione di cui tanti resteranno vittime.
In tutta la vicenda c’è un’amara constatazione: sfruttati da sempre e da tutti, i cafoni sono stati sfruttati anche da chi ha loro prospettato la possibilità di un riscatto, magari in buona fede, se pur in una visione più generale di carattere politico, che particolare di carattere sociale.
Questa è gente che nulla sa, che vive senza luce elettrica perché non ha soldi per pagarla, che quando scoppia una guerra ne viene a conoscenza solo tramite la coscrizione obbligatoria, che vede nei “cittadini” degli esseri lontani mille anni, solo degli alieni che popolano un mondo che non è il loro.
A Fontamara il tempo è immobile ed è fortunato solo chi se ne va, magari oltre l’oceano, a cercare fortuna, ma spesso solo altra miseria, aggravata dalla nostalgia per il proprio paese, che non è l’Italia, bensì quelle quattro povere case dove si nasce, si vive e si muore, senza che qualcosa cambi.
In questa emarginazione è naturale e spontanea la sfiducia nei confronti dello stato, un’istituzione vista come un lontano potere che tutto toglie senza dare.
La visione di Silone è indubbiamente pessimista, scaturisce anche da un profondo sentimento di riscatto non solo dei contadini della Marsica, ma anche dei diseredati di tutto il mondo, un atto di denuncia più civile che politico e proprio per questo, libero da orpelli e da retorica, giunge più direttamente al cuore del lettore, in una nuda sincerità che si limita solo a raccontare, magari sostenuta da una sottile ironia che sembra stemperare il dramma anche con episodi picareschi, ma che alla fine si rivela per un pugno ben assestato allo stomaco, una sconvolgente rivelazione che accompagna anche a libro ultimato e che scuote la nostra colpevole indifferenza.
Fontamara non è solo un romanzo molto bello, è un autentico capolavoro.

Secondino Tranquilli (questo era il vero nome di Ignazio Silone) nasce a Pescina (Aq) il 1° Maggio 1900 e muore a in Svizzera a Ginevra il 22 agosto del 1978.
Ha scritto, oltre a Fontamara (1930,) anche i romanzi Un viaggio a Parigi (1934), Pane e vino (1936), Una manciata di more (1952), Il segreto di Luca (1956), L’avventura di un povero cristiano (1968); nella sua produzione non mancano inoltre i saggi, come Il Fascismo. Origini e sviluppo (1934), La scuola dei dittatori (1938), Uscita di sicurezza (1965).
Renzo Montagnoli

 

1/03/2011

Mentre un’altra pagina si volta
Poesie per un anno
di AA.VV.
Introduzione di Walter Mauro

LAB Giulio Perrone Editore
www.perrone.lab

Poesia antologia 

Fra poeti noti e meno noti

Nell’introduzione Walter Mauro tende a porre l’accento sulla continuità logica esistente fra la prima parte di questa antologia, composta da poesie di autori già affermati e che vengono definiti laureati, e la seconda più corposa parte, ove sono presenti composizioni di poeti per così dire esordienti.
In effetti, se di continuità si tratta, questa dovrebbe essere intesa come rigore logico, continuità di intenti fino ad arrivare alla definizione di uno stile personale che, pur risentendo degli inevitabili influssi, conduce a una ars poetica ben individuabile e sicuramente attribuibile a questo o a quell’autore.
Come sempre accade in queste raccolte antologiche il livello qualitativo è quanto mai vario, ma ciò che stupisce è che, in alcuni casi, fra poeti affermati ed esordienti non esistono differenze, e così si viene a rafforzare il concetto, o il sospetto, che il poeta sia “laureato” più per il frutto di una maturata notorietà che per il fatto che le sue opere siano di gran lunga migliori di altre.
Nel caso specifico, inoltre, si verifica anche l’insolita circostanza di poesie di autori, da cui giustamente ci si attenderebbe un risultato migliore, siano in verità di spessore e qualità inferiori a quelle di illustri sconosciuti. Insomma, la discesa dall’Olimpo a volte può mostrare la debolezza degli dei, irriconoscibili se mescolati ai mortali.
Personalmente della prima parte ho apprezzato Ballymurrin (Wicklow, Irlanda), di Paolo Febbraro ( Passeggiando cercavano – a fine / agosto – di dipingere in avanti / la sera, di non credere all’insolvenza / del tramonto….) e Poesia d’amore ritrovata, di Elio Pecora (Ammucchio frumento per i giorni / e papaveri senza odore / per ornare la soglia e le stanze /…), testi che riescono a colpire per la capacità di trasmettere sensazioni in modo lineare e apparentemente semplice.
Della seconda parte, assai più ampia e articolata, -  in cui è presente l’amico Franco Seculin con In un nuovo deserto, versi caratteristici nel suo stile misurato che a volte mi richiamano Umberto Saba -  su tutte emerge, almeno secondo il mio parere, Tempo e Ritmi, di Fabio Zario (Nel tempo / mi perdo è uno sguardo / passa evolve corre / intensamente sempre / tra fasi e stasi /…). Non è facile descrivere il concetto intimo di tempo e il suo fluire, ma mi sembra che l’autore ci sia riuscito in modo eccellente, imprimendo ai versi una cadenza ritmica che come un metronomo scandisce appunto il tempo.
Poi ci sono poesie più riuscite e altre meno, come sempre capita in questi casi, ma il livello medio resta comunque soddisfacente, anche se mi corre l’obbligo di evidenziare il ricorso eccessivo al troncamento del verso con quell’andare a capo sovente messo a sproposito, perché anziché aggiungere, toglie ritmo.
Quanto all’andamento prosastico, piuttosto frequente, questo sta diventando una costante sulla quale nutro delle riserve, ma il mio concetto di poesia è indubbiamente assai meno moderno e di conseguenza non intendo fare il censore che emerge dal passato. L’importante resta sempre il piacere della lettura, lo scoprire qualche cosa di nuovo e recepire la comunicazione come accrescimento interiore, e in questa antologia questi elementi di valutazione sono senz’altro presenti.         

Autori vari. Questa antologia è stata realizzata con le migliori poesie arrivate per il concorso "Poesie per un anno" indetto in collaborazione con Flanerì (www.flaneri.com).
Renzo Montagnoli

 

24/02/2011

Tra il fango e lo zenit, Aletti editrice
Riccardo Toni

I quaranta esiti lirici di Tra il fango e lo zenit, di rado più lunghi di una pagina, esibiscono salda e compatta unità tanto contenutistica che espressiva, e già nell’“Introduzione” l’Autore, correttamente, li raccoglie e unifica sotto l’egida del tema La Vita, colta in “tutta l’ampiezza e la vastità dell’esperienza umana: dal fango allo zenit”. Mai disperatamente declamatori né acriticamente felici i componimenti, in prevalenza incardinati su versi liberi, riflettono su diversi aspetti esistenziali da un’angolazione composta e sobria la cui cifra è forse reperibile in “Antica follia”: “Interminati giorni / di uguale quotidianità, / ognuno d’infinito valore, / perché in essi alla vita / abbiam preso parte” (p.19). La vita, colta nei suoi aspetti di lancinante dolore come di commossa bellezza, diviene così materia di indagine secca, asciutta, con forte prevalenza della riflessione generale, che si traduce in una poesia gnomica che poi, verso la sezione conclusiva, si apre a notazioni più personali, al tema dell’amore (cfr. “Aperitivo”, “Vorrei tornare con te”).

Sotto l’aspetto meramente formale, Tra il fango e lo zenit è lirica di impianto, struttura e opzioni lessicali fortemente materiate di tradizione, con echi di fonte molteplice ma soprattutto innervati si parva licet su quella linea Leopardi/Montale che è possibile individuare come asse portante di tanto Otto-Novecento italiano. Echi che non rappresentano in alcun modo calchi o peggio scopiazzature, ma si possono a parere di chi qui scrive considerare “modi” assorbiti da una sensibilità, da un’ispirazione, e da esse ritradotti con accenti che cercano una voce “altra” rispetto a quella odierna e insieme una loro via personale all’esposizione di temi, di insistenze, di immagini.

Riccardo Toni è nato nel 1981 in provincia di Modena dove vive e lavora.
Laureato a Reggio Emilia in ingegneria gestionale e a Bologna in filosofia, con la tesi "Libertà come fondamento nel primo pensiero di Martin Heidegger".
Nel 2008 ha pubblicato la raccolta di poesie "Sentieri di un viandante", ed.Kimerik.
recensione di Grandi ed Associati, agenzia letteraria.
 

23/02/2011

Le favole di Zoolandia
di Massimo Baldi

Edizioni Creativa
www.edizionicreativa.it

Narrativa Favole
Collana Bambilandia

Non solo per bambini

Parlare di favole al giorno d’oggi sembra quasi anacronistico, un’epoca questa dove nulla è lasciato agli immensi spazi della fantasia, quella capacità di creare e immaginare che è indispensabile nello sviluppo dei bimbi.
Eppure questo genere letterario, fornito sempre di una morale e i cui protagonisti sono normalmente animali che sviluppano vicende metaforiche, riesce a resistere all’incalzante omologazione tesa a rendere gli uomini più simili alle macchine che a esseri viventi e pensanti.
Non stupisce quindi l’uscita di una nuova raccolta, scritta da Massimo Baldi che ha già al suo attivo la pubblicazione di una silloge poetica. Anzi, se devo essere sincero, queste favole, elaborate da un artista che trova soprattutto nei versi la sua forma espressiva più idonea, valgono a rafforzare il concetto della simbiosi fra narrativa per bambini e liriche, accomunate entrambe da diversi elementi, ma soprattutto appunto dalla metafora.
Questi testi, dal linguaggio semplice, ma non elementare, in realtà nascondono riflessioni che si adattano bene anche a un lettore adulto, troppo preso in genere dal pragmatismo di un’epoca nella quale, per rincorrere chimere, ci si dimentica facilmente di quel che si è e del senso della vita.
Baldi, con i suoi animali umanizzati, sembra ricordarcelo a ogni favola, arrivando al punto di esprimerne i concetti con una breve didascalia finale, in cui viene esplicitata quella morale altrimenti esposta metaforicamente.
Si va così dallo scambio di identità fra la formica e la farfalla, ovvero dal desiderio di essere un altro individuo, dimenticando che per ognuno di noi ci sono pro e contro, all’inevitabile conflitto fra l’ippopotamo e il coccodrillo, in cui la cattiveria genera altra cattiveria, un invito quindi al reciproco rispetto e a vivere in pace.
Quanti adulti hanno dimenticano queste logiche, quanti uomini maturi nascondono dietro una facciata di austero perbenismo un’immaturità che li porta a dimenticare che nella vita siamo in tanti, ognuno con le proprie caratteristiche e le proprie aspirazioni, legittime queste ultime, purché consapevoli che ogni ruolo ha i suoi vantaggi e i suoi difetti, e che in ogni caso deve sempre coesistere con le esigenze degli altri.
Se queste favole brevi, aggraziate, quasi inclini alla poesia saranno di piacevole lezione ai più piccini, anche chi le leggerà per loro finirà pertanto con il trovare più di un motivo per non considerarle solo delle favole per bambini.

Massimo Baldi è nato il 30 aprile del 1966 a Torre del Greco, in provincia di Napoli.
Attualmente risiede a Marino, ridente località dei Castelli Romani ed è felicemente sposato dal 1999: usa  affermare, senza ombra di dubbio, che la sua compagna di vita rappresenta la Musa ispiratrice, una persona indispensabile come aria e ricca di infinite virtù.
Laureato brillantemente in ingegneria elettrotecnica nel marzo del 1993, lavora come consulente aziendale nel settore dell’Information Technology, tuttavia non ha mai smesso di coltivare l’immensa passione per l’archeologia, in particolare per la civiltà dell’Antico Egitto e, soprattutto, per la poesia, che ama sin dall’adolescenza; sognatore, romantico, caparbio e genuino, adora il contatto con la natura e ama viaggiare, conoscere nuovi luoghi, nuove culture.
Ha pubblicato la sua prima silloge, in qualità di co-autore, all’interno della collana “Spazio a chi sa scrivere”- Spiragli 54 nel 2003 (Editrice Nuovi Autori); tra il 2006 e il 2008 alcune sue poesie sono state inserite nell’antologia L’Eco del vento e all’interno della rivista quadrimestrale “Poeti e Poesia” (Editrice Pagine).
Altre sue poesie sono presenti su Siti letterari on line e sul suo blog personale.
Ha pubblicato il suo primo libro di poesie “a solo”  Le quattro stagioni di un viaggiatore solitario nel febbraio 2009 con la Casa Editrice Creativa e sempre dello stesso editore è la raccolta di favole Le favole di Zoolandia (2011)
Renzo Montagnoli

 

21/02/2011

Le nuvole non hanno lacrime
di Gavino Puggioni

Edizioni Il Foglio
www.ilfoglioletterario.it

Poesia
Collana Plaquette  - I blu
 

Il disagio esistenziale

Già il titolo sembra esulare dalla visione poetica che hanno le nuvole. Nei versi di tantissimi autori, a parte le forme e i colori, ricorrono le lacrime delle nubi, che quasi sembrano sciogliersi vedendo dall'alto le miserie, materiali, ma soprattutto morali, degli uomini.
E invece troviamo poesie che denotano un sottofondo di amarezza esistenziale, come meno larvatamente in “Polvere di stelle”, una metafora piuttosto esplicita delle auto illusioni degli uomini, o come anche in “Fermare la luce”, quasi uno sfogo nella constatazione della freddezza dei sentimenti e della sostanziale solitudine che accompagna il cammino terreno.
A volte questo stato di disagio prorompe in un urlo metafisico che vorrebbe essere liberatorio e che invece è un ulteriore affondo nella piaga che all'interno accompagna il poeta (...Di paura/urlo/la mia innocenza/che mi trascina/che non mi vuole/) E così anche l'aspetto più reale della natura finisce con l'essere il riflesso di un'azione umana devastatrice ed impietosa, con quella terra che tutto accetta, anche di essere parte di una apocalisse provocata dai suoi abitanti.
Le voci, suoni che dovrebbero essere normali, diventano urla soffocate, in uno sgomento che tanto richiama l'opera pittorica di Munch.
In una visione disincantata e profondamente caustica la vita diventa un palcoscenico su cui nessuno è se stesso, ma tutti recitano un copione, suonano uno spartito disarticolato da quello degli altri, in una confusione e stridore di note che sancisce - ancora una metafora - l'innata incomunicabilità, fonte e frutto di una solitudine egoistica a cui lasciarsi andare pur di continuare a essere parti della rappresentazione.
Nemmeno il sogno è una fuga, perché si rivela sempre un incubo, un riflesso mentale della desolazione del giorno, né è possibile dimenticare, poiché la vita di questa umanità è la nostra vita, una miseria interiore di giorno, una tragica visone onirica di notte.
E non è che i “Pensieri”, silloge nella silloge, abbiano una fonte d'ispirazione diversa, perché, se pur affrontando il tema dell'esistenza in altro modo, resta forte e inscindibile quella consapevolezza di vuoto a cui si è tuttavia del tutto incapaci di porre rimedio.
Nella visione del mondo che ha Gavino Puggioni non c'è spazio per la speranza, non c'è un tentativo di trovare soluzioni, perché l'uomo, sembra dirci, non ha vita se non nella vita stessa, comunque essa sia, ed accettarla vuol anche dire viverla, in tono rancoroso, dimesso, gracidante, ma pur sempre vita è, insoddisfacente, incongruente, illogica..
E' un'amarezza anche al vetriolo, ma è comunque e sempre il segno che l'insoddisfazione, se è la misura della nostra sconfitta, è anche il sintomo che testimonia chi siamo.

Gavino Puggioni.
Alcune sue poesie sono state pubblicate già in alcune antologie del 1958-59 dirette da Ernesto De Leo, poeta e animatore della Editrice Musicale Letteraria Il Sole D'oro di Genova. Altre poesie, negli stessi anni, pubblicate da riviste e giornali di cultura poetica de L'Approdo del Sud di Napoli. E in quel periodo giovanile, dai 17 ai 21 anni, scrive 96 poesie dedicate al suo essere, alla sua terra, a chi vi lavora , nel bene e nel male. Scrive anche undici racconti “tristi” e nostalgici e tutto questo rimane custodito per otto lunghi lustri, prima su quaderni scolastici e poi da questi trasferiti su fogli di A4, aiutato dalla sua vecchia lettera ventidue. Dopo una lunga parentesi di lavoro, nel 2001, riprende a scrivere con lena e amore per il tempo passato pur vivendo il presente e guardando al futuro.
Nel 2003 pubblica FINAGLIOSU raccolta delle prime prove di scrittura, arricchita da due nuovi racconti dedicati, uno, alla memoria e l'altro alla storia. Nel 2004, sempre per i tipi della Magnum Edizioni, da alle stampe L'ARCOBALENO IN GIARDINO, poesia e piccola prosa che rivelano l'animo del poeta, tra ricordi, realtà e speranze di una vita vissuta ed intensa. Nel 2007, sempre per lo stesso Editore, pubblica NEL SILENZIO DEI RUMORI, biografia dei battiti del suo cuore, della sua anima, dell'uomo che ama, che esalta e difende l'amore per tutti, in particolare per i bambini, per i bambini del mondo, ai quali dedica delicatissime poesie. Collabora al quindicinale di politica e cultura IL SASSARESE e per quattro anni ha scritto e collaborato alla rivista di cultura LA FRISAIA.
Ha partecipato ad alcuni concorsi letterari nazionali ed internazionali di Poesia ottenendo lusinghieri risultati.
Renzo Montagnoli

 

19/02/2011

La strega e il capitano
di Leonardo Sciascia
con Nota finale dell’autore

Adelphi Edizioni
www.adelphi.it

Saggistica storica
Collana Fabula
 

Storia e letteratura

“… nel giro di tre settimane ne è venuto fuori questo racconto. Come un sommesso omaggio ad Alessandro Manzoni, nell’anno in cui clamorosamente si celebra il secondo centenario della sua nascita.”

La storia, o meglio le piccole storie che sono espressioni di un’epoca e di una società, hanno sempre appassionato Sciascia, al punto da alternare la sua attività di narratore a quella di saggista, e in entrambi casi con eccellenti risultati.
Gli spunti gli venivano da carteggi esaminati nel corso di ricerche, ma in questo caso, invece, l’origine dell’opera sta nel lavoro di un altro autore assai conosciuto, Alessandro Manzoni.
Infatti, nel capitolo 31° de “I promessi sposi” si possono leggere queste righe, a proposito del protofisico Lodovico Settala, professore di medicina e autore di opere di rilievo, meriti però che non impedirono al popolo milanese di vedere in lui un untore:
 “Un giorno che andava in bussola a visitare i suoi ammalati, principiò a radunarglisi intorno gente, gridando esser lui il capo di coloro che volevano per forza che ci fosse la peste…”. Manzoni altresì spiega che riuscì il Settala ad evitare il peggio e a riacquisire il prestigio e il rispetto allorché, con suo “deplorabile consulto, cooperò a far torturare, tanagliare e bruciare, come strega, una povera infelice sventurata, perché il suo padrone pativa dolori strani di stomaco”.
E di questa sventurata strega, di nome Caterina dei Medici, si interessa Leonardo Sciascia al punto di raccogliere in questo libro (La strega e il capitano) la triste vicenda che la vide protagonista suo malgrado, vittima ovviamente innocente, e che finì la sua esistenza strangolata e bruciata in piazza il 4 marzo 1617.
Come è consuetudine dell’autore siciliano il suo lavoro è volto a far chiarezza e a ricercare la verità, con una puntigliosa ricostruzione, nel più piccolo dettaglio, del processo per stregoneria evitando di omettere i nomi dei prestigiosi personaggi coinvolti, che invece Manzoni tralascia, per una sorta di omertà, come spiega Sciascia, conseguenza di una deferenza verso famiglie talmente altolocate da ritenere indispensabile non associarle a una così orrenda vicenda, benché a distanza di molti anni.
La povera Caterina, dalla vita assai infelice, fra l’altro era convinta di essere una strega, dal che si deduce che fra giudici e imputata si venisse a instaurare un legame di reciproco rispetto, ma forse la sua sorte sarebbe stata più benigna se i suoi accusatori non avessero avuto il notevole peso politico che invece era proprio dei familiari del senatore Luigi Melzi.
Come è possibile comprendere, quindi, i motivi per un interesse di Sciascia sono stati più d’uno e infatti lui ha  scritto un saggio storico che finisce con l’essere un libro contro l’intolleranza e la malapolitica, realizzando un lavoro di sicuro interesse su qualche cosa del passato, ma con gli occhi sempre rivolti al presente, un monito quindi, o meglio un avvertimento.
Da leggere, indubbiamente.

Leonardo Sciascia (Racalmuto, 8 gennaio 1921 – Palermo, 20 novembre 1989). E’ stato autore di saggi e romanzi, fra cui: Le parrocchie di Regalpietra (Laterza, 1956),  Il giorno della civetta (Einaudi, 1961), Il consiglio d’Egitto (Einaudi, 1963), A ciascuno il suo (Einaudi, 1966), Il contesto (Einaudi, 1971), Atti relativi alla morte di Raymond Roussel (Esse Editrice, 1971), Todo modo (Einaudi, 1974), La scomparsa di Majorana (Einaudi, 1975), I pugnalatori (Einaudi, 1976), Candido, ovvero Un sogno fatto in Sicilia (Einaudi, 1977), L’affaire Moro (Sellerio, 1978), Il teatro della memoria (Einaudi, 1981), La sentenza memorabile (Sellerio, 1982),  Il cavaliere e la morte (Adelphi, 1988), Una storia semplice (Adelphi, 1989).
Renzo Montagnoli

 

17/02/2011

L’incontro di due vite
Epistolario con Mario Verdone

di Maria Teresa Santalucia Scibona
Prefazione di Vinicio Serino

Sampognaro & Pupi Editori Associati
www.sampognaroepupi.it
Narrativa epistolario
 

Lettere culturali

Primo di parlare di questo libro, costituito da uno scambio epistolare, che si svolge in un periodo temporale che va dal 1991 al 2004,  ritengo opportuno, ma meglio ancora necessario, fare un po’ di luce sugli estensori di queste lettere.
Maria Teresa Santalucia Scibona, di cui è riportata in calce la biobibliografia, è una poetessa, dotata di non frequente sensibilità artistica e che della poesia ha fatto una ragione di un’esistenza dolente, non ovviamente fine a se stessa, ma come mezzo per esprimere e riflettere il suo “io”, così comunicando con gli altri.   
Mario Verdone, scomparso nel 2009, è stato un famoso critico cinematografico, ma anche saggista, scrittore e poeta, insomma uno dei non così rari esempi italici di  spiccata attitudine in diversi campi artistici.
Normalmente una raccolta di lettere scambiate fra due persone riveste più un significato storico che letterario e filosofico, ma questo non è il caso nostro, perché da un incontro occasionale è nata un’amicizia basata su un afflato, un comune modo di sentire che si sviluppa in riflessioni secondo un filo logico di reciproca crescita culturale.
Verdone, di cui mi era nota solo la fama, era un intellettuale a lettere maiuscole, uno di quegli uomini il cui desiderio di conoscenza mai si placa, consapevoli che, per quanto si impari, ci si accorgerà sempre che quel c’è da apprendere, anziché diminuire, aumenta.
E non si creda che questo epistolario consista solo in piccole prose, perché non è infrequente che i due si scambino delle poesie, ma in fin dei conti i versi riescono a esprimere, in autentici poeti, emozioni, sensazioni, ma anche concetti fondamentali che in altra forma potrebbero senz’altro risultare grevi, se non tediosi.
Dalla lettera del 18 novembre 1991 scritta da Maria Teresa Santalucia Scibona: L’agonia di un recluso giorno / è ritmata  dal goffo/ tambureggiare / della pioggia. / Nell’ariosa prigione / satura d’epici sogni, / una lettera desiderata / sigilla al tuo nome / condivise affinità….
Dalla lettera dell’1 gennaio 1992 stilata da Mario Verdone: …Restiamo attaccati alle cose / che possediamo / v’è / chi non ne comprende il perché, ora / anche il cassetto è tetro. / Il sorriso / non c’è più.
Certo c’è spazio per altre notizie, per convenevoli, per auguri, ma si avverte chiaro che queste lettere sono di fatto uno scambio culturale ed artistico, e sta proprio in questo la loro valenza, perché altrimenti potrebbero interessare solo ed esclusivamente ai mittenti-destinatari.
L’incontro di due vite è un volumetto di poche pagine, di facile e piacevole lettura, una piccola gemma che pulsa come un cuore nel grigiore di un mondo fatto di tante vite che assai raramente si incontrano per dare vita a un’amicizia costruttiva.

M. Teresa Santalucia Scibona, è nata e vive a Siena, già Presidente Provinciale della FENALC (Federazione Nazionale Liberi Circoli),è Presidente per Siena del MOPOEITA ( Movimento per la diffusione della Poesia in Italia).  La Biblioteca Universitaria senese della Facoltà di Lettere e Filosofia, ha istituito un Fondo Letterario a suo nome.(Seduta 27/4/2005).

    Il 15 Agosto 2000, dal Concistoro del Mangia, è stata insignita di medaglia d’oro di civica riconoscenza, per alti meriti culturali. Il 17 Ottobre  2009, è stata insignita del Premio “ Idilio Dell’Era, “alla Carriera dal Comitato Associativo “ Idilio Dell’Era”. E’ Socia effettiva del P.E.N. Club Italiano, del Sindacato Liberi Scrittori Italiani, della Fondazione Letteraria “ Luciano Bianciardi “di Grosseto, del Centro di Documentazione sulla Poesia contemporanea

 “ Lorenzo Montano” di Verona. Fa parte del Consiglio “Cateriniani nel Mondo” per la Letteratura, con diritto al voto. Per oltre un decennio ha curato le serate letterarie del “Salotto  della Cultura e del Vino” della Enoteca Italiana di Siena. Come giornalista ha seguito per 17 anni, le sorti del  “Premio Letterario Viareggio – Rèpaci”              

         Ha pubblicato i seguenti libri di Poesia:-

IL MIO TERRENO LIMITE” 1984  Ed. La Nuova Fortezza (Li),  a cura di Miriana Bogi

I GIORNI DEL DESIDERIO” 1988  Piovan Ed. Abano Terme, a cura di Gabriella Sobrino

IL TEMPO SOSPESO”     1993  Edizioni del Leone (Ve),  prefazione di Giorgio Luti.

MOSE’ ”   1996  Edizioni dell’Oleandro (Roma),  prefazione di Angelo Lippo.

VARIANTI D’AMORE” Suppl.to n. 35 (gennaio-marzo 1988) Rivista “Portofranco” (Ta)

IL VIAGGIO VERTICALE” 2001, I Quaderni della Valle N. 27 Edizioni di Emilio Coco.

LE TEMPS SUSPENDU ET LA VIE ASSISE” 2002  Prospettiva Editrice a cura di Giorgio  Luti, postfazione di Walter Nesti, traduzione di Ben Felix Pino.

L’AMORE  IMPERFETTO” 2003  Helicon Edizioni - Arezzo, a cura di Neuro Bonifazi

LA CONTESA DEI VINI”     2005   Pascal Editrice (Siena), a cura di Vinicio Serino.

IL SOGNO DEL CAVALLO “  2008   Pascal Editrice (Siena) a cura di Mario Comporti  e Fausto Tanzarella

NUTRIMENTI PER L’ANIMA” 2009 Joker Editore a cura di Sandro Montalto

VERSI E CROMIE” Solodieci Poesie  2009 Lieto Colle Editore

   Audio CD POESIE SCELTE (2005), disco recitato dall’attrice Paola Lambardi

   CD “MISCELLANEA POETICA”(2007) recitano, gli attori Walter Maesosi, Daniela     Barra, al piano M°.Giovanni Monti. Edizioni Le Carrozze Records di Vanni Vincenzo- Siena                            

         Il suo testo di Lauda “ Accanto a Te Signore”,  è stato musicato dal  M° Gian Paolo Luppi, tradotto in tedesco e pubblicato dalle  dalle Edizioni Musicali Peters di Francoforte.

      Alle sue opere si sono ispirati i pittori Giuseppe Amadio, Angelo Battista, Angela Carli, Ida Negrini, Paola Imposimato, Enzo Santini, Anna Sticco, gli scultori Michele Donadoni e Andrea Roggi.

           La recitazione del poemetto in versi “MOSE’ con gli attori Paola Lambardi, Guido Bocci, Erminio Jacona , è alla sua tredicesima replica           

         E’ inserita  in numerose Antologie di autori contemporanei come :- “ Greta Garbo e Sergio Vacchi nel Palazzo del Ridotto di Cesena” – Catalogo      del Novembre 2003 - Fondazione Vacchi - Castello di Grotti – Ville di Corsano- Siena                                                                                                                   

“ La Donna e gli Amori” a cura di Gabriella Sobrino e Antonietta Garzia  (giugno 2001) –  Introduzione di Paolo Crepet   - Loggia  de’ Lanzi Editori -Firenze

“ C come Cuore” saggio di Gabriele La Porta ( Ottobre2003) Pratiche Editrice Mondadori

 “P  come Passioni – Dizionario delle emozioni e dell’estasi” a cura di Gabriele La Porta (Ottobre 2005) Marco Tropea Editore – Mondadori  Printing S.p.A – Milano 

 EDIZIONI SCETTRO DEL RE - ROMA“ Appunti Critici” La poesia Italiana del tardo Novecento tra conformismi e nuove proposte “-  saggio a cura di  Giorgio Linguaglossa - (Dicembre 2002)- “ Poeti Italiani Verso il Nuovo Millennio”- saggio a cura di Dante Mafia ( Dicembre. 2000)

-  E’ inclusa nel Dizionario Autori e nella Letteratura Italiana del Secondo Novecento -Edizioni Bastogi (Foggia), Helicon (Ar), Guido Miano (Mi).

Sulla sua poetica Pina Frascino Panussis ha scritto :- “Saggi e interventi” (1995) -Edizioni. Pisangrafica - Pisa ; “ LE OCCASIONI DEL PENSIERO ” (1997) Masso delle Fate Edizioni - Signa, con interventi critici di Sandro Briosi, Guido. Cecchi, Gaetano Chiappini, Marcello Fabbri, Giorgio Luti, Carmelo Mezzasalma, Walter Nesti, Vinicio Serino, Gabriella Sobrino e testimonianze di Oreste Macrì, Giuliano. Manacorda, Giorgio Saviane, Ferruccio Ulivi,Vittorio Vettori ed altri noti scrittori.
Renzo Montagnoli

 

16/02/2011

La fattoria degli animali
di George Orwell

Edizioni Mondadori
Narrativa romanzo
 

Tutti sono uguali, ma alcuni più degli altri

Ci sono scrittori che hanno la rara qualità di elaborare alcuni segni del presente per vedere nel futuro in una continuità con il passato e fra questi rientra indubbiamente il britannico George Orwell, che con questo La fattoria degli animali ha di fatto narrato, sotto forma di allegoria, quello che è stato il totalitarismo sovietico in epoca staliniana, ma anche ciò che non potrà mai essere debellato: il desiderio di potere di ciascun uomo.
Del resto, l’autore, di tradizioni socialdemocratiche, partecipando alla guerra di Spagna nelle file di un movimento comunista di ispirazione trotskista ebbe modo di conoscere e di sperimentare la brutale logica di quelle formazioni militari di stampo esclusivamente stalinista.
Il romanzo è ambientato in una fattoria, in cui gli animali, stanchi del loro sfruttamento da parte dell’uomo, si ribellano, e diventano padroni di loro stessi, con l’ambizione di un mondo finalmente sereno e incruento, in cui tutti sono eguali. Quest’atmosfera idilliaca dura ben poco, poiché assai presto allo sfruttamento dell’uomo si sostituisce quello di una classa emergente, i maiali, che erano stati i primi propugnatori della rivolta.
Questi in breve assumeranno le stesse caratteristiche umane degli sfruttatori, e così gli ideali di uguaglianza e fraternità, sintetizzati in sette comandamenti, cadranno rapidamente e la costituzione della nuova società si baserà su un unico nuovo comandamento, costituito da poche, ma significative parole:  Tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri.
C’è da dire anche che se Orwell in tal modo intendeva rappresentare l’illogicità di un regime totalitario, di stampo comunista, allo stesso tempo enunciava una sorta di legge naturale in cui l’umanità appare senza rimedio divisa in padroni e sudditi. La conclusione  è amara, ben espressa dalla frase con cui il libro termina: …le creature di fuori guardavano dal maiale all'uomo, dall'uomo al maiale e ancora dal maiale all'uomo, ma già era loro impossibile distinguere fra i due.
La fattoria degli animali è un libro imperdibile.

George Orwell, pseudonimo di Eric Arthur Blair, nacque a Motihari (India) il 25 giugno 1903 e morì a Londra il 21 gennaio 1950. Giornalista e scrittore è giustamente ricordata per due suoi romanzi di notevole spessore: La fattoria degli animali e 1984.
Renzo Montagnoli

 

10/02/2011

Autobiografia in do minore
Racconto di scoordinata sopravvivenza
di Giuseppe Bonaviri
con una nota di
Anna Grazia D’Oria
e un inserto fotografico

Manni Editori
www.mannieditori.it
Narrativa autobiografia
Collana Pretesti

Ritorno a casa

“Evviva l’altopiano di Camuti che mi vide bambino. Cominciai a scrivere poesie all’età di nove anni, adeguandomi alle consuetudini della famiglia e del mio paese, Mineo, dove gli abitanti in maggioranza erano poeti vernacoli, in gran parte analfabeti, contadini poveri, raccoglitori d’ulive, venditori d’acqua, pietraroli, calzolai, barbieri, sarti, guardiani di buoi, o caprai, e camposantari e artigiani che, per il loro mestiere, erano portati a fare delle considerazioni sulla fugacità di ogni cosa.
Ma la verità è una: debbo fare tutto da me, non ho un gatto, o una formica che mi aiutano. E la mia solitudine, che amministro e cerco di superare da solo, mi spunta come ombra sempre davanti. Ma in questo c’è un grande mio gioco fra narcisistico e retorico e infantile.”

Che cosa può spingere un uomo a scrivere la propria autobiografia? I motivi possono essere diversi, ma soprattutto due, ciascuno dei quali non esclude l’altro: la necessità di ripensare alla propria vita, facendo emergere la memoria del passato, oppure lasciare una traccia della propria esistenza, affinché altri sappiano,  consentendo in tal modo di limitare gli effetti della propria morte con il ricordo di sé.
Ora credo che Bonaviri, giunto a una certa età in cui più inevitabilmente si pensa a quell’ultimo passo, abbia inteso soprattutto guardare all’indietro, lui che ormai viveva da tantissimi anni a Frosinone, lontano da Mineo, dal quel paese che nell’arco delle sue narrazioni ha assunto sempre più la simbologia di un paradiso lasciato e non perduto.
Che abbia scritto questo libro soprattutto per se stesso trova un’indiretta conferma nelle poche annotazioni relative agli anni più recenti, mentre lo svolgimento del tema è focalizzato in un tempo molto più lontano, quello della giovinezza, il cui ricordo resta vivo, anche se velato da una vena di malinconia, del tutto naturale in un anziano.
L’esercizio della memoria, attuato in una forma che sembra quella della narrazione orale, con ritorni, rimandi, anche alcune ripetizioni, si innesta nel presente solo con annotazioni per la fatica, legata all’età, al caldo, oppure per un pessimismo esistenziale (
“La vita è tutta un giro di nascite e morti; vale la pena viverla?”) proprio dell’età, di chi non potendo rivolgersi al futuro guarda al passato.
E’ anche il momento di confessioni, in particolare una, forse prima mai enunciata neppure a se stesso, e che offre mirabilmente la misura della condanna di uno scrittore, autentico, perché nello scrivere per sé scrive per gli altri e non viceversa,  visionario, ma pragmatico, perché la sua fantasia mostra quale è la vera realtà, naturalistico, poiché consapevole di essere solo un piccolo tassello del mosaico della vita:  “in questa opaca terra, scrivere per me, oltre che maledizione ereditaria, è stato solo salvezza dalla solitudine in cui ho vissuto e vivo”.
L’uomo è sempre solo, ma uno scrittore come lui ancora di più, ed è quella solitudine appena lenita dagli affetti familiari che spinge a cercare il bandolo di una matassa, quale è l’esistenza, anche se consapevoli che non si riuscirà mai a trovare.
Ho scritto prima che questo libro sembra più la registrazione di un racconto orale, come se il lettore si trovasse davanti allo scrittore che parla di quel che è stata la sua vita, e come capita in questi casi non seguendo un preciso filo logico, se non all’inizio, quando molto opportunamente ci dice del suo albero genealogico, o meglio dei suoi due alberi, quello dell’ulivo per parte materna e quello del mandorlo per l’ascendenza paterna.
I componenti delle famiglie, nella seconda metà del 1800 e all’incirca fino alla fine della seconda guerra mondiale, erano assai numerosi, e quindi è un fiume in piena di bisnonni, di zii e di cugini, a ognuno dei quali Bonaviri cerca di riservare, per quel che rammenta, una piccola storia o almeno un cenno.
In ogni caso il centro dell’attenzione è sempre Mineo, con l’altopiano di Camuti, e non mancano anche quelle invenzioni di prosa poetica che sono una delle caratteristiche più esaltanti dello scrittore (
I tuoni bofonchiavano, fuori” della porta di casa stangata, “e rimbalzavano, schiantandosi, di valle in valle”.), parole che si fanno immagini e di una forza tale da restare impresse nella mente anche da chi mai è stato in quel luogo.
Mineo, il paese dei poeti, un rifugio sicuro a cui pensare nei momenti più bui, durante i periodi di depressione ansiosa, frutto sì di una predisposizione, ma anche di un lungo periodo di duro lavoro all’ospedale; queste case arroccate diventano così un mito, un sorta di paradiso perduto, ma recuperabile, anche se ciò che appare invece irrecuperabile è il periodo spensierato di quella giovinezza  in cui si viveva il presente, si nutrivano speranze per il futuro, senza pensare al passato.
Non c’è tristezza, tuttavia, perché la vita è così e anzi Bonaviri innesta anche episodi curiosi e ilari, soprattutto relativamente al periodo trascorso a Catania quando studiava al Liceo e all’Università. C’erano la guerra e pochi soldi, mancavano le case e la ricerca di una pensione dove alloggiare era quasi una Via Crucis, ma si era ancora giovani, pieni di speranze e si aveva la forza e il coraggio di ridere sulle proprie miserie. Poi, mano a mano che l’età aumenta, che si entra in quel girone quasi infernale che  è la società costituita, in cui ognuno è chiamato a recitare il proprio ruolo, le cose cambiano e così anche Giuseppe Bonaviri diventa il dottor Bonaviri, che nel parlare dei parenti scomparsi ne scrive quasi le cause della morte, anzi sembrano veri e propri referti, con associazioni di alcuni decessi tese anche a dimostrare che certe malattie, come l’ipertensione, sono proprie di un codice genetico, che si trasmette da padre in figlio.
Il Bonaviri medico è quello che ha lasciato Mineo, il Bonaviri scrittore è quello che con il cuore è rimasto a Mineo.
Autobiografia in do minore è un canto all’età d’oro della giovinezza ed è semplicemente un capolavoro.

Giuseppe Bonaviri, nato nel 1924 a Mineo, in provincia di Catania, è scomparso nel 2009. Primo di cinque figli di un sarto, Bonaviri ha vissuto per anni a Frosinone dove ha esercitato la professione di medico. Fra le sue opere più note: Il sarto della strada lunga, Il fiume di pietra,  La divina foresta, Notti sull’altura, L’enorme tempo, Silvinia, L’infinito lunare,  Il dottor Bilob, L’incredibile storia di un cranio, Il vicolo blu, Autobiografia in do minore.
Renzo Montagnoli

 

07/02/2011

A futura memoria
(se la memoria ha un futuro)

di Leonardo Sciascia
Introduzione dell’autore

Bompiani Editore
Saggistica
 

Un giornalismo scomodo

Questo libro raccoglie quel che negli ultimi dieci anni io ho scritto su certi delitti, certa amministrazione della giustizia e sulla mafia. Spero venga letto con serenità.”
Leonardo Sciascia

Questo libro è costituito da una raccolta di articoli che sono stati pubblicati in un periodo che va dal 1979 al 1988 su diversi settimanali e quotidiani nazionali.
Letti acriticamente possono sembrare autonomi, non legati da un filo conduttore, ma se si presta la massima attenzione, soprattutto ove si consideri che Sciascia in tutta la sua attività letteraria si è sempre attenuto a un atteggiamento di aperto contrasto con l’ufficialità dei fatti, troppo incline a celare verità spesso in antitesi con l’evento, è possibile comprendere la rilevante importanza che hanno per conoscere la storia italiana, cosi travagliata, degli anni ’80.
Lo scrittore parte da fatti di cronaca, spesso eclatanti, per una riflessione sul ruolo dello Stato e su una certa incontrovertibile specularità della sua struttura e dei suoi sistemi con quelli del fenomeno mafioso, due entità contrapposte che vivono in osmosi.
Se in origine per primo aveva evidenziato che una certa delinquenza non era un fenomeno comune, a se stante, ma bensì era una struttura radicata nel territorio siciliano e pronta a espandersi a macchia d’olio ovunque, passando poi a rilevare connivenze con lo stato, negli ultimi anni di vita aveva saputo cogliere la confusione esistente fra l’ordine costituito e quello mafioso.
Sono articoli anche con affermazioni brucianti, come quello con cui afferma che il generale Dalla Chiesa fu ucciso perché non aveva capito la mafia nella sua trasformazione in multinazionale del crimine, il che aveva provocato nel figlio dello scomparso una querelle, sostenuta su giornali con toni aspri e piuttosto accesi, con Sciascia che ribadiva il suo concetto, pur nel rispetto del caduto, e con l’altro che ne faceva una questione personale, anzi familiare, ma senza riuscire a contestare in modo logico il pensiero dell’autore siciliano.
L’analisi stringente di Sciascia si rivela poi profetica nel caso del presentatore Enzo Tortora, accusato da un pentito e ingiustamente costretto in carcere. Nell’occasione fu uno dei pochi a prendere le sue difese con argomentazioni incontrovertibili e non per un semplice moto di simpatia e alla fine si è potuto vedere che aveva ragione.
Così come illuminanti sono i suoi giudizi sulla morte di Calvi, su personaggi mafiosi come Buscetta, Sindona e Michele Greco.
Non aveva peli sulla lingua e analizzava, sviscerava arrivando poi a conclusioni che provocavano risentimenti vari, dando luogo a polemiche, a scontri giornalistici.
Con questi articoli è probabile che si sia fatta, almeno all’epoca, una vasta rete di nemici, in una battaglia da Don Chisciotte contro non tanto dei mulini a vento, ma dei poteri immensamente grandi.
Forse qualche volta non ci ha azzeccato, ma quasi sempre è riuscito a vedere oltre l’apparenza, al di là dell’ufficialità, comportamenti che poi, sovente diversi anni dopo, sono venuti alla luce del sole.
A futura memoria  è quindi un libro sempre attuale ed è quindi ovvio che la sua lettura è più che raccomandabile.

Leonardo Sciascia (Racalmuto, 8 gennaio 1921 – Palermo, 20 novembre 1989). E’ stato autore di saggi e romanzi, fra cui: Le parrocchie di Regalpietra (Laterza, 1956),  Il giorno della civetta (Einaudi, 1961), Il consiglio d’Egitto (Einaudi, 1963), A ciascuno il suo (Einaudi, 1966), Il contesto (Einaudi, 1971), Atti relativi alla morte di Raymond Roussel (Esse Editrice, 1971), Todo modo (Einaudi, 1974), La scomparsa di Majorana (Einaudi, 1975), I pugnalatori (Einaudi, 1976), Candido, ovvero Un sogno fatto in Sicilia (Einaudi, 1977), L’affaire Moro (Sellerio, 1978), Il teatro della memoria (Einaudi, 1981), La sentenza memorabile (Sellerio, 1982),  Il cavaliere e la morte (Adelphi, 1988), Una storia semplice (Adelphi, 1989).
Renzo Montagnoli

 

03/02/2011

La moneta di Akragas di Andrea Camilleri

Ed. Skira

Romanzo storico-noir

Quarta di copertina

“Lei è un uomo di scienza, mi saprebbe dire se un uomo intelligente è intelligente sempre?”
Se uno è intelligente, lo è sempre. Ma si può dare il caso che un uomo intelligente si comporti da cretino. Avviene spesso, quando si è innamorati.”
Il delegato socchiude gli occhi, sorride, perduto dietro un personale ricordo lontano.
“Vero è”.

Il percorso di una moneta che attraverso il tempo coinvolge e determina la vita di più persone. É lo strano caso o il deus ex machina che manovra la vicenda manipolandola?
Come è aduso Camilleri, nella nota finale del libro, illustra al lettore l’origine dell’idea ispiratrice. La storia trae spunto o da un fatto di cronaca o da una leggenda famigliare. Un antenato della famiglia Camilleri, medico e numismatico, incontrò, un giorno un contadino che gli mostrò una moneta d’oro antica, per regalargliela. Il medico la riconobbe come la favolosa piccola Akragas. Nell’atto di prenderla, cadde da cavallo spezzandosi una gamba. Pare che poi il medico regalò la moneta al re Vittorio Emanuele III e in cambio ricevette l’onorificenza di Grande Ufficiale. Il resto è inventiva e fantasia dello scrittore. 
Quest’ultimo romanzo di Camilleri è storico, prende le mosse dal 406 A.C.: durante l’assedio di Akragas (l’antico nome greco di Agrigento)  e la sua distruzione ad opera  dei Cartaginesi. Un superstite akragantino Kalebas, giovane mercenario, dopo tre giorni dalla battaglia è  morso da una vipera. Il sacchetto con le monete d’oro, la paga di un lungo periodo di lavoro, fa in tempo a lanciarlo lontano prima di morire e precipitare nello sperone.
Nel 1908, con un salto temporale lungo secoli, a Messina, tra le macerie del terremoto, un’altra moneta risalente all’epoca cartaginese viene rinvenuta e destinata allo zar di Russia. Nel 1909 a Vigata, Cosimo, un contadino, trova casualmente una preziosissima e rara moneta d’oro, ma non fa in tempo a regalarla al medico condotto Stefano Giubilaro, grande esperto di numismatica e collezionista d’eccezione, per uno scarto della sorte. Tra Messina distrutta dal terremoto e Vigata, la storia si  sviluppa, si  tinge di rosso,  attinge al consueto sconcerto e concerto di personaggi metastorici che agiscono mossi dalla penna esperta di Camilleri. Questa opera gioca tutta sui dualismi, in primis sulla lingua-dialetto che si attaglia ai personaggi e ne rispecchia vizi e pregi: Camilleri usa gli stilemi linguistici come abiti confezionati per modellarli ai loro caratteri e alle loro peculiarità. Sulla Storia antica-moderna, su accenti ironici-tragici  che connotano le vicende narrate. La sorte chiamata in causa come l’artefice degli eventi  viene a cozzare con la logica e la razionalità scientifiche, il ruolo del destino è fautore della vita umana? La storia contemporanea non è altri che la proiezione  del passato e si ripete in senso vichiano? E la Storia passata metafora del presente? 
Quello che sorprende in Camilleri è la struttura narrativa, in superficie, semplice, corrispondente ad  uno schema logico collaudato, in cui la complessità del pensiero è governata da uno regolato piano semiologico; é questa la stimmate dell’artista che si ri-vela e non fa trasparire quanto la materia sia  stata resa duttile e consenziente?
Camilleri  gattopardeggia, interscambia ciclicamente i generi, dal noir, allo storico, al saggio, rimescolando gli ingredienti tipici della sua arte in una sorta di gioco delle carte che alla fine dà il risultato voluto. Ogni volta cambia tutto per non cambiare niente, ma forse in questo sta il fascino e la devozione dei suoi lettori: addentrarsi in una materia familiare, conosciuta, è come ritrovarsi con un amico a cui si è tanto affezionati.

Il romanzo al centro è corredato da dipinti raffiguranti Agrigento antica e fotografie di scene del terremoto di Messina.

Andrea Camilleri (1925), è autore di oltre 60 romanzi tra storici, civili e polizieschi, e di diverse raccolte di racconti, tradotti in più di 30 lingue. Vincitore di numerosi premi in Italia e all’estero, è noto al grande pubblico anche per i romanzi dedicati alle inchieste del commissario Montalbano, della casa editrice Sellerio, da cui è stata tratta la fortunata serie televisiva. Tra i tanti titoli ricordiamo: “La forma dell’acqua”, “Il cane di terracotta”, “Il ladro di merendine”, “La voce del violino”, “La stagione della caccia”, “Il birraio di Preston”, “La concessione del telefono”, “La gita a Tindari”, “Maruzza Musumeci”, “Il casellante”, “Il campo del vasaio”, “L’età del dubbio”, “Un sabato, con gli amici” “Il sonaglio”  “ La caccia al tesoro”…
Ha pubblicato per Skira La Vucciria, con un saggio di Fabio Carapezza Guttuso(2008), e in questa collana, Il cielo rubato. Dossier Renoir (2009).
Arcangela Cammalleri

 

01/02/2011

EleVateMenti

di Arturo Bernava

Presentazione di Vito Moretti
Copertina di Massimiliano Reggi

Edizioni Tabula Fati
www.edizionitabulafati.it

Narrativa raccolta di racconti
Collana Nuove Scritture
 

Sentimenti ed emozioni

Ele Vate Menti nasce come un racconto breve di poche pagine.

Dopo il terremoto aquilano del 6 aprile 2009 sono rimasto diversi mesi senza riuscire a scrivere, forse perché volevo riprendere l’attività letteraria proprio scrivendo del terremoto, senza però apparire retorico, né banale.
E così nacque questo racconto in cui i quattro elementi della filosofia greca (a cominciare dalla terra che aveva tremato) narravano gli eventi. Affidavo a loro un racconto che sentivo di dover scrivere, ma che forse non mi ritenevo in grado ( o in diritto…chissà) di creare.”

Il racconto di cui dice l’autore e che intitola l’intera raccolta si trova alla fine del libro e chiude nel migliore dei modi una silloge ricca di trame che, oltre che appassionare, restano dentro, con i loro personaggi normalissimi, ma dotati di straordinaria umanità, per nulla banali, anzi punti che si rincorrono logicamente in una storia che non ha tempo, perché i sentimenti, quelli veri e non patinati, si offrono al lettore sommessamente, quasi con una vena di pudore.
Che Arturo Bernava, scrittore fecondo, fosse dotato di uno stile inconfondibile e sapesse toccare quei tasti oggi troppo spesso dimenticati l’avevo capito leggendo il suo primo, e unico romanzo per ora, Il colore del caffè, narrativa spigliata, d’epoca, con caratterizzazioni convincenti che non possono lasciare indifferenti e infatti questo libro ha vinto numerosi premi letterari.
Forse buona parte dei racconti di questa raccolta sono stati scritti tempo fa, ma ciò non toglie che, pur rilevando un continuo affinamento dello stile, la capacità di svolgere il tema è rimasta inalterata, una dote innata, insomma, che consente di porgere a chi legge vicende accattivanti, che portano a un’autentica commozione, senza che siano pregne di retorica o finalizzate a stupire, a venire incontro a facili riflessi emotivi che, purtroppo, contraddistinguono un numero sempre maggiore di italiani.
No, Bernava scrive per comunicare, non per cercare il facile consenso, bensì in quel suo semplice candore si può ritrovare l’uomo che, nonostante tutto, ha sempre fede e speranza nell’umanità.
Del resto, le vicende narrate sono di quelle che, pur richiamando l’afflato con la sua regione (l’Abruzzo), con i suoi riti collettivi, con personaggi umili e degni del massimo rispetto, hanno un carattere di universalità, perché i sentimenti, quando sono autentici, sono uguali, oggi come ieri, in Abruzzo come in Lombardia.
I temi trattati sono comunque diversi senza che si incorra nel rischio della ripetitività, ma soprattutto sono svolti con una freschezza, con una trasparenza come quella di certi cieli in montagna in un giorno di sole.
Si legge e ci si diverte, si legge e ci si emoziona, si arriva alla fine, si chiude il libro e inevitabile sfugge un pensiero: “Peccato che non ce ne siano più, ma è giusto così, perché in tal modo mi resterà dentro un angolino giusto giusto per conservare la dolce Cleonice, il maresciallo Modiano e tanti altri, che mi terranno compagnia nei sogni della notte”.

Arturo Bernava, nato a Chieti nel 1970, è sposato dal 1997 con Barbara, dalla quale ha avuto due figlie, Chiara e Maria Elena. Inizia a scrivere giovanissimo, vincendo il suo primo concorso letterario ad appena dodici anni. Poi, però, causa molteplici interessi tra cui la musica e lo sport, abbandona temporaneamente questa passione per riprenderla in età adulta.
     Attualmente lavora a Roseto degli Abruzzi, dove dirige una filiale del Credito Cooperativo Adriatico Teramano.
     Tra i risultati letterari più importanti spiccano i primi posti ottenuti ai concorsi: Premio alla cultura città di Tortoreto 2009 (Tortoreto - TE), Kriterion 2009 (Avellino), Racconta la solidarietà 2009 (Salerno), San Benedetto nel cuore 2009 (San Benedetto - AP), Tutti Scrittori 2008 (Coarezza - VA), Città di Tocco da Casauria 2008 (Tocco da Casauria - PE), Una terra di leggende - Parco castelli Romani 2008 (Roma), Giammario Sgattoni 2008 (Garrufo - TE), Città di Tocco da Casauria - Premio Giovani 2008 (Tocco da Casauria - PE), Città di Pescocostanzo 2008 (Pescocostanzo - AQ), Giammario Sgattoni - Premio giuria Giovani 2008 (Garrufo - TE), Arci Equinozio 2007 (Milano), Hombres Città di Pereto 2007 (Pereto - AQ).
Il suo primo romanzo Il colore del caffè (Solfanelli, Chieti, 2009) è stato premiato in dodici premi letterari, tra cui il Premio Città di Eboli e il Premio Parco Maiella di Abbateggio (PE).
     È risultato inoltre tra i primi posti in oltre quaranta premi letterari.
Renzo Montagnoli

 

28/01/2011

Verso la poesia alla ricerca di senso

di Maria Carmen Lama

Aletti Editore
www.alettieditore.it

Saggio letterario
Collana Saggistica
 

Un saggio per neofiti e per esperti

Poesia, un vocabolo di sei lettere che affascina o spaventa, affascina perché la lettura di molte liriche ingenera un’emozione difficilmente dimenticabile, accompagnata spesso da una o più riflessioni che ci rendono consapevoli di aver acquisito qualche cosa di nuovo, di aver accresciuto il nostro livello culturale; spaventa perché molti temono la difficoltà di comprendere, credono che sia meglio leggere qualche cosa di frivolo e di facile, per non affaticare il cervello, e così ignorano gli ampi spazi che a loro può aprire la poesia. A questi ultimi dico che ciò che li tiene lontani dall’espressione poetica è il timore del nuovo, è la difficoltà di capire che cosa sia la poesia e che cosa rappresenti. Spesso ciò è frutto di una preparazione incompleta, di studi normali frettolosi, di insegnanti di lettere  che non hanno saputo o non hanno voluto impegnarsi per rendere fruibile una forma espressiva di rara efficacia e bellezza, talmente innata nell’uomo, da rappresentare il primo modo di trasmissione di storie, di stati d’animo, di riflessioni, ancor prima addirittura che venisse inventata la scrittura.
Se quanto ho scritto ha valenza per i lettori, ancor di più ne ha per gli scrittori, cioè per chi aspira a comporre poesie.
Tuttavia, con un po’ di buona volontà e ricorrendo a un aiuto esterno queste difficoltà non sono insormontabili, e sono convinto che chi leggerà questo Saggio di Maria Carmen Lama ne trarrà di sicuro giovamento, sia che si tratti di neofiti, sia di autori che già si dilettano a scrivere poesie.
L’autrice, dopo un lungo tempo di preparazione, è riuscita a predisporre un elaborato secondo uno schema logico e, quel che più conta, adeguatamente esauriente e chiaro, una facilità di accesso che consente anche a chi è digiuno della materia di farsi un’idea piuttosto completa, così da poter intraprendere meglio e più sicuramente il processo di avvicinamento alla poesia.
Suddiviso in due grandi parti, alla prima è riservato il compito di evidenziare il diverso modo di poetare, con un’analisi della famosa Ars poetica di Orazio (all’incirca 15 a.C.) e del Discorso sopra la poesia di Giuseppe Parini (1761), quest’ultimo una vera separazione netta dal precedente sul modo di come fare poesia; né potevano mancare definizioni della poesia, quanto mai variegate e differenti, a seconda delle epoche storico-letterarie e di chi le ha redatte. Così accanto a quella di Tommaso Ceva (la poesia è un sogno fatto alla presenza della ragione), assai d’effetto, figura quella del poeta Franco Fortini, meno onirica e più salda, che richiama anche un’imprescindibile esigenza di logica, cioè il testo deve essere tale da costituire un profondo studio esistenziale.
In questa parte figurano pure le opinioni al riguardo della Cvetaeva, di Carducci, di Pascoli, di Saba, di Montale e di Mario Luzi, e poiché la poesia è anche pensiero sono presenti pagine sulle correlazioni fra questa e la filosofia, l’etica e la mistica.
La seconda parte è riservata alle poesie di autori del XIX secolo e del XX secolo, nonché a quelle di contemporanei; risultano così interessanti analisi interpretative dei testi di alcuni poeti, fra i quali figurano Emily Dickinson, Mario Luzi, Eugenio Montale, Pablo Neruda e Antonia Pozzi.
Quanto ai contemporanei si tratta di nomi meno noti, ma che hanno destato interesse nell’autrice, per l’originalità dei loro testi e per lo stile peculiare di ognuno di loro.
Fra l’altro, il bello di questo libro è che le pagine scorrono veloci, salvo soffermarsi di tanto in tanto su qualche punto meritevole della massima attenzione e che quindi induce a riflessioni e confronti, un modo assolutamente piacevole per arricchire il proprio substrato culturale, foriero peraltro di nuove idee per chi scrive e di un accresciuto interesse per chi intende accostarsi a questa importante arte, prima sempre come lettore e poi, magari, anche come autore.
Direi che più di così non si può pretendere.

Maria Carmen Lama è nata in provincia di Messina il 20.11.’49. Vissuta a Capo d’Orlando fino all’età di vent’anni, nel 1970 si è trasferita per lavoro a Milano, dove si è laureata in Filosofia, e dal ’77 vive in provincia di Lecco. 

Ha svolto attività di insegnamento e poi di Dirigente scolastica in Istituti comprensivi e al Liceo Artistico lecchese.

Ha tenuto corsi di formazione per docenti e genitori e ha pubblicato articoli di carattere pedagogico e culturale su riviste professionali per docenti e dirigenti, con gli editori Maggioli, Fabbri, Edizioni Didattiche Gulliver.

Ha prevalenti interessi letterari e in ambito filosofico e psicologico. Scrive recensioni, che pubblica su diversi siti web, relative a testi di vario genere, a romanzi coinvolgenti a livello emotivo e a libri di poesie. Scrive anche poesie e ama approfondire la conoscenza delle produzioni poetiche dei grandi del passato. Ha iniziato da pochi anni a entrare nel mondo poetico attuale, anche attraverso la consultazione di siti web dove le scelte risultano essere traboccanti, ma non sempre adeguate all’idea di poesia come vera e propria arte destinata a pochi  ed eletti adepti. Con l’Editore Aletti ha pubblicato nel 2010 la silloge Prigioniere del silenzio.

e-mail: carmen@giandgi.eu
Renzo Montagnoli

 

26/01/2011

Le scarpe di Heidegger
L’oggettività dell’arte
e l’artista come soggetto debole
di Carlo Bordoni

Presentazione di Pierre V. Zima
Terza edizione

Edizioni Solfanelli
www.edizionisolfanelli.it

Saggistica
Collana Micromegas
 

Le scarpe di Van Gogh

Ritengo opportuna una premessa: in questo interessante saggio di Bordoni non si parla delle calzature del filosofo tedesco, perché in fondo a nessuno può interessare di che tipo e misura fossero, bensì si disserta sulla diatriba intervenuta, a seguito della pubblicazione del libro L’origine dell’opera d’arte dello stesso Heidegger,  con lo storico dell’arte ed esperto nella pittura di Van Gogh Meyer Shapiro e con il filosofo francese Jacques Derrida.
Le scarpe in questione, in verità, sono quelle che compaiono in numerosi quadri del grande pittore olandese e che attrassero l’attenzione del filosofo tedesco.
In buona sostanza, nel suo saggio L’origine dell’opera d’arte, pubblicato nel 1950 ed elaborazione di una conferenza tenuta a Friburgo nel 1935, si dice che nell’origine di qualsiasi prodotto artistico consiste la sua essenza, vale a dire che l’essenza è ciò da cui e per cui una cosa è quel che è ed è come effettivamente è. Da questa constatazione deriva che è l’artista l’origine dell’opera, anche se contemporaneamente l’opera è origine dell’artista, in quanto, realizzandola, egli diventa un’artista. 
Questa deduzione impone però un’altra deduzione e che cioè la comune origine dell’artista e dell’opera d’arte sia l’arte, il che fa sorgere il problema di definire l’arte, cioè di determinare la sua essenza. Poiché un concetto deduttivo imporrebbe che il concetto di arte esisterebbe prima e in modo indipendente dell’opera d’arte stessa, mentre quello induttivo riveniente dall’analisi diretta di alcune opere d’arte significherebbe ammettere di essere già in possesso di quel concetto di arte che si tende a definire, si rende necessario procedere all’analisi di una precisa opera, onde constatare o meno se in essa sia presente l’elemento artistico.
Ed è qui che entrano in gioco le scarpe dipinte da Van Gogh, scarpe da contadina, e il pittore olandese ha il pregio di averci fatto conoscere che cosa veramente esse siano, cioè un semplice mezzo usato per meglio camminare.
Tale posizione è contrastata da Shapiro che è dell’opinione che quelle siano le calzature usate da Van Gogh, precisando che se anche fossero state scarpe da contadina egli le avrebbe dipinte con l’intento di eseguire un parziale autoritratto, dal che ne discende un concetto di soggettività dell’arte opposto all’oggettività di Heidegger e cioè con l’opera si concretizza la piena soggettività dell’artista e quindi il soggetto del quadro, le scarpe per intenderci, sono l’espressione della individuale personalità dell’artista.
Nella diatriba intervenne poi Derrida, pure lui in netta contrapposizione a Heidegger  e quindi, pur se in altro modo, sostenendo la piena soggettività dell’artista.
Le scarpe di Heidegger non è certo un saggio facile, perché non è difficile perdersi nei meandri del pensiero di Heidegger, mentre quelli di Shapiro e di Derida sono assai più accessibili, anche perché concreti, ma va dato merito a Carlo Bordoni di essere riuscito a riepilogare una contesa che infiammò gli animi dei filosofi e degli artisti, secondo un preciso filo logico che riesce a mantenere dall’inizio alla fine, una sorta di corda di sicurezza a cui il lettore può tenersi agganciato nel procedere in una lettura appassionante, sia pur così complessa.

Carlo Bordoni è docente di “Editing e scrittura editoriale” all’Università di Pisa. Si occupa di sociologia dei processi culturali e ha insegnato nelle Università di Firenze, Milano e Napoli.
     Per Solfanelli ha pubblicato La paura il mistero l’orrore dal romanzo gotico a Stephen King (1989), La fabula bella. Una lettura sociologica dei Promessi Sposi (1991), l’antologia di racconti Cuori di tenebra (1993), La dismisura immaginata (2009) e Le scarpe di Heidegger (2010). Tra le altre sue pubblicazioni: La pratica editoriale. Testo contesto paratesto (Felici, Pisa 2010), Dal sublime ai nuovi media (Felici, Pisa 2010), L’identità perduta. Moltitudini, consumismo e crisi del lavoro (Liguori, Napoli 2010); Libera multitudo (Franco Angeli, Milano 2008); Introduzione alla sociologia dell’arte (Liguori, Napoli 2008), Società digitali (Liguori, Napoli 2007), Il testo complesso (Clueb, Bologna 2005).
     Nella narrativa ha esordito col romanzo L’ultima frontiera (Ponzoni, Milano 1965) e, negli ultimi anni, si è riproposto con Il nome del padre (Baroni, Retignano 2001), Istanbul Bound (Tabula fati, Chieti 2006) e Il cuoco di Mussolini (Bietti, Brescia 2008).
     Collabora a “Prometeo” e dirige la rivista “IF”, trimestrale dell’Insolito e del Fantastico.
Renzo Montagnoli

 

24/01/2011

Il cavaliere e la morte
di Leonardo Sciascia

Edizioni Adelphi
www.adelphi.it

Narrativa racconto lungo
Collana Gli Adelphi

La morte si sconta vivendo

Stanca la Morte, stanco il suo cavallo: altro che il cavallo del Trionfo della morte e di Guernica. E la Morte, nonostante i minacciosi orpelli delle serpi e della clessidra, era espressiva più di mendicità che di trionfo. <<La morte si sconta vivendo>>. Mendicante, la si mendica.”

Scritto da Leonardo Sciascia, quando già era ammalato di un male che poi lo portò alla morte, è un racconto crepuscolare, in cui svela le sue naturali paure e i suoi istinti emotivi.
E’ un ritorno alla narrativa poliziesca, ma sempre inserita in un contesto di un potere corrosivo, un mostro dai mille tentacoli che qualunque cosa tocchi diventa essa stessa un simbolo del male.
Il protagonista, in cui in fondo si riflette Sciascia stesso, è un vice commissario di polizia che indaga sull’omicidio dell’avvocato Sandoz. E’ un uomo solo, malato, che sa che la morte si avvicina e che svolge la sua attività in modo apparentemente dimesso, in contrasto aperto con il suo diretto superiore, che dalla vita si aspetta molto come gratifiche e che non osa toccare un potente, l’industriale Aurispa, prendendo anzi subito per buono un indizio del tutto inconsistente, ma che pone il principale sospetto al riparo dalla giustizia.
Il vice commissario non ha prove, ma è sicuro che il colpevole sia proprio l’intoccabile, grazie ai colloqui avuti con due donne e con un amico, ex agente dei servizi segreti. Scopre anche così che quel delitto non è stato fortuito, ma che il suo autore è anche coinvolto in altri ancora insoluti.
E’ la tradizionale lotta fra il bene e il male, fra la giustizia e l’ingiustizia, fra un uomo che osa anche perche perché sa che la sua vita sarà in ogni caso breve e che forse è meglio lasciare il mondo sotto i colpi di una pistola, piuttosto che languire a lungo e soffrendo in un letto d’ospedale.
In una nazione in cui il potere corrosivo si espande come una metastasi, omologando chiunque, il vice commissario, quasi un nuovo Gesù, si oppone, per quanto possibile e benché sia consapevole che la sua battaglia è persa in partenza; tutto e tutti gli sono contro, anche quella morte di cui avverte il fiato sul collo, ma lui prosegue imperterrito, facendo leva sulla sua intelligenza e su una sottile ironia che gli impedisce di essere compassionevole con se stesso.
Ha sempre sotto gli occhi una riproduzione di un’opera di Durer, Il cavaliere, la morte e il diavolo, una metafora della sua situazione, una certezza che nei tempi è sempre stata una lotta fra il bene e il male, fra quel cavaliere che è lui e quel diavolo che è Aurispa. Fra loro c’è solo la morte, che alla fine, come per tutti, pareggerà i conti.
La narrazione è coinvolgente, anzi in questo scritto lo è ancora di più, proprio perché fra autore e personaggio si riscontra più che mai una grande identità, entrambi straziati da un tumore, amanti delle sigarette, del caffè forte, del fascino e della personalità delle donne.
Sciascia non poteva lasciarci con un addio migliore di questo.      

Leonardo Sciascia (Racalmuto, 8 gennaio 1921 – Palermo, 20 novembre 1989). E’ stato autore di saggi e romanzi, fra cui: Le parrocchie di Regalpetra (Laterza, 1956),  Il giorno della civetta (Einaudi, 1961), Il consiglio d’Egitto (Einaudi, 1963), A ciascuno il suo (Einaudi, 1966), Il contesto (Einaudi, 1971), Atti relativi alla morte di Raymond Roussel (Esse Editrice, 1971), Todo modo (Einaudi, 1974), La scomparsa di Majorana (Einaudi, 1975), I pugnalatori (Einaudi, 1976), Candido, ovvero Un sogno fatto in Sicilia (Einaudi, 1977), L’affaire Moro (Sellerio, 1978), Il teatro della memoria (Einaudi, 1981), La sentenza memorabile (Sellerio, 1982),  Il cavaliere e la morte (Adelphi, 1988), Una storia semplice (Adelphi, 1989).
Renzo Montagnoli

 

23/01/2011

Il senso storico del flâneur
di Gaspare Armato

Autorinediti
www.autorinediti.it

Storia

Il pedone attento

“La folla è il suo regno, come l’aria è il regno degli uccelli, e l’acqua è quello dei pesci. La sua passione e professione è sposare la folla. Per il perfetto flâneur , per l’osservatore appassionato, è causa d’immenso godimento prendere dimora nel numero, in ciò che fluttua e si muove, è fuggitivo o infinito. Essere fuori casa e sentirsi dappertutto a casa propria; vedere il mondo, esserne al centro e rimanergli nascosto: ecco alcuni dei più comuni piaceri di questi spiriti indipendenti, appassionati, imparziali, che la lingua fatica a definire”. (Charles Baudelaire, Il pittore della vita moderna, Marsilio, Venezia 2002, pagg. 68 e 69) 

 Bighellonare oziosamente, senza una meta, immersi nella folla, anonimi osservatori di un mondo brulicante o di vie deserte, pronti a cogliere elementi di ispirazione per la propria creatività o particolari di un luogo tramite i quali giungere a collegare passato e presente, non è un passatempo da scansafatiche, bensì è il lavoro del flâneur, questo pedone attento, insensibile al turbinio della vita moderna, astratto dalla realtà, se pur presente.
E’ di lui che ci parla Gaspare Armato in questo suo insolito saggio ed è con lui che ci accompagna nello svolgimento di questa attività propedeutica.
Non è un personaggio raro, anzi piuttosto frequente e quasi sempre presente fra gli artisti e gli storici, tanto che l’autore riporta i nomi e i percorsi di questi più noti
flâneur, fra i quali Baudelaire, che espresse il concetto in un suo lavoro (Il pittore della vita moderna), lo scrittore Edgar Allan Poe, il poeta Walt Whitman, il filosofo Walter Benjamin, il romanziere Joseph Conrad, i poeti Robert Walser e Guillaume Apollinaire, il narratore Italo Calvino, e non poteva mancare lo storico Marc Bloch. Fra l’altro flâneur fu anche il famoso pittore Claude Monet, insomma l’impressione che si ritrae è che gli artisti e gli storici, in maggior o minor misura, abbiano posto e pongano alla base della loro attività questo passeggiare senza una meta, alla ricerca di nulla di preciso se non di quello che, in forza della loro cultura, attira la loro attenzione. Del resto, ho notato che quando vado in giro senza una precisa necessità di recarmi in un posto, libero da obblighi di tempo, curioso di ogni cosa, poi, ritornato a casa, quasi subito mi nascono idee per scrivere poesie o racconti.
La mia testimonianza è poca cosa, ma quella dei personaggi che ho prima citato avvalora senz’altro il metodo del
flâneur.
Tuttavia, sarebbe riduttivo dire che il saggio di Armato enuncia semplicemente l’utilità di questo ozio vigile, comprovandola con il fatto che scrittori famosi l’hanno praticato, perché in effetti ci fornisce anche un’ampia dimostrazione diretta di come il
flâneur si muove, vede, collega, percepisce, fiuta, con un’ultima parte del saggio in cui insieme a lui percorriamo le vie della sua città, Pistoia, cogliendo aspetti che legano passato e presente, con una immediatezza che colpisce il lettore come se procedesse al suo fianco. Queste sono pagine veramente affascinanti, perché, oltre a stupire per le bellezze, anche minori, di una città antica insegnano a essere il pedone ozioso, ma attento.
Ho voluto provare a mettere in pratica l’insegnamento visitando un vecchio quartiere di Mantova, dietro il Duomo, con viuzze lastricate di ciottoli e che procedono a zig zag, come in un tipico impianto medievale; mi sono sorpreso a osservare vecchi capitelli, spesso usurati dal tempo, oppure battenti in ferro di antichi portoni, ho immaginato mani sconosciute che bussavano in una buia sera, le ante che si aprivano su un piccolo cortile con al centro un pozzo, luci tremolanti di lucerne, ho udito voci, risa di donne, il suono di un liuto, sono andato indietro di cinque - sei secoli, in un posto di cui la grande storia non racconterà mai, in un luogo così vicino al fasto dei Gonzaga, eppure anonimo, un’esperienza unica, sebbene breve.
Sono un
flâneur ? Forse sì, ma leggere il libro di Armato è di aiuto, perché permette di affinare il metodo; per metterlo in pratica non occorre molto: una capacità innata di saper osservare e il desiderio di isolarsi, anche se per poco, dal caos frenetico del nostro tempo.
Fra l’altro, la lettura è assai piacevole e si arriva alla fine quasi senza accorgersi, noi, poltroni o corridori, quasi mai, purtroppo, pedoni oziosi, ma attenti. 

Gaspare Armato vive e risiede a Pistoia.

Ha pubblicato:

  • Epistemi, poesie, Albatros Editrice, 1983
  • 41 mesi di guerra, saggio, Mazzotta editore, 1983
  • Ex novo epistemi, poesie, Lalli editore, 1983
  • Piante mediterranee per giardini, saggio, Edagricole, 1986
  • Giardini al mare, saggio, Edagricole, 1990
  • Charlette, itinerario di un amore, poesie, Mazzotta editore, 1990, 1ª edizione
  • Charlette, itinerario di un amore, poesie, Lulu.com, 2007, 2ª edizione
  • Piante esotiche per climi miti , saggio, Zanfi editore, 1991
  • Passeggiando per la storia, dal 1200 al 1800, saggio, Lulu.com, 2007
  • Appunti della storia, saggio, Autorinediti, 2008
  • La storia nell'arte, saggio, Il Papyrus miniedizioni, 2009
  • Dal codice al libro stampato, saggio, Lulu, 2009
  • Il senso storico del flâneur, saggio, Autorinediti, 2011


Alcuni dei premi letterari vinti:

  • Premio Martin Luther King per la poesia, 1983
  • Premio Giuseppe Ungaretti per la poesia, 1983
  • Premio Cesare Pavese per la poesia, 1983
  • Premio Rebecca-Francavilla M. per la saggistica, 1984
  • Premio Jacopone da Todi per la poesia, 1984
  • Premio International Award-Malta per la poesia, 1984
  • Premio Città di Alanno per la saggistica, 1984
  • Premio Città di Pomezia per la poesia, 1985
  • Premio Histonium per la poesia, 1990
    babilonia61@babilonia61.com
    www.babilonia61.com

Renzo Montagnoli

 

19/01/2011

Le gazze ladre
di Ken Follett

Traduzione di Annamaria Raffo
Edizioni Mondadori
Narrativa romanzo
Collana Oscar bestsellers

Il coraggio al femminile

E' indubbio che il romanzo che ha fatto conoscere al grande pubblico Ken Follett sia stato La cruna dell'ago, storia di spionaggio e d'amore ambientata nel corso della seconda guerra mondiale. Con Le gazze ladre l'autore gallese ritorna a quel periodo e a quel conflitto, imbastendo una storia che vuole anche essere un omaggio alle cinquanta donne agenti segreti che operarono dietro le linee tedesche per compiere sabotaggi (di queste ne tornarono solo trentasei).
L'ambientazione accurata, il ritmo incalzante, i personaggi ben delineati, caratteristiche proprie di Ken Follett e che si possono trovare in tutti i suoi romanzi, sono gli elementi di una trama tutto sommato non nuova, anche se alla base c'è un fatto realmente accaduto, ma che tuttavia riesce ad avvincere il lettore, proprio per la straordinaria abilità dello scrittore.
Per quanto ovvio, l'azione bellica è predominante, fra un primo sfortunato tentativo di sabotaggio ed un altro che invece finalmente va a buon fine, ma se la vicenda, già di per sé, si presenta interessante, non bisogna dimenticare l'abile caratterizzazione dei personaggi, soprattutto delle protagoniste, e in ciò si nota una certa verve romantica prima quasi sconosciuta.
Si potrebbe forse dire che Follett ha voluto riscoprire la femminilità in donne indurite dalla guerra, dal rischio, dalla paura, un tocco di dolcezza che, anziché stonare, rende più umane le protagoniste, e quindi più simpatiche al lettore.
Che la mano dell'autore sia felice nello scrivere è cosa nota e si conferma anche in questo romanzo che, seppure a mio avviso inferiore allo stupendo La cruna dell'ago, pur tuttavia lascia qualche cosa dentro, un senso di rispetto e di ammirazione per fragili creature che molto hanno dato, quasi in silenzio.

Ken Follett è nato a Cardiff il 5 giugno 1949.
Eccellente narratore ha pubblicato numerosi romanzi di successo, fra i quali Lo scandalo Modigliani, Alta finanza, Capricorn One, La cruna dell'ago, Il Codice Rebecca, L'uomo di Pietroburgo, Un luogo chiamato libertà, I pilastri della terra, Codice a zero, Le gazze ladre, Il volo del calabrone, Mondo senza fine.
Renzo Montagnoli
 

16/01/2011

L’infinito lunare
di Giuseppe Bonaviri
A cura e introduzione di Sarah Zappulla Muscarà

Bompiani Editore
www.bompiani.eu
Narrativa racconti

Oltre il palcoscenico

Basterebbe come commento la superlativa introduzione di Sarah Zappulla Muscarà, perché in fondo di questa raccolta di racconti si può scrivere tanto, ma bene come in quelle paginette penso sia francamente assai improbabile. Tuttavia, per la stima che ho di Giuseppe Bonaviri e perché la lettura delle sue opere lentamente matura in me domande a cui cerco di dare risposte, ritengo doveroso esprimere una mia opinione, un mio giudizio, un’interpretazione, magari non nuova, oppure addirittura azzardata.
Mi vado chiedendo da tempo perché l’autore siciliano abbia scelto il genere fantastico per esprimere la sua visione del mondo e opera dopo opera sono arrivato alla convinzione che abbia ritenuto di rappresentare in questo modo una realtà sfuggente, un nesso logico che regola l’esistenza e che quasi sempre non riusciamo a cogliere, presi da comportamenti e da atteggiamenti che ci vengono imposti e ci imponiamo come attori, anzi quasi sempre comparse, di una rappresentazione che erroneamente crediamo fermamente corrisponda a un’oggettività del nostro ciclo vitale. Non ci accorgiamo, invece, che la nostra è una finzione e anche se lo intuiamo preferiamo proseguire per la strada intrapresa, in una commedia di cui ci illudiamo di essere, oltre che interpreti, anche registi.
Bonaviri capovolge così il concetto di fantastico, scoprendo quel che accade dietro le quinte, quella realtà che ignoriamo e temiamo.
Nei dieci racconti che costituiscono L’infinito lunare, Martedina è il più lungo, quasi un lavoro a sé, e non è difficile riconoscere nel dottor Zephir lo stesso Bonaviri che, anzi, nelle prime pagine fa apparire anche parte della sua famiglia, un legame affettivo che entra in contrasto con la naturale insoddisfazione di fondo dell’uomo, sempre teso a gettarsi in avanti, senza volgersi indietro. Il viaggio dell’astronave verso i confini dell’universo, con descrizioni fantastiche e quasi cinematografiche, è un’odissea nello spazio, è un brancolare di poveri esseri che cercano una ragione della loro esistenza, sebbene inutilmente, per  un crudele destino, un supplizio di Tantalo che è cruccio e turbamento di ogni uomo.
Se la Terra è un po’ stretta, altrettanto si può dire per quell’incapacità di non riuscire a comprendere il perché ci siamo e, soprattutto, il perché dobbiamo finire. Così anche il fantasticare diventa il frutto del nostro inconscio, di quel tarlo sottile che ossessivamente pone una domanda alla quale non riusciamo, né possiamo dare risposta.
E sempre la fantascienza domina in Giovanni Verga sulla luna, scelta quanto mai felice, attesa l’evidente discrasia fra la fantasia del racconto e il dolente verismo dell’autore di I Malavoglia. Peraltro, in una narrazione che ricomprende personaggi quanto mai disomogenei, come il comico Ollio e Mastro Don Gesualdo, in una visione onirica del nostro satellite c’è tutta la disillusione di Bonaviri per la razza umana, per tutti quei poteri che l’appestano e che la dominano, accomunando industriali a politici e mafiosi, in una società del futuro, che già esiste però, in cui non si trova di meglio per risolvere il problema della penuria di lavoro di eliminare i disoccupati, oppure di allevare bimbi affinché possano costituire magazzino di organi di ricambio per chi presiede ai nostri destini e rifiuta non solo la morte, ma anche l’invecchiamento. Eccessivo, azzardato? Non direi proprio, con i tempi che corrono, con la disumanizzazione della globalizzazione e con l’artificiosità di una quasi eterna giovinezza di personaggi che non hanno altre doti se non il potere.
E gli altri otto racconti? Non ne parlo, ma non perché non ne valga la pena, bensì perché questi due di cui ho scritto sono serviti più degli altri a elaborare l’opinione di cui prima ho più diffusamente dissertato. E’ campata in aria? E’ più che probabile che lo sia, anche se penso che Bonaviri, se avesse avuto la possibilità di venirne a conoscenza, non si sarebbe indispettito e forse, con quel senso di autoironia che permea tutte le sue opere, avrebbe finito per trovare in una di esse un posticino anche per me, che so magari un sasso, o un corvo spennacchiato che sul viale del tramonto cerca invano di comprendere come mai il sole si nasconda la notte, o perché l’uomo cerchi sempre di precedere la sua ombra.
Appollaiato sulla spalla dell’anziano medico io corvo mi illudo 
di vedere come lui oltre il sipario, dietro le quinte, con un volo di fantasia che scopre la realtà.
S’ode lontano il suono delle campane di Mineo, il sole si sotterra nell’altopiano di Camuti, qui tutto sembra nascere e poi rinascere, in un paesaggio in cui lo stormire delle foglie al vento è diverso da albero a albero, in cui anche le pietre parlano, un posto in cui chi ha orecchie per sentire, occhi per vedere e cuore per percepire può anche conoscere il vero senso della vita, come Giuseppe Bonaviri, appunto.   

Giuseppe Bonaviri, nato nel 1924 a Mineo, in provincia di Catania, è scomparso nel 2009. Primo di cinque figli di un sarto, Bonaviri ha vissuto per anni a Frosinone dove ha esercitato la professione di medico. Fra le sue opere più note: Il sarto della strada lunga, Il fiume di pietra,  La divina foresta, Notti sull’altura, L’enorme tempo, Silvinia, L’infinito lunare,  Il dottor Bilob, L’incredibile storia di un cranio, Il vicolo blu.
Renzo Montagnoli

 

12/01/2011

Cronachette
di Leonardo Sciascia

Adelphi Edizioni
www.adelphi.it

Narrativa racconti
Collana Piccola Biblioteca Adelphi
 

Il piacere della scoperta

“I piccoli fatti del passato, quelli che i cronisti riferiscono con imprecisione o reticenza e che gli storici trascurano, a volte aprono nel mio tempo, nelle mie giornate, qualcosa di simile alla vacanza. Diventano cioè riposo e divertimento, come la lettura di un libro di avventure o poliziesco, come (ma non per me, ché rare volte ho tentato senza riuscire) lo scioglimento di un rebus o di un cruciverba.
L’imprecisione o la reticenza con cui il fatto viene riferito è, naturalmente, la condizione indispensabile perché il divertimento scatti.  Che è poi il gusto della ricerca, del far combaciare i dati o del metterli in contraddizione, del fare ipotesi, del raggiungere una verità o dell’istituire un mistero là dove o la mancanza della verità non era mistero o la presenza di essa non era misteriosa. Un giuoco ci spesso si accompagna, e lo eccita, un senso di puntiglio; ma qualche volta interviene anche una sorta di pietà.”

E’ indubbio che la grande capacità di analisi di Leonardo Sciascia, quella continua ricerca dei come, dei dove, dei chi, dei se, ne faccia lo scrittore detective per eccellenza, ma non sono sempre i delitti irrisolti che stimolano la sua attenzione, anzi più spesso sono quelle mezze verità o addirittura delle pretese e non dimostrabili verità che lo attraggono irresistibilmente, costituendo il presupposto per un sottile gioco di disvelamento a cui gli è impossibile sottrarsi. Come il bimbo che cresce ossessiona i genitori con i suoi “perché”, l’autore siciliano è angustiato e divertito al tempo stesso dalle tante domande che gli balenano, che altri avrebbero dovuto porsi e che, per i motivi più svariati, non sono rientrate nella logica operativa.
Sciascia non si smentisce al riguardo in ogni suo libro, con domande incalzanti, con contrapposizioni e con ipotesi sufficientemente plausibili, tanto che a forza di leggere le sue opere si viene presi da questa smania di non accettare mai a priori lo svolgimento dei fatti secondo la versione ufficiale, un dubbio sì corrosivo, ma che consente di aggiungere talvolta un tassello di verità a responsi lacunosi, se non fasulli.
Queste Cronachette (nove per la precisione in 104 pagine) ne sono un chiaro esempio, con personaggi che non sono stati i protagonisti della Grande Storia, di quella che si studia e si accetta spesso supinamente. Eppure essi stessi, benché quasi ignoti, non poco hanno contribuito con la loro presenza, con i fatti e i misfatti compiuti a delineare quel grande ciclo dell’umana esistenza che ogni giorno trascorso fa parte della storia, di ciò che è stato e che, in un certo qual modo, contribuisce al concretizzarsi di quel che sarà.
E così assurge al rito della memoria don Alonso Giron per un orrendo omicidio nella Palermo del VII secolo, frutto di due moventi, spesso mai presenti insieme, ma che qui coabitano a disegnare un quadro di truce criminalità: la passione e l’interesse. Il tutto senza perdere di vista il bon ton di un certo ceto che, fatta giustizia, non nega al reo un funerale e nemmeno anonimo, bensì pregno di esteriorità, quale si addice a un nobile. Chi mai sapeva, oggi, poi di Don Mariano Crescimanno, un benedettino che  nella prima metà del XVIII secolo a Modica fu il promotore di una puzzolente carnale eresia e proprio per questo fu costretto fra le mura di segrete in cui urlava, inascoltato, giorno e notte? Poi ci sono anche personaggi femminili, come Mata Hari, che si esibisce in un teatro popolare di Palermo o la sventurata Rosetta, cantante di modeste pretese, peripatetica e vittima di un’omertosa polizia, che si aggira nell’ombra della Milano della scapigliatura. Non mancano certe chicche come il Manzoni e il linciaggio del Prina, e la testimonianza di padre Giuseppe Buttà sull’operato di Garibaldi, i cui meriti vengono largamente ridimensionati. Della passione per Stendhal è poi testimonianza la vicenda del principe Pietro Bonaparte, amico di Victor Hugo e che sembrerebbe aver ispirato a Beyle il personaggio di Fabrizio del Dongo nella celeberrima Certosa di Parma.
Figure indubbiamente lontane nel tempo che, più che emergere dalla nebbia, si stagliano in essa come improvvise ed effimere schiarite, una memoria che li illumina per poi ritornare, esaurita la curiosità, nella densa caligine dell’oblio.
Ma per uno non è così, per quell’uomo con il viso nascosto da un passamontagna, delatore dopo il colpo di stato di Pinochet e responsabile della scomparsa di tanti suoi ex compagni del partito socialista di Allende. Personaggio complesso, è il Giuda del XX secolo, con tanto di rimorso e una vita spezzata, moralmente e fisicamente.E fra i titoli a forte richiamo di giornali scandalistici non poteva mancare quello che parla dell’inesistenza di Borges, che sarebbe stato un’invenzione, provocando però così l’effetto opposto, cioè rivestendo di mito uno scrittore che già era un mito.
Cronachette è forse una produzione minore, in cui pare più evidente che in altre opere il divertimento di Sciascia nello scoprire, pazientemente, come un archeologo, verità sepolte, nel dialogare con se stesso alla ricerca di una verità che possa essere più plausibile.
Da leggere, per condividere con l’autore siciliano il piacere di dare luce a ciò che è sempre stato in ombra.

Leonardo Sciascia (Racalmuto, 8 gennaio 1921 – Palermo, 20 novembre 1989). E’ stato autore di saggi e romanzi, fra cui: Le parrocchie di Regalpietra (Laterza, 1956),  Il giorno della civetta (Einaudi, 1961), Il consiglio d’Egitto (Einaudi, 1963), A ciascuno il suo (Einaudi, 1966), Il contesto (Einaudi, 1971), Atti relativi alla morte di Raymond Roussel (Esse Editrice, 1971), Todo modo (Einaudi, 1974), La scomparsa di Majorana (Einaudi, 1975), I pugnalatori (Einaudi, 1976), Candido, ovvero Un sogno fatto in Sicilia (Einaudi, 1977), L’affaire Moro (Sellerio, 1978), Il teatro della memoria (Einaudi, 1981), La sentenza memorabile (Sellerio, 1982),  Il cavaliere e la morte (Adelphi, 1988), Una storia semplice (Adelphi, 1989).
Renzo Montagnoli

 

10/01/2011

Fëdor Dostoevskij
La mite

Ed. I Classici Universale Economica Feltrinelli
Racconto

Scrive Ernst Bloch che l'esperienza dell'attualità non è uguale per tutti. Pare che sia stata l'attualità a dettare a Dostoevskij la storia narrata nella Mite. Grossman, nel ricostruire la genesi del racconto, ricorda che lo scrittore lo aveva progettato nel 1869 e ripreso 7 anni dopo nel Diario di uno scrittore, quando rimase colpito da una serie di suicidi verificatisi in quell'epoca, ma uno in particolare lo scosse. Una giovane sarta trasferitasi da Mosca a Pietroburgo, da sola, vivendo forse un dramma personale, si butta dall'abbaino di una casa di sei piani stringendo sul petto un'immagine della Madonna. Dostoevskij annota che questa creatura mite tormenterà il suo spirito. Da qui prende l'abbrivio della storia; la ragazza giace da poche ore sul suo letto di morte e il marito un usuraio, ex ufficiale, narra la sua "versione" dei fatti. In una sorta di monologo delirante e quasi annotando i pensieri che invadono la sua mente,  il marito, a ritroso, ripercorre l'incontro e il tempo vissuto con la moglie rivolgendosi ad ipotetici ascoltatori come ad una rappresentazione drammatica. All'inizio  una biondina esile e di media statura veniva ad impegnare degli oggetti, poi, in una situazione particolare, egli la nota e così conosce la sua misera vita; orfana di entrambi i genitori, sotto la tirannia di due zie e sotto la minaccia di un matrimonio con un mercante molto più vecchio di lei, sedicenne, la sposa lui, comperandola dietro un somma di denaro che offre alle sordide parenti. Il matrimonio, dopo un iniziale entusiasmo della giovane donna, si frantuma davanti ai silenzi di lui, al suo passato oscuro, aver forzatamente abbandonato l'esercito per una calunnia. La malattia della moglie prima, la  rinata passione per lei e dopo il  suicidio, aprono una serie di interrogativi in cui è difficile dipanare la verità. Perché la scelta di una morte così tragica?  Incapacità di amare? Di sottrarsi ad un uomo ormai per lei estraneo? In questi rimandi di domande senza risposte, in un farneticare di colpe ammesse e poi ritratte, in un delirio misto di dolore e rimpianto, l'io narrante rimane impotente e disperatamente solo alla morte della giovane: “Quando ormai la porteranno via, io che cosa farò”? Dinanzi alla morte, in special modo, “scelta” si presenta il mistero di chi ci abbandona e il dolore di chi rimane (sia pure temporaneamente). Dostoevskij, nella nota dell'autore afferma di offrire ai lettori un racconto “fantastico”, sebbene lo consideri reale.  Chiarisce che lo scritto non è un racconto né un memoriale in quanto il protagonista non racconta, ma si racconta la vicenda, parla da solo, si contraddice sia sul piano della logica sia dei sentimenti. Ora si discolpa, ora accusa la moglie ora si perde in spiegazioni avulse dai fatti. Pensieri incoerenti si susseguono alla ricerca di una verità difficile da disvelare in maniera chiara e definita. Lo sviluppo del fatto si protrae per alcune ore e in maniera sconnessa rivolgendosi a se stesso e anche ad un immaginario  ascoltatore, una specie di giudice. Come se proprio  accadesse nella realtà e tutto venisse annotato e trascritto da uno stenografo certo in modo più conciso e scarno, soprattutto sul piano psicologico. È questo che caratterizza il fantastico dell'opera, l'inverosimiglianza di chi mentre vive una situazione di dolore prenda quasi appunti mentre soffre e si dispera. Dei critici hanno definito questo stile “stenografico” riferire minutamente, nei dettagli, cercare di dare coerenza al flusso di pensieri che incoerenti sono. Il tema è quello del dramma di un uomo a cui  il tempo per la verità è ormai sfuggito: “ Ho ritardato non più di cinque minuti” e la tragicità del gesto estremo della moglie dilania la sua mente e gli pone un interrogativo non più  solvibile. Questo breve racconto, complesso nelle sue trame psicologiche, ha molteplici contrapposizioni bifronti: luogo reale/mentale, tempo cronologico/flusso della memoria, riflessione/azione, psiche femminile/maschile…. Il grande scrittore penetra negli animi umani e ne rappresenta le sconcertanti ambivalenze nell’angosciante ricerca d’identità  dell’io che stigmatizza la nostra feroce pena dell’esistere.        
La concessione della fantasia eleva la storia dalla sua  realtà contingente e ne contraddistingue la sua grandezza artistica.

L'autore. Fëdor Dostoevskij nasce a Mosca  nel 1821, dopo gli studi di ingegneria, scopre il mondo delle Lettere. Nel 1845 esordisce con Povera gente, scrive Romanzo in nove lettere, Il sosia, Cuore debole, le notti bianche...
Dopo essersi dedicato a un'attività editoriale con esiti negativi, pubblica Umiliati e offesi e altri scritti. Nel 1866 pubblica Delitto e castigo a puntate sul "Messaggero russo"  e termina Il giocatore. Nel 1867 pubblica L'idiota, I demoni. Dopo aver concluso la stesura de I fratelli Karamazov, muore nel 1881 per un attacco epilettico.
Arcangela Cammalleri 

 


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